le missioni estere di angelo ramazzotti - Atma-o
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LE MISSIONI ESTERE DI ANGELO RAMAZZOTTI 1 STORIA E VITA MISSIONARIA Collana diretta da P. Piero Gheddo Ufficio Storico del Pime - Via F.D. Guerrazzi, 11 00152 Roma - Tel. 06.58.39.151 1 - Piero Gheddo, Missione Brasile. I 50 anni del Pime nella Terra di Santa Croce (1946-1996), pagg. 384 + 32 fotografiche, L. 25.000 2 - Paolo Manna, Virtù apostoliche, pagg. 460, L. 30.000 3 - Piero Gheddo, Dai nostri inviati speciali. 125 anni di giornalismo missionario da Le Missioni Cattoliche a Mondo e Missione (1872-1997), pagg. 124, L. 11.000 4 - Piero Gheddo, Missione Amazzonia. I 50 anni del Pime nel Nord Brasile (1948-1998), pagg. 484 + 32 fotografiche, L. 30.000 5 - Giuseppe Butturini, Le missioni cattoliche in Cina tra le due guerre mondiali, pagg. 334, L. 30.000 6 - Piero Gheddo, Missione America. I 50 anni del Pime negli Stati Uniti, Canada e Messico (1947-1997), pp. 176 + 16 fotografiche, L. 18.000 7 - Piero Gheddo, Missione Bissau. I 50 anni del Pime in Guinea-Bissau (1947-1997), pagg. 464 + 32 fotografiche, E 14,46 8 - Amelio Crotti, Noè Tacconi (1873-1942), il primo Vescovo di Kaifeng (Cina), pagg. 368, L. 30.000 9 - Mauro Colombo, Aristide Pirovano (1915-1997), il Vescovo dei due mondi, pagg. 384 + 32 fotografiche, L. 30.000 10 - Piero Gheddo, Pime, 150 anni di missione (1850-2000), pagg. 1230, E 25,82 11 - Domenico Colombo (a cura di), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, pagg. 462, E 15,49 12 - Piero Gheddo, Il santo col martello. Felice Tantardini, 70 anni di Birmania, pagg. 240 + 16 fotografiche, E 10,33 13 - Angelo Montonati, Angelo Ramazzotti Fondatore del PIME (18001861), pagg. 224 + 8 fotografiche, E 10,33 14 - Piero Gheddo, Paolo Manna (1872-1952), Fondatore della Pontificia Unione Missionaria, pagg. 400 + 4 fotografiche, E 14,46 15 - Pino Cazzaniga, Giappone missione difficile. I 50 anni del Pime nel Paese del Sol Levante, pagg. 304 + 16 fotografiche, E 13,00 16 - Amelio Crotti, Gaetano Pollio (1911-1991), Arcivescovo di Kaifeng (Cina), pagg. 186 + 32 fotografiche, E 13,00 Volumi di prossima pubblicazione: 17 - Piero Gheddo, Carlo Salerio, Missionario in Oceania e Fondatore delle Suore della Riparazione (1827-1870) AUTORI VARI LE MISSIONI ESTERE DI ANGELO RAMAZZOTTI Radici storiche e spirituali Prefazione di Franco Cagnasso EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA 3 Copertina di Bruno Maggi. © 2002 EMI della Coop. SERMIS Via di Corticella, 181 - 40128 Bologna Tel. 051/32.60.27 - Fax 051/32.75.52 web: http://www.emi.it e-mail: [email protected] N.A. 1777 ISBN 88-307-1152-7 Finito di stampare nel mese di luglio 2002 dalla Grafica Universal per conto della GESP - Città di Castello (PG) 4 «Doniamo almeno amore a tutti e potremo dirci figli di Dio» (dalla Lettera pastorale di mons. Ramazzotti scritta per la Quaresima del 1857) PREFAZIONE Il secondo centenario della nascita del fondatore e il centocinquantesimo anniversario della fondazione, entrambi celebrati nel 2000, sono stati per i missionari del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) loccasione che ha portato alla riscoperta di una parte importante della loro storia. Durante gli anni del post-concilio, essi si sono impegnati soprattutto nel rinnovamento della missione e, in misura minore, in quello dellorganizzazione del loro istituto. Era giusto dare priorità a questo impegno, tuttavia il passato era rimasto troppo in ombra. Le generazioni più giovani lo conoscevano poco e tese a guardare avanti per rispondere ai molti e rapidi mutamenti dei paesi in cui operano e della missione non sentivano il bisogno di esplorarlo. Gradualmente, in questi ultimi anni è cresciuta però lattenzione alle fonti, con il desiderio di conoscere meglio le proprie radici. Oltre alle due importanti date appena ricordate, hanno contribuito a questa maturazione vari altri elementi. Diverse comunità stanno compiendo i 50 anni della loro presenza in alcuni paesi (Brasile 1946, Guinea-Bissau e Stati Uniti 1947, Amazzonia 1948, Giappone 1950) e ciò le spinge a confrontarsi con la loro storia anche per capire come impostare il futuro. Liter di studio e ricerca per la beatificazione di padre Paolo Manna è stato concluso e la beatificazione approvata (il 4 novembre 2001 Giovanni Paolo II ha beatificato padre Paolo Manna, ndr), risvegliando interesse per i tempi in cui padre Manna è vissuto e gli avvenimenti in cui ha avuto parte. Il 1° ottobre 2000 padre Alberico Crescitelli, ucciso in Cina cento anni prima, è stato proclamato santo e il fatto si è aggiunto 7 ad altri che tengono desto linteresse del PIME per la Cina sia del presente come del passato. Padre Piero Gheddo, che da circa 40 anni era alla direzione del mensile «Mondo e Missione», nominato direttore dellUfficio storico del PIME nel 1994, ha dato un forte impulso alla ricerca e a pubblicazioni curate direttamente da lui con lufficio stesso, o incoraggiando e sostenendo il lavoro di altri. Il ritorno alla propria storia è sollecitato anche dal progressivo internazionalizzarsi del PIME: giovani di altri paesi sentono la necessità di studiare le origini di questo istituto, per molto tempo esclusivamente italiano, di cui fanno parte. Non si tratta soltanto di interesse culturale, ma di una vera e propria ricerca sul carisma e sulla spiritualità che danno alla nostra «famiglia di apostoli» (come amiamo descriverci) le caratteristiche che la distinguono. Studiando il nostro passato, ci stiamo rendendo conto che un piccolo gruppo di uomini che operano perlopiù lontani dai riflettori della cronaca e in luoghi remoti, considerati di scarsa importanza, può in realtà incidere profondamente sulla storia dei popoli. Dal 1850 a oggi il PIME ha accolto non più di 1.700 uomini circa, a cui vanno affiancate le Missionarie dellImmacolata, di più recente fondazione (1936). Sono pochi, ma la loro opera ha permesso la fondazione di numerose Chiese locali in Cina, Hong Kong, India, Birmania e Bangladesh e un consistente rafforzamento di altre in Brasile, Camerun, Costa dAvorio, Guinea-Bissau, Thailandia, Filippine, Giappone, Papua-Nuova Guinea, Cambogia, Messico, Taiwan. Si tratta perlopiù di Chiese vive e ricche non solo di fedeli ma anche di opere sociali, culturali, caritative spesso notevoli. E in Italia? Il PIME fin dalla sua origine ha sempre fatto ogni sforzo per mantenere le sue caratteristiche, una delle quali consiste nel ritenersi unorganizzazione se così si può dire di supporto, non totalizzante. Si considera uno strumento, il più agile e leggero possibile, di cui le Chiese locali possono servirsi per adempiere al loro compito di svolgere la missione ad gentes, cioè ai non cristiani, e allestero. Ancora oggi, chi entra nellistituto sa che dovrà partire, anche se il suo paese di origine è a maggioranza non cristiana. 8 Per questo motivo, la presenza del PIME in Italia non si è mai espressa con opere pastorali di carattere generale (parrocchie, scuole, opere sociali o culturali) ma si è sempre volutamente limitata ad attività e opere che siano in strettissimo rapporto con il fine dellistituto, cioè le missioni ai non cristiani e allestero. Il PIME è sviluppato, in particolare, nei campi della comunicazione, della formazione per seminaristi e laici che vogliono partire, dellanimazione missionaria e del supporto logistico, economico, culturale e spirituale ai membri che operano in altri paesi. Siamo e vogliamo continuare a essere strettamente legati alle Chiese in Italia, «specializzandoci» sempre meglio nel compito che esse hanno di evangelizzare le genti, così come altre istituzioni si specializzano nel campo della salute o delleducazione giovanile, dellemarginazione sociale, ecc. Questa presenza limitata e con obiettivi precisi non ci rende però estranei alla realtà italiana, come desideriamo che non ci renda estranei ad altri paesi da cui ora provengono molti nuovi membri. Al contrario, ci costringe a innestare profondamente ciò che facciamo nel tessuto della realtà ecclesiale, perché se così non facessimo non saremmo noi stessi e, mancando di spazi nostri, perderemmo immediatamente il terreno in cui operare. Ciò è facilmente riscontrabile anche dalla lettura di questo volume, frutto di una giornata di studio organizzata al Centro missionario del PIME di Milano il 28 ottobre 2000, e curato da padre Massimo Casaro, direttore del Museo dei Popoli e delle Culture e dei programmi culturali a esso collegati. Indagando su ciò che ha portato alla fondazione del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, sul contesto storico in cui esso è sorto e sulla figura di mons. Angelo Ramazzotti, il fondatore, ci siamo accorti di quanti e quanto interessanti siano i nostri legami con la storia di Milano e dellItalia, e allo stesso tempo di come la nascita di questo istituto che pure è rimasto numericamente limitato sia stata significativa e continui ad esserlo per la Chiesa italiana. La maggior parte dei nostri uomini ha operato e opera altrove, e ciò significa che sono in certo qual modo espressione di una nostra capacità di allargare gli orizzonti, di adattarci, di «esporta9 re» quella fede che tanto ha inciso nella nostra storia. Allo stesso tempo però comporta anche un «ritorno», culturale e spirituale, di non poco conto. La Chiesa e la società lombarda prima e poi italiana sarebbero diverse se non avessero saputo inviare tanti «ambasciatori» di pace, solidarietà, interesse per gli altri, accoglienza della parola evangelica per cambiare la vita. Questo volume, ben documentato, è interessante per ciò che racconta e anche appassionante: aiuta a capire che la missione è davvero elemento vitale per la Chiesa e anche per una società civile. Milano, ottobre 2000 P. FRANCO CAGNASSO Superiore generale del PIME Nellanno 2000 la EMI ha pubblicato: Angelo Ramazzotti, Fondatore del PIME (1800-1861), di Angelo Montonati (pagg. 224 + 8 fotografiche, e 10,33), di cui sono uscite due edizioni. 10 LA FIGURA E LA SPIRITUALITÀ DI MONS. ANGELO RAMAZZOTTI di Francesca Consolini La fisionomia spirituale di una persona, soprattutto di un candidato alla santità, come nel caso di mons. Ramazzotti, non può mai essere disgiunta dalla sua vita. Se vogliamo delineare le linee portanti di questa spiritualità, possiamo definirle così: amore alla preghiera e in particolare allEucaristia; obbedienza indiscussa al Papa e alla Chiesa; spirito missionario; carità organizzata; stile di vita povero e amore alla verità. Questi tratti dello spirito non possono però essere disgiunti dalla sua vicenda umana, anzi è in essa che si incarnano, prendono consistenza e, nel caso di un fondatore, si trasmettono alla propria famiglia religiosa costituendone il carisma. Mons. Angelo Ramazzotti che, in questa sede, viene oggi ricordato soprattutto come fondatore del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, fu anche uno dei più grandi vescovi del Regno Lombardo-Veneto, prima dellunità di Italia e prima del Concilio Vaticano I. La sua vicenda terrena si può suddividere in quattro momenti: gli anni giovanili dalla nascita (1800), al sacerdozio (1829); la permanenza fra gli Oblati Missionari di Rho dal 1829 al 1850, con la fondazione del Seminario Lombardo per le Missioni Estere; La dott.ssa Francesca Consolini è postulatrice di varie cause di Servi e Serve di Dio; collabora inoltre con lUfficio delle cause dei santi della diocesi di Milano e di altre curie vescovili. È autrice della Positio super virtutibus del Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti. 11 lepiscopato a Pavia dal 1850 al maggio 1858; il patriarcato a Venezia dal 1858 alla morte, il 24 settembre 1861. Angelo Francesco Ramazzotti nasce a Milano il 3 agosto 1800 da Giuseppe Cristoforo e Giulia Maderna, entrambi originari di Saronno. Ricevette la sua prima formazione scolastica ed umana in una Milano che stava attraversando un non facile periodo di assestamento politico, soprattutto fra gli anni dal 1800 al 1809, anno nel quale il Ramazzotti venne ordinato sacerdote ed entrò fra gli Oblati Missionari di Rho. Sono sufficienti brevi cenni per illustrare la situazione della diocesi ambrosiana di quel tempo: il 2 giugno 1800 Napoleone Bonaparte, primo console, fece il suo ingresso trionfale in Milano, promettendo tolleranza e libertà. Larcivescovo era lottuagenario mons. Filippo Maria Visconti che morì il 30 dicembre 1801 a Lione, dove partecipava alla Consulta straordinaria, promossa da Napoleone e organizzata dal ministro Talleyrand, allo scopo di riordinare gli affari della seconda Repubblica Cisalpina. I lavori della Consulta proseguirono fino alla stipulazione del Concordato del 1803 fra la Repubblica francese e la S. Sede. La Repubblica Cisalpina doveva seguire le sorti della Francia: trasformatasi questa in impero, essa divenne Regno Italico. Le vicende conseguenti a questo cambiamento sono note: la storica incoronazione con la «corona ferrea» di Napoleone nel duomo di Milano il 26 maggio 1803; il malcontento generale della Chiesa per le ingerenze del potere civile nelle questioni religiose; la diffusione del Catechismo imperiale; la sempre più massiccia opera di soppressione delle corporazioni religiose e il conseguente incameramento dei beni ecclesiastici. Lazione debole e troppo ossequiente a Napoleone dellarcivescovo mons. Caprara, quasi mai in sede, che viveva abitualmente a Parigi come legato a latere dellimperatore, non aveva fatto che aumentare il malcontento. Alla caduta di Napoleone seguirono la restaurazione austriaca e lelezione nel 1818, dopo la reggenza del vicario capitolare mons. Carlo Sonzini, di un grande arcivescovo: mons. Carlo Gaetano Gaisruck. Sotto di lui, la Chiesa ambrosiana riacquistò gradatamente un certo equilibrio; pur essendo di origine austriaca, infatti, il nuovo arci12 vescovo si sentiva soprattutto pastore della Chiesa milanese e sapeva porre un freno deciso alle pretese ingerenze del potere civile. È da sottolineare che mons. Ramazzotti non ebbe a risentire molto della situazione politica che si rifletteva anche negli ambienti ecclesiastici; scelse infatti la via del sacerdozio nel 1825 e compì gli studi teologici sotto larcivescovo Gaisruck che ebbe molto a cuore la preparazione dei suoi preti, tanto che, come scrive il Visconti Venosta, «si formò in Lombardia un clero colto, stimato e amato che seppe più tardi immedesimarsi nella vita del popolo e nelle aspirazioni nazionali». Questultima affermazione non vale però per mons. Ramazzotti, morto nel 1861; egli non fu mai attratto dalle vicende politiche; si preoccupò invece, e molto, delle conseguenze che guerre e sollevazioni riversavano sulla popolazione più povera; egli fu sempre fedele allidea del potere temporale del papa come garanzia di libertà religiosa e allImpero austro-ungarico, del quale, pur difendendo i diritti della Chiesa, si sentiva un suddito fedele. Formazione scolastica e sacerdotale Compiuti gli studi primari e liceali, prima presso il Collegio Viglezzi di Saronno, poi in quello di Gorla Minore e quindi al Collegio Longone e poi in quello di S. Alessandro di Milano retti dai Barnabiti, passò alla facoltà di legge della Regia Università di Pavia dove si laureò nel 1823. Ottimo studente dal lato del profitto e della disciplina, sembra non risentire affatto dei moti risorgimentali che infiammano la maggior parte dei suoi compagni, molti dei quali abbandonano gli studi e prendono parte ai moti piemontesi del 1821: fatto insolito per i tempi, egli sembra disinteressarsi completamente degli avvenimenti politici che accadono attorno a lui, atteggiamento che sarà caratteristico della sua personalità; per tutta la vita si sarebbe dimostrato soprattutto un pastore, preoccupato solo del bene della sua gente, fautore di conciliazione e di pace. La fonte principale dalla quale attingere per conoscere lintimo di mons. Ramazzotti è la biografia scritta solo qualche mese dopo la sua morte da don Pietro Cagliaroli; questi era il segretario 13 di mons. Ramazzotti, lo aveva seguito a Pavia e poi a Venezia, condividendo ogni sua fatica ed ogni suo ideale; era profondamente amico del vescovo il quale spesso gli confidava i suoi pensieri più intimi, le sue riflessioni ed anche alcuni preziosissimi ricordi; negli ultimi anni di vita del Ramazzotti, il Cagliaroli fu anche suo confessore e, in questa veste, oltre che come amico, lo assistette nella sua ultima malattia e al momento della morte. Volendone poi scrivere la biografia, don Cagliaroli condusse una approfondita indagine presso amici, compagni e conoscenti di mons. Ramazzotti, raccogliendo una serie di preziose testimonianze, aiutato in questo lavoro da padre Angelo Taglioretti, oblato di Rho anchegli amico del Ramazzotti e suo collaboratore nella fondazione del Seminario Lombardo. Quanto al Ramazzotti studente universitario, il Cagliaroli, sulla base delle testimonianze raccolte, lo descrive come un giovane di sani ed onesti costumi; si distingue per una certa signorilità di tratto e moderazione nel parlare che lo fanno rifuggire da ogni volgarità; apprezza lamicizia cordiale e sincera; è attento nellosservanza delle pratiche religiose, dei precetti e delle astinenze, ma non è bigotto e manifesta la sua fede senza rispetto umano; dimostra, fin da allora, molta attenzione verso i poveri. Dopo la laurea, dal 1823 al 1825 frequenta gli studi di due noti legali milanesi per compiere il suo tirocinio. Nel 1825, quasi come un fulmine a ciel sereno, comunica alla madre la sua intenzione di farsi sacerdote. Letà matura, gli studi universitari già compiuti e la serietà della sua vocazione gli consentono di frequentare come alunno esterno il seminario teologico di Milano fino al sacerdozio, ricevuto il 13 giugno 1829. Missionario Oblato di Rho Strettamente unita alla vocazione sacerdotale si manifesta in lui quella missionaria; già al terzo anno di teologia si fa strada nel suo animo «il desiderio di consumare tutta la vita nella santificazione delle anime», non solo come prete; pensava quindi di ritirarsi in un istituto religioso «per svincolarsi da ogni sollecitudine e cura di fa14 miglia», senza però rinunciare a quello che considerava il compito principale del sacerdote: la predicazione. Sceglie quindi di far parte degli Oblati Missionari di Rho proprio per la cura precipua che essi mettevano nella predicazione popolare; la domanda di ammissione presentata dal chierico Ramazzotti al termine del terzo anno di teologia venne accettata anche se la sua entrata fu differita a dopo lordinazione sacerdotale; il collegio di Rho era infatti formato da sacerdoti diocesani, già ordinati, caratteristica che il Ramazzotti trasferirà nel suo Seminario per le Missioni Estere. Il giorno stesso della sua ordinazione, nel pomeriggio, il Ramazzotti entrò nel collegio dei missionari di Rho. Questi erano stati fondati dal Servo di Dio Giorgio Maria Martinelli, il quale completava, con la sua istituzione, quella già fiorente degli Oblati dei SS. Ambrogio e Carlo; il collegio aveva sede presso il santuario della Madonna Addolorata di Rho; come le altre istituzioni religiose, esso venne soppresso in due riprese: da Napoleone nel 1798-1799 e insieme allintera congregazione nel 1810. Il cardinale Gaisruck non aveva molta simpatia per gli Oblati di Rho e fu solo grazie allazione di Ramazzotti, per tre volte superiore del collegio, che larcivescovo nel 1839 approvò il ripristino giuridico del collegio. Lazione di mons. Ramazzotti come oblato di Rho risulta dalle testimonianze dei suoi confratelli. Prima di tutto egli fu fedele alle norme che regolavano il collegio e alle direttive del suo fondatore: predicazione popolare, esercizi per il clero e le religiose; in più a padre Ramazzotti fu affidata la predicazione della dottrina «che per lunga consuetudine e con pieno beneplacito del parroco si teneva nel santuario del collegio. E la veniva esponendo con quella precisione, popolarità e chiarezza che era tutta propria del suo cuore, dei suoi lumi e della sua esperienza». Al di là delle missioni, egli si sobbarcò poi il delicato compito della direzione «di molti sacerdoti di quei dintorni e di altri luoghi [...] a tutti mostravasi largo di ogni assistenza, anche per consigli, onde poteano abbisognare ne loro rispettivi uffizi; così che non sapevan finire di commendare la prudenza e saviezza di avvisi e di regolamenti che attingevano allamorevole sua direzione». Secondo le prescrizioni della Norma venivano distinti due tipi di missione: quelle brevi, chiamate anche «missioni di visita», per15 ché preparavano alla visita pastorale dellarcivescovo e duravano un giorno o due al massimo di predicazione, e le missioni vere e proprie di due settimane, con la predicazione distinta per gli uomini, le donne, i fanciulli, le confessioni e comunioni generali. Il registro Missioni ed esercizi dal 1793 al 1888, conservato nellarchivio del collegio di Rho, permette di conoscere dove e quando Ramazzotti predicò le missioni. Egli predicò 214 missioni, 35 delle quali sono da considerarsi missioni vere e proprie, e di non meno di otto giorni le altre, in tutto il territorio della diocesi ambrosiana di allora che si estendeva a territori ora appartenenti alle diocesi di Novara, Como e al Canton Ticino. Le testimonianze dei confratelli e le relazioni dei parroci visitati dalla missione ricordano che padre Ramazzotti era instancabile; egli si sobbarcava a qualsiasi fatica pur di riuscire nellopera di riconciliazione e conversione delle anime. Scrive don Cagliaroli: Portavasi anche nella missione a confortare gli ammalati del paese, ed ascoltare le confessioni, e animandoli alla pazienza per ogni maniera si studiava di aiutarli e consolarli. Né farò qui menzione dei disagi tollerati da lui in molte di tali missioni, specialmente nelle parti montuose della diocesi [...] Gli bisognava inerpicarsi su per balze e dirupi e tenere angustissimi sentieri che gli esponevano a pericolo la vita [...] fino a casolari che posti allultimo confine della diocesi salzavano sui gioghi di altissimi monti, non impaurito per rischi, non vinto per istanchezza, costretto spesso a dividere un pane scarso coi meschini abitanti, ricoverato nelle loro affumicate e fetide capanne, questo vero angelo di Dio evangelizzava allegramente la pace, amministrava i SS. Sacramenti come se avesse dimorato fra le mura del suo Collegio. E quanto più cera da lavorare e patire, tanto meglio si chiamava contento il padre Ramazzotti. Avvalendosi della sua formazione di avvocato si prestava anche a ricomporre liti che duravano da anni e a riportare la pace nelle famiglie: «Le missioni si sarebbero dette propriamente la vita della sua vita, tanto era ardentissimo e direi quasi irrefrenabile il sentimento del bene onde era tutto animato. Mi attestano i Padri che gli furono compagni che, finita una missione, avrebbe voluto tosto incominciarne unaltra, e quando sulla lista dei 16 destinatari alle missioni, non leggesse il suo nome, restava come tutto mortificato». Nellanimo di padre Ramazzotti però si faceva già strada la chiamata a una missione più completa: quella ad gentes, che avrebbe poi concretizzato nella fondazione del Seminario Lombardo per le Missioni Estere. Un suo confratello, padre Liborio Rossi, ricorda infatti che, tornando al collegio dopo una missione, padre Ramazzotti spesso gli diceva: «Immaginiamo di essere due missionari, di quelli dellOceania che vengono a casa dopo aver passato una giornata di fame, di stenti, di stanchezza. Oh che gusto», e più volte tornava sullargomento della bellezza della vita spesa nella missione. Padre Ramazzotti fu per tre volte superiore del collegio di Rho: dal 1839 al 1841, dal 1841 al 1843 e dal 1847 al 1849, fatto eccezionale perché non era previsto che un superiore rimanesse tale per due mandati consecutivi, ma tale fu la volontà del card. Gaisruck. Durante lultimo