Romani d`Europa - Federico Rocca
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Romani d`Europa - Federico Rocca
Assessorato alle Politiche Sociali Ufficio Europa 10 storie di comunitari, diventati romani d’adozione Il loro personale percorso di integrazione sociale e lavorativa racchiuso in una mostra fotografica Romani d’Europa Nuovi Romani, Nuovi Italiani, Nuovi Europei Un libro da sfogliare e uno spazio multimediale ricco di immagini, testi e video interviste Marco Baroncini Matteo Bastianelli Jean-Marc Caimi Angelo Carconi Manolo Cinti Alfredo Covino Abramo De Licio Paolo Fantauzzi Pietro Freddi Alessandra Quadri www.romanideuropa.it Paola Serino Stefano Snaidero Romani d’Europa Nuovi Romani, Nuovi Italiani, Nuovi Europei I reportage fotografici sono stati realizzati da Marco Baroncini Matteo Bastianelli Jean-Marc Caimi Angelo Carconi Manolo Cinti Alfredo Covino Abramo De Licio Alessandra Quadri Paola Serino Stefano Snaidero Tutte le storie di questo libro sono state scritte da Paolo Fantauzzi Romani d’Europa Sommario Nuovi Romani, Nuovi Italiani, Nuovi Europei L’integrazione sociale dei cittadini comunitari attraverso il valore condiviso del lavoro Progetto culturale multimediale www.romanideuropa.it da un’idea di Federico Rocca Delegato del Sindaco ai rapporti con l’Unione Europea di Roma Capitale Il saluto del Sindaco 5 Giovanni Alemanno, Sindaco di Roma Promosso da Ufficio Europa: per la valorizzazione dei nuovi cittadini di Roma Assessorato alle Politiche Sociali Ufficio Europa 7 Federico Rocca, Delegato del Sindaco ai rapporti con l’Unione Europea Occhi sempre nuovi per guardare Roma (e il mondo)8 Con il patrocinio di Su e giù dal palco, le due vite di Eljana 16 Il fattorino ungherese, ecologista su due ruote 24 Il cerchio si chiude: tutto inizia e finisce a Roma 32 Il gigante dal cuore di bambino 40 Una mano per uscire dall’ombra 48 Fra Trastevere e San Giovanni, il paradiso in terra di Petras 56 Progetto culturale A Roma per amore, l’amore per Roma 64 Direzione artistica mostra-libro-web documentary-spot A cura di Veronica Marica L’enclave romena di Bogdan 72 Regia interviste e spot Manolo Cinti e Pietro Freddi Musiche di Pietro Freddi Ballando sulla cortina di ferro La vita spericolata di Jitka, di qua e di là dal Muro 80 Fotografie scattate da Marco Baroncini, Matteo Bastianelli, Jean-Marc Caimi, Angelo Carconi, Manolo Cinti, Alfredo Covino, Abramo De Licio, Alessandra Quadri, Paola Serino, Stefano Snaidero Makenoise: L’arte libera che fa rumore 91 Gli autori 92 PARLAMENTO EUROPEO Ambasciata Ambasciata della Repubblica della Repubblica di Bulgaria di Cipro Rappresentanza in Italia della Commissione Europea Ambasciata Ambasciata Ambasciata Ambasciata della Repubblica della Repubblica della Repubblica di Malta di Estonia di Lettonia di Lituania Ambasciata Ambasciata della Repubblica di Romania di Polonia in Italia Ambasciata della Repubblica Slovacca Ambasciata Accademia della Repubblica di Romania di Ungheria in Roma Accademia di Ungheria in Roma Istituto Bulgaro di Cultura Istituto Polacco di Roma In collaborazione con Ente Nazionale Lituano per il Turismo Ente del Turismo della Romania Ente Nazionale Ceco per il Turismo Romeni in Italia Vocea Romanilor La Fenice Spirit Romanesc Biblioteca Angelica Croce Rossa Italiana Centro Sperimentale di Cinematografia Collegio Lituano Storie scritte da Paolo Fantauzzi Grafica e layout di Maurizio Garofalo APP Romani d’Europa per iPhone ed Android sviluppata da ReteMedia Integrazione: il contributo del Fondo Interprofessionale FondItalia 94 Stampato da Art Color Printing Francesco Franco, Presidente di FondItalia ©2011 Edizioni Makenoise www.makenoise.it Atac: Per i “Romani d’Europa - Nuovi Italiani” Nelle fermate Spagna e Anagnina della linea A della metro una mostra dedicata ai “Nuovi Romani”95 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in alcuna forma, con qualunque mezzo, senza il permesso degli autore ed editore. Il motto dell’Unione: Uniti nella diversità Un ringraziamento speciale all’Onorevole Sveva Belviso - Vice Sindaco e Assessore alle Politiche Sociali di Roma Capitale. Roberta Angelilli, Vice Presidente del Parlamento Europeo 96 G li stranieri che hanno deciso di risiedere nel nostro territorio, spesso alla ricerca di una vita migliore, rappresentano una risorsa ineguagliabile per il nostro Paese. La premessa e il titolo di questa campagna istituzionale di Roma Capitale è anche il suo obiettivo: l’integrazione sociale dei cittadini neocomunitari, ossia di quelle persone provenienti dai paesi entrati in Europa negli ultimi anni, realizzabile attraverso il valore condiviso del lavoro. Per i nuovi europei, infatti, deve valere il principio costituzionale che considera il lavoro un dovere e un diritto, un fondamento del vivere civile della vita economica sociale della nazione e un elemento di accrescimento personale e familiare, oltre a rappresentare la chiave d’accesso al nostro Paese, al suo sistema legislativo, culturale e linguistico. Questo progetto di sensibilizzazione culturale, declinato in una pluralità di contesti e contenitori, da un web documentary a una rappresentazione fotografica e giornalistica a una mostra allestita in contesti non usuali come le stazioni metropolitane, racconterà storie di integrazione legate al lavoro nelle sue varie e molteplici forme. Le testimonianze sono state raccolte e documentate dall’associazione culturale Makenoise con il sostegno dell’ente paritetico Fonditalia e la collaborazione di ATAC S.p.A., che ringraziamo, allo scopo di dimostrare come il lavoro regolare permetta un più veloce e facile inserimento dei cittadini stranieri nella nostra società. Contemporaneamente l’auspicio è che il messaggio veicolato dalla campagna, che è stata voluta e coordinata dal consigliere di Roma Capitale Federico Rocca, migliori la percezione che gli italiani hanno nei confronti dei nuovi europei, provenienti dalla Bulgaria e Romania (comunitari dal 2007) e dall’Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Malta, Lituania, Estonia, Cipro, Slovenia e Lettonia (dal 2004), attraverso la conoscenza delle numerose storie di lavoro presenti in Italia. Le loro storie individuali, rappresentazioni della loro collettività, ci portano a riscoprire la comune consapevolezza che il “lavoro”, il “mestiere” siano la base per costruire una solidarietà effettiva e non retorica, come collante per una Europa intesa come comune destino e comune identità plurale. Il Sindaco di Roma 4 romani d ’ europa Giovanni Alemanno Assessorato alle Politiche Sociali Ufficio Europa Ufficio Europa: per la valorizzazione dei nuovi cittadini di Roma A Roma ci sono dei nuovi romani: sono i cittadini provenienti da quelle nazioni entrate a far parte dell’Unione Europea nel 2004 e nel 2007. Uomini e donne, che anche prima dell’adesione all’Unione dei loro paesi di origine, hanno scelto l’Italia e la capitale, alla ricerca di un’opportunità lavorativa e un futuro migliore. Per questi nuovi cittadini romani il termine di “immigrati” non è più appropriato, visto che da anni l’Europa, grazie al mercato unico e all’abbattimento delle frontiere interne, è diventata la nostra comune patria, all’interno della quale, ogni cittadino è libero di muoversi e soggiornare stabilmente, dove più desidera. Si tratta di popoli la cui storia da sempre è fortemente intrecciata con la nostra, nazioni europee a noi vicine non solo geograficamente, ma anche culturalmente: Polonia, Romania, Ungheria, Bulgaria, Lituania, Estonia, Lettonia, Cipro, Malta, Slovenia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Terre nelle quali esistono millenarie testimonianze di Roma, i cui popoli ancora oggi sentono forte questa vicinanza culturale e storica, in un legame, che nel corso del tempo non si è mai perso e che noi vogliamo avvalorare. Ogni giorno, migliaia di cittadini provenienti da questi Paesi vivono e lavorano a Roma, fornendo un importante contributo allo sviluppo economico e sociale. Si tratta di persone che con impegno e passione si dedicano al loro lavoro, producendo risorse economiche e culturali, che vanno ad arricchire il patrimonio comune della nostra città. Una nuova realtà romana spesso poco conosciuta, proprio perché, tranne alcune eccezioni, non ha mai rappresentato una “emergenza” per la città di Roma, quanto piuttosto un proficuo e spesso silenzioso processo d’integrazione con la nostra società e cultura. Questi “nuovi romani” vengono solitamente chiamati “neocomunitari” solo per una semplificazione comunicativa, anche se di fatto l’entrata in Europa dei loro Paesi d’origine risale a diversi anni fa. Si tratta di cittadini europei e romani, consapevoli e rispettosi delle norme che regolano il nostro tessuto sociale e che spesso risultano essere i primi a sollecitare un rapporto più intenso di collaborazione e integrazione, basato sulla conoscenza, il rispetto, la legalità e la solidarietà. L’Ufficio Europa, istituito dal Sindaco Giovanni Alemanno per la gestione dei rapporti con l’Unione Europea e con i “nuovi europei”, con entusiasmo sviluppa e sostiene il progetto “Romani d’Europa” la cui finalità é la valorizzazione di questi nuovi cittadini di Roma. Attraverso le immagini e i racconti di alcuni di loro, la comunità dei “Romani d’Europa” esce finalmente dall’anonimato dei sondaggi e delle statistiche. Federico Rocca 6 romani d ’ europa Delegato del Sindaco ai rapporti con l’Unione Europea Occhi sempre nuovi per guardare Roma (e il mondo) fotografie di Jean-Marc Caimi R O M A N I 9 D ’ E U R O P A I l vero viaggio di scoperta, insegnava Marcel Proust, non consiste nel cercare nuove terre ma nell’avere occhi nuovi. Uno sguardo sempre diverso sulle cose, come fosse la prima volta, per vivere ogni giorno che passa con lo stupore di chi si trova davanti a un paesaggio mai visto. Grazie al suo lavoro, questa sorpresa Sebestyén Terdik ha la fortuna di vederla quotidianamente negli occhi delle persone. E, di riflesso, nutrirsene. Sebestyén è ungherese, ha 41 anni e da una decina fa la guida a Roma.Turisti tedeschi, soprattutto, ma anche italiani e, più sporadicamente, suoi connazionali. Sempre gli stessi itinerari, gli stessi monumenti, le stesse nozioni da ripetere. Eppure con la capacità di far accendere nello sguardo altrui una luce inaspettata. «Mi piace la meraviglia della gente, l’“umiltà” di chi ti dice: “Noi questo non ce l’abbiamo a casa nostra”», afferma. «Quando un contadino bavarese ti spiega perché ama Roma con le sue parole semplici ma di sostanza, sento che alimenta anche me. E poi adoro la complessità di questa città: in tutta la sua storia è sempre stata un 10 r o m a n i d ’ e u r o p a «Adoro la complessità di questa città: in tutta la sua storia è sempre stata un centro internazionale. E anch’io sento di far parte di questa complessità bimillenaria» centro internazionale. Così quando sento le parole di apprezzamento pronunciate da un turista, penso: “Ecco, anch’io faccio parte di questa complessità bimillenaria”». È una persona davvero particolare, Sebestyén, che dietro l’aria mite e un po’ svagata nasconde un’interiorità inaspettata. Figlio di un sacerdote uniate (greco-cattolico) e di un’insegnante di disegno, è diventato adulto in mezzo al senso del sacro, fra le icone e i fumi dell’incenso. «Sono cresciuto col mito della letteratura russa e questo ha inciso in profondità dentro di me: concepire l’essere umano con una spiritualità concreta, immanente più che trascendentale». Il risultato della sua formazione, culminata con una laurea in Teologia alla Gregoriana, è una religiosità radicata e quasi tangibile, calata nel quotidiano. «Ho perfino pensato di ritirarmi in un monastero ma la vedrei come una fuga», dice lui. Una spiritualità talmente forte, la sua, che quando ha iniziato gli studi universitari, nell’Ungheria ancora socialista, sapeva già che il suo titolo non sarebbe stato riconosciuto dallo Stato e al massimo gli avrebbe permesso di insegnare in un istituto religioso. «Ma non me ne importava nulla, l’ho fatto lo stesso perché sentivo che quella era la mia strada», spiega come fosse la cosa più naturale al mondo. «Ero figlio di un prete e quindi alcune facoltà mi erano precluse a priori. Però avrei percorso comunque la strada che ho fatto». A evitare che l’intelligenza di Sebestyén finisse sprecata ci ha pensato il crollo del regime e la borsa di studio di una fondazione tedesca. È proprio grazie a questo sussidio infatti che nel 1991, appena ventenne, riesce ad arrivare a Roma, conosciuta fino ad allora solo attraverso i libri. «Avevo studiato latino e per me era il simbolo della cultura, della classicità, della libertà di pensiero ma era un’idea molto vaga e non sapevo nulla di questa città. L’importante era più che altro andare da qualche parte, uscire dall’Ungheria. Per questo penso che più che io ad aver scelto Roma è stata Roma ad aver scelto me. Del primo impatto con gli italiani ricordo l’autoironia, la capacità di ridere di loro stessi, la gioia di vita che nei nostri Paesi non è facile respirare per strada. E poi l’ospitalità: la città all’epoca era molto accogliente, gli stranieri erano ancora una rarità e c’era sempre stupore quando dicevo che ero ungherese. Sembrava che tutti dovessero sempre chiederti “ma perché tu straniero hai deciso di venire proprio qui?”