MIZR 009-2017
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MIZR 009-2017
Direttore responsabile: Mauro Cerulli MIZR é uno strumento di divulgazione interna che presenta studi sul Martinismo, la Libera Muratoria e lo Gnosticismo. Comitato scientifico: Fabrizio Fiorini Luizio Capraro Arrigo Gareffi Antonino Bonanno Vincenzo Malatesta La raccolta (che non ha periodicità ed é riservata ai soli membri della Associazione Culturale MIZR) non é in vendita e può essere stampata in proprio scaricandola gratuitamente. Grafica: Sofia Beatrice Malatesta Pertanto non può essere considerata una testata giornalistica o un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 07.03.2001. www.mizr.eu Apis - Editoriale Pag. 1 Maathor - Raimondo Lullo, il «Dottore Illuminato» Pag. 10 Algol - Martinismi e Martinisti Pag. 27 ADM - Lo specchio: la magia di un’immagine non riflessa Pag. 32 Enoch Eliau - Il mio incontro con Fabrizio Mariani Pag. 47 Heru Pha Khered - L’essenza della ricerca ermetica attraverso la relazione uomo - anima - divinità Pag. 50 Hathor Go-Rex - Angelologia delle Sephirot Pag. 68 Igneus - Storia e metastoria del Martinismo Pag. 80 Calendario Operativo 2017 Anno 2 - n. 9 - inverno 2017 EDITORIALE Apis Rudolf Steiner, indubbiamente uno dei più grandi Maestri Spirituali di tutti i tempi ammoniva che, prima dei quarant’anni, si dovrebbe parlare il meno possibile e quasi mai di argomenti di carattere spirituale. In effetti, guardandomi un po’ attorno mi viene da pensare che, in molti casi, meglio sarebbe se tale aurea regola venisse osservata anche dopo i cinquanta, o i sessanta, o i settant’anni considerando la quantità enorme di sciocchezze che quotidianamente leggiamo o ascoltiamo (già, perchè ora i “predicatori del web” hanno anche l’abitudine di utilizzare i c.d. “canali you toube”) nella rete; tuttavia l’importanza del silenzio nelle prime fasi dello sviluppo spirituale del discepolo era una regola assai conosciuta e strettamente osservata nell’antichità. Coloro che, ad esempio, entravano a far parte dell’Ordine Pitagorico venivano per diversi anni ammessi esclusivamente alla cerchia più esterna dei discepoli del Filosofo di Samo, gli acusmatici, (dal greco akusmaticoi, ovvero “gli auditori”); questi potevano unicamente ascoltare gli insegnamenti senza neppure avere la facoltà di poter vedere in faccia il Maestro che impartiva le sue lezioni nascosto da una tenda. Il Dio egizio del silenzio, Hor-pa-Khred, ellenizzato in Arpocrate, era in effetti raffigurato come un fanciullo (il giovane Horus) nell’atto di sigillare le proprie labbra con una o due dita (in genere indice e medio della mano destra) in un gesto molto ben conosciuto da coloro che seguono il Cammino della Libera Muratoria Egizia. Le sembianze giovanili di Hor-pa-Khred ci confermano dunque l’importanza, per i giovani, di osservare il silenzio; è, del resto, noto che nel primo grado della moderna Libera Muratoria (Apprendista) è obbligatorio rimanere in silenzio durante lo svolgimento dei lavori per tutta la durata dell’apprendistato. Purtroppo però, attualmente, la permanenza nel grado di Apprendista è limitata ad un breve periodo di tempo, ovvero 1-2 anni al massimo, laddove in passato tale periodo era assai più lungo. Le motivazioni occulte relative all’esigenza di parlare il meno possibile di argomenti spirituali prima dei quarant’anni, Steiner le chiarisce in diversi punti della Sua vasta opera e particolarmente nel ciclo di conferenze raccolte al numero 235 della Sua Opera Omnia con il titolo Esoterische Betrachtungen karmischer Zusammenhange tradotte in italiano nei sei volumi intitolati Considerazioni esoteriche sui nessi karmici (Editrice Antroposofica, Milano). In estrema sintesi Steiner spiega che una corretta investigazione occulta non può essere compiutamente effettuata se non dopo i quarant’anni e ciò proprio a causa di una “immaturità di sviluppo” dei c.d.“organi superiori” perciò, anche il discepolo più dotato, non potrà, senza quell’armonica maturazione dei propri arti costitutivi (corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale, organizzazione dell’Io, sè spirituale, spirito vitale, etc.), realizzabile unicamente dopo il quarantesimo anno di età, avere chiarezza attorno al proprio destino karmico, ovvero attorno al senso ultimo della propria presente incarnazione sulla terra, né, tanto meno, sarà in grado di poter comprendere o intuire quali 1 siano state le proprie incarnazioni precedenti. Si badi bene poi, che soltanto pochissimi e qualificati individui possono essere in grado di giungere a tali risultati dal momento che, come è logico, la stragrande maggioranza degli individui verrà semplicemente trascinata dalla corrente del proprio karma finendo per vivere un’esistenza da burattino i cui fili sono mossi, appunto, unicamente dagli istinti inferiori in massima parte stabiliti per occulta legge karmica, come ben sapeva l’iniziato Carlo Collodi che, in quella che è poi divenuta la fiaba più celebre del mondo, il suo Pinocchio, ha saputo con grande maestria inserire dei concetti iniziatici potentissimi (e tutto ciò, per inciso, spiega anche il successo di Pinocchio nel mondo); in tal senso, Steiner ci fornisce gli esempi di alcuni personaggi celebri, quali ad esempio, Karl Marx, Friedrich Nietzsche, Otto Weininger, dimostrandoci come tutta la loro vita e la loro opera sia stata fortemente condizionata, diremmo quasi eterodiretta, dalle proprie infelici esperienze maturate nelle loro precedenti esistenze. I più fortunati tra gli uomini (come diceva Marco Tullio Cicerone), ovvero coloro che avranno la fortuna di conoscere l’Iniziazione, potranno, a tempo debito, allorquando la loro maturazione spirituale giungerà a compimento, comprendere il senso ultimo del loro attuale transito terrestre ed essere in grado di scorgere nitidamente lo scenario dei mondi superiori e allora, solo allora, potranno essere in grado di guidare gli altri! In questa epoca degenerata, tuttavia, ogni fondamento di sacralità sembra essere scomparso, la spiritualità è stata trasformata in una specie di burletta quando non in un vero e proprio business con“iniziazioni”e“seminari formativi”venduti all’incanto a prezzi in molti casi anche esorbitanti ( ricordatelo sempre, lo Spirito o è gratis o non è Spirito) e la stragrande maggioranza degli “Ordini Iniziatici” si sono oramai trasformate in strutture completamente depotenziate e prive di qualunque REALE valenza iniziatica. Dunque oggi più che mai è valido il celebre detto delle Upanishad “chi sa non parla e chi parla non sa”. Pertanto alcuni stolti giovani, quasi sempre abbeveratisi a fonti inquinate, oggi pretenderebbero di fare da“maestri” pur non avendo non solo raggiunto alcuna effettiva maturazione spirituale, ma non avendo neppure conseguito quegli indispensabili requisiti di maturità psicologica senza i quali non ci si può certamente prendere cura degli altri dato che, con tutta evidenza, non si è neppure in grado di prendersi cura di sé stessi! L’estrema immaturità di questi soggetti, miscelata all’irrequietezza ed alla superficialità proprie di quest’epoca ed al delirio di onnipotenza caratteristico dei giovani, li spinge, inizialmente, ad intraprendere percorsi assolutamente irregolari e fuordevianti nella scia di “Ordini”, “Scuole”, “Accademie”, dei quali, se essi fossero stati più maturi e meno sconsiderati, avrebbero potuto comprendere l’assoluta inconsistenza, e successivamente “mettersi in proprio”trasferendo perciò ad 2 altri sprovveduti che si lasciano incantare da questi“bamboccioni”, i propri errori di pensiero, le proprie lacune interpretative e sovente anche i propri deliri. I risultati sono sconcertanti e sotto gli occhi di tutti: “sacerdotesse” e “sacerdoti” che cianciano di “Arcani” e “Misteri” ai Quali non sono mai stati iniziati e che gabellano per “operazioni ermetiche” sconce ingurgitazioni di liquidi organici ed altre consimili porcherie più o meno rientranti nel novero delle c.d.“devianze sessuali”, baby (o meno baby)”maestri” o “jerofanti” che, con incredibile faccia tosta, essendo stati allontanati con disonore da Regolari Strutture Iniziatiche (il bello è che in questi ambienti di nicchia e con l’attuale sviluppo del web, in quasi tutti i casi sono visibili anche i relativi decreti di espulsione!) danno vita a “pseudo-ordini” pretendendo addirittura di essere gli “unici e regolarmente autorizzati detentori” di questo o di quel lignaggio! Molti di questi grotteschi personaggi sono, peraltro, palesemente affetti da patologie psichiche o organiche (che poi sono la medesima cosa dal momento che Steiner ci spiega che qualunque malattia di interesse psichiatrico si sviluppa a partire da un fondamento organico), ergo, sulla base di quanto Guènon afferma nel capitolo XIV di “Considerazioni sull’Iniziazione” (capitolo intitolato “Delle qualificazioni iniziatiche”) tali soggetti non avrebbero neppure avuto titolo per essere ammessi in un’autentica Scuola esoterica ed Iniziatica! Ma ammettiamo anche che questi “maestri in erba” possano aver avuto una regolare formazione iniziatica e che fossero divenuti individui sani, coscienti e spiritualmente sviluppati: rimarrebbero comunque aperte tutte le limitazioni esposte da Steiner in“Considerazioni esoteriche sui nessi karmici” nonché permarrebbero in ogni caso le regole che da sempre vigono nelle Associazioni Iniziatiche, regole che non possono essere definite temporali ma sono bensì eterne dal momento che la vera Iniziazione ha sempre regole immutabili ed immodificabili. Sulla necessità di attendere un tempo molto lungo prima di poter iniziare ad insegnare agli altri così si esprime un altro Grande Maestro dell’umanità, Louis Claude de Saint-Martin nell’Homme de Dèsir, opera scritta dal Maestro di Amboise nel 1790, ovvero a 47 anni di età: “La saggezza non lascerebbe entrare in voi dei desideri veri, se non avesse messo in voi anche dei mezzi sicuri per soddisfarli. Essa è la misura stessa, e non opera con voi che in questa misura. Ma voi, giudici imprudenti e insensati, voi turbate tale misura nei deboli mortali! Se cominciate troppo presto a fare da maestri, non offrirete loro che dei frutti precoci o rubati, che finiranno per farvi confondere. Se esaltate troppo le loro idee, darete loro dei desideri anticipati e pericolosi. Se piegate il loro spirito sopra delle cose composte, farete sorgere in loro delle difficoltà traviatrici. Saggezza, saggezza, solo tu sai dirigere l’uomo senza fatica e pericolo, nelle tranquille gradazioni della luce e della verità. Tu hai preso, come tuo organo e tuo mediatore, il tempo; egli insegna tutto, come te, in modo dolce, insensibile e conservando perennemente il silenzio, mentre gli uomini non ci insegnano niente, con la loro continua ed eccessiva abbondanza di parole.” Mi vengono rapidamente in mente alcuni (pseudo) esegeti del Filosofo Incognito i quali, con ogni probabilità, o non hanno mai letto questo illuminante brano di una delle opere più importanti di SaintMartin, o lo hanno letto ma commettono uno degli errori più tipici dei c.d.“esoteri- 3 4 sti” ovvero quello di ritenere che a loro stessi non debba essere applicabile ciò che, viceversa, dovrebbe essere applicato agli altri. Molto spesso nella mia, oramai non breve vita, mi è capitato di ascoltare idiozie del tipo “le regole sono fatte per i profani, per gli esseri ordinari, non per gli iniziati” con la variante “l’Iniziato è al di sopra del bene e del male” etc. Coloro che affermano queste sciocchezze dimostrano di non aver capito nulla della Via Iniziatica dal momento che, in realtà, le regole vanno seguite SOPRATUTTO da coloro che seguono un Cammino di perfezionamento e, maxime, da chi pretenderebbe di ricoprire incarichi di responsabilità. Un vero Iniziato, infatti, è sempre molto più severo con sé stesso che con gli altri. Ovviamente i“precoci Gran-Qualcosa”, adusi a pontificare fin dai loro primi passi nel mondo esoterico si chiedono poi da dove siano scaturiti personaggi che hanno iniziato a far sentire la propria voce solo molto dopo aver compiuto i quarant’anni (nel caso di specie solo dopo aver compiuto i cinquanta) ricorrendo a ironici paragoni con le lumache nascoste nella terra o ad altre consimili facezie. Il paragone non mi offende, né potrei certamente ritenermi offeso da ciò che è semplicemente stato da parte mia, il rispetto assoluto delle regole del mondo Iniziatico: io ho iniziato, assai timidamente, a parlare di certi argomenti in pubblico assai dopo i quarant’anni avendo nei vent’anni precedenti, osservato il silenzio prescritto dalla regola di Arpocrate, perché così mi era stato comandato dai miei Maestri. Ho in definitiva fatta mia la bella frase di una canzone di Battiato ovvero “e quando si trattava di parlare aspettavamo sempre con piacere”. Mi sono poi reso visibile ESCLUSIVAMENTE DOPO la mia nomina ai vertici degli Ordini Iniziatici che guido, nomina che non ho né cercato né voluto come possono testimoniare i miei familiari e coloro che mi sono più vicini. Nei trent’anni (e più) precedenti ho osservato, ascoltato, assorbito, valutato: ho conosciuto personalmente e direttamente Personaggi del mondo iniziatico dei quali il 90% degli attuali “gran qualcosa” ha soltanto sentito parlare, magari anche piuttosto vagamente ed imprecisamente, infine conosco PERSONALMENTE E MOLTO BENE TUTTI COLORO CHE SONO A CAPO DI ORDINI INIZIATICI TRADIZIONALI AUTENTICI E REGOLARI e con Costoro ho rapporti costanti, talvolta quasi quotidiani. Ergo, se qualcuno vale qualcosa, se qualcuno è credibile io lo conosco e, dal momento che mi guardo bene dall’avere la pretesa di essere “l’unico”, “il solo legittimo ed autorizzato” a differenza degli stolti in argomento (anzi a proposito, vi ripeto per l’ennesima volta di diffidare profondamente da coloro che fanno 5 affermazioni del genere), posso anche indirizzare coloro che siano interessati a determinati argomenti verso Maestri autentici e qualificati. Tempo fa fui contattato da una persona assolutamente decisa ad approfondire gli insegnamenti del Kremmerz, insegnamenti nei confronti dei quali ho pubblicamente espresso molte riserve; avendo chiesto a questa persona per quale motivo egli si rivolgeva a me pur conoscendo le mie personali posizioni sull’argomento, ricevetti la seguente risposta: ”Maestro io ho potuto constatare che lei è una persona seria, perciò mi fido del suo giudizio e sono sicuro che lei non mi indirizzerà verso dei cialtroni”; ipso facto ho fornito a costui, senza alcun ulteriore commento, i recapiti di tre serissimi e qualificati studiosi ed interpreti della Via Kremmerziana ed ho poi saputo che uno di loro ha accolto questo giovane come discepolo. Pur non condividendo quel cammino ritengo che la personalità in argomento meriti pienamente la qualifica di Maestro, per la sua serietà, la sua sapienza, il suo rigore e, soprattutto, per la sua profonda moralità, tutte doti indispensabili, che, modestamente, credo di possedere come potranno confermarvi tutti coloro che condividono il mio Cammino e come potranno confermarvi diverse Personalità che sono a capo di vari Ordini Iniziatici con i quali ho l’onore di intrattenere fraterni ed amichevolissimi rapporti. La mia, credetemi, non è presunzione ma solo chiarezza: non sono affatto più intelligente o più bravo di altri (anzi!) ma ho avuto due grandi fortune: 1) l’aver incontrato molto presto Coloro che sono stati i miei Maestri i quali, per mia buona sorte, sono stati tra i massimi esoteristi del XX secolo 2) l’aver fatto una professione la cui regola principale è rappresentata dalla disciplina onde il conformarmi a regole, disposizioni, restrizioni non è mai stato per me un problema, anzi! Dunque, per concludere, vista la mia notevole esperienza in questo campo, mi permetto di dare un affettuoso consiglio a tutti coloro che vogliono intraprendere un REALE percorso Spirituale: informatevi BENE E PREVENTIVAMENTE riguardo alla Struttura alla quale siete interessati, incontrate PERSONALMENTE e PRIMA i loro responsabili, parlateci e guardateli in faccia e, possibilmente, fatevi mostrare PRIMA i documenti che attestano le loro Discendenze, Filiazioni, Depositi, etc. In quanto la stridula canzoncina “noi certe cose le mostriamo soltanto a coloro che sono entrati a far parte della nostra struttura” non è altro che la confessione di non possedere nulla! A proposito... quasi mi dimenticavo: controllate bene anche, naturalmente, la loro professione! n Continuando l’azione chiarificatrice e rettificatrice del confuso mondo del c.d. "esoterismo italiano", nella scia di quanto intrapreso a luglio con la creazione della Federazione Massonica Internazionale dei Riti Egizi, evento del quale abbiamo dato conto nello scorso numero della rivista, si è celebrato a Padova il 5 novembre scorso un Convegno Martinista per commemorare il centesimo anniversario della morte di Papus, onorando il Fondatore del Martinismo moderno. A tale evento hanno partecipato cinque Ordini Martinisti Tradizionali i cui Gran Maestri hanno inteso delineare, con la firma della lettera di intenti che riportiamo integralmente, i punti fondamentali ed irrinunciabili del Martinismo Italiano ed intraprendendo in tal modo una fraterna e fattiva collaborazione che crediamo possa essere assai utile alla causa del Martinismo. A tale iniziativa hanno immediatamente aderito anche i Responsabili di altre due Strutture Martiniste, i Carissimi Fratelli IGNEUS e ALGOL, figure storiche del Martinismo Italiano, i quali erano stati fisicamente impediti a partecipare al Convento ma erano certamente presenti in spirito, come si evince dalle rispettive lettere di questi due illustri ed anziani Fratelli che pubblichiamo con il Loro consenso. 