CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB(2015_01_30)

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CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB(2015_01_30)
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Venerdì 30 Gennaio 2015 Corriere della Sera
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Svolte La decisione di Andrew Sullivan di chiudere
il suo blog di successo «The Dish» non è che uno dei tanti
segnali del desiderio collettivo di ritorno alla realtà più
concreta. Ce lo dicono anche il cinema e le serie televisive
ANALISI
 COMMENTI
di Alessandro Pansa
LA MANNA DAL CIELO
NON BASTA PER LA RIPRESA
DOPO LA TEMPESTA
INVESTIMENTI E RICERCA
«2
015 anno felix», aveva
pronosticato il presidente del
Consiglio. E così sarà. Usciamo
dalla crisi, il 2016 andrà pure meglio. Certo,
ci aiutano in tanti. L’euro si è deprezzato del
19% sul dollaro; il petrolio costa il 30% in
meno; il commercio mondiale cresce; il
Quantitative easing ridurrà i tassi dell’1%. Il
Prodotto interno lordo dovrebbe dunque
crescere del 2,1% e del 2,6% nei prossimi due
anni. Rispetto alla recessione (di ieri?) un
salto clamoroso e benvenuto. L’entità delle
forze che lo rendono possibile prova però
quanto siano radicate le nostre debolezze.
Non per rovinare la festa, quindi, ma
facciamoci qualche domanda su come
sfruttare questa «manna dal cielo» (parole
di Confindustria...). La crescita arresterà il
declino del sistema industriale? Di per sé,
no. Il problema sta nell’offerta e non nella
domanda, nella perdita del 35% della
competitività tecnologica in 15 anni e del
30% dello stock di capitale in 25. Senza una
selettiva e coraggiosa politica industriale
per agganciare la rivoluzione alle porte
(dopo aver perduto quella scorsa)
finanziando la ricerca e stimolando gli
investimenti privati, non c’è crescita che
tenga.
I tassi bassi li sosterranno, questi
investimenti? Solo se si ricostruirà il sistema
del credito industriale, oggi nei fatti
inesistente; e se gli imprenditori verranno
stimolati a capitalizzare le aziende con un
po’ delle loro ricchezze e non a liquidare le
partecipazioni come li invita a fare la norma
sul voto maggiorato. L’euro debole farà bene
alle nostre imprese? Nell’immediato. Ma fu
la politica di cambio stabile praticata dalla
Banca d’Italia dalla fine degli Anni 70 che
fece guadagnare competitività all’industria,
costringendola ad investire in prodotti,
processi e ristrutturazioni. Attenzione alle
illusioni. «Passata è la tempesta... Ogni cor
si rallegra... risorge il romorio torna il lavoro
usato», dunque? Dubitiamo, ma soprattutto
agiamo. Forse non è tardi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
«S
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ono saturo di vita digitale, voglio tornare al mondo reale».
L’avesse detto un anziano gentiluomo, incapace di distinguere un tablet da un vassoio, non
avremmo motivo di stupirci.
Ma l’ha scritto Andrew Sullivan, l’archetipo del blogger,
uno dei primi giornalisti tradizionali ad abbracciare il mondo nuovo.
Lascerà «The Dish», sito personale costruito negli ultimi
due anni: aveva convinto trentamila persone a pagare per
leggerlo, raccogliendo circa un
milione di dollari l’anno.
Stanchezza e motivi di salute
hanno contribuito alla decisione, ci ha spiegato Massimo
Gaggi da New York. Ma le parole scelte da Sullivan per l’addio
costringono a pensare: «Sono
un essere umano prima che
uno scrittore e un blogger. Voglio tornare a leggere. Lentamente, con cura. Assorbire un
libro difficile e ritirarmi nei
miei pensieri per un po’».
Pentitismo digitale? No.
Sembra, invece, la reazione a
un eccesso. Internet può sedurre: come ogni rivoluzione, come un’ideologia.
Quanti individui conosciamo che, ieri, ci molestavano
predicando il comunismo e,
oggi, ci ammorbano inneggiando all’anticomunismo? Sono le stesse persone: conoscono solo la religione degli opposti, e devono renderci partecipi
delle loro irritanti conversioni.
