progetto intercultura 2016

Transcript

progetto intercultura 2016
Una storia sbagliata
“Essere europeo non vuol dire rinunciare alla propria identità e originalità, al contrario: significa consolidarla e
arricchirla. Aprire una frontiera è un atto di fiducia e di rispetto; un gesto di pacificazione, un segno di amicizia.”
Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun ha varcato da anni quella frontiera. Ha ricevuto e ricambiato un atto di
fiducia e di rispetto proprio da quel paese, la Francia, oggi colpita al cuore dalla follia del terrorismo. E queste parole,
scritte ancora prima della “primavera araba”, assumono un significato particolare in questo momento.
Si parla di identità e allo stesso tempo di fiducia verso l’altro.
E oggi è maledettamente difficile. Perché questa è una storia sbagliata. Sbagliata, ancora una volta, è la
prospettiva che si vuole dare. Sbagliato è il modo di intenderla. Anzi, volutamente sbagliato. Ma noi, davvero,
cosa sappiamo di questa storia “sbagliata”? È la volontà di capire che ci accompagnerà in questo viaggio.
Osservare senza pregiudizio, senza rancore, senza odio e senza buonismo. Ascoltare solo con buon senso.
E con la ferma volontà di comprendere il significato, vero, di questa storia.
Come compagni di viaggio avremo chi ogni giorno la vive, questa storia “sbagliata”. E la preziosa collaborazione di
queste associazioni e cooperative ci permetterà di seguire, nella realtà concreta,il filo emotivo e visivo che i sei film
ci trasmetteranno.
E anche questa volta partiamo da casa nostra e ci rientriamo alla fine della rassegna. In un modo particolare,
però. Perché questo viaggio di ritorno, lungo i sentieri accidentati del Mare Nostrum, sarà in compagnia di chi, su
quelle imbarcazioni di speranza e disperazione, ci è salito per capire e raccontare. Le fotografie di Giulio Piscitelli
ci accompagneranno durante tutte le serate fino all’incontro conclusivo in cui potremo parlare insieme di cosa
davvero si nasconde dietro le ipocrisie delle barriere e il cinismo di ogni fondamentalismo. Perché, per dirla con
Fabrizio De Andrè, è “una storia da non raccontare, è una storia complicata, è una storia sbagliata”.
Michele Angrisani
PROGETTO
INTERCULTURA
2016
BIBLIOTECA
PUBBLICA
BIBLIOTECA
PUBBLICA
Una storia sbagliata
RASSEGNA CINEMATOGRAFICA
a cura di MICHELE ANGRISANI
Auditorium dell’Assunta
Via Palù, 2 RUBANO (PD)
ore 21.00 INGRESSO LIBERO
Per informazioni:
www.rubano.it
Biblioteca pubblica
tel. 049 633766
Punto Si
via Rossi 11, Rubano (PD)
tel 0498739219
S
Punto
Immagine tratta da “Pitza e datteri”
PROGETTO
INTERCULTURA
2016
Una storia
sbagliata
RASSEGNA CINEMATOGRAFICA
a cura di MICHELE ANGRISANI
VENERDÌ
12 / 02 / 2015
VENERDÌ
19 / 02 / 2015
VENERDÌ
26 / 02 / 2015
VENERDÌ
04 / 03 / 2015
VENERDÌ
11 / 03 / 2015
VENERDÌ
18 / 03 / 2015
PITZA E DATTERI
TAXI TEHERAN
TIMBUKTU'
GIRAFFADA
UNA STORIA SBAGLIATA
IO STO CON LA SPOSA
di Fariborz Kamkari
Una piccola comunità islamica con sede a Venezia deve fronteggiare
una crisi imprevista: il suo luogo di culto è stato evacuato dalle forze
dell’ordine e ha lasciato posto ad un hair stylist unisex, gestito da una
mussulmana turco-francese progressista che tiene “collettivi femministi”. In aiuto alla piccola comunità arriva un giovanissimo imam di origini
afghane cresciuto in Italia: sarà lui a guidare il nucleo composto, fra gli
altri, da un veneziano abbandonato dal padre e inseguito dalle autorità e
da un curdo “che non può tornare ma solo e sempre andare”.
