Romani d`Europa - Federico Rocca

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Romani d`Europa - Federico Rocca
Assessorato alle Politiche Sociali
Ufficio Europa
10 storie di comunitari,
diventati romani d’adozione
Il loro personale percorso
di integrazione sociale e lavorativa
racchiuso in una mostra fotografica
Romani d’Europa
Nuovi Romani, Nuovi Italiani, Nuovi Europei
Un libro da sfogliare e uno spazio
multimediale ricco di immagini,
testi e video interviste
Marco Baroncini
Matteo Bastianelli
Jean-Marc Caimi
Angelo Carconi
Manolo Cinti
Alfredo Covino
Abramo De Licio
Paolo Fantauzzi
Pietro Freddi
Alessandra Quadri
www.romanideuropa.it
Paola Serino
Stefano Snaidero
Romani d’Europa
Nuovi Romani, Nuovi Italiani, Nuovi Europei
I reportage fotografici sono stati realizzati da Marco Baroncini
Matteo Bastianelli
Jean-Marc Caimi
Angelo Carconi
Manolo Cinti
Alfredo Covino
Abramo De Licio
Alessandra Quadri
Paola Serino
Stefano Snaidero
Tutte le storie di questo libro sono state scritte da Paolo Fantauzzi
Romani d’Europa
Sommario
Nuovi Romani, Nuovi Italiani, Nuovi Europei
L’integrazione sociale dei cittadini comunitari attraverso il valore condiviso del lavoro
Progetto culturale multimediale
www.romanideuropa.it
da un’idea di Federico Rocca
Delegato del Sindaco ai rapporti con l’Unione Europea di Roma Capitale
Il saluto del Sindaco
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Giovanni Alemanno, Sindaco di Roma
Promosso da
Ufficio Europa: per la valorizzazione dei nuovi cittadini di Roma
Assessorato alle Politiche Sociali
Ufficio Europa
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Federico Rocca, Delegato del Sindaco ai rapporti con l’Unione Europea
Occhi sempre nuovi per guardare Roma (e il mondo)8
Con il patrocinio di
Su e giù dal palco, le due vite di Eljana
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Il fattorino ungherese, ecologista su due ruote
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Il cerchio si chiude: tutto inizia e finisce a Roma
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Il gigante dal cuore di bambino
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Una mano per uscire dall’ombra
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Fra Trastevere e San Giovanni, il paradiso in terra di Petras
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Progetto culturale
A Roma per amore, l’amore per Roma
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Direzione artistica mostra-libro-web documentary-spot
A cura di Veronica Marica
L’enclave romena di Bogdan
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Regia interviste e spot Manolo Cinti e Pietro Freddi
Musiche di Pietro Freddi
Ballando sulla cortina di ferro
La vita spericolata di Jitka, di qua e di là dal Muro
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Fotografie scattate da Marco Baroncini, Matteo Bastianelli, Jean-Marc Caimi, Angelo Carconi, Manolo Cinti,
Alfredo Covino, Abramo De Licio, Alessandra Quadri, Paola Serino, Stefano Snaidero
Makenoise: L’arte libera che fa rumore
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Gli autori
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PARLAMENTO EUROPEO
Ambasciata
Ambasciata
della Repubblica della Repubblica
di Bulgaria
di Cipro
Rappresentanza in Italia
della Commissione Europea
Ambasciata
Ambasciata
Ambasciata
Ambasciata
della Repubblica della Repubblica della Repubblica di Malta
di Estonia
di Lettonia
di Lituania
Ambasciata
Ambasciata
della Repubblica di Romania
di Polonia
in Italia
Ambasciata
della Repubblica
Slovacca
Ambasciata
Accademia
della Repubblica di Romania
di Ungheria
in Roma
Accademia
di Ungheria
in Roma
Istituto
Bulgaro
di Cultura
Istituto
Polacco
di Roma
In collaborazione con
Ente Nazionale
Lituano
per il Turismo
Ente del Turismo
della Romania
Ente Nazionale
Ceco
per il Turismo
Romeni
in Italia
Vocea
Romanilor
La Fenice
Spirit
Romanesc
Biblioteca
Angelica
Croce Rossa
Italiana
Centro Sperimentale
di Cinematografia
Collegio
Lituano
Storie scritte da Paolo Fantauzzi
Grafica e layout di Maurizio Garofalo
APP Romani d’Europa per iPhone ed Android sviluppata da ReteMedia
Integrazione: il contributo del Fondo Interprofessionale FondItalia 94
Stampato da Art Color Printing
Francesco Franco, Presidente di FondItalia
©2011 Edizioni Makenoise
www.makenoise.it
Atac: Per i “Romani d’Europa - Nuovi Italiani”
Nelle fermate Spagna e Anagnina della linea A della metro una mostra dedicata ai “Nuovi Romani”95
Tutti i diritti riservati.
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in alcuna forma,
con qualunque mezzo, senza il permesso degli autore ed editore.
Il motto dell’Unione: Uniti nella diversità
Un ringraziamento speciale all’Onorevole Sveva Belviso - Vice Sindaco e Assessore alle Politiche Sociali di Roma Capitale.
Roberta Angelilli, Vice Presidente del Parlamento Europeo
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G
li stranieri che hanno deciso di risiedere nel nostro territorio,
spesso alla ricerca di una vita migliore, rappresentano una risorsa ineguagliabile per il nostro Paese. La premessa e il titolo
di questa campagna istituzionale di Roma Capitale è anche il suo obiettivo: l’integrazione sociale dei
cittadini neocomunitari, ossia di quelle persone provenienti dai paesi entrati in Europa negli ultimi anni,
realizzabile attraverso il valore condiviso del lavoro. Per i nuovi europei, infatti, deve valere il principio costituzionale che considera il lavoro un dovere e un diritto, un fondamento del vivere civile della vita economica sociale della nazione e un elemento di accrescimento personale e familiare, oltre a rappresentare
la chiave d’accesso al nostro Paese, al suo sistema legislativo, culturale e linguistico. Questo progetto di
sensibilizzazione culturale, declinato in una pluralità di contesti e contenitori, da un web documentary
a una rappresentazione fotografica e giornalistica a una mostra allestita in contesti non usuali come
le stazioni metropolitane, racconterà storie di integrazione legate al lavoro nelle sue varie e molteplici
forme. Le testimonianze sono state raccolte e documentate dall’associazione culturale Makenoise con
il sostegno dell’ente paritetico Fonditalia e la collaborazione di ATAC S.p.A., che ringraziamo, allo scopo
di dimostrare come il lavoro regolare permetta un più veloce e facile inserimento dei cittadini stranieri
nella nostra società. Contemporaneamente l’auspicio è che il messaggio veicolato dalla campagna, che è
stata voluta e coordinata dal consigliere di Roma Capitale Federico Rocca, migliori la percezione che gli
italiani hanno nei confronti dei nuovi europei, provenienti dalla Bulgaria e Romania (comunitari dal 2007)
e dall’Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Malta, Lituania, Estonia, Cipro, Slovenia e Lettonia
(dal 2004), attraverso la conoscenza delle numerose storie di lavoro presenti in Italia. Le loro storie individuali, rappresentazioni della loro collettività, ci portano a riscoprire la comune consapevolezza che il
“lavoro”, il “mestiere” siano la base per costruire una solidarietà effettiva e non retorica, come collante
per una Europa intesa come comune destino e comune identità plurale.
Il Sindaco di Roma
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romani
d ’ europa
Giovanni Alemanno
Assessorato alle Politiche Sociali
Ufficio Europa
Ufficio Europa:
per la valorizzazione
dei nuovi cittadini
di Roma
A
Roma ci sono dei nuovi romani: sono i
cittadini provenienti da quelle nazioni entrate a far parte dell’Unione Europea nel
2004 e nel 2007. Uomini e donne, che anche prima
dell’adesione all’Unione dei loro paesi di origine, hanno scelto l’Italia e la capitale, alla ricerca di un’opportunità lavorativa e un futuro migliore.
Per questi nuovi cittadini romani il termine di “immigrati” non è più appropriato, visto che da anni l’Europa, grazie al mercato unico e all’abbattimento delle frontiere interne, è diventata la nostra comune patria,
all’interno della quale, ogni cittadino è libero di muoversi e soggiornare stabilmente, dove più desidera. Si
tratta di popoli la cui storia da sempre è fortemente intrecciata con la nostra, nazioni europee a noi vicine
non solo geograficamente, ma anche culturalmente: Polonia, Romania, Ungheria, Bulgaria, Lituania, Estonia,
Lettonia, Cipro, Malta, Slovenia, Repubblica Ceca e Slovacchia.
Terre nelle quali esistono millenarie testimonianze di Roma, i cui popoli ancora oggi sentono forte
questa vicinanza culturale e storica, in un legame, che nel corso del tempo non si è mai perso e che noi
vogliamo avvalorare.
Ogni giorno, migliaia di cittadini provenienti da questi Paesi vivono e lavorano a Roma, fornendo un importante contributo allo sviluppo economico e sociale. Si tratta di persone che con impegno e passione si
dedicano al loro lavoro, producendo risorse economiche e culturali, che vanno ad arricchire il patrimonio
comune della nostra città.
Una nuova realtà romana spesso poco conosciuta, proprio perché, tranne alcune eccezioni, non ha mai
rappresentato una “emergenza” per la città di Roma, quanto piuttosto un proficuo e spesso silenzioso
processo d’integrazione con la nostra società e cultura.
Questi “nuovi romani” vengono solitamente chiamati “neocomunitari” solo per una semplificazione
comunicativa, anche se di fatto l’entrata in Europa dei loro Paesi d’origine risale a diversi anni fa.
Si tratta di cittadini europei e romani, consapevoli e rispettosi delle norme che regolano il nostro tessuto sociale e che spesso risultano essere i primi a sollecitare un rapporto più intenso di collaborazione e
integrazione, basato sulla conoscenza, il rispetto, la legalità e la solidarietà.
L’Ufficio Europa, istituito dal Sindaco Giovanni Alemanno per la gestione dei rapporti con l’Unione
Europea e con i “nuovi europei”, con entusiasmo sviluppa e sostiene il progetto “Romani d’Europa” la cui
finalità é la valorizzazione di questi nuovi cittadini di Roma. Attraverso le immagini e i racconti di alcuni
di loro, la comunità dei “Romani d’Europa” esce finalmente dall’anonimato dei sondaggi e delle statistiche.
Federico Rocca
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romani
d ’ europa
Delegato del Sindaco ai rapporti con l’Unione Europea
Occhi sempre nuovi
per guardare Roma
(e il mondo)
fotografie di
Jean-Marc Caimi
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l vero viaggio di scoperta, insegnava Marcel
Proust, non consiste nel cercare nuove terre
ma nell’avere occhi nuovi. Uno sguardo sempre
diverso sulle cose, come fosse la prima volta, per
vivere ogni giorno che passa con lo stupore di chi
si trova davanti a un paesaggio mai visto. Grazie
al suo lavoro, questa sorpresa Sebestyén Terdik ha
la fortuna di vederla quotidianamente negli occhi
delle persone. E, di riflesso, nutrirsene.
Sebestyén è ungherese, ha 41 anni e da una decina fa la guida a Roma.Turisti tedeschi, soprattutto,
ma anche italiani e, più sporadicamente, suoi connazionali. Sempre gli stessi itinerari, gli stessi monumenti, le stesse nozioni da ripetere. Eppure con la
capacità di far accendere nello sguardo altrui una
luce inaspettata. «Mi piace la meraviglia della gente,
l’“umiltà” di chi ti dice: “Noi questo non ce l’abbiamo a casa nostra”», afferma. «Quando un contadino bavarese ti spiega perché ama Roma con
le sue parole semplici ma di sostanza, sento che
alimenta anche me. E poi adoro la complessità di
questa città: in tutta la sua storia è sempre stata un
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«Adoro la complessità di questa città: in tutta la sua storia è sempre stata un centro
internazionale. E anch’io sento di far parte di questa complessità bimillenaria»
centro internazionale. Così quando sento le parole
di apprezzamento pronunciate da un turista, penso:
“Ecco, anch’io faccio parte di questa complessità
bimillenaria”».
È una persona davvero particolare, Sebestyén,
che dietro l’aria mite e un po’ svagata nasconde
un’interiorità inaspettata. Figlio di un sacerdote
uniate (greco-cattolico) e di un’insegnante di disegno, è diventato adulto in mezzo al senso del sacro,
fra le icone e i fumi dell’incenso. «Sono cresciuto
col mito della letteratura russa e questo ha inciso in profondità dentro di me: concepire l’essere
umano con una spiritualità concreta, immanente
più che trascendentale». Il risultato della sua formazione, culminata con una laurea in Teologia alla
Gregoriana, è una religiosità radicata e quasi tangibile, calata nel quotidiano. «Ho perfino pensato di
ritirarmi in un monastero ma la vedrei come una
fuga», dice lui.
Una spiritualità talmente forte, la sua, che quando ha iniziato gli studi universitari, nell’Ungheria
ancora socialista, sapeva già che il suo titolo non
sarebbe stato riconosciuto dallo Stato e al massimo gli avrebbe permesso di insegnare in un istituto religioso. «Ma non me ne importava nulla, l’ho
fatto lo stesso perché sentivo che quella era la mia
strada», spiega come fosse la cosa più naturale al
mondo. «Ero figlio di un prete e quindi alcune facoltà mi erano precluse a priori. Però avrei percorso comunque la strada che ho fatto».
A
evitare che l’intelligenza di Sebestyén finisse
sprecata ci ha pensato il crollo del regime e la
borsa di studio di una fondazione tedesca. È proprio grazie a questo sussidio infatti che nel 1991,
appena ventenne, riesce ad arrivare a Roma, conosciuta fino ad allora solo attraverso i libri. «Avevo
studiato latino e per me era il simbolo della cultura,
della classicità, della libertà di pensiero ma era un’idea molto vaga e non sapevo nulla di questa città.
L’importante era più che altro andare da qualche
parte, uscire dall’Ungheria. Per questo penso che
più che io ad aver scelto Roma è stata Roma ad
aver scelto me. Del primo impatto con gli italiani ricordo l’autoironia, la capacità di ridere di loro
stessi, la gioia di vita che nei nostri Paesi non è
facile respirare per strada. E poi l’ospitalità: la città
all’epoca era molto accogliente, gli stranieri erano
ancora una rarità e c’era sempre stupore quando
dicevo che ero ungherese. Sembrava che tutti dovessero sempre chiederti “ma perché tu straniero
hai deciso di venire proprio qui?”. Oggi purtroppo
non è più così: la microcriminalità e l’insicurezza sociale hanno portato a guardare a chi non è italiano
con maggiore diffidenza».
La Gregoriana è piena di tedeschi, svizzeri, francesi, africani: un ambiente estremamente interna-
zionale e un’apertura impensabile per un ragazzo
proveniente da una nazione che fino a due anni
prima vietava l’espatrio al di fuori dei Paesi socialisti “fratelli”. Gli italiani all’università pontificia in
compenso sono pochissimi. A colmare il divario
“provvedono” due ragazzi di Priverno, in provincia
di Latina, con cui Sebestyén dopo qualche anno
va a vivere sulla Nomentana. «È con loro che ho
iniziato a conoscere non solo Roma ma gli italiani
e la loro mentalità». È il periodo dei viaggi insieme,
alla scoperta del Lazio e dei manicaretti riportati
da casa, proprio come una famiglia.
