Roberto Cirillo1 - La Biennale Channel
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Roberto Cirillo1 - La Biennale Channel
Persècution Francia 2009 Regia: Patrice Chèreau Sceneggiatura: Patrice Chèreau e Anne-Louise Trividic Fotografia: Yves Cape Scenografia: Sylvain Chauvelot Montaggio: Francois Gedigier Musica: Eric Neveux Durata: 100’ di Roberto Cirillo Ricordate la scena della doccia in Psycho? La sagoma di Norman che si delinea dietro la tenda? Così si presenta il lunatico Persecutore nella casa di Daniel, il protagonista, in una suspense di intensità suggestiva, foriera di violenze che però si consumeranno, nel dipanarsi della storia, solo nella psiche dei personaggi in un soul thriller insieme moderno e datato. Daniel, giovane e fascinoso parigino, sta restaurando una casa, una sorta di cantiere - metafora del mutare - in cui di fatto vive giorno e notte; con Sonia ha una storia, che sa essere felice e leggera solo telefonicamente, nella lontananza. La presenza sgretola quella felicità che si disfà nelle continue richieste di conferma di lui, incapace di sentire l’amore degli altri. Irrompe poi, con suspense crescente, il terzo personaggio, il Persecutore (forse un ricorso strutturale alla potenza paterna che non ha saputo sublimare, e quindi una sua proiezione interiore) che si dice innamorato di lui e lo incalza perseguitandolo con la sua presenza. Solo quando si lascia trapassare dal suo sguardo arriverà, in un sofferto monodialogo di rara intensità, a svelare i propri demoni e quindi a riconoscerli, e a riconoscersi. Personaggi di contorno, l’amico ‘perdente’ e che perderà per averne svelato le fragilità agli amici di Sonia; i vecchietti di un ospizio che regolarmente visita e con i quali sa dialogare con bonaria pazienza (uno di questi gli chiede conferma se verrà anche il mese successivo perché “le sorprese mi piacciono sempre meno”; ad un’altra svela le sue angosce amorose), gli amici di Sonia che identificano una borghesia garrula e birrosa; il motociclista che gli muore tra le braccia spaesando Daniel il quale aborra i contatti fisici e gli abbandoni. Ed altri meno delineati anche se non di solo contorno (come Thomas, l’amico fraterno, o l’iniziale questuante che in metro schiaffeggia una paffuta signora): La storia prende corpo soprattutto quando i dialoghi tra Daniel e Sonia si fanno più serrati. L’angoscia esistenziale di Daniel incalza Sonia in continue conferme che lei non sa e non vuole più dare fino all’ultimo estenuante abbraccio. Ma la discesa nelle ragioni del proprio disperante dolore e forse anche l’incidente in moto, che in maniera così netta gli scinde un prima ed un poi (la morte) preludendo all’abbraccio d’addio con Sonia, sembrano delineare un profonda mutazione in Daniel, che accetta di interrompere la relazione e passeggia per Parigi sulla voce androgina di Antony and the Johnsons in Mistery of Love. Finale tra il chapliniano e l’indimenticato vagabondare di Sans toi ni loi, in cui la Varda delineava, pur con altri registri, l’horror vacui che ansiogena ed accomuna il profondo dei due giovani. Dal punto di vista estetico la figurazione degli sguardi resta la modalità espressiva di Chèreau. Lo sguardo è situato al centro, nei primi piani continui dei volti. L’opera si mantiene nella zona narcisistica della specularità e funziona a sua volta come uno specchio. Il film appare anche come il tentativo di intercettare lo sguardo e il suo segreto, come una spinta a realizzare una coincidenza impossibile tra lo sguardo e la sua rappresentazione. L’intensità dello sguardo è li, sempre in primo piano, ma solo per arretrare, per lasciare spazio alla potenza della parola e del gesto. Impeccabili fotografia e montaggio. Intensi gli attori, più Romain Duris (Daniel), il cui volto appare scolpito da una rabbia irriducibile che - nonostante l’ostentata enfasi mandibolare alla Clint Eastwood - pervade e persuade, che non Charlotte Gainsburg (Sonia) e Anglade (il Persecutore) la cui recitazione comunque rimane a livelli alti. In particolare, la Gainsburg è chiamata in un ruolo dai contorni sottili, equilibrista tra il mal di vivere e la norma borghese. Supplente in amore finché Daniel non le svela l’unicità identitaria, ben tradotta nell’amplesso commosso e lenticolare, ma quasi frigida fuori dal “letto” (inteso come “talamo” e “copione”). Surreale il ruolo del maniaco in panni freudiani, che Anglade sa tenere in sospensione con il reale. Pur tornando su temi portanti del cinema degli anni sessanta – alienazione, incomunicabilità del profondo, solitudine, angoscia, asimmetria nei rapporti umani ed in quelli amorosi in particolare – e quindi non alieno da un senso di dejà-vu che permea l’intera pellicola, sottolineato dall’incessante fumare dei protagonisti, tipico credo di quegli anni. Il film in parte sa rinnovarsi per la compresenza di un piano narrativo estremamente moderno, metropolitano, ‘sul pezzo’ con le storie di