. Oggi purtroppo non è più così: la microcriminalità e l’insicurezza sociale hanno portato a guardare a chi non è italiano con maggiore diffidenza». La Gregoriana è piena di tedeschi, svizzeri, francesi, africani: un ambiente estremamente interna- zionale e un’apertura impensabile per un ragazzo proveniente da una nazione che fino a due anni prima vietava l’espatrio al di fuori dei Paesi socialisti “fratelli”. Gli italiani all’università pontificia in compenso sono pochissimi. A colmare il divario “provvedono” due ragazzi di Priverno, in provincia di Latina, con cui Sebestyén dopo qualche anno va a vivere sulla Nomentana. «È con loro che ho iniziato a conoscere non solo Roma ma gli italiani e la loro mentalità». È il periodo dei viaggi insieme, alla scoperta del Lazio e dei manicaretti riportati da casa, proprio come una famiglia. Dopo cinque anni, tuttavia, la parentesi italiana è destinata a finire insieme agli studi. Sebestyén torna in Ungheria ma con un titolo di studio in Teologia e Filosofia è difficile trovare lavoro. Allora decide di prendere una seconda laurea e si rimette in viaggio, stavolta per la Germania. Facoltà di Lettere a Monaco. Stavolta una borsa ad aiutarlo economicamente non c’è e così Sebestyén va a fare l’operaio alla Siemens. Per guadagnare di più, di giorno studia e di notte lavora. Una fatica massacrante, unita al fatto che la Germania non è l’Italia. Dura tre anni, poi la stanchezza e l’insoddisfazione prendono il sopravvento: «Roma mi era rimasta nel cuore», spiega. «Un famoso scrittore ungherese disse: “meglio guardiano di cimitero a Roma che professore universitario a Budapest”. E così ho fatto, mi sono iscritto a Roma Tre. I corsi però erano noiosi e così quando una volta mi è capitato di seguire per caso una lezione di storia del cinema italiano, me ne sono innamorato e ho deciso di passare al Dams. A suo modo, è stata la scoperta di un aspetto dell’I- R O M A N I 13 D ’ E U R O P A talia che non conoscevo: il Neorealismo di De Sica, quello di Rossellini, che in “Germania anno zero”, il mio film preferito, ha affrontato per la prima volta il tema dei vinti, a cui nessuno guarda mai dopo una guerra. E poi l’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni e, soprattutto, la “follia” di Marco Ferreri». Da parte Sebestyén ha il gruzzoletto tirato su con gli straordinari e i turni di notte fatti in fabbrica. La necessità di trovare un lavoro però incombe. Così quando nel 2000 in vista del Giubileo viene bandito un concorso per guida turistica, decide di partecipare, si getta a capofitto nello studio e riesce nell’ “impresa”. «Alla Gregoriana dovevo sempre portare in giro gli amici tedeschi e ungheresi quando qualcuno mi veniva a trovare. In pratica me la cavavo già abbastanza bene e forse ero già gui- sono uno straniero, ma tutti mi hanno sempre accolto bene. E la laurea al Dams ancora oggi mi aiuta nel lavoro: i turisti non amano i dati e per questo cerco sempre di spiegare certi capolavori, come le opere di Raffaello, usando la logica di un set cinematografico. Mentre in altri casi i riferimenti al grande schermo sono irrinunciabili, come la “Dolce vita” per la Fontana di Trevi o “Vacanze romane” per la Bocca della Verità». Dopo dieci anni di vita romana, il richiamo della madrepatria è per molti versi inevitabile. Un aspetto che Sebestyén ha risolto frequentando l’istituto di cultura ungherese di via Giulia, dove con un gruppo di amici ogni venerdì organizza serate di balli popolari. «Per spiegare la difficoltà della nostra lingua, da noi si dice: “chi parla un- «Ho pensato varie volte di andare via, ma avrei troppa nostalgia di questa città. Però non mi sono mai definito un italiano, forse perché l’Italia non ti obbliga. Ti permette di restare quel che sei e in fondo è la cosa migliore» da “dentro”». L’occasione di una vita è finalmente arrivata: unire l’amore per la città e un lavoro soddisfacente, che nel giro di un paio d’anni diviene un’occupazione a tempo pieno. E che giorno dopo giorno gli permette di vedere la luce accendersi negli occhi dei viaggiatori che per la prima volta scoprono la Città eterna. Magari sotto la forma della sorpresa di un turista italiano, meravigliato che sia un ungherese a spiegargli la storia romana. «All’inizio per me era imbarazzante perché non parlo perfettamente la lingua, tanto che ho sempre detto alle agenzie con cui lavoro di specificare che 14 r o m a n i d ’ e u r o p a gherese è ungherese”. Per questo per me è fondamentale non perdere contatto col mio idioma e la mia cultura». Il futuro tuttavia è sempre all’ombra del Colosseo. Almeno per ora «Dopo tutto questo tempo ho pensato varie volte di andare via, ma avrei troppa nostalgia di questa città. Per me resta un posto da incanto e ormai è la mia seconda patria. Eppure continuo a sentirmi uno straniero, anche se i miei amici mi prendono in giro e mi dicono che non sono più ungherese. Però non mi sono mai definito un italiano, forse perché non ho mai dovuto fare una scelta e perche l’Italia non ti obbliga all’assimilazione. Ti permette di restare quel che sei o che vuoi essere. E in fondo è la cosa migliore». R O M A N I 15 D ’ E U R O P A Su e giù dal palco, le due vite di Eljana fotografie di Alfredo Covino r o m a n i 17 d ’ e u r o p a N egli anni Venti, a causa delle progressive restrizioni alla libertà artistica nella neonata Unione sovietica, gli attori Richard Boleslavskij e Marija Uspenskaja esportarono negli Stati uniti il metodo Stanislavskij, messo a punto dal loro mentore. Un sistema tuttora prevalente nell’Est Europa e negli Usa ma che in Italia non ha mai fatto breccia nei programmi di studio. Dal 2004 a fornire questa “opzione” interpretativa agli allievi della Scuola Nazionale di Cinema del Centro Sperimentale di Cinematografia è un’attrice di Sofia: Eljana Popova. «Avevo conosciuto Giancarlo Giannini in Bulgaria perché i suoi film erano mate- ria di studio all’Accademia nazionale d’arte drammatica, dove mi sono diplomata e poi in Italia avevo girato con lui Una vacanza all’inferno», racconta. «Così quando è diventato responsabile del corso di recitazione mi ha detto: “Vediamo se la tua formazione può essere utile per i nostri studenti”». Fra un paio d’anni Eljana avrà passato metà della sua vita in Italia. Eppure, a quasi un quarto di secolo dal suo arrivo, dice ancora: «A Roma sono a casa ma continuo a sentirmi bulgara, perché uno il proprio Paese se lo porta dentro per sempre. Il mio cordone ombelicale è ancora lì ed è più forte che mai». Anche se la sua è una storia di integrazione per- «Nelle fiction ho interpretato donne dell’est in tutte le salse: bulgare, romene, russe, polacche... Tutte facevano i “classici” mestieri: badante, donna di servizio, prostituta. Alla fine mi sono un po’ stancata, era diventato troppo ripetitivo» r o m a n i 19 d ’ e u r o p a «Quando non avevo il permesso di soggiorno mi sentivo come un’ombra che girava per la città. Non potevo uscire dall’Italia, non avevo un’identità, un valore, non ero niente. Esistevo e non esistevo» «Se vuoi lavorare e al tempo stesso avere una famiglia, devi pagare qualcuno che ti tiene i bambini. Ma per permetterlo hai bisogno di lavorare e guadagnare. Insomma, se non lavori non puoi pagare e se non puoi pagare non lavori: è un circolo vizioso infernale, da cui difficilmente si esce» fettamente riuscita, il cammino non è stato affatto facile. «Sono arrivata in Italia nel 1988 grazie a una borsa di studio del ministero degli Esteri per un corso di perfezionamento di un anno all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. All’epoca recitavo già da quattro anni al Teatro nazionale di Sofia e avevo girato diverse serie tv. Avendo studiato a lungo storia della musica e storia dell’ar- te al liceo musicale, l’Italia era uno dei Paesi in cui sognavo di venire. Volevo vedere ciò di cui avevo solo sentito parlare, anche per il teatro italiano e il particolare metodo che si usa qua nella recitazione, basato sulla commedia dell’arte e sugli esercizi, specialmente sulla voce». Subito arrivano i primi lavori: spettacoli di diploma dei giovani registi dell’Accademia, il Faust di Edoardo Sanguineti con Giulio Brogi, il Filottete, uno spettacolo di Lina Wertmuller, un contratto con il Teatro stabile di Palermo. Ben presto, però, Eljana si rende conto che l’impegno, la dedizione e il sacrificio non bastano a ottenere parti importanti. «Ho sofferto molto all’inizio: ero sola, senza il supporto della mia famiglia d’origine e non riuscivo a lavorare con le stesse soddisfazioni che avevo avuto in Bul- garia, dove avevo portato in scena Ibsen, Tennesee Williams, Le Troiane di Euripide e Il giardino dei ciliegi di Cechov. Puoi studiare la lingua quanto vuoi ma l’accento rimane e questo ti porta a interpretare ruoli circoscritti. Fra l’altro nel frattempo mi ero r o m a n i 21 d ’ e u r o p a sposata e avevo avuto la prima delle mie tre figlie». Una scoperta, quella della maternità, che rende ancora più difficile continuare a fare l’attrice: «Se vuoi lavorare e al tempo stesso avere una famiglia, devi pagare qualcuno che ti tiene i bambini. Ma per permetterlo hai bisogno di lavorare e guadagnare. Insomma, se non lavori non puoi pagare e se non puoi pagare non lavori: è un circolo vizioso infernale, da cui difficilmente si esce. Senza contare le lunghe tournèe lontano da casa». Così, sebbene a malincuore, Eljana desiste. Capisce che o si dedica interamente al teatro o non ha senso continuare a “inseguire” una piccola parte di tanto in tanto. Anche quando le figlie sono in tenera età, cerca però di continuare a lavorare, nonostante le difficoltà. «A volte è stato un supplizio riuscire a conciliare tutto ma l’ho sempre fatto perché ero convinta che ne valesse la pena», ammette. P er conciliare il ruolo di mamma con quello di attrice, Eljana inizia ad accettare i ruoli nelle serie televisive che le offrono, meno vincolanti in termini di impegno. Oppure qualche sporadico film, come La ballata del lavavetri con Kim Rossi Stuart. «Ho lavorato in tante fiction, come Casa famiglia, Il maresciallo Rocca o Distretto di polizia, interpretando don- 22 r o m a n i d ’ e u r o p a «A Roma mi sento a casa ma continuo a sentirmi bulgara, perché uno il proprio Paese se lo porta dentro per sempre. Il mio cordone ombelicale è ancora lì ed è più forte che mai» ne dell’est in tutte le salse: bulgare, romene, russe, polacche... Tutte facevano i “classici” mestieri: badante, donna di servizio, prostituta. Alla fine mi sono un po’ stancata, era diventato troppo ripetitivo». Da quando inizia a collaborare col Centro sperimentale di cinematografica, proprio gli studenti diventano protagonisti della “rinascita” di Eljana. Una seconda vita che passa dalle lezioni sul metodo Stanislavskij, la drammaturgia cechoviana, le commedie e i sonetti di Shakespeare, il lavoro di sceneggiature contemporanee. «I ragazzi sono molto interessati perché a livello accademico il metodo Stanislavskij non è quello dominante. Su questo sistema al massimo si tengono dei seminari, quindi per loro è un’alternativa poco esplorata. Anche se poi quel che conta è la credibilità e la capacità di far emozionare la gente». Il lavoro in classe si basa molto sull’improvvisazione e il punto di partenza sono le esperienze personali e la cosiddetta memoria emotiva. Esercizi come l’interpretazione senza parole, preparati utilizzando soltanto una musica come colonna sonora o addirittura nel silenzio assoluto, in modo da esplorare il più a fondo possibile la propria interiorità. A sentirli parlare, agli allievi piace questo lavoro improntato sull’immedesimazione, la particolare attenzione all’aspetto più intimo dei personaggi, non semplicemente alla ricerca del modo in cui vivono ma della loro essenza. Un lavoro che li obbliga a scavare nel profondo e a riflettere sulla loro umanità, anche quando appaiono del tutto negativi. E gli apprezzamenti non mancano. Gli studenti la definiscono “simpatica, giocosa, severa al punto giusto ma non autoritaria”. In grado di instaura- re “un rapporto di complicità” in cui “si ride e si scherza ma poi si raggiunge il risultato”. Un affetto ricambiato. «L’insegnamento mi dà moltissimo a livello personale, anche umanamente», riconosce Eljana, che nella didattica ha trasfuso la passione per la recitazione. «Mi piace vedere i progressi lezione dopo lezione, far emergere qualcosa che prima era nascosto o appena accennato. Ormai è una parte di me di cui non potrei più fare a meno». Accanto resta la “professione” di mamma, che non conosce orari o pause. «È mezza vita che sono qui e ancora continuo a girare per Roma come fossi una turista. Prendo le due mie figlie più piccole, di otto e dieci anni, e ce ne andiamo in giro per i quartieri, alla scoperta della città». Mamma e attrice, anche se con qualche rinuncia la doppia vita di Eljana continua. Su e giù dal palco. Il fattorino ungherese, ecologista su due ruote fotografie di Manolo Cinti R O M A N I 25 D ’ E U R O P A M olti anni dopo, ripensando alla sua rocambolesca fuga in Occidente, Simon TamásLászló avrebbe tratto una lezione che ancora oggi è la sua stella polare: «Se vuoi una cosa, non aspettare che ti caschi dal cielo: alza il sedere e cerca di ottenerla». È il gelido inverno del 1985 e Simon, stanco di aspettare il passaporto chiesto alle autorità ungheresi, al confine con la Yugoslavia si butta nel Danubio insieme a un compagno di scuola e al bidello dell’istituto per raggiungere l’altra sponda. In mezzo ai lastroni di ghiaccio del fiume, col rischio di essere portato via dalla corrente. O, come già accaduto qualche settimana prima, essere fermato dai frontalieri, malmenato, rispedito a casa senza troppi complimenti ed essere portato in giro per le classi del suo liceo come esempio da non seguire. Una follia da diciassettenne, ma che al secondo tentativo va a buon fine. Ad aspettare il gruppetto di fuggiaschi dall’altra parte della riva c’e infatti il fratello del bidello, venuto apposta in auto dalla Germania, dove vive. È lui che lo carica in auto e lo porta in Austria, dove lo aspetta il padre, un violoncellista che da due anni vive a Torino dopo aver chiesto in modo di organizzarmi per non dover rinunciare a asilo politico durante una tournèe. qualche sgambata». «Ormai era questione di tempo, i documenti Un trasporto talmente forte, quello per le due sarebbero arrivati dopo qualche mese. Solo che ruote, che nel 2008 Simon ha deciso di farne un mi ero stancato di aspettare. Non devo essere lavoro e con tre connazionali, uno a Roma e due stato un adolescente tranquillo per mia madre, a Budapest, ha aperto una società di ma resto fiero di quello che ho fatpony express che fa consegne in bicito», ammette Simon. «Subiamo cletta. Una realtà già consolidata all’eA un quarto di secolo di distanza, la concorrenza stero: non a caso i due soci in Ungheria quel ragazzetto impaziente è un quadei motorizzati, da 15 anni hanno un’impresa analoga rantenne gioviale che ha sublimato la ma io non mollo che impiega circa 100 corrieri, mentre sua irrequietezza con la passione per la per carattere» quello “italiano” lo ha fatto a Valencia. bicicletta, divenuta col tempo sempre Una novità assoluta per Roma, però, dove Simon è più una filosofia di vita. «La bici è il mio chiodo fisso, stato il primo ad avere un’idea simile. Scegliendo un a volte me la sogno anche la notte. E se vado in vanome che è tutto un programma: Eadessopedala. canza, che sia al mare o in montagna, faccio sempre mo evitato 2700 kg di emissioni nell’aria». «Ho dovuto quasi fare catechesi per convincere A ogni modo nessuna forma di “eroismo”, minile persone e trovare i partner giusti, ma alla fine ci mizza Simon, perché «andare in bici per lavoro non sono riuscito», dice. «Spesso i clienti sono increduli è più pesante che fare il muratore o altri lavoratori quando ci vedono col caschetto in testa. “Se non manuali, anche se richiede senza subbio un pizzico mi crede venga giù a vedere la bici”, rispondo allora di follia stare in sella tutto il giorno». io. La reazione comunque è sempre Una cosa però è certa: «Questa atpositiva e passato lo stupore iniziale «La bici è il mio ci fanno tutti i complimenti. Chi ci ha chioso fisso, a volte tività non conosce feste né domeniche: si lavora ogni volta che serve». conosciuto, non ci ha più abbandoname la sogno anche Come quella volta che in una giornato e col tempo si è creata uno zocla notte» ta la società dovette consegnare 160 colo duro di clienti che ci scelgono inviti perché Bulgari, che dava una festa e la società proprio per l’impronta ecologista. Ogni chilometro organizzatrice all’ultimo momento era stata lasciata che percorriamo risparmiamo alla città 15 grammi a piedi dall’agenzia di corrieri che utilizzava normaldi anidride carbonica: abbiamo fatto il calcolo e nel mente. In nove ore intense e senza