Dopo cinque anni, tuttavia, la parentesi italiana è
destinata a finire insieme agli studi. Sebestyén torna
in Ungheria ma con un titolo di studio in Teologia
e Filosofia è difficile trovare lavoro. Allora decide di
prendere una seconda laurea e si rimette in viaggio,
stavolta per la Germania. Facoltà di Lettere a Monaco. Stavolta una borsa ad aiutarlo economicamente non c’è e così Sebestyén va a fare l’operaio
alla Siemens. Per guadagnare di più, di giorno studia
e di notte lavora. Una fatica massacrante, unita al
fatto che la Germania non è l’Italia. Dura tre anni,
poi la stanchezza e l’insoddisfazione prendono il
sopravvento: «Roma mi era rimasta nel cuore»,
spiega. «Un famoso scrittore ungherese disse: “meglio guardiano di cimitero a Roma che professore
universitario a Budapest”. E così ho fatto, mi sono
iscritto a Roma Tre. I corsi però erano noiosi e così
quando una volta mi è capitato di seguire per caso
una lezione di storia del cinema italiano, me ne
sono innamorato e ho deciso di passare al Dams. A
suo modo, è stata la scoperta di un aspetto dell’I-
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talia che non conoscevo: il Neorealismo di De Sica,
quello di Rossellini, che in “Germania anno zero”, il
mio film preferito, ha affrontato per la prima volta
il tema dei vinti, a cui nessuno guarda mai dopo una
guerra. E poi l’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni e, soprattutto, la “follia” di Marco Ferreri».
Da parte Sebestyén ha il gruzzoletto tirato su
con gli straordinari e i turni di notte fatti in fabbrica.
La necessità di trovare un lavoro però incombe.
Così quando nel 2000 in vista del Giubileo viene
bandito un concorso per guida turistica, decide di
partecipare, si getta a capofitto nello studio e riesce nell’ “impresa”. «Alla Gregoriana dovevo sempre portare in giro gli amici tedeschi e ungheresi
quando qualcuno mi veniva a trovare. In pratica me
la cavavo già abbastanza bene e forse ero già gui-
sono uno straniero, ma tutti mi hanno sempre accolto bene. E la laurea al Dams ancora oggi mi aiuta
nel lavoro: i turisti non amano i dati e per questo
cerco sempre di spiegare certi capolavori, come
le opere di Raffaello, usando la logica di un set cinematografico. Mentre in altri casi i riferimenti al
grande schermo sono irrinunciabili, come la “Dolce
vita” per la Fontana di Trevi o “Vacanze romane”
per la Bocca della Verità».
Dopo dieci anni di vita romana, il richiamo
della madrepatria è per molti versi inevitabile. Un
aspetto che Sebestyén ha risolto frequentando
l’istituto di cultura ungherese di via Giulia, dove
con un gruppo di amici ogni venerdì organizza
serate di balli popolari. «Per spiegare la difficoltà
della nostra lingua, da noi si dice: “chi parla un-
«Ho pensato varie volte
di andare via, ma avrei troppa
nostalgia di questa città.
Però non mi sono mai definito
un italiano, forse perché
l’Italia non ti obbliga.
Ti permette di restare
quel che sei e in fondo
è la cosa migliore»
da “dentro”». L’occasione di una vita è finalmente
arrivata: unire l’amore per la città e un lavoro soddisfacente, che nel giro di un paio d’anni diviene
un’occupazione a tempo pieno. E che giorno dopo
giorno gli permette di vedere la luce accendersi
negli occhi dei viaggiatori che per la prima volta
scoprono la Città eterna. Magari sotto la forma
della sorpresa di un turista italiano, meravigliato
che sia un ungherese a spiegargli la storia romana.
«All’inizio per me era imbarazzante perché non
parlo perfettamente la lingua, tanto che ho sempre
detto alle agenzie con cui lavoro di specificare che
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gherese è ungherese”. Per questo per me è fondamentale non perdere contatto col mio idioma
e la mia cultura».
Il futuro tuttavia è sempre all’ombra del Colosseo. Almeno per ora «Dopo tutto questo tempo
ho pensato varie volte di andare via, ma avrei troppa nostalgia di questa città. Per me resta un posto
da incanto e ormai è la mia seconda patria. Eppure
continuo a sentirmi uno straniero, anche se i miei
amici mi prendono in giro e mi dicono che non
sono più ungherese. Però non mi sono mai definito
un italiano, forse perché non ho mai dovuto fare
una scelta e perche l’Italia non ti obbliga all’assimilazione. Ti permette di restare quel che sei o che
vuoi essere. E in fondo è la cosa migliore».
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Su e giù dal palco,
le due vite di Eljana
fotografie di
Alfredo Covino
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N
egli anni Venti, a causa delle progressive
restrizioni alla libertà artistica nella neonata Unione sovietica, gli attori Richard
Boleslavskij e Marija Uspenskaja esportarono negli
Stati uniti il metodo Stanislavskij, messo a punto
dal loro mentore. Un sistema tuttora prevalente
nell’Est Europa e negli Usa ma che in Italia non
ha mai fatto breccia nei programmi di studio. Dal
2004 a fornire questa “opzione” interpretativa agli
allievi della Scuola Nazionale di Cinema del Centro Sperimentale di Cinematografia è un’attrice di
Sofia: Eljana Popova. «Avevo conosciuto Giancarlo
Giannini in Bulgaria perché i suoi film erano mate-
ria di studio all’Accademia nazionale d’arte drammatica, dove mi sono diplomata e poi in Italia avevo girato con lui Una vacanza all’inferno», racconta.
«Così quando è diventato responsabile del corso
di recitazione mi ha detto: “Vediamo se la tua formazione può essere utile per i nostri studenti”».
Fra un paio d’anni Eljana avrà passato metà della
sua vita in Italia. Eppure, a quasi un quarto di secolo
dal suo arrivo, dice ancora: «A Roma sono a casa ma
continuo a sentirmi bulgara, perché uno il proprio
Paese se lo porta dentro per sempre. Il mio cordone ombelicale è ancora lì ed è più forte che mai».
Anche se la sua è una storia di integrazione per-
«Nelle fiction ho
interpretato donne
dell’est in tutte le salse:
bulgare, romene, russe,
polacche...
Tutte facevano
i “classici” mestieri:
badante, donna di
servizio, prostituta.
Alla fine mi sono
un po’ stancata,
era diventato
troppo ripetitivo»
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«Quando non avevo il permesso
di soggiorno mi sentivo come un’ombra
che girava per la città. Non potevo
uscire dall’Italia, non avevo un’identità,
un valore, non ero niente.
Esistevo e non esistevo»
«Se vuoi lavorare e al tempo stesso avere una famiglia, devi
pagare qualcuno che ti tiene i bambini. Ma per permetterlo
hai bisogno di lavorare e guadagnare. Insomma, se non lavori
non puoi pagare e se non puoi pagare non lavori: è un circolo
vizioso infernale, da cui difficilmente si esce»
fettamente riuscita, il cammino non è stato affatto
facile. «Sono arrivata in Italia nel 1988 grazie a una
borsa di studio del ministero degli Esteri per un
corso di perfezionamento di un anno all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. All’epoca
recitavo già da quattro anni al Teatro nazionale di
Sofia e avevo girato diverse serie tv. Avendo studiato a lungo storia della musica e storia dell’ar-
te al liceo musicale, l’Italia era uno dei Paesi in cui
sognavo di venire. Volevo vedere ciò di cui avevo
solo sentito parlare, anche per il teatro italiano e il
particolare metodo che si usa qua nella recitazione, basato sulla commedia dell’arte e sugli esercizi,
specialmente sulla voce».
Subito arrivano i primi lavori: spettacoli di diploma dei giovani registi dell’Accademia, il Faust di
Edoardo Sanguineti con Giulio Brogi, il Filottete, uno
spettacolo di Lina Wertmuller, un contratto con il
Teatro stabile di Palermo. Ben presto, però, Eljana si
rende conto che l’impegno, la dedizione e il sacrificio non bastano a ottenere parti importanti. «Ho
sofferto molto all’inizio: ero sola, senza il supporto
della mia famiglia d’origine e non riuscivo a lavorare
con le stesse soddisfazioni che avevo avuto in Bul-
garia, dove avevo portato in scena Ibsen, Tennesee
Williams, Le Troiane di Euripide e Il giardino dei ciliegi
di Cechov. Puoi studiare la lingua quanto vuoi ma
l’accento rimane e questo ti porta a interpretare
ruoli circoscritti. Fra l’altro nel frattempo mi ero
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d ’ e u r o p a
sposata e avevo avuto la prima delle mie tre figlie».
Una scoperta, quella della maternità, che rende
ancora più difficile continuare a fare l’attrice: «Se
vuoi lavorare e al tempo stesso avere una famiglia,
devi pagare qualcuno che ti tiene i bambini. Ma per
permetterlo hai bisogno di lavorare e guadagnare.
Insomma, se non lavori non puoi pagare e se non
puoi pagare non lavori: è un circolo vizioso infernale, da cui difficilmente si esce. Senza contare le
lunghe tournèe lontano da casa».
Così, sebbene a malincuore, Eljana desiste. Capisce che o si dedica interamente al teatro o non
ha senso continuare a “inseguire” una piccola parte
di tanto in tanto. Anche quando le figlie sono in
tenera età, cerca però di continuare a lavorare, nonostante le difficoltà. «A volte è stato un supplizio
riuscire a conciliare tutto ma l’ho sempre fatto perché ero convinta che ne valesse la pena», ammette.
P
er conciliare il ruolo di mamma con quello di
attrice, Eljana inizia ad accettare i ruoli nelle serie
televisive che le offrono, meno vincolanti in termini
di impegno. Oppure qualche sporadico film, come
La ballata del lavavetri con Kim Rossi Stuart. «Ho
lavorato in tante fiction, come Casa famiglia, Il maresciallo Rocca o Distretto di polizia, interpretando don-
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«A Roma mi sento
a casa ma continuo
a sentirmi bulgara,
perché uno
il proprio Paese
se lo porta dentro
per sempre.
Il mio cordone
ombelicale è ancora
lì ed è più forte
che mai»
ne dell’est in tutte le salse: bulgare, romene, russe,
polacche... Tutte facevano i “classici” mestieri: badante, donna di servizio, prostituta. Alla fine mi sono un
po’ stancata, era diventato troppo ripetitivo».
Da quando inizia a collaborare col Centro sperimentale di cinematografica, proprio gli studenti
diventano protagonisti della “rinascita” di Eljana.
Una seconda vita che passa dalle lezioni sul metodo Stanislavskij, la drammaturgia cechoviana, le
commedie e i sonetti di Shakespeare, il lavoro di
sceneggiature contemporanee.
«I ragazzi sono molto interessati perché a livello accademico il metodo Stanislavskij non è quello
dominante. Su questo sistema al massimo si tengono dei seminari, quindi per loro è un’alternativa
poco esplorata. Anche se poi quel che conta è la
credibilità e la capacità di far emozionare la gente».
Il lavoro in classe si basa molto sull’improvvisazione e il punto di partenza sono le esperienze personali e la cosiddetta memoria emotiva. Esercizi come
l’interpretazione senza parole, preparati utilizzando
soltanto una musica come colonna sonora o addirittura nel silenzio assoluto, in modo da esplorare il
più a fondo possibile la propria interiorità.
A sentirli parlare, agli allievi piace questo lavoro
improntato sull’immedesimazione, la particolare
attenzione all’aspetto più intimo dei personaggi,
non semplicemente alla ricerca del modo in cui
vivono ma della loro essenza. Un lavoro che li obbliga a scavare nel profondo e a riflettere sulla loro
umanità, anche quando appaiono del tutto negativi.
E gli apprezzamenti non mancano. Gli studenti
la definiscono “simpatica, giocosa, severa al punto
giusto ma non autoritaria”. In grado di instaura-
re “un rapporto di complicità” in cui “si ride e si
scherza ma poi si raggiunge il risultato”. Un affetto
ricambiato. «L’insegnamento mi dà moltissimo a
livello personale, anche umanamente», riconosce
Eljana, che nella didattica ha trasfuso la passione
per la recitazione. «Mi piace vedere i progressi
lezione dopo lezione, far emergere qualcosa che
prima era nascosto o appena accennato. Ormai è
una parte di me di cui non potrei più fare a meno».
Accanto resta la “professione” di mamma, che
non conosce orari o pause. «È mezza vita che sono
qui e ancora continuo a girare per Roma come
fossi una turista. Prendo le due mie figlie più piccole, di otto e dieci anni, e ce ne andiamo in giro per
i quartieri, alla scoperta della città».
Mamma e attrice, anche se con qualche rinuncia
la doppia vita di Eljana continua. Su e giù dal palco.
Il fattorino ungherese,
ecologista su due ruote
fotografie di
Manolo Cinti
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M
olti anni dopo, ripensando alla sua rocambolesca fuga in Occidente, Simon TamásLászló avrebbe tratto una lezione che ancora oggi è la sua stella polare: «Se vuoi una cosa,
non aspettare che ti caschi dal cielo: alza il sedere e
cerca di ottenerla».
È il gelido inverno del 1985 e Simon, stanco di
aspettare il passaporto chiesto alle autorità ungheresi, al confine con la Yugoslavia si butta nel Danubio insieme a un compagno di scuola e al bidello
dell’istituto per raggiungere l’altra sponda. In mezzo
ai lastroni di ghiaccio del fiume, col rischio di essere
portato via dalla corrente. O, come già accaduto
qualche settimana prima, essere fermato dai frontalieri, malmenato, rispedito a casa senza troppi
complimenti ed essere portato in giro per le classi
del suo liceo come esempio da non seguire. Una
follia da diciassettenne, ma che al secondo tentativo va a buon fine. Ad aspettare il gruppetto di fuggiaschi dall’altra parte della riva c’e infatti il fratello
del bidello, venuto apposta in auto dalla Germania,
dove vive. È lui che lo carica in auto e lo porta in
Austria, dove lo aspetta il padre, un violoncellista
che da due anni vive a Torino dopo aver chiesto
in modo di organizzarmi per non dover rinunciare a
asilo politico durante una tournèe.
qualche sgambata».
«Ormai era questione di tempo, i documenti
Un trasporto talmente forte, quello per le due
sarebbero arrivati dopo qualche mese. Solo che
ruote, che nel 2008 Simon ha deciso di farne un
mi ero stancato di aspettare. Non devo essere
lavoro e con tre connazionali, uno a Roma e due
stato un adolescente tranquillo per mia madre,
a Budapest, ha aperto una società di
ma resto fiero di quello che ho fatpony express che fa consegne in bicito», ammette Simon.
«Subiamo
cletta. Una realtà già consolidata all’eA un quarto di secolo di distanza,
la concorrenza
stero: non a caso i due soci in Ungheria
quel ragazzetto impaziente è un quadei motorizzati,
da 15 anni hanno un’impresa analoga
rantenne gioviale che ha sublimato la
ma io non mollo
che impiega circa 100 corrieri, mentre
sua irrequietezza con la passione per la
per carattere»
quello “italiano” lo ha fatto a Valencia.
bicicletta, divenuta col tempo sempre
Una novità assoluta per Roma, però, dove Simon è
più una filosofia di vita. «La bici è il mio chiodo fisso,
stato il primo ad avere un’idea simile. Scegliendo un
a volte me la sogno anche la notte. E se vado in vanome che è tutto un programma: Eadessopedala.
canza, che sia al mare o in montagna, faccio sempre
mo evitato 2700 kg di emissioni nell’aria».
«Ho dovuto quasi fare catechesi per convincere
A ogni modo nessuna forma di “eroismo”, minile persone e trovare i partner giusti, ma alla fine ci
mizza Simon, perché «andare in bici per lavoro non
sono riuscito», dice. «Spesso i clienti sono increduli
è più pesante che fare il muratore o altri lavoratori
quando ci vedono col caschetto in testa. “Se non
manuali, anche se richiede senza subbio un pizzico
mi crede venga giù a vedere la bici”, rispondo allora
di follia stare in sella tutto il giorno».
io. La reazione comunque è sempre
Una cosa però è certa: «Questa atpositiva e passato lo stupore iniziale
«La bici è il mio
ci fanno tutti i complimenti. Chi ci ha
chioso fisso, a volte tività non conosce feste né domeniche: si lavora ogni volta che serve».
conosciuto, non ci ha più abbandoname la sogno anche
Come quella volta che in una giornato e col tempo si è creata uno zocla notte»
ta la società dovette consegnare 160
colo duro di clienti che ci scelgono
inviti perché Bulgari, che dava una festa e la società
proprio per l’impronta ecologista. Ogni chilometro
organizzatrice all’ultimo momento era stata lasciata
che percorriamo risparmiamo alla città 15 grammi
a piedi dall’agenzia di corrieri che utilizzava normaldi anidride carbonica: abbiamo fatto il calcolo e nel
mente. In nove ore intense e senza pause, tranne
2010 con le nostre consegne a emissioni zero abbia-
che per riempire le borracce alle fontanelle, i corrieri di Simon (e lui stesso) riuscirono a recapitare a
tutti gli ospiti la cartolina per il party, come stabilito.