6 8 9 La «Scala della ascesa e della discesa»: dalla prima edizione del “Liber de ascensu ed descensu intellectus” di Lullo. Composto a Montpellier nel 1305 e stampato a Valencia nel 1512, questo testo vuole portare l’intelletto alla conoscenza mistica di Dio attraverso l’intelligenza della natura di tutti gli enti, che si possono conoscere sia «per modus ascensus ad superiora» che «per modus ascensus ad inferiora» che ricorda davvero molto il «ciò che sta in alto é come ciò che sta in basso...» di Ermete Trismegisto. RAIMONDO LULLO, IL «DOTTORE ILLUMINATO» Maathor Una delle più interessanti e complesse figure della spiritualità medioevale cristiana é, senza dubbio, Raimondo Lullo (Palma de Maiorca,1232 o 1233; tra l’Africa e le Baleari, 1315). Un inesauribile eclettismo lo condusse a sperimentare la poesia, il romanzo, la trattatistica, la filosofia e la teologia. La sua attività e versatilità hanno del prodigioso, con una produzione veramente enorme: oltre 300 titoli dai quali fluisce la pratica dello studio, l’ascesi, la contemplazione unita all’intensa attività di predicazione. Fu detto doctor illuminatus. Terziario francescano, fu venerato come beato a partire dal XIV secolo (il culto di beato popolarmente attribuito a Lullo fu ufficialmente riconosciuto solo nel 1858 dal papa Pio IX). Raimondo Lullo (in catalano: Ramòn LLull) nacque a Maiorca nella prima metà del milleduecento; grazie al padre, un nobile di Barcellona che aveva partecipato con il re aragonese alla cacciata dei Saraceni dall’isola ed alla sua Conquista, ricevette educazione cavalleresca e cortese, diventando prima paggio di corte, poi istruttore ed infine siniscalco dell’infante Giacomo II di Maiorca, futuro re e suo più grande e sicuro protettore. Nel 1257 si sposò con Blanca Picany, dalla quale ebbe due figli. In questi tumultuosi anni mondani, dominati dalla passione trovadorica, crebbe in lui l’esigenza di impegnarsi in più alti ideali di vita. Questa progressiva tensione culminò, dopo i trent’anni, in una profonda crisi spirituale che fu capace di imprimere una radicale svolta nella sua esistenza: un improvviso e globale cambiamento, paragonabile a quello che trasformò altri grandi di quel secolo XIII - come frate Francesco, Iacopone da Todi o Gioacchino da Fiore - nell’esperienza sconvolgente della visione del Cristo crocefisso. Maiorca era stata da poco liberata dai Saraceni, che tuttavia costituivano ancora la maggioranza della popolazione; la Catalogna stava vivendo una splendida stagione culturale e spirituale con una grande comunità ebraica, che culminò nell’attività delle scuole kabbalistiche di Gerona prima e di Barcellona poi. In Lullo divenne urgente il problema dell’incontro tra le varie fedi non solo per la conversione dei tiepidi, ma soprattutto per quella degli “infedeli” che ritenne possibile unicamente utilizzando le 11 armi del dialogo, della persuasione razionale e del pacifico confronto tra le fedi. Nasce così la speculazione filosofica lulliana, che attinse alle più diverse tradizioni di pensiero. Per poter sviluppare completamente questi obiettivi Lullo seguì l’esempio di Francesco dopo che ne ebbe udito le vicende durante un sermone, e si emancipò dagli obblighi che lo tenevano legato alla famiglia. Dopo alcuni pellegrinaggi nei maggiori centri religiosi del tempo, si trasferì a Parigi, allora massimo punto di riferimento per gli studi teologici. Lasciate le vesti del cortigiano per i panni umili del penitente, abbandonò quasi tutti i suoi beni (tranne quelli dedicati alla sopravvivenza della moglie e dei figli) e si sottopose, nel decennio 1265-1274, ad una severa serie di rinunce e di studi di preparazione tra l’Oratorio ed il Laboratorio, come prescrivevano i più alti dettami spirituali del tempo. Alla filosofia, alle arti liberali, alla teologia unì lo studio intenso della medicina, della cultura e della lingua araba, che utilizzò per scrivere le sue prime opere (probabilmente nel monastero cistercense di Santa Maria Reale, a Maiorca, nella cui biblioteca si trovavano molte fonti del suo pensiero, da Dionigi Aeropagita a Scoto Eriugena, da S. Anselmo ai Vittorini del XII sec., a S. Bonaventura, a Ruggero Bacone). In Lullo é palese tanto il concorso del misticismo francescano e, in genere, della tradizione platonica-agostiniana, quanto alcuni suggerimenti del misticismo islamico dei sûfi e di quello ebraico della Kabbalah: egli seppe aprirsi completamente all’eredità delle altre tradizioni, come appare in uno dei suoi primi trattati, il Libro del Gentile e dei tre Savi, nel quale un ateo giunge ad una condizione spirituale superiore proprio grazie al dialogo di tre Saggi (un Ebreo, un Cristiano e un Saraceno) che hanno maturato una armoniosa capacità di stare insieme in virtù degli insegnamenti di una misteriosa dama, di nome Intelligenza, depositaria e garante della verità unica racchiusa presso tutte e tre le fedi. Questo scritto costituisce una sintetica esposizione delle teologie giudaica, cristiana e islamica: il sistema lulliano suggerisce così che la pluralità di fedi non é una confusione babelica, ma deve essere invece intesa come espressione di diversi popoli e tradizioni che concorre ad individuare una più completa visione di una unica e vera perfezione: nel retaggio di ciascuna esiste il modo di risolvere l’enigma di quella loro pluralità che risulta voluta dallo stesso Dio. Lo strumento capace di attuare questa sintesi é innovativo: si tratta del “metodo speculativo” fondato su un nucleo di insegnamenti comuni alle principali tradizioni: questo metodo avrà una amplissima, monumentale ed articolata espressione nella Ars Magna (1274), opera che lo stesso Lullo attribuiva ad una particolare illuminazione divina. In sostanza, Lullo rivela una sincera adesione al cristianesimo quando questo entra in una dimensione mistico-esoterica, cioé come testimonianza di una religiosità più universale. Poiché nella consonanza delle religioni egli vede “la sostanziale armonia 12 di tutte le fedi e anche la ragione segreta della loro intima identità” (Massimo Candellero, Raimondo Lullo, la spiritualità perenne, in Abstracta, n° 21, anno II, dicembre 1987), Lullo si professò cristiano spingendo questa sua testimonianza fino al martirio. Dopo i quarant’anni Raimondo Lullo si ritirò in ascetico isolamento sul monte Randa, a Maiorca, vivendo una esperienza del tutto simile a quella di Francesco e di Bonaventura sul monte di Verna: qui concepì il metodo per entrare in assonanza con il trascendente, accordando la ragione umana alla ragione divina e perciò alla segreta intelligenza delle cose. Vide come i molteplici aspetti della divina potenza, i «Divini Attributi», pervadessero e reggessero l’intero universo con una serie di intrecci ed inter-relazioni di stupefacente complessità; vide che la loro assimilazione poteva costituire una specie di “chiave universale” per interpretare la vita appunto perché fondata sui termini ultimi della realtà e perciò dotata di una validità assoluta. La dottrina dei «Divini Attributi», o delle «Dignità», appariva confermata dalle principali tradizioni ed in essi si dovevano riconoscere le stesse “rationes necessariae”, i “principia essendi vel cognoscendi”: l’Arte, perciò, si fonda su di essi e non su principî logico-deduttivi e quindi é un metodo di conoscenza reale che unisce una logica ed una metafisica. L’elaborazione lulliana si richiama a fonti cristiane, islamiche e giudee, presenta consonanze con l’insegnamento kabbalistico relativo alle sephirot sviluppato dai mistici ebraici spagnoli del XII secolo, ha analogie con la dottrina islamica degli hadras (parola anch’essa che indica i «Divini Attributi») cara alla tradizione esoterica dei sûfi e che fu approfondita da al-Ghazali con opere che Lullo ben conobbe e che riproponevano un ordine di concetti largamente diffusi già nel mondo antico (come le Idee platoniche, nella interpretazione di Plotino, cioé come strumento dell’azione divina, archetipi delle cose create: concetto prossimo a quello stoico dei logoi spermaticoi, o rationes seminales, che fu in seguito accolto nell’ambito della tradizione francescana, alla quale Lullo fu sempre particolarmente legato). Attraverso l’uso del simbolismo il doctor illuminatus pensava di poter desumere ogni cosa dalla Causa Prima, attraverso una serie progressiva di cause seconde e di effetti che, costituendo l’ordine gerarchico dell’universo, consentiva una riduzione metafisica di tutta la creazione all’opera dei «Divini Attributi». È alla luce delle «Dignità» dei principî attivi che si può ricondurre la vita e l’azione dei vari enti particolari. Occorre scoprire tutti i termini semplici e trovare la regola che li combini. Egli individua 9 predicati assoluti, che sono i nove attributi divini: bontà, grandezza, eternità, potenza, sapienza, volontà, virtù, verità e gloria; 9 relazioni: differenza, con- 13 14 cordanza, contrarietà, principio, mezzo, fine, maggioranza, minoranza ed eguaglianza; ma poi deve aggiungere 9 questioni, 9 soggetti, 9 virtù e 9 vizi. Mentre per Aristotele i principi non si basano su dimostrazioni ma derivano dall’esperienza e dall’induzione, Lullo suppone di risolvere ogni problema con precisione matematica: parte dal presupposto che ogni proposizione sia riducibile a termini e i termini complessi siano riducibili a più termini semplici o principi. Supposto di aver completato il numero di tutti i termini semplici possibili, combinandoli in tutti i modi possibili si otterranno tutte le proposizioni vere possibili: nasce così l’arte combinatoria, anche come forma di mnemotecnica, in quanto facilita la memorizzazione delle nozioni di base. Questa concezione potrebbe avere avuto influenza sui successivi sviluppi del calcolo computazionale e su questioni riguardanti l’intelligenza artificiale. L’importanza del catalano consiste nella sua concezione di una logica intesa come scienza universale, fondamento di tutte le scienze: poiché ciascuna scienza ha principî propri, diversi dai principî delle altre scienze, vi deve essere una scienza generale nei cui principî siano impliciti e contenuti tutti quelli delle scienze particolari, come il particolare é contenuto nell’universale. L’Ars magna deve consistere essenzialmente nella capacità di comporre i termini suddetti in modo da formare con essi tutte le verità naturali che l’intelletto umano può attingere. Questo concetto dell’arte combinatoria suscitò nel Rinascimento entusiasti seguaci, tra i quali Enrico Cornelio Agrippa, il quale scrisse il commentario dell’Ars Brevis (In Artem Brevem Raymundi Lulii cammentaria). Tra i chiosatori e gli esegeti sono da ricordare: Bernardo Lavinheta (Artis Magnae interpretatio et practica, Lione, 1517-1523); H. Sauchez (Methodus generalis ad omnes scientias addiscendas in qua R. Lulli Ars Brevis explicatur, Tarascona, 1613-1619); Valerius de Valerijs (Arboris Scientiae expositio, Strasburgo, 15 1612-1633); N. Morestel (Encyclopaedia sive artificiosa ratio et via circularis ad artem Magnam Lulli, Rouen, 1646-1648); Jean Belot (Oeuvres des Oeuvres, Rouen, 1640). Ed inoltre Nikolaus von Knes, Giovanni Pico della Mirandola, Francisco Ximenes de Cisneros, Carlo Bovillo (Carolus Bovillus, latinizzazione di Charles de Bouelles, filosofo e matematico francese che nel De sapientiae del 1510 restituisce all’uomo la soggettività come funzione). Fu commentato da Cusano e dal cardinal Bessarione, il platonico allievo di Giorgio Gemisto Pletone. Soprattutto, Giordano Bruno lo onorò con il De architectura et commento artis Lullo (Parigi, 1582). I suoi scritti di arte lulliana e di mnemotecnica furono poi sviluppati nell’Ars reminescendi dello stesso anno, nella Triginta sigillorum explicatio e nel Sigillus sigillorum, sempre del 1583, nel De progressu et lampade venatoria e con il De lampade combinatoria, data alle stampe a Praga tra il 1587 e il ‘58, fino al De imaginum compositione datato 1591, oltre ad altri numerosi libri tutti in latino. John Dee gli fu debitore. Lo stesso Leibniz, più tardi, riprese il concetto lulliano di un’arte combinatoria come fondamento di una logica inventiva, cioé diretta a scoprire per via sintetica e verità delle scienze. L’aspetto tecnico dei metodi dell’Arte lulliana, che largamente attinsero alla Kabbalah, si può molto grossolanamente riassumere nel tentativo di individuare gli elementi primi del sapere, raffigurandoli con lettere o simboli, per porli quindi in relazione tra loro, appunto, attraverso procedimenti combinatori e mnemonici rappresentati da simboli geometrici (cerchi, triangoli) per poter poi elaborare ragionamenti analitico-sintetici applicabili a qualunque disciplina o problema, perché del tutto impersonali e “matematicamente infallibili” (Cfr. T. Gregory, Raimondo Lullo, in Enciclopedia Fisolofica, VI, Milano 1976 ed anche, per le sue connessioni con le arti della memoria, con P. Rossi, Clavis Universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna, 1983) anche per la possibilità di promuovere la conversione degli agnostici e degli “infedeli” proprio attraverso l’impiego delle «ragioni necessarie». Raimondo Lullo era conscio di star vivendo in un’epoca di profonda modificazione della civiltà occidentale: da una parte era sempre più evidente la frantumazione dell’antico ecumène cristiano; dall’altra, premeva prepotente la presenza vivace di altre culture e altre tradizioni, riconducibili tuttavia ad una medesima origine. Questa consapevolezza sviluppò in lui la necessità di riunire la “divisa famiglia d’Abramo”, idea che lo portò a lasciare il monte Randa per dimostrare al mondo dei sapienti e dei potenti la 16 verità della sua illuminazione e della sua Arte. Diventò il “...campione di una nuove cavalleria di tipo spirituale posta al servizio della fede cattolica” (Carreras y Artau). Dottrinario e uomo d’azione, tra il 1276 e il 1287 si rivolse alle Corone di Francia e d’Aragona, ai Comuni delle Repubbliche marinare italiane; compì un lungo viaggio nel settentrione d’Europa, visitò l’Asia (forse con missioni evangelizzatrici presso i Tartari) e toccò le coste mediterranee dell’Africa. Ritornato da Giacomo II di Maiorca a Montpellier, si ritirò nel monastero di Miramar (da lui costruito nel 1275-76, come conferma la bolla di fondazione di papa Giovanni XXI, il logico Pietro Ispano) dove tra il 1283 e il 1285 scrisse il Blanquerna, uno dei più antichi modelli di novella a sfondo utopico e sociale, nel quale suggeriva l’idea di una specie di “Società delle Nazioni” guidata da una superiore autorità di carattere teocratico, capace anche e soprattutto di comporre i dissidi tra i diversi Stati. Nel 1287 si recò in missione a Roma, ma la morte del papa Onorio IV impedì che ottenesse il consenso per le proprie idee missionarie. Poiché anche la Curia si dimostrò indifferente al suo metodo apostolico, partì per Parigi dove poteva contare su una risonanza ben più grande: nel soggiorno parigino conseguì il grado di magister in artibus (e non quello di maestro in teologia, essendo sposato e privo degli ordini sacri): ma non riuscì a coinvolgere il re Filippo II, nè a convincere la locale Università, nel progetto di fondare anche in Francia un collegio simile a quello di Miramar a Maiorca, nel quale preparare alla lingua e alla cultura orientale coloro che si sarebbero poi dedicati all’opera di conversione soprattutto dei Tartari: l’illuminato catalano, profeticamente, temeva infatti una loro adesione all’Islam (cosa che effettivamente avvenne nel 1301, con la conversione del khan Ghãzan). Deluso da questo soggiorno, lasciò al suo discepolo Thomàs le Myèsier il compito di proseguire la sua azione presso la Corte francese e si trasferì a Montpellier, dove si dedicò alla preparazione di una nuova e semplificata stesura della sua Arte: l’Ars inventiva veritatis. Il Ministro generale dei Francescani, R. Gaufredi, gli consegnò delle lettere di presentazione affinché le scuole Minori accogliessero il suo metodo per l’Arte. Si diresse quindi in Italia, dove ebbe diversi contatti con vari personaggi del movimento degli Spirituali. Giunto infine a Roma, dedicò al nuovo papa Niccolò IV il Tractatus de modo convertendi infideles, ispirandosi alla recente caduta di S. Giovanni d’Acri. Una volta di più i suoi progetti risultarono inattesi. Ormai sessantenne, decise allora di percorrere autonomamente la via della missione personale agendo con i metodi dialettici della sua Arte: a Tunisi, cercò di intavolare delle pubbliche dispute con i teologi musulmani, ma fu imbarcato a viva forza per ordine del sovrano locale e costretto a tornare in Italia dove il nuovo papa, Celestino V, dava speranze a tutti coloro che auspicavano un profondo rinnovamento della Chiesa. 17 Durò davvero poco: pochi mesi dopo fu innalzato al Sacro Soglio Bonifacio VIII che, come tutti gli altri papi, rimase sordo agli accorati appelli di Lullo. Il poema Desconort, scritto a Roma tra il 1295 ed il ‘96 nel metro dei trobadours, é la vibrante testimonianza di questo periodo di insuccessi, molto importante per l’ampia parte autobiografica “che ne fanno uno degli esiti più emozionanti dell’autore” (Candellero). Instancabile e costantemente ispirato, iniziò una nuova esposizione dei metodi dell’Arte con una vasta opera di carattere enciplopedico, l’Arbre de Ciéncia; quindi, tornò a Parigi dove, nel 1297, poté entrare in contatto con Filippo il Bello, nipote del re Giacomo II di Maiorca, che lo accolse nella sua Corte. Lì produsse la Disputatio contra aliquorum philosophorum opiniones, concedendo libero sfogo alla propria personale battaglia contro l’averroismo, le cui dottrine giudicava particolarmente pericolose. L’ostilità di Lullo contro la filosofia di Averroé deriva dalla convinzione che la fede può essere dimostrata con ragioni necessarie: la diversità e l’opposizione che l’averroismo stabiliva tra ragione e fede rendono il doctor illuminatus, per forza di cose, un avversario accanito contro l’averroismo, proprio perché profondamente convinto che é la fede stessa a suscitare, in colui che crede, le ragioni necessarie che la giustificano. Dunque, la fede diventa inevitabilmente lo strumento dell’intelletto, giacché il fine dell’intelletto non é il credere ma l’intendere; e perciò la fede é l’intermediaria tra l’intelletto e Dio, poiché per suo mezzo l’intelletto può elevarsi fino a Dio e 19 trovare così appagamento nel suo oggetto primo. A Parigi conobbe Arnaldo Villanova, col quale ebbe modo d’intrattenersi intorno alle mirabili scoperte alchemiche. Esiste un’opera, stampata a Francoforte nel 1599 presso Roffius, che pare scritta in comune dai due grandi iniziati, che porta il titolo: “Lullo Ramon et Villeneuve Arnould Medicinae Hermeticae Artificibus Catholicae ad Hominis sanitatem etc.” Nel 1298 appare il mistico Arbre de filosofia d’Amor al quale seguì, l’anno dopo, il lirico Cant de Ramon, intensissima composizione che trasse ispirazione dal proprio disinganno: le richieste che continuava ad avanzare per l’evangelizzazione dei Mori d’Africa non ottenevano mai un esito positivo. Provò allora a Barcellona, alla Corte di Giacomo II d’Aragona: nell’ottobre del ‘99 il re gli concesse la possibilità di predicare liberamente nelle moschee e nelle sinagoghe del regno. Gli dedicò il Dictat de Ramon ed il Libre d’oraciò, e trascorse un paio d’anni a Maiorca, occupato in intense dispute teologiche con i Mori fino a quando gli giunse notizia delle vittorie tartare in Siria, vittorie che suggerivano una possibile incrinatura della potenza musulmana. Immediatamente, con l’ardente furore che caratterizzò tutta la sua vita, partì in una nuova campagna missionaria nel Mediterraneo, che lo condusse anche a conoscere e diventare amico del Gran Maestro del Tempio, Jacques de Molay, a Cipro. Tra il 1302 ed il 1307 fu a Genova, Maiorca, Montpellier, Barcellona ed infine a Parigi per propagandare le sue tesi missionarie con il De fine. Clemente V, amico di Filippo il Bello, era stato nel frattempo eletto papa e quindi, nel novembre del 1305, si recò a Lione alla sua incoronazione dedicandogli la sua Petitio pro conversione infidelium. Ma, come sempre, non ottenne alcun risultato: non gli rimase allora che proseguire nella sua personale - ed instancabile - azione missionaria. Ormai settantacinquenne, nel 1307, salpò per l’Africa settentrionale e raggiunse Bugia nella quale prese a svolgere una intensa propaganda cristiana, quasi assetato di martirio. Fu malmenato dalla popolazione e gettato in carcere per oltre sei mesi, durante i quali scrisse in arabo la Disputatio Raymundi et Hamari saraceni per rispondere ad una controversia con un saggio musulmano. Espulso, fu imbarcato su una nave in rotta per Genova che naufragò all’altezza delle coste toscane, facendogli perdere tutto l’equipaggiamento e gran parte dei suoi manoscritti. Accolto con grandi onori a Pisa, riscrisse subito in latino, nel monastero di S. Domenico, le opere perdute; sempre qui, portò a compimento l’Ars Brevis, la più sintetica presentazione del suo sistema di pensiero, e l’Ars generalis ultima, la sua esposizione sistematica finale. Eduardo II, re d’Inghilterra, volle che sperimentasse innanzi a lui la trasmu- 20 In questa pagina ed in quella di sinistra: “Tractatus novus de astronomia” 22 tazione dei metalli: lo chiamò a Londra e lo chiuse nella Torre. La leggenda vuole che il doctor illuminatus lo accententò cambiando in oro rilevanti masse di mercurio e stagno: con parte di questo oro furono coniate le monete che presero il nome di raimondine. L’instancabile catalano iniziò a promuovere allora una nuova crociata, raccogliendo tali consensi sia a Genova che nel Comune pisano da indurlo a raggiungere il papa ad Avignone e presentargli il suo Liber de Acquisitione terrae sanctae, saggio che rappresenta una decisa”evoluzione in senso filo-francese delle tesi lulliane di crociata” (Candellero). Come Giovanni nel deserto, anche questo suo appello fu inascoltato. Nel novembre del 1309 si recò per l’ultima volta a Parigi, con l’intento di combattere l’averroismo. Furono di supporto di questa sua personale crociata numerosi scritti nei quali, inoltre, suggeriva al sovrano di fondare un nuovo Ordine di Cavalieri, che riunisse eventualmente ogni altro Ordine esistente, per liberare la Terra Santa ed edificare nuovi collegi missionari. Finalmente Filippo IV, che rivendicava per sé il ruolo di «difensore della Chiesa», diede la sua approvazione alla attività lulliana e, nel 1310, l’Università ed il suo Cancelliere emanarono dei documenti che confermavano l’ortodossia della dottrina di Raimondo Lullo. Riconoscente, dedicò al re francese il Liber natalis ed il Liber lamentationis philosophiae, riemergendogli fortissima la speranza di veder finalmente anche la Chiesa accogliere le proprie tesi. L’occasione di presentare al papa ed ai cardinali i propri metodi e le istanze missionarie gli venne offerta dal Concilio convocato da Clemente V a Vienne per l’ottobre 1311. Durante il viaggio per raggiungere il Delfinato, sede del Concilio, compose in forma e linguaggio di poema trovadorico il De Concili ed il dialogo Phantasticus (titolo con il quale é più nota la Disputatio Petri clerici cum Raimondo phantastico): due lavori