oggi. Altri difetti: la ‘lievitazione’ forse un po’ debordante nel delineare i protagonisti, un eccesso scenico nel personaggio del persecutore lunatico, l’ambiguità di lei che, pur afflitta dalla stessa anoressia esistenziale, è così rampante ed in carriera. Resta comunque struggente l’immagine di Daniel, incapace di separarsi da un godimento fusionale, mortifero, quasi cannibalesco con l’oggetto del godimento più prossimo e nel profondo quasi nostalgico della tutela totalitaria che pure rifiuta. _____________________________________________________________________________ A parere di chi scrive, la critica raggiunge così la sua compiutezza. Ritengo, cioè, che di aver stabilito l'equilibrio sostanziale e formale del commento. I giudizi successivi sono pertanto considerabili degli approfondimenti. Dieci giorni di festival valgono bene una messa. La fotografia cupa e cinerea cala trama e personaggi in una luce grigiastra che evoca essenzialità di sentimento e rassegnazione a un’esistenza “operaia”. Il grigiore attornia i personaggi o per conformità tonale alla freddezza dei loro timori, oppure per farne risaltare una cromaticità caratteriale, quasi fossero rilievi di colore discernibili su uno sfondo identico. L’apertura di luce nel finale splendido è l’apertura di Daniel al nuovo. Anche gli ambienti, chiusi in interni, quasi claustrofobici, delineano lo stato d’animo del protagonista, la cui mutazione è ben trasposta dallo spazio che si apre improvviso nella scena conclusiva, spazio dilatato dai riflessi di luce, quasi specchi, delle pozzanghere nella proménade, che è liberazione anche per Daniel. La scena iniziale appare sconnessa dall’intera trama, ma permette di introdurre la rabbia di Daniel, rivelando quel suo carattere primo di rancore esistenziale. Per altro il pathos dello schiaffo della mendicante alla bionda paciosa, metafora della borghesia, nel metrò è un esordio estemporaneo ma suggerisce storie diverse. Scena sui generis rispetto al film, apertura sociale in un tema di carattere quasi esclusivamente spirituale. Anche la storia di Michel, da vincitore a vinto, in una società in cui il successo personale, non importa come ottenuto, è un abito necessario ed indispensabile per non lasciare troppi spazi alla rassegnazione od al livore che la sua assenza provoca, scatenata dal senso di colpa di non appartenere al modello , ma quasi di esserne scarto. La cifratura del suo inconscio peraltro non è strutturata in una storia ma raccontata da parole e, ancora, sguardi, dai quali si conosce lo spostamento di senso che la sua vita ha subito. Non riuscirà a salvarlo il buonismo di Daniel; quando viene a sapere che Daniel appunto ha svelato agli amici la sua storia di ‘vittima’ anche la sua amicizia gli diviene insopportabile. Per il protagonista invece il senso di colpa per l’abbandono e il non amore del padre si compensa con le visite all’ospizio degli anziani, con i quali sa intrattenere un rapporto amicale: qui la semplificazione psicoanalitica è assai grossolana anche se velata dalla freschezza degli incontri, ben tratteggiati e di giusta durata. La figura di Sonia, eroina del quotidiano, quasi una moderna controMolly joyciana il cui monologo interiore non riesce a prendere alcuna forma, sopraffatto e confuso dal vuoto del nostro tempo urbano. Al monologo si sostituisce il parlare telefonico, metafora di una comunicazione in cui l’artefazione, la mancanza di spontaneità prende inesorabile il sopravvento sul palpitare del gesto, delle parole dello sguardo o del pensiero proprio. L’ identità trovata, nella scena d’amore citata, poi si disfà nella cadenza del quotidiano e nei ritmi del lavoro in cui meglio si ritrova. Al personaggio manca comunque qualcosa per sedurci, per permetterci di “entrarlo”; anche se in verità Sonia è sempre più disorientata dagli atteggiamenti schizoidi del fidanzato: L’ impossibilità di disciplinarne l’apparizione, di catturarlo completamente, sono invece alcuni dei tratti del Folle, personaggio interpretato da Anglade, cui si accosta gradualmenete nonostante un quid di eccessivo, di straripante, quasi una figura barocca, modellata con esteriorità radicale ma con un’intensità che alla fine convince. Lo accosterei, nel significante profondo, all’ospite del Teorema pasoliniano. Certo nella forma Anglade è l’esatto contrario del fascinoso e seducente Terence Stamp: ma lo sguardo che induce alla conoscenza del sé profondo, della ‘parola piena’ che attribuisce esistenza al passato è lo stesso. Il suo richiedere ‘amore’ , senza difesa e senza maschera, è svelante come l’amore che l’ospite fa conoscere ai personaggi di Pasolini. I rimandi a film degli anni Sessanta è comunque d’obbligo e voluto: il minimalismo che permea l’intero film è un emblema di quegli anni. Concentrando l'attenzione sulla vicenda amorosa, si potrebbe guardare il film come una storia d'amore classica, con sentimenti e passione a prima vista. E' il trattamento