pause, tranne 2010 con le nostre consegne a emissioni zero abbia- che per riempire le borracce alle fontanelle, i corrieri di Simon (e lui stesso) riuscirono a recapitare a tutti gli ospiti la cartolina per il party, come stabilito. L a società ha una struttura fluida senza uffici né sede fisica: i fattorini partono da casa la mattina e fanno gli ordini loro affidati, per lo più in turni part-time da cinque ore. Plichi, corrispondenza aziendale, pacchi: tutto ciò che può stare nello zaino viene consegnato, col vantaggio che le due ruote non conoscono le restrizioni applicate agli scooter, «Ogni chilometro che percorriamo risparmiamo alla città 15 grammi di anidride carbonica: nel 2010 abbiamo evitato 2700 kg di emissioni nell’aria» «L’ho fatto anche per le mie figlie: voglio lasciare loro una città migliore di quella che ho trovato» 30 R O M A N I D ’ E U R O P A come le aree pedonali. La base è il negozio di bici Pro bike vicino Villa Ada, che di fatto ha adottato la piccola “famiglia” di fattorini ecologisti tirata su da Simon: è qui che il giorno di paga ci si riunisce, si fanno quattro chiacchiere, si ripartiscono gli utili. Un piccolo successo dovuto anche ai costi contenuti rispetto alla concorrenza motorizzata: cinque euro più iva per le consegne in centro, da dieci a quindici per le altre zone, purché all’interno del raccordo. La metà della corsa va ai ragazzi, una decina in tutto, il resto viene reinvestito. Perché quella di Simon è an- che una scelta profondamente etica, che non conosce compromessi: «Io sono coerente fino in fondo e non posso mandare la gente in bici perché così non inquina e poi non pagare le tasse. Purtroppo però in questo modo subiamo la concorrenza sleale delle società di “motorizzati”, che ricorrono al lavoro nero o non dichiarano tutte le consegne». Così la moralità deve fare quotidianamente i conti col realismo per stare sul mercato: «Sono convinto che il futuro delle città è nella mobilità sostenibile, che fa risparmiare carburante, evita l’inquinamento atmo- sferico e soprattutto libera le strade dalle macchine. La molla che mi ha fatto decidere di intraprendere quest’avventura sono le mie due figlie Erika e Eszter, che hanno 13 e 11 anni: voglio lasciare loro una città migliore di quella che ho trovato. A ogni modo è dura reggere la competizione. Pensavo che sarebbe stato più facile attecchire e che i tempi fossero maturi per una cosa del genere. Invece c’è ancora da aspettare purtroppo. Ma io non mollo per carattere». La “lezione del Danubio” è ancora lì, dov’era rimasta venticinque anni fa. Il cerchio si chiude: tutto inizia e finisce a Roma fotografie di Stefano Snaidero R O M A N I 33 D ’ E U R O P A I dieci luoghi di Roma che hanno segnato la sua vita, presto Kinga Araya - artista interdisciplinare come si definisce - li metterà in un video. “Salty Feet: Passeggiate romane” il titolo del progetto, che la farà tornare in quei posti che vent’anni fa hanno fatto da cornice alla sua fuga, talmente precipitosa da non farle portare dietro nemmeno un bagaglio. «Sarà un viaggio sulle tracce del mio passato, come svegliare degli spiriti», scherza lei. «E siccome il leit motiv sarà il tema del cammino e santa Kinga è la patrona dei minatori di salgemma, indosserò attorno al collo due piedi scolpiti nel sale, come gli ex voto che nell’antica Roma si offrivano agli dei per una guarigione. Inoltre saranno legati fra loro da una catena, come la punizione che nel Medioevo veniva inflitte alle adultere e alle donne che spettegolavano, costrette a trascinarsi pesanti pietre sulle spalle. Sono sicura che rivedere quei luoghi con un altro sguardo sarà un talismano». Dopo due decenni, infatti, il cerchio si è chiuso. E Kinga è tornata al punto da cui era partita. A Roma. Per capire il senso di questa circolarità occorre fare un salto indietro alla fine degli anni Ottanta: nonostante la repressione messa in atto, in Polonia il regime fa sempre più fatica a contrastare i fermenti di una società civile che dall’elezione di Giovanni Paolo II e dalla comparsa di Solidarnosc ha mostrato crescente insofferenza verso la dipendenza da Mosca. È in questo clima che nell’estate 1988 l’università cattolica di Lublino organizza un tour in Italia per i suoi studenti di storia dell’arte: Venezia, Napoli, Roma e poi, ultima tappa prima del ritorno a casa, Firenze. Ed è proprio nel capoluogo toscano che Kinga decide di lasciare tutto e fuggire. «Gli Uffizi per me sono stati una rivelazione, ho avuto come una sindrome di Stendhal», «Determinare gli spazi col mio corpo è come se mi permettesse di trovare una mia dimensione, sentirmi parte di ciò che mi circonda» 34 R O M A N I D ’ E U R O P A racconta. «Mi sono detta: “se esiste questo Paese che ha prodotto tali capolavori, devo restare. C’è un genius loci che devo assolutamente investigare”. Non c’è posto più adatto per una storica dell’arte che ama il suo lavoro e volevo restare per continuare qui i miei studi». E così accade. Approfittando di un momento di distrazione dei professori, Kinga si allontana dal gruppo e fa perdere le sue tracce. Per evitare di essere scoperta, non riprende nemmeno lo zaino lasciato nel pullman.Va a dormire da una ragazza italiana conosciuta in patria, poi arriva a Roma in autostop. «Conoscevo la città solo un po’, per via dei miei studi sul Rinascimento. Ancora oggi ricordo l’odore che emanava, quello dei negozi e delle strade. Io ero abituata ai casermoni dove gli spazi erano limitati, qui invece tutto mi appariva diverso rispetto alla Polonia, più arioso: le porte, le case con le finestre e i balconi, che da noi erano una rarità». All’inizio si appoggia in un residence adibito ad accogliere i primi migranti giunti dall’Est, in via Pagano, al quartiere Aurelio; poi va alla chiesa dei polacchi di via delle Botteghe oscure. Sono questi i primi due luoghi della nuova vita romana di Kinga. Il terzo diventa nel giro di pochi giorni un appartamento poco distante, in via Nostra Signora di Lourdes, in cui abita una famiglia che la assume come ragazza alla pari. Ma il rapporto non riesce a decollare: «Lavoravo sette giorni su sette e dovevo occuparmi della casa e del piccolo Giulio, di sette mesi. In compenso il mio visto stava per scadere e non sapevo una parola di italiano». La convivenza non è facile, anche per la mancata conoscenza della lingua, che a volte provoca episodi involontariamente comici. Come quando Kinga regala per errore alla parrocchia dei vestiti che le erano stati dati perché li portasse in tintoria. Suscitando l’immaginabile ira della “signora”. «Col tempo mi sono convinta che non poteva andare avanti e sono riuscita a strappare la domenica libera». Il sapore di questa ritrovata libertà assume la veste dei corsi per stranieri alla Società Dante Alighieri, delle visite ai musei capitolini, alla chiesa del Quo Vadis sull’Appia Antica e poi, col trasloco, della nuova abitazione in via dei Carpazi all’Eur. Rispettivamente il quarto, quinto, sesto e settimo luogo di questa “formazione” romana. Oltre all’immancabile colonnato di san Pietro al quale una sera Kinga, in vena di ispirazione, dedica una poesia: Che silenzio / e che solitudine sacra. / Sotto il colonnato di Bernini la processione scivola, / La musica ritmica delle fontane, il segnale della luna. / Ecco tutta la decorazione di questo momento santissimo / nel quale - all’improvviso - sono divenuta una sacerdotessa. / La cosa più preziosa che posso offrire, / raggiungendo in fretta la processione notturna, / è il mio cuore. / Tagliato in due, tre, quattro parti. Non si tratta tuttavia di una composizione isolata. Durante il suo soggiorno Kinga resta infatti talmente affascinata da comporre tutto un ciclo di poesie dedicate alla città: “Dieci passi”. Un preludio letterario al tema del cammino che avrebbe in seguito costituito il filo conduttore di tutta la sua ricerca artistica. «Per me Roma era come una cura, sentivo che guarivo anche mentalmente dal sistema in cui ero vissuta fino allora. Facevo la perfetta flaneur, visitavo musei, gallerie, chiese. Mi bastava camminare e andare in giro per sentirmi «Ho bisogno di essere circondata dalla bellezza, una parte di me sta male se non vede l’arte e il bello intorno» meglio». Anche se non mancano episodi traumatici, come quando le scippano la borsa col passaporto a piazza in Piscinula, a Trastevere (altro luogo citato nel progetto sulla scoperta della Capitale). «Dopo quasi un anno e mezzo mi sono resa conto che era impossibile trovare un lavoro che non fosse di baby sitter o donna delle pulizie, così ho deciso di lasciare l’Italia», dice Kinga. Va all’ambasciata americana, ma trova un rifiuto. Gli amici le consigliano di provare con quella australiana, ma stavolta è lei a dire di no. L’unico Paese disposto a investire su questa ragazza di 24 anni che non ha finito gli studi e conosce a malapena qualche parole di inglese si rivela il Canada. Un cammino faticoso, reso ancora più duro dal tempo trascorso nel frattempo: «Ho ricominciato daccapo gli studi lasciati al tempo della fuga. È stata dura, ma ce l’ho fatta a laurearmi e a sopravvivere, grazie anche alle borse del governo canadese per i giovani artisti. Ho fatto conferenze a New York, Los Angeles, Philadelphia, Chicago e insegnato a Ottawa, Toronto e Montreal. Ma sempre insegnamenti a contratto, mai niente di definitivo». L’occasione di una vita arriva in Florida, con una cattedra di storia dell’arte in un college: un impiego stabile, un ottimo stipendio, un ruolo riconosciuto nella comunità accademica locale. Tutto questo però non basta per far sentire Kinga appagata. «C’era troppa povertà intellettuale ed era impossibile crescere professionalmente», spiega. «Dove insegnavo c’era solo un museo, per così dire, ma non aveva nulla di originale, solo copie di opere conservate altrove. Mi stavo inaridendo perché io ho bisogno di essere circondata dalla bellezza, una parte di me sta male se non vede l’arte e il bello intorno. Con quello che guadagnavo potevo permettermi di tornare ogni tanto per le vacanze e davanti alle sue bellezze immancabilmente mi dicevo: “Ma io devo vivere qui!”. Era divenuta un’ossessione tale che una volta un’amica mi ha detto: “Parli sempre di Roma, ma chi ti ferma? Chi ti tiene qui?”». Parole che arrivano dritte all’obiettivo. Al punto che dopo una lunga riflessione nell’estate 2010 la camminatrice si rimette in viaggio. La scelta, ça va sans dire, ricade su Roma. Un tuffo all’indietro che la riporta dove tutto era cominciato. E che, come se il blocco artistico fosse stato rimosso, le fa subito tornare la vena creativa, sotto forma di innumerevoli progetti. A cominciare da un libro dedicato all’importanza del cammino nell’arte: “Post-exilic Walk: the Poetics and Politics of Walking”. Un capitolo sarà dedicato a Roma e intitolato significativamente “Vicolo del piede”. E proprio questa stradina di Trastevere sarà anche il decimo luogo di “Salty Feet: Passeggiate Romane”, il video del “vagabondaggio” coi piedi di sale al collo, che a partire dall’autunno sarà ospitato a Tarnow e a Cracovia, prima di arrivare a marzo all’istituto polacco di Roma. «Ho già misurato i passi del vicolo: determinare gli spazi col mio corpo è come se mi permettesse di trovare una mia dimensione, sentirmi parte di ciò che mi circonda. Forse è inevitabile, visto che la mia è una storia circolare: dopo tanti anni sono tornata al punto di partenza», ammette Kinga. «Ma non è stato un peregrinare inutile, non sono pentita. Io ho la curiosità di sapere cosa c’è in profondità e con l’arte ci si può avvicinare. L’arte mi ha salvato. Vent’anni fa come oggi». Proprio come in un cerchio perfetto, dove la fine coincide con l’inizio. E non è più possibile distinguere quale sia l’una e quale l’altro. R O M A N I 39 D ’ E U R O P A Il gigante dal cuore di bambino fotografie di Angelo Carconi R O M A N I 41 D ’ E U R O P A S i calcola che in Italia siano più di tre milioni le persone che svolgono attività di volontariato. Un “esercito del bene” che si impegna senza alcun ritorno per il prossimo: malati, disabili, categorie svantaggiate o bisognose solo di un aiuto “aggiuntivo”, come i migranti. Tuttavia, anche fra questi ultimi, c’è chi si dà da fare in prima persona e ha trovato la propria dimensione proprio grazie a quest’attività. È il caso di Marin Spinu, che ne ha fatto la sua ragione di vita. A 49 anni, ne ha passati 15 ad aiutare gli altri, quasi un terzo della sua vita. Faceva il volontario della Croce rossa in Romania, poi ha deciso di venire in Italia per stare vicino ai figli. Ma dal momento che non riusciva a “smettere”, ha chiesto di poter continuare anche qui. Per quattro anni è stato al San Camillo, adesso lo si può trovare al pronto soccorso del sant’Eugenio un paio di volte a settimana, soprattutto la notte. «In Romania ho lavorato con anziani, bambini, persone con l’Aids, in un centro per donne maltrattate e devo dire che mi piace dare una mano a chi ha necessità perché dà un senso più profondo alla mia vita. E poi quando fai una cosa buona ogni paura ti sparisce», dice Marin spensierato, quasi inconsapevole del peso delle sue parole. «In ogni anziano che aiuto, vedo mio padre; se è una donna, ci vedo mia madre; se è un ragazzo o una ragazza, mio figlio o mia figlia. Fra l’altro questo è anche un modo per vincere la mia naturale timidezza e aiutarmi ad abbattere le distanze con chi incontro. Sono alto 1 metro e 86 e peso 110 chili ma ho un cuore di bambino». Quella di Marin è quasi una deviazione professionale. Se molti cercano nel volontariato di nutrire un lato più intimo del proprio essere che non ha modo di manifestarsi nella vita quotidiana, lui prolunga nel tempo libero la sua attività lavorativa. Di professione è infatti operatore del sociale in una cooperativa di assistenza domiciliare. Un lavoro che spesso lo porta a “vivere” negli ospedali o a casa dei pazienti. Dove a volte si trasforma in una sorta di domestico: «Faccio massaggi, preparo le medicine, cambio i pannoloni agli anziani ma mi capita anche di preparare per la cena o fare le pulizie». Non mancano però momenti in cui da volontario si trasforma in “psicologo”, soprattutto nei turni in ospedale. Se arriva qualche paziente in gravi condizioni al pronto soccorso, lo porta dentro con la barella oppure prepara la sala operatoria se c’è bisogno di un intervento d’urgenza. Ma se la situazione è delicata, capita anche che esca fuori a parlare coi parenti per tranquillizzarli. «Tutti mi si mettono intorno, fanno domande e il fatto che sono romeno non conta più. La gente si fida «In ogni anziano che aiuto, vedo mio padre; se è una donna, ci vedo mia madre; se è un ragazzo o una ragazza, mio figlio o mia figlia» ciecamente e io mi sento utile a poter rassicurare qualcuno che è in pensiero per una persona cara». Non è sempre stato così, però. E per vari mesi fra il 2007 e il 2008, a seguito di fatti di cronaca nera che coinvolgevano alcuni romeni, come l’omicidio di Tor di Quinto, ha sentito l’ostilità nei suoi confronti, il clima da caccia alle streghe sorto nei confronti della comunità