contigui che esprimevano, oltre alle speranze per l’imminente Concilio, anche la consapevolezza dei pericoli che incombeva su di esso, come la mancanza di coesione in una visione unitaria e di uno zelo cristiano nei partecipanti, troppo attenti al proprio particolare interesse per seguire la forte attesa e l’entusiasmo idealista del maiorchino. Ciò che l’anziano apostolo catalano ne ricavò non fu certo un completo successo, ma neppure la solita sequenza di rifiuto. Non furono accettate nè la progettata campagna contro l’averroismo nè gli riuscì a far accogliere i metodi della sua Arte. Tuttavia, alcune sue tesi missionarie ebbero largo e vivace consenso: ufficialmente fu ordinato l’introduzione dello studio delle lingue orientali in appositi collegi che avrebbero visto la luce presso la Curia Romana, le Università di Parigi, Oxford, Bologna e Salamanca (la teoria delle missioni di Raimondo Lullo fu sviluppata, in seguito, in varie e diverse 23 applicazioni solo dopo il pontificato di Giovanni XXII per concretizzarsi, assai più tardi, nella fondazione della Congregazione della Propaganda Fide). Lullo sopravvisse solo alcuni anni al Concilio, anni oscuri “durante i quali la sua figura pare trapassare direttamente dalla realtà storica alla leggenda ed al mito” (Candellero). Dopo un anno alla Corte di Sancio, figlio di Giacomo II, nel maggio 1313 si imbarcò per Messina, una delle residenze favorite di Federico di Sicilia, fratello dello stesso re Giacomo II d’Aragona, suo antico amico. Federico s’era mostrato favorevole agli Spirituali ed era in relazione con Arnaldo da Villanova, conterraneo di Lullo. Offrì la sua protezione al Dottore illuminato che si trattenne in Sicilia fino al 1314, componendo una moltitudine di brevi trattati teologici, abbandonando definitivamente la sua idea di una crociata armata e tornando alle antiche tesi di pacifiche dispute coi musulmani con il De partecipatione Christianorum et Sarracenorum dedicata proprio a Federico ed al re musulmano di Tunisi: in questa opera giunse a proporre uno scambio di dotti coi Saraceni, in modo da poter giungere attraverso un dialogo costruttivo ad una piena pacificazione con essi. Coerente con questa tesi, ancora una volta si mise in viaggio con un ardore assolutamente inesausto nonostante l’età avanzata. Sono del dicembre 1315 le sue ultime opere, dedicate da Tunisi al re Abu Yaiya Zakarya al-Lihyani nelle quali cercò di illustrare razionalmente, sempre attraverso le «ragioni necessarie», il dogma trinitario ai musulmani. Secondo la leggenda agiografica, pare che Raimondo Lullo incontrasse la morte in seguito ai supplizi ricevuti dai Saraceni: subita la lapidazione in Africa, spirò in vista dell’isola natia il 29 giugno 1315 dopo essere stato raccolto moribondo sulla pubblica piazza da alcuni mercanti genovesi o catalani. Tuttavia, anche se ciò era in accordo con la psicologia di Lullo (che implicava coerenza fino all’estremo sacrificio), ciò appare invece storicamente inverosimile sia perché aveva la protezione dello stesso sovrano locale, amico di Giacomo II d’Aragona, sia perché nel dicembre di quello stesso 1315 si hanno altre sue notizie sempre da Tunisi. Abbiamo detto che il catalogo lulliano comprende non meno di trecento opere (secondo il De Vernon, circa tremila!). Dieci volumi in folio compongono l’edizione dell’Opera completa, edita in Magonza per i tipi di J. Salzingerum (o Salzinger) tra il 1722 ed il 1742. Nella Biblioteca Nazionale di Roma esiste un’altra edizione dell’Opera del catalano che i biografi non citano: tre volumi in folio che contengono soltanto il trattato dell’Ars Magna ed altri scritti minori di religione. La stessa é stampata anche a Magonza nel 1721-1722 dalla tipografia Mayeriana; edizione incompleta é quella edita nel 1651 (Accessit Valerii de Valerijs, Argentolarati, Laz. Zetzneri, 24 in 8° di 1109 pagg. ed Indice). Il Testamentum, la più vasta opera alchemica di Raimondo Lullo, fu pubblicato in due volumi da J. Birkmannus nel 1663 e contiene nel primo libro la teorica, nel secondo la pratica nelle distinte trattazioni: Testamentum novissimum integrum; Lux mercuriorum; Experimenta; Elucidatio verborum eius; Vade medum; Compendium de trasmutatione metallorum; De compositione gemmarum et lapidum pretiosorum; Epistola accurtatoria ad Regem Neapolitanum; De Medicinis secretissimis; Dialogus Demogorgon; e così via. Attribuita a lui l’opera alchemica del Fugax Vitae di ricerca interiore della pietra alchemica filosofale (simboleggiata dall’acronimo V.I.T.R.I.O.L.: visita interiora terra rettifficando invenium occultum lapidem). Altri importanti libri su argomenti di questa natura sono: Liber atramentorum; Codicillus; Apertorium; Liber artis matrimonialis; Origo nostrorum argentorum vegetabiliam; Lumen artis; Magica Raymundi De Anima metallorum; Opus Margaritarum; Lumen Solis; De intentione Alchymistarum; Liber limus lapidis; Clavicola; Medicinae Hermeticae Artificibus; Ars expositiva; e altri. Lullo, cultore dell’Arte, ebbe anche fama di sperimentatore e la sua tomba - come il porticato dedicato in Parigi a Nicholas Flamel - divenne meta di pellegrinaggi di al- 25 chimisti. Questi solevano contare le colonne della tomba ed esaminarne le sculture, sperando di ritrovare la chiave con cui raggiungere la “perfezione”; molti altri scrissero trattati sulla pietra filosofale firmando con il suo nome e riconoscendo così al maestro catalano l’aver raggiunto - se non nel crogiuolo, per lo meno nella propria persona una perfetta trasmutazione. Per quanto poco, da vano cortigiano a spirito ardito difensore dei propri ideali. Un moderno storico del magismo dice di Lullo: “Il Genio della Scienza fece nascere Raimondo Lullo che rivendicò, per il Salvatore, (...) l’eredità di Salomone, e che chiamò per la prima volta i figli della credenza cieca agli splendori della conoscenza universale. Fu amoroso come Abelardo, iniziato come Fausto, alchimista come Ermete, penitente e sapiente come San Girolamo, viaggiatore come l’Ebreo Errante, pietoso e illuminato come San Francesco d’Assisi, martire infine come San Stefano e glorioso nella morte come il Salvatore del mondo”. Candellero così lo definisce: “Nel suo intenso apostolato presso gli «infedeli» ed i potenti del tempo, Lullo non fu comunque mai il semplice arrivista d’una particolare confessione religiosa, quanto semmai un autentico e disinteressato paladino della Verità. Proprio ciò dona alla figura ed al pensiero del Dottore Illuminato il suo estremo interesse e la sua perenne attualità, soprattutto considerando come nell’unire l’impegno dello studioso e del contemplativo a quello dell’ardente ed entusiasta missionario, egli abbia offerto un modello di speciale e personalissima sintesi tra vita attiva e vita contemplativa, che ben pochi raffronti possiede nell’intero panorama della religiosità universale”. n 26 MARTINISMI E MARTINISTI Algol Molte volte in passato si è tentato, in Italia, senza, peraltro, mai riuscirvi, di trovare un punto di coesione fra diversi Ordini Martinisti. Il più noto, sulla spinta di quello che fu stipulato in Francia fra Papus (Encosse) e Aurifer (Ambelain), è stato quello che avvenne, immediatamente dopo, quando, al Convento di Ancona del 1962, l’Ordine Martinista e l’Ordine Martinista degli Eletti Cohen, nelle persone, rispettivamente, di Artephius (Zasio) e Nebo (Brunelli), sottoscrissero un protocollo, dei princìpi da rispettare, per la riunione dei due Ordini. Un secondo tentativo fu espletato, nel 1983, fra Libertus (Comin) G.M. dell’Ordine Martinista Antico e Tradizionale, successore di Nebo, e Vergilius (Caracciolo) G.M. dell’Ordine Martinista, successore di Aldebaran. Entrambi i tentativi fallirono, ufficialmente, per diversità insanabili di impostazione: una visione mistica, quella di Aldebaran (Ventura), successore di Artephius (Zasio), ed una teurgica, quella degli Eletti Cohen di cui era G.M. Nebo (Brunelli). Quello che è accaduto, all’indomani del Convento di Ancona, a seguito della scissione verificatasi nell’Ordine Martinista, ripropone una certa riflessione, anche se molta acqua è passata sotto i ponti e, fortunatamente, oggi tutti sembrano pervasi dalla opportunità, se non dalla necessità, di creare un qualche cosa di comune che superi le diverse visioni di impostazione tradizionale, per riconoscersi in alcuni principi comuni a tutti i martinismi di qualsiasi scuola. Vi sono diversi modi di disporsi, per approcciarsi al mondo iniziatico. L’atteggiamento di coloro che vi si avvicinano con un atteggiamento completamente passivo e che reputano principalmente gratificante sentirsi parte integrante di un circolo, di una associazione, iniziatica, parainiziatica, esoterica o paraesoterica che sia. Prendere parte alle vicende dell’associazione consente loro di sentirsi partecipi di un mondo esclusivo e misterioso, e ciò è sufficiente a farli sentire realizzati. Costoro realizzano il proprio obiettivo, nel far parte del mondo iniziatico, con il porsi in attesa, nella convinzione che otterranno la propria affermazione personale confidando nel destino, rivelando, in ciò, un atteggiamento completamente passivo. Poi ci sono quelli che sono convinti di dover fare qualcosa e sanno che, per ottenere una trasmutazione di se stessi, debbono costruire qualcosa. Costoro, avendo chiaro lo scopo, per cui hanno cercato l’appartenenza al mondo dell’iniziazione, pensano di raggiungerlo facendo ricorso 27 28 alle più svariate tecniche che, al di là delle singole particolarità, possono essere identificate, nella loro generalità, secondo l’accezione più comune, usata dagli studiosi di esoterismo, come tecniche attive o passive. Di questi, tuttavia, soltanto una piccola parte prende coscienza di come si deve attivare. Nasce allora, nell’affrontare il problema del come attivarsi, la necessità di considerare che non esistono particolari tecniche. In realtà, non esistono tecniche che possono essere definite attive o passive; ma, piuttosto, dobbiamo soltanto considerare che esistono, semplicemente, due atteggiamenti: uno è l’atteggiamento completamente passivo, l’altro è l’atteggiamento attivo, che dovrebbe essere favorito e dinamizzato. Qualsiasi tecnica si voglia seguire, sia essa una tecnica passiva od attiva, assume una valenza attiva, soltanto in forza della attività che si pone nel dinamizzarla e nel renderla viva, tanto da farla diventare operante. Tuttavia, forse, è bene chiarire che tutte le dispute, sulla attività o sulla passività delle tecniche o degli atteggiamenti, come tutte le diatribe, su quale sia la scuola di pensiero più valida, se la corrente mistica o la corrente solare, sono dispute, tanto ridicole quanto inutili. Anche in relazione alla tecnica più attiva di questo mondo, come anche in relazione all’atteggiamento più attivo, fintanto che si continua a dissertare su quale tecnica di realizzazione privilegiare in un futuro, che non si sa bene quando e se verrà, si resta sempre in un atteggiamento passivo. Allora, è, forse, il caso di chiarire che tutte le tecniche di realizzazione, qualsiasi tecnica, diventa attiva, quando viene applicata, ed è inesorabilmente passiva quando non si utilizza. Anche un atteggiamento attivo, relativo ad una tecnica tradizionale, se non è seguito da una consapevole attuazione, resta a livello di una mera espressione filosofica. E dunque, siccome, di queste discussioni, si sente sempre parlare, diremo, per coloro che vogliono approfondire il problema, dal punto di vista filosofico, che ci sono interi libri scritti, a questo proposito, cui è possibile rifarsi. Ed allora, schierarsi per l’attività o per la passività o dibattere sulla via attiva, via passiva, via solare, via mistica, via umida, come si voglia chiamarla, non serve a niente. È l’attività del comportamento che, rendendole indistinguibili, determina la identificazione delle vie. Tutto diventa attivo, quando lo si applica concretamente. Anche la contemplazione del proprio ombelico può essere attiva, se è realmente perseguita con continuità e serietà. Se non ci si applica concretamente, si otterrà soltanto una contemplazione di tipo orientale, che porta, tutt’al più, alla concentrazione. 29 Né si può fare discorso diverso, anche in relazione al massimo concetto dell’attività, rappresentata proprio dall’atteggiamento alla teurgia. Del tutto inutili si presentano le discussioni, sulla natura stessa della reintegrazione, di cui parla Martinez de Pasqually; non vale certo la pena discutere, se dobbiamo integrarci o se dobbiamo reintegrarci, su cui si dividono molte scuole di pensiero. Per taluni non possiamo parlare di reintegrazione perché non è mai esistita una caduta, mentre altri naturalmente dicono l’opposto. Che cosa volete che importi, a colui che desidera veramente progredire, nel cammino della propria reintegrazione od integrazione, stabilire se siamo caduti da uno stato edenico primitivo ovvero se sorgiamo con la terra e vediamo maturare, piano piano, dentro di noi, il fiore d’oro. In realtà il problema è uno solo. Quello della costruzione della propria personalità, del proprio Sé o della rivelazione del proprio Sé, già esistente. Ma, dico! Per stabilire se costruirlo, ovvero per farlo risplendere se c’è già, c’è forse bisogno di discutere? C’è, soltanto, da operare una decantazione delle cose che opprimono o che impediscono la manifestazione di questo Sé, e basta. E però, quando uno ha capito che deve assolutamente fare qualcosa, se vuole avviarsi verso la sua integrazione - o verso la sua reintegrazione, non importa – deve, anche, assolutamente, stabilire dei punti fermi da cui partire. Prima, dobbiamo metterci di fronte allo specchio e studiare il nostro essere, qual è, in questo momento, e quale dovrebbe essere. Qual è il nostro essere, con i nostri misteri, i nostri istinti, i nostri desideri; tutta la nostra personalità, tutta insieme, così come è, e come dovrebbe essere, secondo modelli ideali, che ci siamo creati, facendo riferimento a coloro che ci hanno preceduto, o che si sono affacciati nella nostra vita. Il secondo punto è studiare com’è il mondo in cui noi siamo - e ci accorgeremo, magari, che il mondo non è che una semplice rappresentazione - e poi stabilire quali sono i rapporti tra noi e il mondo, tra il microcosmo ed il macrocosmo. È chiaro che ognuno di noi ambisce a divenire qualcosa di diverso da quello che è attualmente. Si debbono, quindi, studiare i mezzi per trasformarci, da come siamo a come desideriamo diventare; per studiare questi mezzi, bisogna cominciare con il valutare noi stessi, dove siamo in questo momento. Si capisce, così, che gli atteggiamenti, da tenere, sono l’uno in funzione dell’altro; il momento della attività passiva non si disgiunge da quella attiva. È abbastanza noto 30 che esiste un legame segreto, che ci unisce al mondo, che lega il microcosmo al macrocosmo. Quando vogliamo intraprendere un iter iniziatico, quale esso sia, dobbiamo prendere coscienza di tre basi fondamentali: noi stessi, quali siamo; ciò che ci circonda ed i rapporti che intercorrono, tra noi e quello che ci circonda. Superare la soglia dell’evidente, immergersi nell’esame delle nostre emozioni, fino alla contemplazione della soglia, in cui si fissano i pensieri, fino ad arrivare a riconoscere le varie forze che ci animano. Prendere coscienza delle forze che animano l’universo, la natura e la consistenza della manifestazione, per giungere ad una conferma, più o meno consapevole, che le forze, che ci animano, sono analoghe a quelle che pervadono la manifestazione. Questo percorso, se effettivamente intrapreso, è, in linea di principio, lo stesso, sia che si affronti con una tecnica meditativa, sia che si affronti ricorrendo ad una qualunque tecnica teurgica. La conseguenza è che si manifesta, come del tutto inutile, stabilire quale delle due vie sia migliore, e che non ha senso voler convincere qualcuno sulla prevalenza dell’una sull’altra. Quello che conta è operare secondo la Tradizione. Solo così potremo lavorare proficuamente per la nostra reintegrazione e, secondo l’indirizzo di Martinez de Pasquallis, per la reintegrazione di tutti gli esseri nelle loro primitive proprietà, virtù e potenza spirituali e divine. n 31 32 LO SPECCHIO: LA MAGIA DI UN’IMMAGINE NON RIFLESSA ADM Nella ricchezza dei simboli in grado di esprimere la mistica, scegliamo l’immagine dello specchio, giacché un tale simbolo, più di ogni altro, si presta a manifestare la natura di questa mistica, ossia il suo carattere essenzialmente “gnostico”, fondato su una percezione diretta. Lo specchio è infatti il simbolo più diretto della visione spirituale, la contemplatio, e in generale della gnosi, giacché attraverso di esso si trova concretizzato l’avvicinamento del soggetto e dell’oggetto. Lo specchio è, in un certo senso, il simbolo dei simboli. É in effetti possibile considerare la simbologia come il riflesso figurato delle idee non riducibili o degli archetipi. L’apostolo Paolo dice: “Noi ora vediamo in uno specchio, un enigma, ma verrà un tempo in cui vedremo faccia a faccia. Ora la mia scienza è parziale, ma verrà un tempo in cui io conoscerò per intero, come sono conosciuto” (I Corinti, 13, 12). Qual è lo specchio in cui il simbolo appare come immagine di un archetipo eterno? Innanzi tutto l’immaginazione, qualora si consideri il carattere figurativo, “plastico”, del simbolo, contrariamente alla nozione astratta. Ma, in un senso più ampio, è la ragione che, in quanto capacità di conoscere e di discernere, riflette il puro spirito; e in un senso ancora più ampio, lo spirito stesso è lo specchio dell’Essere assoluto. É necessario ricordare che la luce rappresenta l’Essere e, di conseguenza, che l’oscurità rappresenta il nulla; che quanto è visibile è la presenza e che quanto non è visibile è l’assenza. Non si vede nello specchio che ciò che vi si riflette. L’esistenza dello specchio è tradita dalla possibilità di questo riflesso. In quanto tale, tuttavia, senza la luce che cade su di lui, lo specchio è invisibile, e ciò significa, secondo il senso del simbolo, che esso non è specchio in quanto tale. Esiste dunque un legame con la teoria indiana della Maya, la forza divina in virtù del cui potere l’infinito si manifesta in modo finito dissimulandosi sotto il velo dell’illusione. Tale illusione consiste precisamente nel fatto che la manifestazione, e ugualmente il riflesso, appare come qualcosa che esiste al di fuori dell’unità infinita. Il latino “speculum” ha dato il nome a speculazione: in origine speculazione significava osservare il cielo e i relativi movimenti delle stelle, con l’aiuto di uno specchio. ”Sidus”, che significa “stella”, ha parimenti dato considerazione, che etimologicamente, significa guardare l’insieme delle stelle. Che cosa riflette lo specchio? La verità, la sincerità, il contenuto del cuore e della coscienza. Lo specchio magico, sotto forma puramente divinatoria, è solamente lo strumento più basso della 33 34 rivelazione di Dio. La verità rivelata dallo specchio può essere di ordine superiore. Lo specchio sarà lo strumento dell’Illuminazione. Lo specchio è infatti il simbolo di saggezza e della conoscenza, mentre lo specchio coperto di polvere è simbolo dello spirito oscurato dall’ignoranza. Questi riflessi dell’intelligenza o della parola celeste fanno apparire lo specchio come simbolo della manifestazione che riflette l’intelligenza creatrice. È anche il simbolo dell’intelletto divino che riflette la manifestazione, creandola come tale a sua immagine. L’intelligenza celeste riflessa dallo specchio si identifica simbolicamente con il sole; per questo motivo lo specchio è spesso simbolo solare. Ma è anche un simbolo lunare perché la luna, come uno specchio, riflette la luce del sole. Lo specchio dà un’immagine rovesciata della realtà. “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, dice la Tavola di Smeraldo ermetica, ma in senso inverso. La manifestazione è il riflesso rovesciato del principio, come è espresso dai due triangoli rovesciati dell’esagono stellato. Esso è d’altra parte il segno dell’armonia, dell’unione coniugale e lo specchio spezzato è segno della separazione (la metà spezzata dello specchio viene sottoforma di una gazza a rendere conto al marito dell’infedeltà della moglie). La gazza chiamata p’o-ching o specchio rotto è collegato alle fasi della luna; l’unione del re e della regina si realizza quando la luna è piena, quando lo specchio è ricostituito nella sua interezza. Lo