Versione pdf - Circolo Culturale La Torre
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Versione pdf - Circolo Culturale La Torre
Archivio - VESTIARIO 2005 Maurizio Blondet Guardavo l'altro giorno degli studenti che si affollavano in attesa davanti a un liceo privato, frequentato dai figli della borghesia benestante. Colpiva sgradevolmente il loro vestiario, che non starò a descrivere troppo. I maschi, in jeans larghissimi e lunghissimi, che cadevano bruttamente a fisarmonica sulle scarpe da ginnastica; due o tre felpe l'una sopra l'altra, alcune col cappuccio; zainetti con scritte a inchiostro e oggetti vari penzolanti. Le ragazze, con la pancia fuori come al solito, le mutande bianche in vista, un po' puttaneggianti. Il tutto denunciava ad alta voce un certo tipo di conformismo, perché evidentemente quell'abbigliamento corrispondeva a un codice, a uno «stile» di gruppo; ma soprattutto, era la voluta dozzinalità del vestiario, il suo aspetto deliberatamente poco pulito e stracco a colpire. Questo «stile» è un segno patologico. Denunciava in quei giovani l'assenza di ogni ambizione superiore, di ogni volontà di eccellenza. Il modo di vestire non è mai neutro, e indica in qualche modo l'interiorità. L'abito è sempre, lo si voglia o no, una uniforme. Ora, salireste su un aereo di linea dove il pilota fosse in jeans sdruciti e t-shirt? Quei giovani davanti alla scuola privata, lo sappiano o no, vestono secondo il «codice» dettato in USA dagli spacciatori negri di droga, di crak, o dei rapper: lo stile di un sottoproletariato contiguo alla criminalità. E' questo, bisogna ammetterlo, il modo in cui quei giovani italiani si «presentano alla società»: non semplicemente come futuri disoccupati, ma come non-occupabili, privi di ogni tensione verso il meglio, di disciplina interiore, di «tenuta» morale. Perché il vestire è un «presentarsi alla società»: un dirgli chi aspiriamo ad essere, in quale classe vogliamo situarci. Solo ieri, in tempi che sembrano tramontati per sempre, un certo orgoglio accompagnava il vestire la tuta blu operaia; ora che gli operai non sono più tra noi, i nostri adolescenti mirano ad entrare, fin dall'inizio della vita, nel sottoproletariato della società dello spettacolo; e si avvolgono nel ciarpame da mercato delle pulci dei centri sociali cosiddetti «alternativi»: esponenti di un consumismo facile, standard a suo modo, e da pochi soldi. Il vestire non è dettato, se non superficialmente, dalla moda commerciale delle sfilate e del Made in Italy. Segue movimenti assai più profondo, storici, del comune sentire. L'abbigliamento infatti, come l'architettura e la stessa lingua, è un «linguaggio comune» della società. Tutte cose che non sono invenzioni di un individuo, ma della comunità. Nessuno di noi si veste realmente «come vuole» in quanto individuo: se lo facesse finirebbe in manicomio o in galera, come uno che si mettesse a parlare una lingua di sua invenzione (lo fanno gli schizofrenici) che gli altri non capiscono. A parte qualche accessorio secondario più o meno «personale», vestiamo come è accettato dalla «gente», ossia dalla collettività. Nel medio evo, l'abbigliamento era addirittura prescritto dalla corporazione o gilda cui si apparteneva. In momenti cruciali, il modo di vestire è stato l'espressione di una volontà ideologica e politica collettiva: ai tempi di Goya, in Spagna, le «mayas» erano le donne che vestivano nella barocca moda spagnola, come segno di rifiuto della «moda» e dell'ideologia francese rivoluzionaria: le «mayas» erano nazionaliste e tradizionaliste. Così le camicie nere, le camicie brune nel fascismo europeo: indicavano un programma di vita atletica – mai prima la camicia era stata esposta alla vista di tutti – giovanilistica e sportiva. Fu il fascismo a decretare la fine del cappello, durato secoli come complemento, per secoli esaltato da piume e visibilissimo, perché era necessario alla «cortesia» barocca: «cara al sol» metteva fine ad ogni barocchismo cortese, era l'annuncio di una vita sociale più spiccia e senza fronzoli. In quegli stessi anni, l'architetto Loos dichiarava «ogni ornamento è delitto». La «moda», come si vede, è una corrente dello spirito dei tempi. E' indicativo apprendere da dove viene l'abito maschile della classe dirigente, con completo, magari doppio petto e cravatta. Viene dalla Londra che aveva appena vinto Napoleone, da un'Inghilterra che dominava il mondo e se ne assumeva la responsabilità. L'iniziatore di quella «moda» assai più profonda di una moda da sfilate fu Lord Brummel, con il suo seguito di «dandy». Il dandy, contrariamente a quel che crede la nostra cultura dozzinale, era un apostolo della sobrietà e della perfezione del vestire propria di una classe di comando. Spalle imbottite di tipo militare, collo della camicia alto e chiuso come un cilindro perfetto, baveri a lancia: tutto era mutuato dalla divisa – e dall'etica – militare. Vita come servizio, eleganza come sprezzatura e alta tenuta di fronte ad ogni pericolo, ad ogni difficoltà. I polsini candidi uscivano per un pollice dalle maniche della giacca nera per sottolineare la pulizia delle mani e del corpo. L'intero corpo degli uomini rivestito al modo «neoclassico», allora in voga nell'arte. Mai una «moda» nata da Londra si è sparsa così coralmente nel mondo, mai una moda qualunque ha avuto una diffusione e accettazione così universale. Quello inaugurato da Brummel è ancor oggi l'abito degli uomini che comandano e che capiscono la responsabilità che si accompagna al comando. A questo spirito rinunciano i giovani che ho visto davanti a una scuola per ricchi a Milano. Maurizio Blondet