romena. «Sono stati tempi duri e quando lavoravo di notte avevo sempre paura che qualcuno volesse farmi del male perché eravamo tutti guardati di traverso. Per non correre rischi, allora, quando operavamo all’esterno mi mettevo sempre la divisa della Croce rossa. Lo facevo per sicurezza, per evitare che qualcuno pensasse che fossi un poco di buono». L’altruismo di Marin si nutre di una forte religiosità. Una fede vissuta giorno per giorno: nel rapporto coi malati sul posto di lavoro, durante il volontariato e anche nelle pause morte, come gli spostamenti verso Roma. Marin infatti vive ad Aprilia: fra andata e ritorno, più di un’ora al giorno di treno. Tempo che lui passa in compagnia delle R O M A N I 45 D ’ E U R O P A «A volte esco a parlare coi parenti per tranquillizzarli. Allora tutti mi si mettono intorno, fanno domande e il fatto che sono romeno non conta più. Mi sento utile e sono contento di poter rassicurare qualcuno che è in pensiero per una persona cara» Sacre scritture. «Porto sempre la Bibbia nella mia valigetta e la leggo durante il viaggio. A volte la leggo anche ai pazienti, perché medicina e religione sono “sorelle”: una cura il corpo e l’altra lo spirito, ma si guarisce solo con tutte e due». Una soddisfazione umana e professionale, quella di poter essere di aiuto, che talvolta riesce anche a dare vita a rapporti duraturi, tanto che a distanza di anni qualche ex paziente ancora lo chiama per invitarlo a pranzo. In Romania Marin aveva lavorato anche come guardia giurata ma nonostante il lavoro gli piacesse, fare l’operatore del sociale è stata sempre la sua passione. Forse anche perché è «l’unico romeno che non sa fare il muratore», come dice lui scherzando. Ci ha provato per qualche «Porto sempre la Bibbia nella mia valigetta e la leggo durante il viaggio. A volte la leggo anche ai pazienti, perché medicina e religione sono “sorelle”: una cura il corpo e l’altra lo spirito, ma si guarisce solo con tutte e due» 46 R O M A N I D ’ E U R O P A tempo appena arrivato ma ben presto ha capito che non fa per lui. «E poi il volontariato mi fa diventare più ricco. Chi mi paga? Mi paga il Padreterno». Un senso di compiutezza che però Marin intende come temporaneo. Almeno qui a Roma, dove si sente felice ma continua a coltivare il sogno di ristabilirsi nel suo Paese, magari quando i figli avranno finito di studiare. In attesa di quel giorno, Marin si sta portando avanti col lavoro e ha appena finito di costruire una grande casa, che ha inaugurato ad agosto. Per adesso, però, si accontenta di tornare un paio di volte l’anno. «E quando scendo dall’aereo, bacio sempre terra», confida. Un’esagerazione? Nemmeno per idea, secondo Marin: «Non scherziamo. La Romania per me è una cosa sacra». Una mano per uscire dall’ombra fotografie di Abramo De Licio R O M A N I 49 D ’ E U R O P A O gni anno in Romania migliaia di bambini vengono abbandonati negli orfanotrofi. Genitori poveri, che non hanno da offrire nient’altro che un’esistenza di miseria e stenti, pensano in questo modo di sottrarli all’indigenza e dare la speranza di un futuro migliore ai loro figli. Una piaga di lunga data, che il crollo del regime di Ceausescu ha risolto solo in parte. Col miglioramento del tenore di vita, infatti, negli ultimi anni ha preso vita una nuova forma di distacco nei confronti dei minori: i cosiddetti abbandoni bianchi, causati dalle migrazioni temporanee delle coppie che vengono in Italia col progetto di tornare in patria dopo qualche anno. I bambini, considerati un ostacolo in un nucleo familiare in cui sia l’uomo che la donna partono per lavorare, vengono affidati a qualche parente, il più delle volte i nonni. Per combattere questa forma di negazione dell’infanzia, l’Unione europea ha finanziato il progetto transnazionale “Nessuno può crescere solo”, che a Roma sarà curato dall’associazione Spirit romanesc (Spirito romeno). «Prepareremo 20 “mediatori di 50 R O M A N I D ’ E U R O P A «Quando non avevo il permesso di soggiorno mi sentivo come un’ombra che girava per la città. Non potevo uscire dall’Italia, non avevo un’identità, un valore, non ero niente. Esistevo e non esistevo» ne non la ferma: in tasca ha una laurea in ingegneria automobilistica ed è convinta che nel Paese della Ferrari, della Lamborghini, della Lancia e dell’Alfa Romeo non sarà difficile per lei trovare un impiego. La realtà si rivela però molto diversa. La mancanza del permesso di soggiorno la rende un irregolare e la obbliga ai classici lavori da baby sitter o donna di servizio: «Mi sentivo come un’ombra che girava per la città. Non potevo uscire dall’Italia, non avevo un’identità, un valore, non ero niente». L comunità”, volontari che svolgeranno opera di sensibilizzazione nelle scuole, in chiesa e nei luoghi di ritrovo sui diritti del bambino», spiega la presidente Dana Mihalache. «L’obiettivo è favorire il ricongiungimento famigliare, perché per un figlio è uno shock crescere senza genitori, a loro volta afflitti da sensi di colpa che non consentono loro di relazionarsi correttamente coi figli. Vogliamo far capire che i bambini hanno diritto di piangere, ridere e giocare all’interno della loro famiglia». Intraprendere la professione di mediatore culturale ha permesso a Dana di chiudere coi classici lavori manuali e di «usare finalmente il cervello». Una scelta compiuta, dice lei, «perché so quanto è difficile l’integrazione se nessuno ti aiuta». Eppure fino a qualche anno fa non ne conosceva neppure l’esistenza. Per comprendere la casualità di questo approdo e quanto il percorso sia stato accidentato bisogna tornare al 1996. Finiti gli studi, Dana arriva in Italia quasi per combinazione: nessuna ragione economica ma solo la curiosità di vedere cosa c’è al di fuori di Piatra Neam, la cittadina sui Carpazi dov’è nata e cresciuta. Avrebbe voluto andare in Canada, in realtà, con l’interscambio organizzato per i ragazzi più meritevoli dall’università di Braşov, dove lei era iscritta. Era perfino sulla lista, ma alla fine a partire sono i figli dei professori, molti dei quali nemmeno studenti. Così la scelta ricade sull’Italia, dove ci sono alcuni amici. «Vai, figlia mia», la incoraggia la madre. «Ti conosco e so che soffriresti a restare, ma ricorda che se non dovessi trovarti bene puoi tornare in ogni momento, perché nella nostra casa ci sarà sempre posto per te». Oggi come allora Dana ancora si commuove a ricordare quelle parole. Ma l’emozio- a prima occasione per mettere a frutto gli studi arriva con un impiego in un magazzino che fornisce pezzi di ricambio alle macchine da corsa. «Prendevo gli ordinativi, facevo le consegne, andavo al circuito di Vallelunga e al rally di Popoli. Spesso davo anche consigli tecnici», racconta Dana. Tutti sono impressionati da questa ragazza, per di più straniera, che si intende alla perfezione di motori. Gli apprezzamenti fioccano ma dopo un anno e mezzo, appena chiede di essere regolarizzata, la risposta del datore di lavoro è un calcio nel sedere. «Sono stata così male che nonostante amassi tantissimo le macchine, non ne ho voluto sapere più niente». Ricominciare daccapo è stata durissima, anche perché Dana vorrebbe crescere professionalmente ma non ha ben chiaro su quale campo puntare. Per cercare aiuto, decide di andare dai servizi sociali del suo municipio. «Io presto diventerò cittadina italiana perché non voglio andare via», spiega a chi la sta a sentire. «Quindi se non mi aiutate adesso a trovare un lavoro che mi faccia usare il cervello, un domani dovrete spendere molti più soldi perché R O M A N I 53 D ’ E U R O P A impazzirò e mi dovrete mantenere». Sembra una boutade destinata a finire lì, invece due settimane dopo, dal municipio la richiamano per offrirle un lavoro in uno studio legale. «Le piace?», le chiede l’assistente sociale che l’ha presa in carico. «Non conta, l’importante è iniziare», risponde lei. Il permesso di soggiorno arriva nel 2000, dopo quattro anni da “fantasma”. «Quando sono tornata per la prima volta, mia madre mi aspettava per strada, fermava tutte le macchine che passavano per vedere se dentro c’ero io. Mio padre invece mi ha detto: “Pensavo di morire senza rivederti più”». Mancavo da quattro anni e in vita mia non lo avevo mai visto piangere». Con la tranquillità che le consente la regolarizzazione, Dana si dedica anima e corpo alla ricerca di un impiego che finalmente la soddisfi. «Per capire cosa mi piacesse davvero, ho iniziato a seguire tutti i convegni che trovavo su internet, dall’agricoltura all’informatica». La scoperta dell’intercultura arriva in questo modo, improvvisa come una rivelazione, con una serie di corsi nel campo della mediazione. E con la decisione di dare vita alla “filiale” romana dell’associazione Spirit romanesc, la cui sede principale è a Brescia. Da questo momento, l’obiettivo della tanto agognata crescita professionale diventa aiutare i connazionali a integrarsi. 54 R O M A N I D ’ E U R O P A «Se ci fosse stato qualcuno che avesse aiutato me, avrei risolto i miei problemi molto più velocemente. Per questo penso che aiutare chi è in difficoltà, specialmente quando si sono già affrontate certe situazioni, sia fondamentale. Inoltre a volte c’è una sorta di pregiudizio nei confronti dei romeni e l’associazione, attraverso il suo lavoro, cerca di attenuarlo». Spirit romanesc porta nel nome anche la difesa dell’identità “originaria”. E infatti il primo progetto approvato, nel 2007, ha riguardato l’istituzione di corsi di lingua e di cultura romena per i ragazzi di quattro scuole statali di Roma. Laboratori ai quali hanno partecipato un centinaio di bambini (diversi anche italiani) e da cui è nato il gruppo folcloristico Dor Calator, che promuove le tradizioni popolari tra i giovani e i membri della comunità romena. Il successo è stato tale da aver spinto il governo di Bucarest, attraverso il dipartimento che si occupa dei concittadini all’estero, a farsi carico del progetto e a finanziare attività di doposcuola e uno sportello di orientamento per i genitori. «Al momento stiamo facendo una mappatura delle scuole della provincia di Roma per sapere il numero di romeni iscritti in ogni istituto». Nel frattempo per Dana il lavoro continua a essere un determinante fattore di integrazione: «Lavorare in un gruppo misto, come accade a me, ti fa comportare come un italiano e non come uno straniero che vive in un altro Paese. Ormai in Ro- «Per un figlio è uno shock crescere senza un papà e una mamma. Vogliamo far capire ai genitori che i bambini hanno il diritto di piangere, ridere e giocare all’interno della loro famiglia. E che nessuno può crescere solo» mania mi riesce più difficile parlare la mia lingua che l’italiano, perché i termini tecnici della progettazione e del lavoro nel sociale li ho imparati qui. Però non bisogna mai dimenticare la propria origine. Io dico sempre che sono cittadina italiana di origine romena. Ho queste due identità dentro e ne sono fiera. Quindi è importante “comportarsi” da italiani ma anche mantenere il proprio spirit romanesc». Fra Trastevere e San Giovanni, il paradiso in terra di Petras fotografie di Paola Serino «Mi piace molto “perdermi” in qualche chiesetta del centro e sentire la spiritualità che le anima. Però bisogna andarci la mattina presto o il pomeriggio tardi, quando non c’è nessuno» N ella mente di Petras Siurys c’è una data che sancisce il suo approccio con Roma e che tuttora è scolpita nella sua memoria: il 29 giugno 1993. Petras ha 28 anni e da uno è parroco a Pagegiai, in Lituania. È il suo onomastico e per la prima volta si trova in Italia. È arrivato con un gruppo di turisti tedeschi e a piazza san Pietro, in mezzo a tutta quella gente raccolta in preghiera, gli pare “di stare in paradiso”. «Quella messa è stata la più grande festa della mia vita», ricorda adesso. «Vedere così tanta gente attenta, credente e così tanti sacerdoti era impensabile per me che venivo da un Paese appena uscito dal comunismo». Oggi Petras è rettore del Pontificio collegio lituano San Casimiro, l’istituto fondato nel 1946 dalla Chiesa cattolica del Paese e dalla Santa sede per consentire ai seminaristi di scampare le persecuzioni del regime sovietico. Vive stabilmente a Roma da 12 anni e sopra ogni cosa ama le passeggiate solitarie per i vicoli di Trastevere la domenica mattina. «Quando mi dicono se non è da troppo tempo che sono qui, rispondo che forse la prima volta ho buttato troppe monetine nella Fontana di Trevi», scherza. Eppure quando è arrivato, quel giorno d’estate di quasi vent’anni fa, dell’Italia non sapeva granché: «Quel poco che conoscevo era frutto dei racconti di due miei insegnanti del seminario, che avevano modo di viaggiare. Per noi studenti, l’Italia era semplicemente Roma e Roma era il Vaticano, la capitale della Chiesa cattolica. Una specie di paradiso in terra, visto che per noi in Lituania, all’epoca parte dell’Urss, era stata una sfida fare il sacerdote», spiega Petras. «C’era un timore diffuso di essere perseguitati e di conseguenza anche la fede veniva nascosta. Anche i miei genitori avevano paura ma non si sono piegati. Per dire, nella mia classe io ero l’unico a non essere pioniere. Non è stato semplice essere cristiani ma fare il prete era un modo per combattere in modo spirituale contro il regime». Una “sfida” intrapresa, prima di lui, da suo fratello maggiore, più grande di dieci anni. È lui a decidere di intraprendere per primo la carriera ecclesiastica, che nel 1995 lo porta in Italia. I racconti su questo Paese lontano segnano nel profondo Petras, che nel ’99 decide di andare a studiare al Pontificio collegio lituano. «Sapevo solo poche parole e all’inizio non volevo nemmeno uscire: prima per imparare bene la lingua, poi perché erano cominciate le lezioni…». Al collegio i sacerdoti approfondiscono i loro studi per conseguire la licenzia o il dottorato. È così anche per Petras, che dopo tre anni diventa vicerettore. Nel 2007, dopo altri cinque, rettore. E così adesso la sua esistenza si dipana tutta fra il complesso del collegio, in via Casalmonferrato, a san Giovanni, e l’attigua Villa Lituania, una casa per ferie che può ospitare fino a 80 turisti. «Ma mi piace molto anche “perdermi” in qualche chiesetta del centro e sentire la spiritualità che le anima. Per avvertirla davvero, però, bisogna andarci la mattina presto o il pomeriggio tardi, quando non c’è nessuno». Altre volte a richiamarlo fuori dall’istituto sono gli impegni alla fondazione Migrantes della Caritas, per la quale Petras è coordinatore pastorale della comunità lituana. Un appuntamento che ogni mese lo porta a incontrarsi con 13 sacerdoti di tutti i Paesi del mondo, dall’India alla Cina, dalle Filippine all’America Latina. «Ci confrontiamo sui problemi dei migranti dei rispettivi Paesi per trovare soluzioni comuni, ma devo ammettere di essere abbastanza R O M A N I 59 D ’ E U R O P A fortunato: in tutta Italia i lituani sono solo 4.000 e a Roma appena 200, quasi esclusivamente donne. Per lo più preferiscono l’Inghilterra, l’Irlanda o la Germania. Con ingresso nell’Unione europea, i lituani hanno risolto la maggior