specchio, come la superficie dell’acqua, è usato nella divinazione per interrogare gli spiriti. La loro risposta alle questioni poste vi si inscrive per riflesso. Nelle molteplici tradizioni il nesso mistico è tra l’immagine speculare e l’oggetto fonte dell’immagine. Inoltre, allo specchio à associata la capacità di concentrarsi, memorizzare e trasformare energia, il potere spirituale (i primi esseri umani sono stati realizzati su specchi di metallo, ottone o rame; tutti simboli che in parte, ancora oggi, abbiamo ereditato); questa visione ha consentito la nascita di una serie di costumi. Per gli Egiziani è una finestra, un occhio aperto sul mistero interiore; il suo nome era Oun-Her (quello che rivela la faccia), o anche Imahou Her (dove si vede il proprio viso). Si dice che gli specchi prendono in considerazione l’anima o la forza vitale della persona che si riflette, ed in Egitto lo specchio era anche chiamato ankh, poiché rinvia immagini della vita manifestata; è un oggetto magico per eccellenza che permette di trovare la luce delle origini, cosa che garantisce un rinnovamento perpetuo, ecco perché egli è l’immagine più simbolica del Ka, poiché il Ka è rinnovamento perpetuo, uno specchio in una tomba era dunque legato al Ka, che è uno dei costituenti dell’Essere. Nell’antichità - preparato in rame, oro, elettro o bronzo - lo specchio aveva una doppia natura, lunare e solare, ed in Egitto era messo sotto l’egida di Hathor la luce femminile, e di Hor la luce maschile. Gli Egiziani lo consideravano come un intermediario tra gli uomini e Neter, cioè tra l’anima umana e le funzioni divine della vita. Lo specchio è un vuoto che si riempie. Lo si riempie di sé anche o di ciò che si crede di essere. Lo specchio riflette quest’ambivalenza, si può riempirlo di buone o di cattive 35 cose. Tra il soggetto e la sua immagine, esiste un tipo di fascino che viene probabilmente dalla memoria dell’unità originale dell’androgino. Lo specchio permette di trovare l’altra metà di sé che abbiamo persa. È in ciò che la luna è affascinante, essa è lo specchio del sole. Inoltre gli occhi sono lo specchio dell’anima. In realtà, sono soltanto lo specchio di quello o di quella che li osserva. È sé che cerchiamo negli occhi dell’altro. Ma il pericolo è di intrappolare lo sguardo paralizzando l’osservatore nella sua posizione contemplativa, come Narciso; o ancora lo spettatore diventa vittima del suo potere che deforma o delle sue illusioni, egli passa dall’altra parte si trova paralizzato, catturato dalla sua fragilità, rischia di finire per perdersi di vista e potrebbe perdere la ragione. Questo specchio è dunque un grande simbolo esoterico, poiché se sdoppia le immagini, è anche il simbolo dell’anima che diventa più limpida per riflettere l’immagine di Dio. Lo specchio diventa il simbolo del mistico che va verso Dio. Lo specchio ci parla del miracolo della vita e del miracolo rinnovato della comparsa della coscienza al mondo, comparsa che può far paura, se non si sono prima di tutto esorcizzati i propri demoni. Segna il passaggio della vista imperfetta alla visione faccia a faccia e diventa il modello di ogni conoscenza analogica poiché conduce dal visibile all’invisibile, dall’irreale al reale, dall’illusione all’Essenza. Evoca la manifestazione del trascendente nell’immanente; in questo senso è una metafora dell’unione mistica. In alchimia, si parla dello specchio dell’arte, che è un indice dell’inizio dell’opera, la fine dei lavori è segnata dal corno dell’abbondanza (che consegna la fine delle ricchezze). Lo specchio è il geroglifico della materia universale, specchio ed argomento dei 36 saggi sono dunque sinonimi in lingua alchemica. Lo specchio è tuttavia lo strumento più segreto di Hermes Trismégistos; si sono trovati nelle catacombe dell’epoca Alessandrina degli specchi sui quali erano incisa in greco la celebra formula ermetica, Nosce te Ipsum: conosci te stesso. In altre parole: se vuoi entrare nel tempio devi rientrare in te stesso. Simbolo di riflessione fisica e spirituale fa la sua comparsa tra gli dei egizi, raffigurati con uno specchio in mano. Osservandoli infatti, erano in grado di vedere le conseguenze degli eventi che “innescavano”. Il loro era un eterno processo di auto-valutazione al fine di riflettere sul vero modo in cui apparivano all’interno del regno in cui si esprimevano. Ma cosa serve per far sì che uno specchio funzioni correttamente? La luce. Simbolicamente la Luce rappresenta l’illuminazione, la consapevolezza e la saggezza. Possiamo allora dedurre che l’introspezione è un esercizio sterile se non si affronta con mente illuminata. Molte culture e religioni utilizzano gli specchi come portali verso altri tempi e dimensioni. Passato, presente e futuro diventano accessibili grazie alla “catottromanzia”, la 37 forma di divinazione basata sull’utilizzo degli specchi. Questa pratica è abbastanza complessa: si usano specchi neri o lucidi, a seconda delle energie che si intendono catalizzare; lo specchio è inteso come un “condensatore”, grazie al quale l’operatore potrà dar vita a “forme pensiero” o evocare determinate entità; gli specchi devono essere forgiati con materiali particolari (incluse sostanze organiche, metalli e pietre pregiate). Lo specchio può essere consultato solo in particolari momenti astrologici con l’ausilio di fumigazioni e candele adeguate; l’operazione richiede che il consultante sia puro (astensione da rapporti sessuali, dal contatto con determinati animali o cadaveri, da alcuni cibi, ecc.) e la creazione di uno spazio magico. Può essere necessario un “medium”, un/a vergine che nel suo stato di innocenza primordiale, sia in grado di catalizzare adeguatamente le visioni trasmesse dalle entità evocate. La magia degli specchi è profondamente connessa all’acqua (le sacerdotesse egizie divinavano utilizzando catini d’acqua) e quindi alla Luna, a Venere e al femmineo sacro della Grande Madre. L’astro, identificato con “l’occhio della dea” è lo Specchio che vede e riflette ogni cosa sulla Terra. Lo specchio presenta numerose analogie con la Luna e per questo motivo può richiamare gli aspetti più oscuri ad essa legati: ecco che allora diverrà la sede di un mondo illusorio, infernale, parallelo in cui abitano le creature dell’oltremondo. In sostanza lo specchio può rappresentare due tendenze opposte: un’eccessiva attenzione rivolta a se stessi che riporta al mito di Narciso, o una sana introspezione. Quando i riflessi onirici sono spiacevoli, è importante ricordare che i riflessi non sono “l’essenza” della persona. Ciò che è riflesso può essere cambiato e questo è ciò su cui si deve lavorare. Guardare lo specchio e non vedere il proprio riflesso, potrebbe invece indicare problemi con la propria identità. Tutte le parti della psiche portano ombre e il sé, il più luminoso di tutti gli archetipi, ha quella più scura, quella che non può essere riflessa. Più raramente non vedere la propria immagine nello specchio può significare che si è raggiunta un’illuminazione 38 tale da non considerare prioritario l’avere un’immagine. É l’osservatore che, per immedesimazione, si figura d’essere l’uomo dentro allo specchio: chi invece eviti di comportarsi come Alice e non penetri dentro lo specchio, non soffrirà di questa illusione. Le implicazioni simboliche derivano, abbiamo visto, dalla violazione dei singoli assiomi necessari a definire l’identità di una superficie riflettente: la trasgressione, ad esempio, dell’assioma della sincronicità tra immagine e originale conduce all’idea di specchio capace di svelare il futuro, o nel quale si può scorgere il passato; altro tipo di “specchio magico” è quello in cui viene meno il principio della cospazialità tra originale e specchio. Lo specchio come luogo di trasformazione e d’inganno, dove ambiguità e duplicazione dell’apparenza possono rivelare aspetti inattesi e sorprendenti lati dell’esistenza, lascia emergere la vera identità individuale o collettiva. Nello specchio c’è un altro che ci spia, direbbe Borges, poiché l’essere che lo abita non riconosce chi ha davanti a sé, in un gioco abominevole dove è impossibile distinguere l’immagine reale da quella riflessa. Anche la pratica della catottromanzia, la divinazione condotta con l’ausilio degli specchi, ha radici simboliche profonde, connesse con le figure archetipiche della donna, dell’acqua e della luna: a questo substrato simbolico è legato anche un certo carattere di nefandezza che gli specchi conservano in diverse tradizioni culturali: gli oracolanti hanno la possibilità di portare alla superficie “verità” occulte, ma rischiano anche di “aver gli occhi cavati dai corvi”. Lo specchio inteso come luogo di manifestazione del “doppio”, canale di decantazione della controparte occulta della personalità cosciente, è stato studiato all’interno del mito arcaico di Narciso, della storia avventurosa di Alice, del substrato superstizioso di molte tradizioni popolari. Il nesso luna-specchio oltre all’analogia funzionale (entrambi inerti per natura, vivono di vita riflessa; la luna stesa è, come si è detto, una sorta di specchio), e morfologica (la sagoma tondeggiante), riaffiora nella pratica occulta in cui numerosi esperimenti con lo specchio, sia a scopo divinatorio che magico-operativo, devono tener conto dei ritmi lunari e svolgersi (specialmente se il rito è all’aperto) alla luce soffusa del satellite terrestre. L’associazione ACQUA-SPECCHIO risulta palese nei suoi termini di corrispondenza, vuoi a livello di strutture culturali profonde. Per quanto riguarda infine la correlazione DONNA-SPECCHIO, questa emerge così chiaramente dalla stessa storia dell’iconografia e del costume, da costituire un binomio ormai inscindibile: dee, regine, dame, streghe, vi contemplano a seconda dei casi la bellezza, i guasti del tempo, il diavolo in persona. 39 Athanasius Kircher, “Ars Magna Lucis”. Amsterdam, 1671 La rete dei rimandi sopra illustrati conduce pertanto ad una prima conclusione circa l’atmosfera di negatività che più o meno velatamente accompagna lo strumento riflettente: lo specchio racchiude in sé potenzialità nefaste, o almeno pericolose, in quanto strettamente collegato alla costituzione intima dell’acqua, della donna e della luna. Lo specchio adoperato in occultismo non sfugge a questa regola; anzi, considerando che fin dall’antichità fu impiegato a scopi precipuamente mantici e che, nonostante la presenza di figure maschili di indovini, la maggior parte dei personaggi legati alla divinazione apparteneva all’altro sesso (sibille, profetesse, ecc.), la pratica predittoria andò sempre più a identificarsi con l’aspetto cosiddetto “lunare” della magia, contrapponendosi (pur se condotto ai massimi gradi) al magistero “solare” virile, operante nella prospettiva della realizzazione trascendente dell’individuo. La prima testimonianza occidentale di predizione mediante superfici brillanti (una sorta di protocatottromanzia) ci giunge da Aristotele, che negli Arcanesi (circa 426 a.C.) riferisce dell’uso di uno scudo di bronzo cosparso d’olio da parte del soldato Lamaco in procinto di partire per la guerra contro Sparta. Intorno allo stesso periodo si colloca il vaso detto “a figure rosse” di Vulci (oggi custodito nel Museo di Berlino), raffigurante la giovane profetessa Temi che si serve a fini oracolari di una coppa svasata (forse uno specchio di bronzo concavo), mentre non molto diverso (un nappo d’argento) appare il mezzo impiegato dal sileno barbuto dell’affresco augusteo di Pompei durante le fasi dell’iniziazione dionisiaca. Non si può dire tuttavia che materiali e tecniche di fattura degli specula “magici” conoscano nel tempo effettiva evoluzione. In tutto il corso di questa branca dell’Ars specularis, modalità creative estremamente elaborate e componenti rarissime da un lato, si alternano dall’altro a materie prime - e procedimenti modestissimi. Talvolta a comunicare con l’invisibile basta un semplice bacile d’acqua, un’unghia inumidita, un tuorlo d’uovo, un pezzo di cartone ricoperto di stoffa scura da un lato e carta stagnola dall’altro (specchio del Barone du Potet), una lastra di vetro scaldata cosparsa di limatura di piombo impastata con olio d’oliva (specchio di Swedemborg); a volte occorre invece un complicato corredo di lamine d’oro e d’argento incise, un marchingegno elaboratissimo come lo “specchio cabalistico”, o, dopo l’800, il raffinato apparecchio costituito da due dischi metallici calibrati di rame e zinco (specchio galvanico) che avrebbe 41 sfruttato la combinazione elettromagnetica per stimolare il nervo ottico umano e sottoporlo all’influenza dei metalli. Malgrado i menzionati collegamenti fra mezzo speculare e polarità femminile, non sarà inutile ricordare che presso certi gruppi esoterici gli specchi “magici” sono sempre stati suddivisi in maschi e femmine; i primi tanto potenti magneticamente da riuscire a influenzare una persona a distanza o da materializzarne la presenza (ruolo attivo); i secondi, più piccoli, adatti a favorire la veggenza in genere e gli stati di estasi (ruolo passivo). Quanto alle modalità di costruzione degli specchi stessi, bisogna dire subito che la loro finalità “magica” implica necessariamente una serie di precauzioni, manipolazioni, cerimoniali altrettanto variati, come alterne, complicate e talvolta contraddittorie sono le istruzioni e le formule contenute nella sterminata letteratura occulta. Non ci si può accingere all’Opus specularis senza i dovuti accorgimenti: le proporzioni delle componenti devono essere accuratamente rispettate, l’esecuzione richiede particolari tonalità di luce, precisi tempi astrologici, consacrazioni, purificazioni mediante fumigazioni o “lavaggi”, sigillazioni (modelli a strati o a serbatoio) e saldature con amalgame d’oro, argento, cera d’api. Vanno osservati altresì i limiti dimensionali (non si possono superare determinate grandezze), le condizioni metereologiche (notti calme e serene), la temperatura ambientale, la conduttività elettromagnetica. Di solito la forma più adatta è quella ellittica o rotonda, su piano di rifrazione concavo, ma, prescindendo 42 dalle “pietre di visione”, troviamo anche specchi convessi e piatti. Una volta messo a punto, lo specchio diventa uno strumento molto personale che il solo contatto di mani estranee, o maggiormente la manipolazione da parte di soggetti non qualificati, possono seriamente danneggiare. La specifica delicatezza dell’oggetto necessita anzi, secondo le testi più autorevoli, di un’accurata protezione dagli agenti esterni (polvere, umidità, ecc.) per cui se ne consiglia oltre alla custodia nell’oscurità e in luogo inaccessibile, la fasciatura con drappi di seta o velluto di colore scuro. Lo speculum è per la maggior parte degli individui un mezzo divinatorio, ma per un numero molto inferiore di altri, il supporto di esercizi concentrativi che mirano a risultati assai più elevati di un semplice vaticinio azzeccato. Dall’esame comparativo dei suddetti resoconti, raffrontato alle notizie testuali provenienti dall’oriente, affiorano anzitutto concordanze significative, sulle metodologie aventi come tramite superfici lucido-brillanti: si tratti di liquidi, di cristalli o di specchi, la visione paranormale per verificarsi richiede che il postulante non sia, per lo più, la stessa persona che vede (prevede); occorre cioè un mediatore (medium) tra la fonte rivelatrice (divina, demoniaca, ecc:) e l’organo interrogante. Tale intermediario nella gran parte dei casi è un bambino, ovvero una fanciulla vergine; nei rimanenti, un ragazzo impubere o una donna incinta. Risulta evidente da ciò che requisito fondamentale per l’esercizio di un simile ministero sia lo stato “originario” di purezza. L’innocenza del catalizzatore, comunque, non basta da sola a garantire la congruità del pronostico. Sia l’impetrante, che una terza figura spesso presente (colui che interpreta la “visione”) devono ottemperare a prescrizioni tassative prima di essere degni di “ricevere”: regime alimentare vegetariano preliminare, astensione dai rapporti sessuali, assenza di contatti contaminanti (cadaveri, donne mestruanti, ecc.). Soddisfatti questi requisiti comincia l’esperienza effettiva, che nonostante pittoresche varianti presenta nel complesso una medesima liturgia: ci si pone alle spalle del giovane medium (“pupilla” lo chiama il Kremmerz, “colomba” il conte di Cagliostro) fatto sedere di fronte alla matrice riflettente; gli si ordina di fissarla attentamente stendendo nel contempo una mano sul suo capo o allungandole entrambe all’altezza dell’occipite di lui. Nello spazio di pochi istanti sul piano rifrangente dovrebbero manifestarsi delle nubi policrome, quindi i colori dello spettro solare, infine la visione vera e propria. 43 L’apparizione non si produrrebbe nell’oggetto speculare, ma avrebbe da esso soltanto “l’innesco”: l’indovino fissa la superficie fino a che i suoi occhi non la vedono più, e una specie di nebbia si interpone fra essi e lo specchio. È sopra questo velo che si disegnano le figure che egli desidera vedere, e ciò gli permette di rispondere negativamente od affermativamente alle domande che gli vengono fatte. Egli allora descrive le sue percezioni così come le ha ricevute. Quando l’indovino si trova in questo stato, non vede nello specchio ciò che realmente vi sarebbe da vedere: e la percezione sua nasce dal suo intimo e non si trasmette agli occhi ma bensì all’anima... Se dall’ambito divinatorio passiamo alla sfera autorealizzativa, constatiamo procedure similari nel servirsi degli specula, ma l’operatore tende qui ad agire su se stesso distaccando il “corpo fluidico” e “fissando” il nucleo originario, extra-cerebrale dell’Io. L’arte magica che si avvale dello specchio per scopi di integrazione col sovrasensibile, mantiene al soggetto un ruolo attivo, in cui la coscienza ordinaria, lungi dal dissolversi o dipendere dalla medianità, riafferma il suo ruolo di guida malgrado e oltre l’universo allucinatorio proiettato nel mezzo riflettente. Lo stadio ulteriore vede l’eliminazione stessa dello speculum quale “sostegno” operativo, essendo adesso l’esoterista capace di procedere da solo, sulla base della propria energia interiore. Facilmente si potrà vedere il proprio corpo e l’altrui quasi come una massa d’un colore grigio cupo, qua e là più intenso, circondato interamente da una leggera fascia lievemente luminosa; ad un certo punto, ci si accorge che anche la dualità è sorpassata e che un quid cosciente sta contemplando se stesso, fuori da se stesso, senza confondersi né col corpo, né con se stesso. Le fasi successive al grado descritto, delineando un itinerario magico “totale” che non poggia più sopra sussidi materiali (e che dovrebbe concludersi, se rettamente diretto, con l’identificazione del soggetto nella coscienza cosmica) esulano dal nostro assunto, poiché lo specchio è a tal punto soltanto il lontano ricordo inerente una tappa del cammino ampiamente superata. Ma la tematica speculare, per essere almeno sommariamente illustrata, richiede l’esame di due ultime questioni fondamentali. La prima riguarda gli eventuali pericoli cui si espone chiunque faccia uso di apparati divinatori, con particolare attenzione alle superfici riflettenti. La seconda concerne la natura “ontologica” del fenomeno che mediante queste ultime si 44 produce. Quanto al primo argomento è opportuno dire subito che sebbene in molti manuali per fattucchiere sia sostenuta l’innocuità di tali apparecchi, ciò non risponde a verità sotto nessun aspetto. Se infatti l’uso maldestro di cristalli e specchi può causare dal lato fisico danni al sistema visivo a più o meno lunga scadenza, i guasti sul versante psichico possono essere ancora maggiori, verificandosi spesso sindromi ansioso-depressive culminanti in forti esaurimenti nervosi. Nel linguaggio occulto troviamo l’espressioni “cadere in mano ai demoni”, “essere preda degli spiriti”, cui corrisponde in Alchimia la locuzione “aver gli occhi cavati (o mangiati) dai corvi”; uno dei primi sintomi d’allarme dovrebbe considerarsi il senso di spossatezza mortale che si impossessa della persona appena questa abbia terminato la seduta: le proiezioni incontrollate delle proprie costellazioni irrazionali aprirebbero infatti la psiche ad un’estasi passiva, in cui i protagonisti della visione verrebbero ad acquisire vita propria, mutuandola “vampiricamente” dall’energia vitale dell’evocatore, divenuto così “ossessionato”, prima di diventare “posseduto”. Secondo certi