mandato egli si distinse per lazione di pacificazione che svolse, per conto del governo provvisorio, per contenere la rivolta contro il governo austriaco nei paesi vicini a Milano; come in altre circostanze non si schierò né da una parte né dallaltra, ma si preoccupò che le conseguenze di tale rivolta non rendessero ancora più difficili le condizioni dei contadini, per i quali chiese al governo provvisorio la tutela di alcuni diritti contro i soprusi dei proprietari terrieri. Di questo terzo mandato del padre Ramazzotti come superiore degli Oblati di Rho rimangono alcune belle testimonianze di alcuni suoi confratelli che ne mettono in luce lumiltà e la carità; per padre Ramazzotti il vero missionario doveva essere santo; per ottenere buoni frutti dalle loro fatiche «i missionari devono essere santi per i primi». Ai confratelli era solito dire che i missionari «devono essere umili, devoti, pazienti, amanti del vero desiderio di piacere a Dio; devono essere mortificati, obbedienti alle loro Regole, far bene la mezzora di meditazione alla sera, digiunare al sabato, confessarsi due volte la settimana, avere un contegno che spiri santità e pace interna». Padre Ramazzotti non si accontentava del bene che faceva, ed era già molto, come missionario di Rho: «Facciamo del bene e 17 facciamolo davvero» era una esortazione che rivolgeva spesso ai confratelli e ne dava lesempio; secondo la testimonianza di don Giovanni Salerio, fratello di padre Carlo che avrebbe poi fatto parte del Seminario Lombardo e fondato le Suore della Riparazione, padre Ramazzotti viveva in vera povertà personale perché con quanto poteva disporre di suo pagava laffitto ad alcune famiglie indigenti; forniva di una conveniente dote le ragazze povere; procurava lavoro a chi non ne aveva; era poi cordiale e sincero con gli amici e si rammaricava quando, per ragioni di ministero, non avrebbe potuto fare quanto avrebbe voluto, come curare personalmente i poveri, lavarli, accudirli. Fin dai primi anni della sua attività come missionario di Rho, il Ramazzotti si era prefisso di restituire ad un fine religioso lex convento di S. Francesco a Saronno che suo padre aveva acquistato come bene ecclesiastico espropriato e che, nella divisione dei beni, gli era pervenuto in proprietà. Vi aprì un oratorio maschile come quelli che stavano fiorendo nelle parrocchie ambrosiane; lidea gli era venuta durante il mese di vacanza che i padri di Rho trascorrevano in famiglia. Scrive il Cagliaroli: Le osservanze del Collegio danno ai RR. Padri, nella stagione autunnale, un mese di vacanza perché possano prendere quel sollievo che è necessario, onde riaversi delle fatiche sostenute durante lanno. Ma del padre Ramazzotti si può affermare che non sapeva che cosa fossero le vacanze; egli non fece mai viaggio di puro diporto, né volle concedersi una ricreazione, un divertimento di sorta; ben metteva a profitto il tempo che gli era lasciato libero, per fare ancora del bene. Onde, portandosi a Saronno, dove aveva la sua casa patrimoniale, ampio e comodo locale, chiamava a sé i poveri contadinelli del paese e con grande pazienza e carità li veniva istruendo nelle verità religiose e si adoperava con calde esortazioni ad innamorarli della cristiana virtù, conformandoli così al santo timore di Dio. Pensò di rendere poi stabile questa istituzione; contemporaneamente e sempre a sue spese apriva nella stessa casa un orfanotrofio maschile di tipo familiare, affidato ad un sacerdote assegnatogli dallarcivescovo. Loratorio e lorfanotrofio presero il via la domenica 23 luglio 1837; per entrambi padre Ramazzotti 18 stese un regolamento e provvide ad ogni spesa. Scrive il Cagliaroli nel 1861: Saronno ebbe ben presto a sentire i salutari effetti di questa istituzione perché i giovani tolsero a convenirvi in gran numero; se ne contavano sino a 300 e più e con tale amore vi si recavano che stimassero il più grave dei castighi quello di esserne esclusi. Man mano che ne miglioravano i costumi crebbe lardore della carità e massime nella gioventù si strinsero i legami di tal vicendevole affetto da parere come membri di una sola famiglia. Il padre Ramazzotti nei giorni in cui poteva disporre di sé, faceva sentire la sua voce che era da tutti ascoltata con divota e filiale riverenza. Di tratto in tratto inviava eziandio taluno dei Rev. Padri del Collegio a tenervi fervorosi ragionamenti che riuscivano sempre a raffermare quei giovani nel retto sentiero della virtù. E dodici si noverano i giovanetti di Saronno che, avviati alla pietà, si determinarono ad abbracciare lo stato religioso. Loratorio è in fiore anche adesso colla benedizione di tutti: bella e santa memoria del padre Ramazzotti. Fu però soprattutto lorfanotrofio che assorbì la massima cura da parte del Ramazzotti. Era modellato sullo stile di una famiglia: venti ragazzi al massimo, e quindi landamento e lassistenza vennero affidati soprattutto al sacerdote assistente che viveva con loro. Alcuni maestri e prefetti di lavoro seguivano i giovani nella preparazione professionale perché lorfanotrofio era per i figli dei contadini e degli artigiani. Ramazzotti cercava di esservi presente il più possibile: «specialmente il giovedì attesta padre Rossi faceva tante volte a piedi, una gita sino a Saronno per trovare i suoi orfanelli ed anche la buona madre». Giulia Maderna, infatti, vedova fin dal 1819, essendosi laltro figlio Filippo sposato, si era trasferita a Saronno e viveva nellorfanotrofio, facendo da mamma a quei bambini. Il mantenimento delloratorio e dellorfanotrofio costava a padre Ramazzotti «circa sei mila lire allanno ed egli si esaurisce e si fa povero veramente, povero e gramo anche negli abiti per dar pane ai bisogni materiali e spirituali degli orfani e dei giovanetti». Durante le «cinque giornate» di Milano il Governo provvisorio di Lombardia ricorse allorfanotrofio di Saronno per farvi «raccogliere ed educare un numero di orfani e derelitti in 19 causa della nostra gloriosa rivoluzione»; contemporaneamente, però, Ramazzotti vi accoglieva anche sedici fanciulli figli dei soldati austriaci che avevano abbandonato Milano in tutta fretta ed egli «pensò a rivestirli, a mantenerli, ad educarli. E a togliere ai nostrali ogni preoccupazione a danno degli stranieri, fece intendere ad essi, siccome secondo le leggi della carità cristiana, fossero tutti fratelli in Gesù Cristo; badassero quindi a non recare ai giovinetti austriaci offesa alcuna. E per verità larmonia di quella casa non fu turbata minimamente, né sorse mai litigio o contesa che la rompesse». Riaffiora questo tratto caratteristico della spiritualità di Ramazzotti che lo contraddistingue sempre: patriarca di Venezia proprio negli anni cruciali della vigilia della seconda guerra di indipendenza, in un clima di accesa avversione allAustria, egli chiederà senza timore alla popolazione, peraltro già provata da tante privazioni, di aiutare le famiglie di alcuni soldati austriaci sinistrate dallo scoppio di una polveriera; chiedeva ed era ascoltato perché, per primo, dava esempio di sorprendente carità e accoglienza, conducendo una vita poverissima. Laccoglienza offerta ai ragazzi austriaci e ai figli degli insorti sorprese persino il maresciallo Radetzky, che constatò «la veramente evangelica carità con chi, qual missionario, continua costì, come riferisce codesta R. Delegazione Provinciale, a mantenere ed a far istruire a tutte sue spese parecchi giovanetti di quel paese ed anche esteri». Dopo lelezione a vescovo di Pavia, Ramazzotti nel 1852 trasferì il suo orfanotrofio nella tenuta detta dei Casoni, nella campagna pavese; tutto però fu spazzato via dalla piena del Po dellottobre 1857 ed egli non fu più in grado di rimettere in piedi la sua istituzione. Anche da vescovo Ramazzotti amò sempre i suoi orfanelli; anzi aveva scelto lorfanotrofio come luogo per passarvi le vacanze e i giorni di riposo. Scrive il suo biografo, che ve lo accompagnava: Ed io credo che tanto gli fosse piacevole questo luogo perché poteva qui vivere a suo bellagio quella santa povertà che era una delle virtù predilette dellanimo suo. Sceglieva per sé la stanza più remota e meschina della casa, lasciando le più comode pe i sacerdoti che lavessero accompagnato: vi si saliva per una scala di legno e la suppelletti- 20 le altro non era che un letticciuolo, due scranne di paglia, un tavolino di legno greggio. Né si lagnava mai della molestia cagionata da pungentissime zanzare che in quei luoghi sono frequentissime. Mangiava nella cucina degli orfanelli o in una stanza vicina che serviva alle loro arti. Né mai mostravasi tanto lieto e contento come quando si fosse trovato in tal condizione. Sul finire del 1848 il governo austriaco, cui spettava la scelta dei vescovi del Regno Lombardo-Veneto, cominciò a pensare a lui come un possibile titolare di una sede episcopale vacante. Lascio agli altri autori di questo volume la storia della fondazione del Seminario Lombardo. Qui voglio solo sottolineare che anche in questa fondazione lobbedienza piena al papa fu la nota caratteristica che mons. Ramazzotti volle imprimere, perfino a costo, come scrisse chiaramente nel 1853, di sacrificare il fine stesso del seminario, cioè la missione ad gentes che costituiva lideale di tutta la sua vita. Vescovo di Pavia Proprio lobbedienza a papa Pio IX impedì a mons. Ramazzotti di seguire come avrebbe voluto il Seminario Lombardo ed anche di farvi parte; infatti la sera dell11 novembre 1849, mentre alla certosa di Pavia con don Giuseppe Prada e padre Marcello Supriès egli poneva le basi per la fondazione del Seminario Lombardo, Francesco Giuseppe imperatore dAustria lo nominava vescovo di Pavia. Tra la nomina e lingresso in sede intercorse quasi un anno, durante il quale Ramazzotti perfezionò la fondazione del Seminario Lombardo. Un tale spazio di tempo era nella norma: liter della nomina di un vescovo del Lombardo-Veneto era complicatissimo, soprattutto per una sede come Pavia che era vacante da più di cinque anni per la morte di mons. Luigi Tosi, avvenuta nel 1845. La scelta del vescovo doveva essere approvata dal papa e secondo gli accordi che regolavano i rapporti fra lAustria e la S. Sede, mentre prima di tale rettifica si doveva eseguire tutta una 21 serie di passaggi: comunicazione del segretario di Stato di Pio IX, cardinale Antonelli, al nunzio a Vienna di aver ricevuti dallimperatore il nominativo del nuovo vescovo e la lettera del candidato al ministro del Culto e Istruzione a Vienna per esternare la propria adesione alla scelta imperiale, e così pure allI.R. Delegazione di Pavia e al governatore interinale della Lombardia; i vari organi governativi poi si comunicavano a vicenda gli assensi ricevuti. Prima delle «bolle placitate» di Roma, la S. Sede faceva i suoi passi: corrispondenza fra il cardinale Antonelli e il nunzio a Vienna circa le qualità dei nuovi eletti che dovevano essere sacerdoti di provate virtù, fedeli al papa oltre che allimperatore, non troppo «austriaci» e soprattutto per niente filoliberali. Occorreva poi anche un certificato medico sulle condizioni fisiche del nuovo vescovo, onde evitare di dover ripetere il tutto entro breve tempo; in quello rilasciato a Ramazzotti dal dott. Giovanni Carnelli, si intravede già la causa che lo avrebbe condotto ad una morte repentina e precoce: «soffre da molti anni di congestioni sanguigne precordiali a grado di far temere qualche guasto organico, se larte e la natura non concorressero a provvedere istantaneamente». I più interessanti fra i diversi documenti intercorsi fra Roma e Vienna sono la dichiarazione sulle virtù sacerdotali di Ramazzotti di padre Gaetano Ravizza, superiore del collegio di Rho, che ne mette in luce la grande carità verso i fanciulli ed i poveri, per mantenere i quali «è continuamente sì privo di mezzi finanziari che spesso non ha con che provvedere a se stesso il conveniente», e quella resa alla S. Sede dallarcivescovo Romilli circa la persona del padre Ramazzotti esaminata in ogni epoca ed aspetto del suo sacerdozio: giovane prete dotto e generoso che rinunciava ai suoi legati in favore dei confratelli più bisognosi; evangelizzatore di bene e di pace come missionario di Rho; esempio di dottrina e di pietà e fortezza per il clero, dal quale è amato e stimato; sollecito nella carità verso i poveri, specie i fanciulli orfani; lo stesso arcivescovo confessa di privarsene «immo cordis dolore», perché era solito ricorrere al suo consiglio. Finalmente nel marzo si tennero a Roma i processi della dataria apostolica per lelezione di mons. Ramazzotti a vescovo di Pavia. Risultati questi più che positivi, nel concistoro segreto del 20 mag22 gio 1850 Pio IX lo nominò vescovo di Pavia. Ne veniva di conseguenza che, entro sei mesi, egli doveva recarsi a Roma per la consacrazione episcopale, che avvenne il 30 giugno 1850 per mano del prefetto della Sacra Congregazione di Propaganda Fide card. Franzoni nella chiesa di S. Carlo al Corso. Ramazzotti aveva accettato la nomina a vescovo di Pavia solo in obbedienza al papa. La città aveva risentito moltissimo delle tensioni politiche del 1848 e della posizione assunta alla fine dellaprile di quellanno da Pio IX, il quale aveva preso netta distanza dalla rivoluzione e dalla guerra; erano quindi riemerse le antiche tesi sia regaliste che rigoriste, convergenti nellopposizione al temporalismo del papa. Mons. Ramazzotti si trovava quindi a gestire la diocesi in una fase di transizione, segnata appunto da quella diatriba, molto viva nel clero «tra chi ritiene che ci si debba stringere attorno al papa, raccogliere le forze e battersi frontalmente contro la rivoluzione e chi, viceversa, pensa che il potere temprale sia un fardello da cui al più presto occorre liberarsi per poter instaurare un rapporto validamente collaborativo con lItalia risorgimentale». Gran parte dei sacerdoti «tosiani» era su questultima posizione, mentre il nuovo vescovo, non per opportunismo ma per convinzione, era dallaltra parte. Questo non impedì però a mons. Ramazzotti di avere rapporti di sincera amicizia e valida collaborazione con sacerdoti come don Pietro Terenzio, convinto fautore della «santa causa dellindipendenza nazionale», da lui nominato cancelliere della curia. Il seminario aveva risentito moltissimo delle vicende del 1848, cui professori ed alunni avevano preso parte; per tale motivo era stato occupato dagli austriaci nel biennio 1848-1849 e adibito ad usi militari e civili. La diocesi contava sette parrocchie urbane compreso il suburbio e settantacinque suburbane, quasi tutte di regio patronato e sostenute dalla carità dei fedeli. Leconomia della diocesi era basata tutta sullagricoltura per cui risentiva pesantemente delle calamità naturali, come avvenne anche durante lepiscopato del Servo di Dio. Dopo le soppressioni giuseppine e napoleoniche e il drastico ridimensionamento del territorio diocesano nei primi decenni del secolo, allingresso di mons. Ramazzotti in Pavia lunico insediamento religioso era rappresentato dai frati della certo23 sa, da poco rientrati in possesso del loro monastero, mentre non esistevano più conventi femminili. Mons. Ramazzotti entra in diocesi il 29 settembre 1850. Particolare curioso era il fatto che la maggior parte dei beni e delle rendite della mensa vescovile era al di là del Ticino, non più nel Lombardo-Veneto ma nel Regno di Sardegna, per cui il vescovo, per riscuoterne i proventi, doveva fare domanda al governo di Torino. Dal momento che la sede era vacante da anni, «le rendite intercalari della mensa ammassate nella lunga vacanza, gli davano in mano una somma rilevante»; ma egli, «uomo di inesauribile carità verso i poveri, dedicò le prime sue cure e rivolse ad essi tutta intera la sua benevolenza». Nei sette anni di episcopato linteresse di mons. Ramazzotti verso il suo clero fu davvero lodevole; appena qualche mese dopo il suo ingresso in diocesi egli si era già fatto unidea sulla condotta del suo clero; questo fatto lo portò a prendere una ragionevole distanza da alcuni provvedimenti governativi, in virtù dei quali lI.R. Luogotenenza si riservava «di allontanare immediatamente dalla cura danime tutti quei beneficiati, contro i quali emergessero fondati sospetti di sleali sentimenti politici e di abuso di potere spirituale». Non era facile mantenere un saggio equilibrio fra lautorità di vescovo che doveva rispettare le opinioni dei propri sacerdoti e la continua, quasi ossessiva sorveglianza del governo austriaco sempre allerta. Buon suddito che sottolineò con la dovuta solennità gli avvenimenti della casa imperiale come il matrimonio di Francesco Giuseppe con Elisabetta di Baviera e la nascita dellarciduchessa Sofia, era però ben deciso quando si trattava di difendere i diritti della Chiesa; nel 1852 oppose un cortese ma fermo rifiuto a produrre alle autorità governative la lista degli insegnanti da nominarsi nel ginnasio vescovile, essendo questorganismo sotto la diretta responsabilità del vescovo. Lo scontro più diretto con lI.R. Luogotenenza lo ebbe nel 1853, quando questa pretese di regolare listruzione catechistica e religiosa della gioventù. Una circolare governativa del 18 giugno 1853 raccomandava ai parroci, agli insegnanti e ai rettori dei convitti «distillare profondamente nei loro cuori la venerazione a Dio e la riconoscenza e lamore al sovrano 24 imperiale che veglia con tanta cura al loro bene». Venivano poi prescritte come obbligatorie fra le preghiere quotidiane due orazioni pubblicate nel Piccolo catechismo di chiaro sapore imperiale: nella medesima circolare si dava avviso della prossima preparazione del catechismo per le scuole primarie a cura del ministero del Culto. La reazione di Ramazzotti fu decisa, rivendicando alla sola Chiesa linsegnamento religioso e la compilazione del catechismo al vescovo; la reazione fu tanto inaspettata che, quando egli si recò a Roma per la Visita ad Limina, fu sorvegliato dalla polizia segreta. Una delle prime iniziative di mons. Ramazzotti fu quella di organizzare gli esercizi spirituali per il clero; organizzò poi la «Congregazione dei casi» (morali, teologici), nelle diverse parrocchie cui partecipava lui stesso; voleva infatti conoscere a fondo la preparazione culturale e teologica dei sacerdoti e per questo, spesso, animava la discussione sugli argomenti che venivano trattati; formò poi la Congregazione Ecclesiastica di Carità con «lincarico di por mente a quanto si potesse fare a maggior profitto delle anime; e ciò che di mano in mano luno o laltro di loro veniva proponendo, era deciso in comune in un coi mezzi con che recarlo ad effetto». A detta del biografo don Cagliaroli che ne fece personalmente esperienza, lazione di mons. Ramazzotti nei confronti del clero fu paterna, paziente, ma capillare ed attenta, non priva della dovuta severità: Né mai si era a desiderare in mons. Ramazzotti maggiore vigilanza sui portamenti dei sacerdoti e maggior fervore nel riscaldare gli animi negli studi loro convenienti e nella santità della vita. Prendeva informazioni minute, massime se i curatori danime compissero con fedeltà e diligenza i propri ministeri, se illibato il costume, sana la dottrina. E richiamando al dovere chi ne deviava, congiungeva sì fattamente la carità alla correzione che esigendo lemenda del colpevole, non se ne alienava mai lanimo pronto a ridonargli la sua fiducia appena gli mostrasse sicuro ravvedimento. In genere il clero rispondeva bene a queste premure, ma non mancarono situazioni nelle quali il vescovo si vide costretto ad 25 operare «tagli dolorosi». La più grave di tali situazioni avvenne nel 1854-1855, dopo la definizione del dogma dellImmacolata Concezione. Fu un episodio tanto penoso che per affrontarlo mons. Ramazzotti «vi ebbe a spiegare tale una mirabile virtù che toccò, si può dire, leroismo». Quattro sacerdoti del clero diocesano fecero giungere al vescovo una «protesta» con la quale dichiaravano di non poter aderire alla bolla Ineffabilis Deus perché contraria alla verità. La prima reazione di Ramazzotti fu quella di scrivere ai sacerdoti una lettera, non pervenuta, con la quale li sospendeva dal ministero fino al chiarimento della loro posizione. Li chiamò poi in arcivescovado e quindi, «colla carità tutta propria del suo bel cuore, per ogni maniera si adoperò a richiamarli da loro errore». Dal momento che questi perseveravano nella loro posizione, il vescovo mise in movimento tutte le persone che lo potevano aiutare per convincere i quattro ad obbedire al papa; coinvolse la diocesi nella preghiera; non volle né chiacchiere né accuse nei riguardi dei dissidenti. Anzi chiamando a Pavia mons. Luigi Biraghi e padre Taglioretti perché si incontrassero con quei sacerdoti, raccomandò loro di lasciare ad essi la libertà di esporre «le ragioni alle quali credono di potersi appoggiare e a sentire in qual modo possono essere sciolte le loro difficoltà». La vicenda si concluse con la sentenza di scomunica verso i dissidenti, che furono allontanati dalla diocesi; mons. Ramazzotti si occupò personalmente del gruppetto di simpatizzanti che quei sacerdoti avevano riunito attorno a loro: «Li chiamò a sé e si condusse da loro; li istruì e li fece bene istruire sul dogma definito e sulle ragioni per cui doveva essere creduto, sventando le obiezioni che erano state loro messe in capo». Uguale premura egli dedicò al seminario, nel quale, nel 1853, erano presenti 53 seminaristi teologi; per quanto non fosse conforme ai canoni del Concilio Tridentino, il vescovo riservò a se stesso la diretta responsabilità del seminario, come forma di tutela contro lingerenza del governo austriaco che considerava il seminario come potenziale semenzaio di rivoluzionari. Mons. Ramazzotti ebbe molta cura nel vagliare lammissione dei candidati e scelse per il seminario professori e confessori altamente preparati; quasi quotidianamente si recava in seminario mantenendo un rap26 porto personale con i giovani alunni. Per quanto riguarda lammissione dei chierici era severissimo, non piegandosi ad alcuna raccomandazione, era però altrettanto generoso nel collocarli una volta dimessi dal seminario: Quando il chierico specialmente non gli desse bastevoli guarentigie sullonestà del costume e sulla integrità della dottrina, non che escluderlo dai sacri ordini, anche gli facea porger giù labito ecclesiastico. Né valeano a piegar lanimo del vescovo a condiscendenza le preghiere e le istanze più pressanti dei parenti e di altre persone anche di conto, non volendo per una falsa compassione tradire gli interessi di Dio. A coloro poi che, o per espresso comando di lui, o per proprio consiglio venivano esclusi dal sacerdozio, era largo di tutta la sua carità non mancando di adoperarsi presso le magistrature ed i privati affinché fossero provvisti di onesti impieghi. Nella relazione per la Visita ad Limina Apostolorum del 27 settembre 1853 si legge che, allepoca, nella diocesi di Pavia esistevano due soli insediamenti religiosi: i Certosini dimoranti presso la famosa certosa e le Figlie della Carità, dette Canossiane dalla fondatrice Maddalena di Canossa, nate per provvedere alleducazione delle fanciulle del popolo. Queste suore erano state chiamate a spese di mons. Ramazzotti per occuparsi delleducazione e della formazione delle fanciulle, specie le più povere. Mons. Ramazzotti aveva conosciuto le Canossiane a Milano e le giudicò le più adatte a questo compito; per questo si recò personalmente nella casa milanese di via S. Michele alla Chiusa per chiedere alcune religiose per la fondazione di Pavia; a questo scopo non mancò di sollecitare una risposta dalla superiora generale, madre Margherita Crespi. Lavvio della casa non fu facile, ostacolato dal complicato meccanismo burocratico regolato dalle autorità austriache; essendo però unopera che presentava indubbi vantaggi sociali, il feldmaresciallo Radetzky ne agevolò le pratiche; la scuola con la casa-convitto aveva sede