La rivoluzione commerciale (parte II)

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La rivoluzione commerciale (parte II)
Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al
Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.laterza.it (fare storia, pp. 18 e 28-30), da www.lombardiabeniculturali.it e
da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XI Lezione: I Comuni. Lo scontro papato impero
La rivoluzione commerciale (parte II)
Alcuni storici considerano il complesso di mutamenti che occorrono tra X e XIII secolo la
maggiore rivoluzione di cui la storia europea sia stata teatro, dopo quella neolitica e prima di
quella industriale; una rivoluzione che è all'origine del predominio che l'Europa eserciterà sul
mondo in età moderna e nella quale le attività commerciali, strettamente connesse alle città,
giocano un ruolo strategico.
Nei secoli che vanno dal X al XIII, si registrano in Europa un forte incremento demografico e una
forte crescita della produzione agricola cui si accompagna una crescente domanda di merci di ogni
genere che porta ad una straordinaria espansione dell'economia di scambio, di cui le città sono le
protagoniste, ma il cui presupposto sta nelle campagne o, meglio, nei progressi dell'agricoltura. Le
trasformazioni economiche, ma anche sociali e culturali, connesse ai commerci e alle città
trasformano così profondamente l'Europa da aver meritato la definizione di “rivoluzione
commerciale” e di “rivoluzione urbana”.
Le attività commerciali crescono per volume d'affari e raggio d'azione sviluppandosi su tre piani. A
livello locale, tra città e campagna, tra artigiani e contadini, si incrementano gli scambi dei prodotti
dell'agricoltura e dell'artigianato locali. A livello interregionale, nelle fiere che periodicamente
mettono in comunicazione aree distanti, si scambiano prodotti di maggior valore quali il grano, il
sale, il vino, la lana, il legname da costruzione, le pellicce, in grado di coprire i costi del commercio
a media distanza. A livello internazionale poi, si incrementano i rapporti, mai del tutto interrotti,
con il Medio e l'Estremo Oriente, dove arrivano i metalli, i panni e le tele, il legname da costruzione
e i prodotti agricoli europei e dai quali provengono prodotti di lusso, come la seta, le pietre preziose
e le spezie (utilizzate in cucina, nella farmacopea, in tintoria e in profumeria), ma anche zucchero,
cotone o allume (usato nella tintura dei tessuti). Il commercio a media e a lunga distanza è
appannaggio dei grandi mercanti perché richiede investimenti cospicui per armare le navi o
predisporre le carovane di animali e uomini e organizzare il viaggio che, sia per terra sia per mare,
deve affrontare grandi rischi e difficoltà (pirati, briganti, tasse e pedaggi di ogni genere, burrasche,
cattivo stato delle strade...), ma è foriero anche di grandi guadagni.
Se l'espansione economica riguarda, nei secoli considerati, tutta l'Europa, non tutte le sue regioni
conoscono un eguale sviluppo commerciale. Le aree trainanti sono quelle dell'Italia e quella delle
Fiandre, avvantaggiate entrambe dalle rispettive posizioni geografiche: la prima, ponte tra l'Europa,
il Nord Africa e l'Oriente, è il perno del sistema commerciale dell'Europa meridionale; la seconda,
crocevia tra Russia, Scandinavia, Mare del Nord, Mar Baltico, Inghilterra e Francia del Nord, è il
perno di quello dell'Europa del Nord.
I due sistemi commerciali sono collegati fra loro via terra, così che dall'Italia alla Fiandra e al
Baltico si costituisce, dalla fine del XIII secolo, un'economia-mondo europea: le merci provenienti
dal Mediterraneo, superate le Alpi, si scambiano con quelle provenienti dal Nord nei numerosi
circuiti delle fiere, luoghi d’incontro dei mercanti di tutta Europa. Fra queste, fino a tutto il
Duecento, primeggiano quelle della Champagne e delle Fiandre, circa a metà strada fra le due aree.
Il ceto mercantile
Le crescenti opportunità mercantili che derivano dall'espansione in corso scandiscono la formazione
e la crescita del ceto dei mercanti, assai diversificato al suo interno per ricchezza e potere. Nel XIII
secolo, considerato l'apogeo dell'Occidente medioevale, nuovi gruppi di grandi mercanti, attivi nel
mercato europeo e intercontinentale, sono presenti in tutta Europa, non solo in Italia e nelle Fiandre,
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dove hanno raggiunto un'eccezionale floridezza, ma anche in Russia o nell'area tedesca, come
mostrano le fortune dei mercanti anseatici che, insieme agli italiani, dominano ormai il mondo dei
commerci. L'importanza crescente dei mercanti porta la Chiesa, che fino ad allora aveva nettamente
condannato ogni forma di speculazione o di intermediazione legata al guadagno o di traffico di beni
prodotti da altri, a giustificare a poco a poco i loro profitti.
Capitale e denaro
L'espandersi del commercio affina i metodi per aumentare il capitale e trasferire il denaro e
trasforma la figura del mercante. L'uso, ad esempio, del contratto di cambio (che permette a chi
commercia all'estero di spostarsi senza portare con sé denaro liquido), la nascita delle compagnie
commerciali (ad esempio, quelle fiorentine dei Bardi e dei Peruzzi), con propri rappresentanti stabili
(i fattori) sulle maggiori piazze o la necessità di cambiare molte monete di diverso valore fanno sì
che il tradizionale mercante itinerante vada scomparendo, sostituito con forza a partire dal Duecento
dall'uomo d'affari sedentario, insieme mercante, banchiere e cambiatore, che cura il finanziamento
di iniziative imprenditoriali e organizza il commercio dalla città dove vive per mezzo di agenti.
Pionieri di questa trasformazione sono i mercanti italiani, conosciuti in tutta Europa con il
medesimo nome di “Lombardi”, che praticano l'attività bancaria come estensione di quella
mercantile, commerciano ed effettuano prestiti su tutti i mercati. Tra gli italiani predominano i
fiorentini, che dominano il mercato come imprenditori, e sul mare i veneziani e i genovesi, che coi
loro traffici collegano l'Europa all'Asia. Non a caso sono veneziani i Polo, che percorrono l'Asia dal
1260 al 1295, ed è genovese Benedetto Zaccaria, che alla fine del Duecento fa affari nei tre
continenti conosciuti.
La cultura del mercante
Intorno al commercio non si sviluppano solo le tecniche d'affari, che trasformano il risparmio in
investimento cambiando sostanzialmente la cultura economica, ma prende forza anche la ‘cultura
intellettuale’ del mercante (scrittura, calcolo, geografia, lingue vive) e fiorisce il mecenatismo,
spesso praticato dai mercanti dal XIII secolo, che finanziano la costruzione di chiese o di opere di
misericordia come i primi ospedali urbani (ad esempio, Santa Maria della Scala a Siena) nonché gli
artisti che le abbelliscono.
Cresce anche la circolazione monetaria e si realizza il conio di nuove monete, prima d'argento e poi
d'oro (fra cui il fiorino di Firenze, il cui ruolo internazionale è per alcuni secoli assimilabile a quello
del dollaro nel Novecento); si diffondono innovazioni tecnologiche e pratiche (bussola magnetica,
redazione di carte nautiche, astrolabio, clessidra, portolani, manuali di mercatura) e nuove tecniche
di costruzione delle navi (per renderle più grandi e gestibili) che rivoluzionano la navigazione. Si
introducono importanti innovazioni nel commercio con l'introduzione di contratti di compagnia, di
contratti di assicurazione, l’invenzione della partita doppia, degli assegni, delle cambiali, dei conti
corrente, delle lettere di corrispondenza. Alte innovazioni sono la discriminazione dei noli, cioè
somme di denaro (diversificate secondo la merce in questione) da pagare ai mercanti per trasportare
le merci. Per merci meno costose venivano fatti pagare noli più piccoli e viceversa.
