Untitled - Delrai Edizioni

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Untitled - Delrai Edizioni
Prima edizione: novembre 2016
© 2016 Delrai Edizioni
Milano, Piazzale Siena 6
ISBN 978-88-99960-05-6
Per informazioni sulle novità:
www.delraiedizioni.com
Progetto grafico di Elisabetta Baldan.
Illustrazioni realizzate da Catnip Design.
Elaborazione immagini © Period Images e
© bigstockphoto.com | SunDraw, prometeus, RomanOlegovichLebedev
Impaginazione © Delrai Edizioni.
CRISTINA ZAVETTIERI
Ribelle
Per la mia famiglia,
per mia madre,
per mia figlia.
Per voi, nonni, non ho più bisogno di cercarvi,
vivete in me, per sempre, nei nostri ricordi.
Questo è per Te,
che hai visto oltre,
risvegliandomi, come nelle fiabe più belle.
Lui è più me stessa di quanto non lo sia io. Di qualsiasi cosa siano
fatte le nostre anime, la mia e la sua sono la medesima cosa.
E. Brontë, Cime tempestose
Avrebbe voluto estirpare quell’amore che si era sviluppato dentro
di lui come un rampicante, avvolgendo in spire i suoi organi e le sue
ossa, soffocando il suo cuore e sottraendo ossigeno dalla sua mente
insinuandosi fino al midollo.
Alma Katsu, Il dominatore
Piacere mio, signò, sono Leonardo Capozzi, in arte Nardiello O’
Cantastorie. Quello di Napoli sì, mi conoscete vedo. Ah, ma voi volete
ascoltare la storia del Principe Ribelle? Ho capito, non vi preoccupate.
Accomodatevi, la storia è lunga. Nardiello sta qua per voi con la
zazzera disordinata e gli occhi attenti.
Veniva chiamato il Re Lazzarone oppure ‘O Re Nasone.
Ferdinando, però, di tutti questi pettegolezzi non se n’era mai curato,
anzi continuav ‘a ffa ‘e pazzarie comm a nu scugnizz 1 con gli amici d’infanzia
per le vie della sua città.
Anche oggi che era re di Napoli e padre di una rosea bimba di tre mesi
appena, nonché sposo di Carolina – la bella e algida figlia dell’imperatrice
d’Austria – trascorreva le sue giornate divertendosi. Perseverava, infatti,
verso questa illogica voglia di frequentare i lazzaroni. Voglia che faceva
poi scaturire una serie di pesanti rimproveri da parte della moglie.
Ma cos’altro ci si poteva aspettare da Ferdinando? Era troppo tardi
per cambiare e non aveva assolutamente desiderio di rinunciare ai
divertimenti o ai piaceri della carne.
A onor del vero, lo si poteva spesso trovare sotto le gonne di qualche
procace donna che non desiderava altro di fare felice il proprio sovrano.
Fu in quelle vie che Ferdinando I di Borbone conobbe il frutto della sua
dissolutezza.
Era l’agosto del 1772. La calda e piacevole serata estiva era colorata di
festa e allegria. Un gruppo di uomini sembrava intonare una serenata;
cantavano stonati, ma seguiti da una tarantella del Gargano.
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Continuava a fare follie come uno scugnizzo.
CRISTINA ZAVETTIERI
Le voci accompagnavano Ferdinando nella sua amata Napoli: un
grande regno – secondo solo alla Gran Bretagna – di cui non si curava.
Accanto al re c’era Alfredo, un amico d’infanzia non particolarmente
bello tanto meno curato: il viso tondo e i ricci capelli parevano avere
fatto bizze con un gattaccio. Contrastava un po’ con la figura enigmatica
del suo sovrano: senza cappello, la camicia aperta sulla quale ricadevano
i capelli biondi scompigliati e il naso prorompente che spiccava,
conferitogli da Dio, come segno distintivo per eccellenza. Sorrideva
divertendosi con l’amico, spintonandosi proprio come avrebbero fatto
due bambini. Quella sera girovagavano per la città al solo scopo di
spassarsela.