depurato di ogni elemento barocco melodrammatico “viacolventiano”, a renderlo moderno e minimalista, quasi nichilista. Anche il tema dell’incomunicabilità che sta al centro del racconto ha già avuto una decifrazione, forse esaustiva, in Antonioni e Bergman, ma la sua attualizzazione qui proposta ci immette in una storia moderna per la duplicità tra le possibilità infinite offerte alla parola (solo attraverso di essa a Daniel si rivela un se’ profondo) ed il porre il linguaggio come muro, quasi sempre non superabile. La sordità del linguaggio richiede al tempo stesso una grande quantità di parole. I dialoghi dettano il ritmo stesso del film. Ogni scena – eccetto l'iniziale ricognizione fantomatica del Folle, e poche altre – è imperniata su scambi di battute, introdotti senza preliminari. La sceneggiatura è solo apparentemente prolissa. Anche i dialoghi più gratuiti evocano un esistenzialismo pop da Nouvelle Vague. Il lessico disadorno, spoglio, consente di afferrare l'immediata densità dei significati. Laddove invece la parola è ingombrante, i messaggi sono veicolati da gesti forti, indugi su volti ed corpi, silenzi eloquenti. Il congiungimento, la saldatura di questi due piani è qui impedito dalla fragilità dei protagonisti, fragilità nella lettura e nel governo delle emozioni, che in qualche modo segna la modernità; il succedersi di fatti di ‘cose’ non ne permette la loro introiezione profonda. Un altro rimando è alle inquietudini di Vittoria (Monica Vitti) nell’Eclisse di Antonioni, regista che in qualche modo ha introdotto il ‘mal di vivere’ al femminile, fornendo spunti ancora non esauriti, e qui riflessi nel personaggio di Sonia. Film comunque nel complesso riuscito a cui merito sono da ricordare anche gli esterni notturni in una Parigi tormentata e contemporanea, lontana dal cartolinesco con cui è solitamente rappresentata la capitale francese. Ed ancora talune raffinatezze narrative; la scena del dialogo sul padre raccontata negando il volto alla cinepresa ne è forse l’ esempio più alto. Essendo lo sguardo una delle poetiche portanti del film, la sua negazione nel momento di verità può aprire nuove letture dei suoi significanti ; ne è altro esempio la sottile metafora della relazione sia amicale che amorosa come cantiere edile, in perenne costruzione ma potenzialmente senza fine, che permea l’intero racconto. O ancora la morte come ‘svuotamento’ che sottende all’incidente della moto di cui è testimone casuale ma decisivo nel registrare il repentino passaggio di ‘status’ della vittima. Metafora più immediata è quella del bicchiere di vetro che cade nell’abbraccio finale tra Daniel e Sonia: i suoi frammenti sono quelli di un amore finito e non ricomponibile. Dal punto di vista estetico oltre agli esterni, pochi ma intensi nella figurazione e di cui si è detto, da rimarcare anche taluni piani sequenza ben girati, nell’apparizione del Folle, nell’ospizio e nella casa di Daniel, o meglio quella in cui lavora e che fa sua anche la notte quasi che anche con i luoghi, come con le persone, non sappia vivere l’abbandono. Nonostante la riportata impressione di deja-vu ed un impianto teatrale , il fim nella parola analitica sa entrare nello spettatore, nel cui inconscio talune immagini rimarranno, forse silenti ma a lungo. Riportiamo infine gli esiti più interessanti della cinematografia di Chereau, utile per delinearne il percorso artistico. Patrice Chéreau avvia la carriera da attore e regista teatrale di opere liriche. Il trasferimento alla direzione cinematografica avviene nel 1975 con La chair de l'orchidée, noir “confuso e dispersivo” (commento del Dizionario Meneghetti) ispirato a The flesh of the orchid di J.H. Chase. Nel 1982 dirige L'homme blessé, realistico e quasi voyeuristico, su una torbida relazione omosessuale. La regina Margot (1994) inscena la sanguinaria notte di S.Bartolomeo: lo sforzo in termini di mezzi e ridondanza visiva gli vale però il premio della Giuria a Cannes. Intimacy (2001), che vince il Festival di Berlino, racconta del patto sessuale tra un uomo e una donna. L'infrazione del patto offre lo spunto per delineare le psicologie dei personaggi. Ancora al Festival di Berlino, Son frère (2003) vince l'Orso d'argento alla Regia. E' la difficile storia di due fratelli divisi perché diversi, ma che si ricongiungono nel bisogno dell'uno. Oltre la trama, lo stile crudo, duro, impietoso scandaglia i corpi, mettendo lo spettatore a disagio di fronte alla nuda realtà, sconfortante, dei rapporti umani. Infine,Gabrielle (2005), tratto dal Ritorno di Conrad, è ancora un spaccato psicologico di una coppia del 1912 soffocata dalla mondanità borghese. Nonostante la presenza della Huppert, la cui interpretazione appare qui indispensabile, questa volta Chéreau non convince per lo stile manieristico, puntato eccessivamente sulla sontuosità della scenografia e dei costumi, talvolta immotivato in alcune scelte (slow motion, bianco-nero).