parte dei problemi, legati soprattutto al rilascio del permesso di soggiorno». L e occasioni di contatto coi romani, per quanto limitate, non mancano: la messa celebrata nelle parrocchie, dalle suore dell’istituto San Gianelli ma specialmente le benedizioni pasquali. Una mansione che in poche settimane permette a Petras di tastare il polso del “paese reale” più di tante funzioni religiose celebrate dall’altare. «In un giorno si possono visitare fino a 30-50 case e, per faticoso che sia, devo ammettere che mi piace “intrufolarmi” dove vivono le persone, perché consente di conoscere e vedere da vicino la loro esistenza e i loro problemi. Ma c’è una cosa in particolare che mi rende felice: vedere le famiglie riunite, colte in un momento di tepore 60 R O M A N I D ’ E U R O P A domestico, in quegli stessi ambienti in cui vivono. In Lituania sono più disperse, può capitare che si mangi a orari diversi, mentre qui è ancora un rito». Il tempo è sempre limitato però con gli anni Petras ha appreso “segreti” importanti: «Se arrivi all’ora della cena, è meglio non fermarsi troppo. C’è una forma di gelosia della propria intimità che dipende anche dall’orario di visita …». Oltre a una conoscenza più ravvicinata, con le visite in casa arriva tuttavia anche un’altra verità: «Pochi aprono la porta della loro casa per davvero e fare sul serio amicizia non è facile. Nonostante sia ormai molto che vivo qui, io ci sono riuscito solo con due o tre famiglie. Sono stato tre anni vicino Brescia, a Binzago, e lì era diverso, più facile. Da quello che mi raccontano alcuni studenti che vanno a fare da aiuto parroco in estate, anche in Sicilia è così: le persone ti invitano a cena e sono più aperte. Trovo invece i romani un po’ chiusi ma forse è colpa delle grandi dimensioni della città». Un giudizio severo, mitigato però dalla predisposizione ad aiutare il prossimo: «Vedo che c’è molto volontariato ed è bello vedere tanta gente impegnata nelle parrocchie. «Chi prova il caffè italiano non può più farne a meno. E chi prova quello di sant’Eustachio diventa subito esperto» Da noi in Lituania non è tanto diffuso, accade solo per il basket, che è lo sport nazionale. Abbiamo appena ospitato i campionati europei e tutti si sono dati da fare come volontari. Forse è vero che per i lituani è una religione “secondaria”», ironizza Petrus. E proprio il basket per i giovani sacerdoti del collegio (14 quelli che vi studiano attualmente) è il principale modo per conoscere i coetanei romani. Ogni fine settimana, infatti, i “pretini” vanno a giocare alla scuola san Gianelli, a volte fra di loro e da un paio di anni in qua anche con ragazzi italiani. Nel 2008 hanno anche partecipato alla Clericus cup di basket. «Quando dici Lituania tutti pensano al basket, eppure sono arrivati quarti», sbuffa sornione il rettore mentre mostra non senza orgoglio la coppa. «Forse non si sono impegnati abbastanza…» La pallacanestro è infatti una passione che lo porta a seguire con attenzione anche il campionato nostrano: «La Montepaschi Siena ha capito quanto sono forti i lituani, peccato non ce ne siano anche nella Lottomatica Roma». Un “amore”, il basket, secondo solo a quello per il caffè espresso, che porta Petras a dispensare consigli: «Chi prova il caffè italiano non può più farne a meno. E chi prova quello di sant’Eustachio diventa subito esperto». Proprio come un perfetto intenditore… O un perfetto italiano. R O M A N I 63 D ’ E U R O P A A Roma per amore, l’amore per Roma fotografie di Alessandra Quadri N ella vita come nella storia accade a volte che, dopo anni di stasi, le cose prendano un’accelerazione repentina. Un tumulto inimmaginabile capace di far crollare improvvisamente opinioni consolidate e dispiegare un futuro nuovo e inaspettato. Per Paoulina Tiholova tutto questo è accaduto nel 1989. È l’anno delle grandi trasformazioni, nell’est Europa. In estate dall’Ungheria alla Germania est si propaga un effetto domino che nel giro di pochi mesi sconvolge un assetto geo-politico decennale e fa crollare le diffuse convinzioni sull’immutabilità del blocco orientale. Allo stesso modo, la vita di Paoulina sembra ricalcare in piccolo quest’inatteso sconvolgimento. Lei ha 33 anni e in Bulgaria è un affermato architetto: insegna Rilievo e composizione all’università di Sofia e lavora all’Accademia internazionale di architettura, che ha sede nella capitale. In vista dei 50 anni dell’Ordine degli Architetti di Roma, che ricadono proprio in quel fatidico 1989, Paoulina arriva a Roma per prendere contatto col circolo romano e organizzare in patria una mostra sul loro lavoro. Senza 66 R O M A N I D ’ E U R O P A sapere che quel viaggio avrebbe imposto una sterzata impensata alla sua vita. «Organizzammo una cena e un collega italiano invitò un amico e architetto a sua volta, Pietro Reali», ricorda lei. Nasce una simpatia reciproca ma il tempo rema contro. C’è appena la possibilità di passare tre giorni a Firenze, che Pietro insiste per farle vedere, e già Paoulina deve ripartire per la Bulgaria. Tutto finito? Nemmeno per sogno, perché tempo due mesi e l’architetto si presenta a Sofia: «Telefonò e chiese di potermi venire a trovare. E quando arrivò chiese la mia mano. Figurarsi, io non pensavo per nulla al matrimonio», ride Paoulina. «Pensavo di essere già andata troppo avanti con gli anni ed ero convinta che non mi sarebbe mai capitato di sposarmi». La decisione non è facile: abbandonare il proprio Paese, la famiglia, la carriera per un uomo che in tutto ha visto 21 giorni in quattro volte, per una cultura diversa e uno stile di vita agli antipodi. «Ho abbracciato l’Italia con coscienza ma ho avuto anche l’aiuto dei colleghi e amici di mio marito, professionisti molto affidabili anche dal punto di vista personale, che mi hanno convinto che era la scelta giusta», ammette Paoulina. «Sotto questo punto di vista, il lavoro è stato «Ho abbracciato l’Italia con coscienza e il lavoro è stato un fondamentale elemento di integrazione per me» davvero un fondamentale elemento di integrazione per me». La data fissata per le nozze è l’11 novembre ma gli avvenimenti internazionali precipitano e stravolgono i piani: il 9 novembre cade il Muro di Berlino e anche in Bulgaria iniziano i fermenti della protesta. Il matrimonio va rimandato di una settimana. Slitta una seconda volta ma alla fine il 25 novembre Pietro e Paoulina, uniti profeticamente anche nel nome, diventano marito e moglie. Per il “sì” italiano, scelgono il giorno del loro onomastico: il 29 giugno 1990. In una città imbandierata all’inverosimile per i Mondiali di calcio, i due architetti, ormai uniti nella vita e nel lavoro, scelgono una location tutt’altro che casuale: Sant’Ivo alla Sapienza. Il complesso è in ristrutturazione e i parenti italiani storcono il naso per la presenza dei ponteggi nel cortile. «Ma non potevate trovare un altro posto?», domandano increduli. La risposta di Paoulina dice molto del suo modo di concepire la città in cui è andata a vivere: «Il significato di quel sito era più importante di tutto il resto. La cupola, il rovesciamento dei canoni tradizionali operato da Borromini, le soluzioni architettoniche adottate: per noi rappresentavano qualcosa di meraviglioso». A vent’anni di distanza, questa concezione “corporea” di Roma è rimasta inalterata: «Sarà una deformazione professionale, ma io amo questa città nella sua forma più materiale di espressione: gli edifici, chi li ha fatti, la storia che c’è dietro, la provenienza dei materiali impiegati. La mia professione gioca un ruo- lo decisivo in questo, tanto che riesco a estraniarmi dal traffico e dal rumore quando guardo un palazzo storico. Ma non è stato sempre così, questo è solo il risultato di un lungo processo. All’inizio, ad esempio, non sopportavo il romanesco. Lo trovavo rozzo e volgare. Col tempo, invece, ho iniziato ad apprezzarlo e soprattutto a capire la differenza rispetto al romanaccio. Mi sono così resa conto che possiede una tale ricchezza, lessicale ma anche visiva, nella sua gestualità, da sentirlo profondamente. Ci sono voluti dieci anni per farmi entrare Roma nel sangue e amarla in una maniera inguaribile. E adesso, come c’è il “mal d’Africa”, io ho il “mal di Roma”: quando sono fuori arrivo a soffrire di nostalgia. E quando ci torno mi dico sempre: “Ecco, sono di nuovo a casa”». Un amore, quello per la Città eterna, che inevitabilmente si intreccia col lavoro, caratterizzato da una concezione “integrale” della loro professione che porta Paoulina e il marito a rifiutare di lavorare coi privati per non dover scendere a compromessi. «Preferiamo fare sempre e solo bandi pubblici, così quando vinciamo possiamo realizzare il progetto nel modo in cui abbiamo deciso noi. Come è accaduto a Trastevere per la mensa e l’aula magna di palazzo Salviati, dove ha sede il Centro Alti Studi per la Difesa, per il cornicione di palazzo Marina al Flaminio o la residenza ufficiale dell’ambasciatore degli Emirati ara- R O M A N I 69 D ’ E U R O P A bi». Fra gli altri progetti realizzati fuori dalla Capitale, invece, vanno annoverati i musei archeologici a Barumini e Quartucciu, in Sardegna, e un grande centro congressi a Udine. L’ARCHITETTO DIVENTA PRESIDENTE E “PRESIDE”. L’amore per Roma e la romanità, tanto forti da essere un tratto distintivo, non hanno però mai spinto Paoulina a recidere i legami con le sue origini. Al contrario, è speculare al mantenimento dell’identità originaria, che l’ha portata alla guida della comunità bulgara ortodossa. Il luogo di ritrovo è la chiesa dei santi Vincenzo e Anastasio, in piazza Fontana di Trevi, una sede prestigiosa considerato che fino alla breccia di Porta Pia era la parrocchia dei Papi, che risiedevano al Quirinale. A concedere l’uso della struttura per le funzioni liturgiche è stato Giovanni Paolo II, che per la sua provenienza polacca si è sempre mostrato particolarmente sensibile verso le esigenze di culto delle popolazioni dell’Europa orientale. «Qui celebriamo battesimi, matrimoni e funerali ma in giorni e orari ben definiti, perché oltre a noi nella gestione della chiesa ci sono la comunità cattolica e l’Arciconfraternita di Gesù Maria e Giuseppe e per le Anime più bisognose del Purgatorio», spiega Paoulina. «I rapporti sono ottimi con tutti: l’ecumeni- 70 R O M A N I D ’ E U R O P A «Ci sono voluti dieci anni per farmi entrare Roma nel sangue e amarla in una maniera inguaribile. E adesso, come c’è il “mal d’Africa”, io ho il “mal di Roma”: quando sono fuori arrivo a soffrire di nostalgia» smo in pratica lo realizziamo tutti i giorni e per la festa dei patroni, il 22 gennaio, c’è sempre grande spirito di collaborazione». Quello bulgaro è un piccolo mondo geloso delle sue tradizioni, che si “apre” alla città in concomitanza con le grandi feste. Come il 6 gennaio, in occasione della benedizione dell’acqua: un richiamo al battesimo di Cristo nel fiume Giordano che si esprime nel lancio simbolico di una croce d’argento all’interno della Fontana di Trevi a scopo purificatorio. O come il 24 maggio, giorno dei santi Cirillo e Metodio e Festa dell’alfabeto cirillico e della cultura slava, quando i bambini regalano fiori alle maestre come forma di ringraziamento per il loro lavoro. E lo stesso accade anche a Roma, dove da due anni è attiva una scuola di lingua e cultura bulgara frequentata da una cinquantina di ragazzi e di cui Paoulina è “preside”. Le lezioni si svolgono il sabato e la domenica nel grande complesso attiguo alla chiesa dei santi Vincenzo e Anastasio: lingua e letteratura bulgara, storia e geografia della Bulgaria e un po’ di matematica in bulgaro sulla base dei compiti scolastici, per imparare i termini tecnici e a sviluppare un ragionamento in un’altra lingua. «Quest’anno siamo stati riconosciuti dal ministero dell’Istruzione pubblica bulgara e così tutti i genitori che vogliono tornare a casa avranno dei figli con nozioni valide per il loro percorso di studi», dice orgogliosa Paoulina, che alla scuola ha mandato anche le sue due figlie, che oggi hanno 20 e 16 anni. Per i più piccoli, invece, c’è l’asilo: racconti di favole della tradizione e piccoli giochi, sempre in bulgaro. Le maestre, tutte ex insegnanti in patria, sono sei. Un lavoro, il loro, che si regge unicamente sul volontariato: la scuola infatti mette a disposizione solo un abbonamento all’Atac come rimborso per il viaggio. Paoulina si occupa invece dell’organizzazione della parte materiale e del coordinamento di quella didattica: dall’acquisto dei moduli per l’illuminazione ai tavoli, dai tappetini per i bambini ai libri, dalla presentazione dei programmi di insegnamento al ministero dell’Istruzione in Bulgaria alle gite culturali per Roma. «Lo faccio perché è una cosa che sento da dentro», dice lei. «Appartengo a una famiglia che ha sempre partecipato alla vita sociale nel mio Paese: i miei trisavoli hanno sovvenzionato l’eroe nazionale Vassil Lefski contro il dominio ottomano, mio nonno ha finanziato la realizzazione dell’ospedale nella sua città natale, l’altro ha donato una scuola alla propria e ha sostenuto il Partito dei contadini nel periodo fra le due guerre. Insomma, impegnarmi per la comunità per me è quasi come un dovere di famiglia». Un dovere, ma al tempo stesso anche una speranza per il domani: «I giovani sono il futuro della nazione e questo dipende soprattutto da come li si educa. Quelli della nostra scuola, in particolare, saranno portatori di due culture diverse ed è bene che non perdano quella dei loro genitori solo perché vivono in un Paese diverso. Per questo non mi stanco mai di ripetere loro di non avere vergogna della loro origine ma di andare orgogliosi della fortuna che è capitata loro». L’enclave romena di Bogdan fotografie di Matteo Bastianelli «Mici, sărmăłuţe, ciorbă de bută… I miei clienti vengono al mio ristorante perché i prodotti sono come quelli che mangiano in Romania» L a piccola Bucarest della Capitale ha trovato casa a Isola Sacra, fra Ostia e Fiumicino. È qui, lungo una strada che conduce dritta all’aeroporto, che i romeni di Roma “stanchi” di pasta e pizza possono ritrovare i sapori della loro cucina tradizionale: mici (carne di maiale macinata con spezie), sărmăłuţe (involtini di verza con carne), ciorbă de bută (brodo di trippa). E ancora: salumi, peperoni, particolarità come il collo affumicato e semipreparati che arrivano direttamente dai Carpazi. «Vengono qui perché i prodotti sono come quelli che mangiano in patria», dice Bogdan Neagu, un ragazzone di 27 anni alto un metro e 90. Il proprietario è lui, anche se dall’abbigliamento non lo diresti: indossa t-shirt, pantaloncini e infradito e più che un ristoratore sembra un turista di ritorno dalla spiaggia. «Qualche cliente che non mi conosce in effetti si meraviglia per come sono vestito, ma sono un tipo informale: è il Bogdan style», sorride. Indica il miscuglio di generi che arredano il ristorante: le 74 R O M A N I D ’ E U R O P A sedie da corte reale accanto agli spartani banconi di legno, le barocche cornici dorate alle pareti e il separé leopardato che introduce al bagno, gli stucchi leggermente kitsch e il