Dopo I fiori di Kirkuk, il regista e sceneggiatore iraniano di origine curda
Fariborz Kamkari si cimenta con una favola multietnica ambientata in una
Venezia lontana dagli stereotipi turistici, usando luci e colori per illuminare interni fatiscenti e fast food etnici, il negozio della parrucchiera come
le calli della Serenissima. La colonna sonora, firmata dall’Orchestra di
Piazza Vittorio, fa da ulteriore collante e la lingua italiana è un esperanto
fra stranieri nel Bel Paese (compreso l’unico italiano).
Resteremmo comunque nell’ambito della commedia multietnica vagamente buonista se la parabola del veneziano Vendramin, convertito
all’Islam e rinominato Mustafa, non rendesse le cose più interessanti e
meno politically correct. Il suo smarrimento identitario, dovuto più alla
“protesta contro il sistema capitalistico corrotto”, le banche e le agenzie
di riscossione che alla convinzione religiosa, è quello di un Paese che ha
perso i propri punti di riferimento insieme alle proprie radici, ed esige
“rispetto per tutti, senza umiliazioni”. Il che, avverte Kamkari, rischia di
condurre ad un epilogo “violento”.
di Jafar Panahi
Un taxi attraversa le strade di Teheran in un giorno qualsiasi. Passeggeri
di diversa estrazione sociale salgono e scendono dalla vettura. Alla guida
non c’è un conducente qualsiasi ma Jafar Panahi stesso impegnato a
girare un altro film ‘proibito’.
Panahi è stato condannato dalla ‘giustizia’ iraniana a 20 anni di proibizione di girare film, scrivere sceneggiature e rilasciare interviste, pena la
detenzione per sei anni. Ma non c’è sentenza che possa impedire ad un
artista di essere se stesso ed ecco allora che il regista ha deciso di continuare a sfidare il divieto e ancora una volta ci propone un’opera destinata
a rimanere quale testimonianza di un cinema che si fa militante proprio
perché non fa proclami ma mostra la quotidianità del vivere in un Paese
in cui le contraddizioni si fanno sempre più stridenti.
I passeggeri che salgono sul taxi esprimono posizioni differenti nei confronti della società in cui vivono. Si va da chi vorrebbe applicare pene capitali ‘esemplari’ a chi invece difende giovani donne ‘colpevoli’ di essersi
fatte trovare non dentro ma solo nei pressi di uno stadio (il cui accesso
è consentito unicamente agli uomini). Ma ci sono anche anziane signore
con pesci rossi al seguito o bambine intellettualmente vivaci.
Jafar Panahi è uno di loro e con quella leggerezza che nasce solo da una
lettura profonda della società ci racconta la realtà che lo circonda facendo uso della finzione (i passeggeri sono attori che a loro volta rischiano
nel partecipare al film che infatti è privo di credits). Ma raramente la
finzione è stata così ‘vera’ al cinema.
di Abderrahmane Sissako
A poca distanza da Timbuktu, dove domina la polizia islamica impegnata
in una jihad in cui divieto si aggiunge a divieto, una famiglia vive tranquilla
sulle dune del deserto. Sotto un’ampia tenda Kidane, Satima e la loro
figlia Toya possono solo cogliere dei segnali di quanto accade in città. Il
giorno in cui il loro pastore dodicenne si lascia sfuggire la mucca preferita
che distrugge le reti di un pescatore nel fiume che scorre tra la sabbia,
tutto però muta tragicamente. L’animale viene ucciso e Kidane non accetta il sopruso. La fonte di ispirazione di questo intenso quanto rigoroso
film di uno dei Maestri del cinema africano è rintracciabile in un fatto di
cronaca accaduto in una cittadina del nord del Mali. Una coppia è stata
lapidata perché portatrice di una colpa inaccettabile agli occhi accecati
degli integralisti islamici: i due non erano sposati. Sissako però non vuole
essere il narratore di un fatto di cronaca accaduto in un Paese che non
fa notizia e non origina mobilitazioni internazionali. Vuole raggiungere,
riuscendoci, un obiettivo molto più elevato. Non è un film anti-islamico
il suo (il discorso che l’imam locale fa al neofita jihadista ne costituisce la prova più evidente). È piuttosto un grido di allarme lanciato a un
Occidente spesso distratto (salvo quando si presentino episodi mediaticamente rilevanti come il sequestro di giovani studentesse) e talaltra
incline a pensare che in fondo l’integralismo sia una rivolta contro i secoli
di colonialismo e che nasca dall’interno delle varie realtà nazionali. Nulla
di tutto ciò risponde a verità ci dice il regista: siamo di fronte a un’oppressione che arriva da fuori e prende a pretesto una supposta fede per
sottomettere intere popolazioni.