L
a società ha una struttura fluida senza uffici né
sede fisica: i fattorini partono da casa la mattina e fanno gli ordini loro affidati, per lo più in turni part-time da cinque ore. Plichi, corrispondenza
aziendale, pacchi: tutto ciò che può stare nello zaino
viene consegnato, col vantaggio che le due ruote
non conoscono le restrizioni applicate agli scooter,
«Ogni chilometro
che percorriamo
risparmiamo alla città
15 grammi di anidride
carbonica: nel 2010
abbiamo evitato
2700 kg di emissioni
nell’aria»
«L’ho fatto anche
per le mie figlie: voglio
lasciare loro una città
migliore di quella
che ho trovato»
30
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come le aree pedonali. La base è il negozio di bici
Pro bike vicino Villa Ada, che di fatto ha adottato la
piccola “famiglia” di fattorini ecologisti tirata su da
Simon: è qui che il giorno di paga ci si riunisce, si
fanno quattro chiacchiere, si ripartiscono gli utili. Un
piccolo successo dovuto anche ai costi contenuti
rispetto alla concorrenza motorizzata: cinque euro
più iva per le consegne in centro, da dieci a quindici
per le altre zone, purché all’interno del raccordo. La
metà della corsa va ai ragazzi, una decina in tutto, il
resto viene reinvestito. Perché quella di Simon è an-
che una scelta profondamente etica, che non conosce compromessi: «Io sono coerente fino in fondo
e non posso mandare la gente in bici perché così
non inquina e poi non pagare le tasse. Purtroppo
però in questo modo subiamo la concorrenza sleale
delle società di “motorizzati”, che ricorrono al lavoro
nero o non dichiarano tutte le consegne». Così la
moralità deve fare quotidianamente i conti col realismo per stare sul mercato: «Sono convinto che il
futuro delle città è nella mobilità sostenibile, che fa
risparmiare carburante, evita l’inquinamento atmo-
sferico e soprattutto libera le strade dalle macchine.
La molla che mi ha fatto decidere di intraprendere
quest’avventura sono le mie due figlie Erika e Eszter,
che hanno 13 e 11 anni: voglio lasciare loro una città
migliore di quella che ho trovato. A ogni modo è
dura reggere la competizione. Pensavo che sarebbe stato più facile attecchire e che i tempi fossero
maturi per una cosa del genere. Invece c’è ancora
da aspettare purtroppo. Ma io non mollo per carattere». La “lezione del Danubio” è ancora lì, dov’era
rimasta venticinque anni fa.
Il cerchio si chiude:
tutto inizia e finisce
a Roma
fotografie di
Stefano Snaidero
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D ’ E U R O P A
I
dieci luoghi di Roma che hanno segnato la sua
vita, presto Kinga Araya - artista interdisciplinare
come si definisce - li metterà in un video. “Salty
Feet: Passeggiate romane” il titolo del progetto, che
la farà tornare in quei posti che vent’anni fa hanno
fatto da cornice alla sua fuga, talmente precipitosa
da non farle portare dietro nemmeno un bagaglio.
«Sarà un viaggio sulle tracce del mio passato, come
svegliare degli spiriti», scherza lei. «E siccome il leit
motiv sarà il tema del cammino e santa Kinga è la
patrona dei minatori di salgemma, indosserò attorno al collo due piedi scolpiti nel sale, come gli ex
voto che nell’antica Roma si offrivano agli dei per
una guarigione. Inoltre saranno legati fra loro da una
catena, come la punizione che nel Medioevo veniva
inflitte alle adultere e alle donne che spettegolavano, costrette a trascinarsi pesanti pietre sulle spalle.
Sono sicura che rivedere quei luoghi con un altro
sguardo sarà un talismano». Dopo due decenni, infatti, il cerchio si è chiuso. E Kinga è tornata al punto
da cui era partita. A Roma. Per capire il senso di
questa circolarità occorre fare un salto indietro alla
fine degli anni Ottanta: nonostante la repressione
messa in atto, in Polonia il regime fa sempre più fatica a contrastare i fermenti di una società civile che
dall’elezione di Giovanni Paolo II e dalla comparsa
di Solidarnosc ha mostrato crescente insofferenza
verso la dipendenza da Mosca. È in questo clima che
nell’estate 1988 l’università cattolica di Lublino organizza un tour in Italia per i suoi studenti di storia
dell’arte: Venezia, Napoli, Roma e poi, ultima tappa
prima del ritorno a casa, Firenze. Ed è proprio nel
capoluogo toscano che Kinga decide di lasciare tutto e fuggire. «Gli Uffizi per me sono stati una rivelazione, ho avuto come una sindrome di Stendhal»,
«Determinare gli spazi col mio corpo
è come se mi permettesse di trovare
una mia dimensione, sentirmi parte
di ciò che mi circonda»
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racconta. «Mi sono detta: “se esiste questo Paese
che ha prodotto tali capolavori, devo restare. C’è
un genius loci che devo assolutamente investigare”.
Non c’è posto più adatto per una storica dell’arte
che ama il suo lavoro e volevo restare per continuare qui i miei studi». E così accade. Approfittando di
un momento di distrazione dei professori, Kinga si
allontana dal gruppo e fa perdere le sue tracce. Per
evitare di essere scoperta, non riprende nemmeno
lo zaino lasciato nel pullman.Va a dormire da una ragazza italiana conosciuta in patria, poi arriva a Roma
in autostop. «Conoscevo la città solo un po’, per via
dei miei studi sul Rinascimento. Ancora oggi ricordo l’odore che emanava, quello dei negozi e delle
strade. Io ero abituata ai casermoni dove gli spazi
erano limitati, qui invece tutto mi appariva diverso
rispetto alla Polonia, più arioso: le porte, le case con
le finestre e i balconi, che da noi erano una rarità».
All’inizio si appoggia in un residence adibito ad
accogliere i primi migranti giunti dall’Est, in via Pagano, al quartiere Aurelio; poi va alla chiesa dei polacchi
di via delle Botteghe oscure. Sono questi i primi due
luoghi della nuova vita romana di Kinga. Il terzo diventa nel giro di pochi giorni un appartamento poco
distante, in via Nostra Signora di Lourdes, in cui abita
una famiglia che la assume come ragazza alla pari.
Ma il rapporto non riesce a decollare: «Lavoravo
sette giorni su sette e dovevo occuparmi della casa
e del piccolo Giulio, di sette mesi. In compenso il
mio visto stava per scadere e non sapevo una parola
di italiano». La convivenza non è facile, anche per la
mancata conoscenza della lingua, che a volte provoca episodi involontariamente comici. Come quando
Kinga regala per errore alla parrocchia dei vestiti che
le erano stati dati perché li portasse in tintoria. Suscitando l’immaginabile ira della “signora”. «Col tempo
mi sono convinta che non poteva andare avanti e
sono riuscita a strappare la domenica libera».
Il sapore di questa ritrovata libertà assume la
veste dei corsi per stranieri alla Società Dante Alighieri, delle visite ai musei capitolini, alla chiesa del
Quo Vadis sull’Appia Antica e poi, col trasloco, della
nuova abitazione in via dei Carpazi all’Eur. Rispettivamente il quarto, quinto, sesto e settimo luogo di
questa “formazione” romana. Oltre all’immancabile
colonnato di san Pietro al quale una sera Kinga, in
vena di ispirazione, dedica una poesia:
Che silenzio / e che solitudine sacra. / Sotto il
colonnato di Bernini la processione scivola, / La
musica ritmica delle fontane, il segnale della luna.
/ Ecco tutta la decorazione di questo momento
santissimo / nel quale - all’improvviso - sono divenuta una sacerdotessa. / La cosa più preziosa che
posso offrire, / raggiungendo in fretta la processione notturna, / è il mio cuore. / Tagliato in due, tre,
quattro parti.
Non si tratta tuttavia di una composizione isolata. Durante il suo soggiorno Kinga resta infatti
talmente affascinata da comporre tutto un ciclo
di poesie dedicate alla città: “Dieci passi”. Un preludio letterario al tema del cammino che avrebbe in seguito costituito il filo conduttore di tutta
la sua ricerca artistica. «Per me Roma era come
una cura, sentivo che guarivo anche mentalmente
dal sistema in cui ero vissuta fino allora. Facevo la
perfetta flaneur, visitavo musei, gallerie, chiese. Mi
bastava camminare e andare in giro per sentirmi
«Ho bisogno di essere circondata
dalla bellezza, una parte di me sta male
se non vede l’arte e il bello intorno»
meglio». Anche se non mancano episodi traumatici,
come quando le scippano la borsa col passaporto
a piazza in Piscinula, a Trastevere (altro luogo citato
nel progetto sulla scoperta della Capitale). «Dopo
quasi un anno e mezzo mi sono resa conto che era
impossibile trovare un lavoro che non fosse di baby
sitter o donna delle pulizie, così ho deciso di lasciare
l’Italia», dice Kinga. Va all’ambasciata americana, ma
trova un rifiuto. Gli amici le consigliano di provare
con quella australiana, ma stavolta è lei a dire di no.
L’unico Paese disposto a investire su questa ragazza
di 24 anni che non ha finito gli studi e conosce a
malapena qualche parole di inglese si rivela il Canada. Un cammino faticoso, reso ancora più duro dal
tempo trascorso nel frattempo: «Ho ricominciato
daccapo gli studi lasciati al tempo della fuga. È stata
dura, ma ce l’ho fatta a laurearmi e a sopravvivere,
grazie anche alle borse del governo canadese per i
giovani artisti. Ho fatto conferenze a New York, Los
Angeles, Philadelphia, Chicago e insegnato a Ottawa, Toronto e Montreal. Ma sempre insegnamenti
a contratto, mai niente di definitivo». L’occasione
di una vita arriva in Florida, con una cattedra di
storia dell’arte in un college: un impiego stabile, un
ottimo stipendio, un ruolo riconosciuto nella comunità accademica locale. Tutto questo però non
basta per far sentire Kinga appagata. «C’era troppa
povertà intellettuale ed era impossibile crescere
professionalmente», spiega. «Dove insegnavo c’era
solo un museo, per così dire, ma non aveva nulla
di originale, solo copie di opere conservate altrove.
Mi stavo inaridendo perché io ho bisogno di essere
circondata dalla bellezza, una parte di me sta male
se non vede l’arte e il bello intorno. Con quello
che guadagnavo potevo permettermi di tornare
ogni tanto per le vacanze e davanti alle sue bellezze immancabilmente mi dicevo: “Ma io devo vivere
qui!”. Era divenuta un’ossessione tale che una volta
un’amica mi ha detto: “Parli sempre di Roma, ma
chi ti ferma? Chi ti tiene qui?”». Parole che arrivano
dritte all’obiettivo. Al punto che dopo una lunga
riflessione nell’estate 2010 la camminatrice si rimette in viaggio.
La scelta, ça va sans dire, ricade su Roma. Un
tuffo all’indietro che la riporta dove tutto era cominciato. E che, come se il blocco artistico fosse
stato rimosso, le fa subito tornare la vena creativa,
sotto forma di innumerevoli progetti. A cominciare
da un libro dedicato all’importanza del cammino
nell’arte: “Post-exilic Walk: the Poetics and Politics
of Walking”. Un capitolo sarà dedicato a Roma e
intitolato significativamente “Vicolo del piede”. E
proprio questa stradina di Trastevere sarà anche il
decimo luogo di “Salty Feet: Passeggiate Romane”, il
video del “vagabondaggio” coi piedi di sale al collo,
che a partire dall’autunno sarà ospitato a Tarnow e
a Cracovia, prima di arrivare a marzo all’istituto polacco di Roma. «Ho già misurato i passi del vicolo:
determinare gli spazi col mio corpo è come se mi
permettesse di trovare una mia dimensione, sentirmi parte di ciò che mi circonda. Forse è inevitabile,
visto che la mia è una storia circolare: dopo tanti
anni sono tornata al punto di partenza», ammette
Kinga. «Ma non è stato un peregrinare inutile, non
sono pentita. Io ho la curiosità di sapere cosa c’è
in profondità e con l’arte ci si può avvicinare. L’arte mi ha salvato. Vent’anni fa come oggi». Proprio
come in un cerchio perfetto, dove la fine coincide
con l’inizio. E non è più possibile distinguere quale
sia l’una e quale l’altro.
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Il gigante
dal cuore
di bambino
fotografie di
Angelo Carconi
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S
i calcola che in Italia siano più di tre milioni
le persone che svolgono attività di volontariato. Un “esercito del bene” che si impegna
senza alcun ritorno per il prossimo: malati, disabili,
categorie svantaggiate o bisognose solo di un aiuto “aggiuntivo”, come i migranti. Tuttavia, anche fra
questi ultimi, c’è chi si dà da fare in prima persona
e ha trovato la propria dimensione proprio grazie
a quest’attività. È il caso di Marin Spinu, che ne ha
fatto la sua ragione di vita. A 49 anni, ne ha passati
15 ad aiutare gli altri, quasi un terzo della sua vita.
Faceva il volontario della Croce rossa in Romania,
poi ha deciso di venire in Italia per stare vicino ai figli. Ma dal momento che non riusciva a “smettere”,
ha chiesto di poter continuare anche qui.
Per quattro anni è stato al San Camillo, adesso lo
si può trovare al pronto soccorso del sant’Eugenio
un paio di volte a settimana, soprattutto la notte.
«In Romania ho lavorato con anziani, bambini,
persone con l’Aids, in un centro per donne maltrattate e devo dire che mi piace dare una mano a
chi ha necessità perché dà un senso più profondo
alla mia vita. E poi quando fai una cosa buona ogni
paura ti sparisce», dice Marin spensierato, quasi
inconsapevole del peso delle sue parole. «In ogni
anziano che aiuto, vedo mio padre; se è una donna,
ci vedo mia madre; se è un ragazzo o una ragazza,
mio figlio o mia figlia. Fra l’altro questo è anche
un modo per vincere la mia naturale timidezza e
aiutarmi ad abbattere le distanze con chi incontro.
Sono alto 1 metro e 86 e peso 110 chili ma ho un
cuore di bambino».
Quella di Marin è quasi una deviazione professionale. Se molti cercano nel volontariato di nutrire un
lato più intimo del proprio essere che non ha modo
di manifestarsi nella vita quotidiana, lui prolunga nel
tempo libero la sua attività lavorativa. Di professione
è infatti operatore del sociale in una cooperativa di
assistenza domiciliare. Un lavoro che spesso lo porta
a “vivere” negli ospedali o a casa dei pazienti. Dove a
volte si trasforma in una sorta di domestico: «Faccio
massaggi, preparo le medicine, cambio i pannoloni
agli anziani ma mi capita anche di preparare per la
cena o fare le pulizie».
Non mancano però momenti in cui da volontario si trasforma in “psicologo”, soprattutto nei
turni in ospedale. Se arriva qualche paziente in gravi condizioni al pronto soccorso, lo porta dentro
con la barella oppure prepara la sala operatoria
se c’è bisogno di un intervento d’urgenza. Ma se
la situazione è delicata, capita anche che esca fuori a parlare coi parenti per tranquillizzarli. «Tutti
mi si mettono intorno, fanno domande e il fatto
che sono romeno non conta più. La gente si fida
«In ogni
anziano
che aiuto,
vedo mio
padre;
se è una
donna,
ci vedo mia
madre;
se è un
ragazzo
o una ragazza,
mio figlio
o mia figlia»
ciecamente e io mi sento utile a poter rassicurare
qualcuno che è in pensiero per una persona cara».