Si verifica infine la progressiva scomparsa, nel commercio via terra, della figura del mercante
caratteristica dell'Alto Medioevo che si spostava dal mercato di una corte ad un altro, alla testa di
una carovana che trasportava le merci più varie. Al suo posto, si va affermando la figura di un
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mercante (residente) che fa parte di una Compagnia commerciale avente sede stabile in una grande
città Europea
Il rinnovamento del commercio esercita, dunque, un ruolo strategico di promozione nello sviluppo
generale. Certo l'agricoltura e la terra rimangono la base dell'economia e del potere: non a caso i
mercanti non si oppongono sistematicamente ai valori della società nobiliare, anzi spesso cercano di
assimilarsi ai nobili, vivendo come loro e comprando terre. In ogni caso, alla guida dello
straordinario sviluppo di quei secoli sta il commercio, soprattutto internazionale, e alcuni settori a
esso connessi: le manifatture tessili (i tessuti sono la merce d'esportazione per eccellenza), il settore
delle costruzioni edili (legato allo sviluppo delle città, punti nodali delle reti commerciali), il settore
finanziario (anima del commercio).
L’Europa dei comuni
Con questo termine si indicano forme di autogoverno delle città, comparse in Germania, Inghilterra,
Francia, Fiandra e soprattutto in Italia. Queste entità nacquero come associazioni private tra
cittadini che stipulavano giuramenti (coniurationes) per affermare le loro rivendicazioni nei
confronti dei signori (laici ed ecclesiastici), e poi si svilupparono fino a ottenere il riconoscimento
da parte dell’autorità superiore: il signore stesso, il re, l’imperatore, il papa. Il riconoscimento
ufficiale poteva avvenire pacificamente, oppure essere l’esito di rivolte armate.
L’origine dei comuni fu diversa nelle varie regioni europee. C’è tuttavia un elemento ricorrente: il
comune si afferma sempre in contrapposizione alle vecchie autorità feudali, come espressione di
forze sociali emergenti. Queste forze sociali erano i mercanti, gli artigiani, i liberi proprietari terrieri
residenti in città e i gruppi familiari tra i quali venivano tradizionalmente reclutati gli ufficiali e gli
addetti alle attività giuridiche e giudiziarie.
Il comune si formò solo tardivamente e debolmente (o non si formò affatto) nelle regioni
economicamente più depresse, lontane dalle grandi correnti commerciali, e dove i poteri feudali
erano più solidi. È il caso, ad esempio, di alcune città tedesche (Magonza, Ratisbona, Worms)
rimaste a lungo soggette ai poteri dei vescovi o dei principi e che, pur sviluppando forme
assembleari, non ottennero mai l’indipendenza politica.
In linea generale si può affermare che l’autonomia del comune era inversamente proporzionale alla
forza dei poteri feudali. Le istituzioni principali del governo comunale erano i consigli, ai quali i
cittadini partecipavano in misura più o meno ristretta. I consigli eleggevano come loro
rappresentanti i magistrati, che erano chiamati in vario modo: in molti comuni italiani prendevano il
nome di consoli, con riferimento esplicito ai magistrati dell’antica Roma, e restavano in carica per
un tempo breve (dai sei mesi a un anno), per evitare che si formassero piccoli potentati e per
consentire la rotazione tra tutti gli esponenti delle famiglie più ricche e potenti della città. Tanto nel
consolato quanto nei consigli avevano la preponderanza gruppi di individui dotati di beni, prestigio
e cultura: membri di famiglie di origine feudale insignite di titoli cavallereschi, oppure mercanti, o
ancora esperti in legge.
Nell’organizzazione comunale i cittadini di pieno diritto erano una minoranza rispetto all’insieme
della popolazione. Non ne facevano parte, oltre alle donne, la massa dei servi delle famiglie, dei
lavoratori giornalieri, dei forestieri immigrati da poco, dei disoccupati che vivevano di espedienti;
non ne facevano nemmeno parte le minoranze religiose, come gli ebrei e i musulmani.
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I comuni italiani
L’Italia centro-settentrionale, dove le antiche tradizioni di vita urbana si erano mantenute più a
lungo, fu la regione d’Europa dove le forme di governo comunali si manifestarono prima e in modo
più deciso. Ciò fu possibile grazie alla presenza di vescovi intraprendenti, che si appropriarono dei
poteri pubblici all’interno delle città approfittando della frammentazione del territorio e del potere
politico (cominciata tra il IX e il X secolo, durante la dissoluzione dell’Impero carolingio). I
vescovi erano coadiuvati, nella gestione delle funzioni pubbliche, dalle comunità cittadine,
composte da individui eterogenei da un punto di vista sociale – mercanti, artigiani, piccoli
proprietari terrieri, giudici, notai – che, tra le altre cose, partecipavano anche all’elezione del
proprio vescovo.
Nell’XI secolo, tuttavia, sia il potere imperiale, alle prese con la lotta per le investiture sia l’autorità
papale, alle prese con i tentativi di riforma della Chiesa imposero vescovi di loro nomina, estranei
dunque alla realtà locale. La reazione fu immediata: all’interno delle città si formarono due opposti
schieramenti politici, costituiti, rispettivamente, l’uno dal ceto dominante, l’altro dagli esclusi dalla
partecipazione al governo. Schierarsi dalla parte del papa piuttosto che da quella dell’imperatore
non era di per sé rilevante: l’importante era schierarsi o opporsi a chiunque mettesse in discussione
gli equilibri tradizionali.
Negli ultimi decenni dell’XI secolo buona parte delle città dell’Italia centro-settentrionale fu dunque
travagliata da violente lotte intestine. Fu proprio da questa situazione di conflitto che emerse quella
volontà di pacificazione sociale da cui prese avvio l’ordinamento comunale. Firenze, Milano,
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Genova, Pisa, Venezia e tantissimi altri centri, talvolta di dimensioni anche molto piccole, si
contraddistinsero sin dal loro sorgere per la vivacità politica, che arricchiva e complicava la
situazione della penisola.
Ma una distinzione per grandi linee deve farsi tra la parte centro-settentrionale del nostro paese e la
parte meridionale: nel Sud, come sappiamo, la concentrazione dei comuni era piuttosto bassa a
causa della presenza di una monarchia accentratrice come quella normanna, oltre che di una forte
aristocrazia locale che manteneva saldamente le proprie prerogative; nel Nord, invece, la
concentrazione era molto alta e i comuni dipendevano teoricamente dall’imperatore, perennemente
diviso tra Italia e Germania e spesso lontano e assente; inoltre, la volontà di autonomia dei comuni
settentrionali era sostenuta e incoraggiata dal papato, che vedeva in loro un mezzo per indebolire
ulteriormente la presenza dell’imperatore nella penisola.
