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Campobasso, Museo Sannitico
25 settembre 2010 - 31 gennaio 2011
Progetto scientifico e cura della mostra
Alfonsina Russo, Angela Di Niro, Stefania Capini
Cura e progettazione dell’allestimento
Nadia Pontarelli, Domenico Vaccaro
Coordinamento
e direzione dei lavori nuove sale museali
Saverio Ialenti
Fotografie dei reperti
Vito Epifani
Restauro dei reperti
Giocondina Massimo
PF Restauri di Fiorentina Cirelli
Collaborazione
Valeria Ceglia
Cristiana Terzani
Angelo Attavino
Vincenzo Camperchioli
Franca Damiano
Valter D’Anolfo
Brunilda Mastracchio
Filippo Neri
Stefania Struglia
Antonio Vasile
I testi relativi al santuario di Pietrabbondante
sono stati curati da
Adriano La Regina
Si ringrazia il personale addetto
ai servizi di vigilanza del Museo Sannitico:
Vincenzo Mariano
Michelina Iamartino
Luigi Grandillo
Concetta Mancino
Imprese Esecutrici
Neon Adriatica, Termoli
Centro Allarme Molise-Impianti Tecnologici, Campobasso
Arti Grafiche La Regione, Campobasso
Art Deco, Campobasso
Cooperativa Alfa del Sannio, Campochiaro
Ditta Romano Luciano, Gambatesa
© Soprintendenza per i Beni Archeologici del Molise-2010
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Introduzione
L’esposizione presenta, attraverso alcuni tra i reperti più preziosi rinvenuti, uno
degli aspetti più significativi che connota la cultura delle comunità del Sannio
pentro e frentano: il consumo del vino, con il suo cerimoniale.
La massiccia diffusione della vite e del vino in Italia si deve ai contatti con il
mondo greco, anche se recenti scoperte archeologiche testimoniano la presenza
della vite nella penisola sin dalla tarda età del bronzo. Nei poemi omerici, infatti,
il consumo del vino rappresenta uno dei momenti più significativi delle forme di
convivialità aristocratica. Nel corso dei secoli tale consuetudine si accresce, tanto
che viene individuata una divinità, Dioniso, che sovrintende alle attività di vinificazione e di distribuzione sacrale del vino. Già nell’VIII secolo a.C. sono documentate in Italia anfore da trasporto per il vino, che i naviganti greci utilizzano
come preziosa merce di scambio con le élites italiche.
Con la fondazione delle colonie greche lungo le coste dell’Italia meridionale si
diffondono le testimonianze archeologiche dell’uso del vino, inizialmente importato dalla Grecia e, successivamente, prodotto anche in Italia. La stessa parola
vinum, attestata nella lingua etrusca sembra derivare dal greco dorico voinon,
così anche il modo di coltivare la vite dalle popolazioni etrusco-italiche, a tralcio
o a festone, nelle fonti latine è detto Amynaeum dai colli campani presso la colonia greca di Cuma. Nel corso del VII secolo a.C., uno dei simboli di potere, esaltato nei corredi funerari delle élites italiche, è la celebrazione dei banchetti con il
consumo comunitario delle carni e del vino.
Anche i Sanniti pentri e frentani, in contatto, attraverso le vallate fluviali e le
grandi vie della transumanza, i primi soprattutto con il Lazio e l’Etruria campana
e i secondi con l’Apulia e la Magna Grecia, conoscono ben presto la ritualità
legata al consumo del vino, mentre in un momento successivo mutuano dalla religione greca divinità che si affiancano e/o si sovrappongono a quelle della tradizione locale.
Nella completa assenza di fonti scritte, sono tuttavia numerosi i segni della presenza
di Dioniso nella cultura e nella religione dei Sanniti. Questa esposizione è l’occasione
in cui, per la prima volta, si vuole scoprire il carattere e il significato della presenza
dei segni del culto del dio greco del vino nel Sannio pentro e frentano.
Dioniso, dio del vino e della trasgressione è, inoltre, una figura mitica presente
in forme più o meno consapevoli nella società contemporanea: conoscerlo
meglio può costituire un’occasione di stimolante curiosità intellettuale.