nellex convento delle Francescane che il vescovo aveva provveduto ad adattare e arredare. Lopera prese il via il 3 dicembre 1852, sempre provvista di tutto, anche del cibo, dalla sollecitudine di mons. Ramazzotti; in essa venivano preparate anche le ragazze delle campagne che, avendone le capacità, desideravano diventare maestre 27 rurali; per quelle che non potevano pagare la retta provvedeva la carità del vescovo. Dal 1853 in questa casa funzionò anche una scuola per le sordomute, con unapposita maestra venuta da Milano dove queste scuole funzionavano già con successo; non riuscì a fare altrettanto per i ragazzi, perché gli assembramenti maschili erano guardati con sospetto dalle autorità governative. Lopera di carità svolta dal vescovo fu davvero notevole ed abbracciava ogni campo: la condizione dei malati negli ospedali; il problema dei ragazzi sordomuti; i suoi orfani trasferiti da Saronno nella campagna pavese; la disastrosa inondazione del Po e del Ticino dellottobre 1857; il colera, le carestie. Vi erano poi urgenze morali: redigere il nuovo catechismo; istituire il tribunale per i matrimoni; esercizi e missioni nelle parrocchie. Mons. Ramazzotti aveva uno stile tutto suo nel fare le opere di carità. Si sapeva servire di validi collaboratori: sacerdoti, Canossiane, laici preparati, nelle cui mani metteva tutto del suo per sovvenire alle diverse necessità. Ma il suo nome e la sua azione diretta non comparivano quasi mai; inoltre non amava molto fare la carità spicciola dellelemosina, preferiva investire anche grandi somme in opere valide e durature che, oltre a risolvere i problemi del momento, davano la garanzia della continuità; si serviva, potenziandole, anche delle opere già esistenti come la Pia Casa di Industria che sostenne con denaro, con la sua presenza, con lacquisto di materiale per fare lavorare le donne e le fanciulle, per provvedere allistruzione dei poveri. Diede molta attenzione ai giovani; per gli apprendisti, gli operai e gli artigiani aprì, in episcopio, le scuole serali gratuite. Monsignor Ramazzotti dovette poi affrontare gravi emergenze: lepidemia di colera del 1855 durante la quale aprì un ospedale nel seminario, visitando più volte i malati nei due lazzaretti cittadini e nelle campagne, informandosi dai parroci sulle loro necessità; solo linsistenza dei suoi sacerdoti che temevano per lincolumità del vescovo, lo fece desistere dallassistere egli stesso i malati. Fu poi ammirevole lopera che svolse durante la piena del Po e del Ticino dellottobre 1857; don Cagliaroli lo accompagnò nei paesi sinistrati dove il vescovo provvide in prima persona allinvio di viveri, al soccorso degli anziani e dei malati; egli seppe organiz28 zare tanto bene le operazioni di assistenza e di spedizione di viveri, letti, coperte e indumenti che larciduca Massimiliano dAustria, fratello dellimperatore e governatore del Lombardo-Veneto, lo propose come successore nella sede vacante del patriarcato di Venezia: una città, a quel tempo, oppressa dalla miseria dove viveva un vero esercito di poveri. Il denaro con il quale il vescovo provvedeva a tutto gli proveniva dalla rendita vescovile e dal suo patrimonio personale che si andava esaurendo; vi era poi la generosità del fratello Filippo e di altri benefattori; ma soprattutto mons. Ramazzotti viveva in povertà più che monastica. In episcopio viveva secondo lo stile di vita comunitario dei missionari di Rho, dividendo il tempo fra molte ore di preghiera e di studio (la sera e la notte) e lopera pastorale; aveva con sé, come farà anche a Venezia, un gruppo di sacerdoti, detti «preti di famiglia», con i quali faceva vita comune; questi, come lo stesso vescovo, si dedicavano soprattutto alla predicazione delle missioni nelle varie parrocchie della diocesi e allinsegnamento del catechismo per il quale mons. Ramazzotti aveva aperto diverse scuole di dottrina cristiana. Personalmente lo stile di vita del vescovo era austerissimo: pasti frugali, niente riscaldamento nelle sue stanze; mobili, vesti, suppellettili ridotti allessenziale; camminava a piedi il più possibile, usando pochissimo la carrozza; si serviva pochissimo anche della servitù: volle che i laici in servizio in episcopio abitassero nelle loro case, sapendoli padri di famiglia. Don Cagliaroli sostiene «che in capo a pochi mesi avesse dispendiato in limosine lire 80.000», per provvedere ai poveri delle campagne, ai malati del civico ospedale, per «somministrar denaro a liberare pegni dal Monte di Pietà», visitare «uno per uno i pii istituti e a tutti recò sovvenimenti». Viveva in tanta povertà che gli stessi suoi collaboratori ed il suo amministratore, un laico noto anchegli a Pavia per la sua carità, arrivavano a rimproverarlo con molta familiarità, ma «il vescovo collusata sua giovialità e senza esitanza rispondeva che nessuno meglio di lui desiderava farsi povero, rincrescendogli solo che dal suo stato alla paglia di S. Carlo cera ancora molta distanza». Oltre allo studio, alla preghiera e alle visite al seminario e alle diverse istituzioni caritative della diocesi, mons. Ramazzotti rice29 veva personalmente chiunque si recava in episcopio, anche i poveri. Esaminava poi personalmente «i negozi di massima», cioè le questioni più delicate che cercava di risolvere con laiuto dei suoi collaboratori e con lunghe ore di studio, specie di notte. Per incrementare le vocazioni sacerdotali sostenne il Collegio Vescovile, già fondato da mons. Tosi, e non volle tralasciare la predicazione e lamministrazione dei Sacramenti come aveva sempre fatto da missionario di Rho: Predicava nella cattedrale [...] entro lOttava di Pentecoste amministrava solennemente la Cresima in Duomo ed anche ogni dì nella sua cappella vescovile. Né si ricusò mai dal conferire questo gran sacramento ai figlioletti in pericolo di vita, sia in città che in campagna, appena ne fosse domandato. Né dal farlo lo indugiavano affari più importanti che fossero, né inclemenze di stagioni per quanto stemperate; onde più di una volta fu veduto attraversare la città a piedi, mentre a falde larghe cadeva la neve. Sempre sullo stile appreso e vissuto fra i missionari di Rho, intraprese la visita pastorale nellaprile 1853, predicando e confessando con molta semplicità, anche in dialetto come aveva imparato a fare quando era missionario. Del resto mons. Ramazzotti si considerò sempre e soprattutto un missionario; quando seppe della sua elevazione al patriarcato di Venezia, scrisse due volte a Pio IX per convincerlo a non accettare la proposta dellimperatore; la prima lettera, del 13 febbraio 1858, è andata persa; nella seconda, del 15 marzo successivo, egli afferma chiaramente di non essere allaltezza di un tale compito per «la disparità che io non potrei negare, neppure volendo, tra la mia attitudine e lalto e gravissimo compito che è quello del patriarcato di Venezia», questo perché, già allepoca nella quale era stato nominato vescovo a Pavia, i suoi «pensieri non erano al di là della carriera di missionario». Era molto delicato anche il momento politico; a Venezia si respirava aria di acceso patriottismo e si sapeva che la scelta del nuovo patriarca era fatta dallimperatore. Fu dunque Massimiliano dAustria a suggerire il nome di Ramazzotti, passato, in un primo momento, sotto silenzio: «Egli sarebbe inoltre uno dei più saggi ed intelligenti vescovi della Lombardia; di esemplare inte30 grità morale [...] di una eccellente cultura teologica». Era considerato «uomo di moderazione»; soprattutto era noto per la sua eccezionale carità: «Dal lato dei poverelli scrive mons. Moro, vicario capitolare di Venezia mons. Ramazzotti vi ottiene un massimo provento. Un esercito di 45.000 poveri inserito nelli cataloghi interinali, è la miglior dote del patriarca». La nomina gli giunse di sorpresa; una lettera del barone Ernesto di Kallesperg, vicepresidente dellI.R. Luogotenenza, con la quale lo salutava patriarca di Venezia. E poi nei giorni successivi la nomina ufficiale e le lettere di felicitazione. Prima che il papa apponesse il suo placet, egli tentò di esimersi scrivendo appunto le due citate lettere, rimettendosi comunque come sempre alla volontà del Santo Padre: «Basterà, lo ripeto, un suo cenno a togliermi ogni esitazione». Patriarca di Venezia Ma per la sede patriarcale di Venezia, come avvertiva lImperial Cancelleria, occorreva procedere con molta cautela: «Il patriarcato in questione ricopre una grande importanza rispetto alla posizione del patriarca come metropolita; la scelta di un valente patriarca è difficoltosa anche a causa delle personalità degli immediati predecessori del patriarca stesso che si sono distinti per fermezza di fede, integrità morale ed erudizione; in essi Venezia venerava non solo lalta dignità ecclesiastica, ma anche la persona stessa». Egli ignorava però che il processo della dataria apostolica del 12 marzo lo aveva già promosso patriarca di Venezia; il breve di Pio IX del 25 marzo 1858, che lo trasferiva dalla sede di Pavia a quella metropolitana di Venezia, mise fine ad ogni riluttanza da parte del Servo di Dio. Lingresso nella nuova diocesi avvenne il 15 maggio 1858, preceduto da una sosta nel Seminario Lombardo, a Milano presso la sede di S. Calocero, e fu celebrato con tutta la pompa delloccasione che mons. Ramazzotti aveva cercato invano di evitare; era talmente alieno dal far mostra di sé che da Pavia i suoi preti non furono in grado di inviare a Venezia neppure un ritratto del nuovo patriarca perché egli non aveva mai voluto farsi ritrarre. In effetti le raffigurazioni che si hanno di lui sono state fatte a memoria, 31 perché mons. Ramazzotti non accettò mai di farsi ritrarre per modestia e per spirito di povertà. La sera stessa del suo ingresso, stupì tutti perché senza seguito e su una semplice gondola si recò a visitare due sacerdoti che aveva saputo essere gravemente malati. A Venezia il patriarca trovò una vita religiosa molto più viva rispetto a Pavia: parecchie case religiose ben funzionanti e molto clero, abbastanza preparato; buono anche lo stato del seminario che vantava una pregevole biblioteca ed accoglieva duecento chierici. Ma mons. Ramazzotti era abbastanza realista per sapere che la più parte di loro non aveva ancora raggiunto letà per decidere se diventare responsabilmente sacerdote. A Venezia funzionava una attivissima rete di carità e solidarietà coordinata dalla Società di S. Vincenzo de Paoli, con la quale Ramazzotti ebbe un ottimo rapporto di collaborazione. Buona anche lindole della popolazione, incline allumanità ed alla religione, più portata, scrive lui nella relazione per la Visita ad Limina, a prendere la vita con serenità che a sottoporsi a duri lavori; una popolazione varia e vivace che aveva però un unico grave difetto, contro il quale il patriarca combatterà con la parola e la penna senza darsi tregua: la bestemmia. La sorveglianza austriaca non era così oppressiva come a Pavia e mons. Ramazzotti godeva di una certa autonomia, consolidatasi poi nel febbraio 1861 quando divenne deputato della camera del Consiglio dellimperatore. Quanto allazione di mons. Ramazzotti, sebbene egli sia stato patriarca solo tre anni, ha del sorprendente: riordino e fondazione di nuove scuole della Dottrina Cristiana con la preparazione di catechisti e sacerdoti seguiti personalmente da lui e compilazione del nuovo catechismo; riunione del concilio provinciale dei vescovi suffraganei, tenutosi dal 18 ottobre al 4 novembre1859; evento, questo, importantissimo perché vedeva riuniti tutti i vescovi della sua provincia ecclesiastica per uno scambio e un confronto di azione pastorale, soprattutto per arrivare alluniformità dellinsegnamento da impartirsi nei ginnasi e nei seminari. Non fu facile convincere i confratelli vescovi a muoversi in piena guerra di indipendenza, ma era necessario un confronto dopo il recente concordato firmato fra Austria e Santa Sede nel 1855. Gli statuti del concilio furono stam32 pati dal successore del Ramazzoti, mons. Travisanato. La celebrazione del sinodo ebbe riscontro molto positivo nellopinione pubblica, bene informata circa la solennità dellevento. Mons. Ramazzotti avrebbe voluto celebrare un secondo concilio provinciale e il sinodo diocesano nel 1862, ma non ne ebbe il tempo. Il 20 giugno 1858 intraprese la visita pastorale cominciando dalle parrocchie più povere, quelle della zona dellEstuario, «tanto gli stavano a cuore i più meschini, non già i meglio agiati o ricchi fra i suoi diocesani». Due volte si recò nella forania dellEstuario, ma nei soli tre anni del suo episcopato a Venezia non riuscì a completare la visita pastorale. Per le parrocchie dellEstuario egli volle provvedere perché, al di là della consuetudine che prevedeva un solo concorrente impedendo al vescovo di scegliere la persona più degna, esse venissero considerate alla stregua delle parrocchie di città; anzi, considerando le difficili condizioni di quei luoghi, con una lettera circolare del 19 luglio 1859 invitava i sacerdoti a chiedere di esservi assegnati: Come un soldato valoroso domanda il posto più pericoloso e più difficile, o meglio, come la carità ambisce gli offici più oscuri, più penosi e meno remunerati della terra [...] ricordatevi scrive ai sacerdoti che assumendo il sacerdozio avete assunto uno speciale obbligo di obbedienza al vostro patriarca, di servizio verso la Chiesa, di zelo per la gloria di Dio e per la salute delle anime. Come a Pavia, così anche a Venezia mons. Ramazzotti si preoccupò di avviare opere di carità sotto il segno della continuità e dellefficienza, collaborando con la Società delle Conferenze di S. Vincenzo de Paoli e con le famiglie religiose esistenti o in via di formazione. Laiuto che diede alle nuove famiglie religiose fu rilevante: Francescane Clarisse della Trinità. Per loro mons. Ramazzotti, su richiesta della superiora suor Maria Crocifissa Scarpa, si adoperò presso la S. Sede affinché il piccolo convento della Giudecca ottenesse lerezione canonica, con voti religiosi perpetui; linteressamento del patriarca fu sollecito presso la S. Sede e presso le autorità austriache, tanto che il 9 febbraio 1859 egli accoglieva la professione delle prime suore e imponeva la clausura vescovile. 33 Carmelitane Scalze. Nel 1853 una pia dama della città, la contessa Paolina Giustiniani Recanati vedova Malipiero, aveva proposto ai Carmelitani presenti in Venezia la fondazione di un monastero che fosse sotto limmediata giurisdizione dellOrdine Carmelitano; questo rendeva difficile lassenso della Santa Sede che preferiva che le case religiose, anche claustrali, fossero soggette al vescovo. La cosa venne fatta conoscere al patriarca, «ed egli considerando il bene che, ad onta della voluta condizione, potea derivarne alla sua Venezia, ne scrisse al Santo Padre in termini di persuasione, e ne ebbe prontamente la più ampia approvazione». A mons. Ramazzotti venne anche concessa la facoltà di permettere che la contessa fondatrice entrasse con alcune compagne nel monastero di Parma per compiervi il noviziato; egli ottenne inoltre dal Santo Padre che, non essendo ancora pronta la sede destinata a monastero, la fondazione iniziasse a operare in una casa presa in affitto con le debite assicurazioni, impegnandosi egli stesso a seguire personalmente landamento della comunità e a vigilare sullesatta osservanza della regola e della clausura. Figlie del Sacro Cuore. Dallo zelo del canonico Daniele Canal, nel 1852, erano state fondate le Figlie del Sacro Cuore che si occupavano delleducazione delle fanciulle poverissime in una casa a S. Maria del Pianto. Il Canal, con la collaborazione della Serva di Dio Anna Marovich, pensò poi alla fondazione di una casa in cui accogliere «quelle infelici che alluscire dal carcere, lasciate in balìa di sé medesime, correrebbero il rischio di ulteriori traviamenti». Listituzione, allarrivo del patriarca, era ancora ai primi passi e progrediva con fatica data loriginalità dello scopo che si prefiggeva. Solo grazie allincoraggiamento di mons. Ramazzotti la Marovich portò avanti il suo progetto: «Fu pertanto il Patriarca che, udito esporsi dalla signora Marovich le sue pietose intenzioni, gliene approvò siccome volute da Dio, confortandola con grande ardore a recarle in pratica, senza tema di dare in fallo. Largo a lei sempre di savi consigli, quante volte nera richiesto, le prestò anche mezzi per farsi incontro ai primi dispendi nellavviamento di tanta impresa». Le Figlie del Sacro Cuore si unirono poi alle Pie Signore della Casa di Nazareth, oggi Suore della Riparazione, fon34 date a Milano nel 1859 da padre Carlo Salerio del Seminario Lombardo per le Missioni Estere. Figli della Carità Canossiani. Fondati anchessi, come le Suore Canossiane, da Maddalena di Canossa, nel 1833. Allingresso del Servo di Dio in diocesi, erano soltanto cinque, abitavano in una casa presso la chiesa di S. Giosuè dove gestivano un frequentatissimo oratorio maschile, ma non erano canonicamente costituiti. Frequentandoli, mons. Ramazzotti si rese conto del gran bene che operavano e decise di erigerli canonicamente, intendendo affidare loro il Patronato di S. Giuseppe per i ragazzi discoli e vagabondi che si stava organizzando allora. Il 29 aprile 1860 egli diede loro labito religioso, dopo aver ottenuto anche i relativi permessi dalle autorità governative. Soprattutto, mons. Ramazzotti si interessò delle Suore Canossiane e in particolare dellopera che gestivano in S. Alvise dove aveva sede una casa per sordomute. Decisivo fu il suo apporto per lapertura di queste suore al mondo missionario. Esse erano già state richieste, nel 1858, dai padri del Seminario Lombardo per affiancare la missione che stavano aprendo ad Hong Kong. Vi era però il fatto che la fondatrice non aveva previsto, nelle Costituzioni dellordine, linvio delle suore in missione; avuta la certezza che le religiose personalmente erano ben disposte alla vita missionaria, mons. Ramazzotti, previo assenso della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, scrisse a mons. Ludovico Bensi, consultore della Sacra Congregazione dei religiosi, prospettando la necessità che tali suore affiancassero i padri nelle missioni: «I missionari di S. Calocero che abbiamo in India mostrarono il bisogno ed il desiderio che una congregazione religiosa femminile si assumesse colà leducazione delle fanciulle, come essi i missionari quella dei fanciulli». La Sacra Congregazione dei religiosi non ritenne però opportuno accettare tale proposta appunto per lostacolo frapposto dalle Costituzioni; partirono per lIndia le Suore della Carità, dette di Maria Bambina. Nel 1859 don Marinoni, superiore del Seminario Lombardo, e il prefetto apostolico di Hong Kong mons. Luigi 35 Ambrosi, ripeterono la loro richiesta per la missione di Hong Kong, mettendo la cosa nelle mani del Ramazzotti. Questi, dopo aver sondato la disponibilità delle religiose delle due case di Venezia e di Pavia, nel gennaio 1860 chiese ed ottenne dal Santo Padre la facoltà di apportare alcune modifiche alle Costituzioni della Canossa, in merito alle particolari situazioni del lavoro missionario. La prima spedizione delle Canossiane partì da Venezia benedetta dal patriarca il 24 febbraio 1860. Mons. Ramazzotti sostenne poi moltissimo lopera che le Canossiane svolgevano a S. Alvise a favore delle ragazze sordomute, vistandone la scuola e la casa, provvedendole di adeguate maestre, incoraggiandole e invitando le dame veneziane a formare un comitato sostenitore per assicurare il mantenimento delle più povere. Egli si adoperò poi moltissimo per avere unanaloga opera a favore dei ragazzi ma, per le consuete difficoltà con la burocrazia austriaca, vi riuscì solo alla vigilia della morte affidandoli ai Somaschi. Aveva in progetto di fondare una casa di Oblati missionari, cioè di sacerdoti diocesani e provenienti dalle diocesi suffraganee impegnati a tempo pieno nelle missioni fra il popolo; per presentare tale progetto ai vescovi, li visitò personalmente nelle loro sedi, ottenendone lapprovazione, ma la sua morte prematura troncò questo progetto. Ugualmente la sua scomparsa quasi repentina mise fine anche al progetto dellistituzione di una parrocchia di rito greco per la quale, nel 1859, aveva già chiesto lautorizzazione al prefetto di Propaganda Fide card. Barnabò e aveva già predisposto larrivo, a sue spese, di don Nicola Franco, sacerdote siciliano di rito greco. Ma Venezia era soprattutto una città piena di poveri; il patriarca collaborava assiduamente con la Commissione della beneficenza pubblica che vagliava i vari casi e vi provvedeva; esiste un fitto scambio epistolare fra il patriarca e il presidente di detta commissione che rivela la capacità di Ramazzotti di ascoltare e collaborare. Nonostante ciò, una vera corte dei miracoli assediava il palazzo patriarcale ogni giorno: «i poveri confidentemente ricorrevano a lui, certi di esserne sovvenuti. Latrio, lanticamera, a volte, si può dire che ne formicolassero»; egli li riceveva ad uno ad uno, ascoltandoli e confortandoli; se gli veniva fatto osservare «che così andavano perdute 36 delle ore a lui tanto preziose, rispondeva sorridendo che anzi ci guadagnava e di buono». La miseria era aggravata dalla situazione politica, per la quale Venezia era stretta in una morsa dalla terra e dal mare, a causa dei moti rivoluzionari indipendentisti e dello stretto controllo degli austriaci, che non facevano giungere alla città le derrate alimentari necessarie. Nel 1859 la città venne bloccata dalla parte del mare e la situazione era disperata; lo scriveva don Federico Salvioni, altro segretario di Ramazzotti, a madre Luigia Grassi superiora delle Canossiane di Pavia: «La miseria qui si fa così grande che anche il pane della carità non si può offrire con così largo cuore. Si immagini, signora superiora, che una sola ditta lasciò ieri in libertà cento uno lavoratori, il che vuol dire cento una famiglie senza pane e tutte vengono dal patriarca, così il numero dei bisognosi cresce ogni giorno». Al patriarca per vivere bastava sempre meno: «Negli ultimi tempi, sopra crescendo i bisogni dei poveri e venendogli meno a tanto dispendere i redditi della mensa, ordinò che si vendessero le argenterie della casa, non ritenendo che quanto serviva alluso giornaliero della tavola e per pochi»; arrivò fino al punto di pensare seriamente di vendere anche la croce pettorale, non avendo più risorse personali alle quali attingere. Lo spettacolo dei poveri e limpossibilità di potervi provvedere tormentavano mons. Ramazzotti, tanto che, secondo don Cagliaroli con il quale egli si confidava, era convinto che questo contribuì ad aggravare i suoi disturbi cardiaci e a portarlo alla morte: «Anche pochi dì prima che scoppiasse la terribile malattia, che in breve tempo lo trascinò al sepolcro, fu udito dire quasi piangendo: Oh tanti poveri che io vorrei aiutare e non posso! Son questi poveri, credetelo a me, che mi affannano il respiro, mi struggono la salute». Importante è poi quanto fece per i carcerati. Non solo ottenne dalle autorità austriache di potenziare il numero dei cappellani, ma per il giubileo straordinario del 1858 predicò egli personalmente gli esercizi per otto giorni nel penitenziario della Giudecca dove erano rinchiusi più di ottocento detenuti comuni: «sin dai primi giorni nacque in tutti il desiderio di riconciliarsi con Dio nel sacramento della confessione». Fu quindi preoccupazione del pa37 triarca provvedere che venti sacerdoti si recassero al penitenziario per confessare, mentre egli ascoltava quelli che chiesero di confessarsi con lui, dedicando a questo ministero le ore della notte. Nel 1860 fu la volta del penitenziario femminile, dove egli si recava spesso, commosso dalla sorte di quelle infelici che scontavano colpe commesse più per ignoranza e per miseria che per malvagità danimo. Nel 1860 aveva iniziato la predicazione anche nella Casa delle Penitenti sempre alla Giudecca , ma un incidente con la gondola gli impedì di portare a termine queste visite e si fece sostituire da uno dei suoi «preti di famiglia» che lo avevano seguito anche a Venezia. Il 26 febbraio 1861 limperatore aveva nominato mons. Ramazzotti deputato della camera dei signori del Consiglio dellimperatore; tale nomina comportò un suo viaggio a Vienna per assistere al Consiglio dellimpero; parlava perfettamente il tedesco fin dai tempi delluniversità e fu quindi in grado di far sentire la sua voce in Consiglio, dove aveva diritto di voto, perché aveva saputo che limperatore voleva ritoccare il Concordato con la Santa Sede, specie su quanto riguardava il matrimonio. In tale occasione chiese ed ottenne la liberazione di alcuni sacerdoti detenuti politici a Venezia. Sul finire del 1859 limperatore dAustria, per mezzo del suo ambasciatore presso la S. Sede, avanzò la proposta che mons. Ramazzotti fosse elevato al cardinalato; il ministro del Culto lo suggerì al card. Antonelli e questi al papa. Per la situazione politica la decisione venne rimandata a tempi più tranquilli, così solo il 10 agosto 1861 il card. Antonelli informò il patriarca della decisione di Pio IX di elevarlo alla porpora cardinalizia nel concistoro stabilito per la metà di settembre. Ma mons. Ramazzotti aveva già lasciato Venezia, essendosi aggravati i disturbi cardiaci che lo avrebbero stroncato il 24 settembre successivo. Si trovava nella casa dei nobili Canal a Crespano del Grappa per sfuggire allafa della città che non lo lasciava respirare. Si era deciso a lasciare la città quando le sue condizioni apparvero disperate, trasferendosi il 14 luglio in casa Canal perché aveva ceduto al Comune la villa per la villeggiatura patriarcale di Mirano per erigervi un ospedale militare. Qui, in per38 fetta tranquillità di spirito, sereno ed offrendo le sue ultime sofferenze per il ritorno alla Chiesa dei sacerdoti macolatisti di Pavia, si spense alle 4 e mezza del mattino del 24 settembre mentre don Cagliaroli celebrava la messa nelloratorio predisposto attiguamente alla sua camera. Morì da povero, tanto che fu il Comune di Venezia a pagare le spese del trasporto e del funerale; fu rimpianto come «padre dei poveri e sacerdote santo». Papa Pio IX ne riconobbe le virtù non comuni e la santità di vita nella lettera che scrisse al clero veneziano. Venne sepolto nella basilica di S. Marco a Venezia e traslato, il 3 marzo 1958, nella chiesa di S. Francesco Saverio a Milano su richiesta del superiore generale del PIME, padre Augusto Lombardi, e per volontà del beato Giovanni XXIII, allora patriarca di Venezia, che lo aveva preso a modello del suo episcopato e che fin da allora ne auspicava la beatificazione. Egli infatti ricordava che già da giovane sacerdote era rimasto colpito dalliscrizione che ricordava mons. Ramazzotti presso laltare dellAddolorata nel santuario di Rho: «Monsignore Angelo Ramazzotti, missionario di Rho, vescovo di Pavia, Patriarca di Venezia, designato cardinale, acclamato santo». 