Dall’altro lato della strada una ragazza mora e minuta attendeva
ansiosa il suo passaggio. In quel periodo dell’anno era persino un
sacrilegio coprirsi, tuttavia le spalle della giovane erano riparate da un
lungo scialle. Un’altra donna le intimava di sbrigarsi, strattonandola per
il braccio con una certa fretta.
«Marì fa ambresse, va’! Ca ‘o rre sta passann 2» bisbigliò con decisione. La
giovane annuì, atterrita, e corse lungo la piccola stradina.
Ferdinando e Alfredo stavano parlottando, quando videro avvicinarsi
Maria. I due pensarono fosse impazzita, perché si presentava coperta da
capo a piedi e notevolmente agitata. Il suo sguardo era inquieto e mirava
dritto a quello di Ferdinando, il quale la guardò, interrogativo.
Le iridi chiare dell’uomo fissarono pazienti la giovane con cui diversi
mesi prima aveva sfogato i suoi istinti – non senza divertimento da
entrambe le parti –.
Maria si avvicinò piano, poi portò ancora una volta lo sguardo verso
il vicolo – dove la madre osservava con occhio attento – e fece segno al
re di avvicinarsi.
Ferdinando e Alfredo sorrisero complici, finché il sovrano si fece
avanti lentamente raggiungendo Maria.
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Maria, sbrigati, va'! Il re sta passando.
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RIBELLE
«Cosa vuoi?» Il re le sorrise malizioso, sebbene il suo solito fascino
non esercitò alcun effetto. La ragazza spinse le braccia verso l’uomo, e
Ferdinando, divertito e accecato di curiosità, accostò il viso pensando
che volesse stuzzicarlo con le sue generose forme; non avrebbe mai
immaginato di ritrovarsi a fissare un bambino. Era piccolo e con due
guance morbide e rosee, che lo intenerirono.
«Ma è un bambino...» disse piano – più a se stesso che a lei –.
«È vostro.» La voce della giovane tremava, rotta da un pianto che
tratteneva a stento. Gli occhi umidi cercavano di essere più che
convincenti.
Ferdinando la guardò interdetto e inarcò un sopracciglio. Congiunse
le mani, ricordando tanto l’unione di queste nell’atto di una svogliata
preghiera.
«‘A criatura? Ma staje pazziann?3» Lo sguardo azzurro era perplesso e
sconvolto. «E che me ne faccio io?»
«Prendetelo voi, io mi devo sposare. Il mio fidanzato…» lo supplicò,
lasciando a metà una frase dall’irrevocabile significato.
«E con ciò? Anche io sono sposato, ma non per questo appioppo i
miei figli ad altri.»
«Ma... mio re?» lo supplicò.
«Non ne voglio sapere. Arrangiati!» Poi si rivolse all’amico. «Se tutte
le donne con cui sono stato dovessero avanzare tali pretese, adesso
avrei figli in ogni angolo di strada.» Ferdinando fece per andarsene,
quell’argomento per lui era chiuso.
«Mio re, no! Vi prego... aiutatemi. Questo bambino è anche vostro!»
si lamentò lei, angosciata. Gli corse dietro e lo tirò per la camicia.
Ferdinando camminò spazientito, fingendo di non sentire le sue
grida disperate, e se la scrollò di dosso quando se la ritrovò contro.
«Non posso! Non posso tenerlo!» seguitò la giovane, accasciandosi
al suolo in lacrime.
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La creatura? Ma stai scherzando?
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CRISTINA ZAVETTIERI
Fu allora che sopraggiunse sua madre, svelta d’intelletto, per trascinarla
via. Il bimbo scivolò in terra, mentre la sconsolata ragazza urlava di non
abbandonarlo. Solo in quel momento Ferdinando si girò e, quando vide
il bambino sui ciottoli, iniziò a imprecare.
Alfredo era rimasto in silenzio, sbigottito dalla scena. «Che volete fare?»
chiese al re.
Il pensiero di Ferdinando corse subito a Carolina.
«‘A mugliera mia 4 non lo deve sapere. Portiamolo via» farfugliò deciso,
ordinando così all’amico di prendere il fagottino.
Abbandonato il vicolo, Ferdinando procedette a grandi falcate:
rimuginava sulla possibilità di affidarlo a qualcuno. Alfredo non riusciva
a stargli dietro, tanto il passo del suo sovrano era veloce.