Con la partecipazione di:
COOPERATIVA CITTÀ SOLARE www.cittasolare.org
COOPERATIVA ALTRESTRADE www.altrestrade.it
ASSOCIAZIONE MALIANA E AMICI NEL VENETO
[email protected] - Belco Toure: 347 6458110
A.M.A.V.E.
Associazione Maliana
e Amici nel Veneto
di Rani Massalha
di Gianluca Maria Tavarelli
Yacine è il veterinario di uno zoo di Qalqilya, cittadina palestinese a ridosso
della West Bank. Vive da solo con il figlio Ziad, un ragazzino che adora gli
animali, soprattutto le due giraffe dello zoo, Rita e Brownie. Quando Brownie
cade vittima di un bombardamento Rita smette di nutrirsi, e Yacine e Ziad
devono inventarsi un modo di procurarle un nuovo compagno. Ma entrare
e uscire dalla zona controllata dai soldati israeliani è assai difficile, figuriamoci insieme a una giraffa. E l’aiuto di una giornalista francese, Laura,
verso cui Yacine prova evidente attrazione, potrebbe non bastare. Giraffada, liberamente ispirato ad eventi realmente accaduti nel 2002 a Qalqilya,
racconta una situazione di cattività, quella degli animali dello zoo, come
specchio della situazione in cui vivono i palestinesi dei territori occupati. Il
muro che li separa dai coloni israeliani è coperto di scritte che sono grida
di aiuto (in inglese e francese: dunque dirette alla comunità internazionale)
e di murales che raffigurano le violenze continue nella zona. I coprifuochi, i
controlli, i bombardamenti rendono la quotidianità quasi invivibile e fortemente surreale. E quale animale può rivelarsi simbolo migliore di questa
assurdità di una giraffa, con il suo collo sproporzionato e il suo incedere
goffo? Facendo riferimento anche a un episodio storico ripreso dal cinema
recente con Zarafa, Giraffada utilizza l’animale “nato da un cammello e da
un leopardo” come testimone del desiderio del popolo palestinese di sollevare lo sguardo oltre i muri e le ottusità degli uomini. Nella sua costruzione
semplice Giraffada ricrea efficacemente il clima di oppressione nei territori
occupati e racconta con tenerezza il “potere magico” di un ragazzino che
non si rassegna allo stato delle cose ma continua a sperare (e pregare, al
contrario del padre che “non va più alla moschea”) in un miracolo. Giraffada
è un film sul diritto di vivere senza essere considerati “un accidente della
natura” e senza rassegnarsi all’idea di “non contare niente per il mondo”,
costretti ad uno stato perpetuo di emergenza.
Con la partecipazione di:
AMALTEA Associazione per il sostegno della famiglia, dei migranti e dei giovani in difficoltà
www.associazioneamaltea.org - [email protected]
Amaltea
Stefania e Roberto vivono una storia d’amore coniugale serena fino a
quando le continue ripartenze di lui per missioni militari all’estero non
iniziano ad incrinarla. Ora Stefania, infermiera pediatrica, decide di recarsi in Iraq con una missione umanitaria. Lo scopo dell’equipe medica
è quello di intervenire su bambini affetti dal labbro leporino sollevandoli
così dallo stato di pesante emarginazione in cui le loro comunità li hanno
relegati. Quello di Stefania è però soprattutto un altro: trovare chi ha
aiutato un kamikaze che ha portato morte e distruzione e, possibilmente,
arrivare ai suoi familiari.