39 MODELLO ECCLESIOLOGICO E REALTÀ DELLA CHIESA DI MILANO NELLOTTOCENTO di Ennio Apeciti Premessa A modo di premessa, ci piacerebbe che fosse tenuta sotto gli occhi la tabella n. 1 che ci indica la progressiva evoluzione della diocesi di Milano, il suo espandersi numericamente a livello di popolazione ed il suo ristagnare a quello di clero. La sola tabella, crediamo, spingerà a riflettere che la diocesi di Milano si trovò costretta, di fatto, a vivere in stato di missione al suo interno, vivendo così naturalmente lafflato missionario, che ha caratterizzato non a caso lOttocento, il secolo della missione. Tabella n. 1 - Stato della diocesi di Milano (da Milano Sacro) Totale 1815 (Gaisruck) Abitanti Parrocchie 1838 (Gaisruck) Abitanti Città e Corpi Santi Forese 157.850 689.522 Città e Corpi Santi Forese 193.000 740.121 847.372 783 933.220 segue Don Ennio Apeciti è docente di storia della Chiesa presso la Facoltà teologica dellItalia settentrionale e di storia della Chiesa antica presso lIstituto superiore di scienze religiose di Milano. Inoltre è responsabile dellUfficio delle cause dei santi della diocesi di Milano e superiore degli Oblati diocesani dei SS. Ambrogio e Carlo. 40 Parrocchie Città e Corpi Santi Forese Canton Ticino 36 674 53 763 1847 (Romilli) Abitanti Parrocchie Preti Seminaristi Città e Corpi Santi Forese Città e Corpi Santi Forese Vicariati Città e Corpi Santi Forese 209.421 778.702 36 652 78 718 2.029 988.123 688 2.747 733 1860 (Ballerini) Abitanti Parrocchie Vicariati Preti secolari Preti regolari Seminaristi Religiose 1.201.043 775 82 2.561 107 565 517 1868 (Calabiana) Abitanti Parrocchie Vicariati Preti 1.218.237 776 85 2.649 1894 (Ferrari) Abitanti Parrocchie Preti Città e Corpi Santi Forese Città e Corpi Santi Forese Vicariati Città e Corpi Santi Forese 451.375 1.141.381 42 688 79 532 1.470 1.592.756 730 2.002 41 Tabella 2 - Quadro riassuntivo della diocesi di Milano (anni 18151894) ANNO 1815 1838 1847 1860 1868 1894 POPOLAZIONE 847.372 933.220 988.123 1.201.043 1.218.237 1.592.756 PRETI 2.747 2.561 2.649 2.002 PARROCCHIE 783 763 688 775 776 730 Ci apprestiamo a dare corpo alla tabella n. 1 ripercorrendo la storia della diocesi ambrosiana nel secolo XIX e soffermandoci su ognuno dei vescovi che la ressero in quei decenni turbolenti e fecondi. Speriamo, così, di aiutare ad intuire la complessità della trama storica che portò alla nascita dellattuale Pontificio Istituto Missioni Estere. LIstituto delle Missioni Estere, nato nel 1850, non è non avviene quasi mai nella storia un fiore germogliato nel deserto, stupefacente quanto inatteso. Le sue stesse origini, infatti, si potrebbero collocare a Rho, presso gli Oblati Missionari, fondati il 4 aprile 1721 dal cardinale Erba Odescalchi (1712-1737), che da più di un secolo, dunque, presso il santuario della Madonna Addolorata di Rho accoglievano preti, soprattutto, e laici, per gli esercizi spirituali secondo il metodo ignaziano. Essi, inoltre, si disperdevano per il territorio della vasta diocesi a predicare le missioni, quel metodo allora moderno di pastorale teso a raggiungere le masse, che si erano scoperte ancora poco formate cristianamente, tanto che cera chi paragonava le campagne alle terre di missione e chi parlava dell«India Italia». Di questi Oblati Missionari nella prima metà dellOttocento fu membro di spicco mons. Angelo Ramazzotti. Non possiamo pensare, dunque, allIstituto delle Missioni Estere senza ricordare questi Oblati. Essi erano gli eredi della congregazione fondata da san Carlo per realizzare tra i suoi preti lideale sacerdotale proposto dal Concilio di Trento, preti santi e zelanti, vale a dire intensamente impegnati nel ministero, nel servizio del loro popolo, tanto che le stesse parrocchie ne risentirono nella determinazione dei loro con42 fini: esse dovevano essere vaste si diceva con un po deffetto quanto lombra del campanile della chiesa, che nera il cuore. Per avere lintuizione di questideale basterebbe leggere anche solo un passo dello stupendo discorso tenuto da san Carlo durante il suo ultimo sinodo (1584) e che è un poco il suo testamento: Hai il mandato di predicare e di insegnare? Studia e attendi a ciò che ti è necessario per svolgere pienamente questo incarico. Da sempre buon esempio e cerca di essere il primo in ogni cosa. Predica soprattutto con la vita ed i costumi, perché [non avvenga che] vedendoti dire una cosa e farne unaltra, deridendo le tue parole, scuotano il capo. Sei in cura danime? Non trascurare per questo te stesso e non darti agli altri tanto generosamente che non rimanga nulla di te a te stesso. Infatti è certo doveroso che tu abbia a ricordarti delle anime alle quali presiedi, non tuttavia in modo tale da dimenticarti di te 1. Forse non meno affascinante sarebbe il discorso tenuto agli ordinandi il 24 maggio 1578, quasi a metà del suo ministero episcopale: Siate santi nel vostro cuore, nelle parole, nelle opere; perfetti sotto ogni aspetto, per ricevere degnamente il Santissimo Sacramento dellOrdine ed essere colmati dei doni dello Spirito Santo, per grazia divina. Non accontentatevi di progredire soltanto voi, nel Signore, sulla strada della virtù; fate in modo che anche le altre persone si santifichino per mezzo del vostro esempio e della vostra parola 2. San Carlo fu divorato da questansia pastorale e desiderò consumarne ogni suo presbitero: dal servizio (o dalla destinazione) allaltare discendeva per lui la necessità della santità sacerdotale, la quale era ed è la condizione necessaria per una vera, autentica, feconda attività pastorale. E la trilogia potrebbe essere detta anche in senso inverso. Perché un sacerdote sia zelante, utile Acta Ecclesiae Mediolanesis, 3, ed. Achille Ratti, Mediolani 1892, p. 882. La traduzione è nostra. 2 SAN CARLO BORROMEO, Omelie sulleucaristia e sul sacerdozio, Edizioni Paoline, Roma 1984, p. 306. 1 43 cioè al bene delle anime, deve essere santo, di quella santità che discende (riceve, cioè, e si nutre) dai sacramenti, che egli celebra efficacemente, poiché agisce in persona Christi: egli, il sacerdote, è colui (o Colui?) che celebra. In questanelito apostolico si colloca lintuizione degli Oblati, preti che avrebbero dovuto condividere lideale sacerdotale di san Carlo; preti che si sarebbero dati totalmente al ministero nel primato dato allamore di Cristo e dei fratelli, della contemplazione e della pastorale, inseparabili luna dallaltra, perché solo stando così simbioticamente unite potevano e possono conservare fedele e felice la vita del prete. San Carlo li sognava così: liberi da ogni attaccamento mondano; dediti solo al servizio delle anime nella collaborazione sincera e fraterna del presbiterio, tra loro con il loro vescovo. Questo chiese al papa Gregorio XVI, che li riconobbe il 26 aprile 1578. Questo ricordò loro, consegnando gli Statuti della Congregazione (13 settembre 1581): «Vi abbiamo fondato per il bene di tutta la Chiesa milanese, così che tutti riconoscano che essa è sostenuta dagli esempi delle vostre virtù, è adornata dal vostro progresso spirituale, è resa più grande e splendida dalle vostre buone azioni, che sono sempre presenti in voi, per consolidarla, una santa volontà unita ad ardente zelo, prontezza nellobbedire e compimento esatto del vostro dovere» 3. Questo coinvolgimento totale con il proprio vescovo aveva la forma del voto di obbedienza, che è rimasto anche oggi come legame con un passato che tocca a noi rendere ancora attuale nei suoi valori autentici. Quel voto per un prete di quel tempo comportava la rinuncia ad ogni beneficio parrocchiale o di altro tipo e la totale dipendenza economica dallarcivescovo. E questo significava una scelta di povertà radicale, apostolica. Comportava la rinuncia ad ogni carrierismo (perché non si partecipava ai concorsi di vario tipo a posti prestigiosi) e la disponibilità radicale ad assumere quei compiti che nessuno voleva per sé. Era, dunque, scelta SAN CARLO BORROMEO, Statuti degli Oblati di S. Ambrogio, a cura di PIER FRANCESCO FUMAGALLI, NED, Milano 1984, p. 93. 3 44 di nascondimento e di umiltà. Comportava la collaborazione con i confratelli, che condividevano lidentico ideale (quello del vescovo): non avendo parrocchia personale, si abitava dove il vescovo voleva e, nel caso, nelle abitazioni messe a disposizione del vescovo, di qui partendo per svolgere gli incarichi ricevuti e qui tornando al loro compimento. Loblazione, dunque, significava scelta di fraternità sacerdotale, con vera vita comune. Comportava dare il primato alla pastorale del vescovo, alla comunione di intenti e non alle proprie intuizioni o sperimentazioni. Era, in altre parole, la scelta della diocesanità, della progettazione comune, di itinerari educativi precisi, di collaborazione pastorale. Era la scelta del primato della missione e del servizio. Non a caso gli Oblati furono subito destinati da san Carlo e dai suoi successori a formare i futuri preti nei seminari e la gioventù ambrosiana nelle scuole della Dottrina Cristiana; ad animare la spiritualità degli adulti nelle confraternite e stimolare la vita dei fedeli, riformando le parrocchie. Non è, dunque, un caso che alcuni preti milanesi, giovani e pieni di zelo, appassionati e pronti ad ogni sacrificio per amore del Vangelo e dei fratelli, scegliessero di fare vita comune in patria a Milano in vista della missione in terre lontane. Era quasi inevitabile che nel contesto dello sviluppo dellideale missionario, che è uno dei tratti caratteristici dellOttocento, alcuni preti ambrosiani scegliessero questa forma di ministero: era nel solco della tradizione sacerdotale che li aveva preparati. Come gli Oblati del tempo di san Carlo e quelli missionari di Rho erano stati la risposta appropriata a ciò che lo Spirito suscitava nella Chiesa del loro tempo; così i missionari di Saronno e poi di San Calocero furono un modo di rispondere a ciò che lo Spirito faceva sentire alla Chiesa nellOttocento. La Chiesa ambrosiana, ovviamente, condivideva questa vocazione missionaria che lo Spirito suscitava: lIstituto delle Missioni Estere ne è espressione. Potremmo, però, anche affermare che lIstituto delle Missioni Estere nacque a Saronno. Qui prese corpo e vita la piccola comunità primitiva. Lo fece presso un convento riscattato da uno dei tanti laici che si impegnarono con coraggio ed energia, rimettendoci di persona (anche economicamente) per difendere gelosa45 mente la loro Chiesa ambrosiana, che da tempo li andava educando ad un impegno personale, coraggioso ed intelligente; che li impegnava ad essere capaci di porsi nel difficile contesto politico e sociale, in modo da saper rendere «ragione della speranza che era in loro» (cfr. 1Pt 3,15). Anche questo era espressione dello spirito della Chiesa ambrosiana, che nel suo stesso nome si caratterizza per un richiamo ad un tempo significativo della sua storia, quello del suo Parentem maximum, come lo canta nella sua solenne memoria liturgica il 7 dicembre. Non è questo il luogo di trattarne. Basti ricordare, comunque, che la Chiesa di Milano si sentì talmente segnata dallimpronta di questo vescovo da assumerne il nome. Ambrogio fu il campione della missione, colui che impegnò tutte le sue energie e quelle della sua comunità nel plasmare con i valori del Vangelo il volto della società del suo tempo, pur in mezzo alle difficoltà ed incomprensioni che il tempo dimentica. Non fu facile per la Chiesa del tempo di Ambrogio testimoniare il primato del Vangelo e la sua capacità di dare senso e stile al vivere sociale, politico, civile. Eppure ci riuscì. Questo impegno a dare sapore alla vita della società, ad esserne fermento che fa lievitare e sale che brucia e purifica insieme accompagnò la comunità ambrosiana anche nei momenti più bui della sua storia, anche quando fu tentata di omologarsi allandazzo comune. Ma limpronta ricevuta, la costringeva a ritornare alle sue radici. Avvenne anche nella prima metà dellOttocento: di fronte allondata rivoluzionaria francese ed alla restaurazione riformatrice degli austriaci, si pose una comunità che sentiva fortemente il legame con le sue tradizioni; che era stata abituata da secoli a vivere coinvolgendo le sue diverse componenti, anche quelle laicali. Si pensi ancora una volta alle scuole della Dottrina Cristiana: esse avevano un animatore (assistente) ecclesiastico, ma erano completamente gestite dai laici che, assumendo quellimpegno, sceglievano un esigente tipo di vita spirituale personale e si impegnavano nel loro ambiente a testimoniare le loro scelte. I maestri e tutti gli altri operatori pastorali sapevano di impegnarsi non solo per unora la settimana, ma di assumere uno stile di testimonianza nel loro ambiente, fosse il piccolo paese o il quartiere di 46 Milano. Sarebbe qui da tracciare la grande saga degli oratori, cui accenneremo. Basterebbe pensare allentusiasmo che avevano i cosiddetti Giovani della Madonna, che si riunivano presso il duomo. Ma si potrebbero ricordare i giovani che con Luigi Monti fondarono la Compagnia dei Frati a Bovisio Masciago (Milano). Tutti questi giovani si trovavano la sera, dopo il loro faticoso lavoro, e pregavano, leggevano le vite dei santi, cantavano, discutevano di quello che era successo durante il giorno. Da questo ritrovo comune conseguivano concrete scelte operative, dalle corali per animare la messa domenicale alle rappresentazioni teatrali, alle forme che oggi diremmo di volontariato, aiutando chiunque fosse nel bisogno. Il fine non era solo quello di passare qualche bella serata insieme, ma di aiutarsi ad essere testimoni autentici durante il giorno. Essi, infatti, si proponevano di far rifiorire cristianamente gli ambienti in cui vivevano, mostrando a molti compagni di lavoro o parenti quanto fosse bello e quanta gioia donasse lessere cristiani. E ci riuscirono, anche in mezzo alle prove ed alle incomprensioni. Non è, allora, senza significato che la Compagnia dei Frati del venerabile padre Monti fosse nata dallincontro che quel giovane diciassettenne ebbe con i Padri Oblati Missionari di Rho ed in particolare con padre Angelo Ramazzotti: in quei giovani riviveva lo stile della loro Chiesa, lanelito missionario mai domo. Basti solo questo, per far intuire che il terreno in cui poté attecchire il futuro PIME era reso adatto anche dalla testimonianza di molti laici: quello che fece per usare solo un nome Marcello Candia era nel solco della tradizione laicale ambrosiana. La presenza dellIstituto delle Missioni Estere a Milano fu, dunque, preziosa per la stessa Chiesa milanese: stimolò il suo spirito missionario e ne impedì la rassegnazione, che sempre insidia le cose degli uomini. Forse la vivacità della Chiesa ambrosiana attuale deve molto a questistituto, nato dalla sua stessa tradizionale attenzione ad incarnare il Vangelo. Lo stesso mondo religioso dellOttocento milanese esprime e raccoglie lanelito missionario, che fece germogliare il PIME. Pensiamo solo per cenni ai numerosi istituti religiosi nati nella diocesi ambrosiana, e che più sotto indicheremo. La congregazio47 ne delle Suore Marcelline nacque dallintuizione di mons. Luigi Biraghi, che non a caso scopriamo come animatore dellideale missionario dei chierici del seminario, ove era direttore spirituale. Ambedue i giovani missionari per lestero e le giovani ragazze per la buona borghesia ambrosiana esprimevano lidentico ideale: non era più tempo di stare nelle sacrestie e tanto un buon prete quanto una ragazza generosa andavano a portare il Vangelo con entusiasmo, dove il bisogno era maggiore. In quegli anni la borghesia lombarda era percorsa da correnti di agnosticismo accanto a testimonianze eccezionali di fede che facevano pensare, sè già detto, che non ci fosse molta differenza fra alcune zone di Milano e della Micronesia. Anche per questo motivo, oltre che per la tradizione tipica del tempo, i primi missionari, rientrando dalla missione, si inserivano con lo stesso ardore nellattività pastorale. È il caso, anche qui usato come esempio per tutti, di don Carlo Salerio che, riprese le forze consumate in Oceania, fu attivissimo fondatore di case di accoglienza e di formazione, affidate alla congregazione religiosa delle Suore della Riparazione: fu il suo entusiasmo a sostenere i primi passi della loro fondatrice, Carolina Orsenigo. Anche il mondo dei religiosi e delle religiose dellOttocento ambrosiano, pertanto, si presenta caratterizzato dagli stessi ideali missionari che si coagularono nellIstituto delle Missioni Estere. Esso poté radicarsi in questo humus, ove si univano consacrazione a Dio e servizio dei fratelli nella carità e nella formazione spirituale e culturale; donarsi agli ultimi o ai meno formati, per portare a tutti la piena realizzazione umana di cui il Vangelo è custode. Dallaltra parte, la presenza stessa dei preti del futuro PIME fossero in formazione o di ritorno stimolava la stessa vita dei consacrati e li permeava degli stessi valori. Anche di questo, forse, dovremmo tenere conto. La Chiesa di Milano ha saputo affrontare sfide epocali anche noi crediamo perché si è presentata allappuntamento con una vivacità di intenti e una capacità di dialogo con i cosiddetti lontani, che le venivano da un secolo, lOttocento, durante il quale il vento ed il profumo della missionarietà avevano svegliato gli assonnati, rincuorato gli incerti, entusiasmato quelli che sentivano che il Vangelo ha un segreto strano: è sempre attuale; sa sempre dire 48 parole nuove ad ogni nuova generazione; se non è accolto è semplicemente perché non è stato sentito, perché in quel luogo o momento nessuno ne ha parlato. Non a caso il Signore Gesù fa udire i sordi e parlare i muti: sino a che ci sarà e ci sarà sempre chi ne parli, ci sarà qualcuno che ascolterà e a sua volta ne parlerà. Come comincia il secolo XIX nella diocesi di Milano? a) Il vescovo e le sue vicende: G.B. Montecuccoli Caprara (18021810) La nostra storia comincia con il cardinale Giovanni Battista Montecuccoli Caprara, un uomo controverso 4, arrivato alla porpora quasi per liberare la nunziatura di Vienna (1792), ma recuperato nel 1801, quando, per il suo noto atteggiamento favorevole ad un accordo della Santa Sede con i rivoluzionari francesi, fu inviato come legato a latere a Parigi, per lesecuzione del Concordato. Egli interpretò in modo talmente favorevole ai francesi le clausole dellaccordo, che ottenne come premio da Napoleone larcivescovado di Milano (25 maggio 1802). In forza di questo titolo garantì ogni controllo francese sulla diocesi; organizzò splendidamente lincoronazione di Napoleone ad imperatore dei francesi (2 dicembre 1804) ed a re dItalia in Milano (26 maggio 1805): visita dolorosa, perché Napoleone approfittò delloccasione per scegliere il progetto della facciata del duomo 5. Fu questa la seconda ed ultima occasione, che vide il cardinale Caprara nella sua sede episcopale 6. Forse a sua difesa vale la massima della sua vita, così GIOVANNI PIGNATELLI, Caprara Montecuccoli Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XIX, 1976, pp. 180-186. 5 Fu scelto il progetto meno costoso e fu stabilito che a pagarlo sarebbero stati i milanesi stessi: si ordinò alla Fabbrica del Duomo di vendere i suoi beni, che passarono nel giro di mesi da 2.500.000 a 92.000 e si impose una tassa speciale alla popolazione. 6 Era sceso a Milano la prima volta il 21 agosto 1802, per prendere possesso della sede. 4 49 come la riferiva il cardinale Consalvi, che non gli era propriamente amico: «Non vi è che la condiscendenza [...] Bisogna restare in piedi ad ogni costo, perché se si cade una volta, non si risorge più». Le cose, in ogni caso, non andavano meglio prima della nomina del Caprara. Conviene farne cenno. Inizialmente la Chiesa milanese era stata contraria alla Rivoluzione francese, anche se in seguito lostilità diminuì, senza arrivare mai, però, allestremo del prevosto di Varese, don Felice Lattuada, che dallappoggio alla rivoluzione passò alla «rivoluzione della dottrina morale» ed al rifiuto della religione come superstizione 7. Purtroppo, larrivo dei rivoluzionari ed in particolare di Napoleone si trasformò da speranza in stolto saccheggio. Se allarrivo di Napoleone in città si cantò il Te Deum, ben presto si rimase colpiti dalla protervia francese: furono richiesti 20 milioni di lire tornesi alle province lombarde; furono confiscati tutti i beni dei conventi, compresi i rivestimenti in rame delle cupole ed i materassi; fu saccheggiata la Pinacoteca Ambrosiana e furono portati a Parigi le Madonne del Luini, di Rubens, di Bruegel, il cartone della Scuola di Atene di Raffaello, tredici volumi di disegni e scritture di Leonardo 8. Le manifestazioni di dissenso furono represse duramente, anche quando venivano dal clero: il 4 giugno 1796 cadde sotto i colpi del plotone desecuzione don Paolo Bianchi, parroco di S. Francesco di Paola, una delle parrocchie centrali di Milano (tra via Montenapoleone e via Manzoni) e il 30 giugno fu fucilato don Giuseppe Pacciarini, parroco anziano del duomo. Quando la popolazione cominciò a ribellarsi, Napoleone ne accusò il clero, ritenuto da sempre vicino alla popolazione e suo istigatore. E questo è un dato da conservare. Il Francese poté così piegare larcivescovo Filippo Visconti (1783-1801) a pubblicare una lettera pastorale sullobbedienza. La Nel 1796 lasciò infine il sacerdozio. Ne fu restituito uno solo nel 1816. Al saccheggio si devono aggiungere la Coronazione di spine di Tiziano, asportata da S. Maria delle Grazie e il S. Sebastiano del Procaccini da S. Celso. 