Non è sempre stato così, però. E per vari mesi
fra il 2007 e il 2008, a seguito di fatti di cronaca
nera che coinvolgevano alcuni romeni, come l’omicidio di Tor di Quinto, ha sentito l’ostilità nei suoi
confronti, il clima da caccia alle streghe sorto nei
confronti della comunità romena. «Sono stati tempi duri e quando lavoravo di notte avevo sempre
paura che qualcuno volesse farmi del male perché
eravamo tutti guardati di traverso. Per non correre rischi, allora, quando operavamo all’esterno mi
mettevo sempre la divisa della Croce rossa. Lo facevo per sicurezza, per evitare che qualcuno pensasse che fossi un poco di buono».
L’altruismo di Marin si nutre di una forte religiosità. Una fede vissuta giorno per giorno: nel
rapporto coi malati sul posto di lavoro, durante
il volontariato e anche nelle pause morte, come
gli spostamenti verso Roma. Marin infatti vive ad
Aprilia: fra andata e ritorno, più di un’ora al giorno
di treno. Tempo che lui passa in compagnia delle
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«A volte esco
a parlare coi parenti
per tranquillizzarli.
Allora tutti mi si
mettono intorno,
fanno domande
e il fatto che sono
romeno non conta più.
Mi sento utile
e sono contento
di poter rassicurare
qualcuno che è
in pensiero per
una persona cara»
Sacre scritture. «Porto sempre la Bibbia nella mia
valigetta e la leggo durante il viaggio. A volte la leggo anche ai pazienti, perché medicina e religione
sono “sorelle”: una cura il corpo e l’altra lo spirito,
ma si guarisce solo con tutte e due».
Una soddisfazione umana e professionale, quella di poter essere di aiuto, che talvolta riesce anche
a dare vita a rapporti duraturi, tanto che a distanza
di anni qualche ex paziente ancora lo chiama per
invitarlo a pranzo. In Romania Marin aveva lavorato
anche come guardia giurata ma nonostante il lavoro gli piacesse, fare l’operatore del sociale è stata
sempre la sua passione. Forse anche perché è «l’unico romeno che non sa fare il muratore», come
dice lui scherzando. Ci ha provato per qualche
«Porto sempre la Bibbia
nella mia valigetta
e la leggo durante
il viaggio. A volte la
leggo anche ai pazienti,
perché medicina
e religione sono
“sorelle”: una cura
il corpo e l’altra lo
spirito, ma si guarisce
solo con tutte e due»
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tempo appena arrivato ma ben presto ha capito
che non fa per lui. «E poi il volontariato mi fa diventare più ricco. Chi mi paga? Mi paga il Padreterno».
Un senso di compiutezza che però Marin intende come temporaneo. Almeno qui a Roma, dove
si sente felice ma continua a coltivare il sogno di
ristabilirsi nel suo Paese, magari quando i figli avranno finito di studiare. In attesa di quel giorno, Marin
si sta portando avanti col lavoro e ha appena finito
di costruire una grande casa, che ha inaugurato ad
agosto. Per adesso, però, si accontenta di tornare
un paio di volte l’anno. «E quando scendo dall’aereo, bacio sempre terra», confida. Un’esagerazione?
Nemmeno per idea, secondo Marin: «Non scherziamo. La Romania per me è una cosa sacra».
Una mano per uscire
dall’ombra
fotografie di
Abramo De Licio
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O
gni anno in Romania migliaia di bambini
vengono abbandonati negli orfanotrofi.
Genitori poveri, che non hanno da offrire nient’altro che un’esistenza di miseria e stenti,
pensano in questo modo di sottrarli all’indigenza
e dare la speranza di un futuro migliore ai loro
figli. Una piaga di lunga data, che il crollo del regime di Ceausescu ha risolto solo in parte. Col miglioramento del tenore di vita, infatti, negli ultimi
anni ha preso vita una nuova forma di distacco nei
confronti dei minori: i cosiddetti abbandoni bianchi,
causati dalle migrazioni temporanee delle coppie
che vengono in Italia col progetto di tornare in patria dopo qualche anno. I bambini, considerati un
ostacolo in un nucleo familiare in cui sia l’uomo
che la donna partono per lavorare, vengono affidati a qualche parente, il più delle volte i nonni.
Per combattere questa forma di negazione dell’infanzia, l’Unione europea ha finanziato il progetto
transnazionale “Nessuno può crescere solo”, che a
Roma sarà curato dall’associazione Spirit romanesc
(Spirito romeno). «Prepareremo 20 “mediatori di
50
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«Quando non avevo il permesso
di soggiorno mi sentivo come un’ombra
che girava per la città. Non potevo
uscire dall’Italia, non avevo un’identità,
un valore, non ero niente.
Esistevo e non esistevo»
ne non la ferma: in tasca ha una laurea in ingegneria
automobilistica ed è convinta che nel Paese della
Ferrari, della Lamborghini, della Lancia e dell’Alfa
Romeo non sarà difficile per lei trovare un impiego.
La realtà si rivela però molto diversa. La mancanza
del permesso di soggiorno la rende un irregolare
e la obbliga ai classici lavori da baby sitter o donna
di servizio: «Mi sentivo come un’ombra che girava
per la città. Non potevo uscire dall’Italia, non avevo
un’identità, un valore, non ero niente».
L
comunità”, volontari che svolgeranno opera di sensibilizzazione nelle scuole, in chiesa e nei luoghi di
ritrovo sui diritti del bambino», spiega la presidente Dana Mihalache. «L’obiettivo è favorire il ricongiungimento famigliare, perché per un figlio è uno
shock crescere senza genitori, a loro volta afflitti
da sensi di colpa che non consentono loro di relazionarsi correttamente coi figli. Vogliamo far capire
che i bambini hanno diritto di piangere, ridere e
giocare all’interno della loro famiglia».
Intraprendere la professione di mediatore culturale ha permesso a Dana di chiudere coi classici
lavori manuali e di «usare finalmente il cervello».
Una scelta compiuta, dice lei, «perché so quanto è
difficile l’integrazione se nessuno ti aiuta». Eppure
fino a qualche anno fa non ne conosceva neppure
l’esistenza.
Per comprendere la casualità di questo approdo
e quanto il percorso sia stato accidentato bisogna
tornare al 1996. Finiti gli studi, Dana arriva in Italia
quasi per combinazione: nessuna ragione economica ma solo la curiosità di vedere cosa c’è al di fuori
di Piatra Neam, la cittadina sui Carpazi dov’è nata
e cresciuta. Avrebbe voluto andare in Canada, in
realtà, con l’interscambio organizzato per i ragazzi
più meritevoli dall’università di Braşov, dove lei era
iscritta. Era perfino sulla lista, ma alla fine a partire
sono i figli dei professori, molti dei quali nemmeno
studenti. Così la scelta ricade sull’Italia, dove ci sono
alcuni amici.
«Vai, figlia mia», la incoraggia la madre. «Ti conosco e so che soffriresti a restare, ma ricorda che
se non dovessi trovarti bene puoi tornare in ogni
momento, perché nella nostra casa ci sarà sempre
posto per te». Oggi come allora Dana ancora si
commuove a ricordare quelle parole. Ma l’emozio-
a prima occasione per mettere a frutto gli studi arriva con un impiego in un magazzino che
fornisce pezzi di ricambio alle macchine da corsa.
«Prendevo gli ordinativi, facevo le consegne, andavo al circuito di Vallelunga e al rally di Popoli. Spesso davo anche consigli tecnici», racconta Dana.
Tutti sono impressionati da questa ragazza, per
di più straniera, che si intende alla perfezione di
motori. Gli apprezzamenti fioccano ma dopo un
anno e mezzo, appena chiede di essere regolarizzata, la risposta del datore di lavoro è un calcio
nel sedere. «Sono stata così male che nonostante
amassi tantissimo le macchine, non ne ho voluto
sapere più niente».
Ricominciare daccapo è stata durissima, anche
perché Dana vorrebbe crescere professionalmente ma non ha ben chiaro su quale campo puntare.
Per cercare aiuto, decide di andare dai servizi sociali del suo municipio. «Io presto diventerò cittadina
italiana perché non voglio andare via», spiega a chi
la sta a sentire. «Quindi se non mi aiutate adesso a
trovare un lavoro che mi faccia usare il cervello, un
domani dovrete spendere molti più soldi perché
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impazzirò e mi dovrete mantenere».
Sembra una boutade destinata a finire lì, invece
due settimane dopo, dal municipio la richiamano per
offrirle un lavoro in uno studio legale. «Le piace?»,
le chiede l’assistente sociale che l’ha presa in carico.
«Non conta, l’importante è iniziare», risponde lei.
Il permesso di soggiorno arriva nel 2000, dopo
quattro anni da “fantasma”. «Quando sono tornata per la prima volta, mia madre mi aspettava per
strada, fermava tutte le macchine che passavano
per vedere se dentro c’ero io. Mio padre invece mi
ha detto: “Pensavo di morire senza rivederti più”».
Mancavo da quattro anni e in vita mia non lo avevo
mai visto piangere».
Con la tranquillità che le consente la regolarizzazione, Dana si dedica anima e corpo alla ricerca
di un impiego che finalmente la soddisfi. «Per capire
cosa mi piacesse davvero, ho iniziato a seguire tutti
i convegni che trovavo su internet, dall’agricoltura
all’informatica». La scoperta dell’intercultura arriva
in questo modo, improvvisa come una rivelazione,
con una serie di corsi nel campo della mediazione.
E con la decisione di dare vita alla “filiale” romana
dell’associazione Spirit romanesc, la cui sede principale è a Brescia. Da questo momento, l’obiettivo
della tanto agognata crescita professionale diventa
aiutare i connazionali a integrarsi.
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«Se ci fosse stato qualcuno che avesse aiutato
me, avrei risolto i miei problemi molto più velocemente. Per questo penso che aiutare chi è in difficoltà, specialmente quando si sono già affrontate
certe situazioni, sia fondamentale. Inoltre a volte
c’è una sorta di pregiudizio nei confronti dei romeni e l’associazione, attraverso il suo lavoro, cerca di
attenuarlo».
Spirit romanesc porta nel nome anche la difesa
dell’identità “originaria”. E infatti il primo progetto
approvato, nel 2007, ha riguardato l’istituzione di
corsi di lingua e di cultura romena per i ragazzi di
quattro scuole statali di Roma. Laboratori ai quali
hanno partecipato un centinaio di bambini (diversi
anche italiani) e da cui è nato il gruppo folcloristico
Dor Calator, che promuove le tradizioni popolari
tra i giovani e i membri della comunità romena. Il
successo è stato tale da aver spinto il governo di
Bucarest, attraverso il dipartimento che si occupa
dei concittadini all’estero, a farsi carico del progetto e a finanziare attività di doposcuola e uno sportello di orientamento per i genitori. «Al momento
stiamo facendo una mappatura delle scuole della
provincia di Roma per sapere il numero di romeni
iscritti in ogni istituto».
Nel frattempo per Dana il lavoro continua a essere un determinante fattore di integrazione: «Lavorare in un gruppo misto, come accade a me, ti
fa comportare come un italiano e non come uno
straniero che vive in un altro Paese. Ormai in Ro-
«Per un figlio è uno shock crescere
senza un papà e una mamma.
Vogliamo far capire ai genitori
che i bambini hanno il diritto
di piangere, ridere e giocare
all’interno della loro famiglia.
E che nessuno può crescere solo»
mania mi riesce più difficile parlare la mia lingua che
l’italiano, perché i termini tecnici della progettazione e del lavoro nel sociale li ho imparati qui. Però
non bisogna mai dimenticare la propria origine. Io
dico sempre che sono cittadina italiana di origine
romena. Ho queste due identità dentro e ne sono
fiera. Quindi è importante “comportarsi” da italiani
ma anche mantenere il proprio spirit romanesc».
Fra Trastevere
e San Giovanni,
il paradiso in terra
di Petras
fotografie di
Paola Serino
«Mi piace molto “perdermi” in qualche chiesetta del centro
e sentire la spiritualità che le anima.
Però bisogna andarci la mattina presto o il pomeriggio tardi,
quando non c’è nessuno»
N
ella mente di Petras Siurys c’è una data
che sancisce il suo approccio con Roma e
che tuttora è scolpita nella sua memoria:
il 29 giugno 1993. Petras ha 28 anni e da uno è parroco a Pagegiai, in Lituania. È il suo onomastico e
per la prima volta si trova in Italia. È arrivato con un
gruppo di turisti tedeschi e a piazza san Pietro, in
mezzo a tutta quella gente raccolta in preghiera, gli
pare “di stare in paradiso”. «Quella messa è stata
la più grande festa della mia vita», ricorda adesso.
«Vedere così tanta gente attenta, credente e così
tanti sacerdoti era impensabile per me che venivo
da un Paese appena uscito dal comunismo».
Oggi Petras è rettore del Pontificio collegio lituano San Casimiro, l’istituto fondato nel 1946 dalla
Chiesa cattolica del Paese e dalla Santa sede per
consentire ai seminaristi di scampare le persecuzioni del regime sovietico. Vive stabilmente a Roma da
12 anni e sopra ogni cosa ama le passeggiate solitarie per i vicoli di Trastevere la domenica mattina.
«Quando mi dicono se non è da troppo tempo che
sono qui, rispondo che forse la prima volta ho buttato troppe monetine nella Fontana di Trevi», scherza. Eppure quando è arrivato, quel giorno d’estate
di quasi vent’anni fa, dell’Italia non sapeva granché:
«Quel poco che conoscevo era frutto dei racconti
di due miei insegnanti del seminario, che avevano
modo di viaggiare. Per noi studenti, l’Italia era semplicemente Roma e Roma era il Vaticano, la capitale
della Chiesa cattolica. Una specie di paradiso in terra,
visto che per noi in Lituania, all’epoca parte dell’Urss,
era stata una sfida fare il sacerdote», spiega Petras.
«C’era un timore diffuso di essere perseguitati e di
conseguenza anche la fede veniva nascosta. Anche i
miei genitori avevano paura ma non si sono piegati.
Per dire, nella mia classe io ero l’unico a non essere
pioniere. Non è stato semplice essere cristiani ma
fare il prete era un modo per combattere in modo
spirituale contro il regime».
Una “sfida” intrapresa, prima di lui, da suo fratello
maggiore, più grande di dieci anni. È lui a decidere
di intraprendere per primo la carriera ecclesiastica,
che nel 1995 lo porta in Italia. I racconti su questo
Paese lontano segnano nel profondo Petras, che nel
’99 decide di andare a studiare al Pontificio collegio
lituano. «Sapevo solo poche parole e all’inizio non
volevo nemmeno uscire: prima per imparare bene
la lingua, poi perché erano cominciate le lezioni…».
Al collegio i sacerdoti approfondiscono i loro
studi per conseguire la licenzia o il dottorato. È così
anche per Petras, che dopo tre anni diventa vicerettore. Nel 2007, dopo altri cinque, rettore. E così
adesso la sua esistenza si dipana tutta fra il complesso del collegio, in via Casalmonferrato, a san Giovanni, e l’attigua Villa Lituania, una casa per ferie che può
ospitare fino a 80 turisti. «Ma mi piace molto anche
“perdermi” in qualche chiesetta del centro e sentire la spiritualità che le anima. Per avvertirla davvero,
però, bisogna andarci la mattina presto o il pomeriggio tardi, quando non c’è nessuno».
Altre volte a richiamarlo fuori dall’istituto sono
gli impegni alla fondazione Migrantes della Caritas,
per la quale Petras è coordinatore pastorale della
comunità lituana. Un appuntamento che ogni mese
lo porta a incontrarsi con 13 sacerdoti di tutti i
Paesi del mondo, dall’India alla Cina, dalle Filippine
all’America Latina. «Ci confrontiamo sui problemi
dei migranti dei rispettivi Paesi per trovare soluzioni
comuni, ma devo ammettere di essere abbastanza
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fortunato: in tutta Italia i lituani sono solo 4.000 e a
Roma appena 200, quasi esclusivamente donne. Per
lo più preferiscono l’Inghilterra, l’Irlanda o la Germania. Con ingresso nell’Unione europea, i lituani
hanno risolto la maggior parte dei problemi, legati
soprattutto al rilascio del permesso di soggiorno».