«Alfrè, mi raccomando, acqua in bocca!» L’atteggiamento era cospiratore
e lo sguardo fin troppo serio.
«Ma dove lo portiamo? E che ne facciamo?»
Ferdinando passò in rassegna ogni possibile candidato che potesse
aiutarlo a risolvere il problema, infine optò per il barone Rodrigo Dalla
Croce, un uomo irreprensibile, che mai lo avrebbe tradito, nonché grande
amico. Un piano perfetto già cominciava a formarsi nella mente regale.
L’uomo, però, non appena si trovarono a palazzo, cominciò a
borbottare perplesso contro Ferdinando.
«E cose ne devo fare io del bambino?» domandò indispettito. La
voce profonda di Rodrigo fece tremare i muri – o almeno quella fu
l’impressione –.
«Lo allevate, gli date un’educazione e poi, quando sarà grande,
provvederò io stesso a sistemarlo» puntualizzò Ferdinando risoluto,
concludendo con un sorriso degno del miglior malandrino.
«Ma, amico mio, come faccio? Non ho una moglie e nessuno che
possa… insomma, che lo allatti o provveda a lui» bofonchiò con un certo
imbarazzo, cercando di sottolineare quel dilemma pernicioso.
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Mia moglie.
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RIBELLE
«Non dovete preoccuparvi. Domani vi mando io una brava femmena!»
Alfredo intervenne, quasi illuminato, anche se esitante; sembrava
aver appena partorito un’idea geniale.
«Vi mando mia sorella, signore. Siete d’accordo?» Alfredo cercò
consenso negli occhi di Ferdinando che, già entusiasta, annuiva con
un sorriso a trentadue denti.
Quello ancora poco convinto invece era proprio il barone. «E come
farete se sua maestà la regina lo venisse a sapere?»
Secondo lui stavano superando il limite massimo di idiozie in
quella lunga notte d’estate. Ferdinando si lasciò andare a uno sbuffo
degno della sua solita arroganza; per lui la moglie rappresentava un
problema minore.
«Voi pensate a crescere ‘a criatura 6.»
Dopo alcune esitazioni Rodrigo annuì e Ferdinando lo ringraziò
con un calore popolano: ci mancò poco infatti che il sovrano si
esibisse in un abbraccio fin troppo affettuoso saltando in braccio
all’amico. Rodrigo poi si soffermò a osservare il bambino e il re con
un’espressione sconsolata. Alzò gli occhi al cielo solo quando l’amico
si distrasse, pregando Iddio di non aver fatto la scelta peggiore della
sua esistenza.
«Ma almeno, un nome glielo avete dato?» domandò.
Solo in quel momento Ferdinando realizzò di non sapere il nome di
quel fagotto – sempre ammesso che la madre un nome glielo avesse
dato –. Così guardò ancora il bambino, le sopracciglia inarcate. E
adesso?
«Federico» buttò lì.
I primi quattro mesi di vita di Federico scivolarono via fra il dolce
canto delle lavandaie e le incursioni di bambini intenti a giocare in
strada. Lo scorrere frettoloso dell’esistenza umana trasportò il tempo
tra schiamazzi e scorribande nella Napoli di otto anni dopo.
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Femmina.
La creatura.
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CRISTINA ZAVETTIERI
Il bambino crebbe in piena salute, bello, dai capelli neri e la pelle
ambrata; gli occhi di un verde così scuro e profondo, da ricordare
il colore che assume l’acqua stagnante in alcune paludi. Aveva un bel
sorriso, Federico, contagioso e beffardo. La sua balia gli diceva sempre
che da grande avrebbe fatto molte conquiste.
E questa, signori miei, è la sua storia d’amore, il grande amore, quello
che non si dissolve mai. Ma prima…
«Federico!»
Questo era l’urlo più frequente a palazzo Dillivari. Federico di qua,
Federico di là. Era un demonio, sembrava avere l’argento vivo in corpo,
un fuoco perennemente acceso. Correva per i corridoi e invece di
scendere le scale, usava scivolare lungo la rampa dell’enorme gradinata
col forte rischio di rompersi l’osso del collo. Nascondeva qualsiasi
oggetto gli capitasse sotto mano, usciva di nascosto dalla stanza anche
quando era in castigo e preferiva usare la finestra anziché la porta. La
bassa statura dell’età facilitava le sue fughe. Non si poteva dire che non
fosse felice di adottare stratagemmi di ogni sorta per sgattaiolare via.