“Cos’altro vi serve da queste vite/ora che il cielo al centro le ha colpite/
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite”. Questi sono alcuni versi della canzone di Fabrizio De André che dà il titolo al film e che possono inquadrare
la vicenda. La solitudine è uno dei temi forti del film e quelle auto che si
muovono nello spazio desertico diventano segni del bisogno di trovare una
ragione per ritrovare almeno se stessi.
Non è un film che fa concessioni alla retorica quello di Tavarelli: gli scontri tra Stefania e la sua guida e interprete irachena non solo mettono in
luce la difficoltà di capirsi tra culture ma non fanno sconti né all’una né
all’altro degli interlocutori in una ricerca motivata da una molteplicità
di pulsioni al cui centro si trova (qui risiede l’ulteriore elemento di originalità) una donna. Non però una donna soldato ma, in modo molto più
originale, semplicemente una moglie a cui Isabella Ragonese offre anche
un corpo che muta, con un profilo che diviene sempre più affilato. Come
una vita scolpita ai bordi.
Con la partecipazione di:
AMICI DEI POPOLI www.amicideipopoli.org
di Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro, Khaled Soliman Al Nassiry
Per andare in scena si comincia sempre dal costume, l’abito creato apposta per gli
attori e indossato durante la rappresentazione. Ma quello che il documentario di
Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman al Nassi racconta è la
realtà di uomini e donne che hanno interpretato un ruolo e infilato un costume per
beffare il destino e garantire un futuro a chi amano. Documentario nomade finanziato ‘dal basso’, Io sto con la sposa mette letteralmente in schermo un matrimonio
e il suo corteo di invitati mai così partecipi. Perché i cinque protagonisti di questa
avventura sono in fuga dalla guerra e dal loro Paese fiaccato dalla belligeranza.
Palestinesi e siriani sopravvissuti ai marosi, sbarcati a Lampedusa e decisi a raggiungere ‘creativamente’ la Svezia. Ad aiutarli un regista, un giornalista e un poeta
sirano-palestinese convinti che nella vita prima o poi bisogna scegliere da che parte
stare. Schierati da quella del sogno, disattendono le leggi del Vecchio Continente
e arrivano in meta. Non la casa base ma una nuova casa, che alleggerisca a chi ha
chiesto loro soccorso, le ragioni per cui hanno rischiato la vita, spaiato i loro affetti
e abbandonato tutto quello che avevano costruito. Nel viaggio verso la Svezia, terra
promessa e unica ‘eccezione’ europea che dal settembre 2013 concede il diritto di
residenza a tutti i siriani che domandano asilo, i protagonisti si raccontano, rivelandoci chi è veramente un rifugiato e ricordandoci correttamente che nessuno sceglie
di esserlo. Il dilemma, la condizione in cui una decisione si impone tra due o più
alternative ugualmente indesiderabili, rappresenta in sintesi lo stato del profugo.
Dittature, crolli di dittature, guerra, soprusi impongono a uomini e donne risposte
immediate al problema, che molto spesso non si risolve poi nel compimento della scelta. Sono decisioni i cui effetti dolenti permangono anche dopo l’espatrio,
condizionando la vita futura in diaspora. A incarnare l’Odissea in costume nuziale,
che muove da Milano alla volta di Stoccolma, passando per Marsiglia, Bochum e
Copenaghen, due sposi e un solido e solidale contorno di comprimari, che hanno il
volto di chi è ‘affondato’, di chi è riemerso, di chi come Manar ‘rappa’ la propria vita
e i suoi pochi anni per dirsi al mondo e per dire al mondo che non si sente più straniero e che quello che desidera si trova finalmente in questo posto, a questo punto.
Con la partecipazione di: GIULIO PISCITELLI, fotografo
Nato a Napoli nel 1981. Dopo la laurea in Sociologia, si appassiona alla fotografia nel 2008, iniziando
a collaborare con agenzie di news italiane e straniere. Dal 2010 Giulio lavora come freelance, producendo reportage legati all’attualità.
http://giuliopiscitelli.viewbook.com