Alfonsina Russo
Soprintendente per i Beni Archeologici del Molise
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L’Immagine del dio nel mito greco
Dioniso, figlio di Zeus, è il dispensatore del vino che dona agli uomini, estasi,
ebbrezza, ma anche follia. Uno dei tratti del dionisismo è quello di ribaltare le
diverse componenti della società: Dioniso infatti accoglie nel suo corteo anche
le figure marginali del corpo sociale, quali le donne e gli schiavi, imponendo sia
agli dei dell’Olimpo che alla città dei vivi la diversità e l’alterità.
Il racconto mitico tramanda diverse versioni della sua nascita: dalla mortale
Semele, dalle divine Persefone e Demetra. È rappresentato in diversi modi: barbato e con lunghe chiome ricciute, giovane e imberbe, sotto forma di animale
(toro, serpente, pantera). È ricordato con due nomi: Dionysos in Grecia e Bacchus a Roma. Numerosi sono i suoi attributi: il kantharos (la tazza per bere
vino), i rami di vite, il tirso (il bastone che rappresenta la forza vitale della
natura, costituito da un ramo di pino con una pigna in cima e tralci di vite e di
edera intrecciati), l’edera, che ricorda il suo legame con la natura e la vegetazione, e la pantera, animale sacro al dio in quanto si pensava fosse fortemente
attratto dall’aroma del vino.
Molte le sue apparizioni e molti i suoi viaggi per mare, per terra e
nell’oltretomba; dicono “che sia uno straniero, mago incantatore, giunto dalla
lontana terra di Lidia”.
Dio che muore e rinasce più volte, è per questo legato ai ritmi della vegetazione.
Molti gli appellativi: Baccheius dalle orde di Baccanti che lo attorniavano; Leneo
dall’azione di pigiare i grappoli d’uva in un tino (lenos); Bromios dal tuono
(bromos) che accompagnò la sua nascita e Pirigeno in quanto nato dal fuoco.
I racconti mitici associano al dio soprattutto una compagna: Arianna, figlia del
re cretese Minosse e della figlia del Sole, Pasifae.
Nel territorio del Sannio, il mito greco e la sua rappresentazione si definiscono
pienamente solo dopo la conquista della regione da parte dei Romani. Dioniso
e i personaggi che compongono il suo corteo, come i satiri, le menadi o baccanti, Arianna, fanno ormai parte della vita quotidiana e sono spesso raffigurati sia
in spazi privati che pubblici; sono infatti presenti negli affreschi, compaiono
sulla ceramica da mensa, su elementi di letti, sui rilievi decorativi di peristili e
giardini.
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Il dono di Dioniso e il sacrificio:
il vino nel rituale funerario
Sin da quando l’uomo ha imparato a coltivare la vite e a produrre il vino,
questa bevanda inebriante è stata utilizzata non solo durante le feste e i banchetti, ma anche in occasione delle cerimonie funebri, quasi a consolare il defunto nell’oscuro cammino dell’oltretomba.
Le più antiche sepolture in cui è documentato il consumo del vino sono a Larino
e risalgono all’VIII secolo a.C.; tra gli oggetti di corredo spicca, infatti, la presenza del kantharos, il vaso di Dioniso per eccellenza.
Durante il rituale funerario dei Sanniti, questa preziosa bevanda era utilizzata
per le libagioni (l’atto del versare liquidi, in particolare vino, per propiziare le
divinità), come è dimostrato, ad esempio, in alcune sepolture databili al VI
secolo a.C., rinvenute a Pozzilli nell’alta valle del Volturno, dove i vasi per versare (oinochoe) e per bere (kantharos) erano collocati all’interno di una grande
olla evidentemente usata come contenitore del vino.