Era ingestibile sotto ogni punto di vista: aveva rubato diverse posate
in argento e oro da regalare ai suoi amici, portava loro pasti e cedeva i
suoi vestiti o quelli altrui creando immotivato panico per le misteriose
sparizioni dagli armadi.
Federico passava le sue giornate così, bighellonando per strada da vero
monello qual era. Usciva da casa vestito da principino, ma al suo ritorno
sembrava il peggior straccione che fosse mai esistito. Le scarpe erano
di volta in volta irrimediabilmente rotte e la stessa sorte toccava alle
giacche finemente lavorate, ai pantaloni e a tutto quel che comprendeva il
guardaroba di un signorotto come lui. In poche parole era la dannazione
di Filomena, sua nutrice e governante.
Se solo provavano a chiedergli dove fossero finiti i suoi indumenti,
lui replicava che erano andati persi, li aveva regalati o, peggio
ancora, dimenticati sulle spiagge napoletane. Nonostante fosse un
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RIBELLE
bambino di soli nove anni, magrolino e apparentemente innocuo,
al suo seguito vi erano circa una ventina di altri bambini pronti a
seguire le sue orme.
Rodrigo Dalla Croce dovette ammettere – disperato e sorretto
dall’onnipresente Filomena, sorella di Alfredo – di non saper più
come educare quel bambino indisponente e ostinato. Quella che
sarebbe potuta apparire come normalità stava divenendo una vera
e propria situazione insostenibile.
Veniamo al maggio del 1781, signò, perché il destino del giovane giocò
bene le sue carte.
Rodrigo aveva voluto portare Federico a Caserta nel tentativo di
responsabilizzarlo, malgrado l’età, circa i suoi doveri di nobile.
Guardò il piccolo con aria apprensiva e l’altro gli sorrise con finta
tranquillità.
«Adesso che siamo qui, ti raccomando di comportarti bene» lo
ammonì severamente.
Il bambino lo fissò con gli astuti occhietti verdi e luminosi senza
rispondere. Brutto segno.
Questa volta Rodrigo aveva inviato la formale richiesta di udienza per
essere ricevuto a palazzo, mentre in passato si era presentato in fretta
e furia suscitando collera, oltre a un malcelato fastidio da parte della
regina Maria Carolina che, evidentemente, non gradiva un’intrusione
così plateale e maleducata.
Dopo che la carrozza svoltò l’angolo, Federico e Rodrigo proseguirono
a piedi. Si accinsero a salire l’imponente scalinata di marmo, pensata,
come ogni zona della reggia, da re Carlo di Borbone.
Federico aprì la bocca stupefatto, meravigliato da tanta bellezza e
maestosità. Spesso lungo il tragitto aveva soffermato rapito lo sguardo
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CRISTINA ZAVETTIERI
sulle sinuose statue decorative. Rodrigo invece appariva accigliato e
cupamente pensieroso, perché quello era il terzo incontro fra Ferdinando
e Federico. L’ultimo era avvenuto quando il bambino aveva tre anni e
pareva palese che il ragazzino non ricordasse nulla di quel giorno.
Raggiunsero la sala principale sotto sguardi curiosi, diffidenti e
pettegolezzi bisbigliati. Alcune dame sorrisero al bambino, che in
quell’istante appariva simile a un dolce angioletto. Rodrigo sorrise
sotto i baffi, immaginando quante smorfie avrebbero potuto fare le
loro deliziose bocche se solo avesse raccontato loro quanti guai e quali
danni era capace di provocare quella piccola peste dalle sembianze così
innocenti.
Il re era seduto sul trono, col mento poggiato sul palmo della mano
e la fronte aggrottata. Si ridestò dallo stato di fiacchezza generale nel
medesimo momento in cui, a distanza di una ventina di metri, scorse
i nuovi venuti.
Rodrigo sorrise in modo rassicurante, annuendo benevolo.