7 8 50 popolazione si sentì tradita ed uccise larciprete della metropoli, Giuseppe Ordogno de Rosales, mentre larcivescovo dovette fuggire da Milano e rifugiarsi a Gorla Minore 9. La situazione pastorale si aggravò con lestensione alla Repubblica Cisalpina delle norme ecclesiastiche deliberate in Francia con la Costituzione civile del clero: il 1° dicembre 1797 si stabilì che i parroci fossero eletti dai cittadini e il 17 dello stesso mese si proibì la raccolta di offerte e la celebrazione di atti di culto fuori delle chiese, mentre il viatico doveva essere portato in incognito. Inoltre, tutte le immagini sacre dipinte sui muri esterni delle case dovevano essere coperte con calce, mentre venne scalpellato dalla facciata del duomo lo stemma di Pio VI e furono distrutte le insegne dei sepolcri dei cardinali milanesi (alcune pietre tombali furono invece semplicemente rivoltate). Infine, nel 1798 furono soppressi i capitoli del duomo e di tutte le collegiate e furono requisiti il seminario, i conventi ed i monasteri (quello di S. Ambrogio fu trasformato in ospedale). Particolarmente odiosa, in ogni caso, rimaneva la clausola obbligatoria prima di assumere ogni incarico o beneficio ecclesiastico, che ritornò anche nei successivi concordati e che non ha bisogno di molti commenti: Io giuro e prometto a Dio sui santi Vangeli di prestare obbedienza e fedeltà al Governo stabilito dalla Costituzione della Repubblica francese. Prometto altresì di non avere alcuna intelligenza, di non assistere ad alcun conciliabolo, di non mantenere alcuna lega, sia allinterno sia allestero, che sia contraria alla tranquillità pubblica; e se nella mia diocesi ed altrove, sentissi che si tramasse qualche cosa in pregiudizio dello Stato, io lo farò sapere al Governo. Era in fondo, se applicato, un giuramento di delazione che lasciava imprecisato il rapporto con il segreto confessionale. Eppure, così facendo, Napoleone favorì la Chiesa: il popolo non capiva questo accanimento contro il clero che, dai tempi di 9 In seguito passò a Padova. 51 Maria Teresa dAustria, era giuridicamente trattato, comprese le tasse, come qualsiasi altro cittadino. Si può capire il tripudio con cui fu accolto il ritorno degli austriaci. Essi, purtroppo, si abbandonarono a veri atti di vendetta perdendo così, nei 13 mesi in cui rimasero, il capitale di consenso che li aveva accolti. Intanto Napoleone aveva imparato la lezione se, come si narra, confidò al Talleyrand: «Per vivere in pace col popolo italiano, è necessario rispettare ed andare daccordo col clero». Infatti, al suo ritorno in Milano (2 giugno 1800) convocò i parroci della città e tenne loro un discorso conciliante. Ma durò poco: larcivescovo Visconti, appena rientrato da Padova, dovette pagare una multa di 2 milioni di lire italiane in nome di tutto il clero per lappoggio dato agli austriaci e, quando le resistenze ripresero, larcivescovo Visconti provò le traversie di Pio VI e Pio VII: fu convocato a Lione nonostante i suoi 80 anni. È in questa difficile situazione che operò o si barcamenò il Caprara. Tra gli altri, uno degli atti che ci possono interessare fu quello compiuto nellottobre 1806, quando larcivescovo di Milano promulgò su ordine imperiale e contro la volontà della Santa Sede il Catechismo imperiale o napoleonico che, in forza dellapprovazione ambrosiana, fu esteso ai regni italiani satelliti dellimperatore 10. Val la pena di leggerne la famosa Lezione settima, riguardante il quarto comandamento: D.: Quali sono i doveri dei Cristiani verso i Principi che li governano; e quali sono in particolare i nostri doveri verso Napoleone I, Imperatore e Re nostro? Catechismo ad uso di tutte le Chiese del Regno dItalia. Edizione originale ed autentica, Stamperia Reale, Milano 1807. Sul Catechismo imperiale vedi: ANDRÈ LATREILLE, Le catéchisme impérial de 1806. Études et documents pour servir à lhistoire des rapports de Napoléon et du clergé concordataire, Les Belles Lettres, Paris 1935; ROSA PESCINI, La polemica sul Catechismo napoleonico e una confutazione romana di esso, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 17 (1963), pp. 406-412; FRANCESCO PISTOIA, Nota sul Catechismo imperiale del 1806, in «Rivista di Letteratura e di Storia Ecclesiastica», 8 (1976), pp. 299-313. 10 52 R.: I Cristiani debbono ai Principi, da cui sono governati e noi in particolare a Napoleone I, Imperatore e Re nostro, amore, rispetto, obbedienza, fedeltà, il servizio militare, le imposizioni ordinate per la conservazione e difesa del trono: noi gli dobbiamo ancora fervorose preghiere per la di lui salute, e per la prosperità spirituale e temporale dello Stato. D.: Per qual ragione siamo obbligati a questi doveri nei confronti del nostro imperatore? R.: In primo luogo perché Dio, che crea gli imperi e li distribuisce secondo il suo volere, ricolmando il nostro imperatore di doni, tanto in pace quanto in guerra, lo ha costituito nostro sovrano, lo ha reso ministro della sua potenza, e sua immagine sopra la terra. Onorare e servire il nostro imperatore è dunque onorare e servire Dio stesso. In secondo luogo perché nostro Signore Gesù Cristo, colla sua dottrina e coi suoi esempi, ci ha egli stesso insegnato quello che noi dobbiamo al nostro sovrano: è nato mentre si obbediva alleditto di Cesare Augusto; ha pagato la tassa prescritta; e come ha ordinato di rendere a Dio quel che appartiene a Dio, così ha ordinato di rendere a Cesare quel che appartiene a Cesare. D.: Vi sono motivi particolari, per i quali dobbiamo essere più fortemente attaccati a Napoleone I, nostro imperatore? R.: Sì, perché egli è colui che Dio ha suscitato in circostanze difficili al fine di ristabilire il culto pubblico della santa religione dei nostri padri, e di esserne il protettore. Con la sua profonda ed attiva saggezza egli ha ristabilito lordine pubblico e lo ha conservato; col suo braccio potente difende lo Stato; è diventato lUnto del Signore per la consacrazione che ha ricevuta dal Sommo Pontefice, Capo della Chiesa universale, come Imperatore, e dallEminentissimo Cardinale Arcivescovo di Milano, come Re dItalia. D.: Che cosa si deve pensare di coloro che mancassero ai loro doveri verso limperatore? R.: Secondo lapostolo s. Paolo essi resisterebbero allordine stabilito da Dio stesso e si renderebbero degni della dannazione eterna. Anche in questo caso, riteniamo inutile ogni commento. Piuttosto vale la pena osservare che questo catechismo avrebbe dovuto sostituire tutti quelli precedenti ed in parte lo fece. Ma, 53 essendo durato lo spazio dellimpero napoleonico, ne seguì la sorte. Alla fine, tramontato lastro di Napoleone, rimase alla diocesi di Milano ed in genere allItalia ed alla Francia un vuoto formativo proprio a livello di catechesi: mancava un testo unico, preciso, comune a tutta una regione, il che permetteva alla popolazione, spesso in movimento, di inserirsi nel nuovo domicilio, anche ecclesiale, senza eccessive difficoltà e senza lacune formative. Credo sia un elemento di cui non si tiene sempre conto: per tutto lOttocento ci fu unatomizzazione della catechesi, di cui noi, forse, abbiamo visto gli effetti solo i primi! nel XX secolo. La situazione pastorale si aggravò, se pensiamo che il cardinale Caprara ordinò ai professori del seminario di prestare giuramento di fedeltà allimpero e soppresse le confraternite, tranne quelle del SS. Sacramento. Anche in questo modo, egli danneggiò la vita pastorale. Basterebbe pensare a cosa significassero in realtà le confraternite, a cosa comportava lessere confratello. Oltre che a coltivare e a sostenere una spiritualità eucaristica il confratello era tenuto alla comunione almeno mensile lo stesso confratello era chiamato a curare la spiritualità familiare, poiché era sua la responsabilità primaria delleducazione dei figli alla fede e, per farlo degnamente, gli era richiesta lesemplarità. Di qui leducazione costante ad una corretta condotta quotidiana, fedele ai propri doveri, alleducazione del carattere, alleducazione propria delle virtù umane, allimportanza della carità (o attenzione ai poveri), alla collaborazione allinterno della confraternita e della comunità parrocchiale cui essa apparteneva. Vi era, quindi, insita una prima assunzione di responsabilità, una prima forma di spiritualità laicale, prima animazione della società 11. Lo stesso discorso si dovrebbe fare e rivelerebbe un singolare interesse anche per le confraternite femminili, dedicate soprattutto alla Madonna. Esse permettevano, oltre a quanto detto per quelle maschili, di coltivare la spiritualità mariana alla maniera di san 11 AMBROGIO PALESTRA, Le antiche confraternite del SS. Sacramento della diocesi di Milano, in Ricerche Storiche della Chiesa ambrosiana, vol. XI (= Archivio Ambrosiano 45), Milano 1982, pp. 169-207. 54 Carlo e dunque erano sentite come ambrosiane. Esse permettevano poi di educare ad un certo modello di famiglia, che non dovremmo dimenticare e che ritroveremo sviluppato lungo il secolo XIX. Se poi ricordiamo le confraternite dedicate a San Giovanni Decollato, potremmo allargare il nostro discorso allambito della carità. Queste confraternite si dedicavano allassistenza dei carcerati, compresi i condannati a morte, per alleviarne le pene del carcere e lorrore dei momenti estremi. Esse sono sulla linea dellimpegno di carità che aveva segnato la Chiesa ambrosiana. Non si dimentichi che, già al tempo di san Carlo, su 560.000 abitanti della diocesi circa 100.000 erano assistiti dalla comunità ecclesiale. Intanto Napoleone con leggi imperiali aveva soppresso alcune parrocchie, soprattutto nel centro di Milano, riducendole a 23 (22 giugno 1805). Ciò significò indebolire quel principio tipicamente ambrosiano e carolino nel senso che era un retaggio delle riforme di san Carlo consegnato alla diocesi , che si basava sulla capillarità delle parrocchie, secondo un adagio tradizionale: la parrocchia doveva essere vasta quanto lestendersi dellombra del campanile. Era un principio che aveva fino ad allora garantito quella vicinanza tra pastore e popolo che faceva sentire il «signor curato» uno di casa, partecipe delle vicende e delle attese di ognuno, spesso compagno nel cammino della vita, dalla culla o meglio dal fonte battesimale alla tomba. Cosa ancora più importante fu la soppressione nel 1810 di tutti gli ordini religiosi tranne i Fatebenefratelli e le Suore di Carità. Poiché spingeva sulla strada dellimpegno, della vita attiva, questa soppressione selettiva non fu tutto sommato un male: accentuò il carisma della carità, proprio della consacrazione, chiedendo di coniugare lelemento contemplativo proprio di ogni consacrazione a Dio con quello attivo, secondo la sintesi di san Giovanni, per cui non può dire di amare Dio che non vede colui che non ama il fratello che vede. Era una costrizione ad uscire dal chiuso delle mura dei conventi, e delle sacrestie, per avviarsi sulle strade del mondo fermandosi, come facevano gli istituti di carità, presso i più bisognosi. Che fosse non tanto unintuizione di alcuni, ma un desiderio dello Spirito, che voleva sospingere la Chiesa su questa strada, potrebbe essere confermato dal semplice scorrere lelenco degli ordini reli55 giosi nati nel secolo XIX e agli inizi del XX, con lindicazione carismatica della carità. (Si veda la tabella n. 3, con lopportuno commento). Tabella n. 3 - Ordini religiosi fondati tra il 1802 e il 1918 ANNO 1802 1808 1814 1815 1816 1817 1821 1822 1824 1828 1830 1831 1832 1833 1834 NOME LUOGO (E FONDATORE) Scuole della carità Fratelli Cavanis Missionari di Francia (o Pre- Francia ti della Misericordia) Figlie della Carità o Serve Canossiane dei Poveri Congregazione di Picpus Missionari del Preziosissimo Roma (Gaspare Sangue del Bufalo) Oblati di Maria Immacolata Provenza Oblati di Maria Vergine di Pio Lanteri Marianisti - Società di Maria Adoratrici Perpetue del SS. Monza Sacramento Maristi Orsoline di San Carlo Milano Suore della Carità dellImma- Ivrea colata Concezione Compagnia di Maria CARATTERISTICA Carità-istruzione Missioni Carità Missioni Missioni popolari Missioni Missioni Missioni Istruzione Carità Sordomuti (carità) Figlie del Sacro Cuore Bergamo Carità Suore della Carità (Maria Lovere, Bergamo Carità Bambina) Suore di S. Giuseppe Torino Carceri-carità Figlie della Presentazione di Istruzione-carità Maria SS. al Tempio Missionari dei Sacri Cuori di Secondigliano, Gesù e di Maria Napoli Torino (marche- Carità Suore di SantAnna sa Barolo) segue 56 ANNO 1838 1845 1846 1847 1848 1849 1850 1854 1855 1856 1857 1859 1860 1864 1867 1868 1871 NOME LUOGO (E FONDATORE) Suore di Santa Marcellina Milano Missionari di S. Francesco di Francia Sales Agostiniani dellAssunzione Spagna Suore del Bambin Gesù Inghilterra Pavoniani Brescia Padri dello Spirito Santo (CSSp) Missionari dellImmacolata Lourdes Concezione Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria (Claretiani) Missioni Estere di Milano Missionari del Sacro Cuore Francia di Gesù Missionari del Sacro Cuore Insegnanti di Maria Immacolata (Claretiane) Società Missioni Africane (SMA) Fratelli Ospitalieri o Figli del- Roma (p. Luigi lImmacolata Concezione Monti) Frati della Carità (Frati Bigi) Figlie della Carità (Ancelle Montreal, Canada dei Poveri) Figlie di Maria S. Immacolata Suore della Santa Famiglia Istituto Missioni Africane Comboniani - Figli del Sacro Cuore Missionari dAfrica (Padri Bianchi) Sacerdoti del SS. Sacramento Spagna Ancelle del SS. Sacramento Spagna Figlie di Bethlem Milano CARATTERISTICA Istruzione Missioni popolari Carità Per i convertiti Carità Missioni Missioni popolari Missioni Missioni Missioni Missioni Missioni Carità Carità Carità Convitti per operaie Missioni Missioni Carità segue 57 ANNO NOME 1872 Comboniane - Madri della Nigrizia Figlie di Maria Ausiliatrice Pontificio Istituto SS. Pietro e Paolo Società del Verbo Divino (Verbiti) Suore del Preziosissimo Sangue Missionarie del Sacro Cuore di Gesù Missionari dellImmacolata Concezione Padri del Cuore Immacolato di Maria di Scheut Istituto Artigianelli Sacra Famiglia di Nazareth 1874 1875 1876 1880 1885 1886 1887 1888 1889 1890 1894 1895 1899 1900 LUOGO (E FONDATORE) CARATTERISTICA Missioni Educazione Missioni Germania Missioni Monza Istruzione (F.S. Cabrini) Emigrati S. Armengol (Spagna) Belgio Missioni Giovanni Piamarra Educazione-carità Orfani e abbandonati Umili Serve del Signore Missionari di San Carlo (Scalabriniani) Suore della Sacra Famiglia del Sacro Cuore di Gesù Sacerdoti Missionari di San Germania Paolo (Paulisti) Opera di San Pietro Apostolo Missionari dei Sacri Cuori di Randa, Spagna Gesù e di Maria Missionari di San Giuseppe Mill Hill (Gran Bretagna) Pia Società di San Francesco Parma (Italia) Saverio (Saveriani) Istituto di San Francesco Sa- (Spagna, Burgos) verio Istituto della Consolata Piemonte (Italia) Emigrati Carità Per i convertiti Missioni Carità Missioni Missioni Missioni Missioni segue 58 ANNO 1903 1907 1908 1911 1917 1918 NOME LUOGO CARATTERISTICA (E FONDATORE) Piccola Opera della Divina Tortona (don Carità Provvidenza Orione) Piccola Missione per i Sor- Fratelli Lanteri Per i sordomuti domuti Poveri Servi della Divina Prov- Verona (don Ca- Carità videnza labria) Como (don Gua- Carità Servi della carità nella) Società di Maryknoll Missioni Povere Serve della Divina Verona (don Ca- Carità Provvidenza labria) Figlie di S. Maria della Prov- Como (don Gua- Carità videnza nella) Congregazione dei Figli del- Parigi Per gli operai la Carità Premettiamo che la distinzione dei compiti (carismi) è difficile da farsi: ogni ordine o congregazione ne vive insieme parecchi e la sottolineatura di uno di loro è spesso funzionale al distinguersi da un istituto simile. Cè in questa differenziazione la manifestazione di una grande fantasia e libertà, di un grande rispetto reciproco (che si coniugava, ovviamente, ad una sana e reciproca emulazione). Possiamo in ogni caso individuare, per comodità di studio, tre caratteristiche carismatiche e tre caratteristiche spirituali che ci possono permettere di conoscere un po più complessamente il volto della Chiesa della prima metà del secolo XIX. Le caratteristiche carismatiche sono: lintenso afflato missionario; il primato dato alla carità verso i più bisognosi in ogni senso; la cura quasi eroica della formazione soprattutto delle giovani generazioni. Torniamo ora alla diocesi ambrosiana e alla soppressione, tra gli altri, della congregazione degli Oblati, quei preti raccolti dal tempo di san Carlo in una scelta di vita e di fraternità che richiedeva la rinuncia nelle mani del vescovo (= oblazione) dei propri benefici parrocchiali, per mettersi al suo immediato servizio nelle scelte pastorali che egli avesse ritenuto più necessarie, senza ri59 compensa o vantaggio economico: per gli Oblati era la scelta del primato del ministero pastorale e dello stile di povertà vissuto con un impegno di fraternità. Essi, inoltre, avevano formato quel gruppo specializzato che erano i Padri Missionari di Rho, cui fu proibita la predicazione perché ritenuti troppo fedeli alla Santa Sede e troppo «carolini», anche se ufficialmente la motivazione fu la loro formazione, non più «allaltezza dei tempi». Ma anche in questo modo si introdusse un principio devastante per la vita della diocesi cancellando, almeno formalmente, quel principio che aveva caratterizzato il clero diocesano ambrosiano e che era testimoniato proprio dagli Oblati: limportanza, se non il primato, dellobbedienza dei sacerdoti al loro vescovo, che era il vero cuore, il vero centro propulsivo della diocesi. In realtà, Napoleone favorì il diffondersi proprio di questo ideale, poiché i preti oblati, abbandonate le loro case ed i compiti cui erano stati deputati e che, di fatto, erano quelli di fiducia da parte dellarcivescovo e di responsabilità, con i connessi onori , si diffusero per le parrocchie della diocesi e permearono tutto il presbiterio di questa aspirazione alla comunione con il proprio pastore, sancita dal primato dellobbedienza: preti pronti ad obbedire, poiché lessenziale era servire il proprio popolo, poiché a questo ci si era educati. Conseguentemente, potremmo affermare che si diffuse, se ce nera bisogno, tra il clero ambrosiano un rinnovato impulso missionario, insito nello stesso ministero presbiterale. Tali erano i preti oblati, deputati da sempre alla conduzione ed allanimazione delle scuole della Dottrina Cristiana, con il compito di formazione dei laici e dei maestri, coinvolti in queste scuole. Missionari, in particolare, erano quegli Oblati che avevano assunto anche il nome di «Oblati Missionari» e che risiedevano presso il santuario mariano di Rho per predicare le missioni nelle campagne e guidare gli esercizi spirituali dei presbiteri. Ora, la persecuzione di questa congregazione di preti secolari ne determinò per un certo verso la diaspora, ma per un altro verso permise la diffusione degli ideali che la animavano: lanelito missionario di raggiungere i lontani fossero quelli compresi nei confini della diocesi o oltre divenne comune patrimonio ambrosiano. 60 b) Quale tipo di clero, laici, religiosi? Per illustrare meglio questa caratteristica ambrosiana, complessa come si è visto, potremmo accostare due figure sacerdotali, una reale e una letteraria. Quella reale è la figura di don Serafino Morazzone (1747-1822), parroco di Chiuso, un piccolo paese alla periferia di Lecco. Il suo processo di canonizzazione è in fase avanzata presso la Congregazione delle Cause dei Santi. Per conoscere questo prete, sarebbe bello leggere quanto scrisse Alessandro Manzoni nella prima stesura dei Promessi Sposi, Fermo e Lucia (1821-1823), pochi mesi dopo la morte di don Serafino, di cui lartista conservava fresco e personale ricordo: Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sé una memoria illustre, se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: lamore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale: la sua cura continua di fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era tutto il bene possibile. [...] Sento un rammarico di non possedere quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole: prete Serafino Morazzone curato di Chiuso 12. Cosa ammirarono in don Serafino, Alessandro Manzoni ed i contemporanei? Se scorriamo le testimonianze sulla sua vita, leggiamo che fu un prete innamorato del confessionale («le confessioni erano affollatissime e la notte lo sussidiava nel disimpegnarle»), della Madonna, del SS. Sacramento. Basti leggere la preghiera probabilmente composta da lui stesso e che insegnava ai suoi parrocchiani: «O Sangue preziosissimo di vita eterna, mercede e riscatto di tutto luniverso, bevanda e lavacro delle anime nostre che proteggete continuamente la causa degli uomini presso il trono della suprema misericordia! Ah! io profondamente vi adoro e vorrei, per quanto mi è possibile, compensarvi delle ingiurie e degli strapazzi che voi ricevete di continuo». 12 ALESSANDRO MANZONI, Fermo e Lucia, Bergamo 1984, pp. 333-334. 