Un particolare aspetto della cerimonia funebre, riscontrabile in alcune sepolture infantili sia di Termoli che del Sannio interno, databili ugualmente al VI
secolo a.C., è la frantumazione rituale dei vasi presumibilmente collegati proprio alla libagione. A Termoli si riscontra la pratica, ampiamente diffusa tra i
popoli del Mediterraneo, della frantumazione dell’ansa della brocca, mentre
ancora più significativa è, in sepolture di V-IV secolo a.C. rinvenute a Guglionesi
e a Gildone, la completa frantumazione della coppa o dello skyphos, vasi per
bere il vino utilizzato nel rito. La frantumazione rituale indica, da un lato, la separazione tra il defunto e il mondo dei vivi (ancor più drammatica nel caso
della morte prematura dei bambini), dall’altro la consacrazione al defunto del
vaso che, distrutto, non potrà più essere adoperato da alcuno.
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Il dono di Dioniso e il sacrificio:
il vino nel culto
Nel periodo di massimo sviluppo dei santuari italici, tra il IV e la fine del II
secolo a.C., la decorazione architettonica dei templi ripropone immagini legate
a Dioniso e al suo corteggio, quali satiri e menadi (Pietrabbondante), girali di
vite e di edera (Gildone). D’altra parte, l’uso del vino in funzione rituale, durante i sacrifici e nelle libagioni, è testimoniato dal rinvenimento di anfore vinarie,
databili tra il III e il II secolo a.C., spesso provenienti dalla Grecia e dal Mediterraneo orientale, da Rodi e da Chio, che è costante in tutti i santuari pentri e
frentani: Pietrabbondante, Vastogirardi, Campochiaro, Larino.
Una chiara testimonianza di riti nei quali il vino occupava un ruolo fondamentale è offerta dal ritrovamento, nel santuario di Ercole a Campochiaro, di una
fossa nella quale era stato seppellito ritualmente nel corso del III secolo a.C. il
vasellame utilizzato per un convito sacro (brocche, coppe e skyphoi a vernice
nera). L’importanza del vino nell’ambito delle pratiche religiose dei santuari è
confermata anche dalla presenza, nei luoghi di culto sannitici, come a San
Pietro di Cantoni a Sepino, di vasellame di pregio, quali un boccale e una situla
in bronzo, importati dall’Etruria e databili al IV secolo a.C.
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L’ebbrezza e la forza
Ercole e i culti misterici
Nel mondo greco, l’associazione tra Dioniso ed Eracle, l’eroe per eccellenza, richiama la funzione del vino durante il simposio: l’eroe, ospite del banchetto del
dio, festeggia, con il vino e la musica, il successo della sua prima fatica.
Le due divinità sono, per certi aspetti, simili e accomunate da un analogo destino: nati da Zeus e da una madre mortale, partecipano al tempo stesso ad una
natura divina ed umana, passano la loro infanzia in luoghi selvaggi, assolvono
una funzione civilizzatrice ed etica. Entrambi sono protagonisti di imprese vittoriose (le saghe per Dioniso e le fatiche per Ercole) e di un’esperienza di morte
e rinascita che li lega al mondo dell’oltretomba. Eracle inoltre viene introdotto
nel corteo dionisiaco e fin dal VI secolo a.C. è raffigurato sulla ceramica greca
accanto a Dioniso, talvolta circondato da Sileni.
Dioniso ed Eracle sono inoltre iniziati ai misteri eleusini, incentrati sul ratto, da
parte di Ade signore degli Inferi, di Persefone, figlia di Demetra, dea preposta
ai cicli cerealicoli. Demetra, disperata per aver perduto la figlia, blocca la rinascita della natura, ma Zeus intercede presso Ade consentendo a Persefone di risalire dall’oltretomba, ristabilendo così il ciclo cerealicolo. I misteri, che si svolgevano nell’oscurità della notte illuminata da fiaccole ardenti, erano imperniati sul ritorno della fanciulla dal regno dei morti e quindi sul ripristino
dell’ordine cosmico. Agli iniziati venivano promesse ricchezza, fecondità e rinascita a nuova vita, simboleggiate dal chicco di grano che si trasforma in superba
spiga in un ciclo di abbondanza sempre rinnovata.