occultisti contemporanei, tutte le forme di chiaroveggenza attivate da sforzi isolati invece che attraverso un graduale percorso di crescita iniziatica, hanno come risultato sviluppi morbosi. In particolare, dei quattro elementi presiedenti alla costituzione umana - fuoco, aria, acqua, terra - gli esperimenti aventi per supporto oggetti riflettenti causerebbero, in caso di degenerazione, la menomazione irreversibile del principio igneo. Ossia, nel nostro caso: se l’uso dello specchio rivela al postulante un accadimento futuro o una modalità esistenziale altrimenti inconoscibili, quale differenza fa che a rivelarli sia un’entità proveniente da altri mondi, invece di un principio latente relegato in una porzione normalmente inutilizzata dal cervello umano? L’importante è che la conoscenza in questo modo acquisita venga opportunamente messa a frutto. Il pensiero platonico secondo il quale noi conosciamo tutto pur ignorando di conoscerlo, fornirebbe la chiave di queste illuminazioni. Le conoscenze devono essere scoperte dentro di noi come in un pozzo. E lo sguardo è reso più acuto dalla contemplazione di oggetti lucidi. Si dice che lo specchio in sé sia soltanto una porta chiusa, e che per essere aperta ci sia bisogno di particolari sigilli, che andrebbero disegnati in aria con le mani davanti allo specchio stesso. Tali sigilli aprirebbero determinate dimensioni, e alla fine dell’esperimento andrebbero assolutamente richiusi per evitare di lasciare la porta aperta... Guardarsi allo specchio almeno per una mezz’ora al giorno non deve essere scambiato per un atteggiamento vanitoso e con il solo fine di contemplare la propria figura. Se lo facciamo innalziamo tra noi e l’esterno una barriera contro gli influssi negativi esterni ed accresciamo il nostro potere occulto rendendoci più forti. Leviamoci catene e bracciali e se possibile denudiamoci completamente e avvolgiamo il nostro corpo solo con una tu- 45 nica o un telo rosso mentre lo facciamo. Sediamoci di fronte allo specchio con una candela bianca alle nostre spalle, incrociando le gambe e tenendo le braccia sollevate. Con molta forza dovremo guardare la figura che lo specchio ci rimanda riflessa e mentalmente, bisbigliando o ad alta voce (secondo come ci dà più carica) ripetendo per tre volte: ”Spirito profondo che sei in me, spezza le mie catene, proteggimi e rendimi forte, potente e vittorioso”.Respirare profondamente per tre volte prima di dire: “Per Iside io vincerò’”. Col tempo si riuscirà a vedere attorno alla nostra figura delle luci, dei volti e persino la nostra stessa aura oltre che le nostre entità protettive. In conclusione non è da dimenticare che qualsiasi atto magico che mettiamo in atto sprigiona comunque delle energie che devono essere indirizzate al centro dei nostri desideri per renderli materia nella materia. Sia che la pratica sia considerata positiva o negativa è indifferente, questo avviene sempre e indistintamente, qualsiasi sia la nostra intenzione e qualsiasi sia l’effetto che se ne ricava, indipendentemente anche dal fatto che il rituale vada a buon fine oppure no. Ogni rito possiede sempre una “memoria” o una, chiamiamola così, “ricevuta di ritorno” e questa è una legge fisica alla quale la materia non si sottrae e dato che la magia si avvale di forze materiali che agiscono nella materia anche essa ne è soggetta. n 46 IL MIO INCONTRO CON FABRIZIO MARIANI Giovanni/Giovanni Aniel N.V.M.P. che la sua Luce ci illumini Enoch Eliau Sei salito sul silicio splendente con sulle labbra il Veni Creator Spiritus e nel cuore l’amore che tutti unisce in un’unica luce. É il 17 gennaio 1971 a.D., una domenica, e Fabrizio Mariani, un giornalista di professione, è Associato all’Ordine Martinista con il nome iniziatico di Giovanni FRLTT28M, da Aloysius S.I. IV°; al secolo Luigi Furlotti. Aloysius è un Iniziatore facente parte dell’O.M. cosiddetto di Venezia il cui Sovrano Gran Maestro è il fr. Aldebaran, Gastone Ventura. Aloysius, insieme ad altri 6 iniziatori tra cui Nebo, Francesco Brunelli, si riunisce a Roma fondando una “Comunità di Liberi Iniziatori”. La “Comunità” si trasforma il 31 ottobre 1971 in Ordine Martinista Italico e viene eletto e consacrato Gran Maestro Aloysius; dopo soli sette mesi Aloysius passa alla Grande Montagna Eterna; è il 28 aprile 1972; è quello il momento in cui il fr. Giovanni che da 9 giorni ha compiuto 34 anni si chiede preoccupato: “E adesso come faccio a proseguire senza Iniziatore?...” Ciò a rimarcare l’importanza del filo aureo (apparentemente interrotto) che s’era andato formando tra l’allievo e l’istruttore; ma dopo questi primi momenti di smarrimento ad aiutarlo sarà l’eggregoro dell’Ordine che gli fornirà un altro personaggio che comparirà all’oriente del suo cammino spirituale e che aveva avuto modo di conoscere tramite il suo Iniziatore, Ram S.I.I., il quale, alla fine degli anni ’70, per via delle condizioni di salute, lascerà a lui gestire la sua Loggia che, per un mistero che si può ricollegare solo alle vie della Provvidenza, ha proprio il nome del suo primo Iniziatore, Aloysius. In quegli anni l’O.M. Italico si trasforma in O.M. Antico e Tradizionale con il fr. Nebo Gran Maestro. Capii dopo, molto dopo, che l’Accademia dei Nuovi Filaleti, che aveva sede in via Martello a Roma, era il luogo delle riunioni della loggia Aloysius che si riu- 47 niva tutti i giovedì e che il martedì si tenevano delle informali fatte da alcuni personaggi tra cui un certo Fabrizio Mariani che sembrava avesse doti particolari in quanto a oratoria e conoscenze esoteriche; e fu così, quella sera, una sera di un martedì di febbraio del 1979, che conobbi quello che sarebbe diventato il mio Iniziatore. E proprio quella sera la “chiacchierata” (così soleva chiamare le sue lezioni Fabrizio) verteva sulla VI Lama dei Taro, detta l’Innamorato; neanche a farlo apposta. Questi incontri suscitarono in me un interesse totale che stimolarono in me una ispirazione continua che mi fece comporre (feb. apr.’79) una silloge di poesie che pubblicai l’anno successivo con il titolo di Pareo 1 (con l’1 scritto al contrario). Eccone una, breve, -più biografica che poetica, a parte l’epigrafe: (L’unico decibel straripa dalla fronte) Fu così che intuii che lui fosse quello che fosse mio figlio lui, un uomo di quarantun anni. In quel periodo Fabrizio Mariani col nome di Giovanni era la Luce occidentale (S.I.) della Gran Loggia Nazionale dell’Ordine di cui Gran Maestro era Nebo (Francesco Brunelli), Gran Maestro Aggiunto Ram (Vincenzo Mura) Gran Cerimoniere Eros (Renzo Baccioni) Gran Segretario e Tesoriere Ioram (Mario Bottazzi). Quando vengo immesso nella sezione esoterica tramite il rito di iniziazione al 2° grado, e questo avviene il 12 settembre del 1981 a Città della Pieve durante il Congresso Nazionale dell’Ordine, il mio Iniziatore, Giovanni, mi chiede un compito molto importante: di copiare in maniera ordinata i Libri Alfa che Nebo aveva trasmesso in passato e a più riprese al mio Iniziatore su fogli volanti di cui alcuni malfotocopiati; con questa assoluta clausola: di non fare nulla di operativo di quello che proponevano quei libri: solo leggere correggere e trascrivere chiaramente. É nelle intenzioni di Fabrizio Mariani di dare al Collegio dei S:I:I: e ai S.I. questo materiale altamente operativo che attiene alla Mistica dell’Ordine e che aveva ricevuto in forma privata da Francesco Brunelli Gran Maestro. Consacrato domenica 2 dicembre 1984 Gran Maestro dell’O.M.A.T., elargì a tutto il corpus sacerdotale i 12 Libri Alfa. A seguire farà comprendere che l’unzione sacerdotale non è solo prerogativa dei IV°; e dopo lunghe e accese discussioni del Collegio dei S.I.I. si riesce a spostare l’unzione sacerdotale sin dal grado di S.I. . Avevo in quegli anni la fortuna di seguire da vicino il mio Iniziatore, il quale spesso mi diceva: “Se fossero tutti come te, io non saprei più dove trovare il tempo per fare le altre cose!...” Ma tutte le mie richieste d’incontro che venivano da lui rarefatte nel tempo mi davano comunque alla fine la possibilità di poterlo incontrare; spesso mi riceveva nel suo Tempio personale da dove si accedeva passando tra una colonna bianca e una nera; lì ricevevo le istruzioni, specialmente per il mio iter martinista ; lì le parole erano per lo più poche e i silenzi tanti e le indicazioni date velatamente e date, come diceva lui con il contagocce. 48 Fabrizio sapeva del grande carisma iniziatico che possedeva e peraltro sapeva che questo avrebbe potuto, a secondo delle nostre ottiche, influire o infastidire molti di noi; per questo voleva ad esempio per le decisioni importanti da prendere che il Collegio, la collegialità, avesse una supremazia su tutto e tutti, intercluso quel Primus inter pares che lui rappresentava; supremazia intesa come unanimità , ovvero “unità/insieme di anime”. “Noi apparteniamo a questo consesso” diceva “che detiene la custodia della sacralità dell’Ordine, e proprio in nome di questa sacralità, non è concesso che si approvi alcunché se, anche un solo anello di questa Sovrana Catena, è di parere contrario. La sacralità non attiene a questo mondo…” Una delle qualità riconosciute che possedeva era l’ascolto, sapeva ascoltare ognuno di noi e discernere: questo gli permetteva di poter operare dei “cambiamenti” come quella volta, nel suo ultimo Congresso Nazionale dei III° a Santa Severa del 2002, proprio allocati vicinissimi alla riva del mare, quel mare etrusco nei pressi del quale lui possedeva una casa e dove l’estate continuava, sebbene avvolto nel suo latinitante otium, a ricevere gli Amici Intimi. Dal 1989 lo sostenevo come Gran Cerimoniere, e il 2002, anno palindromo per eccellenza, era l’ultimo anno della sua Gran Maestranza e della sua collocazione in quanto a Giovanni Aniel nel corpo fisico di Fabrizio Mariani. Avevo lavorato da sei mesi prima alla stesura di una rituaria che con il suo accordo dovevo presentare ai fratelli S.I.. Il Gran maestro durante il Congresso fece una premessa a questo lavoro predisponendo poi i fratelli all’operatività che per scopo aveva “la purificazione dell’aura terrestre”; così chiarii in tutte le sue parti il rito; ma poco prima d’iniziare l’esposizione pratica un S.I. espresse delle forti perplessità in merito all’esecuzione. Giovanni Aniel malgrado spiegasse allo stesso che il lavoro in fondo era stato fatto dal Gran Cerimoniere dell’Ordine e che era stato supervisionato da lui stesso, decideva comunque di non farlo eseguire. Il Gran Maestro, almeno con i suoi occhi di carne, non vedrà mai più l’esecuzione di questo rito perché era prossimo a salire sulla Grande Montagna Eterna, il 20 ottobre dello stesso anno, una domenica. Di lì a poco anche il suddetto S.I., per altri motivi, scomparirà dalla scena dell’Ordine. Fu quello l’anno in cui mi propose la presidenza del Collegio dell’Italia Centrale che accettai, però con l’opzione straordinaria, perché non prevista, di una consacrazione particolare per questo incarico; così nella stessa riunione dei III del Congresso Nazionale di S. Severa mi invitò nei pressi dell’Ara al cospetto delle Luci e dei N.V.M.P., mi fece inginocchiare e poste le mani sulla mia testa disse le parole di rito; era la domenica del 15 aprile 2002, 4 giorni prima del suo compleanno. Fu quella la sua ultima azione rituale di consacrazione, che era iniziata su di lui il 17.1.1971, una domenica. n 49 50 L’ESSENZA DELLA RICERCA ERMETICA ATTRAVERSO LA RELAZIONE UOMO - ANIMA - DIVINITÁ Heru Pha Khered “L’ermetismo è un culto senza templi e liturgia, praticato nella solitudine della mente, una filosofia religiosa o una religione filosofica contenete una gnosi”. Frances Yates (1899 - 1981)1 Tra i molti motivi di interesse che i testi ermetici offrono, uno in particolare testimonia un atteggiamento di devozione nei confronti del mondo, cioè l’Amore per la Vita in tutte le sue differenti manifestazioni. Novit qui colit: Consegue la Conoscenza colui che pratica la pietà. Questa formula ermetica ricorda che i saggi filosofici e i manuali sono anche scritti di pietà rispetto alla misteriosa rete di legami che unisce l’uomo all’Universo, immagine visibile del Dio invisibile; dunque sono la testimonianza di una ricerca continua del divino insito nell’Essere Umano. L’Ermetismo è il termine moderno che indica un insieme di scritti, composti in periodo ellenistico e attribuiti a Ermete Trismegisto, il Tre Volte Grandissimo, una divinità del sincretismo greco-egiziano risultante dalla fusione di Ermete, dio greco della scrittura e dall’interpretazione con Toth, dio egizio della scrittura. Questa letteratura comprende due tipi di scritti: alcuni più tecnici relativi all’astrologia, alla magia e all’alchimia; altri più filosofici, in forma dialogica, in cui si rivela il Sapere della divinità ad un ristretto gruppo di discepoli. Tra i testi astrologici il più importante a noi pervenuto è il “Liber Hermetis Trismegisti”, traduzione latina di un testo greco che, si suppone, risalga all’Egitto tolemaico del III° secolo A.C. All’astrologia sono collegati i trattati i Trattati Ermetici di medicina astrologica che mirano a stabilire il rapporto tra origine della malattia e corrispondente flusso astrale. Per quanto riguarda la magia i testi di rilevante importanza accreditati ad Ermete, 1 2 51 sono nel “Corpus dei papiri magici greci” databili tra il II° e il IV° secolo D.C. Quanto all’alchimia, sviluppatasi a partire dal II° secolo A.C., il collegamento tra il primo e il secondo tipo di letteratura ermetica, è evidente nei testi dell’alchimista Zosimo2. Il secondo gruppo di scritti comprende i seguenti testi: il Corpus Hermeticum, raccolta di diciotto trattati, tra i quali il più noto è il Poimandres; una serie di frammenti redatti in varie lingue tra cui la Kore Kosmou e l’Asclepio, traduzione latina di un originale greco noto come Discorso Perfetto, e testi appartenenti alla biblioteca di Nag Hammadi alcuni dei quali pervenuti in armeno e risalenti al I° secolo D.C. L’oggetto di questa rivelazione si manifesta negli scritti tecnici come negli scritti filosofici e si impernia sulla concezione di un Cosmo percorso e sorretto dall’energia divina, all’interno del quale l’uomo è inserito armonicamente. Entrambi i tipi di letteratura propongono una riflessione sul fondamento mitico di questa rivelazione: “Ogni cosa può essere vista da chi possiede l’intelletto; chi si riflette in quanto intelletto si ri-conosce e chi si ri-conosce conosce il Tutto. Il Tutto è nell’Uomo”3. Da qui la consapevolezza che questo Tutto non è esterno, ma interno all’uomo: la ricerca dell’unità, l’origine del Tutto, rivestono particolare importanza nella gnosi ermetica. Grazie al suo “Occhio del Cuore”4, dono concesso da Dio a tutti e che dipende dalla fede nella divinità, l’ermetista è in grado di “Vedere Dio” ovunque perché Egli è immanente in tutto. L’aspirazione di risalire alla sorgente dell’Essere è dunque motore e desiderio umano e trova la sua realizzazione nel mito del Poimandres ed in quello della Kore Kosmou. Nella parte centrale di quest’ultimo trattato Ermete traduce al figlio Tat il dramma vissuto dalle anime: “Vedi o figlio, attraverso quanti corpi noi dobbiamo passare, attraverso quante schiere di demoni, attraverso quale successione continua e quali orbite di astri, per affrettarci verso l’Uno e Solo!”5. Sorge così l’interrogativo sul perché e come l’anima, fatta della stessa sostanza divina, sia precipitata nel corpo. L’immagine del corpo, come prigione per l’anima, ha una lunga tradizione, confluita in Platone ed ereditata dal Pensiero ermetico; è il motivo ricorrente che sottolinea il rapporto tra corpo e male: il corpo, infatti, è il nemico che opera contro l’anima: “…la prigione tenebrosa, la morte vivente, il cadavere sensibile, la tomba che ti porti dietro, il ladro che sta nella tua casa, colui che ti odia attraverso le cose che ama e ti invidia attraverso le cose che odia”6. L’originalità del trattato, più che nella risposta a questa domanda, consiste nel ricercare una Conoscenza che riconduca alla possibilità di “Vedere” integralmente la Fonte 3 5 4 6 52 Divina del Tutto da cui l’anima proviene. Il tema di una visione totalizzante, come possibilità concessa già in questa esistenza, è presente in quasi tutti gli scritti ermetici che fanno intravedere, come culmine della loro particolare Iniziazione, l’estensione della coscienza fino ai limiti del Cosmo, abbracciando il Tutto dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, dagli elementi inanimati a quelli animati, confondendosi in un certo senso, con la coscienza divina: “Vedi quanta potenza, quale velocità possiedi! E se tu puoi tutto questo, non lo può forse Dio? Così tu devi pensare Dio: tutto ciò che esiste Egli lo contiene in Se stesso come oggetto di Pensiero: il mondo, Se stesso, il Tutto. Se dunque tu non ti rendi uguale a Dio, non puoi com-prenderlo; poiché il simile è intelligibile solo al simile. Ingrandisci te stesso fino a raggiungere la grandezza senza misura liberandoti da ogni corpo; elevati al di sopra di ogni tempo, divieni l’eternità. Allora comprenderai Dio. Una volta convinto che per te non vi è niente di impossibile, stima te stesso immortale e capace di com-prendere tutto: ogni arte, ogni scienza, l’intima natura di ogni essere vivente. Sali più in alto di ogni altezza, scendi più in basso di ogni profondità. Riunisci in te stesso le sensazioni di tutti gli elementi creati; del fuoco, dell’acqua, dell’aridità e dell’umidità, immaginando di essere ugualmente in ogni luogo: nella terra, nel mare, nel cielo; immaginando di non essere ancora nato, di essere nel ventre della Madre, di essere giovane, di essere vecchio, di essere morto, di essere quello che sarai dopo la morte. Se tu com-prendi tutte queste cose insieme: tempi, luoghi, sostanze, qualità, quantità; tu puoi com-prendere Dio”7. Tra tutti gli scritti ermetici il Poimandres influenza, nei primi tempi del cristianesimo, discorsi e argomentazioni dei padri della chiesa che lo citarono riportandone brani e testimonianze. Il libro fu portato da un monaco dalla Macedonia a Cosimo dei Medici che ne volle una traduzione in latino e diede l’incarico a Marsilio Ficino; il testo venne tradotto con il nome di De Potestate et Sapientia Dei. Secondo alcuni studiosi la traduzione di Marsilio Ficino fu imperfetta interpretazione, in senso cristiano, del testo greco arrivato a Firenze. In seguito alcuni filosofi e religiosi trovarono risposte, tra le idee espresse in questa interpretazione del libro ermetico, ad alcuni dogmi relativi alla nascita dell’uomo ed al mistero della Vita; stabilirono che Ermete Trimegisto, autore del testo, fosse un antico precursore del Cristianesimo. Sulle origini del Poimandres sono state avanzate varie ipotesi: tra queste che sia 7 53 stato scritto nella scuola dei Terapeuti d’Egitto, spesso confusi con gli Esseni, e che, per spirito di rivalità con questi ultimi, diffusero il testo attribuendolo ad Ermete Trimegisto celebre in tutto l’Egitto. Chiunque fosse l’autore, comunque doveva essere un Iniziato di qualche scuola esoterica egizia conservatrice del significato primitivo dei Simboli e dell’originario senso della re-ligio: una profonda descrizione della natura dell’essere umano. La Kore Kosmou si presenta come un discorso di Iside al figlio Horus; tra le varie creature dell’opera è da notare Psychosis, l’unica che Dio crea direttamente: sferica e trasparente come un occhio, che risponde allo sguardo di Dio con un sorriso. Nell’ermetismo “vedere” è “conoscere” e la storia dell’anima contenuta nella Kore Kosmou è da considerarsi come il mezzo per comprendere e tornare a Dio. Nella descrizione, che Iside fa della creazione, il primo intervento divino fu inviare Ermete sulla terra: il suo destino era scrivere i testi sacri della rivelazione, nasconderli, tornare in cielo, ma prima di tutto ciò, rivelare la verità al figlio perché la tramandasse, oralmente, ai predestinati. La seconda emanazione divina è la coppia Iside e Osiride, il cui destino è insegnare agli uomini la civiltà, ritrovare e rivelare i segreti nascosti da Ermete. La presenza di Iside e il suo ruolo si giustificano se ricordiamo che la letteratura ermetica è, quasi senza ombra di dubbio, di matrice Egizia. Iside offre al figlio, probabile immagine dell’Iniziato ermetico, ambrosia e Parole Sacre. Ambrosia e Parola Sacra hanno la medesima funzione: conferiscono l’immortalità. La stessa corrispondenza è esplicita nel