L
e occasioni di contatto coi romani, per quanto
limitate, non mancano: la messa celebrata nelle
parrocchie, dalle suore dell’istituto San Gianelli ma
specialmente le benedizioni pasquali. Una mansione
che in poche settimane permette a Petras di tastare
il polso del “paese reale” più di tante funzioni religiose celebrate dall’altare. «In un giorno si possono
visitare fino a 30-50 case e, per faticoso che sia, devo
ammettere che mi piace “intrufolarmi” dove vivono
le persone, perché consente di conoscere e vedere
da vicino la loro esistenza e i loro problemi. Ma c’è
una cosa in particolare che mi rende felice: vedere
le famiglie riunite, colte in un momento di tepore
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domestico, in quegli stessi ambienti in cui vivono. In
Lituania sono più disperse, può capitare che si mangi
a orari diversi, mentre qui è ancora un rito».
Il tempo è sempre limitato però con gli anni
Petras ha appreso “segreti” importanti: «Se arrivi
all’ora della cena, è meglio non fermarsi troppo.
C’è una forma di gelosia della propria intimità che
dipende anche dall’orario di visita …».
Oltre a una conoscenza più ravvicinata, con le
visite in casa arriva tuttavia anche un’altra verità:
«Pochi aprono la porta della loro casa per davvero
e fare sul serio amicizia non è facile. Nonostante sia
ormai molto che vivo qui, io ci sono riuscito solo
con due o tre famiglie. Sono stato tre anni vicino
Brescia, a Binzago, e lì era diverso, più facile. Da quello che mi raccontano alcuni studenti che vanno a
fare da aiuto parroco in estate, anche in Sicilia è così:
le persone ti invitano a cena e sono più aperte. Trovo invece i romani un po’ chiusi ma forse è colpa
delle grandi dimensioni della città». Un giudizio severo, mitigato però dalla predisposizione ad aiutare
il prossimo: «Vedo che c’è molto volontariato ed è
bello vedere tanta gente impegnata nelle parrocchie.
«Chi prova il caffè italiano non può più farne a meno.
E chi prova quello di sant’Eustachio diventa subito esperto»
Da noi in Lituania non è tanto diffuso, accade solo
per il basket, che è lo sport nazionale. Abbiamo appena ospitato i campionati europei e tutti si sono
dati da fare come volontari. Forse è vero che per i
lituani è una religione “secondaria”», ironizza Petrus.
E proprio il basket per i giovani sacerdoti del
collegio (14 quelli che vi studiano attualmente) è il
principale modo per conoscere i coetanei romani.
Ogni fine settimana, infatti, i “pretini” vanno a giocare alla scuola san Gianelli, a volte fra di loro e da
un paio di anni in qua anche con ragazzi italiani. Nel
2008 hanno anche partecipato alla Clericus cup di
basket. «Quando dici Lituania tutti pensano al basket, eppure sono arrivati quarti», sbuffa sornione il
rettore mentre mostra non senza orgoglio la coppa. «Forse non si sono impegnati abbastanza…»
La pallacanestro è infatti una passione che lo
porta a seguire con attenzione anche il campionato nostrano: «La Montepaschi Siena ha capito
quanto sono forti i lituani, peccato non ce ne siano anche nella Lottomatica Roma». Un “amore”, il
basket, secondo solo a quello per il caffè espresso,
che porta Petras a dispensare consigli: «Chi prova il caffè italiano non può più farne a meno. E
chi prova quello di sant’Eustachio diventa subito
esperto». Proprio come un perfetto intenditore…
O un perfetto italiano.
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A Roma per amore,
l’amore per Roma
fotografie di
Alessandra Quadri
N
ella vita come nella storia accade a volte che,
dopo anni di stasi, le cose prendano un’accelerazione repentina. Un tumulto inimmaginabile capace di far crollare improvvisamente opinioni
consolidate e dispiegare un futuro nuovo e inaspettato. Per Paoulina Tiholova tutto questo è accaduto
nel 1989. È l’anno delle grandi trasformazioni, nell’est
Europa. In estate dall’Ungheria alla Germania est si
propaga un effetto domino che nel giro di pochi mesi
sconvolge un assetto geo-politico decennale e fa crollare le diffuse convinzioni sull’immutabilità del blocco
orientale. Allo stesso modo, la vita di Paoulina sembra
ricalcare in piccolo quest’inatteso sconvolgimento.
Lei ha 33 anni e in Bulgaria è un affermato architetto: insegna Rilievo e composizione all’università
di Sofia e lavora all’Accademia internazionale di architettura, che ha sede nella capitale. In vista dei 50
anni dell’Ordine degli Architetti di Roma, che ricadono proprio in quel fatidico 1989, Paoulina arriva
a Roma per prendere contatto col circolo romano e
organizzare in patria una mostra sul loro lavoro. Senza
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sapere che quel viaggio avrebbe imposto una sterzata
impensata alla sua vita.
«Organizzammo una cena e un collega italiano
invitò un amico e architetto a sua volta, Pietro Reali»,
ricorda lei. Nasce una simpatia reciproca ma il tempo
rema contro. C’è appena la possibilità di passare tre
giorni a Firenze, che Pietro insiste per farle vedere, e
già Paoulina deve ripartire per la Bulgaria. Tutto finito? Nemmeno per sogno, perché tempo due mesi e
l’architetto si presenta a Sofia: «Telefonò e chiese di
potermi venire a trovare. E quando arrivò chiese la
mia mano. Figurarsi, io non pensavo per nulla al matrimonio», ride Paoulina. «Pensavo di essere già andata
troppo avanti con gli anni ed ero convinta che non mi
sarebbe mai capitato di sposarmi».
La decisione non è facile: abbandonare il proprio
Paese, la famiglia, la carriera per un uomo che in tutto
ha visto 21 giorni in quattro volte, per una cultura
diversa e uno stile di vita agli antipodi. «Ho abbracciato l’Italia con coscienza ma ho avuto anche l’aiuto
dei colleghi e amici di mio marito, professionisti molto
affidabili anche dal punto di vista personale, che mi
hanno convinto che era la scelta giusta», ammette Paoulina. «Sotto questo punto di vista, il lavoro è stato
«Ho abbracciato l’Italia con coscienza e il lavoro è stato un fondamentale
elemento di integrazione per me»
davvero un fondamentale elemento di integrazione
per me».
La data fissata per le nozze è l’11 novembre ma
gli avvenimenti internazionali precipitano e stravolgono i piani: il 9 novembre cade il Muro di Berlino e
anche in Bulgaria iniziano i fermenti della protesta. Il
matrimonio va rimandato di una settimana. Slitta una
seconda volta ma alla fine il 25 novembre Pietro e
Paoulina, uniti profeticamente anche nel nome, diventano marito e moglie. Per il “sì” italiano, scelgono il
giorno del loro onomastico: il 29 giugno 1990. In una
città imbandierata all’inverosimile per i Mondiali di calcio, i due architetti, ormai uniti nella vita e nel lavoro,
scelgono una location tutt’altro che casuale: Sant’Ivo
alla Sapienza. Il complesso è in ristrutturazione e i
parenti italiani storcono il naso per la presenza dei
ponteggi nel cortile. «Ma non potevate trovare un
altro posto?», domandano increduli. La risposta di Paoulina dice molto del suo modo di concepire la città
in cui è andata a vivere: «Il significato di quel sito era
più importante di tutto il resto. La cupola, il rovesciamento dei canoni tradizionali operato da Borromini,
le soluzioni architettoniche adottate: per noi rappresentavano qualcosa di meraviglioso».
A vent’anni di distanza, questa concezione “corporea” di Roma è rimasta inalterata: «Sarà una deformazione professionale, ma io amo questa città nella
sua forma più materiale di espressione: gli edifici, chi
li ha fatti, la storia che c’è dietro, la provenienza dei
materiali impiegati. La mia professione gioca un ruo-
lo decisivo in questo, tanto che riesco a estraniarmi
dal traffico e dal rumore quando guardo un palazzo
storico. Ma non è stato sempre così, questo è solo il
risultato di un lungo processo. All’inizio, ad esempio,
non sopportavo il romanesco. Lo trovavo rozzo e
volgare. Col tempo, invece, ho iniziato ad apprezzarlo
e soprattutto a capire la differenza rispetto al romanaccio. Mi sono così resa conto che possiede una tale
ricchezza, lessicale ma anche visiva, nella sua gestualità,
da sentirlo profondamente. Ci sono voluti dieci anni
per farmi entrare Roma nel sangue e amarla in una
maniera inguaribile. E adesso, come c’è il “mal d’Africa”, io ho il “mal di Roma”: quando sono fuori arrivo
a soffrire di nostalgia. E quando ci torno mi dico sempre: “Ecco, sono di nuovo a casa”».
Un amore, quello per la Città eterna, che inevitabilmente si intreccia col lavoro, caratterizzato da
una concezione “integrale” della loro professione
che porta Paoulina e il marito a rifiutare di lavorare
coi privati per non dover scendere a compromessi.
«Preferiamo fare sempre e solo bandi pubblici, così
quando vinciamo possiamo realizzare il progetto nel
modo in cui abbiamo deciso noi. Come è accaduto
a Trastevere per la mensa e l’aula magna di palazzo
Salviati, dove ha sede il Centro Alti Studi per la Difesa,
per il cornicione di palazzo Marina al Flaminio o la
residenza ufficiale dell’ambasciatore degli Emirati ara-
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bi». Fra gli altri progetti realizzati fuori dalla Capitale,
invece, vanno annoverati i musei archeologici a Barumini e Quartucciu, in Sardegna, e un grande centro
congressi a Udine.
L’ARCHITETTO DIVENTA PRESIDENTE E “PRESIDE”. L’amore per Roma e la romanità, tanto forti
da essere un tratto distintivo, non hanno però mai
spinto Paoulina a recidere i legami con le sue origini.
Al contrario, è speculare al mantenimento dell’identità originaria, che l’ha portata alla guida della comunità
bulgara ortodossa. Il luogo di ritrovo è la chiesa dei
santi Vincenzo e Anastasio, in piazza Fontana di Trevi,
una sede prestigiosa considerato che fino alla breccia
di Porta Pia era la parrocchia dei Papi, che risiedevano
al Quirinale. A concedere l’uso della struttura per le
funzioni liturgiche è stato Giovanni Paolo II, che per la
sua provenienza polacca si è sempre mostrato particolarmente sensibile verso le esigenze di culto delle
popolazioni dell’Europa orientale.
«Qui celebriamo battesimi, matrimoni e funerali
ma in giorni e orari ben definiti, perché oltre a noi
nella gestione della chiesa ci sono la comunità cattolica e l’Arciconfraternita di Gesù Maria e Giuseppe e
per le Anime più bisognose del Purgatorio», spiega
Paoulina. «I rapporti sono ottimi con tutti: l’ecumeni-
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«Ci sono voluti dieci anni
per farmi entrare Roma
nel sangue e amarla
in una maniera inguaribile.
E adesso, come c’è il “mal
d’Africa”, io ho il “mal
di Roma”: quando sono fuori
arrivo a soffrire di nostalgia»
smo in pratica lo realizziamo tutti i giorni e per la festa
dei patroni, il 22 gennaio, c’è sempre grande spirito di
collaborazione».
Quello bulgaro è un piccolo mondo geloso delle
sue tradizioni, che si “apre” alla città in concomitanza
con le grandi feste. Come il 6 gennaio, in occasione
della benedizione dell’acqua: un richiamo al battesimo di Cristo nel fiume Giordano che si esprime nel
lancio simbolico di una croce d’argento all’interno
della Fontana di Trevi a scopo purificatorio. O come
il 24 maggio, giorno dei santi Cirillo e Metodio e Festa dell’alfabeto cirillico e della cultura slava, quando
i bambini regalano fiori alle maestre come forma di
ringraziamento per il loro lavoro. E lo stesso accade
anche a Roma, dove da due anni è attiva una scuola di
lingua e cultura bulgara frequentata da una cinquantina di ragazzi e di cui Paoulina è “preside”. Le lezioni si
svolgono il sabato e la domenica nel grande complesso attiguo alla chiesa dei santi Vincenzo e Anastasio:
lingua e letteratura bulgara, storia e geografia della
Bulgaria e un po’ di matematica in bulgaro sulla base
dei compiti scolastici, per imparare i termini tecnici e a
sviluppare un ragionamento in un’altra lingua.
«Quest’anno siamo stati riconosciuti dal ministero
dell’Istruzione pubblica bulgara e così tutti i genitori
che vogliono tornare a casa avranno dei figli con nozioni valide per il loro percorso di studi», dice orgogliosa Paoulina, che alla scuola ha mandato anche le
sue due figlie, che oggi hanno 20 e 16 anni. Per i più
piccoli, invece, c’è l’asilo: racconti di favole della tradizione e piccoli giochi, sempre in bulgaro. Le maestre,
tutte ex insegnanti in patria, sono sei. Un lavoro, il loro,
che si regge unicamente sul volontariato: la scuola infatti mette a disposizione solo un abbonamento all’Atac come rimborso per il viaggio. Paoulina si occupa
invece dell’organizzazione della parte materiale e del
coordinamento di quella didattica: dall’acquisto dei
moduli per l’illuminazione ai tavoli, dai tappetini per i
bambini ai libri, dalla presentazione dei programmi di
insegnamento al ministero dell’Istruzione in Bulgaria
alle gite culturali per Roma. «Lo faccio perché è una
cosa che sento da dentro», dice lei. «Appartengo a
una famiglia che ha sempre partecipato alla vita sociale nel mio Paese: i miei trisavoli hanno sovvenzionato l’eroe nazionale Vassil Lefski contro il dominio
ottomano, mio nonno ha finanziato la realizzazione
dell’ospedale nella sua città natale, l’altro ha donato
una scuola alla propria e ha sostenuto il Partito dei
contadini nel periodo fra le due guerre. Insomma, impegnarmi per la comunità per me è quasi come un
dovere di famiglia». Un dovere, ma al tempo stesso
anche una speranza per il domani: «I giovani sono il
futuro della nazione e questo dipende soprattutto da
come li si educa. Quelli della nostra scuola, in particolare, saranno portatori di due culture diverse ed è
bene che non perdano quella dei loro genitori solo
perché vivono in un Paese diverso. Per questo non
mi stanco mai di ripetere loro di non avere vergogna
della loro origine ma di andare orgogliosi della fortuna che è capitata loro».
L’enclave romena
di Bogdan
fotografie di
Matteo Bastianelli
«Mici, sărmăłuţe, ciorbă de bută… I miei clienti vengono al mio ristorante
perché i prodotti sono come quelli che mangiano in Romania»
L
a piccola Bucarest della Capitale ha trovato
casa a Isola Sacra, fra Ostia e Fiumicino. È qui,
lungo una strada che conduce dritta all’aeroporto, che i romeni di Roma “stanchi” di pasta e
pizza possono ritrovare i sapori della loro cucina
tradizionale: mici (carne di maiale macinata con
spezie), sărmăłuţe (involtini di verza con carne),
ciorbă de bută (brodo di trippa). E ancora: salumi,
peperoni, particolarità come il collo affumicato e
semipreparati che arrivano direttamente dai Carpazi. «Vengono qui perché i prodotti sono come
quelli che mangiano in patria», dice Bogdan Neagu,
un ragazzone di 27 anni alto un metro e 90. Il proprietario è lui, anche se dall’abbigliamento non lo
diresti: indossa t-shirt, pantaloncini e infradito e più
che un ristoratore sembra un turista di ritorno dalla
spiaggia. «Qualche cliente che non mi conosce in
effetti si meraviglia per come sono vestito, ma sono
un tipo informale: è il Bogdan style», sorride. Indica
il miscuglio di generi che arredano il ristorante: le
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sedie da corte reale accanto agli spartani banconi di
legno, le barocche cornici dorate alle pareti e il separé leopardato che introduce al bagno, gli stucchi
leggermente kitsch e il gigantesco leone all’ingresso, fatto arrivare dall’Egitto. «Anche questo è tutto
Bogdan style», afferma orgoglioso.