Ma il caso di Andrew Sullivan è diverso, e appare più interessante. Non è solo un episodio, infatti. A giudicare dalle
reazioni che ha suscitato, in
America e in Europa, è l’indizio
— forse l’inizio — di un cambiamento. È come se provassimo un vecchio — quindi, nuovo — desiderio di odori e di sa-
VITTIME, COLPEVOLI E PENE
DUE PESI E DUE MISURE
DELLA GIUSTIZIA ITALIANA
di Antonio Pennacchi
P
ochi anni fa – era l’8
ottobre del 2010 – nella stazione della metro
Anagnina a Roma vengono a diverbio, per
questioni di fila, un ragazzo italiano di vent’anni e una donna
romena di trentadue, di professione infermiera, sposata e con
un figlio. Pare che poi — andandosene — il ragazzo le abbia detto: «Ma non te lo insegnano al Paese tuo a stare in fila?». Lei allora gli corre dietro
fin fuori la stazione, inveendo e
sputandogli addosso. Lui si
volta, le sferra un pugno — non
so se al volto o in testa — lei cade e resta a terra. Lui se ne va.
Lo insegue però e lo blocca un
militare di passaggio della Capitaneria di porto, che lo consegna ai vigili quando arrivano.
Lei è sempre a terra. Chiamano
il 118. Otto giorni di coma e
muore. Si chiamava Maricica
Hahaianu. È dell’altro giorno la
notizia invece (26/1/2015) che
il ragazzo condannato in appello nel 2012 a otto anni — per
omicidio preterintenzionale e
concessione delle attenuanti
— è stato scarcerato, per essere
affidato ai servizi sociali. Dopo
complessivi quattro anni di
carcere e arresti domiciliari,
torna quindi in libertà, pure se
relativa: «Potrà uscire di casa
per andare al lavoro e in palestra, purché rientri nella sua
abitazione entro le otto di sera». Stop.
Solo tre anni prima però —
26 aprile 2007 — era accaduta
un’altra tragedia dai contorni
assai simili. Sempre a Roma e
sempre sulla metro, ma in
un’altra stazione — Termini —
vengono a diverbio due ragazze
romene e una italiana. Le romene — rispettivamente di 17 e
CONC
 Il corsivo del giorno
SATURI DI DIGITALE
DOPO GLI ECCESSI
di Beppe Severgnini
pori, di cose e di atomi. Come
se avessimo nostalgia di spazi
fisici, di persone, di sguardi
non filtrati da una telecamera e
di voci non amplificate da un
altoparlante.
Internet — dev’essere chiaro a tutti — non è un mondo
alternativo. È un luogo e un
modo dell’unico mondo. Ma
non può diventare l’unico luogo e l’unico modo. Chi twitta
da mattina a sera commette
un errore speculare di chi rifiuta, schifato, i social: entrambi perdono qualcosa. Chi
passa la vita su Facebook, si illude che gli «amici» siano
amici e riempie la pagina di
piedi, smorfie, cagnolini e parenti è insopportabile quanto
il luddista deciso a rovinare
una cena con le sue geremiadi
contro la modernità.
Quest’ultimo personaggio è
irrecuperabile, e si perde molte cose nuove, veloci e belle. Il
bulimico digitale, come dimostra il caso di Sullivan, è invece
capace di redimersi. Conosce i
due ambienti, per cominciare.
E la sua intossicazione, in fondo, è più recente. Ma di disintossicazione, comunque, ha
bisogno.
C’è un personaggio curioso,
ne Il nome del figlio, bel film di
Francesca Archibugi, sceneggiato con Francesco Piccolo.
Un accademico petulante che
passa il tempo con gli occhi
sullo smartphone, mentre intorno a lui le emozioni familiari esplodono come petardi. Ma
la realtà, presto, si rivela più
forte dei suoi tweet.