Poimandres. In questo testo Ermete dice: “Seminai in loro parole della sapienza ed essi crebbero grazie all’acqua dell’Ambrosia”. Il discorso di Iside è la rivelazione di una dottrina segreta e questo supporta la natura iniziatica del dialogo ermetico, nel quale l’interlocutore non contribuisce più alla costruzione del discorso per ricercare una verità razionale, bensì diventa ascoltatore al quale è richiesta attenzione, umiltà e silenzio. Possiamo dedurre, quindi, che l’ermetismo non è un sistema filosofico; non è nemmeno una religione: è piuttosto un’attitudine religiosa che utilizza tradizioni, anche contrastanti, pur di soddisfare il bisogno di incontrare il divino; bisogno che può essere soddisfatto solo da una Parola Sacra, parola rivelata che deve restare segreta. Nei testi ermetici viene più volte ribadito come l’uomo, con i suoi limiti, non abbia possibilità di comprendere tutti i Misteri del Mondo, ma come sia proprio l’ignoranza a provocare il desiderio e spingere alla ricerca. Il problema della Conoscenza, contrapposto alla vana curiosità, attraversa tutti i testi; viene esaltata infatti la Gnosis, Conoscenza positiva che consiste nell’Illuminazione 54 divina che rivela la Verità, in genere tramite una visione che viene concessa alla facoltà intuitiva dell’uomo. Viene degradata la ricerca intellettuale che assume i connotati di una pericolosa curiosità. Questo atteggiamento verso la Conoscenza era molto diffuso quando il posto dei filosofi venne preso da un gran numero di profeti, i quali proclamavano che l’uomo aveva in sé una parte divina che gli poteva assicurare una “Nuova Nascita” e una “Nuova Vita”. La Gnosi era non la conoscenza intellettiva data dalla filosofia, ma la visione intuitiva fondata sulla Grazia del Dio che si rivela. Un tema ermetico che denota la mutata sensibilità del mondo tardo-antico è quello del nome di Dio: Dio non ha nome o piuttosto li ha tutti poiché è, contemporaneamente, Uno e Tutto. Si oscilla tra i molti nomi e l’anonimia di Dio per arrivare al nome nascosto, ricordato nel brano che conclude il Poimandres: “Tu ineffabile, indicibile, Tu il cui nome è pronunciato solo dal Silenzio”. Nella Kore Kosmou i nomi di Dio si possono dividere in due gruppi: il primo allude alla funzione creatrice di Dio, il secondo ne sottolinea la Potenza; troviamo nel primo gruppo: Artefice, Creatore, Padre; e nel secondo: Re, Padrone, Principe, Signore. Tema dominante, in particolar modo nella Kore Kosmou, è quello dell’ignoranza dell’essere umano (agnosia) che va collegato a quello della ricerca e del ritrovamento; l’agnosia prelude all’intervento divino ed è ricorrente in due punti del testo; l’ignoranza e l’angoscia commuovono Dio, una prima volta, quando decide di rivelarsi a Ermete, sua prima emanazione; l’ignoranza dell’uomo provoca il lamento dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra) e la compassione di Dio, una seconda volta, quando decide di inviare sulla terra la sua seconda emanazione: la coppia sacra Iside e Osiride. Il tema dell’angoscia va collegato quindi a quello della salvezza: “Dio non ignora l’uomo, lo conosce perfettamente e vuole essere conosciuto da lui. Questa è l’unica salvezza per l’uomo: la Conoscenza di Dio”8. Placare l’angoscia che nasce dal problema del destino diventa urgenza primaria dell’individuo, essa viene soddisfatta da un rapporto con Dio costruito sulla forza del desiderio; Dio vuole farsi conoscere, lo stesso movimento d’Amore, che dà origine alla creazione, provoca la ricerca di un rapporto personale di conoscenza. Dio ispira il desiderio d’Amore e, contemporaneamente, offre lo strumento per ricercare la “Luce”. I testi ermetici costruiscono una vera teologia della Luce dove la stessa diventa, di volta in volta, lo Strumento di Dio, il Dono gratuito e immeritato, la Sostanza della visione divina. 55 56 Nel primo trattato ermetico la visione che svela la verità riassume i vari significati che la Luce assume nel racconto; la rivelazione a Ermete si attiva attraverso la Luce, ma la Luce si trasforma, poi, nell’aspetto stesso della Conoscenza. L’identificazione della Luce con il divino è un tratto caratteristico dell’ermetismo: “Concentra il tuo spirito sulla Luce e sforzati di conoscerla”9; “Vita e Luce consentono all’uomo di ritornare a Dio, anzi di diventare Dio”10. In molti testi ermetici si trova la triplice formula: “Volessero cercare, desiderassero trovare, potessero riuscire” e, soprattutto nel Poimandres, Ermete struttura la ricerca di Dio in tre fasi: fase di partenza è il voler cercare, fase intermedia è il desiderio di trovare e fase di arrivo è la beatitudine concepita come visione di Dio o visione della Verità. Mentre nel Poimandres Ermete, dopo aver avuto la rivelazione tramite una visione, diventa la voce che annuncia l’immortalità degli esseri umani; nella Kore Kosmou Ermete è colui che scrive i libri sacri della rivelazione; dunque come colui che ha visto tutto, sa tutto e scrive egli può dire: “Padre, Vedo Tutto e mi Vedo nell’Intelletto”11. Le modalità della rivelazione passano attraverso una scrittura nascosta; i libri sacri vengono celati in attesa di essere ritrovati; qui compare un altro schema ternario: “Conobbe, scrisse, nascose”; questo schema potrebbe alludere alla tematica agnosi – ricerca: la rivelazione è nascosta in modo che ogni generazione compia la sua ricerca. I libri, creature di Ermete, creature divine, dotati di vita propria, destinati a nutrire le anime, sono stati scritti per salvare le anime medesime dall’ignoranza. Ogni impulso creativo, ricorrente nei testi ermetici, è collegato al tema della sterilità e inattività del mondo; la natura sterile diventa, dopo l’intervento di Dio, Physis, generatrice degli esseri12; Physis è concepita come la parte femminile del mondo e a lei è affidato il compito di generare gli esseri che lo dovranno popolare; gli esseri, non le anime, create in seguito da Dio stesso: “Egli volendo che il mondo superiore non restasse più inattivo pose mano, senza indugio, alla sua Opera di artigiano usando elementi sacri per produrre la creazione. Dopo aver tratto da Se stesso pneuma e averlo mescolato, con sapienza, al fuoco, lo amalgamò con alcune sostanze sconosciute; fuse in un tutto unico questi elementi e li chiamò Psychosis, da questi fece 57 nascere le anime”13. La presenza di intermediari che sollecitano e aiutano Dio nella sua Opera è evidente, soprattutto, nella Kore Kosmou: “Il periodo dell’inattività era durato abbastanza, la natura restava sterile, finché quelli che avevano avuto l’ordine di fare il giro del cielo…”14. È probabile che quelli che avevano avuto l’ordine fossero i Decani; in epoca ellenistica i Decani erano trentasei divinità siderali che dominavano, ognuna, dieci gradi del cerchio zodiacale. Anteriori all’epoca ellenistica, in origine non erano trentasei; erano nati dall’idea egizia che ogni divisione del tempo dovesse appartenere a qualche divinità. La natura dei Decani era complessa: avevano un aspetto siderale poiché designavano, originariamente, una stella o una costellazione; avevano un aspetto geometrico come suddivisione di ogni zona del cielo riservata a un segno zodiacale. L’importanza dei Decani nei testi ermetici è evidente nel libro di Stobeo che è dedicato all’esposizione di questa teoria: “La forza che anima tutti i fatti di portata universale viene dai Decani…”15. L’elemento che dovrebbe attrarre la nostra attenzione è la sequenza tra corpo e anima accennata precedentemente: il corpo è modellato da esseri divini (Psysis), ma inferiori; l’anima è creata direttamente da Dio. Questa volta Dio crea con le sue mani, è un artigiano all’Opera; i suoi gesti fanno pensare a un alchimista che sa combinare sostanze e usare formule segrete. Composta di pneuma, di fuoco e di sostanze misteriose, l’anima emerge dinnanzi al suo creatore; l’anima è sottile e trasparente, solo Dio può vederla. Come Dio è colui che non è materia, che non ha colore, né forma, così l’anima, figlia di Dio, è senza colore né forma; la rappresentazione dell’anima è tutta giocata sull’incorporeità: “L’anima è una sostanza incorporea, perché se avesse un corpo non potrebbe più salvare se stessa” . Alle anime è assegnato il compito di collaborare alla creazione ed è da notare come, nei testi ermetici, i segni dello zodiaco abbiano la stessa composizione delle anime (pneuma divino, fuoco e sostanze sconosciute ad uno stato più solido) e come la loro creazione abbia lo scopo di fare da modello alle anime per la creazione degli animali . Gli animali, in tutte le loro specie, sono destinati a popolare aria, terra e acqua. 58 Nella Kore Kosmou hanno un ruolo di una certa dignità essendo opera delle anime e il materiale usato per formarli è lo stesso che Dio ha usato per comporre lo zodiaco. In Stobeo si chiarisce che: “L’anima degli animali privi di ragione consiste nell’irascibile e nel concupiscibile che ad essa appartengono. Per questo la specie dei viventi è detta priva di ragione, essendo privi della parte ragionevole dell’anima” . Nello stesso testo troviamo la classificazione degli animali in uccelli, quadrupedi, rettili e pesci; classificazione che nasce da un metodo di combinazione dei quattro elementi: “Tutti gli esseri viventi che hanno avuto una quantità maggiore di fuoco e aria sono diventati uccelli e stanno in alto, presso gli elementi da cui provengono. Quelli che hanno avuto molta acqua, molta terra, poca aria e poco fuoco sono diventati quadrupedi e, a causa del calore che è in loro, sono diventati più aggressivi di altri animali. Quelli che hanno avuto terra e acqua in parti uguali sono diventati rettili. Quelli che hanno avuto molto umido e poco secco sono diventati pesci” . I segni zodiacali, ordinati in antropomorfi e zoomorfi, potenziati dal pneuma, sono destinati a influenzare tutto ciò che esiste: “Quanto al corpo l’uomo dipenderà dallo zodiaco in virtù della materia che hanno in comune; quanto all’anima, al contrario, poiché quest’anima deriva da una sostanza più pura l’uomo sarà, essenzialmente, indipendente dallo zodiaco, sarà libero e il suo destino sarà il risultato del genere della vita che avrà sulla terra. Lo zodiaco avrà invece completo dominio sugli animali. Esso resta comunque il tramite tra il mondo superiore e il mondo inferiore” . I testi ermetici fanno riferimento a una “disobbedienza” dell’anima e dunque ad una “caduta nel corpo”; Dio si è allontanato, le anime vogliono sapere più del dovuto e non riescono nel loro ambizioso intento. Terrorizzate poi dall’idea dell’ira divina, per la loro audacia piena di vane curiosità che le ha spinte fuori dai limiti loro assegnati, si apprestano a subire il “castigo”. Lo spazio loro assegnato, artefice della loro caduta, è chiarito dal racconto di Iside a Horus sulla disposizione dei cieli: “Ciò che si estende dalla luna fino a noi, figlio mio, è l’abitacolo delle anime…in queste regioni, che sono sessanta, abitano le anime, ognuna secondo la na- 59 60 tura che le è propria; esse hanno tutte un’unica e sola costituzione, ma non la stessa dignità. La differenza delle anime serve a giustificare le differenze esistenti tra gli uomini” . L’interpretazione della caduta dell’anima è abbastanza complessa: le principali teorie si basano sull’interpretazione della caduta come “errore originario”, ma la gamma di soluzioni è ampia; le anime scendono per completare l’universo, per dare una rappresentazione della vita degli dei in terra, per conservare le cose terrestri, per punizione in seguito a un giudizio. La discesa può essere classificata come volontaria o involontaria; avviene volontariamente per motivi spontanei o per ubbidienza agli dei; involontariamente quando l’anima è trascinata forzatamente verso il basso. Nell’interpretazione di Plotino si trovano due opinioni divergenti: la discesa dell’anima è un male perché comporta una caduta nella materia, oppure: la discesa è un bene perché contribuisce al compimento del mondo sensibile riempiendolo di tante specie viventi quante ce ne sono nel mondo intelligibile. La letteratura ermetica è percorsa da ambedue le opinioni; la soluzione pessimista prevale nella Kore Kosmou, mentre, in altri testi, prevale la soluzione ottimista. Si insiste molto sul fatto della trasgressione degli spazi assegnati alle anime; l’importanza è data dal movimento: lo stare ferme per esse equivale a morire. Il corpo come prigione per l’anima è un motivo ricorrente che sottolinea il rapporto tra il corpo e il male; i testi insistono molto sulla debolezza del corpo umano: “I nostri corpi, come la materia di cui sono fatti, sono composti di elementi corporei dissolubili e mortali. Essi hanno bisogno di continua assistenza per la loro debolezza…” . L’umidità presente nel corpo era stata, al momento della creazione, l’elemento voluto dagli dei per indebolire l’uomo; ora gli umori presenti nel corpo indicano chiaramente la sua disposizione alla dissoluzione suscitando orrore nelle anime, elementi secchi e incorruttibili. Dio ordina l’incorporazione delle anime e il loro lamento, a questo giudizio, è impostato sul fatto che il corpo, definito carcere e supplizio, diventa una lente che distorce 61 l’immagine di Dio e l’anima, “pupilla creata per guardare il suo Creatore”, è destinata a non poter “vedere” e, soprattutto è destinata a sbagliare perché il corpo è origine del male . All’interno di questa visione ermetica si sviluppa la tematica dell’addestramento dell’anima che deve esercitarsi di continuo per sfuggire alle deleterie influenze del corpo. Il tema della “visione” è molto importante nell’ermetismo; lo sguardo da grande spazio al tema della luce che è identificata con la divinità ; la rivelazione coincide con l’illuminazione o la visione della luce: “E tutto si svelò all’istante. Ebbi una visione…tutto si era trasformato in una luce serena…” . Nella Kore Kosmou al tema dell’agnosia, come oscurità che sommerge tutte le cose, corrisponde quello di Dio che decide di rivelarsi donando la luce che, in abbondanza, aveva in petto. Nella cultura ermetica “vedere” e “sapere” sono tutt’uno; la conoscenza è interpretata ed espressa secondo il mondo della visione; questo modo di collegare vista e conoscenza esprime appieno il lamento dell’anima a proposito di vedere il suo Creatore. L’anima, originariamente piena di occhi, può vedere in tutte le direzioni ed è, come suggerisce il titolo stesso Kore Kosmou, la “Pupilla del Mondo”; occhio che Dio crea per essere guardato; la visione è possibile solo nel caso in cui esista tra ciò che è visto e colui che vede un’identità assoluta; visione che sarà ridotta dall’incorporazione e resa quasi nulla. Oltre al dramma dell’incorporazione l’anima pena per la forte nostalgia della separazione che innesca il desiderio del ritorno; lo stesso tema, anche se in modo apparentemente diverso, è stato sviluppato nel libro di John Milton, il Paradiso perduto. 62 Il ritorno dell’anima al luogo d’origine è possibile solo a determinate condizioni: le buone opere manifestano il suo distacco dal corpo, mentre le azioni malvage evidenziano la sua sottomissione alla materia. La morale ermetica sui reali rapporti che intercorrono tra anima e corpo è che “vi sono due tipi di vita e due tipi di scelte”; l’una è una scelta secondo sostanza, l’altra secondo natura corporea . Il cielo riattende l’anima che ha scelto seguendo la sua natura divina; questa risalita è descritta nel Poimandres. Il cammino al quale sono destinate le anime è un lunghissimo percorso attraverso i corpi, un ingegnoso sistema che permette alle anime di poter ritornare al cielo. Per mettere l’uomo in difficoltà bastano pochi elementi tutti collegati alla sua natura mortale: la paura, il dolore, la speranza, il desiderio e l’amore; la ricerca di vani piaceri e di vane speranze sono i tratti che allungano il cammino di purificazione dell’anima. Così viene chiarito il motivo per cui le anime possono trovarsi a condurre un lungo cammino di purificazione: “Le anime corrono grandi pericoli nella vita terrena perché il piacere le afferra costringendole a restare attaccate a quella parte dell’uomo che è mortale” . Poco chiara risulta la gerarchia dei corpi, soprattutto la posizione che occupano i corpi animali; nella narrazione si legge che Dio aveva diviso le anime in due gruppi: quelle che sarebbero ritornate al cielo e quelle che avrebbero vagato per sempre in corpi di animali, ma questo entra in opposizione con un ulteriore brano secondo il quale le anime possono incarnarsi sia in uomini che in animali; così la sequenza viene descritta: “Le anime affrontano moltissime metamorfosi: alcune verso un destino migliore, altre verso un destino contrario. Infatti le anime degli animali che strisciano passano in animali acquatici, quelle di animali acquatici in animali terrestri, quelle degli animali terrestri negli animali che volano, mentre le anime che stanno nell’aria passano agli uomini; infine le anime degli uomini cominciano a divenire immortali trasformandosi in demoni e in questo modo arrivano a far parte del corpo dei cieli” . 63 Tutti i testi ermetici sono basati, comunque, sulla Conoscenza: “Ti prego fa che io non sia privato di quel tanto di conoscenza concessa entro i limiti del nostro essere” . Il limite di tale conoscenza è continuamente ripreso ed è alla base dell’ermetismo: “Per quanto è consentito all’intelletto umano, agli uomini è permesso di vedere le cose del cielo come attraverso un velo di nebbia. Infatti, quando si tratta di vedere cose grandi, la potenza del nostro vedere è limitatissima, ma una volta che si è potuto vedere la felicità del conoscere è immensa” . La chiave unica per comprendere gli argomenti trattati nei testi ermetici è racchiusa nella famosa Tavola di Smeraldo. Essa si trova riprodotta in molte raccolte di trattati ermetici ed alchemici; nell’arco del tempo se ne sono fatte traduzioni in latino, in arabo, in persiano, in greco antico e moderno e, ovviamente, anche in alcuni testi italiani. Nell’ambito delle pubblicazioni di Basilio Valentino , scopritore dell’antimonio, elemento chimico di numero atomico 51 che, essendo un semimetallo può avere forma stabile dal colore bianco azzurrognolo e una forma instabile con tono giallo o nero, la Ta- 64 vola di Smeraldo è, a volte, affiancata all’acronimo V.I.T.R.I.O.L inciso su pietra. Il sigillo ha un rapporto con la Tavola di Smeraldo in quanto anche questa è una “Pietra Preziosa”, una Pietra della Scienza Ermetica, una Pietra Verde (e, come sappiamo, il verde è un colore altamente iniziatico…), una Pietra Verde Risplendente, uno Smeraldo lavorato a Tavola; anche in questo dovremmo fermare, per un momento, la nostra attenzione sul fatto di chiamare Tavole i nostri Lavori… riprendendo il discorso… una Tavola di quel tipo di Tavole che, molto probabilmente, vennero consegnate a Mosè con sopra inciso il decalogo della Legge. Tutti gli studiosi di esoterismo citano la Tavola di Smeraldo come l’indispensabile documento per poter avere le basi delle cognizioni ermetiche e degli studi alchemici. Ermete Trismegisto afferma che l’Alchimia è la scienza immutabile che lavora sui corpi con l’aiuto della teoria e dell’esperienza e, che per mezzo di una congiunzione naturale, li trasforma in una specie superiore e preziosa. Ancora oggi, dopo più di 2000 anni, gli studiosi rammentano che l’Alchimia è l’Arte di Lavorare con la Natura sui corpi per perfezionarli; ed è proprio questo che descrive la Tavola di Smeraldo. Uno studio del secolo scorso evidenzia come in tutte le significazioni sia alchemiche, sia bibliche, sia cabalistiche, si rinvengano le tracce della famosa Decade Pitagorica (appli- 65 cata nel Sepher Yetzirah, il Libro della Formazione) nozione completa e assoluta del mondo superiore, decade composta dall’unità e da un triplice ternario (1+3+3+3=10) che i Maestri Ebraico-Esseni hanno chiamato Albero Luminoso delle Sephiroth. Questo studio mette in evidenza come le idee filosofiche assolute degli antichi fossero attaccate al primo denario, cioè ai primi dieci numeri rappresentati dalle dita delle mani e di come Pitagora avesse raggiunto un’intesa perfetta con Mosè, depositario di un grande Segreto, in quanto entrambi avrebbero attinto alla stessa fonte: la Tavola di Smeraldo. Pitagora era stato iniziato in Egitto alle discipline esoteriche, per questo insegnava che i numeri, in particolare il primo denario, erano l’ultima Pietra di Costruzione, la radice del Mondo; egli considerava i numeri e i rapporti matematici come Simboli di una realtà superiore in quanto i numeri, come le lingue, non sono cose pensate o create dall’uomo; essendo i numeri qualità primarie della realtà superiore manifestano, se ben intesi, le Leggi e i Misteri della Creazione rappresentando, nello stesso tempo, il processo di Creazione. 