61 Ma don Serafino fu anche e non meno uomo della catechesi, che curò con tutte le sue forze: «Spiegava tutte le feste la dottrina cristiana al popolo». Fu vicino con tutto il suo zelo alla gioventù. Un testimone, ricordando quando era un ragazzino, dichiarò: «Aveva moltissima cura dei fanciulli. Tutti i giorni verso sera ci conduceva alloratorio di S. Giovanni esercitandoci in pratiche divote e religiose anche nel ritorno». Infatti la sera era lunico momento per offrire loro un po di svago, essendo impegnati nei lavori dei campi fin dalla più tenera età. Vi è qui, in nuce, loratorio ambrosiano, che proprio in quegli anni decollava o si riprendeva per opera di un laico, un giovane barbiere di San Babila in Milano, Giuseppe Figino. In questo ambito anche don Serafino maturò e dalla primitiva severità, richiesta dai sistemi educativi di quel tempo, passò ad uno stile pieno di «dolcezza», forse ricordando linsegnamento di santAmbrogio, che scriveva a sua sorella Marcellina: «Gesù Cristo, nostro Signore, ha ritenuto che gli uomini possano essere obbligati e stimolati a fare il bene, più con la benevolenza che con la paura; e che, per farli emendare, lamore è più efficace del timore». Pastore zelante, don Serafino curò gli ammalati e i poveri e non mandava mai via nessuno che venisse a cercare soccorso da lui, senza fargli la carità. Era assiduo al letto degli infermi «visitandoli tutti immancabilmente almeno una volta al giorno». A quali virtù don Serafino ispirò il suo agire quotidiano? Quale lo stile del suo ministero? Egli fu un uomo umile, mite: «Se avesse potuto nascondere il bene che faceva, lo avrebbe fatto volentieri». Fu un uomo povero: daltra parte, mostrandosi libero e staccato, voleva «insegnare che il religioso deve avere unicamente il Signore per sua eredità». Così don Serafino non temette di percorrere con gioia lerto sentiero dellascesi, dal cilicio alle quotidiane rinunce: «In ozio non lo si trovava mai, sempre occupato o nelle cure del ministero o nella preghiera». Don Serafino, dunque, con reale umiltà e spirito di verità credette nel modello spirituale che gli era stato consegnato dalla tradizione della sua Chiesa; prese sul serio la formazione che aveva ricevuto e vi ispirò il suo quotidiano ministero. Quanti furono i preti come lui? Noi risponderemmo: tutti quelli che presero sul serio la loro formazione al sacerdozio, mentre oggi 62 parleremo della loro formazione seminaristica. Questa spiritualità essi consegnarono ai preti che servirono la Chiesa ambrosiana lungo lOttocento. La seconda pagina che vorremmo citare, per fare esperienza del modello di prete che veniva proposto nella prima metà dellOttocento, è quella scritta da un laico, Carlo Ravizza, in Un curato di campagna 13. Con stile autobiografico, lautore descrive il suo soggiorno in Brianza e la conoscenza che ebbe del curato del luogo. Era, questi, un prete che non si limitava al sacro, alla preghiera, ai sacramenti, ma era non meno sollecito dello sviluppo integrale delle persone tra le quali era stato mandato. Nessuno degli aspetti della vita quotidiana dei suoi fedeli gli sfuggiva e per tutti si faceva maestro e testimone e profeta, cioè stimolatore. Egli pertanto si occupava dello sviluppo agricolo, dellistruzione dei fanciulli, della tutela del lavoro, della giustizia sociale, della cultura personale (e non disdegnava letture profane, cioè scientifiche, «per applicarle al bene dei suoi»). Il tutto soffuso di una religiosità ottimista, fiduciosa di sé, perché «la fede sta per se stessa nel cuore umano», ma nello stesso tempo ha uninevitabile rilevanza sociale, poiché «si tolga la religione agli uomini [...] e nessuna istituzione potrà mai riempire lorribile vuoto che resterà nel mondo». Da questa incrollabile fiducia in Dio scaturiva quella nel progresso, nonostante le difficoltà del tempo. Significativa, anzi commovente, la pagina conclusiva che Ravizza mette in bocca al vecchio Parini, quasi suo testamento: Il secolo che non vuole nella società inciampi al suo naturale progresso e aspira a pareggiare tutte le condizioni, ha tolto al clero quei privilegi che parevano da mille anni dargli una potenza senza contrasti e senza eccezioni. Ora poi che sè accorto che quei principii sono un comodo pretesto per far denaro, ha incominciato a venderne i possedimenti, e chi sa quando e dove finirà, Tu che sei giovine vedrai anche questi fraticelli snidati, raminghi destare le risa del mondo, di cui non conoscono le usanze. Continueranno quei soli che sono evidentemente attivi ed utili, perché il secolo non avrà il coraggio di far valere contro essi 13 CARLO RAVIZZA, Un curato di campagna, Bernardoni, Milano 1842. 63 i suoi pretesti. Fate sinceramente del bene, e lavvenire vi rispetterà [...] Tu, figlio, presto sarai prete. Che tu possa non dimenticare giammai la tua tremenda missione! Il campo è più che mai aperto e sgombro, e bisogna entrarvi spogli e colle sole armi della carità e della fede, e lamore e la venerazione de popoli dovrete conquistarli colle azioni. Non ingerirti nei piccoli affari del mondo per non perdere linfluenza vera nelle cose più importanti: ma non ritirarti pusillanime quando sono in pericolo la verità e la giustizia. La vostra missione è combattere per i più santi principii; e perché dovremo calare agli accordi quando si presenta il nemico? Non vi ha per noi interessi temporali che possono farci parer difficile il dovere. La famiglia nostra è il genere umano. Le nostre speranze e i nostri timori non sono di questo mondo. Il mondo sa troppo bene che la nostra carità non deve aver limiti, e se vede in noi unesuberanza di forze e di agi la guarda con occhio incredulo e derisorio, quasi avanzasse al dovere che abbiamo verso gli altri. Studia, perché bisogna fare vedere che i preti non hanno paura del progresso e della verità, e dobbiamo giovare agli altri con tutti i mezzi che lincivilimento ossia Dio medesimo ci porge. Ma soprattutto ama, ama sinceramente, e allora tutti i doveri ti diverranno facili. Cerca unoccupazione utile e santa, e a preferenza scegli la cura delle anime. Essa obbligandoti ad essere guida ed esempio, ti sarà un salutare ritegno sulla via del bene, ti darà lamore e la forza per giovare agli altri 14. Possiamo, pertanto, comprendere il giudizio lusinghiero rilasciato dal cancelliere di Giuseppe II, Kaunitz, a proposito dei parroci di Milano, che difende contro la riduzione del loro numero, desiderata dallimperatore austriaco nel suo zelo riformistico: [Sono] rispettabili per la loro condotta, hanno la riputazione di prestare con particolare bontà e sollecitudine la loro assistenza agli ammalati [...] Sono mediatori nelle frequenti discordie dei cittadini; impediscono le risse, prevengono alterchi e liti con la loro autorità, invigilando, per quanto possono, alla condotta morale dei loro parrocchiani. Questi reali vantaggi per la società mi parevano meritare che lattuale numero dei parrochi, quandanche ecceda il loro bisogno, non debba essere considerato inutile 15. 14 15 64 Ibid., pp. 280-281. ANGELO MAJO, Storia della Chiesa ambrosiana, 3, NED, Milano 1984, p. 133. A preti così, viventi o vagheggiati, dobbiamo accostare i laici. Essi meritano una considerazione attenta nella storia della Chiesa ambrosiana. Basterebbe considerare la figura di Giuseppe Figino (1747-1802), un umile barbiere, il quale trasformò la sua bottega in un primo luogo di esperienza apostolica, insegnandovi con entusiasmo il catechismo. A lui dobbiamo la ripresa esemplare scriviamo così per non dare lidea che egli sia stato il solo delloratorio, così come lo ha conosciuto la diocesi ambrosiana sino a qualche anno fa 16. Con lui assistiamo alla progressiva presenza di laici coinvolti in prima persona nellanimazione, nelleducazione e nella collaborazione con il clero, anzi nella sollecitazione dello stesso clero ad iniziative nuove e profetiche di pastorale. Cè in questumile barbiere ed in quelli che lo imitarono il segno di una sensibilità missionaria, che agitava ci sembra di poter dire anche il laicato. c) Prima conclusione: quale modello ecclesiologico emerge? Se ritroviamo lo stesso spirito nel clero, dobbiamo concludere che fosse uno stile di Chiesa; che fosse generato dallo Spirito, il quale spingeva i suoi figli su sentieri nuovi di fedeltà e di servizio. Una Chiesa, dunque, che ci appare da una parte sotto le pressioni del gallicanesimo, una Chiesa soggetta allo Stato, agognata non solo da Napoleone ma da tutti i sovrani del tempo. Contro questa tentazione operarono come antitossine le forti tradizioni ambrosiane, limpronta di san Carlo e dei suoi successori che, pur secondo le diverse stature personali, lo avevano tenuto e proposto come modello. Unaspirazione, quella della libertà della Chiesa dallo Stato, che appartiene alla sua natura profonda e che, infatti, riscontriamo sia pure con maggiori tensioni anche nelle altre Chiese locali. ENNIO APECITI, LOratorio Ambrosiano da san Carlo a fine Ottocento, in «La Scuola Cattolica», 122 (1994), pp. 511-584; ID., LOratorio Ambrosiano dal Cardinale Ferrari ai nostri giorni, in «La Scuola Cattolica», 122 (1994), pp. 735-854. Oggi raccolti in ID., LOratorio ambrosiano da san Carlo ai giorni nostri, Ancora, Milano 1998. 16 65 Una Chiesa, allo stesso tempo, attenta alle «novità» straniere, a quelle doltralpe soprattutto. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la Rivoluzione francese con la sua appendice napoleonica fu portatrice di nuovi ed alti ideali cui forse essa stessa non fu fedele e con cui non fu coerente si pensi solo alla proclamazione della libertà e delluguaglianza ed alla violenta persecuzione della religione e della Chiesa ma che certamente furono un punto di riferimento e di speranza, qualcosa che scosse le antiche tradizioni e gli antichi costumi e che costrinse tutto lOccidente a percorrere sentieri nuovi, dei quali solo in questi recenti decenni abbiamo visto la fine. Gli ideali dellilluminismo e della rivoluzione ci hanno condotti sul sentiero della montagna di cui abbiamo in questi anni visto la cima, per accorgerci che oltre cè un altro monte da salire; che la vetta è ancora lontana. Proprio per questa attenzione alle voci nuove e di rinnovamento che furono non solo quelle rivoluzionarie e francesi, ma anche quelle dellimperatrice Maria Teresa e di suo figlio Giuseppe II la Chiesa ambrosiana si affacciò allOttocento molto attenta alla dignità delluomo ed alla catechesi, che è il luogo in cui luomo, scoprendo il disegno di Dio, ne intuisce il progetto su di sé: una vera catechesi, svelando il volto di Dio alluomo, permette di cogliere lo stesso volto delluomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Il ritorno austriaco in diocesi: primo momento a) Il vescovo e le sue vicende: Carlo Gaetano Gaisruck (1818-1846) Il secondo momento della nostra riflessione si incentra sul successore del cardinale Montecuccoli Caprara, Gaetano Gaisruck (18181846), di origini austriache, ma che realizzò unautonomia intelligente nei confronti del governo austriaco, riuscendo a farsi amare dalla diocesi ambrosiana, anche se il suo episcopato venne a concludersi quasi a ridosso degli anni più intensi del Risorgimento italiano 17. 17 MARCO PIPPIONE, Letà di Gaisruck, NED, Milano 1984; ID., Gaisruck Carlo Gaetano, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. II, NED, Milano 1988, pp. 1303-1307. 66 Conviene una premessa. Gaisruck fu eletto dopo otto anni di sede vacante: Caprara era morto il 21 giugno 1810 ed egli fu eletto dallimperatore il 16 marzo 1818 e fece il suo ingresso il 26 luglio dello stesso anno. Nei lunghi anni di sede vacante la diocesi fu amministrata dal vicario capitolare, mons. Carlo Sozzi, che dovette limitarsi alla gestione corrente; non poté attuare particolari iniziative. In particolare egli non poté agire contro il clero vagante per lEuropa, accresciutosi di numero dopo le secolarizzazioni e le soppressioni degli ordini religiosi; un clero non sempre obbediente né zelante. Si pensi in particolare ai riflessi che questa assenza del vescovo determinò nella vita parrocchiale: molte parrocchie non ebbero un pastore legittimo. Ma, contro ogni pessimismo, si ricordi che tra il clero disperso cerano anche i preti oblati, che assunsero la cura di molte parrocchie, in attesa che tornasse la normalità giuridica ed amministrativa. Essi si resero disponibili ad incarichi che non garantivano sicurezza né prebende, ma li esponevano allallontanamento nel momento stesso in cui fosse stato nominato il legittimo titolare. Erano, in altre parole, preti che vivevano avendo di mira il primato della pastorale, accettando la precarietà come compagna di vita. Col tempo, durante quel secolo travagliato, diventeranno una nuova famiglia della Congregazione degli Oblati, quella degli Oblati Vicari, giuridicamente costituita nel 1875. Questi preti fanno riferimento ai loro confratelli cui è ancora permesso di esistere, ai missionari di Rho ricostituiti da Gaisruck nel 1839 e, potremmo dire, ne diffondono lo spirito a livello parrocchiale, locale: primato della formazione (e, dunque, attenzione alla cultura); cura della catechesi e della confessione (intesa come direzione spirituale); cura della regolare vita spirituale, secondo il modello gesuitico. Certo, non possiamo né dobbiamo pretendere che abbiano proposto stili o pratiche diversi da quelli diffusi nel loro tempo: essi però non temettero di annunciare con fedeltà e coraggio il Vangelo, pur vivendo in condizioni difficili, quasi da terra di missione. Larcivescovo Gaisruck si rese conto di questa situazione e non a caso, come si disse, «evangelizzare fu il suo ideale». Lo fece prima di tutto rinnovando profondamente le strutture e la metodolo67 gia educativa del seminario: concentrò, infatti, gli alunni in tre grandi sedi San Pietro a Seveso per i ginnasiali, Monza per i liceali, Milano per i teologi e propose il programma di studi delle scuole di Stato e delle facoltà teologiche austriache. Il risultato della riforma fu un clero di alto profilo culturale e contemporaneamente fedele alle sue tradizioni spirituali: non a caso Gaisruck aveva assunto come secondo nome quello di Carlo, il suo più famoso predecessore. Per conoscere lo spirito di questo vescovo, si potrebbe leggere quanto egli raccomandò ai seminaristi in uno dei suoi primi messaggi (15 gennaio 1819): Percorrendo voi la carriera che conduce nel Santuario, è duopo che, sin dai teneri anni, usiate la massima sollecitudine nelladornarvi dogni virtù, affinché siate un qualche giorno ministri di quel Dio che è la stessa Santità, e la luce delle vostre buone opere, risplendendo agli occhi de fedeli, ne sia glorificato il Padre celeste. La religione, la pietà, lo studio debbono formare le vostre delizie, memori che, fatti sacerdoti, dovete essere i modelli ed i maestri dei popoli, che alle vostre cure saranno affidati. Se non crescerete nella pietà e nella dottrina, che sono i due fini principali per cui siete educati nei seminari, sarete piante sterili ed infruttuose, e voi ben sapete che il buon agricoltore leva dal suo campo le piante che occupano inutilmente il terreno 18. Il desiderio di Gaisruck e del suo tempo era che attraverso il seminario crescesse un prete colto, aperto alle scienze, anche quelle profane, che lo rendessero capace di dialogare e consigliare i suoi parrocchiani non solo nel campo spirituale ma anche in quello delle attività quotidiane, del lavoro, fosse quello dei campi, della semina, degli incroci botanici o dellallevamento dei bachi da seta: tutto era funzionale a fare uscire il prete dalla canonica. O, se vogliamo, a rinnovare quella caratteristica ambrosiana, già indicata, che era la vicinanza dei preti alla loro gente, vicinanza anche fisica, abitativa. Lo apprezzò anche An18 68 Archivio Storico Arcidiocesi di Milano, Sezione XIV, Manoscritti, 241. tonio Rosmini, che proprio in quegli anni soggiornò a Milano: «Questa città egli scrive mi piace appunto sopra quante ne vidi, nellessere, cioè, singolarmente divota e di una divozione solida e direi quasi robusta. Dappertutto si vedono le grandi opere di san Carlo, non solo ne sontuosi edifizi, di cui ha abbellito lesteriore della città, ma (quello che è più) ne grandi e magnifici sentimenti sparsi nel popolo suo e nel suo clero e tramandati, quale eredità preziosissima, di padre in figlio, co quali sentimenti sublimi ha edificato una città interiore, ha eretto magnifici edifizi nella celeste Gerusalemme» 19. E questo è lelogio fatto non è certo un caso da un martire deccezione, don Enrico Tazzoli, uno dei martiri di Belfiore, chiamato da Radetzky ad esprimere una valutazione comparativa tra il clero lombardo e quello veneto: Il clero lombardo tiene conto degli insegnamenti di san Paolo che vuole ragionevole il nostro ossequio [...] si antepongono i suggerimenti della ragione agli aforismi delle scuole e alle opinioni dettate dai Dottori, e di ogni verità si ricerca il carattere persuadente e lapplicabilità agli studi della vita [...] Così il clero lombardo raggiunse una coltura che gli ha guadagnato la stima e lamore del popolo; la sua parola non è sdegnata nemmeno dalle menti più distinte tra i laici ed intimi legami si sono messi tra i due ordini. Questa intimità importa che i preti conoscano a fondo i bisogni del popolo e i gemiti che egli emette. Qual meraviglia che essi vi prendano parte e se ne addolorino e facciano voti perché la pubblica cosa migliori? 20. È il prete che entusiasmò gli animi più aperti dellOttocento e che creò, o mantenne, intorno al clero ed alla Chiesa quel consenso e quella stima che permisero di attraversare un secolo turbinoso. È lideale di prete che amo sempre descrivere attraverso una bella citazione di Alessandro Manzoni (1807-1881) nelle sue Osservazioni sulla morale cattolica: 19 Ma si legga il testo completo in PIETRO RUSCONI, Rosmini a Milano, Cogliati, Milano 1897, p. 8. 20 Ibid., p. 456. 69 Sì, ci sono dei preti che disprezzano quelle ricchezze delle quali annunziano la vanità e il pericolo: dei preti che avrebbero orrore di ricevere i doni del povero, e che si spogliano invece per soccorrerlo; che ricevono dal ricco con un nobile pudore, e con un interno senso di ripugnanza e, stendendo la mano, si consolano solo col pensare che presto lapriranno per rimettere al povero quella moneta che è tanto lungi dal compensare agli occhi loro un ministero, il quale non ha altro prezzo degno che la carità. Essi passano in mezzo al mondo, e sentono i suoi scherni sullingordigia dei preti; li sentono, e potrebbero alzare la voce e mostrare le loro mani pure, e il loro cuore desideroso solamente di quel tesoro che la ruggine non consuma (Mt 6, 20), avaro solo della salvezza dei loro fratelli; ma tacciono, ma divorano le beffe del mondo, ma si rallegrano di essere fatti degni di patire contumelia per il nome di Cristo (At 5,41) 21. Unaltra cosa ci preme dire: questo ideale di alto profilo così lo abbiamo indicato fu perseguito affidando la formazione dei giovani seminaristi ad uomini degni ed eminenti per intelligenza e virtù. Basterebbe citare tre campioni di quegli anni: Giovanni Battista Vegezzi (1789-1858), che propose un intelligente rinnovamento della teologia morale; Nazaro Vitali (1806-1886), che aggiornò gli studi filosofici e che, trasferito alla vita parrocchiale, contribuì al deciso rinnovamento della pastorale diocesana: a lui dobbiamo non solo la nuova filosofia del seminario, ma anche le scuole serali, per i ragazzi poveri, cui abbiamo accennato sopra. Terzo viene Luigi Biraghi, insegnante (1824-1833) e direttore spirituale (1833-1848) nonché fondatore delle suore Marcelline, dedite in modo specifico alla formazione ed allinsegnamento delle ragazze di buona famiglia, ma della cui formazione ci si preoccupava poco 22. Biraghi intuì che la trasformazione della società sa21 ALESSANDRO MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica, SEI, Torino 1919, p. 274. 22 È difficile riassumere la bibliografia su Biraghi. Ricordiamo CARLO CASTIGLIONI, Luigi Nazari dei Conti di Calabiana Arcivescovo di Milano e i suoi tempi (1859-1893), Ancora, Milano 1942, p. 179. Rimandando alla scheda bibliografica di ANTONIO RIMOLDI, Mons. Luigi Biraghi, in «Civiltà Ambrosiana», 5 (1988), pp. 303-304, tra le opere più recenti scegliamo: MARY FERRAGATTA, Monsignor Luigi Biraghi Fondatore delle Marcelline, Queriniana, Brescia 1979, con una nota 70 rebbe passata per la famiglia e che occorreva formare ragazze convinte della loro fede e ricche di virtù, perché fossero un giorno madri cristiane, capaci di trasmettere le loro virtù (cristiane) ai loro figli e di irradiarle in famiglia, sugli stessi mariti. Era in fondo uno zelo missionario, se si tiene conto della difficile situazione sociale. Lo stesso incitamento ad osare, a non rimanere chiusi nelle sacrestie come ancorati a tempi definitivamente fuggiti, lo guidò nella formazione dei seminaristi. Basti, al riguardo, citare un passo del suo Saluto ai giovani ormai prossimi alla loro ordinazione presbiterale: La dottrina, la sapienza, la verità sono affidate a voi, a voi commessi i misteri del regno e le vostre labbra custodiranno la scienza e la diffonderanno in nome di Dio sui popoli. E tale è la grazia conceduta alle vostre labbra che alla parola vostra obbedirà Dio, si aprirà il cielo, si chiuderà linferno. Si diffonderanno tutte intorno le grazie sul popolo fedele, tanto che si potrà dire anche di voi in senso spirituale: chi è costui che comanda al mare e i venti obbediscono a lui? [...] Combattete, ma non per levare alto la vostra fortuna, non per procacciarvi preminenze fastose, non a far valere capricci o private soddisfazioni, sì bene per la verità e la giustizia. Tal è la guerra del Sacerdote: combattere a favore della verità e della giustizia per mezzo della verità, per virtù di sofferenze, vincere colla mansuetudine, trionfare colla pazienza, venir ad avere corona col patire. Le nostre armi sono la parola di Dio, le lagrime e lorazione e la nostra gloria la croce di Gesù Cristo e tutta la nostra scienza e provvisione: Gesù e Gesù Crocifisso [...] Il sacerdozio non è stato di ozio, ma di fatica, non officio di comparsa, ma impegno di occupazione, non tanto divisa di gloria, quanto onore di travaglio. Con quei mezzi che sembrano i più disutili al mondo: e appunto modo mirabile è quello di vincere col patire. [...] Fate cuore adunque e rinfrancatevi ed escite pure fuori bibliografica ampia ed aggiornata; Nel primo Centenario della morte del Servo di Dio Mons. Luigi Biraghi, numero unico di «Conoscerci. Periodico dellIstituto Internazionale delle Suore di Santa Marcellina, dicembre 1979», Milano 1979; ANTONIO RIMOLDI, Mons. Luigi Biraghi (1801-1879) educatore delle giovani della borghesia milanese, in «Studi e Fonti di Storia Lombarda. Quaderni Milanesi» 6 (1986) pp. 32-58; GIOVANNI SPINELLI, Biraghi Luigi, in Bibliotheca Sanctorum. Prima Appendice, Città Nuova, Roma 1987, pp. 185-186. 71 nel campo del mondo: giacché il sacerdozio si esercita nel mondo [...] Solo vi ricordi che virga aequitatis virga regni tui. Il vostro potere è tutto di conciliazione, di pace: regit qui corrigit, Sacerdos qui santificat. Ma come sarete voi reggitori di equità? Santificatevi. [...] Tutto santo è un tanto ministero. E santo deve essere un tale ministro. Tanto più idoneo sarà ad intercedere pel popolo quanto più sarà egli santo. [...] Sacerdozio è cosa sacra e cosa sacra e cosa santa è poi la medesima cosa 23. Come si noterà, il perno del discorso, la sua chiave di volta era la santità: non cè altra parola adeguata a dare la sintesi del ministero sacerdotale e della stessa vita cristiana battesimale. Un altro aspetto della formazione di Luigi Biraghi deve essere indicato. Già nel 1839 don Biraghi, direttore spirituale, aveva pensato ad un seminario missionario o meglio un «istituto di sacerdoti, i quali si dedicherebbero alle missioni tra gli infedeli». Dal 1845, poi, erano diventate regolari le visite dei seminaristi almeno di alcuni gruppi alla certosa di Pavia, dove abitava padre Lorenzo Marcello Supriès, missionario delle Missioni Estere di Parigi in India: ne ascoltavano i racconti e ne raccoglievano lancora indomito desiderio di missione. Il frutto di questi formatori fu un clero che non temo di definire eccezionale e che vorrei presentare anche solo a mo di carrellata secondo il criterio cronologico. Quali furono, dunque, i discepoli di don Luigi Biraghi? Il primo è don Giuseppe Marinoni (1810-1891), cui dobbiamo il vero radicarsi dellIstituto per le Missioni Estere 24. Cè poi padre Luigi Villoresi (1814-1883), divenuto barnabita e fondatore dellOratorio Villoresi, una delle più preziose realtà ambrosiane del XIX secolo 25. Seguono Giuseppe Spreafico (1817-1882), catecheta e fondatore delle Scuole notturne di carità, Biagio Verri Archivio Generale delle Suore Marcelline, Milano, Autografi, 4b e 8. PIERO GHEDDO, Marinoni Giuseppe, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. IV, NED, Milano 1990, pp. 2075-2077. 25 ANGELO RECALCATI, Un educatore del clero ambrosiano: Padre Luigi M. Villoresi (= Archivio Ambrosiano 47), NED, Milano 1983; ID., Villoresi, Luigi Maria, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. VI, NED, Milano 1993, pp. 3917-3919. 23 24 72 (1819-1884), fondatore dellOpera per il riscatto delle morette 26, Serafino Allievi (1819-1891), animatore degli oratori San Carlo, San Luigi e del loro primo Regolamento, che vale la pena leggere in qualche passo per cogliere lanimo di un prete, esempio di comerano moltissimi altri: Saccorgono i tristi che bisogna seguire la gioventù e questa non potendo avere tutta in massa perché la maggior parte applicata a mestieri, così prende quella che può nelle scuole. Quindi esclusi i preti ed i parrochi dalle scuole, una smorfia di catechismo insegna il maestro, talvolta valdese o peggio e corrompe il senso morale. Qualche rimedio a tanto danno si può opporre attivando gli oratori feriali degli studenti. In essi, aiutandoli al disimpegno degli scolastici doveri, e dando loro tempi di sollazzarsi si può ottenere molto assai massime coi ginnasiali. Sistruiscono nella dottrina, si premuniscono contro gli errori, si dispongono a ricevere i Sacramenti, si tengono lontani dagli scandali che trovano scioperandosi per le strade fuori città. [...] È da questa istituzione che nacquero tante vocazioni al sacerdozio, alla vita religiosa e che nasceranno ancora se Iddio inspirerà qualche pio opulento a farsi protettore. [...] Lopera del tanto benemerito don Bosco di Torino nacque da questi principii ed ha questo fine, salvare gli studenti e coltivare le vocazioni. Quanti poveri giovanetti hanno talento e virtù e devono dire piangendo hominem non habeo! 