Rispetto, poi, alle esperienze comunali transalpine, i comuni italiani centro-settentrionali presentano
alcune peculiarità loro proprie. Innanzitutto, diversamente da quanto accadeva, per esempio, in
Francia e in Germania, essi non restarono rigorosamente legati alla cerchia delle mura cittadine,
isolati completamente dalle campagne dominate dai signori feudali. E questo anche perché fin
dall’età tardoantica e poi altomedievale, nonostante la decadenza urbana, il rapporto di
subordinazione amministrativa delle campagne alle città si era mantenuto grazie soprattutto alla
persistenza dell’autorità temporale dei vescovi.
Nelle città italiane, inoltre, di norma fu cospicuo l’insediamento di piccoli e grandi feudatari che,
spesso, furono protagonisti dell’ascesa delle istituzioni comunali mantenendo il controllo di vaste
porzioni del territorio circostante: di qui la tendenza dei comuni italiani a estendere la propria
autorità anche al di fuori delle mura, sia sulle comunità confinanti sia nei territori dei signori feudali
non inurbati. Si formava così uno spazio di irradiazione del potere politico del comune che viene
definito contado. Questa specifica situazione propria dell’Italia avrà alcune significative
conseguenze. In primo luogo, i comuni italiani, per quanto di piccole dimensioni, assunsero quasi
subito la fisionomia di Stati territoriali con forti tendenze espansionistiche: ciò contribuì a
disgregare ulteriormente la realtà politica italiana, alimentando un municipalismo esasperato,
fondato sulla difesa delle autonomie amministrative locali. Infine, gli abitanti del contado
assoggettato non godevano degli stessi diritti dei residenti in città e subivano, da parte dei comuni,
un prelievo fiscale non meno esoso di quello imposto dai signori feudali: se era vero il detto «l’aria
di città rende liberi», lo stesso non poteva certo dirsi per coloro che continuavano a vivere in
campagna.
Date di nascita di alcuni comuni italiani
Milano
1040-1045
Lucca
dopo il 1115
Pisa
1085
Mantova
dopo il 1115
Asti
1095
Bologna
1116
Cremona
1098
Firenze
1125
Bergamo
1098
Siena
1125
Genova
1099
Piacenza
1126
Pavia
1105
Padova
1137
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Verona
1137
Vicenza
1147
Forlì
1138
Belluno
inizio 1200
Lo sviluppo dei Comuni: dal periodo consolare a quello podestarile
In generale, la vita politica comunale attraversò quasi ovunque fasi analoghe. La prima forma di
governo fu quella consolare: il potere veniva affidato per un anno a magistrati scelti dalla comunità,
che sul modello romano erano chiamati consoli e il cui numero variava da due a venti a seconda dei
periodi e dei Comuni. I primi consoli sono testimoniati per la città di Pisa nel 1085.
In un primo tempo, questi magistrati appartenevano alla nobiltà e avevano potere esecutivo,
occupandosi del governo della città e del comando dell'esercito in tempo di guerra. Tuttavia la
fioritura dei commerci e dell'artigianato portò rapidamente anche i ricchi mercanti e artigiani ai
vertici del potere comunale. Ciò avvenne nel corso del XII secolo, quando i ceti economicamente
emergenti pretesero una più ampia partecipazione politica. Il mutamento fu non di rado
contrassegnato da aspri conflitti sociali: i nobili erano restii a cedere il potere nelle mani dei nuovi
ricchi, ma il processo era inevitabile, perché la ricchezza e il potere di un Comune passavano
necessariamente per le mani di mercanti e artigiani, che accumulavano ricchezze con la loro
intraprendenza e i cui interessi, ovviamente, non coincidevano con quelli della nobiltà, formata da
proprietari terrieri.
La lotta fra nobiltà e borghesia commerciale costituì una delle dinamiche storiche più importanti
nella turbolenta vita comunale. In seguito a questi contrasti, la figura politica del podestà si sostituì
o si affiancò a quella del consiglio dei consoli, che governava i Comuni medievali a partire dalla
fine del XII secolo. Tale carica, contrariamente a quella di console, poteva essere ricoperta da una
persona non appartenente alla città che andava a governare (per questo era detto anche podestà
forestiero), in modo da evitare coinvolgimenti personali nelle controversie cittadine e garantire
l'imparzialità nell'applicazione delle leggi. Il podestà era eletto dalla maggiore assemblea del
Comune (il Consiglio generale) e durava in carica, di solito, sei mesi o un anno. Doveva giurare
fedeltà agli statuti comunali, dai quali era vincolato, e alla fine del mandato il suo operato era
soggetto al controllo da parte di un collegio di sindaci.
Il podestà era, dunque, un magistrato generalmente al di sopra delle parti, una specie di mediatore, a
cui era affidato il potere esecutivo, di polizia e giudiziario, divenendo di fatto il più importante
strumento di applicazione e di controllo delle leggi, anche amministrative. Il podestà non aveva,
invece, poteri legislativi, né il comando delle milizie comunali, che era affidato al Capitano del
Popolo.
Con il passare degli anni, la carica di podestà divenne un vero e proprio mestiere esercitato da
professionisti, che cambiavano spesso sede di lavoro e ricevevano un regolare stipendio. Questo
continuo scambio di persone e di esperienze contribuì a fare in modo che le leggi e la loro
applicazione tendessero a diventare omogenee in città anche distanti tra loro, ma nelle quali
avevano governato gli stessi podestà.
Nonostante lo sforzo compiuto per sanare i contrasti, la fase podestarile del Comune fu
contraddistinta da dure lotte sociali. Nel corso del secolo XII, in alcuni Comuni prese il sopravvento
la fazione popolare, controllata dai ceti mercantili e artigiani. La ricerca di maggiore stabilità aveva
infatti portato la borghesia cittadina ad affiancare al podestà, sostenuto dal ceto più abbiente, una
nuova figura, quella del Capitano del Popolo, un magistrato, spesso forestiero, che restava in carica
per sei mesi o un anno, ma che finì comunque per rappresentare gli interessi delle arti maggiori.
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L'affermazione del ceto mercantile nel Comune medievale
La lotta fra nobiltà e borghesia commerciale si risolse generalmente con l'affermazione di una
nuova classe sociale, nata dalla fusione dei ceti mercantili più agiati con le famiglie di nobiltà
feudale. Ad accrescere il peso politico della classe mercantile e imprenditoriale contribuirono anche
le "arti", vale a dire le corporazioni che raggruppavano in un'associazione tutti coloro (proprietari,
salariati o apprendisti), che erano impegnati in un medesimo settore produttivo. Sostanzialmente, le
arti organizzavano il mondo del lavoro all'interno del Comune, e non era possibile a nessuno
intraprendere un'attività produttiva di qualsiasi tipo senza essere affiliato a un'arte, la quale aveva
regolamenti e gerarchie interne molto rigidi. Le arti divennero importanti organi di pressione
politica, fino a costituire corporazioni autonome.
Il Comune medievale, quindi, non va inteso come una struttura politica unitaria (com'erano le cittàStato antiche), ma piuttosto come un conglomerato di poteri minori (nobiltà, clero, membri delle
arti, ecc.), ciascuno geloso della sua autonomia e dei suoi privilegi. Benché quindi la maggioranza
dei cittadini godesse dei diritti politici, questi erano mediati attraverso organismi e corporazioni, che
limitavano i pieni diritti individuali: non si può quindi parlare per i Comuni medievali di
"democrazia", quanto meno nel senso che questa parola aveva per le antiche città-Stato, come
Atene.