La concretezza, se ci pensate, è diventata il segno del cinema, non solo in Italia. Le storie
fantastiche sono in ritirata: Il
Signore degli Anelli s’è preso
una pausa, Harry Potter è diventato grande. I cinque film
del momento sono racconti
biografici: un cosmologo (La
teoria del tutto), un matematico (The Imitation Game), un
pittore (Turner), un militare
(American Sniper), un leader
dei diritti civili (Selma. La
strada per la libertà). Cerchiamo fatti, confronti, agganci,
precedenti. Impalcature per
reggere nel vento che soffia
tutto intorno: dalla Siria alla
Russia, dall’America all’Asia.
Lo stesso accade in televisione. Nei tranquilli anni Novanta, amavano evadere con
X-Files. Le serie televisive, fino
a una decina d’anni fa, erano
fantastiche (Hercules, Xena,
Streghe); o dipingevano una
vita da sognare, distante e diversa (Baywatch, Sex and the
City, Beverly Hills). Negli inquieti anni Dieci, abbiamo ripreso a guardarci intorno. Da
Gomorra La Serie a House of
Cards, da The Newsroom a
Breaking Bad, il tentativo sembra quello di capire la realtà. E
l’unico modo di farlo è scenderci dentro.
Andrew Sullivan l’ha capito.
Possiamo farlo anche noi.
(ha collaborato
Stefania Chiale)
@beppesevergnini
21 anni — secondo la polizia
sono prostitute. L’italiana di 23
anni è invece anche lei — come
la Maricica Hahaianu dell’Anagnina — infermiera laureata.
Non è chiaro se il litigio sia cominciato sul treno — sedute a
fianco, ci sarebbe già stato un
alterco — ma è all’uscita a Termini, in mezzo alla calca, che il
conflitto deflagra: «Che te spigni, str…», dice la ragazza italiana alla romena più grande. E
la rincorre, la schiaffeggia, le si
avventa addosso.
La romena aveva un ombrello in mano. Pioveva, forse, quel
giorno. E nel tentativo di divincolarsi, dice lei — o nella foga
d’una maldestra e nella convulsa velocità di queste cose —
l’ombrello diventa un’arma. La
sua punta trafora l’orbita oculare, penetra e recide un’arteria.
La ragazza italiana cade. Le due
romene scappano. La ragazza
muore.
Le romene verranno arresta-
te due giorni dopo nelle Marche. A Tolentino. La vittima si
chiamava Vanessa Russo. Alla
sua assassina — Donina Matei,
21 anni all’epoca dei fatti, due
figli piccoli in Romania — la
Cassazione ha confermato nel
gennaio 2010 la condanna
emessa dalla Corte d’assise
d’appello a 16 anni, per omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi.
Sta ancora in carcere. A Sollicciano, credo. È pentita e non
cerca giustificazioni: «Senza
sapere nemmeno io come e
perché, una ragazza della mia
età è morta a causa mia. Non lo
volevo questo, non era mia intenzione. Ma è successo e devo
pagare, tra queste mura, con
un rimorso che non mi abbandonerà mai». Lo dice in un racconto — La ragazza con l’ombrello — premiato da un concorso letterario e pubblicato
nel 2011 dalla piccola biblioteca
Oscar Mondadori nella raccol-
ta: Volete sapere chi sono io?
Racconti dal carcere, a cura di
Antonella Bolelli Ferrera. Non
si aspetta niente Donina. Consapevole che è giusto che chi
sbaglia paghi, aspetta solo che
passino questi altri otto anni
per poter tornare dai suoi figli e
andare pure, dice lei: «A pregare sulla tomba di Vanessa».
Io adesso però — ferma restando la pietas per tutte le vittime e i loro familiari — vorrei
sapere perché, se domani per
caso ammazzo un romeno,
prendo di sicuro molti meno
anni di quanti ne prenderebbe
lui se ammazzasse me. Meno
d’un quarto, quasi. Ma che è,
giustizia, questa? O è razzista
pure la giustizia in Italia? Sempre che la differenza non la faccia — sulla metro — l’ammazzare a Termini piuttosto che all’Anagnina.
Scrittore, autore di Canale
Mussolini, premio Strega 2010
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