gigantesco leone all’ingresso, fatto arrivare dall’Egitto. «Anche questo è tutto Bogdan style», afferma orgoglioso. Prima di venirsi a sedere per l’intervista è passato a salutare tutte le persone ai tavoli, quelle con cui è più in confidenza e quelle cui ha rivolto appena un saluto, come a informarsi se trovano il cibo di loro gradimento. Una specie di grande famiglia, dove tutti si conoscono e si riconoscono. E qui Bogdan tira fuori la prima lezione appresa empiricamente nel corso degli anni: «Bisogna parlare coi clienti, sempre, anche se magari non ne hai voglia: i rapporti personali sono tutto e poi molti vengono a mangiare qui anche per incontrarmi, perché ormai sono come degli amici. La vera essenza dell’Hanul romanesc restaurant e delle varie attività di Bogdan ruota infatti intorno a un unico concetto: ricreare a Roma un pezzetto di patria. Non un modo per ghettizzarsi e sfuggire all’integrazione, che tutti “vivono” durante la settimana, ma un piccolo mondo in cui ritrovarsi per avere un punto fermo anche nel mare magnum della comunità romena, composta da migliaia di persone. Una minoranza numericamente tanto rilevan- te da rischiare di essere fin troppo dispersiva. Ecco allora il senso di un ristorante di cucina tradizionale e di una macelleria che vende prodotti tipici come quella che Bogdan ha aperto a Ostia. Muovendosi in un orizzonte simile, è evidente quanto i rapporti personali giochino un ruolo fondamentale: «Avevo aperto un altro ristorante a Roma in via Giolitti ma l’ho dovuto cedere dopo sei mesi perché non riuscivo a stargli dietro: se andavo là, la gente non mi trovava qua e perdevo clienti; se restavo qua, non potevo seguire l’andamento del locale». Eppure che questo dovesse essere il suo destino non stava scritto da nessuna parte. Un approdo, come spesso capita nella vita, del tutto fortuito. Con un percorso iniziato, strano a dirsi, fuori da una discoteca di Acilia. «Studiavo ingegneria economica a Yasc ma non avevo abbastanza soldi così nel 2003, a 19 anni, sono venuto in Italia, dove c’era mio zio. Ho iniziato a lavorare in una ditta di mobili a Pavona e dopo sei mesi sono diventato capo magazziniere. Non bevevo, non fumavo, non avevo una ragazza: in pratica non avevo spese. Mangiavo e dormivo soltanto e ho iniziato a mettere da parte un po’ di soldi.Volevo fare qualcosa, ottenere quel che non avevo potuto avere, anche se non avevo ancora le idee ben chiare». Aiutato anche dalla sua stazza Bogdan, che in Romania ha praticato kickboxing, nel fine settimana va a fare il buttafuori in alcuni locali e con la sua intraprendenza inizia a farsi conoscere. «All’epoca non c’erano tanti posti per i romeni, giusto qualche bar a Ostia e allora ho iniziato a organizzare serate in un ristorante di Acilia: karaoke, musiche tradizionali, feste a tema… Ogni sabato aumentava la gente, tanto che a un certo punto mi sono detto: “ma invece di far guadagnare gli altri, non la posso fare da solo questa cosa?”». Il risultato è la nascita della discoteca “Faraon”, un ex pub che presto diventa un riferimento per i romeni della zona. «Ormai è diventato un punto d’incontro tale per la comunità che qualcuno trova perfino lavoro». Il “menu” offerto è grosso modo lo stesso già collaudato ad Acilia, con party tematici il sabato e serate per donne la domenica, quando il Faraon torna a essere un pub. Per arricchire l’offerta, Bogdan a volte fa venire perfino dj e cantanti direttamente da Bucarest. Non tutto fila sempre liscio però. «Il fatto che fosse il locale di un romeno frequentato quasi esclusivamente da romeni ha attirato molti controlli, tanto che mi hanno chiuso il locale due volte: una perché hanno trovato un ragazzo che fumava una sigaretta, un’altra per una rissa all’esterno. Ho commesso degli sbagli ma nessuno nasce imparato e col tempo ho capito come si fa questo mestiere. Oggi sono molto più attento e anche la polizia alla fine ha compreso che è un posto tranquillo, frequentato da gente che lavora tutta la settimana e che pensa solo a divertirsi». Un risultato che è anche merito degli sforzi per mostrarsi al di fuori di ogni sospetto. Dopo diverso tempo, infatti, Bogdan incontra in un ristorante il poliziotto che gli ha chiuso il locale. Anziché fingere di non vederlo, lo va a salutare e si ferma a chiacchierare con lui. «All’inizio mi ha guardato un po’ strano perché non capiva per quale ragione volessi parlargli. Pensava che nutrissi del risentimento, invece gli ho spiegato che ero lì proprio per mostrargli che non avevo niente contro di lui personalmente». Gli affari vanno bene e dopo qualche anno Bogdan può estendersi anche in un edificio adiacente, occupato da una società di catering che lavora per l’aeroporto. Lo ristruttura tutto e lo trasforma in ristorante. «Prima che lo prendessi era una mezza baracca, io l’ho fatto rinascere e adesso mi rendo conto che anche se volessi non lo potrei mai lasciare perché ci sono troppo affezionato. Ho nel cuore tutti i miei locali». C omplessivamente Bogdan dà lavoro a venti persone: due in macelleria, cinque nel ristorante e tredici in discoteca fra buttafuori, camerieri, barman e dj. Attività che richiedono una mole di impegni che, com’è facile immaginare, gli lasciano pochissimo tempo a disposizione. «Vado a letto alle 3 e mi sveglio tutti i giorni alle 7. Il fine settimana dormo ancora meno perché torno sempre a casa all’alba. E il lunedì che il ristorante è chiuso è dedicato a tutto il resto: banca, commercialista, ordinativi… Ma il lavoro non mi spaventa: ci sono abituato, fin da bambino. Sono cresciuto coi genitori di mia madre, che ho perso a 12 anni, e quando sono venuti e hanno visto tutto quello che faccio, mia nonna si è preoccupata: “Troppe cose per una testa sola”, ha detto. Mio nonno, invece, è un uomo di poche parole e si è limitato a dirmi: “Vai sempre avanti, non ti fermare mai”. Si vedeva che erano orgogliosi e commossi. Ho cercato di convincerli a stabilirsi qui ma questo non è un posto per loro. Sono contadini e hanno le loro vite e la loro mentalità». Seguendo l’insegnamento del nonno, Bogdan va avanti ostinato. Grazie anche all’aiuto di Mihaela. L’aveva presa quando era appena sedicenne a lavorare in discoteca come cameriera. Lei l’ha conquistato e un anno e mezzo fa lo ha reso padre di Stefania, che ha stravolto dolcemente tutti i piani. «Quando sono arrivato in Italia volevo solo lavorare. Pensavo: vado, resto qualche anno, metto da parte un po’ di soldi e poi torno a casa. Ho continuato a pensarla così a 78 R O M A N I D ’ E U R O P A lungo, perché questo Paese per me è una seconda patria ma dentro ho sempre la Romania. Dopo che mi è nata la pupa non lo so più e in parte ho cambiato idea. In fondo lei è italiana… Insomma, il mio futuro resta un punto interrogativo». L’unica certezza resta il lavoro. «Nessuno mi ha mai regalato niente nella vita: sono cresciuto senza genitori, faticando per ogni cosa che ho avuto e voglio che mia figlia non debba mai passare quello che ho dovuto passare io. Sono quattro anni che non vado in ferie e l’ultima volta è stato per una settimana soltanto. Mihaela invece vorrebbe tanto andare a Parigi, me lo ripete in continuazione…» Finora Bogdan ha sempre resistito. Forse adesso che c’è anche la piccola Stefania prima o poi cambierà idea anche su questo. «Volevo restare in Italia solo qualche anno. Pensavo: vado, resto qualche anno, metto da parte un po’ di soldi e poi torno a casa. Dopo che mi è nata la pupa non lo so più, in fondo lei è italiana… Il mio futuro resta un punto interrogativo» Ballando sulla cortina di ferro La vita spericolata di Jitka, di qua e di là dal Muro fotografie di Marco Baroncini T I T O L O P R O V V I S O R I O D E L 81 L I B R O L a primavera di Praga, Dubcek, il sogno del socialismo dal volto umano. Breznev, l’ultimatum, i carri armati sovietici. Le trattative, le ricerche in piena notte, la fuga. Vienna e Zurigo, Monaco e Londra, Parigi e Roma. Il Kgb, l’ambasciata, l’esilio. Il poeta Ripellino e Rossana Rossanda, Giorgio Albertazzi e Gabriele Lavia, Craxi e Berlinguer. Jitka Frantova sfoglia l’album dei ricordi sul terrazzo del suo attico a due passi dal Pantheon. Memorie lontane ma più vivide che mai nella mente, come una ferita ormai rimarginata che però inesorabilmente riporta alla memoria ciò che è stato. Racconti di un altro mondo, dove la vita quotidiana si incrocia con la storia e la geopolitica. Un romanzo d’avventura fatto di frontiere e controlli di polizia, avvertimenti e minacce, spie e pacchi bomba. Migliaia di chilometri macinati da una parte all’altra della cortina di ferro “a cavallo” di una 600 Fiat rossa fiammante, facendo leva solo sulla temerarietà della propria giovinezza. Come quella che spinge una giovane attrice a restare nella Praga invasa dai tank russi 82 T I T O L O P R O V V I S O R I O D E L L I B R O per non dover rinunciare al ruolo da protagonista in un musical. Anni che Jitka ha passato accanto a un nome di punta del dissenso cecoslovacco: Jiri Pelikan, esponente di primo piano del Partito comunista e giornalista di successo, amico personale di Ernesto Che Guevara e protagonista della Primavera di Praga, poi “traditore”, europarlamentare del Psi e attivista per i diritti umani. Un marito famoso ma anche riconoscente, che poco prima di congedarsi per sempre dal mondo lascia un biglietto alla donna che l’ha accompagnato in mille traversie: «Ho fatto cose di cui vado fiero e altre meno, ma i momenti più difficili li ho vissuti con te. Grazie per avermi permesso di superarli a testa alta». «Abbiamo avuto insieme una vita piena, anche difficile ma di certo non noiosa», ammette Jitka dall’azzurro profondo dei suoi occhi. «Sono stata la prima attrice in assoluto a essere licenziata dal teatro di Praga per motivi politici: mi hanno vietato di svolgere qualsiasi attività artistica in Cecoslovacchia perché ero la compagna di un “rinnegato”. Sono perfino stata condannata in contumacia a tre anni di prigione. Ma non ho quasi mai avuto pau- stroncare le riforme avviate all’inizio dell’anno dal ra di nulla, per carattere. Credo che non si debba nuovo segretario del Partito comunista, Alexanaver timore di niente e di nessuno, altrimenti non der Dubcek. È l’applicazione della dottrina Brezsi va da nessuna parte. Tutto quello che ho vissuto nev: l’approdo al socialismo non è un processo lo considero “un archivio” perché sono abituata a reversibile e i Paesi fratelli hanno il diritto-dovere guardare sempre avanti». di intervenire per impedire che Nel 2008 le peripezie rocamuna nazione amica si allontabolesche di quel periodo Jitka le «Saremmo potuti tornare ni dalla “retta via”. Fra i primi a ha portate su un palcoscenico in patria dopo il 1989 dover essere arrestato, secondo con La mia Primavera di Praga. Alla ma non lo abbiamo fatto prima al teatro India di Roma, con perché non si può sempre la lista nera stilata da Mosca, c’è proprio Pelikan, presidente della la moglie Clio, c’era anche il pre- ricominciare daccapo. commissione Esteri del Parlasidente Giorgio Napolitano, che Lasciare questo Paese mento e direttore generale della ha concesso allo spettacolo l’Alto sarebbe stato un nuovo televisione di Stato, che ha porpatronato. «È venuto a trovarmi esilio» tato nelle case dei cecoslovacchi in camerino ed era visibilmenil nuovo vento di cambiamento. Una cosa impente commosso», dice Jitka, che per il suo impegno sabile per Breznev, che per questo considera la tv ha ricevuto dal Capo dello Stato l’onorificenza di di Praga il “centro della controrivoluzione”. commendatore della Repubblica. Jitka all’epoca è una giovane attrice emergente: È un romanzo, quella dei coniugi Pelikan, che bellissima e affascinante, lavora a teatro in patria merita di essere raccontato. e per la tv tedesca, dove è un volto noto. «Mio marito considerava il ’68 l’anno più felice della sua IL CROLLO. La loro storia fuggiasca inizia quanvita, perché finalmente si realizzavano quegli idedo tutto finisce. Nell’agosto del 1968 l’Unione ali in cui aveva creduto fin da ragazzo ma tutto sovietica invade la “sorella” Cecoslovacchia per «Sono stata la prima attrice in assoluto a essere licenziata dal teatro di Praga per motivi politici: mi hanno vietato di svolgere qualsiasi attività artistica in Cecoslovacchia perché ero la compagna di un “rinnegato”. Sono perfino stata condannata in contumacia a tre anni di prigione. Ma non ho quasi mai avuto paura di nulla, per carattere. Credo che non si debba aver timore di niente e di nessuno, altrimenti non si va da nessuna parte» 84 T I T O L O P R O V V I S O R I O D E L L I B R O precipitò con l’invasione. Io ero a Vienna in quel momento e quando ho sentito la notizia ho capito subito che era tutto finito. Sapevo che rischiava e ho cercato di mettermi in contatto con lui per convincerlo a scappare ma non c’era verso: le comunicazioni erano interrotte e lui era fuggito da casa». E qui iniziano le peregrinazioni di Jitka con la sua 600 rossa, che ne diverrà l’inseparabile coprotagonista di questa storia avvincente. «Ho fatto la spola con Monaco per cercare di avere qualche informazione. Dirigenti della tv austriaca mi hanno perfino convinta a nascondermi in un convento di suore perché avevano saputo che Vienna si era riempita di spie del Kgb e che anche io ero a rischio». I due riescono a incontrarsi nella capitale austriaca ma i problemi non sono risolti: Breznev vuole la testa di Pelikan. Dubcek, formalmente ancora al potere, lo vorrebbe all’Unesco ma i russi si oppongono. La decisione cade sul Continente nero ma Jitka, nel frattempo tornata a Praga, si oppone alla decisione e riesce a convincere i vertici del partito a mandare il marito all’ambasciata di Roma come consigliere culturale. «Il presidente dell’Assemblea nazionale, Josef Smrkovsky, non capiva perché ci tenessi tanto. “Senti, bambina, io firmo ma tu non hai capito proprio niente. L’Africa è il miglior continente del mondo”, mi disse. “Sei tu, compagno, che non hai capito niente”, gli risposi. “Io sono un’attrice, come potrei recitare lì?”