27. Cè, poi, Giovanni Battista Avignone (1821-1864), patriota ed autore di un appassionato Appello al papa e al clero per sollecitare ad abbracciare con entusiasmo la causa dellunità nazionale, rinunciando al potere temporale: Lasciate, lasciate chegli [il potere temporale] muoia, e trascini con sé la causa di tanti disastri: appigliatevi lealmente, seriamente alla 26 CARLO CASTIGLIONI, Luigi Nazari dei Conti di Calabiana Arcivescovo di Milano e i suoi tempi (1859-1893), Ancora, Milano 1942, pp. 181-182; ID., Candidati lombardi alla gloria degli altari, in Memorie Storiche della Diocesi di Milano, vol. IV, Biblioteca Ambrosiana, Milano 1957, pp. 22-33; CARLO CAMINADA, Don Biagio Verri, apostolo delle Morette, Varese 1951; PIETRO GINI, Verri Biagio, in Bibliotheca Sanctorum. Prima Appendice, Città Nuova, Roma 1987, pp. 1429-1430. 27 Archivio Storico della Diocesi di Milano, CU 518. 73 libertà: appigliatevi solo a voi stessi e a Dio, e troverete desser più forti di quello che vi reputaste sinora: lasciate la politica, appoggiatevi alla croce e non alla spada, benedite lItalia e la libertà, e i trionfi della Chiesa veramente incominceranno. O vegliardo che posi in Vaticano, non a caso Iddio ha protetto così a lungo il corso dei tuoi giorni: tu colla tua amnistia desti il primo impulso alla risurrezione dItalia; compila ora con la tua Benedizione! [...] Benedici la caduta di quel potere, che, malgrado opposte apparenze, fu lalleato che compromise la forza e il trionfo della Chiesa; benedici col regno della libertà lavvenimento che prepara il risveglio della forza morale della sposa di Gesù Cristo e con esso la ripresa delle antiche conquiste 28. Dovremmo poi ricordare Giulio Tarra (1832-1889), fondatore dellIstituto per i sordomuti, che ispirò la sua infaticabile opera ad un principio elaborato ancora da seminarista: «Io farò il missionario dei poveri selvaggi della mia patria, perché Dio me li consegna» 29. Dovremmo anche ricordare Carlo Salerio (1827-1870), uno dei primi missionari dellIstituto Missioni Estere, partito con il beato Giovanni Mazzucconi e tornato sfiancato in Italia, sfiancato ma indomito, per cui fondò la Casa di Nazareth, ununione di pie signore dedite alla rieducazione delle giovani sordomute o «pericolanti» 30. 28 GIOVANNI BATTISTA AVIGNONE, La Chiesa senza il potere temporale, Milano 1870. SullAvignone è fondamentale ormai la voce di FRANCESCO TRANIELLO, Avignone, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. IV, Fondazione Treccani, Roma 1962, pp. 679-681. Ad illustrare con sintesi precisa gli articoli dellAvignone su «Il Conciliatore», vedi MICHELE BERTAZZOLI, I conciliatoristi milanesi e il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa nel 1860-1861, in «La Scuola Cattolica», 90 (1962), pp. 307-330; ID., I riformisti milanesi del Carroccio (1863-1864), in «La Scuola Cattolica», 92 (1964), pp. 123-153. 29 ANGELO RECALCATI, Tarra, Giulio, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. VI, NED, Milano 1993, 3632-3633. 30 LUIGI PEDRAGLIO, Il Padre Carlo Salerio, PIME, Milano 1923; GIOVANNI BATTISTA TRAGELLA, Carlo Salerio Apostolo della fede e della «Riparazione». 18271870, Istituto della Riparazione - PIME, Milano 1947; VITTORIA PAPA, La Casa di Nazareth per la rieducazione delle giovani di Padre Carlo Salerio, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 25-35; GRAZIELLA CAUZZI, Salerio, Carlo, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. V, NED, Milano 1992, pp. 3159-3160. 74 Tutte queste figure non possono che farci riflettere: cè nel clero milanese una forte sensibilità alla dimensione missionaria, legata certamente al movimento transalpino, di cui fu espressione lOpera della Propagazione della Fede, fondata a Lione nel 1822 da una laica, Pauline Jaricot 31. Non possiamo, dunque, parlare del clero senza considerare limportanza del laicato. b) Quale tipo di laico emerge? Accanto a simili preti trovarono spazio sempre maggiore ed offrirono collaborazione sempre più cordiale i laici. Non parliamo solo di quel laicato parrocchiale cui forse siamo abituati a pensare oggi, ma soprattutto di quel laicato appartenente alle classi dirigenti, alla nobiltà, alla grande imprenditoria milanese, che professava con sincerità e con entusiasmo la sua fede e che adoperò le sue ingenti sostanze per sostenere le nuove forme di pastorale, soprattutto nel campo educativo giovanile, cui abbiamo già accennato. A uomini come il conte Giacomo Mellerio (1777-1847) 32 La Jaricot nel 1822 fondò a Lione lassociazione Propagazione della Fede, che si diffuse rapidamente in Europa e nelle Americhe, favorita dal carattere popolare della proposta: si invitava a dare un «soldino settimanale alle missioni»; si proponeva il rosario comunitario (allora si diceva: vivente) con intenzione missionaria; si diffondevano attraverso le zelatrici i bollettini missionari, come «Lettere edificanti e curiose» (fr.: «Choix des Lettres edifiantes et curieuses») dei missionari gesuiti di Parigi, e gli «Annali della propagazione della fede» (fr.: «Annales de lAssociation de la Propagation de la Foi»), fondate nello stesso anno e tradotte in italiano dal 1828, sino a che nel 1868 fu fondato il settimanale «Les Missions Catholiques». LItalia stessa ne fu contagiata e ne riprese le iniziative: a partire dal Congresso di Vienna sino al 1860 dal solo Regno di Sardegna erano partiti 600 missionari! Su Pauline Jaricot, la cui vita merita attenta considerazione: CECILIA GIACOVELLI, La donna delle due lampade, Roma 1999 (edizione fuori commercio). 32 GIAN FRANCO RADICE, Mellerio Giacomo, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. IV, NED, Milano 1990, pp. 2157-2160. Un estratto del suo testamento, che può illuminarci sulla sua generosità verso tutti gli oratori, ed in particolare quelli da lui fondati, è stato pubblicato in «Eco degli Oratori», 9 (1968), pp. 754760. 31 75 dobbiamo non solo la prima casa delle Suore di Carità, le Canossiane, a Milano, ma anche le sedi di alcuni prestigiosi oratori, quali il San Carlo ed il San Luigi. Accanto a lui potremmo ricordare un altro personaggio, questa volta nel campo accademico, Gabrio Piola (1794-1850) 33, che fu insieme illustre matematico-fisico tanto che gli è dedicata una delle piazze e delle stazioni della metropolitana milanese e prefetto delloratorio che guidò, con intelligenza, sagacia e quel sano umorismo che è un prezioso carisma educativo. Ancora, Gabrio Casati (1798-1873), prefetto doratorio, podestà di Milano e Ministro della Pubblica Istruzione italiana, cui dobbiamo una delle prime e fondamentali riforme della scuola del Regno dItalia 34. c) Quale tipo di religioso emerge? A indicare la vivacità della Chiesa ambrosiana in quegli anni, preziosi per lo stesso discorso della nascita dellattuale Pontificio Istituto per le Missioni Estere, occorre accennare almeno metodologicamente alla preferenza data da Gaisruck agli istituti o congregazioni di vita attiva, quali i Fatebenefratelli ed i Barnabiti, mentre osteggiò la ricostituzione degli Oblati e il ritorno dei Gesuiti, dei Francescani e dei Cappuccini. Appoggiò con simpatia, invece, la diffusione nella diocesi delle nuove fondazioni, spesso ancora quando esse erano appena agli inizi, ramoscelli teneri e fragili, come ad esempio le Canossiane o Serve dei Poveri attualmente Figlie della Carità , nate nel 1808 e riconosciute nel 1828, ma già presenti a Milano nel 1823. O come le Suore di Maria Bam33 Dopo aver studiato matematica e fisica presso lUniversità di Pavia, rifiutò la cattedra, che gli veniva offerta nella stessa università, per darsi alla ricerca ed allinsegnamento privato. Fu maestro di uomini illustri: tra essi si ricorda Francesco Brioschi, fondatore del Politecnico di Milano. Su di lui recentemente: GIUSEPPE BARZAGHI, Gabrio Piola (1794-1850). Un cristiano impegnato per i tempi nuovi, in «Civiltà Ambrosiana», 10 (1993) pp. 293-299. 34 LUIGI AMBROSOLI, Casati Gabrio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXI, 1978, pp. 244-249. Una più antica eppure completa biografia: ACHILLE MAURI, Conte Gabrio Casati, in Scritti biografici, Le Monnier, Firenze 1878, pp. 131-147. 76 bina o Suore di Carità, nate nel 1832 e già diffuse a Milano nel 1842. Ad esse potremmo aggiungere le Orsoline di San Carlo, riconosciute nel 1824, le Marcelline (1838) e lIstituto del Buon Pastore (1845), ecc. Il segnale che Gaisruck voleva dare era evidente ed è quello ben radicato oggi in ogni cristiano, e potremmo esprimerlo con una frase di papa Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica, Redemptor hominis (4 marzo 1979): «Luomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dellIncarnazione e della Redenzione» (n. 14). d) Seconda conclusione: quale modello ecclesiologico emerge? Possiamo affermare, dunque, che nel secondo momento della vita della Chiesa ambrosiana nellOttocento, quello caratterizzato dallepiscopato del cardinale Gaisruck e che copre buona parte della prima metà del secolo, si consolidò fortemente lapporto laicale; maturò una Chiesa fortemente capace di dialogo interno, insieme gelosa della sua autonomia dal potere imperiale e molto aperta alle sollecitazioni del rinnovamento, sia quello missionario doltralpe, sia quello originato dalla forte sensibilità romantica e dallo storicismo, che ricercava le origini del proprio risorgimento e spingeva, pertanto, a sottolineare gli elementi propri della Chiesa ambrosiana, vista come parte della Chiesa cattolica, che trovava il suo radicamento nel papato romano. Una Chiesa, quella ambrosiana, che riscopriva trasformava, attualizzava la dimensione della carità, sia attraverso le scelte di nuovi ordini religiosi, sia attraverso linsistita proposta di un prete che fosse amico e conoscente di tutti, consigliere agricolo in campagna e dotto professore in città, capace di suscitare strutture rispondenti ai bisogni, quelli dei poveri soprattutto, per promuovere la dignità delluomo. In questo stile si vede anche unantropologia: ogni essere umano è degno di stima; tutti siamo fratelli e sorelle, per la comune 77 origine divina ed il comune battesimo, per cui non cè nessuno che possa ritenersi superiore allaltro; a tutti deve essere data la possibilità di riuscire, di trafficare parlando evangelicamente i talenti ricevuti da Dio. Nella Chiesa dellOttocento cerano, dunque, fermenti di progresso sociale molto più numerosi e vivaci di quanto sia affermato dalla pubblicistica comune. E forse più di quanto noi stessi credenti e figli di questa Chiesa sappiamo. Un fermento di progresso e di attenzione allessere umano che si coniugava con lo spirito tipico dellOttocento, avventuroso, ricercatore, romantico e con quello che è il patrimonio genetico insito nella stessa natura delluomo, la carità, quella che lo fa essere simile a Dio, il suo creatore. Il ritorno austriaco in diocesi: secondo momento a) Il vescovo e le sue vicende: Bartolomeo Carlo Romilli (1847-1859) Il terzo momento del nostro cammino è segnato dal nuovo arcivescovo, Bartolomeo Carlo Romilli 35. Egli era atteso come il ritorno di un italiano: era il segno delle aspirazioni allunità nazionale, ormai incontenibili. Il segno fu lentusiasmo della popolazione alla notizia della nomina: Cesare Cantù scrisse che «si giubilò come dun trionfo nazionale» 36. Purtroppo tanta attesa suscitò la reazione sospettosa del governo austriaco e la tensione degenerò proprio in occasione del suo ingresso in diocesi (8 settembre 1847). La polizia cercò di disperdere un gruppo di giovani che in piazza del duomo si era messo a cantare linno di Pio IX: sul terreno rimase una vittima. Il peggio, comunque, si ebbe il giorno seguente, quando si dovevano svolgere i funerali: la truppa disperse la folla e requisì la bara, che fu sotterrata nottetempo. Erano solo i prodromi di quanto si verificò nella primavera seguente, le famose «Cinque giornate» di Milano (18-22 marzo 1848). Esse videro 35 LAURA VANZULLI, Bartolomeo Carlo Romilli arcivescovo di Milano. Un profilo politico-religioso (1847-1859), NED, Milano 1997. 36 CESARE CANTÙ, Storia del popolo e pel popolo, Agnelli, Milano 1871, pp. 325. 78 in prima linea anche la comunità cristiana. Anche il seminario, o meglio i suoi giovani ed entusiasti seminaristi. È noto che la più resistente delle barricate opposte alle truppe austriache, quella che bloccò lattuale corso Venezia, fu costruita dai seminaristi teologi usando le panche della loro cappella. Purtroppo fu un seminarista, Giambattista Zaffaroni, a colpire a morte il primo soldato austriaco, cui aveva strappato il fucile. Non è certo cosa di cui un prete, o chi si prepara ad esserlo, debba gloriarsi, ma esprime ancora una volta il coinvolgimento profondo del clero ambrosiano con la vita dei propri fratelli. E, in effetti, nei giorni seguenti lopera dei seminaristi si concentrò nel rifocillare i combattenti e nel costruire i famosi palloni aerostatici (progettati dal chierico Antonio Stoppani), che permisero alla città presidiata di comunicare con i paesi vicini e, così, favorire il diffondersi dellinsurrezione nella Brianza e nella zona di Como. Tra questi seminaristi meritano un ricordo Carlo Salerio e Giovanni Mazzucconi: nellamore di patria e nella carità verso i feriti, maturarono la loro coscienza ad un servizio generoso, senza paura delle difficoltà. In questi frangenti, non cera molto spazio per le novità. Piuttosto si determinarono situazioni di ulteriore controllo e pressione da parte del governo austriaco. Romilli cercò di custodire le tradizioni della Chiesa ambrosiana e di rispettare i decreti del governo. Così costituì una Consulta ecclesiastica, una specie di piccolo consiglio episcopale, della quale fecero parte in particolare Giovanni Battista Vegezzi e Luigi Biraghi: tramite i loro consigli egli riuscì a custodire quello spirito che abbiamo descritto sopra. Il prezzo da pagare al governo, comunque, fu alto. Egli dovette ricostituire gli Oblati diocesani (1853) e affidare loro la conduzione del seminario, con lo scopo dichiarato di «combattere i nemici della Chiesa». Non era certo un bel biglietto di presentazione per la stessa congregazione degli Oblati, e da allora essa fu circondata da sospetto e da critiche. Daltra parte il primo compito che dovette assolvere fu una pratica epurazione del seminario (1854): 13 professori furono allontanati, anche se larcivescovo Romilli fece in modo di dare loro importanti destinazioni. Questa ricerca di unità e di rispetto delle diverse modalità di pensiero spinse Romilli e con lui i vescovi lombardi a custodire e privilegiare il legame 79 con la Santa Sede, accogliendone le sollecitazioni. Forse era un modo di sottrarsi autorevolmente alle pressioni austriache; forse era un modo di coordinare le forze dellepiscopato lombardo in modo da realizzare a livello ecclesiale quello che si stava verificando a livello politico. Sta di fatto che proprio allinterno di questa polarità si può collocare la nascita dellIstituto per le Missioni Estere. Mi sembra che lo illustri sufficientemente la proposta di alcune Massime e norme per lIstituto delle Missioni Estere, inviata ai vescovi lombardi e da essi approvata temporaneamente in attesa del giudizio di Propaganda Fide. In essa si leggono le seguenti parole, che sembrano anticipare lo spirito missionario del Concilio Vaticano II: Larcivescovo di Milano e i Vescovi Comprovinciali, non trattenuti dal timore di perdere qualche soggetto ai bisogni della Diocesi; considerato il compenso che devono attendere le loro Chiese dal Signore; considerando che gli splendidi esempi di distacco e di sacrificio sono atti più che altro a svegliare la fede e possono rendere fruttuoso alla diocesi non meno il Missionario, il quale parte per un altro emisfero, che il Sacerdote rimasto ad operare fra i suoi; che anzi, spingendo in alcuni individui la vocazione ecclesiastica al suo pieno sviluppo, viensi a suscitarla e meglio maturarla in altri; ma più di tutto considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dilatazione della Chiesa universale, e che ciascuna diocesi è in qualche modo tenuta a fornire per questo intento il suo contingente di milizia apostolica, pensarono di dover favorire e tener cura delle vocazioni al ministero delle Estere Missioni con non minor zelo di quello che usino per la buona educazione del Clero destinato alla diocesi. Da allora il volto della Chiesa ambrosiana cambiò. E forse si complicò, almeno al momento: si creavano nuovi modelli di formazione presbiterale; si acuiva lanelito a non rimanere chiusi nellhortus conclusus della parrocchia tradizionale; si cominciava con radicalità maggiore a pensare in termini di Chiesa universale, appunto cattolica, e ci si liberava così dalla mentalità della collaborazione tra trono ed altare, che di fatto era sudditanza del secondo al primo. Ma rimanevano le persone formatesi ad altre scuole; educate ad unaltra pastorale; forse lente ad accettare che il 80 «dare a Cesare» ed il «dare a Dio» non chiedevano che ci fosse sempre sintonia tra le due realtà, e che il Vangelo non si proclama con lappoggio dello Stato e delle sue strutture ma con la forza ad esso interna. Il Concilio Vaticano II ce lo ha richiamato e papa Giovanni Paolo II lo ha proposto nel cammino di preparazione al Grande Giubileo del 2000: «La verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore» 37. Su tutte queste aspirazioni venne a calare il colpo apoplettico che colpì larcivescovo Romilli il 21 dicembre 1857 e che lo costrinse ad affidare la conduzione della diocesi al suo fidato vicario generale, mons. Paolo Angelo Ballerini, sino a che non venne a morte il 7 maggio 1859. Il momento era politicamente drammatico, poiché si era nel pieno della seconda guerra dindipendenza. Il vicario generale e con lui la diocesi pagarono un prezzo elevato. b) Un vescovo mancato: Paolo Angelo Ballerini (1859-1867) Il 7 giugno 1859, tre giorni dopo la battaglia di Magenta, Francesco Giuseppe usò del suo diritto di nomina per indicare al papa il proprio candidato alla sede arcivescovile di Milano: Paolo Angelo Ballerini 38. Era lultimo suo gesto di autorità sulla Lombardia, poiché il giorno dopo (8 giugno) Napoleone III e Vittorio Emanuele II entravano solennemente in Milano, accolti dallentusiasmo della popolazione che con un rapido plebiscito votò lannessione al Regno di Sardegna, primo nucleo del Regno dItalia che si andò costituendo in pochi mesi. Sarebbe stato prudente non confermare la designazione imperiale, ma Pio IX era rispettoso del diritto e, poiché la nuova situazione territoriale della Lombardia fu decisa solo l11 luglio con larmistizio di Villafranca, confermò la nomina del nuovo arcivescovo 37 CONC. ECUM VAT. II, Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, n. 1; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Ap. Tertio millennio adveniente, n. 35. 38 CARLO CATTANEO, Mons. Paolo Angelo Ballerini. Luomo e il Vescovo in documenti inediti, NED, Milano 1988. 81 nel concistoro del 20 giugno 1859. Forse cera stata un poco di fretta da parte del papa; forse si inanellarono quelle coincidenze, che sembrano fatte apposta per creare danni, come ad esempio il fatto che il concistoro fosse già fissato e che non conveniva ritardare ulteriormente la nomina di un pastore per Milano, proprio a causa della difficile situazione politica. Sta di fatto che il nuovo governo italiano non accettò come avrebbe potuto? il fatto compiuto e affermò che gli competevano i diritti, anche quelli ecclesiastici, del precedente governo austriaco. Forse non era tanto la persona di Ballerini che non era gradita: era il desiderio di esercitare un diritto che si riteneva violato; forse il governo italiano avrebbe accettato Ballerini, se esso stesso avesse potuto indicarlo alla Santa Sede. Sta di fatto che il papa fu irremovibile e la situazione si aggravò quando Ballerini fu ordinato segretamente nella certosa di Pavia da un solo vescovo nella notte tra il 7 e l8 dicembre 1859. Il governo lo ignorò e pretese che anche il capitolo metropolitano lo facesse, rifiutandosi o meglio sottraendosi al momento opportuno di ricevere le bolle di nomina pontificie. Per superare limpasse il capitolo, con il consenso del governo, e Ballerini nominarono un identico vicario, lunico che fosse già vescovo e risiedesse in diocesi, mons. Carlo Caccia Dominioni, che resse la diocesi dal 1859 al 1866 39. Solo che il capitolo ed il governo lo ritenevano vicario capitolare poiché per loro la sede era vacante, mentre Ballerini lo guidava come suo generale, essendo per lui la sede impedita. Cè solo da immaginare come la situazione pastorale potesse essere drammatica e continuamente tesa. Si Per le tristi vicende di questo poveruomo, vedi [LUIGI VITALI], Le piaghe della Chiesa milanese, Brigola, Milano 1863; CARLO BONACINA, Monsignor Carlo Caccia e i suoi tempi. Memorie storiche. 1802-1866, San Giuseppe, Milano 1906; CARLO CASTIGLIONI, Società ecclesiastica in Milano (1860-1863), in Memorie storiche della diocesi di Milano, vol. IX, Biblioteca Ambrosiana, Milano 1962, pp. 939; G. COLOMBO, La società ecclesiastica di Milano (1860-1862), in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana (= Archivio Ambrosiano 21), vol. II, NED, Milano 1971, pp. 295-364; Ibid., (= Archivio Ambrosiano 23), vol. III, NED, Milano 1972, pp. 144-202; Il Capitolo Metropolitano e monsignor vicario Caccia vescovo di Famagosta, Brigola, Milano 1862; [DEMOFILO LOMBARDO], Il Seminario di Milano e gli Oblati, Brigola, Milano 1862. 39 82 pensi ad esempio al rifiuto dei canonici di obbedire a Ballerini, che aveva ingiunto di non cantare il Te Deum per la festa dello Statuto (1861). Colpevole venne ritenuto il suo sfortunato vicario, che più volte fu convocato a Torino per chiarimenti e che alla fine si rifugiò, per sottrarsi alle angherie, nel Seminario Liceale di Monza, ove stette sino alla morte (1866). La situazione paradossale si trascinò fino al 1867: in questo anno a causa del blocco delle nomine dei parroci si contavano 150 parrocchie vacanti (su 775). c) Quale la situazione del clero? Eppure non tutto fu negativo. Proprio in questi anni lo spirito conciliante di mons. Caccia Dominioni permise la nascita del Seminario del Villoresi (1862) o Istituto dei Chierici Poveri. Esso nacque per intuizione e col permesso di mons. Caccia nel 1862, in seguito a un dialogo con il suo confessore, appunto padre Luigi Villoresi, che lo abbiamo detto sopra aveva studiato nel Seminario di Milano, prima di passare tra i Barnabiti, che lo destinarono a Monza. Qui già nel 1845 aveva fondato un oratorio per i giovani più poveri e abbandonati di Monza, andando e mandando a reclutare gli sbandati che trovava per le strade della città. Col tempo di trasformò ed accolse in modo permanente, a mo di un convitto, quei ragazzi poveri che aspiravano al sacerdozio ma non potevano frequentare il Seminario diocesano soprattutto per motivi economici. Già nel 1863 diciannove ragazzi indossarono la veste talare e nel 1866 i chierici ammontavano a 162. Il suo successo era dovuto certamente alle novità educative sia nel campo culturale 40 sia in quello spirituale 41. La stessa vita quotidiana ave- 40 Al Villoresi si facevano sei ore di scuola ogni giorno della settimana (compreso il giovedì) e due ore di scuola, più due di studio, nelle vacanze autunnali. 