La civiltà sannitica, fondata su un’economia agricola e pastorale, ha recepito i
culti misterici di Eleusi, attraverso la mediazione della Magna Grecia, e li ha
fatti propri in uno dei santuari più noti, quello di Fonte del Romito presso Capracotta, posto nel cuore del territorio dei Sanniti pentri. I riti sono descritti
nella tavola di bronzo del III secolo a.C., conservata al British Museum, incisa in
lingua sannitica sulle due facce. Lo stesso Ercole, divinità nazionale del Sannio
che compare costantemente nei diversi luoghi di culto, ne è stato partecipe: un
esplicito riferimento a tale iniziazione si può leggere nella statuetta di Ercole,
dal santuario di Pietrabbondante, che esibisce sulla testa, oltre ad una corona
di pampini, ben tre coppie di falli, un chiaro riferimento alla sessualità, alla fertilità e alla rinascita, valori che connotano anche il culto di Dioniso.
Dioniso e i santuari del Sannio
La diffusione dei culti dionisiaci da ambienti della Magna Grecia interessò le regioni appenniniche e adriatiche del Sannio, come gran parte del mondo italico,
etrusco e romano. Testimonianze archeologiche e caratteri dell’edilizia sacra
documentano infatti forme di religiosità pubblica e riti misterici di carattere
privato legati al culto di Dioniso (Dionysos) anche presso i Samnites Pentri ed i
Frentani.
La più evidente manifestazione architettonica di questa inclinazione religiosa
si trova nelle raffigurazione ornamentali, con menadi e sileni, delle terrecotte
che rivestivano le trabeazioni lignee del grande tempio di Pietrabbondante.
Costruito tra la fine del II e gli inizi del I secolo a. C. dietro la cavea del teatro,
il tempio forma con questo un unico complesso monumentale destinato a funzioni di natura sacrale e politica. I centri della propagazione spirituale dionisiaca e delle relative pratiche di iniziazione sono da individuare sicuramente nelle
città sannitiche della Campania, soprattutto Capua, Cuma e Pompei, ove
l’adesione al culto di Dioniso ed alle sue varianti orfiche si era precocemente affermata. A Pompei era riconosciuto dalla storiografia romana un ruolo rilevante per l’introduzione a Roma di questa divinità, che vi si era affermata con il
nome di Bacco (Bacchus) ed era stata assimilata a Libero (Liber Pater). A Capua
si trovavano i modelli formali delle decorazioni architettoniche del tempio di
Pietrabbondante, e tra questi certamente anche i motivi raffigurati sulle terrecotte architettoniche. L’adozione della simbologia dionisiaca nell’apparato ornamentale del tempio è coerente con le rappresentazioni teatrali di carattere
satiresco che dovevano avere luogo nel santuario in occasione di ricorrenze religiose e di adunanze politiche.
Dioniso e il santuario di Pietrabbondante
A Pietrabbondante vi erano anche manifestazioni misteriche di culto privato:
per la fase italica sono documentate da un bronzetto di Ercole accuratamente
nascosto dietro un deposito di tegole del tempio smontate e accatastate in
epoca augustea in un ambiente del portico settentrionale; per la fase di occupazione della ‘domus publica’ del santuario da parte della famiglia romana dei
Socelli (I sec. a.C.-II sec. d.C.) il culto di Dioniso Sabazio è documentato da una
mano di bronzo ornata da simboli misterici con tre dita distese nell’atto della
benedizione.
Il culto dionisiaco, nella versione latina di Libero, si era affermato a Roma soprattutto come culto pubblico plebeo, con un tempio sull’Aventino e con i festeggiamenti dei ‘Liberalia’, il 17 marzo. Il rapporto della divinità con
l’ambiente plebeo è ora documentato anche nel mondo italico, e in particolare
in quello sannitico. Un’iscrizione osca rinvenuta nel santuario frentano di Giove
Libero a Punta Penna, presso Vasto (Histonium), richiama un dono posto da un
tribuno della plebe. Alle manifestazioni religiose di carattere pubblico si affiancarono anche riti orgiastici privati, i ‘bacchanalia’, oggetto di un intervento repressivo da parte del Senato di Roma nell’anno 186 a.C., di cui venne sollecitata
l’applicazione anche presso i ‘socii’ italici. Il provvedimento non ebbe durevole
successo, vista la fortuna delle pratiche misteriche fino in epoca imperiale.