Ferdinando scrutava con esagerata attenzione il volto del bambino,
cercando ogni possibile somiglianza. Non vide grandi affinità eccetto
un neo sul viso, un non so che sulle labbra non troppo piene e le lunghe
e folte ciglia. Gli occhi lo colpirono maggiormente: erano verdi, un verde
cupo del quale proprio non si spiegava l’appartenenza.
«È cresciuto!» confermò annuendo a Rodrigo, il quale si limitò a
sorridere. «Quanto a voi, caro amico mio, mancano sempre più capelli
in testa.»
Rodrigo era tentato di dirgli che la colpa di quella calvizie, in un uomo
di trentasei anni, era nientemeno che sua. Si astenne dal farlo quando
notò il viso etereo e sentì il frusciare delle gonne di Carolina, la sovrana,
seguita dalla figlia Maria Teresa. Federico appariva rilassato e incuriosito,
e addirittura sorrise alla bambina con una certa complicità.
«Siete voi, Dalla Croce. Qual buon vento vi porta?» domandò lei con
velato sarcasmo e quel forte accento austriaco che mai aveva smarrito.
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RIBELLE
Il barone, intimidito, s’inchinò e incitò con lo sguardo Federico
a imitarlo. Solo quando il bambino gli diede ascolto, l’uomo si
rilassò.
Rodrigo tentò invano di replicare alle parole della regina in
tono morbido, così come si conveniva alla sovrana di Napoli,
ma quella lo zittì gettando un’occhiata sdegnosa e malevola al
marito, che sorrideva immotivatamente divertito. In seguito,
posò lo sguardo su Federico, piccolo, basso ed esile.
«Questo è il bambino che, dicono, vi crei tanti problemi?»
Carolina sembrava incredula. Fissò prima l’uomo, poi ancora il
bambino, aspettando una risposta.
«Sì, vostra maestà, è lui.»
A Ferdinando in tutta quella strana situazione sembrava
piacesse fare il vago, addirittura cominciò a giocare con la figlia
maggiore, che prese a ridere gioiosa.
«In fondo è solo un bambino. In Austria mia madre l’avrebbe
fatto studiare giorno e notte. Sareste sorpreso dei cambiamenti
che vi riserverebbe.»
Rodrigo sorrise debolmente, imbarazzato.
Carolina gridò qualcosa nella propria lingua – infastidita dal
chiacchiericcio tra la figlia e il marito – continuando però quel
che per il momento appariva un soliloquio. «Vi farò mandare lo
stesso insegnante che ho personalmente fatto venire qui per mio
marito. Vedrete, vi aiuterà…» disse e lanciò uno sguardo d’intesa
a Ferdinando, il quale, dopo aver fatto spallucce, sembrava non
aver colto l’allusione.
Carolina si rassettò le gonne e aspettò per alcuni interminabili
istanti che il barone Della Croce si decidesse ad aprir bocca, ma
l’uomo sembrava fatto di marmo vivo.
«Siete in grado di parlare?» La regina guardò l’uomo sentendosi
quasi offesa.
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CRISTINA ZAVETTIERI
Ferdinando decise allora di soccorrere l’amico. «Tu si troppa bell
Carulì e iss s’è mis paura.7» Il re scoppiò in una fragorosa risata, seguita
dalla bimba e Federico.
Il barone sorrise, arrossendo, e abbassò il capo.
«Ti ho detto di parlare italiano, Ferdinando» borbottò la regina con
quell’accento di cui il re non riusciva a fare a meno.
«Aspiett, chest è italian, o sai Carulì, te l’agg ditt mill vote!8»
Carolina prese un lungo respiro. Cercava di scacciare l’ira che
sembrava volerla divorare. Guardò il marito e, invece di ribattere in
tono aspro tra uno sbuffo e l’altro, si concesse un bel sorriso radioso:
non sapeva resistere alla risata contagiosa del consorte.
Pochi minuti dopo Federico stava già parlando con la piccola
principessa, sotto lo sguardo vigile della madre. La regina le aveva
concesso di giocare con il piccolo Della Croce per pura pietà nei
confronti del padre di lui. Non riusciva proprio a sopportare quel
Rodrigo, perché per lei rappresentava l’ignoranza del marito e dei
suoi “cosiddetti amici” che frequentavano la corte. Così si avvicinò
alle dame di compagnia, decisa a dimenticare lo spiacevole incontro.