. Sapevo comunque che non sarebbe stato facile neanche in Italia: non conoscevo nemmeno una parola di italiano». Arrivati a Roma, Jiri e Jitka vanno a vivere in un brutto albergo sulla Flaminia pagato dall’ambasciata ceca, tenuti d’occhio con sospetto. «Sembrava di essere tornati ai tempi bui dello stalinismo: lì il vento della primavera di Praga non era arrivato. Volevano darci una casa ma avevamo scoperto che il portiere segnava tutti gli spostamenti degli inquilini ed eravamo certi fosse un collaboratore della polizia politica. Così dopo un po’ ci siamo trasferiti in un bellissimo appartamento in via dei Villini, sulla Nomentana, che ci aveva aiutato a trovare il poeta e nostro amico Angelo Maria Ripellino». Il lavoro di attrice intanto continua, anche se le condizioni si sono fatte più difficili. Per un anno, grazie a un passaporto diplomatico, Jitka attraversa senza problemi le frontiere e fa avanti e dietro con Praga, dove a teatro è protagonista in un musical, e la Germania, dove lavora in tv. Una passione tale, quello per la recitazione, da farle correre anche dei rischi: «Attraversavo la città ogni giorno in mezzo ai carri armati russi e quando qualcuno mi diceva di andarmene il prima possibile ripetevo: “Ho lo spettacolo da finire, come faccio?». IN ESILIO. Sono mesi difficili. La doccia fredda arriva a un anno esatto dall’invasione, il 21 agosto 1969. La situazione in Cecoslovacchia è decisamente cambiata: Dubcek è stato destituito e al suo posto è subentrato Gustav Husak, un esponente della vecchia guardia che ha archiviato le riforme, bandito ogni forma di dissenso e imposto di nuovo il ferreo controllo del partito sulla società. È la “normalizzazione”, con cui il regime finisce di regolare i conti ancora in sospeso. «Eravamo in vacanza a Ischia e arrivò una telefonata dell’ambasciata con cui comunicavano a Jiri che doveva immediatamente rientrare a Praga. Era evidente che lo avrebbero arrestato». L’unica condizione che Pelikan riesce a strappare è finire le vacanze pattuite più un mese per completare il passaggio di consegne al suo successore e salutare i colleghi a Roma. È solo un espediente per prendere tempo in attesa di decidere cosa fare, ma funziona. Inizia una peregrinazione continua che porta la coppia a Torino, dove Jiri ha un amico con cui si vuole consigliare. Poi a Basilea dall’economista ed ex vicepremier Ota Sik, l’ideatore delle riforme della Primavera di Praga, anche lui riparato all’estero dopo l’invasione. Infine di nuovo a Roma. E qui, proprio come in un film poliziesco, i due organizzano la messa in scena perfetta: per dare l’impressione che stanno davvero tornando a Praga, fanno portare via tutti i mobili per nasconderli in un magazzino. E per non destare sospetti lasciano perfino una lettera di addio al proprietario e, come forma di ringraziamento per l’ospitalità, un vaso di cristallo. I funzionari dell’ambasciata vorrebbero accompagnare Pelikan in aeroporto ma lui ancora una volta riesce ad averla vinta: andare in auto con la moglie. «Il viaggio è lungo e ho paura a mandarla da sola», spiega. In realtà a Praga i due non arriveranno mai. La destinazione della fuga è Londra. Come si capisce qualche giorno dopo, quando il Times pubblica un suo lungo intervento: “Ecco perché non torno nel mio Paese”, una dura requisitoria contro Mosca e la nuova dirigenza del Partito comunista. «Non scelse l’esilio per paura o comodità ma per continuare la sua battaglia per la libertà», puntualizza Jitka che nel frattempo, ironia della sorte, nonostante il momento tragico deve volare in Germania per uno spettacolo di varietà in televisione. I problemi però non sono risolti, perché non hanno ancora deciso dove trascorrere l’esilio. «Mio marito voleva restare a Londra, avevamo perfino due passaporti britannici immediatamente a disposizione. “Qui potrei solo morire”, gli dissi. Allora stilò una lista dei potenziali Paesi, con un’accurata analisi dei vantaggi e degli svantaggi per ciascuno di noi in base a vari fattori: lingua, opportunità di lavoro, contatti, amicizie... Lui avrebbe potuto vivere in qualunque Paese, per me quello più vantaggioso era la Germania, mentre l’Italia era il meno favorevole sotto tutti i punti di vista. Forse Jiri avrebbe preferito Parigi per la padronanza del francese e le sue conoscenze ma io volevo tornare a Roma: non so spiegare il perché ma il mio cuore era già qui». «Sono sempre più convinta che io e mio marito avremmo potuto vivere in qualunque Paese del mondo, ma da nessuna parte saremmo stati felici come in questa città» Rientrano nella Capitale, ma adesso i Pelikan sono senza un alloggio. Ancora una volta, come già l’anno prima, li aiuta il poeta Angelo Maria Ripellino. La soluzione però non è delle migliori: una stanza nella casa della vedova di un anarchico. Un bugigattolo con un materasso sfondato al centro e peraltro vicino all’ambasciata cecoslovacca. I primi mesi Jiri e Jitka li passano lì dentro: lui in un angolo alle prese col suo primo libro, lei in quello opposto a studiare le 360 pagine di sceneggiatura di un serial per bambini della tv tedesca. Un giorno di dicembre li va a trovare la fondatrice del Manifesto, Rossana Rossanda, incredula per quel che vede: «E voi pensate di trascorrere il Natale qui dentro? Ma siete pazzi?», chiede loro. La giornalista sta andando per le vacanze a Parigi e così mette a disposizione la sua casa ai Parioli. «L’unica condizione era che ci dovevamo occupare del suo gatto», ride Jitka. «Non abbiamo mai dimenticato la sua generosità, perché per noi in quel momento era come un miracolo. Non sono stati anni facili: avevamo perso tutto, non avevamo lavoro, casa, i documenti erano scaduti e ci avevano perfino tolto la cittadinanza. Ma eravamo circondati dal calore umano degli italiani». L’INTERDIZIONE. La coppia sopravvive grazie anche al lavoro di Jitka, nonostante le difficoltà di andare avanti con un permesso di soggiorno rinnovato ogni tre mesi e la necessità di un visto per ogni trasferta all’estero. Praga sa che per far tacere Pelikan è necessario fare terra bruciata attorno alla moglie e proprio per questo è sulla sua attività che si concentrano le pressioni politiche. È una vera e propria escalation: prima proibiscono agli attori connazionali di lavorare con lei all’estero, poi diffidano l’autore ceco che le scrive i testi per la tv tedesca. Il caso assume dimensioni sempre più delicate e nel ‘72 dopo il successo dello sceneggiato Antonia la Forca, tratto da un racconto di Egon Erwin Kisch, il regime decide che è ora di finirla: «La polizia politica cecoslovacca cominciò a ricattare i funzionari della ARD, il primo canale televisivo, fino a convincerli a non farmi più lavorare. Ci riuscirono: mi cancellarono all’improvviso quattro programmi e persi il lavoro». Per Jitka, obbligata all’inattività in patria e ora an- T I T O L O P R O V V I S O R I O D E L 87 L I B R O che all’estero, è la fine. Anche perché non conosce abbastanza bene l’italiano da ottenere una parte. «È stato terribile, iniziavo a star male di salute e pensavo di impazzire», sospira lei. L’unico a mostrare coraggio è un regista ceco in esilio a Colonia, che le affida un piccolo programma radiofonico dedicato alla storia di Praga. Intanto, approfittando della sua capacità nel disegno - che in passato l’ha portata a disegnarsi da sola i costumi di scena si dà alla moda. Con un’amica comprano i tessuti, mentre una sarta cuce i vestiti prendendo Jitka a modello. Gli abiti vengono poi mostrati nel giro delle conoscenze, in piccole sfilate fatte in casa. Il successo è tale che le confezioni, tagli unici realizzati su misura per le acquirenti, vengono acquistate perfino in Austria, Francia e Germania. Nel frattempo il clima attorno a Pelikan non migliora e cominciano ad arrivare nel loro appartamento lettere anonime, minacce, ritagli di giornali raffiguranti cadaveri e articoli sugli attentati delle Brigate rosse. Poi, dal momento che la pressione psicologica non ha effetto, perfino un pacco bomba nascosto in un libro. Dopo anni di “anonimato”, tuttavia, la vicenda di questo esule inizia a trovare sponda politica: «Quando arrivammo mio marito contava molto sull’appoggio del Partito comunista italiano, che aveva condannato ufficialmente l’invasione di Praga. Scrisse lettere a Berlinguer, Segre, Achille Occhetto ma non ebbe mai alcuna risposta. L’unico aiuto politico lo trovò nel Psi di Bettino Craxi, che finanziò anche la sua rivista Listy, diffusa clandestinamente a Praga». Nel 1977 i coniugi ottengono la cittadinanza e due anni dopo per Pelikan arriva la candidatura alle prime elezioni per il Parlamento europeo. «Il segretario socialista, grazie al suo coraggio politico e personale, capì l’importanza di portare a livello internazionale la voce dei Paesi oppressi», afferma Jitka. Risultato: 130.000 preferenze e la conquista del seggio a Strasburgo. In una vignetta su Repubblica Forattini raffigura l’elezione del dissidente cecoslovacco da par suo: una penna 88 T I T O L O P R O V V I S O R I O D E L L I B R O «Ho una vita ricchissima tanto da non avere quasi il tempo di respirare. Sto recuperando per tutti gli anni che sono stata costretta all’inattività» stilografica marca Pelikan che schizza inchiostro in faccia a Breznev e forma una macchia a forma di garofano, simbolo del Psi. LA RINASCITA. Miracolosamente il disgelo inizia anche per Jitka, che in Germania e Austria negli anni Ottanta torna sulla cresta dell’onda. Ma stavolta a teatro: Berlino, Colonia, Monaco, Francoforte, Vienna. Gli spettacoli si susseguono senza sosta: L’affare Makropulos, Sunset Boulevard, Jedermann di von Hofmannsthal… E a ridosso del fatidico ’89 le porte si aprono anche in Italia. Merito del dramma Maria lotta con gli angeli di Pavel Kohout, esponente di Charta 77 in esilio a Vienna, ispirato alla vicenda (vera) di un’attrice cecoslovacca, fra l’altro docente di Jitka, cui era stato vietato di lavorare per motivi politici. «Quando l’ho letto sono rimasta folgorata e ho pensato subito a Giorgio Albertazzi». Lei in realtà non lo conosce nemmeno, ma approfitta di un suo spettacolo per andarlo a trovare in camerino e proporgli la sceneggiatura. Il progetto alla fine va in porto, anche se non mancano i problemi tecnici: l’ambientazione è a Praga ma le riprese vengono effettuate a Trieste e Lubiana per l’impossibilità di girare nella capitale ceca. Le difficoltà, anche politiche e finanziarie, non intaccano tuttavia la convinzione dei partecipanti: «Vivevamo il film come una missione. Volevamo fare luce sulla situazione di quegli artisti che non potevano recitare e sul set c’era un’atmosfera davvero particolare». Nella sua regia Albertazzi opta per il lieto fine, facendo trionfare il bene. Gli angeli del potere va in onda su Raidue all’inizio del 1989. Incredibilmente e inaspettatamente dopo qualche mese cade il Muro di Berlino. Da quel momento tutto subisce un’accelerazione improvvisa e dopo anni di purgatorio, Jitka torna finalmente a calcare l’amato palcoscenico. Anche dove prima non c’era mai riuscita, come in Italia, o in patria, dove viene finalmente riabilitata. Dopo la “rivoluzione di velluto”, che abbatte pacificamente il regime, con Albertazzi porta il film al festival cinematografico di Karlovy Vary. A Roma debutta con Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello per la regia di Mario Missiroli insieme a Gianrico Tedeschi, Gabriele Lavia e Monica Guerritore. Poi arrivano Il giardino dei ciliegi di Cechov, sempre con Lavia («uno dei più bei lavori della mia vita», ricorda Jitka) e Lettere ad Olga, una serata d’onore per il presidente Vaclav Havel al teatro Argentina, sempre con Albertazzi. «Mi girava la testa, finalmente po- Makenoise l’arte libera che fa rumore tevo lavorare anche nel Paese in cui vivevo. Parlare una lingua e recitare sono due cose diverse: c’è la difficoltà di pensare, sentire, amare in italiano e per me ancora oggi è difficilissimo e richiede mesi di preparazione. E poi la concorrenza è molto forte: un ospite ha dei privilegi e i suoi errori sono accolti con un sorriso; un rifugiato politico ha le spalle scoperte, non può contare sulle referenze di nessuno né può dimostrare nulla dei suoi precedenti spettacoli. Ci vuole un duro lavoro per farcela». Dopo aver promosso uno scambio culturale fra l’Italia e la Repubblica ceca, nel 2004 Jitka riesce anche a portare al Teatro Nazionale di Praga Venditore d’anime di Alberto Bassetti e Memorie di Adriano, in cui interpreta l’imperatrice Plotina. «È stata una grande emozione, dopo tanto anni, tornare in scena nella mia città e per di più recitando in italiano al fianco di Giorgio Albertazzi». Oggi le “acrobazie” dei tempi della guerra fredda sono un ricordo lontano. Jitka però continua a cercare di realizzare i suoi sogni: «Ho una vita ricchissima tanto da non avere quasi il tempo di 90 T I T O L O P R O V V I S O R I O D E L L I B R O respirare. Sto recuperando per tutti gli anni che sono stata costretta all’inattività», scherza. Oggi recita in tre lingue e porta avanti tre spettacoli contemporaneamente: Sunset Boulevard al Teatro Nazionale di Brno, La mia Primavera di Praga in Italia e uno spettacolo di tango argentino a Monaco. Proprio il tango, da sette anni, è infatti l’ultima passione di Jitka, che ha sempre amato e praticato la danza: «È come un virus, che non conosce vaccinazione né medicazione». Dalla strada giunge il vociare delle comitive dei turisti, l’intercalare dei negozianti, i campanelli di qualche bicicletta di passaggio. Sullo sfondo, Roma respira. In questa lunga cavalcata, a ben vedere l’unico punto fermo è proprio l’attico vicino al Pantheon. «Saremmo potuti tornare in patria dopo il 1989 ma non lo abbiamo fatto perché non si può sempre ricominciare daccapo: sarebbe stato un nuovo esilio», ammette Jitka. «Ormai le mie vere amicizie le ho qui, la mia patria è l’Italia, in Repubblica ceca mi sento ospite. E soprattutto sono sempre più convinta che aveva ragione Jiri quando diceva che avremmo potuto vivere in qualunque Paese del mondo ma da nessuna parte saremmo stati felici come in questa città». M akenoise è un’associazione culturale indipendente che ormai da qualche anno riunisce giovani autori: artisti, fotografi, registi, scrittori desiderosi di misurarsi con le sollecitazioni del tempo e della città in cui vivono e lavorano. Un’officina culturale e luogo di confronto dove poter sperimentare linguaggi inediti che facciano presa sulla straordinaria varietà del visibile e del reale, del sommerso e del virtuale. L’ambizione è quella di restituire i mille volti con cui il presente si mostra senza ammorbidirne i contrasti, sottolineandone le contraddizioni per poter meglio illuminare le potenzialità nascoste, la bellezza spesso confinata nelle zone d’ombra. L’intento è di documentare, anticipandoli, i processi sociali e umani in atto, cercando di cogliere il lato positivo e meno scontato del fenomeno, le sue evoluzioni e prospettive future mescolando i saperi e sperimentandoli sul campo. Makenoise realizza progetti multimediali a carattere socio-culturale, raccogliendo attraverso uno sforzo collettivo e partecipato, arti visive, giornalismo e scrittura creativa. Con il contributo di ognuno, cioè un apporto costante in termini di fantasia e curiosità, si possono raggiungere obiettivi impensati e perseguire finalità di largo respiro interrogando le coscienze, suscitando emozioni, parlando chiaro e a tutti. Nessuno escluso. www.makenoise.it www.romanideuropa.it il romanzo virtuale tutto da scoprire U na guida multimediale ed interattiva sul web per navigare tra le immagini fotografiche, le video interviste e le storie di vita di uomini e donne, stranieri comunitari, che vivono e lavorano nella Capitale. Uno spazio multimediale in cui dare corpo e voce al loro passato e al loro presente, per ricostruire un percorso, come tanti tasselli di un unico mosaico che dalla Bulgaria alla Lituania, dalla Romania alla Polonia, dall’Ungheria alla Repubblica ceca, li ha portati fino a Roma. E li ha fatti diventare “Romani d’Europa”. Una produzione Makenoise Hanno fotografato Marco Baroncini Jean-Marc Caimi Manolo