Fra il XIII e il XIV secolo si affermò la figura del mercante-banchiere, detentore del capitale
mobile, che con il suo dinamismo ruppe le vecchie barriere del feudalesimo. Egli era padrone di
ingenti capitali, che poteva associare a quelli di altri mercanti. Teneva i diari giornalieri (quaderni di
ricordanze) e fece sorgere scuole professionali per i giovani. Si affermò il diritto commerciale e con
esso furono istituiti i tribunali mercantili che avevano il compito di giudicare rapidamente le
vertenze legate all'attività commerciale. Il mercante e il ricco banchiere tendevano poi a investire il
capitale nell'acquisto di terre, a cui era anche legato l'acquisto di titoli nobiliari: si trattò di una
nuova nobiltà, animata da un nuovo spirito affaristico.
Un caso esemplare: Milano
L'ascesa degli arcivescovi di Milano
Le origini del comune di Milano sono da ricercarsi nel lento e progressivo sviluppo delle forme di
governo degli arcivescovi i quali, pur non avendo mai ottenuto dall'imperatore i diritti comitali, sin
dalla metà del X secolo godevano di una autorità pari a quella dei più potenti principi della penisola.
Fu proprio la Chiesa metropolitana a riaffermare quel ruolo di centro di potere politico e
amministrativo che la città ambrosiana aveva rappresentato fino all'epoca longobarda e a porre le
premesse della sua successiva grandezza.
Nell'anno 979, con l'episcopato di Landolfo Carcano, forte della franchigia della sua chiesa,
dell'influenza e dei favori imperiali di cui la sua famiglia godeva, l'arcivescovo divenne di fatto la
prima autorità di Milano; un'autorità che non si limitava ai confini della diocesi ambrosiana ma che
si estendeva sui territori di numerosi comitati, i cui conti, perdendo gradatamente ogni attiva
ingerenza nell'amministrazione della cosa pubblica, consentirono all'arcivescovo di Milano di
affermarsi come unico signore del territorio dell'archidiocesi.
Se agli inizi il potere dell'arcivescovo fu solo parzialmente temperato dalle adunanze del popolo,
convocate per discutere e risolvere i maggiori problemi che la comunità si trovava a dover
affrontare, a partire dalla metà dell'XI secolo esso incominciò invece a essere contrastato dalla
decisa influenza esercitata dai rappresentanti degli ordini cittadini, chiamati a coadiuvare
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l'arcivescovo nell'amministrazione della cosa pubblica. Tale influenza andò sempre più
affermandosi quando i grandi vassalli, per decreto dell'imperatore, ottennero l'ereditarietà dei feudi.
Incominciò così ad acquistare importanza il ceto dei capitanei, cioè i possessori di un feudum in
capite, tra i quali Visconti e in generale tutte quelle famiglie che derivarono i loro nomi dai possessi
feudali allora ottenuti: a esse, già molto potenti per gli uffici che ricoprivano, venne trasmessa oltre
alla ereditarietà dei feudi anche parte dei poteri civili.
Il governo di Milano tra X e XI secolo
Alla metà del X secolo il governo della città di Milano era così suddiviso: le questioni di grande
importanza erano direttamente regolate dall'arcivescovo, unico e vero signore della città; gli affari
di ordinaria amministrazione venivano demandate dall'arcivescovo ai capitanei, secondo una
ripartizione territoriale e qualitativa della giurisdizione arcivescovile.
All'affievolirsi dell'autorità comitale era quindi corrisposto l'affermarsi dell'autorità arcivescovile, la
quale aveva a sua volta consentito all'alta aristocrazia feudale, composta dalle famiglie di capitani,
di compartecipare alla gestione del governo.
Ma dalla metà del XI secolo, la politica di frazionamento del potere applicata dalle famiglie di
capitani portò al graduale allargamento della base del governo, consentendo l'accesso a quei ceti che
sino a quel momento ne erano rimasti esclusi: valvassori e cives. Ottenuta l'investitura e
l'ereditarietà dei propri feudi i capitanei incominciarono infatti a eleggere dei valvassori - a loro
strettamente subordinati - i quali rivendicando il diritto di ereditarietà delle porzioni di feudo loro
concesse entrarono ben presto in contrasto con l'autorità dell'arcivescovo e con quella dei loro
immediati superiori.
Il conflitto si concluse nel 1037, in seguito all'intervento dell'imperatore Corrado il quale, sceso in
Italia per combattere lo strapotere dell'arcivescovo e per ristabilire a Milano l'autorità imperiale,
emanò la costituzione dei feudi che attribuiva piena soddisfazione alle rivendicazioni dei
valvassori. Stabilita l'ereditarietà dei loro feudi ed equiparati nei diritti ai capitanei, i valvassori
incominciarono a partecipare attivamente al governo della città, attraverso la nomina di loro
rappresentanti nel consiglio dell'arcivescovo.
L'ascesa politica dei cives
La ribellione dei valvassori contro i capitanei provocò indirettamente l'ascesa dell'ordine dei cives,
costituito da ricche famiglie di origine non feudale.
Chiamati dall'arcivescovo per contrastare i valvassori e quindi elevati socialmente ed equiparati ai
capitanei, i cives ambirono presto, contro lo stesso arcivescovo e contro i capitanei, ad essere
ammessi al governo della città. Come per i capitanei prima e i valvassori poi, la partecipazione dei
cives al governo della città avvenne attraverso la nomina di esponenti del loro ceto nel consiglio
dell'arcivescovo.
Il governo della città si era dunque trasformato: a capo del sistema vi era sempre l'arcivescovo,
investito del potere di dichiarare guerra, firmare trattati, e del diritto di battere moneta, indire
mercati, imporre pedaggi, coadiuvato però dai rappresentanti di capitanei, valvassori e cives,
organizzati nel consiglio, che direttamente amministravano la città. Furono queste le necessarie
premesse che portarono, agli inizi del XII secolo, all'affermazione del governo comunale. Con
l'emancipazione dalla tutela e dall'autorità dell'arcivescovo, indebolito e gradualmente estromesso
dalla gestione della cosa pubblica, l'organizzazione comunale vide consolidarsi al vertice, come
magistratura principale, l'officio del consolato, composto dai consoli del comune, con funzioni
politiche e amministrative, e dai consoli di giustizia a cui era riservata l'attività giudiziaria.
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Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.laterza.it (fare storia, pp. 18 e 28-30), da www.lombardiabeniculturali.it e
da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XI Lezione: I Comuni. Lo scontro papato impero
Il consiglio di credenza
Nel XII secolo, con l'ammissione dei cives nel consiglio dell'arcivescovo e quindi nel governo della
città, gli ordini dei cittadini liberi - capitanei, valvassores e cives - cominciarono a interessarsi e
soprattutto a gestire direttamente gli interessi pubblici, secondo una proporzione che assegnava ai
primi due ordini un numero di rappresentanti maggiore rispetto all'ordine dei cives. I rappresentanti
dei tre ordini cittadini partecipavano solo indirettamente alla formazione del governo: non erano
infatti chiamati a eleggere direttamente i consoli bensì, forse su designazione fatta dai consoli in
carica, tra di essi veniva scelto un numero di persone alle quali sarebbe spettato il compito di
coadiuvare il governo consolare nella scelta dei nuovi consoli. Queste persone formavano il
consiglio di credenza.