Prima di venirsi a sedere per l’intervista è passato
a salutare tutte le persone ai tavoli, quelle con cui è
più in confidenza e quelle cui ha rivolto appena un
saluto, come a informarsi se trovano il cibo di loro
gradimento. Una specie di grande famiglia, dove tutti
si conoscono e si riconoscono. E qui Bogdan tira
fuori la prima lezione appresa empiricamente nel
corso degli anni: «Bisogna parlare coi clienti, sempre,
anche se magari non ne hai voglia: i rapporti personali sono tutto e poi molti vengono a mangiare
qui anche per incontrarmi, perché ormai sono come
degli amici. La vera essenza dell’Hanul romanesc restaurant e delle varie attività di Bogdan ruota infatti
intorno a un unico concetto: ricreare a Roma un
pezzetto di patria. Non un modo per ghettizzarsi
e sfuggire all’integrazione, che tutti “vivono” durante
la settimana, ma un piccolo mondo in cui ritrovarsi
per avere un punto fermo anche nel mare magnum
della comunità romena, composta da migliaia di persone. Una minoranza numericamente tanto rilevan-
te da rischiare di essere fin troppo dispersiva. Ecco
allora il senso di un ristorante di cucina tradizionale
e di una macelleria che vende prodotti tipici come
quella che Bogdan ha aperto a Ostia.
Muovendosi in un orizzonte simile, è evidente
quanto i rapporti personali giochino un ruolo fondamentale: «Avevo aperto un altro ristorante a Roma
in via Giolitti ma l’ho dovuto cedere dopo sei mesi
perché non riuscivo a stargli dietro: se andavo là, la
gente non mi trovava qua e perdevo clienti; se restavo
qua, non potevo seguire l’andamento del locale».
Eppure che questo dovesse essere il suo destino non stava scritto da nessuna parte. Un approdo,
come spesso capita nella vita, del tutto fortuito. Con
un percorso iniziato, strano a dirsi, fuori da una discoteca di Acilia.
«Studiavo ingegneria economica a Yasc ma non
avevo abbastanza soldi così nel 2003, a 19 anni, sono
venuto in Italia, dove c’era mio zio. Ho iniziato a lavorare in una ditta di mobili a Pavona e dopo sei mesi
sono diventato capo magazziniere. Non bevevo, non
fumavo, non avevo una ragazza: in pratica non avevo
spese. Mangiavo e dormivo soltanto e ho iniziato a
mettere da parte un po’ di soldi.Volevo fare qualcosa,
ottenere quel che non avevo potuto avere, anche se
non avevo ancora le idee ben chiare». Aiutato anche
dalla sua stazza Bogdan, che in Romania ha praticato
kickboxing, nel fine settimana va a fare il buttafuori in
alcuni locali e con la sua intraprendenza inizia a farsi
conoscere. «All’epoca non c’erano tanti posti per i
romeni, giusto qualche bar a Ostia e allora ho iniziato
a organizzare serate in un ristorante di Acilia: karaoke, musiche tradizionali, feste a tema… Ogni sabato
aumentava la gente, tanto che a un certo punto mi
sono detto: “ma invece di far guadagnare gli altri, non
la posso fare da solo questa cosa?”».
Il risultato è la nascita della discoteca “Faraon”,
un ex pub che presto diventa un riferimento per
i romeni della zona. «Ormai è diventato un punto
d’incontro tale per la comunità che qualcuno trova
perfino lavoro».
Il “menu” offerto è grosso modo lo stesso già collaudato ad Acilia, con party tematici il sabato e serate
per donne la domenica, quando il Faraon torna a essere un pub. Per arricchire l’offerta, Bogdan a volte fa
venire perfino dj e cantanti direttamente da Bucarest.
Non tutto fila sempre liscio però. «Il fatto che fosse il locale di un romeno frequentato quasi esclusivamente da romeni ha attirato molti controlli, tanto
che mi hanno chiuso il locale due volte: una perché
hanno trovato un ragazzo che fumava una sigaretta,
un’altra per una rissa all’esterno. Ho commesso degli
sbagli ma nessuno nasce imparato e col tempo ho
capito come si fa questo mestiere. Oggi sono molto
più attento e anche la polizia alla fine ha compreso
che è un posto tranquillo, frequentato da gente che
lavora tutta la settimana e che pensa solo a divertirsi».
Un risultato che è anche merito degli sforzi per
mostrarsi al di fuori di ogni sospetto. Dopo diverso
tempo, infatti, Bogdan incontra in un ristorante il poliziotto che gli ha chiuso il locale. Anziché fingere di
non vederlo, lo va a salutare e si ferma a chiacchierare con lui. «All’inizio mi ha guardato un po’ strano
perché non capiva per quale ragione volessi parlargli.
Pensava che nutrissi del risentimento, invece gli ho
spiegato che ero lì proprio per mostrargli che non
avevo niente contro di lui personalmente».
Gli affari vanno bene e dopo qualche anno Bogdan può estendersi anche in un edificio adiacente,
occupato da una società di catering che lavora per
l’aeroporto. Lo ristruttura tutto e lo trasforma in ristorante. «Prima che lo prendessi era una mezza
baracca, io l’ho fatto rinascere e adesso mi rendo
conto che anche se volessi non lo potrei mai lasciare perché ci sono troppo affezionato. Ho nel cuore
tutti i miei locali».
C
omplessivamente Bogdan dà lavoro a venti persone: due in macelleria, cinque nel ristorante e
tredici in discoteca fra buttafuori, camerieri, barman
e dj. Attività che richiedono una mole di impegni che,
com’è facile immaginare, gli lasciano pochissimo tempo a disposizione. «Vado a letto alle 3 e mi sveglio
tutti i giorni alle 7. Il fine settimana dormo ancora
meno perché torno sempre a casa all’alba. E il lunedì
che il ristorante è chiuso è dedicato a tutto il resto:
banca, commercialista, ordinativi… Ma il lavoro non
mi spaventa: ci sono abituato, fin da bambino. Sono
cresciuto coi genitori di mia madre, che ho perso a 12
anni, e quando sono venuti e hanno visto tutto quello
che faccio, mia nonna si è preoccupata: “Troppe cose
per una testa sola”, ha detto. Mio nonno, invece, è
un uomo di poche parole e si è limitato a dirmi: “Vai
sempre avanti, non ti fermare mai”. Si vedeva che erano orgogliosi e commossi. Ho cercato di convincerli a
stabilirsi qui ma questo non è un posto per loro. Sono
contadini e hanno le loro vite e la loro mentalità».
Seguendo l’insegnamento del nonno, Bogdan va
avanti ostinato. Grazie anche all’aiuto di Mihaela. L’aveva presa quando era appena sedicenne a lavorare
in discoteca come cameriera. Lei l’ha conquistato e
un anno e mezzo fa lo ha reso padre di Stefania, che
ha stravolto dolcemente tutti i piani. «Quando sono
arrivato in Italia volevo solo lavorare. Pensavo: vado,
resto qualche anno, metto da parte un po’ di soldi
e poi torno a casa. Ho continuato a pensarla così a
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lungo, perché questo Paese per me è una seconda
patria ma dentro ho sempre la Romania. Dopo che
mi è nata la pupa non lo so più e in parte ho cambiato idea. In fondo lei è italiana… Insomma, il mio
futuro resta un punto interrogativo».
L’unica certezza resta il lavoro. «Nessuno mi ha
mai regalato niente nella vita: sono cresciuto senza
genitori, faticando per ogni cosa che ho avuto e voglio che mia figlia non debba mai passare quello che
ho dovuto passare io. Sono quattro anni che non
vado in ferie e l’ultima volta è stato per una settimana soltanto. Mihaela invece vorrebbe tanto andare a
Parigi, me lo ripete in continuazione…»
Finora Bogdan ha sempre resistito. Forse adesso
che c’è anche la piccola Stefania prima o poi cambierà idea anche su questo.
«Volevo restare
in Italia solo
qualche anno.
Pensavo: vado,
resto qualche
anno, metto da
parte un po’
di soldi e poi
torno a casa.
Dopo che mi è
nata la pupa non
lo so più, in fondo
lei è italiana…
Il mio futuro
resta un punto
interrogativo»
Ballando sulla
cortina di ferro
La vita spericolata di Jitka,
di qua e di là dal Muro
fotografie di
Marco Baroncini
T I T O L O
P R O V V I S O R I O
D E L
81
L I B R O
L
a primavera di Praga, Dubcek, il sogno del socialismo dal volto umano. Breznev, l’ultimatum,
i carri armati sovietici. Le trattative, le ricerche
in piena notte, la fuga. Vienna e Zurigo, Monaco e
Londra, Parigi e Roma. Il Kgb, l’ambasciata, l’esilio. Il
poeta Ripellino e Rossana Rossanda, Giorgio Albertazzi e Gabriele Lavia, Craxi e Berlinguer. Jitka
Frantova sfoglia l’album dei ricordi sul terrazzo del
suo attico a due passi dal Pantheon. Memorie lontane ma più vivide che mai nella mente, come una
ferita ormai rimarginata che però inesorabilmente
riporta alla memoria ciò che è stato. Racconti di un
altro mondo, dove la vita quotidiana si incrocia con
la storia e la geopolitica. Un romanzo d’avventura
fatto di frontiere e controlli di polizia, avvertimenti
e minacce, spie e pacchi bomba. Migliaia di chilometri macinati da una parte all’altra della cortina di
ferro “a cavallo” di una 600 Fiat rossa fiammante,
facendo leva solo sulla temerarietà della propria
giovinezza. Come quella che spinge una giovane
attrice a restare nella Praga invasa dai tank russi
82
T I T O L O
P R O V V I S O R I O
D E L
L I B R O
per non dover rinunciare al ruolo da protagonista
in un musical.
Anni che Jitka ha passato accanto a un nome di
punta del dissenso cecoslovacco: Jiri Pelikan, esponente di primo piano del Partito comunista e giornalista di successo, amico personale di Ernesto Che
Guevara e protagonista della Primavera di Praga,
poi “traditore”, europarlamentare del Psi e attivista
per i diritti umani. Un marito famoso ma anche
riconoscente, che poco prima di congedarsi per
sempre dal mondo lascia un biglietto alla donna
che l’ha accompagnato in mille traversie: «Ho fatto
cose di cui vado fiero e altre meno, ma i momenti
più difficili li ho vissuti con te. Grazie per avermi
permesso di superarli a testa alta».
«Abbiamo avuto insieme una vita piena, anche
difficile ma di certo non noiosa», ammette Jitka
dall’azzurro profondo dei suoi occhi. «Sono stata
la prima attrice in assoluto a essere licenziata dal
teatro di Praga per motivi politici: mi hanno vietato
di svolgere qualsiasi attività artistica in Cecoslovacchia perché ero la compagna di un “rinnegato”.
Sono perfino stata condannata in contumacia a tre
anni di prigione. Ma non ho quasi mai avuto pau-
stroncare le riforme avviate all’inizio dell’anno dal
ra di nulla, per carattere. Credo che non si debba
nuovo segretario del Partito comunista, Alexanaver timore di niente e di nessuno, altrimenti non
der Dubcek. È l’applicazione della dottrina Brezsi va da nessuna parte. Tutto quello che ho vissuto
nev: l’approdo al socialismo non è un processo
lo considero “un archivio” perché sono abituata a
reversibile e i Paesi fratelli hanno il diritto-dovere
guardare sempre avanti».
di intervenire per impedire che
Nel 2008 le peripezie rocamuna nazione amica si allontabolesche di quel periodo Jitka le «Saremmo potuti tornare
ni dalla “retta via”. Fra i primi a
ha portate su un palcoscenico in patria dopo il 1989
dover essere arrestato, secondo
con La mia Primavera di Praga. Alla ma non lo abbiamo fatto
prima al teatro India di Roma, con perché non si può sempre la lista nera stilata da Mosca, c’è
proprio Pelikan, presidente della
la moglie Clio, c’era anche il pre- ricominciare daccapo.
commissione Esteri del Parlasidente Giorgio Napolitano, che Lasciare questo Paese
mento e direttore generale della
ha concesso allo spettacolo l’Alto sarebbe stato un nuovo
televisione di Stato, che ha porpatronato. «È venuto a trovarmi esilio»
tato nelle case dei cecoslovacchi
in camerino ed era visibilmenil nuovo vento di cambiamento. Una cosa impente commosso», dice Jitka, che per il suo impegno
sabile per Breznev, che per questo considera la tv
ha ricevuto dal Capo dello Stato l’onorificenza di
di Praga il “centro della controrivoluzione”.
commendatore della Repubblica.
Jitka all’epoca è una giovane attrice emergente:
È un romanzo, quella dei coniugi Pelikan, che
bellissima e affascinante, lavora a teatro in patria
merita di essere raccontato.
e per la tv tedesca, dove è un volto noto. «Mio
marito considerava il ’68 l’anno più felice della sua
IL CROLLO. La loro storia fuggiasca inizia quanvita, perché finalmente si realizzavano quegli idedo tutto finisce. Nell’agosto del 1968 l’Unione
ali in cui aveva creduto fin da ragazzo ma tutto
sovietica invade la “sorella” Cecoslovacchia per
«Sono stata la prima attrice in assoluto
a essere licenziata dal teatro di Praga
per motivi politici: mi hanno vietato
di svolgere qualsiasi attività artistica
in Cecoslovacchia perché ero
la compagna di un “rinnegato”.
Sono perfino stata condannata
in contumacia a tre anni di prigione.
Ma non ho quasi mai avuto paura
di nulla, per carattere. Credo che
non si debba aver timore di niente
e di nessuno, altrimenti non si va
da nessuna parte»
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precipitò con l’invasione. Io ero a Vienna in quel
momento e quando ho sentito la notizia ho capito subito che era tutto finito. Sapevo che rischiava
e ho cercato di mettermi in contatto con lui per
convincerlo a scappare ma non c’era verso: le comunicazioni erano interrotte e lui era fuggito da
casa».
E qui iniziano le peregrinazioni di Jitka con la
sua 600 rossa, che ne diverrà l’inseparabile coprotagonista di questa storia avvincente. «Ho
fatto la spola con Monaco per cercare di avere
qualche informazione. Dirigenti della tv austriaca
mi hanno perfino convinta a nascondermi in un
convento di suore perché avevano saputo che
Vienna si era riempita di spie del Kgb e che anche
io ero a rischio».
I due riescono a incontrarsi nella capitale austriaca ma i problemi non sono risolti: Breznev
vuole la testa di Pelikan. Dubcek, formalmente ancora al potere, lo vorrebbe all’Unesco ma i russi
si oppongono. La decisione cade sul Continente
nero ma Jitka, nel frattempo tornata a Praga, si
oppone alla decisione e riesce a convincere i vertici del partito a mandare il marito all’ambasciata
di Roma come consigliere culturale. «Il presidente
dell’Assemblea nazionale, Josef Smrkovsky, non
capiva perché ci tenessi tanto. “Senti, bambina, io
firmo ma tu non hai capito proprio niente. L’Africa è il miglior continente del mondo”, mi disse.
“Sei tu, compagno, che non hai capito niente”, gli
risposi. “Io sono un’attrice, come potrei recitare
lì?”. Sapevo comunque che non sarebbe stato facile neanche in Italia: non conoscevo nemmeno una
parola di italiano».
Arrivati a Roma, Jiri e Jitka vanno a vivere in un
brutto albergo sulla Flaminia pagato dall’ambasciata ceca, tenuti d’occhio con sospetto. «Sembrava
di essere tornati ai tempi bui dello stalinismo: lì il
vento della primavera di Praga non era arrivato.
Volevano darci una casa ma avevamo scoperto
che il portiere segnava tutti gli spostamenti degli
inquilini ed eravamo certi fosse un collaboratore
della polizia politica. Così dopo un po’ ci siamo
trasferiti in un bellissimo appartamento in via
dei Villini, sulla Nomentana, che ci aveva aiutato
a trovare il poeta e nostro amico Angelo Maria
Ripellino».