66 La Tavola di Smeraldo comprende dieci proposizioni rituali; composta da poche righe, scolpite sopra una pietra verde, contenenti molti segreti; essa, fonte di ogni studio ermetico, è la chiave soggettiva per chiunque si addentri in un percorso di Re-integrazione spirituale affinché vi possa trovare la Ri-Velazione e la Conoscenza che da essa può derivare. TESTO DELLA TAVOLA DI SMERALDO 1 È vero, è vero senza errore, è certo verissimo. 2 Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare il miracolo di una cosa sola. 3 Come tutte le cose sono sempre state e venute da Uno, così tutte le cose sono nate per adattamento a questa cosa Unica. 4 Il Sole ne è il padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portato nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice, il padre di tutto, il Telesma di tutto il Mondo è qui; la sua potenza è illimitata se viene convertita in terra. 5 Tu separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso, dolcemente con grande industria. Egli rimonta dalla Terra al Cielo, subito ridiscende in Terra e raccoglie la forza delle cose superiori ed inferiori. 6 Tu avrai con questo mezzo tutta la Gloria del Mondo, perciò ogni oscurità andrà lungi da te. È la forza forte di ogni forza, perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida. 7 È in questo modo che il Mondo fu creato. 8 Da questa Sorgente usciranno innumerevoli adattamenti il cui mezzo si trova qui indicato. 9 È per questo motivo che Io venni chiamato Ermete Trismegisto, perché possiedo le tre parti della filosofia del Mondo. 10 Ciò che ho detto dell’Operazione del Sole è Perfetto e Completo. n 67 68 ANGEOLOGIA DELLE SEPHIROT Hathor Go-Rex “Siamo come bambini che necessitano di maestri che li illuminino e li dirigono; Dio ha provveduto a questo nominando i suoi angeli insegnanti e guide” [San Tommaso D’Aquino] La parola Angelo ha origine dal greco ἄγγελος, ággelos (si pronuncia ánghelos) e significa messaggero, inviato: tale denominazione è data agli esseri spirituali al servizio di Dio, espressione delle Sue potenze, nonché collaboratori alla Creazione e da Lui posti a nostra guida e difesa. Vi è quindi, a guisa di ciò, una stretta correlazione tra mondo angelico e umano seppur limitata nell’esercizio di una costante influenza il più delle volte ignorata o, peggio, totalmente repressa, dalla personale volontà dell’individuo, il libero arbitrio. Nessun Angelo (o demone) può imporci d’agire in un modo preciso ma solamente creare in noi la giusta inclinazione d’animo affinché ciò avvenga, incidendo attraverso immagini mentali, comunicando pensieri, irradiando sentimenti. Gli Angeli, attraverso la voce della coscienza, hanno il compito di aiutarci, dirigerci nel percorso di evoluzione spirituale lungo la via della saggezza e verso la Verità. Gli insegnamenti della dottrina cabalistica, una delle più ricche fonti di angelologia, tradizione vuole, vennero dapprima trasmessi agli Angeli e da loro poi ad Adamo quando fu cacciato dal paradiso come strumento per farvi ritorno, delineano e studiano le fasi della Creazione, originata dalla volontà di manifestarsi dell’Ain-Soph, la Natura Divina, Increata, Infinita, Onnisciente, Onnipresente e Onnipotente che, tracimando da Se Stessa, si separa generando le dieci Sephirot quali contenitori ed espressione delle Sue potenze e con esse gli esseri che man mano, allontanandosene, si fanno via via più imperfetti. Il glifo dell’Albero della Vita e le Sante Sfere sono dunque una vera e propria mappa della discendente consapevolezza Divina nonché, in senso inverso, un percorso di risalita e reintegrazione con Dio. A ogni Sfera fa capo un Arcangelo, entità che ne esprime il potenziale aspetto in tal modo personificata affinché l’uomo possa intenderla più facilmente, comprensione che per essere tale abbisogna di un vero e proprio contatto psichico con l’energia che la governa. La frase iniziale della Genesi biblica “Beeshit Barà Elohim”, vede la parola Elohim come l’unione di un articolo singolare el con un sostantivo plurale ohim e tradotta quindi con “Egli-gli Dei”, riconosce il Supremo Ente quindi come un insieme di qualità rappresentate singolarmente nei 72 nomi di potenza a Lui attribuiti e corrispondenti ai 72 Angeli che circondano il Trono Divino, nomi composti di tre lettere ebraiche scelte con un metodo preciso e tratti da tre precisi versetti dell’Esodo 14, 19-21: 19) L’angelo di Dio, che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro. 20) Venne così a trovarsi tra l’accampamento degli Egiziani e quello di Israele. La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvi- 69 cinarsi agli altri durante tutta la notte. 21) Allora Mosè stese la mano sul mare e il Signore, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’Oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Ogni versetto è formato da 72 lettere, scrivendo i versi per esteso in ebraico uno sopra l’altro ma invertendo il senso del secondo che andrà quindi scritto da sinistra a destra e non viceversa come si è soliti fare in tale idioma, si potranno così leggere ed estrapolare le triadi dei nomi angelici nelle singole colonne verticali formatesi. Il nome di Dio nella sua interezza, il Tetragrammaton o “Tetragramma sacro”, l’impronunciabile è w così scritto in ebraico e letto quindi da destra a sinistra, essendo il più completo racchiude e contiene ognuna delle Sue 72 sfumature qualitative. Tale nome, che nell’Esodo 3:14 viene tradotto con “Io sono colui che è” e in italiano pronunciato solitamente Iavhé, si compone di quattro Sacre lettere nella cui composizione numerica, oltre al risaputo valore di 26 ottenuto attraverso la loro somma ghematrica y IOD = 10, HE= 5, w VAV = 6, HE = 5, troviamo occultato anche il valore di 72 ottenuto attraverso una particolare sequenza: prima lettera 10 = 10 prima lettera e seconda lettera 10 + 5 = 15 prima, seconda e terza lettera 10 + 5 + 6 = 21 prima, seconda, terza e quarta lettera 10 + 5 + 6 + 5 = 26 totale 72 oppure: y y y y = 40 =15 w w = 12 =5 Totale 72. 70 Oltre alle entità angeliche rappresentanti le qualità divine il 72 ricordiamo è anche il numero dei battiti al minuto del cuore umano, dei gradini della scala vista in sogno da Giacobbe, dei cospiratori che tramarono contro Osiride, delle lingue nate dalle altrettante famiglie presenti nella torre di Babele, il numero di discepoli scelti dal Cristo oltre i 12 apostoli per predicare al mondo la sua parola: “1) Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sè in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2) Diceva loro: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. 3) Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi” [Luca 10, 1-3] Tale numero ricorre anche nelle tradizioni templari, ad esempio 72 erano le regole che dovevano seguire, le cappelle del sacro Graal, il numero dominante nella cattedrale di Chartres, in Francia. Il 72 inoltre si paventa non solo nella tradizione biblica ma anche in molti testi sacri di varie dottrine, stando spesso a indicare un percorso di evoluzione spirituale e, come vedremo, le qualità legate agli Angeli, possono essere un vero e proprio veicolo di tali Esseri per guidarci nel cammino verso la reintegrazione. Tornando alla dottrina cabalistica sappiamo che ha definito quindi gli Angeli intorno al trono di Dio come 72 esattamente quanti i nomi a Lui attribuiti ma il numero di tali Esseri è estremamente più ampio, basti pensare che il Creatore ne ha inviato uno a custodia e guida di ogni anima umana lungo il percorso di tutte le incarnazioni terrene. I 72 principali Spiriti angelici sono suddivisi in una gerarchia di nove cori, una per ogni Sephirot, che possiamo immaginare come circonferenze concentriche di un mandala 71 circolare al cui centro vanno posti i Serafini, gli esseri maggiormente vicini al Creatore e che lo amano nel modo più perfetto, via via, nei cori che da lui si distanziano, troviamo i Cherubini dotati di una saggezza che comprende l’intero ordine del creato, i Troni la cui conoscenza abbraccia tutti i decreti governanti l’universo, le Dominazioni coordinatori e distributori dei compiti agli angeli, le Virtù che danno il movimento all’intero cosmo, le Potestà che risolvono ciò che ostacola l’Ordine Supremo, i Principati che custodiscono i paesi, gli Arcangeli che sovraintendono i culti e la fede, e infine, all’estremità della rosa gli Angeli, schiera maggiormente prossima all’uomo e di lui custodi. Detto ciò passiamo a delineare dettagliatamente tale gerarchia. All’apice, in Kether, il più vicino alla diretta emanazione del Creatore, fa capo l’Arcangelo Metatron il cui nome significa “colui che sta presso il trono”. Detto anche il Re degli Angeli è uno dei volti di Dio nonché il Maestro che istruì Mosè “Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti nel cammino e farti entrare nel luogo che ho preparato. Abbi rispetto della sua presenza, ascolta la sua voce e non ribellarti a lui; egli non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio Nome è in lui!” (Es. 23, 20-21). Metatron è il supremo impulso divino, ha “72 ali” quanti i nomi dell’Altissimo, condensa e contiene quindi i settantadue angeli avendo in sé tutte le loro potenze; è il rivelatore dei mondi spirituali, l’unico in grado di donare la comprensione del fine universale e delle sue leggi, colui che infonde la consapevolezza piu alta, la sapienza profetica e capace di plasmare il mondo a propria immagine, quella di Dio. Metatron presiede l’ordine degli angeli Chaioth ha Qadesh o più comunemente detti Seraphin, le Sante Creature Viventi, che formano la gerarchia celeste più elevata essendo gli esseri maggiormente vicini alla condizione divina e continuamente e costantemente impegnati a cantare le lodi del Creatore. Nelle Sacre scritture vengono citati dal profeta Isaia che li vide in una moltitudine ai piedi del trono di Dio, li descrive aventi sei ali, due a coprirne il volto, due i piedi, le restanti due per volare. Serafin in ebraico deriva dal verbo bruciare, e per questo sovente rappresentati dall’iconografia cristiana come fiamme, “bruciano del fuoco della passione d’amore divina (…) Se noi decidiamo di bruciare d’amore solo per il Creatore, il Suo fuoco che tutto consuma rapidamente ci renderà simili ai fiammeggianti Serafini” scrive il filosofo Pico della Mirandola in una delle sue opere. Tali esseri, emananti la più intensa Luce Divina, hanno qualità purificatrici, le stigmate che ricevettero molti santi sono state date proprio dal fuoco Seraphico in grado di purificare da ogni peccato. Considerando le proprietà dell’elemento fuoco possiamo comprenderne appieno la natura Superiore, in primis ha un movimento ascendente, tendente quindi verso l’alto e verso Dio, in secondo esprime il calore all’apice della potenza e in costante fervore, in terzo emana luce, è quindi in grado di illuminare, qualità ridondanti negli angeli di questa schiera. A capo della seconda Sephirot Chokmah troviamo l’Arcangelo Raziel il cui nome 72 significa “Segreto di Dio”, tale Essere, denominato anche Padre cosmico, trasmette le Virtù e applica la Volontà Divina, da lui proviene l’impulso macrocosmico Superiore che porta tutto a convergere al compimento della Creazione e, parallelamente, nel microcosmo, sua è la scintilla che accende nell’uomo il desiderio di ricerca della Verità; Raziel è in grado di orientare il nostro cuore verso Dio, è l’Essere che può donare l’illuminazione, elevare l’uomo decaduto come ricompensa ai suoi sforzi. L’Arcangelo è anche l’antagonista, il distruttore di tutte forze in contrasto alle leggi divine, l’Essere capace di vanificarle. La schiera angelica che agisce nel mondo Yetziratico da lui diretta è quella degli Auphanim o Cherubini, citati e spesso descritti nelle sacre scritture come esseri circondati dal fuoco possedenti quattro ali, due delle quali puntate verso l’alto a sostegno del trono di Dio (la Merkabah). La loro presenza simboleggia quella del Padre poiché filtrano la Luce Divina e ogni loro movimento viene da Lui diretto. Nella mistica cristiana i Cherubini sono sovente associati ai quattro evangelisti, custodi e portatori del Vangelo e quindi della via che conduce alla liberazione; così li descrive il profeta Ezechiele nelle Sacre Scritture: “Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali […] Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d’aquila” (Ezechiele 1: 5,16), altra simile descrizione ci viene data da una visione avuta da Santa Teresa d’Avila riportata nella sua opera “Il libro della vita”: “Mi fu mostrato il trono che ho detto alla signoria vostra di aver già visto, e sopra quello un altro, dove, per una rivelazione che non so dire, anche se non lo vidi, capii che stava la Divinità. Mi sembrava che il trono fosse sorretto da certi animali di cui credo di aver udito la descrizione, e pensai che essi fossero il simbolo degli evangelisti. Non vidi nè come fosse il trono, nè chi vi sedesse sopra, ma solo una moltitudine di angeli che mi parvero di una bellezza senza confronto, superiore a quella degli angeli fino allora visti in cielo. Pensai che fossero serafini o cherubini, perchè la loro gloria è assai diversa da quella degli altri, e mi apparivano infiammati d’amore di Dio”. Cherubino significa “colui che prega” o “colui che intercede” appaiono aventi sempre tra le mani una spada fiammeggiante e la loro capacità di contemplazione e conoscenza di Dio è superata solo dai Serafini a cui sono strettamene legati. “Io sentiva osannar di coro in coro al punto fisso che li tiene a li ubi, e terrà sempre, ne quai sempre fuoro. E quella che vedea i pensier dubi ne la mia mente, disse: «I cerchi primi t’hanno mostrato Serafi e Cherubi”. (Paradiso, Canto XXVIII) A capo della terza Sephirot Binah troviamo l’Arcangelo Tzaphkiel o Binael. Detto anche Madre cosmica, il suo nome significa “Visione di Dio”, trasforma le energie in leggi ordinando il funzionamento dell’universo, elargisce la consapevolezza utile a conformare a esse ogni nostro comportamento. Tale Arcangelo detta le regole e detiene il compito di indicarci come agire nel Giusto, a lui dobbiamo rivolgerci per acquisire tale comprensione e 73 per la quale sono indispensabili studio, riflessione, meditazione e contemplazione. Binael ha inoltre l’importantissima funzione di elargire il quadro esistenziale micro e macrocosmico adatto a correggere la nostra natura umana, regola le nostre incarnazioni in modo che i destini assegnati sviluppino le giuste qualità. L’ordine degli angeli diretto da Binael è quello degli Aralim, Troni. Tali esseri, descritti ampiamente nel libro d’Ezechiele, si presentano al profeta come circondati da vortici luminosi similmente all’aspetto che hanno talvolta i Cherubini e con i quali si muovono in perfetta sintonia e sotto la direzione del Creatore, “Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota. Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt’e quattro erano pieni di occhi tutt’intorno. Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote” (Ezechiele 1:16). I Troni sono esseri maestosi ma di profonda umiltà, portatori della Divina giustizia riflettono la Luce di Dio e ne sorreggono il trono (Merkabah) assieme a Cherubini e Serafini e come loro hanno raggiunto un’elevata perfezione spirituale. Presiede la quarta Sephirot Chesed l’Arcangelo Sachiel, rappresenta la maestosità, la misericordia, la benevolenza, il benessere fisico ed economico, nell’immaginario magico tiene in mano una corona e uno scettro e indossa una tunica color porpora. Seppur evocato, e molto generoso, non darà alcun aiuto a colui il cui destino ha indotto in povertà affinché tale stato giovi o rieduchi il suo animo, se la ricchezza si fa dannosa anziché benevola nessuna supplica o preghiera otterrà la sua intercessione; nessuno può modificare il fato di un uomo se non egli stesso attraverso le prove che gli è dato superare. Sachiel viene anche raffigurato nell’atto di riversare il contenuto di monete e petali di rosa da una cornucopia come dispensatore di ricchezza e fortuna sfarzo e prestigio, che elargisce secondo le leggi del karma a ognuno in giusta misura, il modo in cui viviamo sia la nostra un’esistenza di povertà o ricchezza, influirà inevitabilmente sul futuro individuale ed è proprio tale essere che detiene il compito di scrutare il vizio e la virtù legati a essi; il denaro in sè non è nè un bene nè un male, ma è l’uso che se ne fa a esserlo. L’aspetto spirituale e virtuoso dell’Arcangelo potenzia la generosità, l’altruismo la solidarietà sfruttando il dono della ricchezza per aiutare gli altri interiorizzandola come virtù e arricchendoci, importante è com- 75 prendere che l’agiatezza è un dono che viene dall’alto nonché un esame sull’attaccamento che tale condizione suscita riguardo i beni materiali spesso allontanandoci da quelli spirituali. L’Arcangelo Sachiel governa il pianeta Giove l’astro che influenza le questioni finanziarie e la fertilità della natura, siede a capo della schiera dei Chasmalim, i Brillanti, chiamati anche Dominazioni. Tale coro dispensa benevolenze sotto la sua guida, sono esseri molto generosi ma inflessibili e severi nell’applicazione delle leggi karmiche, rappresentano i canali attraverso i quali si manifesta la misericordia di Dio, governanti il punto di fusione iniziale tra il regno fisico e quello spirituale, cominciano a stabilire le azioni creative attraverso le regole dettate dai Cherubini, armonizzandole e facendo il tal modo conoscere le leggi della natura, tale autorità si esprime negli emblemi che li caratterizzano: uno scettro o un globo nella mano sinistra e una verga nella destra, donano fiducia in se stessi, Dio e gli altri. Alla quinta Sephirot Geburah fa capo l’Arcangelo Camael, colui che amministra la giustizia divina, il punitore detto anche “La mano destra di Dio”. É il Principe della Forza e del Coraggio, l’essere che detiene attraverso le sue schiere, i registri del karma e che induce le prove delle incarnazioni future, conduce l’umanità verso la conoscenza attraverso il giusto sudore della fronte, attraverso l’esperienza. Camael induce quindi all’abbandono della grazia e a poter così conoscere l’essenza del male attraverso una maturità acquisita nei mondi inferiori conquistando consapevolezza e libertà di azione attraverso una risalita cosciente mossa da una volontà individuale e sorretta da giusta saggezza. L’impulso luciferico capace di distorcere l’uso delle facoltà creative insite nell’uomo è quindi dannoso ma anche indispensabile affinché il progetto divino si compia nella sua interezza e l’uomo si ponga in esso con la giusta e cosciente operatività. L’Arcangelo Camael insegna le divine leggi e distrugge tutto ciò che è loro contrario. Il Nome del suo Ordine di Angeli è Seraphim, i Fiammeggianti o Serpenti di Fuoco, chiamati anche Potestà che non sono gli stessi retti da Metatron. Tali esseri, da lui guidati ristabiliscono l’ordine Divino ove sia necessario, scacciano, frenano, indeboliscono e tengono a bada le forza maligne impedendo loro di assalire l’uomo. Le potestà sono anche chiamati i signori del karma poiché custodi di tale archivio, sono quindi gli angeli della morte e della rinascita, sorveglianti e guide del cammino delle anime verso il Regno dei Cieli. 