L'importanza di questo consiglio nella gestione degli affari del comune fu massima durante il
periodo consolare e durante la transizione verso il periodo podestarile, quando il suo intervento si
rese sempre più necessario per la promulgazione degli atti di natura politica. Gli ordinamenti
comunali stabilirono che al consiglio di credenza fossero demandate tutte le questioni di interesse
generale (per questo gli derivò anche la denominazione di consiglio generale) di carattere politico,
legislativo, amministrativo; il consiglio veniva convocato per approvare e notificare al popolo le
dichiarazione di guerra e le stipulazioni di pace, e ancora per ricevere ambasciatori. Il consiglio di
credenza era l'unico organo comunale dotato di pieni poteri per la modificazione degli statuti; era
infine l'unico organo autorizzato a deliberare in materia di finanza, ad esempio per alienare beni del
comune o per decidere i provvedimenti da applicare contro i debitori per il risarcimento dei danni
inferti alla comunità.
Non è possibile determinare con esattezza il numero dei componenti del consiglio di credenza,
denominati consiliarii o più spesso credentiarii in quanto dovevano giurare credentia cioè segretezza
al console: esso sicuramente oscillò nel corso del tempo sino a raggiungere, nel XIII secolo, punte
massime di ottocento membri.
Con gli ordinamenti del 1241 si codificarono infine le modalità di elezione e le competenze
attribuite al consiglio di credenza: a partire da quell'anno si stabilì infatti che esso dovesse essere
formato per metà dai rappresentanti dei capitanei e valvassori e per metà dai rappresentanti della
Motta e della Credenza di Sant'Ambrogio, la quale dal 1198 rappresentava l'elemento più popolare
della città.
I consoli del comune
Dalla seconda metà del XII secolo si avviò un processo di sdoppiamento del consolato: con il 1153,
essendo stati eletti speciali consoli denominati in seguito consoli di giustizia per la trattazione delle
cause civili, ai consoli del comune rimase la vera e propria gestione degli interessi della città.
Nel 1186 il governo dei consoli fu interrotto dal governo dei podestà, e da allora sino al 1205 la
gestione degli affari politici, economici, fiscali, amministrativi e militari della città di Milano venne
esercitata alternativamente dai consoli o dal podestà.
I consoli di giustizia
Intorno alla seconda metà del XII secolo, con l'accrescersi delle sue competenze, la magistratura del
consolato venne sdoppiata nel consolato del comune, a cui era riservata la trattazione degli affari
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politici, amministrativi e penali, e nel consolato di giustizia, a cui venne affidata l'amministrazione
della giustizia civile.
Dall'anno della loro istituzione sino al 1185 i consoli di giustizia formarono un solo corpo
giudicante, ma a causa del continuo ampliamento della città, all'intensificarsi dei traffici e del
commercio e al conseguente aumento di liti e contese, nel 1186 si ebbe una suddivisione degli
uffici, ciascuno dei quali esercitò la propria giurisdizione sul territorio rurale che faceva capo a tre
porte della città. Nel 1205 il consolato venne ulteriormente smembrato con la costituzione di un
terzo ufficio. Nel 1212, in seguito a un ultimo rimaneggiamento, il consolato di giustizia venne
articolato in quattro consolati distinti: il consolato delle fagie delle porte Ticinese e Vercellina (la
cui giurisdizione comprendeva tutti quei territori che si estendevano a occidente del corso del fiume
Olona a nord e a sud della città di Milano); il consolato delle fagie delle porte Nuova e Orientale
(con giurisdizione sui territori a oriente del fiume Lambro); il consolato delle fagie delle porte
Romana e Comasina (con giurisdizione sulla restante parte del territorio milanese); e infine il
consulatus civitatis (con giurisdizione limitata al solo territorio compreso entro le mura della città).
Questa articolazione del consolato di giustizia rimase tale per oltre un secolo e mezzo; nel 1340,
aboliti i consoli delle fagie e diminuite l'entità e l'importanza delle competenze attribuite al
consolato di giustizia - gradatamente accentrate nelle mani del podestà - fu istituito un unico
consolato detto della camera della città e di tutte le faggie.
Lo scontro con l'impero
Consolidato il potere consolare, Milano si fece promotrice di una vivace politica di espansione
territoriale oltre che economica e militare. Nel corso del XII secolo l'autorità del comune milanese,
grazie anche al forte radicamento del sistema plebano, si dilatò infatti non solo sugli abitanti del
contado e dei borghi sottoposti alla diocesi ambrosiana ma anche su altre città come Lodi, Como,
Pavia, Brescia, Cremona. Si trattava di acquisti significativi sia a livello territoriale che
economico, poiché consentivano di allargare il raggio di espansione, in particolare mercantile, del
comune.
Tuttavia la politica espansionistica oltre a procurare a Milano il primato tra le città lombarde portò
inevitabilmente allo scontro diretto con l'imperatore Federico I. L'espansionismo della città
ambrosiana, infatti, costituiva un palese turbamento dell'autorità imperiale e minacciava l'assetto
delle città che l'imperatore si preparava a disciplinare nel quadro della costituzione dell'impero".
Lo scontro tra i comuni e l'imperatore vide Milano impegnata in prima linea come promotrice della
Lega Lombarda, nella quale la città rinsaldò ulteriormente la propria posizione egemonica. L'esito
militare del conflitto - in particolare la battaglia di Legnano del 1176, felicemente conclusasi a
favore della Lega grazie soprattutto ai contingenti milanesi - e la conclusione diplomatica della
guerra con la pace di Costanza, ne testimoniarono la preminenza. Lo stesso Federico Barbarossa,
nel 1185, in un clima di riavvicinamento tra l'impero e Milano, riconosceva alla città particolari
privilegi e regalie.
Avvento del comune podestarile
I decenni successivi alla pace di Costanza segnarono una nuova fase di espansione per Milano, che
portò al consolidamento delle posizioni acquistate nella seconda metà del XII secolo. Questa vitalità
economico- politica si rifletteva nell'articolazione sociale. Oltre ai ceti protagonisti della
costituzione del regime comunale era andato via via crescendo di importanza il ceto dei mercanti,
organizzato nella universitas mercatorum, e investito dal consolato dell'importante funzione di
intrattenere rapporti diplomatici con gli altri comuni in materia di strade, traffici, trasporti, transito
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di merci, pedaggi. Particolarmente importante per affermarne la presenza politica fu la costituzione
della "Motta", una società composta in prevalenza da mercanti, ma anche dalla piccola nobiltà e dai
proprietari fondiari, che si contrapponeva alla grande nobiltà.
Accanto al ceto mercantile vi era un altrettanto forte ceto di artigiani che, al fine di essere
validamente rappresentato, diede vita a un'altra associazione, la "Credenza di Sant'Ambrogio".
Raggruppando esponenti dei diversi settori produttivi - beccai, fornai, fabbri, lavoratori della lana,
conciatori di pelli, ciabattini - la "Credenza" si distingueva politicamente dalla nobiltà maggiore e
dalla società della "Motta". Ne derivò una vivace dialettica che portò a una progressiva
trasformazione dello stesso governo consolare: la necessità di dirimere i sempre più frequenti
contrasti insorti tra le parti portò all'affermazione del governo del podestà.