Il lavoro di attrice intanto continua, anche se
le condizioni si sono fatte più difficili. Per un anno,
grazie a un passaporto diplomatico, Jitka attraversa senza problemi le frontiere e fa avanti e dietro
con Praga, dove a teatro è protagonista in un musical, e la Germania, dove lavora in tv. Una passione tale, quello per la recitazione, da farle correre
anche dei rischi: «Attraversavo la città ogni giorno
in mezzo ai carri armati russi e quando qualcuno
mi diceva di andarmene il prima possibile ripetevo: “Ho lo spettacolo da finire, come faccio?».
IN ESILIO. Sono mesi difficili. La doccia fredda
arriva a un anno esatto dall’invasione, il 21 agosto
1969. La situazione in Cecoslovacchia è decisamente cambiata: Dubcek è stato destituito e al
suo posto è subentrato Gustav Husak, un esponente della vecchia guardia che ha archiviato le
riforme, bandito ogni forma di dissenso e imposto
di nuovo il ferreo controllo del partito sulla società. È la “normalizzazione”, con cui il regime finisce
di regolare i conti ancora in sospeso. «Eravamo in
vacanza a Ischia e arrivò una telefonata dell’ambasciata con cui comunicavano a Jiri che doveva
immediatamente rientrare a Praga. Era evidente
che lo avrebbero arrestato».
L’unica condizione che Pelikan riesce a strappare
è finire le vacanze pattuite più un mese per completare il passaggio di consegne al suo successore e
salutare i colleghi a Roma. È solo un espediente per
prendere tempo in attesa di decidere cosa fare,
ma funziona. Inizia una peregrinazione continua
che porta la coppia a Torino, dove Jiri ha un amico
con cui si vuole consigliare. Poi a Basilea dall’economista ed ex vicepremier Ota Sik, l’ideatore delle
riforme della Primavera di Praga, anche lui riparato
all’estero dopo l’invasione. Infine di nuovo a Roma.
E qui, proprio come in un film poliziesco, i due organizzano la messa in scena perfetta: per dare l’impressione che stanno davvero tornando a Praga,
fanno portare via tutti i mobili per nasconderli in
un magazzino. E per non destare sospetti lasciano
perfino una lettera di addio al proprietario e, come
forma di ringraziamento per l’ospitalità, un vaso di
cristallo. I funzionari dell’ambasciata vorrebbero
accompagnare Pelikan in aeroporto ma lui ancora
una volta riesce ad averla vinta: andare in auto con
la moglie. «Il viaggio è lungo e ho paura a mandarla
da sola», spiega.
In realtà a Praga i due non arriveranno mai. La
destinazione della fuga è Londra. Come si capisce
qualche giorno dopo, quando il Times pubblica un
suo lungo intervento: “Ecco perché non torno nel
mio Paese”, una dura requisitoria contro Mosca
e la nuova dirigenza del Partito comunista. «Non
scelse l’esilio per paura o comodità ma per continuare la sua battaglia per la libertà», puntualizza
Jitka che nel frattempo, ironia della sorte, nonostante il momento tragico deve volare in Germania per uno spettacolo di varietà in televisione.
I problemi però non sono risolti, perché non
hanno ancora deciso dove trascorrere l’esilio.
«Mio marito voleva restare a Londra, avevamo
perfino due passaporti britannici immediatamente a disposizione. “Qui potrei solo morire”,
gli dissi. Allora stilò una lista dei potenziali Paesi,
con un’accurata analisi dei vantaggi e degli svantaggi per ciascuno di noi in base a vari fattori: lingua, opportunità di lavoro, contatti, amicizie... Lui
avrebbe potuto vivere in qualunque Paese, per
me quello più vantaggioso era la Germania, mentre l’Italia era il meno favorevole sotto tutti i punti
di vista. Forse Jiri avrebbe preferito Parigi per la
padronanza del francese e le sue conoscenze ma
io volevo tornare a Roma: non so spiegare il perché ma il mio cuore era già qui».
«Sono sempre più convinta che io e
mio marito avremmo potuto vivere
in qualunque Paese del mondo, ma da
nessuna parte saremmo stati felici come
in questa città»
Rientrano nella Capitale, ma adesso i Pelikan
sono senza un alloggio. Ancora una volta, come
già l’anno prima, li aiuta il poeta Angelo Maria Ripellino. La soluzione però non è delle migliori: una
stanza nella casa della vedova di un anarchico. Un
bugigattolo con un materasso sfondato al centro
e peraltro vicino all’ambasciata cecoslovacca.
I primi mesi Jiri e Jitka li passano lì dentro: lui
in un angolo alle prese col suo primo libro, lei in
quello opposto a studiare le 360 pagine di sceneggiatura di un serial per bambini della tv tedesca. Un giorno di dicembre li va a trovare la fondatrice del Manifesto, Rossana Rossanda, incredula
per quel che vede: «E voi pensate di trascorrere
il Natale qui dentro? Ma siete pazzi?», chiede loro.
La giornalista sta andando per le vacanze a Parigi
e così mette a disposizione la sua casa ai Parioli.
«L’unica condizione era che ci dovevamo occupare del suo gatto», ride Jitka. «Non abbiamo mai
dimenticato la sua generosità, perché per noi in
quel momento era come un miracolo. Non sono
stati anni facili: avevamo perso tutto, non avevamo lavoro, casa, i documenti erano scaduti e ci
avevano perfino tolto la cittadinanza. Ma eravamo
circondati dal calore umano degli italiani».
L’INTERDIZIONE. La coppia sopravvive grazie
anche al lavoro di Jitka, nonostante le difficoltà di
andare avanti con un permesso di soggiorno rinnovato ogni tre mesi e la necessità di un visto per
ogni trasferta all’estero. Praga sa che per far tacere
Pelikan è necessario fare terra bruciata attorno alla
moglie e proprio per questo è sulla sua attività che
si concentrano le pressioni politiche. È una vera
e propria escalation: prima proibiscono agli attori
connazionali di lavorare con lei all’estero, poi diffidano l’autore ceco che le scrive i testi per la tv
tedesca. Il caso assume dimensioni sempre più delicate e nel ‘72 dopo il successo dello sceneggiato
Antonia la Forca, tratto da un racconto di Egon Erwin Kisch, il regime decide che è ora di finirla: «La
polizia politica cecoslovacca cominciò a ricattare i
funzionari della ARD, il primo canale televisivo, fino
a convincerli a non farmi più lavorare. Ci riuscirono:
mi cancellarono all’improvviso quattro programmi
e persi il lavoro».
Per Jitka, obbligata all’inattività in patria e ora an-
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che all’estero, è la fine. Anche perché non conosce
abbastanza bene l’italiano da ottenere una parte.
«È stato terribile, iniziavo a star male di salute e
pensavo di impazzire», sospira lei. L’unico a mostrare coraggio è un regista ceco in esilio a Colonia, che le affida un piccolo programma radiofonico
dedicato alla storia di Praga. Intanto, approfittando
della sua capacità nel disegno - che in passato l’ha
portata a disegnarsi da sola i costumi di scena si dà alla moda. Con un’amica comprano i tessuti,
mentre una sarta cuce i vestiti prendendo Jitka a
modello. Gli abiti vengono poi mostrati nel giro
delle conoscenze, in piccole sfilate fatte in casa. Il
successo è tale che le confezioni, tagli unici realizzati su misura per le acquirenti, vengono acquistate
perfino in Austria, Francia e Germania.
Nel frattempo il clima attorno a Pelikan non
migliora e cominciano ad arrivare nel loro appartamento lettere anonime, minacce, ritagli di giornali
raffiguranti cadaveri e articoli sugli attentati delle
Brigate rosse. Poi, dal momento che la pressione
psicologica non ha effetto, perfino un pacco bomba nascosto in un libro. Dopo anni di “anonimato”,
tuttavia, la vicenda di questo esule inizia a trovare
sponda politica: «Quando arrivammo mio marito
contava molto sull’appoggio del Partito comunista
italiano, che aveva condannato ufficialmente l’invasione di Praga. Scrisse lettere a Berlinguer, Segre,
Achille Occhetto ma non ebbe mai alcuna risposta. L’unico aiuto politico lo trovò nel Psi di Bettino
Craxi, che finanziò anche la sua rivista Listy, diffusa
clandestinamente a Praga».
Nel 1977 i coniugi ottengono la cittadinanza
e due anni dopo per Pelikan arriva la candidatura
alle prime elezioni per il Parlamento europeo. «Il
segretario socialista, grazie al suo coraggio politico e personale, capì l’importanza di portare a
livello internazionale la voce dei Paesi oppressi»,
afferma Jitka. Risultato: 130.000 preferenze e la
conquista del seggio a Strasburgo. In una vignetta su Repubblica Forattini raffigura l’elezione del
dissidente cecoslovacco da par suo: una penna
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«Ho una vita
ricchissima tanto
da non avere
quasi il tempo
di respirare.
Sto recuperando
per tutti gli
anni che sono
stata costretta
all’inattività»
stilografica marca Pelikan che schizza inchiostro in
faccia a Breznev e forma una macchia a forma di
garofano, simbolo del Psi.
LA RINASCITA. Miracolosamente il disgelo inizia
anche per Jitka, che in Germania e Austria negli
anni Ottanta torna sulla cresta dell’onda. Ma stavolta a teatro: Berlino, Colonia, Monaco, Francoforte, Vienna. Gli spettacoli si susseguono senza sosta:
L’affare Makropulos, Sunset Boulevard, Jedermann di
von Hofmannsthal… E a ridosso del fatidico ’89 le
porte si aprono anche in Italia. Merito del dramma
Maria lotta con gli angeli di Pavel Kohout, esponente
di Charta 77 in esilio a Vienna, ispirato alla vicenda
(vera) di un’attrice cecoslovacca, fra l’altro docente
di Jitka, cui era stato vietato di lavorare per motivi
politici. «Quando l’ho letto sono rimasta folgorata
e ho pensato subito a Giorgio Albertazzi». Lei in
realtà non lo conosce nemmeno, ma approfitta di
un suo spettacolo per andarlo a trovare in camerino e proporgli la sceneggiatura. Il progetto alla fine
va in porto, anche se non mancano i problemi tecnici: l’ambientazione è a Praga ma le riprese vengono effettuate a Trieste e Lubiana per l’impossibilità
di girare nella capitale ceca. Le difficoltà, anche politiche e finanziarie, non intaccano tuttavia la convinzione dei partecipanti: «Vivevamo il film come
una missione. Volevamo fare luce sulla situazione di
quegli artisti che non potevano recitare e sul set
c’era un’atmosfera davvero particolare».
Nella sua regia Albertazzi opta per il lieto fine,
facendo trionfare il bene. Gli angeli del potere va in
onda su Raidue all’inizio del 1989. Incredibilmente e inaspettatamente dopo qualche mese cade il
Muro di Berlino.
Da quel momento tutto subisce un’accelerazione improvvisa e dopo anni di purgatorio, Jitka torna
finalmente a calcare l’amato palcoscenico. Anche
dove prima non c’era mai riuscita, come in Italia, o
in patria, dove viene finalmente riabilitata. Dopo la
“rivoluzione di velluto”, che abbatte pacificamente
il regime, con Albertazzi porta il film al festival cinematografico di Karlovy Vary. A Roma debutta con
Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello per la
regia di Mario Missiroli insieme a Gianrico Tedeschi,
Gabriele Lavia e Monica Guerritore. Poi arrivano
Il giardino dei ciliegi di Cechov, sempre con Lavia
(«uno dei più bei lavori della mia vita», ricorda Jitka) e Lettere ad Olga, una serata d’onore per il presidente Vaclav Havel al teatro Argentina, sempre
con Albertazzi. «Mi girava la testa, finalmente po-
Makenoise
l’arte libera
che fa
rumore
tevo lavorare anche nel Paese in cui vivevo. Parlare
una lingua e recitare sono due cose diverse: c’è la
difficoltà di pensare, sentire, amare in italiano e per
me ancora oggi è difficilissimo e richiede mesi di
preparazione. E poi la concorrenza è molto forte:
un ospite ha dei privilegi e i suoi errori sono accolti
con un sorriso; un rifugiato politico ha le spalle scoperte, non può contare sulle referenze di nessuno
né può dimostrare nulla dei suoi precedenti spettacoli. Ci vuole un duro lavoro per farcela».
Dopo aver promosso uno scambio culturale fra
l’Italia e la Repubblica ceca, nel 2004 Jitka riesce anche a portare al Teatro Nazionale di Praga Venditore d’anime di Alberto Bassetti e Memorie di Adriano,
in cui interpreta l’imperatrice Plotina. «È stata una
grande emozione, dopo tanto anni, tornare in scena nella mia città e per di più recitando in italiano
al fianco di Giorgio Albertazzi».
Oggi le “acrobazie” dei tempi della guerra fredda sono un ricordo lontano. Jitka però continua
a cercare di realizzare i suoi sogni: «Ho una vita
ricchissima tanto da non avere quasi il tempo di
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respirare. Sto recuperando per tutti gli anni che
sono stata costretta all’inattività», scherza.
Oggi recita in tre lingue e porta avanti tre spettacoli contemporaneamente: Sunset Boulevard al
Teatro Nazionale di Brno, La mia Primavera di Praga
in Italia e uno spettacolo di tango argentino a Monaco. Proprio il tango, da sette anni, è infatti l’ultima
passione di Jitka, che ha sempre amato e praticato
la danza: «È come un virus, che non conosce vaccinazione né medicazione».
Dalla strada giunge il vociare delle comitive dei
turisti, l’intercalare dei negozianti, i campanelli di
qualche bicicletta di passaggio. Sullo sfondo, Roma
respira. In questa lunga cavalcata, a ben vedere l’unico punto fermo è proprio l’attico vicino al Pantheon. «Saremmo potuti tornare in patria dopo
il 1989 ma non lo abbiamo fatto perché non si
può sempre ricominciare daccapo: sarebbe stato
un nuovo esilio», ammette Jitka. «Ormai le mie
vere amicizie le ho qui, la mia patria è l’Italia, in Repubblica ceca mi sento ospite. E soprattutto sono
sempre più convinta che aveva ragione Jiri quando
diceva che avremmo potuto vivere in qualunque
Paese del mondo ma da nessuna parte saremmo
stati felici come in questa città».
M
akenoise è un’associazione culturale indipendente
che ormai da qualche anno riunisce giovani autori:
artisti, fotografi, registi, scrittori desiderosi di misurarsi con le sollecitazioni del tempo e della città in cui vivono
e lavorano. Un’officina culturale e luogo di confronto dove poter sperimentare linguaggi inediti che
facciano presa sulla straordinaria varietà del visibile e del reale, del sommerso e del virtuale.
L’ambizione è quella di restituire i mille volti con cui il presente si mostra senza ammorbidirne i contrasti, sottolineandone le contraddizioni per poter meglio illuminare le potenzialità nascoste, la bellezza
spesso confinata nelle zone d’ombra.
L’intento è di documentare, anticipandoli, i processi sociali e umani in atto, cercando di cogliere il
lato positivo e meno scontato del fenomeno, le sue evoluzioni e prospettive future mescolando i saperi
e sperimentandoli sul campo.
Makenoise realizza progetti multimediali a carattere socio-culturale, raccogliendo attraverso uno
sforzo collettivo e partecipato, arti visive, giornalismo e scrittura creativa. Con il contributo di ognuno,
cioè un apporto costante in termini di fantasia e curiosità, si possono raggiungere obiettivi impensati e
perseguire finalità di largo respiro interrogando le coscienze, suscitando emozioni, parlando chiaro e a
tutti. Nessuno escluso.
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il romanzo
virtuale tutto
da scoprire
U
na guida multimediale ed interattiva sul web per navigare tra le immagini fotografiche, le video interviste
e le storie di vita di uomini e donne, stranieri comunitari, che vivono e lavorano nella Capitale.
Uno spazio multimediale in cui dare corpo e voce al loro passato e al loro presente, per ricostruire
un percorso, come tanti tasselli di un unico mosaico che dalla Bulgaria alla Lituania, dalla Romania alla
Polonia, dall’Ungheria alla Repubblica ceca, li ha portati fino a Roma. E li ha fatti diventare “Romani
d’Europa”.
Una produzione Makenoise
Hanno fotografato
Marco Baroncini
Jean-Marc Caimi
Manolo Cinti
Abramo De Licio
Paola Serino
Fotoreporter, rappresentato
dall’Agenzia Corbis Images.