Molti aspetti del culto e del suo apparato di tradizioni mitiche confluirono gradualmente nella religiosità cristiana, in cui sopravvivono, come ad esempio il
‘dies natalis’ del dio nel 25 dicembre. Un’eco di pratiche rituali bacchiche si riscontra nel Molise nella tradizionale processione con le torce nella vigilia di
Natale, la ‘ndocciata’ di Agnone, Pietrabbondante e di altre località della regione: le donne che volevano essere iniziate ai culti misterici praticavano
l’oreibasía, ossia marciavano come menadi in processione orgiastica verso i
monti recando torce e tamburelli per incontrare il dio.
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Tra banchetto e simposio
Il banchetto, inteso come momento di aggregazione del gruppo, nelle sue
componenti (il mangiare e il bere insieme) è un elemento che caratterizza la
cultura greca già nell’età del bronzo, essendo documentato ampiamente dalle
fonti letterarie fin dai poemi omerici, e da quelle archeologiche.
Nel mondo etrusco la pratica del banchetto è evidente nelle sepolture delle
élites di epoca orientalizzante (VII secolo a.C.), con l’esibizione di grandiosi calderoni per le carni, vasi preziosi importati dalla Grecia, da Cipro, dalla Siria e
dall’Egitto, utilizzati per trasportare e mescolare il vino con l’acqua, per libare
e per bere, contenitori per ungersi con olii ed essenze profumate. Più tardi, nel
corso del VI secolo a.C. il banchetto sarà anche raffigurato sui fregi che decoravano i palazzi etruschi, quale simbolo di distinzione sociale, spesso associato ad
altre occupazioni tipiche del cerimoniale aristocratico, quali danze e giochi.
Dalla Magna Grecia e dall’Etruria questo rituale si diffonde presso le aristocrazie italiche. Nel Sannio frentano (Guglionesi, Termoli e Larino), da sepolture di
V secolo a.C., specialmente da quelle di rango, provengono numerosi contenitori per la preparazione del vino destinato ai banchetti. Si tratta, nel caso specifico, di crateri e di stamnoi, nei quali il vino veniva preparato, mescolato con
acqua ed aromatizzato con essenze, di contenitori (oinochoai) per attingere da
essi il prezioso liquido e versarlo nelle coppe, infine delle coppe stesse (kylikes,
kantharoi, skyphoi…). Oltre a ciò, viene anche enfatizzato il consumo di carni,
che erano bollite in calderoni di bronzo oppure arrostite con spiedi. Il cerimoniale del banchetto serviva a ristabilire l’“ordine” nella comunità turbata dalla
morte di uno dei suoi componenti, oltre a placare gli dei dell’oltretomba per
garantire al defunto un agevole transito verso l’Aldilà.
Più tardi, soprattutto nei corredi di II-I secolo a.C., il consueto servizio da vino
viene sostituito dalla lagynos, vaso dal corpo globulare schiacciato e dal collo
stretto, riconosciuto quale vaso rituale delle grandi feste dionisiache interclassiste, le Lagynophoria (feste in cui “si portava la lagynos”) istituite da Tolomeo
IV d’Egitto alla fine del III secolo a.C. La diffusione di questo vaso in Italia è la
dimostrazione del prestigio goduto dal dionisismo, da considerare alla base di
quei fenomeni eversivi come la rivolta dei Bacchanalia scoppiata nel 185 a.C.
fra i pastores della vicina Apulia.
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Dioniso e il teatro
Il teatro è notoriamente dedicato a Dioniso. All’origine della forma spettacolare, dell’idea stessa di rappresentazione, c’è Dioniso, la sua sofferenza e il suo
riso, la sua morte e la sua rinascita, dalla sfrenatezza dei salti e dei balli alla
danza, tutto il teatro ricorda il dio e il suo corteggio, il suo mito e i suoi riti. Già
in Grecia, i tre generi di rappresentazione teatrale (tragedia, commedia e
dramma satiresco) venivano proposti durante le feste del dio, le Dionisie
Urbane, celebrate nella seconda metà di marzo.