In questo clima riprese la lotta contro l'autorità imperiale di Federico II. Chiamata a ricoprire
nuovamente il ruolo di città guida, Milano si rivelò in grado di superare le discrepanze interne al
fine di salvaguardare i propri interessi politici ed economici e per difendere i valori che stavano alla
base della sua organizzazione. Questi caratteri della potenza milanese non vennero alterati neppure
dalla crisi delle istituzioni comunali e dalla conseguente affermazione della signoria, a partire dalla
metà del XIII secolo.
Il podestà al vertice del comune
Alla fine del secolo XII i crescenti contrasti tra i consoli milanesi, la difficoltà di equilibrare i
rapporti tra potere civile e potere militare, la lenta e talvolta contraddittoria azione pubblica,
avviarono l'istituto consolare alla decadenza. Il bisogno di una magistratura suprema, che
esprimesse nello svolgimento delle varie funzioni unità di governo, divenne una necessità. Al
governo dei consoli incominciò quindi a sostituirsi quello di un podestà forestiero o ancora quello di
più persone, scelte fra i cittadini milanesi, che comunque presero il nome di podestà.
Per la prima volta nel 1186 il governo del consolato venne sostituito da quello del podestà Umberto
Visconti, piacentino. Nel corso degli ultimi decenni del XII secolo e nei primi del XIII la città
venne alternativamente governata da un gruppo di cittadini milanesi, probabilmente rappresentanti
di varie fazioni della città, che presero il titolo collegiale di potestates, o dal podestà forestiero,
affiancato da un rappresentante dei nobili e uno del popolo. Nella figura del podestà forestiero, che
andò via via imponendosi, si accentrarono i poteri del comune.
Data la particolare natura di magistratura super partes, il podestà veniva scelto tra esponenti di
casate nobili e illustri di una delle città straniere che, al momento della nomina, intrattenevano
rapporti di amicizia o di alleanza con Milano. La città dalla quale fu attinto il maggior numero di
podestà fu Brescia e quindi Lodi, Piacenza, Bologna, Como, Vercelli, Bergamo, Mantova, Genova,
Parma, e poi ancora Venezia, Modena, Cremona, Pavia, Reggio e Forlì, con un solo podestà.
Governo del podestà
Designato dal podestà uscente, il podestà, generalmente per la durata di un anno, veniva investito di
tutti i poteri politici, amministrativi, economici, fiscali, militari, giudiziari che erano stati
precedentemente esercitati dal consolato: egli poteva concludere trattati, dichiarare guerra,
comandare gli eserciti, stipulare la pace sia con le città straniere sia con le avverse fazioni cittadine;
aveva facoltà di battere moneta, confiscare beni, mettere al bando.
Erano di sua competenza le sentenze e condanne riguardanti le frodi circa gli inventari, l'indebito
possesso di terre e le cause penali, mentre quelle civili rimanevano di competenza dei consoli di
giustizia. Per l'adempimento di particolari mansioni, quali la concessione a privati di privilegi, la
creazione di nuovi borghi o la promozione di modifiche istituzionali del comune, il podestà era
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vincolato all'approvazione del consiglio generale, definito anche consiglio dei savi: in tali occasioni
egli era tenuto a convocare il consiglio generale della città per chiederne un parere e ottenerne
conferma. Al podestà era affidato il compito di nominare gli officiali del comune: balestrieri,
capitani, servitori per la difesa della città.
Nell'assumere la carica il podestà si impegnava a fare l'inventario dei beni dei cittadini, borghesi,
rustici e nobili foresi e a non restare lontano dalla città per più di 20 giorni consecutivi.
Gli ordinamenti del 1211 e del 1225 imponevano che, scaduto il mandato, il podestà uscente
dovesse trattenersi a Milano al fine di essere sottoposto a sindacato, pratica attraverso cui veniva
esaminato e giudicato il suo operato, consentendo ai ricorrenti di rifarsi in solido qualora si fossero
rinvenute irregolarità nella gestione degli interessi o abusi di potere.
La lotta per le investiture: il concordato di Worms (1122)
Enrico IV morì nel 1106. Il successore di Gregorio VII (morto nel 1085) fu papa Pasquale II, il
quale nel 1105 appoggiò una congiura ordita da Enrico V, figlio di Enrico IV, contro il suo stesso
padre. Infatti c'erano ancora ostilità tra il papato ed Enrico IV, pertanto il papa vide con favore
l'ascesa al trono imperiale di un nuovo imperatore. Dunque Enrico IV fu costretto ad abdicare e alla
sua morte, avvenuta nel 1106, divenne imperatore suo figlio, il quale instaurò rapporti di maggiore
collaborazione col papa.
I successori di Gregorio, tra i quali Pasquale II, furono più inclini al compromesso, limitandosi a
pretendere che i sovrani laici non attribuissero cariche religiose (quella vescovile su tutte), mentre
per i regnanti era fondamentale che i vescovi investiti del potere temporale riconoscessero l'autorità
del sovrano. Con il patto di Sutri (1111), l'imperatore rinunciava alle investiture e i vescovi
avrebbero restituito tutti i terreni ottenuti. Enrico V, riconoscendo il ruolo politico di pacificazione
che aveva assunto Matilde di Canossa, decise di incoronarla fra il 6 e il 10 maggio 1111 con il titolo
di Vicaria Imperiale e Vice Regina d'Italia presso il Castello di Bianello a Quattro Castella.
Il Concordato di Worms del 1122, concluso tra Papa Callisto II ed Enrico V, rappresentò un
modello per gli sviluppi successivi delle relazioni tra la Chiesa e l'Impero. Secondo il concordato, la
Chiesa aveva il diritto di nominare i vescovi, quindi l'investitura con anello e pastorale doveva
essere ecclesiastica. Le nomine, tuttavia, dovevano avvenire alla presenza dell'imperatore, o di un
suo rappresentante, che attribuiva incarichi di ordine temporale ai nuovi vescovi mediante
l'investitura con lo scettro, un simbolo privo di connotazione spirituale.
Questo compromesso ebbe notevoli conseguenze sulla futura storia politica dei due paesi: esso
segnò infatti, in Italia, l’aumento dell’autorità pontificia a discapito di quella imperiale, mentre in
Germania produsse l’effetto opposto. Il concordato di Worms era più una tregua momentanea che
un accordo stabile. Aveva risolto il problema delle investiture, ma era rimasto aperto il problema
cruciale, quello del primato nel mondo cristiano. E infatti lo scontro tra Impero e papato sarebbe
ripreso rapidamente, dominando ancora per molto tempo lo scenario della grande politica europea.
Non si trattò soltanto dello scontro tra le massime potenze della Cristianità, ma del punto di
riferimento della lotta politica a tutti i livelli: ovunque i ghibellini (chiamati così perché seguaci
della casa sveva degli Hohenstaufen, signori del castello di Weibling, in Sassonia), difensori
dell’«onore dell’Impero», si contrapposero ai guelfi (chiamati così da Welf, cioè Guelfo Baviera
morto nel 824 o 825 il capostipite dei duchi di Baviera), fautori della «libertà della Chiesa romana».
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Ruggero II e la fondazione del Regno di Sicilia
Ruggero II (Mileto, 1095 –1154), conosciuto anche come Ruggero il normanno, figlio e successore
di Ruggero I di Sicilia della dinastia degli Altavilla. Gli sono attribuiti l'accorpamento sotto un
unico regno di tutte le conquiste normanne dell'Italia
Poco è conosciuto dell'infanzia di Ruggero II. Era figlio secondogenito del gran Conte di Sicilia, il
normanno Ruggero I d'Altavilla e di Adelasia di Monferrato.