Maria Teresa aveva le braccia conserte e lo sguardo pieno di alterigia,
una superbia totalmente falsa ma che le calzava a pennello. «Come ti
chiami?» domandò al bimbo con la vocina dolce.
«Federico, e tu?» Prontamente si tappò la bocca con le mani, rendendosi
conto di aver appena sbagliato modo di porsi. «Volevo dire… voi?»
La bambina lo guardò meravigliata, con la bocca spalancata per lo
stupore. «Lo sapete che è sbagliato usare quei toni con una persona di
rango superiore al vostro?» lo rimproverò.
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Sei troppo bella, Carolina, e lui si è spaventato.
Aspetta, questo è italiano, lo sai Carolina, te l’ho già detto mille volte!
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RIBELLE
Federico imitò giocoso la bambina e i suoi modi di fare. Gli apparivano
un po’ ridicoli.
«Mi sono corretto, principessa. E “voi”, come vi chiamate?»
«Il mio nome è Maria Teresa e poi ho tanti altri nomi, che non ricordo
bene a memoria» ammise, abbassando gli occhi sul pavimento.
«Siete in pena per questo?» la interrogò con un pizzico di curiosità.
Federico non riusciva a stare fermo e trovò interessante cercare di
rimanere in equilibrio sulle punte.
«Sì, il mio insegnante pretende che io li sappia tutti a memoria. Voi
non avete un insegnante?»
Il bimbo rise divertito, ma si coprì le labbra per non sembrare
maleducato. «Sì, tanti, e tutti sono scappati via» si vantò, battendosi
l’altra mano sul petto con orgoglio.
Maria Teresa spalancò ancora una volta la bocca, ma la richiuse
subito con prontezza. Certo non voleva dare l’impressione di essere
una bimba poco seria. «Come può essere possibile?»
Federico spostò il peso del corpo su una gamba e iniziò a descrivere
nei minimi particolari le sue marachelle a danno dei maestri. In lui,
però, non vi era traccia di cattiva vanteria, ma solo voglia di rendere
partecipe qualcuno delle sue tragiche bischerate.
«A uno di loro bruciai i libri, mentre a un altro, che si vantava di
possedere un manoscritto risalente all’epoca delle guerre crociate,
glielo stracciai. A un altro ancora manomisi la sedia e cadendo si ruppe
la spalla. Non volle più saperne di farmi da maestro!» Maria Teresa
provò presto la simpatia che solo due bambini potevano avere l’uno
per l’altro.
«Principessa, volete giocare?» Federico era già pronto all’azione, ma
la piccola abbassò gli occhi, rattristata.
«Non possiamo nella sala del trono.»
Il bimbo considerò quelle parole, pensieroso. «Datemi le mani…» la
invitò, eccitato all’idea di intraprendere un nuovo gioco.
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CRISTINA ZAVETTIERI
La principessa lo guardò, un po’ disorientata, perché ancora non
capiva bene le sue intenzioni, eppure si fidò. Gli tese le mani e
aspettò paziente ed emozionata.
«Pensate a quanto c’è di più bello!» la istruì, gli occhi attenti come
non mai.
«Fatto» bisbigliò l’altra.
«Adesso chiudete gli occhi e stringete le vostre mani alle mie.»
In pochi istanti Maria Teresa si trovò a volteggiare in quel piccolo
angolo nello spazio enorme del salone: per lei non aveva più nulla
delle immense sale reali. Nella testa della principessina si era
magicamente materializzato un prato verde pieno di fiori dai colori
dell’arcobaleno, dove poter correre libera e felice.
Federico la osservava sorridere, divertita quanto lui. Volteggiarono
una, due, tre volte, poi la fermò e le parlò, entusiasta, ma affannato.
«Come vi sentite?»
La piccola reale si voltò e sospirò. «Libera, mi sento libera...»
I giochi furono interrotti dalla regina che, ignara del loro innocente
trastullo, si avvicinò. Nel vedere la figlia raggiante sorrise e la prese
fra le braccia come avrebbe fatto una qualunque mamma. Federico
rimase affascinato da quell’immagine. In quel momento una parte
di lui si chiuse sempre di più a causa della voragine che negli anni a
venire l’avrebbe irrimediabilmente consumato.