76 La sesta Sephirot Tiphareth è presieduta dall’Arcangelo Raphael il “Divino guaritore” l’essere a capo degli angeli custodi e delle schiere angeliche il cui compito è elargire forze risanatrici. Raphael è l’Arcangelo della provvidenza, sovrintende le guarigioni, aiuta gli uomini che operano in questo ambito, dona intuizioni, consigli affinché il malato che ne invoca l’aiuto possa trovare il modo di risanarsi a patto però che il suo problema o la sua sofferenza non siano dovute al piano divino. Raphael è inoltre il protettore e la guida dei viaggiatori, sia di coloro che devono raggiungere una località lontana sia di quelli che intraprendono un cammino spirituale. Presiede la schiera dei Malachim, i Re, chiamati anche Virtù. Tali esseri dispensatori di grazia, intervengono donando coraggio, saldezza e sapienza, illuminando ogni situazione difficile, aiutano e donano la forza per superare gli ostacoli, stabiliscono inoltre gli aspetti del mondo naturale dando loro le adeguate caratteristiche quali forme, colori, dimensioni con cui poi si manifesteranno e sono in grado di sospenderne le leggi operando miracoli. Alla settima Sephirot Netzach fa capo l’Arcangelo Haniel che presiede l’amore, l’armonia e la bellezza in tutte le sue sfumature. Haniel è colui che ispira gli artisti affinché, attraverso le loro opere, si esprima la gloria divina insita in ogni cosa o si oda l’armoniosa musicalità delle Sfere. Tale Arcangelo opera affinché le arti siano strumenti di elevazione dell’animo umano e i colori, i suoni, le forme tocchino e suscitino la nostra piu profonda sensibilità. Haniel vivifica l’amore spirituale, la bellezza interiore e le qualità artistiche di ciascuno. Haniel sta a capo degli Elohim, o Principati la schiera angelica creatrice del mondo, la cui forza sta nell’amorevole dedizione con cui svolgono tale com- 77 pito. Tali esseri comandano e supervisionano l’operato degli angeli sotto di loro, posti a custodia delle nazioni, le città, i luoghi sacri; proteggono il culto religioso, il legame tra uomo e Dio, possono compiere miracoli e stando direttamente sopra il nostro mondo fungono da ponte tra materia e spirito. L’ottava Sephirot Hod è presieduta dall’Arcangelo Michael il cui nome significa “il Grande Dio” o “simile a Dio”. É il comandante delle schiere celesti che combattono il male, la magia nera, i sortilegi, protettore dei credenti e perciò raffigurato spesso con indosso un’armatura e in pugno la spada fiammeggiante con cui ha sconfitto Lucifero, e la cui luce dissipa le tenebre. Simboleggia la lotta per superare gli ostacoli. Presiede la schiera dei Beni Elohim o Figli di Dio, comunemente noti come Arcangeli. Tali esseri governano contemporaneamente su molti livelli, sull’operato degli Angeli, degli astri, delle stagioni, della flora e della fauna e talvolta inviati da Dio come diretti messaggeri del Suo volere e delle Sue leggi agli uomini, sono i mediatori tra Principati e Angeli, dai primi ricevono la direzione da comunicare ai secondi attraverso la quale l’uomo dovrà operare per purificarsi ed elevarsi. La nona Sephirot Yesod è presieduta dall’Arcagelo Gabriel, il messaggero di buone notizie, il rivelatore, la voce di Dio, colui che ci indicherà al momento opportuno l’obbiettivo, ciò che spiritualmente ci è dato di compiere nel nostro destino. Tale è l’angelo che ispirò Giovanna d’Arco nonchè l’annunciatore delle nascite prodigiose come quella di Gesù e del figlio di Abramo, bambini che custodirà poi per tutta la vita. Gabriel è la potenza celeste che guida il concepimento sia fisico che spirituale, quello delle idee. In lui e attraverso di lui si cristallizzano gli impulsi di tutti gli arcangeli divenendo immagini e spinte d’azione ricevute dall’uomo attraverso i centri energetici, detti chakra. Tali energie non sono tuttavia coercitive ma direzionali, sta a noi imparare a discernerle a coglierle nella loro purezza evitandone la distorsione che l’egoismo e le illusioni del mondo attuano di continuo nella nostra mente. L’Arcangelo, oltre a far discendere le energie ha oltremodo il compito di raccogliere in senso inverso le nostre esperienze portandole 78 verso l’alto creando un movimento di flusso e riflusso ritmico e continuo, ciò fa intuire quanto il sentire influenzi non solo la nostra vita ma anche quella di chi sta vicino a noi, nonchè di tutto il cosmo caricandolo di Bene o Male attraverso i desideri e i pensieri che formuliamo. L’astro lunare, strettamente correlato a Yesod e quindi all’Arcangelo che sovrintende tale sfera, rappresenta l’inconscio nonchè appunto il ricettacolo in cui albergano le nostre energie esperienziali filtrate da tale essere ed espanse poi nell’universo. Presiede la schiera dei Kerubim, i Forti, o comunemente detti Angeli, tali esseri hanno il compito di sorvegliare, guidare e custodire gli uomini. Alla nona Sephirot Malkuth fa capo l’Arcangelo Sandhalphon, conosciuto come l’Angelo Oscuro colui che presiede sul debito karmico da espiare nel piano materiale, il Regno quindi in cui viene eseguito, presiede gli spiriti elementali terrestri: Salamandre, Ondine, Silfidi e Gnomi e la schiera angelica degli Ashim, Anime di Fuoco chiamati anche Anime Benedette o dei Giusti resi Perfetti, ossia i Santi, i profeti, gli iniziati, i grandi Maestri aventi il compito di discendere sulla Terra per guidare e istruire l’umanità nel cammino verso la Luce. “Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti nel cammino” (Esodo 23,20) .n 79 80 STORIA E METASTORIA DEL MARTINISMO Igneus Mercuzio: maschera su maschera ora non temo occhi curiosi che vengono a spiar le mie bruttezze. Questa posticcia maschera arrossir dee per me… (da “Romeo e Giulietta” Atto I°, scena IVa) Il Martinismo attuale è una derivazione, diretta o indiretta che sia, del secolo dei Lumi, e degli Illuminati e degli Illuministi che formarono lo spirito dei suoi tempi. La sua pertinace permanenza nel nuovo millennio, ancora immerso nell’oscurità che ha seguito le perdute illusioni di un progresso spirituale, in armonia con il progresso scientifico, è talmente anomala che può veramente sembrare una volontà dei piani superiori. L’esplosione dello pseudo-spiritualismo del New Age, ormai obsoleto, è stato n realtà un neo-materialismo, quanto più pericoloso quanto più ha assunto la forma dei gusci vuoti di residui psichici di religioni obsolete, di Misteri ormai scomparsi. La mistica India che i teosofi sognarono ha la stessa altissima percentuale di cialtroni e ciarlatani che vi è in Occidente, tanto che solo uno stupido esotismo può produrne l’importazione. Le infinitesimali possibilità d’illuminazione possono attuarsi nella remota Katmandu o nella remotissima Roccacannuccia di Sotto, ed è più facile trovare insegnamento e conoscenza nelle biblioteche dell’Occidente che presso i luridissimi sadu di strada di Benares. Quando per le strade vediamo quella sorta di dervisci mediatici che sono gli Hare Krisna, molti possano credere che possa esistere in questi una parvenza di spiritualità, un valore esoterico, e alcuni possano illudersi di lasciarsi alle spalle le superstizioni del cattolicesimo, abbracciando una religione altrettanto arcaica, altrettanto bigotta e superstiziosa. Robert Ambelain ha tracciato una storia impietosa del Martinismo; Arturo Reghini, forse personalizzando troppo la sua disturna con il Gran Maestro Sacchi, (Synesius S::I::I::), (che aveva ribattezzato Asinesius) ne ha messo in evidenza le contraddizioni ed il temporalismo. René Guènon, nonostante che la sua prima scuola di esoterismo fosse stata quella di Papus, nel 1909 ruppe ogni rapporto con i gruppi esoterici a cui era appartenuto, compreso l’Ordine Martinista, e non è certamente tenero con questi gruppi che definisce come occultistici e quindi contro-iniziatici. Ma nel desolato panorama attuale che ha visto la frantumazione e la polverizzazione progressiva di ogni valenza effettivamente esoterica, la clonazione truffaldina di Ordini e gruppi che hanno per unico scopo quello di ramazzare denari e piccoli poteri meschini, l’Ordine Martinista permane, e permarrà fin quando sarà osservata la sua povertà ed il suo disinteresse. Aldebaran S::I::I:: (Gastone Ventura) imponeva che, a deroga della rigidissima impostazione dell’Ordine, le Logge potessero accettare dai propri membri solo “un pizzico d’incenso ed una candela”. Ma già alcune clonazioni internetiche dell’Ordine mettono le mani adunche avanti, 81 dichiarando che per ricevere l’iniziazione Martinista vi sono delle capitazioni annuali… contraddicendo e invertendo uno dei primi principi dell’Ordine, quello della gratuità e della povertà. I nostri Fratelli francesi hanno da anni accettato il principio di non entrare in polemica con le innumeri filiazioni dell’Ordine, ma di riconoscere come Fratelli tutti coloro che hanno ricevuto l’iniziazione Martinista. Le infinite serie di divisioni, fratture, scissioni che il tempo e gli uomini hanno prodotto, in un ambito che non ha dogmi, ma solo principi, e che predica la libertà spirituale e intellettuale dei propri membri, sono comunque inevitabili ed accettabili. Il Martinismo non potrà mai essere un Ordine unitario, non essendo una Chiesa e non avendo grandi pontefici. Non avendo ortodossia, non ha quindi eresie nè ha motivo di disprezzare o perseguire alcuno. Ma nel nostro mondo attuale, in cui chi non comunica non esiste, vi è la deprecabile possibilità che prevalgano gli aspetti oscuri che ogni luce inevitabilmente produce. Sopportiamo quindi gli Arlecchini e i Pulcinella che usano la maschera solo per nascondere le loro brutture, sopportiamo i plagi e le truffe commesse in nome di ciò che profondamente amiamo, sopportiamo che i nomi venerati dei nostri Maestri sia pronunciato da bocche impure ed interessate. Gli dei a volte ridono delle nostre illusioni, delle nostre ambizioni anche se nobili e disinteressate, delle nostre spesso inutili fatiche, delle nostre costruzioni effimere nel contingente. Ma neanche gli dei possono sorridere di una verità interiore che è più reale quanto più inespressa, di un desiderio che è più lancinante quanto più silente, di una volontà che è più potente quanto più rivolta agli abissi muti ed insondabili della nostra povera essenza umana. Vi è un solo modo di resistere alla pressione immane dell’età oscura, conservando, tramandando e testimoniando: perseguire la conoscenza, che è l’unico argine al prevalere della volgarità, dell’improvvisazione, del plagio, della prevaricazione. L’ingannato non è colpevole quanto l’ingannatore, ma n’è perlomeno complice. Vi è un modo infallibile per riconoscere immediatamente le clonazioni occultistiche. Se queste ignobili quliphot chiedono denari, o prestazioni contrarie alla libertà e dignità dell’individuo, coloro che si dichiarano iniziati dovranno ricordarsi che fra i mezzi operativi non vi sono soltanto i ceri ed i profumi, ma anche la spada. Questo non è un’invito marziale, ma piuttosto mercuriale. L’innocente, pur se qualcuno osi proclamarsi tale, è pacifico, anche se non pacifista a tutti i costi. I mezzi operativi che la tradizione ci ha trasmesso sono quelli rituali, anche se nell’era attuale questi strumenti sono difficilissimi da usare. Il rito ha un’effettiva funzione se può collegare il microsmo al macrocosmo. Il passato aveva tempi e ritmi diversi, e la vita era inevitabilmente in armonia con i cicli dell’universo. Oggi solo gli astrologi e chi segue un rito quotidiano osservano le fasi lunari, l’ingresso del Sole negli animali celesti, la segnatura delle ore. Il Tempo, insomma, di chi aveva la ricchezza del tempo. Nella sua estrema rarefazione rituale, il Martinismo rappresenta forse un adattamento essenziale degli atroci ritmi ai quali è costretta l’umanità alla volontà di chi vuol comunque percorrere una via spirituale. Gli antichi Veda affermavano che: “coloro che vivranno nel KaljYuga saranno beati, perché a loro sarà richiesto molto meno”. Forse alle nostre generazioni sono sufficenti quei pochi minuti al giorno di meditazione, invocazione, preghiera, la purificazione novilunare ed altri pochi e semplici riti per tentare con speranza, ma senza illusioni, la via dell’illuminazione. Ma questo non significa ignorare la grande teoria micro-macrocosmica, la legge dell’analogia, le grandi regole rituali universali che sono valide “semper et ubique”. Da dove deriva ciò che di rituale è rimasto nel Martinismo, quali sono le sue essenziali leggi, gli assiomi che un’auspicata primavera farà risgorgare dalle profondità della terra madre, dal- 82 l’altezza infinita dei cieli eterni? Il problema è ancora una volta la conoscenza. Quando rievochiamo i grandi personaggi Martinisti del passato, possiamo soltanto supporre in loro l’illuminazione e l’iniziazione effettiva, ma dobbiamo riconoscerne, senza dubbio, la loro profonda conoscenza. Dopo la morte fisica di Gastone Ventura e Francesco Brunelli, con la loro grandezza intellettuale e spirituale, i loro difetti umani e la grande querelle che ne derivò, potremmo scrivere qualcosa della storia del Martinismo italiano, o quantomeno una molto più modesta cronaca? Solo l’eco lontana di ormai obsolete fratture rimarca la differenza di Ordini sonnolenti, in cui la polvere del tempo e l’assenza di pensiero stratifica bigotterie ed ignoranze. Spesso, di un pensiero complesso e profondo e virile come quello di Saint Martin rimane solo un vago dormiveglia falsamente misticheggiante, un quietismo tanto dolce da essere stucchevole, una sorta di caramella molle al lampone, per palati dalle gengive deboli. D’altro canto, i tentativi di rendere l’Ordine più “operativo” in senso martinezista o, meglio, “modernizzarlo” con neo-esoterismi alla Golden Dawn o con dei neo-ermetismi - che sono comunque degni di rispetto, pur esulando dalla specificità dell’Ordine Martinista - sono falliti. E questo fallimento non deriva tanto dalle enormi difficoltà che ciò comporta per gli uomini che vivono la nostra era, quanto dall’incompetenza, dalla mancanza di talento e conoscenza, dalla pigrizia e dalle ambizioni, appaganti di per sé, di coloro che avrebbero dovuto “operare”, ma in realtà non hanno mai operato. Che cosa direbbe Saint Martin di queste “interpretazioni” che non sono soltanto del nostro tempo? Lasciamo a lui stesso la parola: “Non mi sogno affatto di biasimare questi Martinisti; non è destino dei libri di diventare la preda dei lettori? Ma sono stupito del fatto che mi avete giudicato così infatuato del mio debole merito tanto da poter dare il mio nome alla mia antica scuola o a qualunque altra…”. Il più celebre passo di Saint Martin sull’iniziazione è il seguente: “La sola iniziazione che predico e che ricerco con tutto l’ardore della mia anima è quella attraverso cui noi possiamo entrare nel cuore di Dio e far entrare il cuore di Dio in noi, per compiervi un matrimonio indissolubile, che ci renda l’amico, il fratello e la sposa del nostro divino Riparatore. Non vi è altro mistero per giungere a questa santa iniziazione che sprofondarci sempre più sin nelle profondità del nostro essere e di non mollare la presa, fin quando non siamo pervenuti a sentirne la viva e vivificante radice, in quanto allora tutti i frutti che dovremmo portare secondo la nostra specie si produrranno naturalmente in noi e al di fuori di noi, come vediamo accadere ai nostri alberi terrestri, in quanto aderiscono alla loro relativa radice e non cessano di estrarne i succhi”. (Lettere a Kirchberger, 19 giugno 1797). Ma questo cammino individuale verso l’iniziazione è un fattore intimo, riservato, che non ha necessità di esplicazione né di organizzazione, schematizzazione, ordinamento. Nel suo Mon livre verte, n.° 859, Louis Claude de Saint Martin riconosce che: “le organizzazioni e società filosofiche e altro sono delle forme di cui ci si può anche disfare, ma che hanno avuto ed hanno tuttora degli utili effetti spirituali”. Ma se il desiderio e la volontà ci porteranno in un futuro indefinito e dindefinibile all’illuminazione ed all’unificazione con i piani divini, queste non possano essere esercitate senza la completezza della vita nel quaternario. La ricerca dell’iniziazione non contrasta, ma coincide con la necessità e il gusto di vivere da uomini fra gli uomini, anche nelle eterne e sempre nuove contraddizioni interiori ed esteriori che questo comporta. Il Martinismo è forse più una metodica esoterica, un’influenza spirituale nella storia e nel pensiero, che un ente organizzato. Trovare il filo d’Arianna secolare di quest’influenza non è o difficile, anche se gli studi in questo campo sono per lo più inediti in Italia. Possiamo intanto notare come gli scritti politici e sociali di L. C. de Saint Martin siano una miniera inesplorata. Può sembrare inusitato che Ecce Homo e Le Nouvel Homme furono 83 considerati libri rivoluzionari, tanto che furono stampati primariamente presso la Stamperia del Centro Sociale del Palais Royal, nel 1792 da Bonneville. Come afferma lo storico James H.Billington: “Nel 1792, all’apice della sua influenza, il Circolo Sociale cominciò a pubblicare i testi cripto-rivoluzionari del gran sacerdote del misticismo lionese, Louis Claude de Saint Martin”. Può essere interessante notare che un acerrimo nemico dell’Illuminismo come Saint Martin abbia affermato, a proposito della Rivoluzione Francese, che: “Un sole radioso si è staccato dal firmamento per posarsi sopra Parigi, da cui diffonde una luce universale. L’Uomo Nuovo può cogliere quella luce, contemplando i cerchi concentrici che convergono in un punto all’interno della luce di una candela accesa: in questo modo, egli si “reintegra” con gli elementi primi: l’aria, la terra e l’acqua. Nella misura in cui l’uomo si evolve in puro spirito, la democrazia rivoluzionaria diventerà deocrazia.” Bonneville, Marechàl e Tomas Payne avevano trovato in L. C.de Saint Martin le stesse concezioni massonico-pitagoriche che ispiravano la loro utopia sociale. All’inizio della rivoluzione le teorie illuminate erano fondate su un comunitarismo pitagorico che non era basato sul predominio di una classe, ma sul governo illuminato d’illuminati. Dell’influenza Martinista sulla rivoluzione francese si era espresso anche un autore che ebbe un peso notevole sulla reazione europea della Santa Alleanza, con un enorme pamphlet, la Storia del Giacobinismo, il gesuita Abbé Barruel. Così il famigerato Abbé definisce il pensiero di Saint Martin: “Io però ricavo la sua dottrina [di De Saint Martin] dal suo grande oggetto dei suoi scritti, da quello che ne ha fatto l’apocalisse de suoi seguaci, nella sua famosa opera “Degli errori e della verità”. Io so quanto costa il decifrare gli enigmi di quest’opera tenebrosa; ma conviene bene aver, per la verità, la costanza che i suoi seguaci hanno per la menzogna. Ci vuol pazienza per discoprire tutto il complesso del codice Martinista fra il gergo misterioso dei numeri e degli enigmi. Risparmiamo, per quanto possibile, questa fatica al lettore. L’eroe di questo codice, il famoso Saint Martin, si mostri all’aperto; ed ipocrita al pari del suo maestro egli non sarà più che un vile copista delle inezie dello schiavo eresiarca, generalmente noto con il nome di Manete. Con tutti i suoi raggiri egli non conduce meno i suoi seguaci negli stessi sentieri e loro ispira il medesimo odio agli altari del cristianesimo e al trono de sovrani, ed ancora d’ogni governo politico.” In questo brano si sintetizza tutto il livore antimassonico e antimartinista di quell’epoca, e non solo di quella. La preoccupazione dei denigratori dello spirito libero non deriva che da un solo elemento: il mantenimento del controllo sociale da parte delle due tirannie: quella politica e quella religiosa che sono, a volte, contrapposte ma purtroppo molto spesso unite. Il Martinismo, sia nei suoi concetti filosofici sia in quelli metafisici, è portatore di libertà, anche indipendentemente dalla sua azione, che solo in alcuni periodi storici è stato - solo concettualmente - politico. Il suo portare nei propri geni questo principio etico essenziale, (che porta a sua volta in sé la tolleranza per le altrui libertà e la fraterna “passione” per l’uomo) ciò che unisce i Martinisti, di là delle diatribe causate dai personalismi e dall’intolleranza, ma anche di là della storia e delle sue passioni, è la tensione a quel piano metafisico dove si pone l’infinito ed indefinibile Grande Architetto dell’Universo. n 84 CALENDARIO OPERATIVO 2017 Le ore indicate tengono già conto dell’Ora Legale, perciò non occorre aggiungere 1 ora Gennaio Giovedì Sabato Febbraio Sabato 11 Domenica 26 Marzo Domenica 12 Lunedì 20 Martedì 28 Aprile Martedì 11 Mercoledì 26 Maggio Mercoledì 10 Giovedì 25 Giugno Venerdì 90 Mercoledì 21 Sabato 24 Luglio Domenica 90 Domenica 23 Agosto Lunedì Lunedì Settembre 12 28 70 21 Mercoledì 60 Venerdì 22 Mercoledì 20 Ottobre Giovedì Giovedì 50 19 Novembre Sabato Sabato 40 18 Dibembre Domenica 30 Giovedì 21 Lunedì 18 12:35 ° 01:08 l 01:33 ° 16:00 l ° l Luna piena Luna nuova Equinozi/Solstizi 15:54 ° 10:28 Equinozio di Primavera 04:59 l 08:09 ° 14:18 l 23:43 ° 21:46 l 15:11 ° 04:24 Solstizio d’Estate 04:32 l 06:08 ° 11:47 l 20:12 ° 20:31 l 09:04 ° 20:02 Equinozio d’Autunno 07:30 l 20:41 ° 21:12 l 06:24 ° 12:42 l 16:48 ° 16:28 Solstizio d’Inverno 07:31 l Cappella di Sansevero, Napoli: “IL DISINGANNO” di Francesco Queirolo