Alla morte del padre, avvenuta a Mileto nel 1101, sua madre Adelaide del Vasto, riuscì a governare
la Sicilia con l'aiuto di valenti consiglieri, mentre lui ed il fratello erano ancora in tenera età.
Nel 1121 sorsero le ostilità fra Ruggero II e il cugino Guglielmo, nipote di Roberto il Guiscardo e
nuovo duca di Calabria; lo scontro venne risolto solo con l'intervento di papa Callisto II, che riuscì a
pacificare i due rivali: Ruggero II venne riconosciuto duca di Calabria e di Puglia, Conte di Sicilia
con dominio su Amalfi e Gaeta, su parte di Napoli, su Taranto, Capua e Abruzzi.
Quando nel luglio del 1127 Guglielmo, duca di Puglia, morì senza figli, Ruggero reclamò tutti i
possedimenti degli Altavilla e la Signoria di Capua. Sbarcò allora nel continente e conquistò senza
difficoltà Amalfi e Salerno, dove venne incoronato. Tuttavia l'unione di Sicilia e Puglia era
osteggiata da papa Onorio II e dai Signori locali stessi.
A Capua, nel dicembre 1127, il Papa promosse una "crociata" contro Ruggero, mettendo Roberto II
di Capua e Rainulfo di Alife (cognato di Ruggero) contro di lui. Tuttavia questa coalizione fallì e
nell'agosto 1128 il Papa fu costretto dalla superiorità militare a nominare nella città di Benevento
Ruggero II duca di Puglia.
A settembre del 1129 Ruggero fu pubblicamente riconosciuto duca da Napoli, Bari, Capua e dalle
altre città. Per legare insieme tutti questi stati, il titolo reale sembrava essenziale e la morte di
Onorio II nel febbraio 1130, seguita da una duplice elezione di un Papa e un Antipapa, avvenne nel
momento per lui decisivo. Nell'elezione del nuovo Pontefice scoppiò uno scisma fra Innocenzo II,
eletto con l'appoggio dei Frangipane, e Anacleto II, sostenuto dalla famiglia dei Pierleoni. Nella
confusione che ne seguì, Innocenzo, pur riconosciuto dalla maggior parte della cristianità, fu
costretto a rifugiarsi in Francia; rimase a Roma invece Anacleto II che tuttavia aveva bisogno di
maggiori consensi.
Ruggero lo appoggiò ed il prezzo fu la corona: il 27 settembre 1130 una Bolla di Anacleto II fece
Ruggero Re di Sicilia. L'incoronazione a Rex Siciliae, ducatus Apuliae et principatus Capuae
avvenne a Palermo il 25 dicembre 1130.
Tutto ciò spinse Ruggero in una guerra di dieci anni. Bernardo di Chiaravalle, campione di
Innocenzo II, mise in piedi una coalizione contro Anacleto ed il suo "Re mezzo pagano". Ad esso si
aggiunsero Luigi VI di Francia, Enrico I di Inghilterra e l'Imperatore Lotario II del Sacro Romano
Impero.
Nel frattempo il Meridione d'Italia insorse. Alcuni nobili feudatari normanni, che già da tempo
mordevano il freno, non accettarono il nuovo sovrano: nel 1132, Rainulfo radunava grandi forze
con il suo alleato il Roberto II di Capua. Gli eserciti avversi si scontrarono nella Battaglia di Scafati
che terminò in una disastrosa sconfitta per Ruggero (24 luglio 1132).
Le cose potevano mettersi molto male per Ruggero: a complicare le cose per lui infatti, l'imperatore
Lotario II era sceso a Roma per farsi incoronare imperatore da Innocenzo II (4 giugno 1133) e se
non avesse considerata chiusa la partita, facendo repentinamente ritorno in Germania, avrebbe
potuto assestare a Ruggero un colpo definitivo. Il vantaggio così per Ruggero fu tale che egli poté
riorganizzarsi: approfittando del fatto che Rainulfo e Roberto si erano recati a Roma per prestare
giuramento a Lotario II, Ruggero tornò alla riscossa catturando la moglie di Rainulfo (sua sorella
Matilda) e il figlioletto: Rainulfo e Roberto dovettero rientrare precipitosamente e Ruggero li
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costrinse alla resa (giugno-luglio 1134). Le truppe regie costrinsero Rainulfo, Sergio VII duca di
Napoli e gli altri ribelli a sottomettersi, mentre Roberto fu espulso da Capua.
Nel febbraio 1137 Lotario cominciò a spostarsi verso il Sud e fu raggiunto da Rainulfo e dai ribelli.
A giugno assalì e prese Bari. Innocenzo II e Lotario concentrarono a maggio 1137 le proprie armate
accanto al castello di Lagopesole e assediarono la città di Melfi, costrinsero Ruggero II alla fuga,
quindi riuscirono a conquistare la sua (ex) capitale, Melfi, il 29 giugno. Il Pontefice tenne il
Concilio di Melfi V nel castello del Vulture nell'anno 1137. I Padri conciliari decisero la
deposizione dell'antipapa Anacleto II. Il 4 luglio Innocenzo II, insieme all'Imperatore Lotario II,
delegittimò Ruggero II, in favore di Rainulfo di Alife, della famiglia Drengot, nuovo duca di Puglia.
L'Imperatore rientrò in Germania. Ruggero, liberato dal pericolo incombente, riprese terreno,
saccheggiò Capua e costrinse Sergio VII ad accettarlo come Signore di Napoli. A Rignano
Garganico Rainulfo di nuovo sconfisse il Re, ma nell'aprile del 1139 morì e Ruggero sottomise gli
ultimi ribelli.
A questo punto Ruggero volle avere la conferma del titolo da Innocenzo II (Anacleto era morto nel
gennaio 1138). Invece il papa, ancora restio a tale riconoscimento, dopo aver scomunicato Ruggero
(8 luglio), invase il Regno con un grande esercito, ma cadde in un'astuta imboscata a Galluccio (22
luglio 1139). Dopo la vittoria del Re, il papa lo investì del titolo di Re di Sicilia, del ducato di
Puglia e del principato di Capua. I confini del Regno furono alla fine fissati da una tregua con papa
Lucio II nell'ottobre 1144.
Ruggero II era così divenuto uno dei più potenti sovrani d'Europa. Nell'estate del 1140 ad Ariano
Irpino promulgò le Assise di Ariano, il corpus giuridico che formava la nuova costituzione del
Regno di Sicilia. A lui si deve anche l'istituzione del Catalogus baronum, l'elenco di tutti i feudatari
del regno, stilato per stabilire un più attento controllo del territorio, dei rapporti vassallatici e quindi
delle potenzialità del proprio esercito.
A Palermo Ruggero attrasse intorno a sé i migliori uomini di ogni etnia, come il famoso geografo
arabo al-Idrisi (Idrīsī o Edrisi), lo storico Nilus Doxopatrius, il poeta Abd ar-Rahman al-Itrabanishi
che occupava anche posto di segretario e altri eruditi ancora. Il Re mantenne nel regno una
completa tolleranza per tutte le fedi, razze e lingue. Egli fu servito da uomini di ogni nazionalità,
come l'anglonormanno Thomas Brun nella Curia, il greco Cristodulo nella flotta e il bizantino
Giorgio di Antiochia, che nel 1132 fu fatto amiratus amiratorum (in effetti comandante in capo).