Anche nel mondo italico e romano è ben viva questa connessione. Ogni volta
che le decorazioni propongono temi connessi all’ambito teatrale, come le maschere, queste costituiscono un diretto riferimento al mondo dionisiaco. Con
ancora maggiore evidenza, gli apparati decorativi degli edifici teatrali sviluppano costantemente soggetti legati a Dioniso, alla sua complessa realtà, al suo
corteggio.
Sono ben noti gli edifici teatrali presenti nell’area sannitica corrispondente
all’attuale Molise. Il teatro di Pietrabbondante, costruito nel II secolo a.C., inserito scenograficamente nel santuario dei Sanniti pentri, riprende modelli architettonici delle grandi città greche ellenistiche, in particolare dell’Asia Minore
(attuale Turchia), diffusi in Italia centro-meridionale tra II e I secolo a.C. Pur rispettando la forma architettonica teatrale, l’edificio svolgeva anche una funzione di tipo politico: vi si è infatti riconosciuta una sede per le riunioni del
senato sannitico.
I teatri di Sepino e di Venafro, entrambi di età augustea, il primo con cavea costruita su sostruzioni e il secondo con cavea poggiata sul pendio naturale, sono
inseriti pienamente nell’impianto urbano e mostrano con maggiore evidenza
temi dionisiaci nel loro apparato decorativo.
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Produzione e circolazione del vino
Le prime testimonianze della presenza della vite in Molise risalgono alla tarda
Età del Bronzo: nel villaggio di Campomarino si sono rinvenuti semi molto probabilmente appartenenti alla vitis vinifera. Successivamente, tra il VII ed il VI
secolo a.C., semi di uva si trovano a Guglionesi, anche se con qualche margine
di dubbio sulla loro appartenenza alla specie coltivata.
Il vino, bevanda simbolo di status, era consumato dalle élites sannitiche a partire dall’avanzato corso del VI secolo a.C., come dimostra la presenza, nei corredi
più ricchi, di specifici vasi per contenerlo e per berlo.
Successivamente, tra IV e II secolo a.C., il consumo del vino si diffonde in modo
più capillare tra i diversi strati sociali delle comunità sannitiche. Ciò è evidente
sia dal rinvenimento di vasellame fine da mensa negli abitati e nei santuari, sia
dall’importazione di anfore vinarie prevalentemente dalla Grecia.
Nell’ambito di quei fenomeni di trasformazione dell’assetto territoriale che si
verificano nel Sannio nel periodo successivo alle guerre sannitiche (che ebbero
luogo tra la seconda metà del IV e i primi decenni del III secolo a.C.), le fattorie
e le villae costituiscono un elemento cardine delle nuove forme di occupazione
e di utilizzazione della campagna, con la diffusione delle colture arboree della
vite e dell’ulivo. Nel corso del III-II secolo a.C. si sviluppano infatti fattorie di
modeste dimensioni, come quella di Pesco Morelli di Cercemaggiore con ambienti (vasca e grandi contenitori per derrate-dolia) destinati alla lavorazione e
conservazione dei prodotti agricoli e in rapporto a proprietà terriere di non
grande estensione. Di esse abbiamo un’efficacissima descrizione in Catone, che
aveva possedimenti nel territorio di Venafrum e che elenca i requisiti indispensabili allo sviluppo della villa: la posizione in relazione alle strade di ampia frequentazione, un clima favorevole, una buona esposizione, terreno fertile e ben
drenato. Nel corso del I secolo a.C. si definiscono estese proprietà fondiarie, appartenenti a quelle famiglie che erano riuscite a conservare beni e status dopo
la guerra sociale (90-87 a.C.), con grandi villae rusticae, vere e proprie aziende
agricole organizzate per la produzione di vino e di olio destinati alla commercializzazione su larga scala. Un esempio è la villa di Santa Maria del Canneto a
Roccavivara, con torchi e grandi dolia, che nel corso del lungo periodo della sua
esistenza (dal I a.C. al III-IV secolo d.C.) conobbe mutamenti e ristrutturazioni,
alternando la produzione di vino a quella di olio. Vini prodotti sui colli sannitici, nelle aziende agricole in cui i maggiorenti dei municipi investono cospicue
risorse per le possibilità di lauti guadagni, prendono così le strade dei grandi
mercati urbani.