Cinti Abramo De Licio Paola Serino Fotoreporter, rappresentato dall’Agenzia Corbis Images. Si occupa principalmente di tematiche sociali. Collabora con varie testate, anche internazionali (New York Times, El Pais, Le Monde, Der Spiegel, Espresso, Corriere della Sera, A, Vanity Fair). Realizza, con il supporto di ong e associazioni umanitarie, progetti di documentazione su emergenze umanitarie in diverse aree del mondo (Sudan, Haiti, India, Palestina, Sudafrica, Guatemala, Romania). I suoi lavori hanno dato luogo a numerose mostre e pubblicazioni di libri fotografici. Fotografo per l’agenzia americana Redux, si occupa principalmente di reportage umanitario. Ha lavorato, fra l’altro, per Il Manifesto, XL di Repubblica, Le Monde Diplomatique, Terra, Panorama Economy e Rockstar. Oltre che per magazine internazionali in Canada, Svezia e Germania. Ha vinto il premio della giuria alla Biennale di Alessandria ed è stato selezionato dal World Photography Award 2009. È docente di fotografia a Roma per un corso dedicato a migranti e rifugiati. Nasce come fotografo freelance, collabora con le maggiori testate italiane ed estere e produce corporate per varie aziende italiane; sempre attento alle tematiche sociali, realizza progetti artistico-culturali esposti in location istituzionali di prestigio e raccolti in varie pubblicazioni, come “Il Prezzo della Libertà” e “Coraggio si ricomincia”. Dal 2008 si occupa di video istituzionali, di documentazione e sociali. Nato a Roma il 14 febbraio 1980, dove attualmente vive. Nel 2006 ottiene il diploma di Fotografia all’Istituto Europeo di Design e inizia a lavorare per agenzie fotogiornalistiche italiane, pubblicando i suoi lavori sui più importanti quotidiani nazionali. Nel 2009 decide di diventare fotografo freelance producendo reportage sociali, politici ed economici per magazine. Durante questi anni è stato presente con i propri lavori a mostre nazionali e internazionali. Vive e lavora a Roma. Studia presso il Centro Sperimentale di Fotografia “Ansel Adams” e segue stage con Leonard Freed, Michael Ackerman e Anders Petersen. Considera la fotografia uno strumento di ricerca espressiva che orienta principalmente nell’ambito del ritratto. Espone i suoi progetti in varie mostre personali e collettive. Nel 2010 viene premiata con il Merit Award del Black&White Magazine Portfolio Contest e con la Menzione speciale TPW del concorso Attenzione Talento Fotografico Fnac. Angelo Carconi Matteo Bastianelli Nato nel 1985, è fotografo freelance, videomaker e giornalista pubblicista. Ha frequentato la Scuola Romana di Fotografia. Attualmente lavora su progetti a lungo termine sulle conseguenze delle guerre nei Balcani. Le sue immagini sono state pubblicate su alcuni dei maggiori magazine e quotidiani nazionali e i suoi lavori sono stati esposti in mostre collettive e personali in Italia, Francia, Olanda e Usa. 92 R O M A N I D ’ E U R O P A Fotoreporter romano, classe 1981. Spostandosi quotidianamente dalla periferia al centro della Capitale, vive da anni di fotografia. Collabora con le maggiori agenzie di stampa e quotidiani nazionali ed esteri. Negli anni ha documentato i più importanti eventi di cronaca del nostro Paese. Pone una particolare attenzione alla “nera”, dove niente è scontato e tutto è realtà. Alfredo Covino Nato nel 1973 vive e lavora a Roma. Ha studiato fotografia presso l’Istituto Europeo del Design e si è specializzato con un master in Fotogiornalismo organizzato da ISFCI di Roma. Ha realizzato reportage sul tema dell’identità e le appartenenze culturali. Ha vinto il premio Yann Geffroy 2008, Finalista al Sony World Photography Awards 2010 e Menzione d’onore all’International Awards Photography 2010 IPA. Cofondatore di Punto di Svista, è membro del comitato di redazione di Punto di SvistaArti Visive in Italia e dell’agenzia OnOff Picture. Alessandra Quadri Si è laureata con una tesi in Storia e Tecnica della Fotografia e ha conseguito un master triennale alla Scuola Romana di Fotografia. I suoi reportage sono centrati soprattutto su temi sociali, in particolare sul mondo femminile: dall’integrazione delle giovani islamiche a Roma al matrimonio infantile in Rajasthan, dalle comunità rom nella Capitale allo strip tease in Italia. I suoi lavori sono stati pubblicati su testate nazionali e le sono valsi premi fotografici nazionali e internazionali. Stefano Snaidero Freelance, ha collaborato con le agenzie Ansa, Contrasto e Prospekt e pubblica sui principali quotidiani e settimanali nazionali. Ha partecipato a diversi progetti tra i quali “Ereditare il paesaggio” accanto a grandi fotografi italiani e al progetto di Amnesty International Spagna sulla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e ha ottenuto la menzione speciale al Premio Internazionale Cassa Lombarda 2008 presso il Centro Forma di Milano. Nel 2009 finalista nella selezione del Joop Swart Masterclass del World Press Photo e della sezione reportage del Professional Photography Awards di Orvieto. Ha suonato Pietro Freddi Musicista e compositore da anni lavora nell’ambito dell’ audiovisivo realizzando musiche per film, documentari, pubblicità e videoinstallazioni. Negli ultimi anni oltre all’aspetto musicale ha cominciato ad occuparsi di prodotti audiovisivi anche come regista e sceneggiatore. Le storie di questo libro sono state scritte da Paolo Fantauzzi Giornalista, nato a Roma nel 1982, lavora in un’agenzia di stampa e collabora con L’Espresso. Ha pubblicato articoli, inchieste e reportage sul Venerdì di Repubblica, Il Fatto quotidiano, Left, Terra, il manifesto e Diario. R O M A N I 93 D ’ E U R O P A L’integrazione dei lavoratori neocomunitari: il contributo ondItalia è ben lieto di associare il proprio nome al progetto “Romani d’Europa”: una iniziativa che, attraverso i del Fondo racconti di persone provenienti dai Paesi entrati nell’UInterprofessionale nione Europea dal 2004 ad oggi e ben integrate nel nostro Paese grazie al “buon lavoro”, può rappresentare uno stimolo FondItalia per tutti coloro che intendono vivere, lavorare, crescere pro- F fessionalmente in Italia e per i quali anche la formazione continua, promossa dai Fondi Interprofessionali, può rappresentare un valido strumento di integrazione. L’inserimento lavorativo dei cittadini stranieri, infatti, è spesso considerato il principale strumento di inclusione sociale nel Paese d’accoglienza. Ciò costituisce anche un banco di prova rispetto all’attuazione delle direttive europee in merito all’integrazione, ma solo nel caso in cui si tratti di accesso ad un lavoro regolare, che assicuri uguali diritti, doveri e pari opportunità: opportunità professionalizzanti e di crescita. FondItalia, promosso da FederTerziario – Federazione Italiana del Terziario, dei Servizi, del Lavoro Autonomo e della Piccola Impresa Industriale, Commerciale ed Artigiana – e UGL – Unione generale del Lavoro – attraverso uno specifico Accordo Interconfederale che riguarda tutti i settori economici, compreso quello dell’agricoltura, per le sue caratteristiche e per i codici etici e morali delle Associazioni che lo hanno costituito, ha particolarmente a cuore la garanzia di una formazione anche derivante da obblighi di legge (lingua, tecnologie, norme, valutazione dei rischi e dispositivi di protezione per quanto riguarda la sicurezza nei luoghi di lavoro) che possa garantire il rispetto dei diritti primari dei lavoratori e, conseguentemente, pari opportunità di integrazione lavorativa e sociale. FondItalia, infatti, avendo optato per una modalità non competitiva di erogazione dei finanziamenti per la formazione (niente Bandi o Avvisi e procedura a Sportello per la loro attribuzione) e per l’aggregazione delle risorse di più imprese in conti unici (Conti Aziende), ha facilitato l’accesso alla formazione finanziata anche ad imprese, in particolare piccole e medie, generalmente in difficoltà nel cogliere le opportunità offerte dai Fondi e con il loro coinvolgimento è notevolmente aumentata anche l’erogazione di formazione a lavoratori stranieri, di frequente neocomunitari, spesso presenti in imprese di questo profilo. L’accesso diretto e semplificato alle risorse, inoltre, ha facilitato l’utilizzo del Fondo anche da parte di imprenditori stranieri, il cui Iavoro autonomo ha iniziato a costituire, negli ultimi anni, una componente importante dell’occupazione degli stranieri nei Paesi di insediamento rappresentando, in molti casi, il principale canale per tentare percorsi di mobilità professionale e sociale, a discapito delle discriminazioni nell’inserimento regolare e nell’avanzamento professionale, spesso frequenti nell’ambito del lavoro dipendente. FondItalia, pertanto, forte della lunga esperienza della Ugl e del SEI - Sindacato Emigrati e Immigrati - associazione costituitasi all’interno della UGL per favorire tutela ed assistenza alle diverse realtà della migrazione in Italia e all’estero, ha deciso di rivolgersi agli imprenditori stranieri che lavorano in Italia in maniera diretta, utilizzando materiali informativi tradotti in varie lingue, e rappresentare, quindi, in maniera sostanziale, una risorsa anche per loro e per i lavoratori che operano all’interno delle loro imprese. Avv. Francesco Franco Presidente di FondItalia Per i “Romani d’Europa - Nuovi Italiani” Nelle fermate Spagna e Anagnina della linea A della metro una mostra dedicata ai “Nuovi Romani” M ostra in metropolitana. Atac sostiene con convinzione l’iniziativa “Romani d’Europa – Nuovi Romani, Nuovi Italiani, Nuovi Europei” promossa dall’Assessorato alle Politiche Sociali – Ufficio Europa di Roma Capitale. Due fermate della linea A della metropolitana – Spagna e Anagnina – vengono trasformate in spazio culturale per ospitare la mostra fotografica d’autore realizzata con le testimonianze dei cittadini stranieri comunitari protagonisti delle interviste. Nel corridoio del Vicolo del Bottino della fermata Spagna - dal 22 settembre al 9 ottobre – e all’interno della fermata Anagnina - dal 10 al 23 ottobre – un’esposizione di ritratti di cittadini stranieri comunitari, che hanno deciso di soggiornare nel nostro Paese, racconta come grazie, soprattutto, al lavoro regolare, siano riusciti a conoscere, imparare e rispettare la nostra cultura, integrandosi nel nostro sistema sociale e istituzionale. A tac, un modello di integrazione. L’integrazione dei cittadini stranieri, quindi la consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri, passa attraverso il valore condiviso del lavoro e del vissuto quotidiano. È proprio grazie alle attività dei suoi oltre 12.000 dipendenti,Atac contribuisce non solo al miglioramento della mobilità, ma anche alla diffusione della cultura dell’integrazione. Basta ricordare che a Roma Atac gestisce 330 linee di superficie (bus, tram e filobus), 2 linee metropolitane (A e B) e 3 ferroviarie (Roma-Lido, Roma-Viterbo e Roma-Giardinetti) trasportando circa 1,6 miliardi di passeggeri l’anno. Fra questi anche i circa 17.000 diversamente abili che fruiscono del servizio a chiamata dedicato con 110 vetture appositamente attrezzate e a basso impatto ambientale. Una platea sterminata di clienti che condivide uno spazio pubblico, di per sé sinonimo di condivisione di regole e valori. La rete Atac si articola su oltre 8.200 fermate. I clienti hanno a disposizione 27 biglietterie, 2.300 punti vendita e circa 1.000 emettitrici di biglietti, 650 delle quali a bordo mezzi. Tutto ciò consente di vendere ogni mese 10 milioni di Bit, biglietti integrati a tempo, ai quali si affiancano oltre 140mila abbonamenti annuali e 400mila abbonamenti mensili con Metrebus card. Atac inoltre, gestisce 2.600 parcometri per il pagamento della sosta su strada. Un assortimento di servizi che fa di Atac la più grande azienda di trasporto pubblico d’Italia, ma anche un esempio quotidiano di integrazione. Sul campo. R O M A N I 95 D ’ E U R O P A Il motto dell’Unione: Uniti nella diversità L a popolazione europea sta cambiando rapidamente per effetto dell’immigrazione, della mobilità intra-comunitaria e delle relazioni transfrontaliere. Una trasformazione storica che è ben rappresentata da un recente studio pubblicato da Eurobarometro con il titolo “I nuovi europei”. Dalla ricerca emerge con chiarezza che in tutta Europa cresce la disponibilità e l’apertura nei confronti della cultura e delle tradizioni degli altri paesi, quello che poi è anche il motto della stessa Unione: “Uniti nella diversità”. L’Europa è una grande sfida, ancora oggi. Si afferma spesso che la costruzione europea è quella della burocrazia o dell’economia, che manca di “anima” e di identità. Ma il fatto che essa cresca, che divenga ogni giorno di più una realtà concreta, è segno che quest’anima esiste. L’Europa esiste, perché è forte della sua storia e di un percorso che dai Padri fondatori arriva fino ad oggi, un sentiero che lega popoli, storie, culture e tradizioni. In questa storia europea, Roma non è solo una città. è a Roma che nel marzo 1957 vengono firmati i trattati che istituiscono la Comunità economica europea e la Comunità europea dell’energia atomica. E a più di 50 anni di distanza Roma è ancora l’essenza stessa della costruzione europea. La nostra città è una piccola europa, in quanto in poche altre città europee sono presenti cittadini di tutti gli Stati membri, sia quelli di vecchia entrata che i nuovi europei, frutto degli ultimi allargamenti del 2004 e del 2007. Migliaia di storie che sono diventate parte integrante della storia di questa città. Persone che ne arricchiscono il suo patrimonio umano e civile, storie di vita, storie europee. Una grande città si contraddistingue anche dal sapere accogliere, stimolando la partecipazione attiva alla vita cittadina, al dialogo con le istituzioni. Le persone che arrivano a Roma, devono poter contare su Roma e Roma deve poter contare su tutti i suoi cittadini, vecchi e nuovi arrivati. L’Europa deve esistere nei fatti e nella nostra vita di tutti i giorni. La dimostrazione di tutto ciò è proprio nella “vicinanza” che è facile trovare nei volti e nelle storie raffigurate nelle pagine di questo progetto. Sono storie di un’area metropolitana in continua espansione, non solo urbanistica ma soprattutto umana. Storie a volte difficili, storie di sacrifici e qualche volta di sofferenza. Storie di un’integrazione che è lontana da ogni retorica, che si compie giorno dopo giorno con il lavoro e la condivisione di questa grande storia comune che è l’Europa e che è Roma. Roberta Angelilli Vice Presidente del Parlamento Europeo Assessorato alle Politiche Sociali Ufficio Europa 10 storie di comunitari, diventati romani d’adozione Il loro personale percorso di integrazione sociale e lavorativa racchiuso in una mostra fotografica Romani d’Europa Nuovi Romani, Nuovi Italiani, Nuovi Europei Un libro da sfogliare e uno spazio multimediale ricco di immagini, testi e video interviste Marco Baroncini Matteo Bastianelli Jean-Marc Caimi Angelo Carconi Manolo Cinti Alfredo Covino Abramo De Licio Paolo Fantauzzi Pietro Freddi Alessandra Quadri www.romanideuropa.it Paola Serino Stefano Snaidero