Ruggero rese la Sicilia la potenza dominante del Mediterraneo. Grazie ad una potente flotta,
costituita sotto diversi ammiragli, effettuò una serie di conquiste sulla costa africana (1135 - 1153),
che andavano da Tripoli (Libia) a Capo Bon (Tunisia) e Bona (Algeria).
Ruggero II creò in quei due decenni un "Regno normanno d'Africa" che divenne un "protettorato"
siciliano, sostenuto in parte dalla residua piccola comunità cristiana nel nord Africa.
I Normanni riuscirono a mantenere le conquiste africane di Ruggero II fino al 1160
La Seconda Crociata (1147 - 48) offrì a Ruggero l'opportunità di riprendere i progetti di Roberto il
Guiscardo sull'Impero Romano d'Oriente. Giorgio di Antiochia fu mandato a Corinto alla fine del
1147 e spedì all'interno un esercito che saccheggiò Tebe. Nel giugno 1149 l'ammiraglio apparve
davanti a Costantinopoli e sfidò l'Imperatore bizantino, lanciando frecce incendiarie contro le
finestre del palazzo. Tuttavia l'attacco all'Impero non ebbe risultati durevoli, ma Ruggero conservò
l'isola di Corfù.
Nel 1149 aiutò papa Eugenio III a rientrare a Roma dopo l'insurrezione di Arnaldo da Brescia.
Il Re morì a Palermo il 26 febbraio 1154, e suo successore fu il quarto dei suoi figli, Guglielmo.
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Arnaldo da Brescia (Brescia, 1090 – Roma, 18 giugno 1155).
Allievo di Abelardo, fu un riformatore religioso caratterizzato da notevole eloquenza e forte
avversione per l'istituzione tradizionale ecclesiastica.
Sostenne il movimento antipapale e autonomistico romano (costituzione del Comune di Roma o
renovatio Senatus), in epoca risorgimentale divenne una figura di riferimento per i neoghibellini.
A venticinque anni, Arnaldo divenne canonico agostiniano e si trasferì a Parigi, dove ebbe come
maestro Pietro Abelardo e dove lesse avidamente tutte le opere dei Padri della Chiesa. Al suo
ritorno a Brescia, nel 1119, iniziò una serrata propaganda anticlericale e contro la simonia,
decisamente innovativa per i tempi: Arnaldo accusava il clero ed in particolare il vescovo di Brescia
Manfredo di possedere terre, di interessarsi di vicende politiche e di praticare usura, e predicava il
ritorno alla povertà evangelica, all'elemosina e alla solidarietà.
Nel 1139 le sue idee e quelle di Abelardo vennero giudicate eretiche dal Concilio Lateranense II e
per tale motivo egli decise di lasciare l'Italia ed andare in Francia dall'amico Abelardo. Qui
partecipò al Concilio di Sens del 1140, teatro della disputa tra Abelardo e Bernardo di Chiaravalle,
dove fu condannato insieme al suo maestro al perpetuo silenzio in un monastero. Si recò invece a
Parigi, dove insegnò divinae litterae, insistendo sulla difformità della vita ecclesiastica dai precetti
evangelici[4]. Bernardo ottenne dal re Luigi VII l'espulsione dalla Francia di Arnaldo. Questi allora
si recò prima a Zurigo e poi in Boemia nel 1143, accolto dal legato pontificio Guido di Castello,
futuro papa Celestino II. Recatosi a Viterbo ottenne il perdono da papa Eugenio III e tornò poi nel
1145 per un pellegrinaggio penitenziale a Roma dove, con la cacciata del pontefice seguita alla
rivolta del 1143, era stato istituito un libero comune retto da un senato oligarchico e da un patricius.
In tale situazione Arnaldo si gettò completamente nell'agone politico. I punti fondamentali del suo
radicale programma di riforma, da collegarsi alle idee del movimento milanese dei Patarini, erano:
la rinuncia della Chiesa alla ricchezza (si schierò più volte contro la ricchezza del clero) e il suo
ritorno alla povertà evangelica, l'abbandono del potere temporale, la predicazione estesa ai laici, la
non validità dei sacramenti amministrati da un clero non degno, la confessione praticata tra fedeli e
non ai sacerdoti.
Perorò con accalorati comizi le sue tesi anti-papali e rivoluzionarie, tese a fare di Roma un'entità
politica nuova e sganciata dalla Chiesa e predicò il sacerdozio universale di tutti i cristiani; questo
comportò la scomunica da parte del papa nel 1148 ma, godendo del favore popolare, Arnaldo non fu
mai perseguitato.
Fallita l'esperienza del libero comune, Arnaldo ed i suoi numerosi seguaci, detti arnaldisti, mossi
dallo spirito antipapale, pensarono quindi di far rinascere uno stato imperiale a Roma e si rivolsero
a Federico Barbarossa per convincerlo a scendere su Roma ed instaurarvi un potere laico opposto a
quello del papa. Nel 1152 il papa Eugenio III riconobbe il Comune come entità politica, ma non
poté godere a lungo della pace perché morì di lì a poco.
Dopo il brevissimo pontificato di papa Anastasio IV, divenne papa nel dicembre del 1154 Adriano
IV. Nel 1155 Adriano IV colpì d'interdetto Roma, in seguito all'assassinio di un cardinale, con la
promessa di revocare la decisione solo se Arnaldo fosse stato esiliato dalla città. A questo punto la
città si schierò contro Arnaldo e si sollevò contro il Senato. Arnaldo fu quindi costretto a fuggire da
Roma e scappò verso il nord Italia. Fu catturato nei pressi di San Quirico d'Orcia: l'ambasceria dei
cardinali, che si era recata a incontrare il Barbarossa, ne ottenne la consegna come segno di buona
volontà e di alleanza.
Probabilmente intorno al giugno 1155, ma non è certa la data esatta, Arnaldo venne condannato dal
tribunale ecclesiastico all'impiccagione, ed il suo corpo fu arso al rogo mentre le sue ceneri furono
sparse nel Tevere, per impedire che se ne recuperassero i resti mortali. Il reale capo d'accusa non fu
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Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al
Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.laterza.it (fare storia, pp. 18 e 28-30), da www.lombardiabeniculturali.it e
da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XI Lezione: I Comuni. Lo scontro papato impero
la predicazione contro l'abuso delle ricchezze da parte del clero, contro il quale aveva combattuto
ferocemente anche il suo nemico Bernardo di Chiaravalle, bensì il rifiuto assoluto del potere
temporale del Papa e della Chiesa, che San Bernardo e gli altri avversari di Arnaldo consideravano
«eresia».
Riconoscimenti postumi
La figura di Arnaldo da Brescia fu riscoperta dai giansenisti lombardi nel settecento e fu celebrata
da Giovanni Battista Niccolini, nella tragedia a lui dedicata, come quella di un eroe anticlericale
vittima di un imperatore tedesco. La cultura laica dell'Ottocento lo esaltò come un martire del libero
pensiero, e per questo motivo nel 1882 venne innalzato un suo monumento a Brescia, mentre la
Riforma Protestante ne fa un suo antesignano.
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