Rodrigo nel mentre parlava a bassa voce al suo sovrano,
guardandosi attorno con aria circospetta. Temeva che qualcuno
potesse ascoltare quella conversazione. Ferdinando, di tanto in
tanto, gettava lo sguardo verso i suoi figli.
«Avete capito bene, Ferdinando. Voglio che gli parliate. Mi fate
questo piacere?» chiese più volte, vedendolo distratto.
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RIBELLE
«Va bene! Gli parlerò. Dopotutto... è o non è ‘a criatura mia 9?»
Sussurrò queste ultime parole guardando negli occhi Rodrigo che, a
sua volta, nel suo sovrano lesse apprensione e sincerità.
Federico, rimasto solo, si domandò come fosse avere una vera
mamma. Certo, lui aveva Filomena che lo coccolava, lo accudiva e
sgridava, eppure non era sua madre. Spesso si chiedeva chi fosse, come
fosse, se avesse i capelli biondi o mori. Per quante volte avesse osato
chiederlo né da Filomena né da suo padre aveva ottenuto risposte
serie. Anzi, lui stesso si sentiva in profondo disagio nel porre queste
domande, perché i grandi scappavano per sviare quell’argomento.
I suoi pensieri furono distratti dall’immagine della regina che,
uscendo dalla sala del trono, non gli aveva nemmeno lasciato il tempo
di salutare la principessa. In seguito, Ferdinando occupò il campo
visivo di Federico, impedendogli così di scorgere la porta chiudersi.
«Ciao Federico.»
Il re guardò il bambino dall’alto della sua statura. Era imbarazzato,
non sapeva cosa dire di preciso. Si schiarì la voce e iniziò il suo
discorso.
Il bambino s’inchinò osservando l’uomo, chiedendosi cosa mai
volesse da lui.
«Che ne dici? La finiamo di fare i monelli di strada e iniziamo a fare
i bravi guaglioni10?»
Federico lo guardò con sospetto. «Anche voi volete insegnarmi le
buone maniere?»
Ferdinando sorrise della sua impertinenza. «No, ma non tutti i
bambini vengono ripresi dal re in persona.»
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La mia creatura.
Ragazzi.
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CRISTINA ZAVETTIERI
Il bambino sorrise smargiasso e inarcò un sopracciglio. «Avete
perfettamente ragione. Io, però, non voglio essere il primo fesso!»
esclamò.
Il sovrano sorrise, divertito dalla pronta risposta, e gli scompigliò
i capelli corvini. «Va bene, ma non far arrabbiare tuo padre» gli
raccomandò.
Federico lo guardò, vago, ma diede una risposta più che sufficiente.
«Cercherò di non fargli perdere tutti i capelli, maestà.»
Il re scoppiò a ridere fragorosamente attirando in questo modo
l’attenzione di Rodrigo che li osservava da lontano, incapace di
comprendere una sola sillaba.
E così finì l’incontro tra padre e figlio, l’uno consapevole e
stranamente orgoglioso, l’altro del tutto ignaro e infantile.
I baroni Dalla Croce erano ormai lontani dal palazzo reale quando
Federico guardò con avidità il parco che circondava la reggia
desiderando poter correre e perdersi in esso. Rodrigo, piuttosto, si
tormentava per il futuro di quel bambino a cui voleva bene, il quale
non avrebbe tardato troppo nel diventare un uomo. Desiderava
con tutte le sue forze non vederlo soffrire: aveva passato notti intere
chiedendosi cosa sarebbe accaduto se, un giorno, il vivace Federico
avesse scoperto la verità. Pregava Iddio che avvenisse il più tardi
possibile.
Che cosa sarebbe successo se avesse scoperto per vie traverse che
Ferdinando era il suo vero padre? Federico si sarebbe scagliato contro
lui e Filomena? Il solo pensiero lo turbava. No, non poteva permettere
che ciò accadesse, e fu in quel momento che prese la decisione: sarebbe
stato lui stesso a informarlo sulla sua nascita – fino a quel momento
avvolta nel più totale mistero –.
Sì, gli avrebbe confessato la verità. Un giorno, Federico non avrebbe
più ignorato le sue vere origini.
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