Si occupa principalmente di
tematiche sociali. Collabora
con varie testate, anche
internazionali (New York Times,
El Pais, Le Monde, Der Spiegel,
Espresso, Corriere della Sera,
A, Vanity Fair). Realizza, con il
supporto di ong e associazioni
umanitarie, progetti di
documentazione su emergenze
umanitarie in diverse aree del
mondo (Sudan, Haiti, India,
Palestina, Sudafrica, Guatemala,
Romania). I suoi lavori hanno
dato luogo a numerose
mostre e pubblicazioni di libri
fotografici.
Fotografo per l’agenzia
americana Redux, si occupa
principalmente di reportage
umanitario. Ha lavorato,
fra l’altro, per Il Manifesto,
XL di Repubblica, Le Monde
Diplomatique, Terra, Panorama
Economy e Rockstar. Oltre
che per magazine internazionali
in Canada, Svezia e Germania.
Ha vinto il premio della giuria
alla Biennale di Alessandria
ed è stato selezionato
dal World Photography
Award 2009. È docente
di fotografia a Roma per
un corso dedicato a migranti e
rifugiati.
Nasce come fotografo freelance,
collabora con le maggiori
testate italiane ed estere e
produce corporate per varie
aziende italiane; sempre attento
alle tematiche sociali, realizza
progetti artistico-culturali
esposti in location istituzionali
di prestigio e raccolti in varie
pubblicazioni, come “Il Prezzo
della Libertà” e “Coraggio
si ricomincia”. Dal 2008 si
occupa di video istituzionali, di
documentazione e sociali.
Nato a Roma il 14 febbraio
1980, dove attualmente vive.
Nel 2006 ottiene il diploma di
Fotografia all’Istituto Europeo
di Design e inizia a lavorare
per agenzie fotogiornalistiche
italiane, pubblicando i suoi lavori
sui più importanti quotidiani
nazionali. Nel 2009 decide di
diventare fotografo freelance
producendo reportage sociali,
politici ed economici per
magazine. Durante questi anni
è stato presente con i propri
lavori a mostre nazionali e
internazionali.
Vive e lavora a Roma. Studia
presso il Centro Sperimentale
di Fotografia “Ansel Adams”
e segue stage con Leonard
Freed, Michael Ackerman e
Anders Petersen. Considera
la fotografia uno strumento di
ricerca espressiva che orienta
principalmente nell’ambito del
ritratto. Espone i suoi progetti
in varie mostre personali e
collettive. Nel 2010 viene
premiata con il Merit Award
del Black&White Magazine
Portfolio Contest e con la
Menzione speciale TPW del
concorso Attenzione Talento
Fotografico Fnac.
Angelo Carconi
Matteo Bastianelli
Nato nel 1985, è fotografo
freelance, videomaker e
giornalista pubblicista. Ha
frequentato la Scuola Romana
di Fotografia. Attualmente
lavora su progetti a lungo
termine sulle conseguenze
delle guerre nei Balcani. Le sue
immagini sono state pubblicate
su alcuni dei maggiori magazine
e quotidiani nazionali e i suoi
lavori sono stati esposti in
mostre collettive e personali in
Italia, Francia, Olanda e Usa.
92
R O M A N I
D ’ E U R O P A
Fotoreporter romano,
classe 1981. Spostandosi
quotidianamente dalla periferia
al centro della Capitale, vive
da anni di fotografia. Collabora
con le maggiori agenzie
di stampa e quotidiani
nazionali ed esteri.
Negli anni ha documentato i
più importanti eventi
di cronaca del nostro Paese.
Pone una particolare
attenzione alla “nera”,
dove niente è scontato
e tutto è realtà.
Alfredo Covino
Nato nel 1973 vive e lavora a
Roma. Ha studiato fotografia
presso l’Istituto Europeo del
Design e si è specializzato con
un master in Fotogiornalismo
organizzato da ISFCI di Roma.
Ha realizzato reportage sul tema
dell’identità e le appartenenze
culturali. Ha vinto il premio
Yann Geffroy 2008, Finalista
al Sony World Photography
Awards 2010 e Menzione
d’onore all’International
Awards Photography 2010
IPA. Cofondatore di Punto di
Svista, è membro del comitato
di redazione di Punto di SvistaArti Visive in Italia e dell’agenzia
OnOff Picture.
Alessandra Quadri
Si è laureata con una tesi in
Storia e Tecnica della Fotografia
e ha conseguito un master
triennale alla Scuola Romana
di Fotografia. I suoi reportage
sono centrati soprattutto su
temi sociali, in particolare
sul mondo femminile:
dall’integrazione delle giovani
islamiche a Roma al matrimonio
infantile in Rajasthan, dalle
comunità rom nella Capitale
allo strip tease in Italia. I suoi
lavori sono stati pubblicati su
testate nazionali e le sono valsi
premi fotografici nazionali e
internazionali.
Stefano Snaidero
Freelance, ha collaborato con
le agenzie Ansa, Contrasto
e Prospekt e pubblica
sui principali quotidiani e
settimanali nazionali. Ha
partecipato a diversi progetti
tra i quali “Ereditare il
paesaggio” accanto a grandi
fotografi italiani e al progetto di
Amnesty International Spagna
sulla Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo e ha
ottenuto la menzione speciale
al Premio Internazionale Cassa
Lombarda 2008 presso il
Centro Forma di Milano. Nel
2009 finalista nella selezione
del Joop Swart Masterclass
del World Press Photo e
della sezione reportage del
Professional Photography
Awards di Orvieto.
Ha suonato
Pietro Freddi
Musicista e compositore da
anni lavora nell’ambito dell’
audiovisivo realizzando musiche
per film, documentari, pubblicità
e videoinstallazioni. Negli ultimi
anni oltre all’aspetto musicale
ha cominciato ad occuparsi di
prodotti audiovisivi anche come
regista e sceneggiatore.
Le storie
di questo libro sono
state scritte da
Paolo Fantauzzi
Giornalista, nato a Roma nel
1982, lavora in un’agenzia
di stampa e collabora con
L’Espresso. Ha pubblicato articoli,
inchieste e reportage sul Venerdì
di Repubblica, Il Fatto quotidiano,
Left, Terra, il manifesto e Diario.
R O M A N I
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D ’ E U R O P A
L’integrazione dei lavoratori neocomunitari:
il contributo
ondItalia è ben lieto di associare il proprio nome al progetto “Romani d’Europa”: una iniziativa che, attraverso i
del Fondo
racconti di persone provenienti dai Paesi entrati nell’UInterprofessionale nione Europea dal 2004 ad oggi e ben integrate nel nostro
Paese grazie al “buon lavoro”, può rappresentare uno stimolo
FondItalia
per tutti coloro che intendono vivere, lavorare, crescere pro-
F
fessionalmente in Italia e per i quali anche la formazione continua, promossa dai Fondi Interprofessionali, può rappresentare un valido strumento di integrazione.
L’inserimento lavorativo dei cittadini stranieri, infatti, è spesso considerato il principale strumento di inclusione
sociale nel Paese d’accoglienza. Ciò costituisce anche un banco di prova rispetto all’attuazione delle direttive
europee in merito all’integrazione, ma solo nel caso in cui si tratti di accesso ad un lavoro regolare, che assicuri
uguali diritti, doveri e pari opportunità: opportunità professionalizzanti e di crescita.
FondItalia, promosso da FederTerziario – Federazione Italiana del Terziario, dei Servizi, del Lavoro Autonomo
e della Piccola Impresa Industriale, Commerciale ed Artigiana – e UGL – Unione generale del Lavoro – attraverso
uno specifico Accordo Interconfederale che riguarda tutti i settori economici, compreso quello dell’agricoltura,
per le sue caratteristiche e per i codici etici e morali delle Associazioni che lo hanno costituito, ha particolarmente a cuore la garanzia di una formazione anche derivante da obblighi di legge (lingua, tecnologie, norme,
valutazione dei rischi e dispositivi di protezione per quanto riguarda la sicurezza nei luoghi di lavoro) che possa
garantire il rispetto dei diritti primari dei lavoratori e, conseguentemente, pari opportunità di integrazione lavorativa e sociale.
FondItalia, infatti, avendo optato per una modalità non competitiva di erogazione dei finanziamenti per la formazione (niente Bandi o Avvisi e procedura a Sportello per la loro attribuzione) e per l’aggregazione delle risorse
di più imprese in conti unici (Conti Aziende), ha facilitato l’accesso alla formazione finanziata anche ad imprese, in
particolare piccole e medie, generalmente in difficoltà nel cogliere le opportunità offerte dai Fondi e con il loro
coinvolgimento è notevolmente aumentata anche l’erogazione di formazione a lavoratori stranieri, di frequente
neocomunitari, spesso presenti in imprese di questo profilo.
L’accesso diretto e semplificato alle risorse, inoltre, ha facilitato l’utilizzo del Fondo anche da parte di imprenditori stranieri, il cui Iavoro autonomo ha iniziato a costituire, negli ultimi anni, una componente importante
dell’occupazione degli stranieri nei Paesi di insediamento rappresentando, in molti casi, il principale canale per
tentare percorsi di mobilità professionale e sociale, a discapito delle discriminazioni nell’inserimento regolare e
nell’avanzamento professionale, spesso frequenti nell’ambito del lavoro dipendente.
FondItalia, pertanto, forte della lunga esperienza della Ugl e del SEI - Sindacato Emigrati e Immigrati - associazione costituitasi all’interno della UGL per favorire tutela ed assistenza alle diverse realtà della migrazione in Italia
e all’estero, ha deciso di rivolgersi agli imprenditori stranieri che lavorano in Italia in maniera diretta, utilizzando
materiali informativi tradotti in varie lingue, e rappresentare, quindi, in maniera sostanziale, una risorsa anche per
loro e per i lavoratori che operano all’interno delle loro imprese.
Avv. Francesco Franco
Presidente di FondItalia
Per i “Romani d’Europa - Nuovi Italiani”
Nelle fermate
Spagna e Anagnina
della linea A della metro
una mostra dedicata
ai “Nuovi Romani”
M
ostra in metropolitana. Atac sostiene con convinzione l’iniziativa “Romani d’Europa – Nuovi Romani, Nuovi
Italiani, Nuovi Europei” promossa dall’Assessorato alle Politiche Sociali – Ufficio Europa di Roma Capitale. Due fermate della
linea A della metropolitana – Spagna e Anagnina – vengono trasformate in spazio culturale per ospitare la
mostra fotografica d’autore realizzata con le testimonianze dei cittadini stranieri comunitari protagonisti
delle interviste. Nel corridoio del Vicolo del Bottino della fermata Spagna - dal 22 settembre al 9 ottobre
– e all’interno della fermata Anagnina - dal 10 al 23 ottobre – un’esposizione di ritratti di cittadini stranieri
comunitari, che hanno deciso di soggiornare nel nostro Paese, racconta come grazie, soprattutto, al lavoro
regolare, siano riusciti a conoscere, imparare e rispettare la nostra cultura, integrandosi nel nostro sistema
sociale e istituzionale.
A
tac, un modello di integrazione. L’integrazione dei cittadini stranieri, quindi la consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri, passa attraverso il valore condiviso del lavoro e del
vissuto quotidiano. È proprio grazie alle attività dei suoi oltre 12.000 dipendenti,Atac contribuisce
non solo al miglioramento della mobilità, ma anche alla diffusione della cultura dell’integrazione. Basta
ricordare che a Roma Atac gestisce 330 linee di superficie (bus, tram e filobus), 2 linee metropolitane
(A e B) e 3 ferroviarie (Roma-Lido, Roma-Viterbo e Roma-Giardinetti) trasportando circa 1,6 miliardi di
passeggeri l’anno. Fra questi anche i circa 17.000 diversamente abili che fruiscono del servizio a chiamata
dedicato con 110 vetture appositamente attrezzate e a basso impatto ambientale. Una platea sterminata
di clienti che condivide uno spazio pubblico, di per sé sinonimo di condivisione di regole e valori.
La rete Atac si articola su oltre 8.200 fermate. I clienti hanno a disposizione 27 biglietterie, 2.300 punti
vendita e circa 1.000 emettitrici di biglietti, 650 delle quali a bordo mezzi. Tutto ciò consente di vendere
ogni mese 10 milioni di Bit, biglietti integrati a tempo, ai quali si affiancano oltre 140mila abbonamenti
annuali e 400mila abbonamenti mensili con Metrebus card. Atac inoltre, gestisce 2.600 parcometri per il
pagamento della sosta su strada. Un assortimento di servizi che fa di Atac la più grande azienda di trasporto pubblico d’Italia, ma anche un esempio quotidiano di integrazione. Sul campo.
R O M A N I
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D ’ E U R O P A
Il motto
dell’Unione:
Uniti nella
diversità
L
a popolazione europea sta cambiando rapidamente per effetto dell’immigrazione, della mobilità intra-comunitaria e
delle relazioni transfrontaliere. Una trasformazione storica
che è ben rappresentata da un recente studio pubblicato da Eurobarometro con il titolo “I nuovi europei”. Dalla ricerca emerge con chiarezza che in tutta Europa
cresce la disponibilità e l’apertura nei confronti della cultura e delle tradizioni degli altri paesi, quello
che poi è anche il motto della stessa Unione: “Uniti nella diversità”.
L’Europa è una grande sfida, ancora oggi. Si afferma spesso che la costruzione europea è quella della
burocrazia o dell’economia, che manca di “anima” e di identità. Ma il fatto che essa cresca, che divenga
ogni giorno di più una realtà concreta, è segno che quest’anima esiste.
L’Europa esiste, perché è forte della sua storia e di un percorso che dai Padri fondatori arriva fino
ad oggi, un sentiero che lega popoli, storie, culture e tradizioni.
In questa storia europea, Roma non è solo una città. è a Roma che nel marzo 1957 vengono firmati
i trattati che istituiscono la Comunità economica europea e la Comunità europea dell’energia atomica.
E a più di 50 anni di distanza Roma è ancora l’essenza stessa della costruzione europea.
La nostra città è una piccola europa, in quanto in poche altre città europee sono presenti cittadini
di tutti gli Stati membri, sia quelli di vecchia entrata che i nuovi europei, frutto degli ultimi allargamenti
del 2004 e del 2007.
Migliaia di storie che sono diventate parte integrante della storia di questa città.
Persone che ne arricchiscono il suo patrimonio umano e civile, storie di vita, storie europee. Una
grande città si contraddistingue anche dal sapere accogliere, stimolando la partecipazione attiva alla vita
cittadina, al dialogo con le istituzioni. Le persone che arrivano a Roma, devono poter contare su Roma
e Roma deve poter contare su tutti i suoi cittadini, vecchi e nuovi arrivati.
L’Europa deve esistere nei fatti e nella nostra vita di tutti i giorni.
La dimostrazione di tutto ciò è proprio nella “vicinanza” che è facile trovare nei volti e nelle storie
raffigurate nelle pagine di questo progetto.
Sono storie di un’area metropolitana in continua espansione, non solo urbanistica ma soprattutto
umana.
Storie a volte difficili, storie di sacrifici e qualche volta di sofferenza. Storie di un’integrazione che
è lontana da ogni retorica, che si compie giorno dopo giorno con il lavoro e la condivisione di questa
grande storia comune che è l’Europa e che è Roma.
Roberta Angelilli
Vice Presidente del Parlamento Europeo
Assessorato alle Politiche Sociali
Ufficio Europa
10 storie di comunitari,
diventati romani d’adozione
Il loro personale percorso
di integrazione sociale e lavorativa
racchiuso in una mostra fotografica
Romani d’Europa
Nuovi Romani, Nuovi Italiani, Nuovi Europei
Un libro da sfogliare e uno spazio
multimediale ricco di immagini,
testi e video interviste
Marco Baroncini
Matteo Bastianelli
Jean-Marc Caimi
Angelo Carconi
Manolo Cinti
Alfredo Covino
Abramo De Licio
Paolo Fantauzzi
Pietro Freddi
Alessandra Quadri
www.romanideuropa.it
Paola Serino
Stefano Snaidero