41 Presso il Seminario diocesano vigeva la netta separazione dei fori (disciplina, studio, vita spirituale); allIstituto di Monza, invece, padre Villoresi era ad un tempo rettore, confessore ed insegnante. Un solo esempio, la devozione eucaristica: per un villoresino la comunione quotidiana era normale, mentre nel Seminario teologico si praticava ogni quindici giorni e quella settimanale era appena tollerata. 83 va uno stile più familiare che non nel Seminario diocesano, forse anche i professori erano tutti volontari ed i ragazzi sapevano che avrebbero dovuto sostenere un esame dammissione al Seminario teologico. Certamente il clima era, però, reso più familiare dal coinvolgimento degli studenti. Essi, infatti, nel tempo libero dallo studio si dedicavano alloratorio annesso allistituto, organizzando giochi, rappresentazioni teatrali, concerti e concorsi musicali; si prestavano per il catechismo, la scuola elementare serale e quella festiva per gli adulti. Era unottima preparazione allimpegno pastorale, con un aspetto di missionarietà che non va sottovalutato e che spiega il motivo per cui padre Villoresi nel 1874 contattò, senza giungere però ad alcun risultato, mons. Marinoni, cofondatore dellIstituto per le Missioni Estere di S. Calocero, per fondere (almeno giuridicamente) i due istituti. Come si vede, una forma di preparazione moderna, intelligente, provocante, missionaria, ma foriera di inevitabili attriti per i confronti tra i due modelli educativi quello diocesano e quello villoresino che accentuarono anche la tensione con la formazione dellIstituto per le Missioni Estere. Ci fu chi ritenne che si andasse delineando unanarchia formativa; che si stesse perdendo la tipicità del prete ambrosiano. Si agitavano, infatti, diverse anime tra il clero ambrosiano: la più conciliatorista era definita spesso superficialmente come liberale. Essa si organizzò anche in unassociazione che avrebbe dovuto favorire la riflessione allinterno del clero, facendo crescere un clima di fraternità e di comunione di intenti che anticipa per certi versi quella concezione di ordo presbiterorum che sarà limpidamente proposta dal Concilio Vaticano II. Purtroppo, la Società Ecclesiastica così si chiamava e il giornale cui essa diede vita, «Il Conciliatore», ebbero vita breve (1860-1862) e furono sciolti dautorità. Lo spirito, comunque, non può essere soffocato neppure dallautorità: al massimo può ritardarne lesplosione. A questo gruppo si contrapponevano quei preti che si trovavano rappresentati dal quotidiano intransigente «LOsservatore Cattolico» (1864). Illuminante circa la linea editoriale il motto che lo caratterizzò: «Col Papa e per il Papa». Esso era stato fondato con lintenzione da una parte di aiutare a conoscere la vita della Chie84 sa e le sue novità, per colmare quello che già allora compariva come un tacito ostracismo a ciò che di religioso caratterizzava la società italiana; dallaltra parte intendeva anche nel nome porsi sul solco romano, sottolineare il legame con il papa, in quei momenti travagliati della storia ecclesiale, soprattutto italiana. Questa fedeltà al papa e questo taglio culturale spinsero inizialmente gli stessi vescovi lombardi a sostenere il giornale e a raccomandarlo al clero, salvo poi prenderne le distanze quando prevalse il tono polemico ed intransigente che venne assumendo in particolare dal 1869, con larrivo in redazione di don Davide Albertario (18461902) 42, uno dei più brillanti esponenti del giornalismo cattolico e tenace campione dellintransigenza. Alla fine (1872) gli stessi fondatori del quotidiano, mons. Giuseppe Marinoni e don Felice Vittadini, si ritirarono, lasciando nelle mani di tre sacerdoti (Enrico Massara, Davide Albertario, Carlo Locatelli) la direzione e la proprietà del giornale. Vale la pena annotare che a fondarlo fu colui che voleva rinnovare la preparazione culturale del clero ambrosiano, in modo che fosse allaltezza dei tempi nuovi e colui che aveva preso sulle spalle la pratica concretizzazione dellIstituto per le Missioni Estere, che mons. Ramazzotti aveva dovuto lasciare proprio al momento della nascita per assumere lepiscopato di Pavia. Possiamo dunque ritenere che «LOsservatore Cattolico» si inscriva nello spirito missionario della diocesi, missione vista come impegno sia in patria sia in terre lontane per difendere e diffondere il Vangelo e la Dopo la voce stesa da Fonzi (FAUSTO FONZI, Albertario Davide, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. I, Treccani, Roma 1960, pp. 669-671, la nota bibliografica più aggiornata su Davide Albertario ci sembra quella di ALFREDO CANAVERO, Albertario e «LOsservatore Cattolico», Studium, Roma 1988, pp. 255259. Ad essa si possono aggiungere gli articoli (tutti abbastanza puntuali) comparsi successivamente: CARLO MARCORA, LOsservatore Cattolico: unintransigenza contestata, in «Diocesi di Milano - Terra Ambrosiana» n. 2, 29 (1988), pp. 53-59; PIERANGELO GIOVANETTI, LOsservatore Cattolico di Milano: i perché del successo di un giornale cattolico, in «Civiltà Ambrosiana», 6 (1989), pp. 99-110; ANGELO MAJO, Lesilio napoletano di don Albertario in documenti inediti, ibid., pp. 111-131; PAOLO LIZZI, Un dissidio tra confratelli intransigenti: Milano e Roma a confronto, ibid., pp. 132-142. 42 85 Chiesa. Un segno di questo scambio tra i due volti della missione si potrebbe ritrovare nel passo di una lettera di mons. Giuseppe Marinoni a mons. Luigi Biraghi (18-26 maggio - 6 giugno 1839): Carissimo mio Padre in Cristo, [...] Il disegno che ella ha per la mente non è cosa di cui io possa giudicare: se io posso tuttavia dire quel che mi vien suggerito, in tanto bisogno che stanno le missioni estere di operai evangelici, con tante e sì proprie occasioni che il Signore presenta di esercitare fruttuosamente il santo ministero, mi parrebbe ottima cosa il consacrarsi nel ritiro, nellorazione e nello studio a questa grande impresa della Propagazione della Fede. Parvuli petierunt panem et non fuit qui frangeret eis; specialmente ove si rifletta lattitudine grande che ha lei così pei lunghi pellegrinaggi come pel farsi tutto a tutti e comunicare i doni della mente e del cuore ricevuti da Dio. Quando tale fosse il suo pensiero, ne troverebbe forse più preparata la via, perocché si sta concertando lerezione di un ritiro per ecclesiastici che vogliono consacrarsi, lungi dagli impicci di famiglia, al ministero apostolico nelle parti cattoliche, ed un Collegio di missioni per quelli che amassero di portare in paesi esteri la santa fede. È, dunque, in questo contesto caratterizzato dallincertezza nella guida della diocesi ed insieme dallesperienza concreta di come fosse faticoso annunciare il Vangelo in Italia, ed in particolare in Lombardia, che forse si può capire da un lato come potesse trovare accoglienza tra i giovani preti lidea di un istituto sacerdotale missionario e dallaltro lato il suo faticoso affermarsi. Da una parte, infatti, poteva essere normale pensare che accanto ai preti poveri, che uscivano dal Seminario del Villoresi, potessero esserci altri preti che sentivano il bisogno di puntualizzare con maggiore precisione il loro carisma pastorale, il loro modo di essere preti. La nascita degli Oblati Vicari che si va preparando in quegli stessi anni si inserirebbe in questo solco: nel desiderio di precisare tra le mille possibilità offerte il proprio desiderio di servizio del Vangelo e della Chiesa. Dallaltra parte proprio quel senso carolino o ambrosiano di prete, che abbiamo delineato sopra, e quel primato della parrocchia, così profondamente radicato nel clero ambrosiano, possono spiegare per qua86 le motivo non si ebbe mai più di un manipolo di candidati allIstituto Missioni Estere: i bisogni erano molti ed urgenti anche a Milano, che appariva terra di missione capace di assorbire le energie generose, quando ci fossero. Una prova di questo sarebbero le altre figure di prete che potremmo presentare e che vanno affermandosi in questa seconda metà del secolo XIX. È ancora un clero profondamente dedito alla carità. Si pensi a mons. Luigi Vitali (1836-1919), che fondò lIstituto per i ciechi, un monumentale complesso ancor oggi esistente 43. Si pensi a mons. Domenico Pogliani (1838-1921), fondatore dellOspizio Sacra Famiglia per gli Incurabili di Cesano Boscone 44; a don Carlo San Martino (1844-1919) che, bruciato dal desiderio di farsi missionario pensò anchegli di entrare nel PIME , intuì che poteva esserlo qui tra i derelitti e, dopo aver retto il Riformatorio di Parabiago (popolato da 400 ragazzi), fondò lIstituto per la Fanciullezza Abbandonata (o Figli della Provvidenza) per attuare uneducazione più mirata alle reali condizioni dei ragazzi 45. E, accanto a questi preti di frontiera, ancora una volta dovremmo ricordare i mille e mille dediti alla cura dei ragazzi e dei giovani negli oratori della città e della provincia. Un segnale: in quegli anni si contavano nella sola città di Milano trenta oratori maschili. Ed abbiamo già accennato a quale fosse il loro stile: la collaborazione faticosa e feconda tra sacerdoti e laici, chiamati spesso a 43 CARLO CASTIGLIONI, Mons. Luigi Vitali animatore dellIstituto dei ciechi, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 7-12. 44 PIETRO RAMPI, LOspizio Sacra Famiglia per gli Incurabili fondato dai sacerdoti D. Pogliani e L. Moneta, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 69-80; GUIDO VIGNA, Dalla parte degli ultimi. Vita e opere di un parroco di campagna: don Domenico Pogliani, Istituto Sacra Famiglia, Cesano Boscone 1988. 45 UBERTO PESTALOZZA, Don Carlo San Martino, Tip. dellIstituto, Milano 1920; ACHILLE MARAZZA, Don Carlo San Martino, padre della Fanciullezza abbandonata, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 37-53; RAFFAELLA BEANANTI CAGLIERI, San Martino, Carlo, in «Civiltà Ambrosiana», 3 (1986), pp. 58-60. 87 prendere posizione di fronte alle autorità governative, in luogo ed a nome dei preti. d) Terza conclusione: quale modello ecclesiologico emerge? In conclusione di questo terzo momento della vita della diocesi ambrosiana, possiamo dire che essa è caratterizzata da una forte sottolineatura della fedeltà al papa e del legame con Roma, ed insieme da una preferenza per la scelta della fine del potere temporale, vista come occasione storica o provvidenziale per allargare lattenzione alla dimensione pastorale ed universale della Chiesa. In questepoca ed in questottica, la Chiesa ambrosiana ritorna a sottolineare forse premuta dalle contingenze politiche il forte senso dellobbedienza al vescovo, espresso in modo particolare dal ritorno degli Oblati per volontà dellAustria e dallincarico loro affidato di formare il futuro clero nel seminario. La conseguenza fu che, accanto alla centralità del vescovo e del senso di comune appartenenza alla Chiesa, si posero le nuove prospettive pastorali, protette dalla stessa incertezza del governo ecclesiale. Tutte, in fondo, miravano ad un comune ideale: un clero capace di uscire dalle sacrestie, capace di stare tra la gente e di parlare con ed alla gente. In certo senso: un clero che riscopriva la dimensione missionaria del suo ministero, in sintonia con lesplosione del fenomeno missionario in tutta la Chiesa ed in sintonia con lappoggio dato alle missioni da Gregorio XVI e poi da Pio IX; il primo era stato prefetto di Propaganda Fide prima di salire al soglio pontificio, il secondo aveva seguito il desiderio di essere missionario andando sia pure come segretario di una delle prime missioni diplomatiche in America Latina in Cile. Il clero di Milano, nella sua fedeltà al papa sostenuta da «LOsservatore Cattolico», non poteva che essere sensibile a queste dimensioni ed a queste sollecitazioni. Era, daltra parte, un clero abituato ad un vivace dibattito intraecclesiale, ad una forte coscienza della dignità del ministero di parroco. Anzi nella riflessione comune si affermava con forza 88 che i parroci appartengono al secondo grado ecclesiastico e sono più importanti dei vescovi; che i vescovi hanno potere di giurisdizione, mentre i preti (identificati con i parroci) sono di diritto divino per lordinazione. Basterebbe leggere anche solo lincipit di un libro che circolò nella diocesi ambrosiana in vista del Concilio Ecumenico Vaticano I, lAppello ai Parochi 46, che rivela una visione di Chiesa per certi versi profetica, più vicina allecclesiologia del secondo che a quella del primo Concilio Vaticano: «La Chiesa non è costituita de soli Vescovi, Cardinali e Papa; né de soli Preti del II ordine, né de soli Laici: è il popolo fedele sparso per tutto il mondo» 47. Proprio per questo motivo gli estensori dellAppello pretendono di partecipare al Vaticano I; parlano di «collegialità» allinterno della Chiesa; richiamano limmagine della Chiesa apostolica (At 2,42-46); ricordano che la Chiesa non è gerarchica (una piramide retta da competenze giurisdizionali) ma è un popolo, in cui ogni membro ha un ruolo e il vescovo deve coordinare la sintesi. In ultima analisi: una Chiesa apostolica con un connaturale istinto missionario. Una Chiesa in cui trovava posto naturale e ben voluto anche un istituto di preti che si dedicassero in modo specifico alla missione tra le genti «sparse in tutto il mondo». Era una ricchezza di stimoli e di immagini sacerdotali che, però, custodiva nel suo seno un principio di anarchia, la tentazione sempre ricorrente di confrontarsi e di contrapporsi, di giudicare laltro con severità e non con simpatia per la diversità che lo caratterizzava. È la tentazione di sempre nella Chiesa e nella società, quella che è allorigine delle stesse eresie, degli scismi e delle divisioni che hanno lacerato la Chiesa. È la conseguenza della divisione che si incunea tra verità e carità. Esse, invece, sono come sorelle siamesi: luna non sta senza laltra e, separata, ognuna si smarrisce, lasciando divisione, lacrime e tristezza. 46 Per il XX. Concilio Ecumenico MDCCCLXIX. Appello ai Parrochi, Canonici, Professori e Moderatori dei Seminari, e Sacerdoti Italiani, Treves, Milano 1869. 47 Ibid., p. 5. 89 Fu, forse, quello che ricadde su colui che dovette assumere la pesante eredità di ricucire il tessuto della comunione, mons. Luigi Nazari di Calabiana. Milano nel Regno dItalia a) Il vescovo e le sue vicende: Luigi Nazari di Calabiana (18671893) Dopo otto anni di reciproche incomprensioni venne finalmente il momento della comune saggezza e Pio IX da una parte ed il governo italiano dallaltra riuscirono in un faticoso accordo per la nomina ad un certo numero di sedi episcopali, tra cui quella di Milano 48. Laccordo si realizzò promuovendo larcivescovo eletto, mons. Ballerini, a patriarca di Alessandria dEgitto, in partibus infidelium come si diceva allora, e trasferendo a Milano lanziano vescovo di Casale, mons. Luigi Nazari di Calabiana, la cui bontà e mitezza, unite alla cura della catechesi e alla moderazione, erano note. Egli, poi, era senatore del regno e dunque poteva essere ponte di dialogo tra le due realtà italiane, il governo e la Chiesa romana 49. 48 Già nel 1865 erano iniziate le laboriose trattative fra la Santa Sede ed il governo italiano per provvedere di titolari le molte sedi episcopali vacanti. Fallita la missione del ministro Francesco Saverio Vegezzi, le trattative vennero riprese dal consigliere di Stato Michelangelo Tonello nel 1866 e portate a termine tra mille difficoltà. Una delle vertenze più faticosamente risolte fu quella che interessava la sede arcivescovile di Milano. Fra i candidati a succedere al Ballerini venne dapprima nuovamente escluso il card. Piero De Silvestri, prelato di curia: la scelta di un cardinale per Milano poteva significare eccessiva deferenza verso il governo. Pio IX caldeggiò fortemente si disse la candidatura dellarcivescovo di Lucca, mons. Giulio Arrigoni, ma gli si oppose il netto rifiuto del ministro degli Esteri Bettino Ricasoli. Non rimanevano che i tre vescovi senatori del Regno: il lombardo mons. Giovanni Corti, vescovo di Mantova; i piemontesi mons. Alessandro dAngennes, arcivescovo di Vercelli, e il vescovo di Casale mons. Luigi Nazari di Calabiana, elemosiniere di Sua Maestà. La scelta anche per motivi di età cadde su questultimo. 49 CARLO CASTIGLIONI, Monsignor Luigi Nazari dei Conti di Calabiana Arcivescovo di Milano e i suoi tempi (1859-1893), Ancora, Milano 1942; ENNIO APECITI, 90 Preconizzato arcivescovo di Milano nel concistoro del 27 marzo 1867, mons. Luigi Nazari dei conti di Calabiana fece un ingresso modesto in diocesi, a causa dellincipiente epidemia di colera, il 23 giugno, rimanendovi fino alla morte avvenuta il 22 ottobre 1893. Sin dallinizio fu evidente e neppure celata la scarsa stima che Pio IX aveva per il vescovo, che aveva dovuto designare obtorto collo. Su questo stato danimo tutto sommato personale si innescò la dolorosa propaganda de «LOsservatore Cattolico», che non perse occasione per umiliare larcivescovo e chi prendeva posizione per lui. Di queste fatiche Calabiana fu esperto sin dai primi giorni. Nel suo discorso pronunciato in duomo nel giorno del suo ingresso, disse: «Desidero che cessi fra voi ogni rancore, ogni contesa di partiti, ogni vendetta [...] Desidero che su tutta quanta la mia novella spirituale famiglia risplenda perpetuo il sole della verità, della giustizia, della pace» 50. Egli applicò un principio che gli era caro, un motto di santAgostino: «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas». Lo applicò sempre. Lo applicò di fronte allo stesso papa, nei confronti della società milanese, verso la sua Chiesa ambrosiana. Nei confronti del papa, Calabiana coltivò sincera devozione e sicura fedeltà alla tradizione della Chiesa che gli era stata affidata. Lo si vide bene durante il Concilio Vaticano I, quando egli chiese, con altri 54 vescovi della minoranza, di lasciare Roma per non pronunciare il proprio non placet sul dogma dellinfallibilità «palam et in facie Patris» 51. Lo fece perché le posizioni dei docenti del Alcuni aspetti dellepiscopato di Luigi Nazari di Calabiana Arcivescovo di Milano (1867-1893). Vicende della Chiesa ambrosiana nella seconda metà del 1800 (= Archivio Ambrosiano 66), NED, Milano 1992. 50 LUIGI NAZARI DI CALABIANA, Discorso pronunciato in Duomo nel suo solenne ingresso in Milano, Milano, 23 giugno 1867. 51 La coerenza del gesto va sottolineata, se si considera che del già piccolo gruppo degli anti-infallibilisti italiani firmarono solo, oltre a Calabiana, i vescovi Montixi di Iglesias, Moreno di Ivrea, Sala di Nizza: mons. Biale di Albenga era morto poco prima di Pasqua, mons. Renaldi di Pinerolo era già da tempo assente per motivi di salute, mons. Riccardi di Torino era rientrato ammalato in dioce- 91 suo seminario erano per la non opportunità, in quelle circostanze, della definizione dogmatica ed egli non voleva sconfessare gli educatori dei suoi futuri preti. Fu un segnale di fiducia nei loro confronti, che pagò a caro prezzo perché fu oggetto di una sorda e denigratoria campagna di stampa. Ma nella stessa vicenda egli mostrò la sua devozione al papa, poiché aderì solennemente al dogma nella prima solenne celebrazione successiva alla definizione, durante il pontificale dell8 settembre, festa della Natività di Maria, cui è dedicato il duomo. Non meno faticoso ed insieme sincero il rapporto con le autorità civili. Il motto episcopale scelto da Calabiana era stato «Ognun mi sente». Era la volontà del dialogo in tutti i modi possibili alla carità. Non a caso il motto era in italiano, e non in latino secondo la tradizione: occorreva che cominciasse a farsi capire anche da quella sola frase. Sempre nel suo discorso nel duomo di Milano in occasione del suo ingresso, aveva detto: «Il mio linguaggio con voi non sarà mai che quello del cuore. Charitas Christi urget nos... Ad ogni chiamata, dovunque si estenda il mio ministero, io mi terrò pronto [...] si allargherà il mio cuore se mi avverrà di poter dire: oh Signore, grazia vostra, ho potuto oggi fare qualche poco di bene ai miei figli! Grazia vostra, non fu inutile oggi la mia missione» 52. Per questo si era dimostrato disponibile ad un ingresso in diocesi in forma semplice, richiesto dal prefetto ufficialmente per evitare i pericoli del contagio da colera, allora serpeggiante in città. Per questo andò subito a visitare la truppa militare ed insieme gli ospedali della diocesi, per dimostrare lealtà allo Stato e prossimità ai sofferenti ed ai bisognosi. Non a caso mons. Luigi Biraghi scrisse: «Accoglie da mane a sera clero, signori e popolo, per le rispetsi a Pasqua e non era tornato a Roma, limitandosi alla fine di giugno a pubblicare una dichiarazione sullinfallibilità, che non brillava per chiarezza di contenuto e di impegno, mons. Losanna di Biella aveva abbandonato Roma dopo la votazione del 13 luglio, incaricando Calabiana di rinnovare il suo non placet nella votazione solenne del 18 luglio. 52 LUIGI NAZARI DI CALABIANA, Discorso pronunciato in Duomo nel suo solenne ingresso in Milano, Milano, 23 giugno 1867. 92 tive occorrenze. La soddisfazione di chi tratta con lui, non esclusi i meno conciliabili, è universale» 53. Eppure non gli furono risparmiate umiliazioni, che egli affrontò con equilibrio e dignità, fiducioso nel primato della fede e nel suo radicarsi nel cuore delle persone. Un momento significativo di questo stile furono, per esempio, le feste per il centenario dellelezione episcopale di santAmbrogio nel 1874. Pochi anni prima erano state ritrovate le reliquie del santo sotto laltare dellomonima basilica e sembrò ben giusto caratterizzare il centenario portando in duomo lurna delle reliquie per un triduo di preghiere, concluso da una solenne processione che avrebbe riportato il santo nella sua basilica. Avvicinandosi il momento, concordato anche con le autorità politiche, si scatenò una violenta campagna di stampa, in cui si distinse il quotidiano «Il Secolo», che presentò limminente processione come un pietoso tentativo di «risuscitare il Medio Evo colle sue superstizioni». Poiché la processione si sarebbe svolta il 13 maggio, giorno della nascita di Pio IX, si volle vedere nella sua scelta unintenzione politica: «loccasione per fare una dimostrazione a favore del Papa-Re [per] festeggia[re] il più acerrimo nemico della libertà dItalia» 54. La cosa fu portata in parlamento, dove il deputato Felice Cavallotti «con un profluvio di bestemmie e dinsulti alla religione cattolica, e di lazzi schifosi contro le reliquie dei SS. Martiri e del S. Dottore Ambrogio fece al Cantelli, ministro per gli affari interni, uninterpellanza contro la divisata processione» 55. Così alla vigilia del trasporto delle reliquie in duomo, il 10 maggio, il prefetto, «considerato che ci sono fondate ragioni per temere che nelloccasione della processione per le feste di S. Ambrogio venga turbata la dignità dei riti religiosi ed il sentimento morale di ogni onesto cittadino» 56, vietava la processione. Archivio Generale Suore Marcelline, Epistolario I, n. 1086. Ibid., 156. 55 «La Civiltà Cattolica», 21 (1874), serie 9, vol. 2, p. 619. 56 Ripreso da «La Gazzetta di Milano», 10 maggio 1874. La posizione fieramente avversa alle feste santambrosiane da parte della «Gazzetta di Milano» 53 54 93 Calabiana si piegò al decreto prefettizio ed alle quattro della notte tra l11 e il 12 maggio accolse le spoglie di Ambrogio, di Gervaso e di Protaso, che giunsero coperte da tela cerata per evitare ogni curiosità. Esse furono venerate nei giorni seguenti da un numero straordinario di persone. Ma più impressionante fu ciò che avvenne quando si trattò di riportare le reliquie in S. Ambrogio. Ancora una volta, secondo gli ordini dellautorità civile, si sarebbero dovute trasportare nella notte del 15 maggio. Nellattesa del momento piazza del Duomo si andò affollando di devoti e di guardie travestite per timore di disordini. Alle due e mezza di notte si aprirono le porte del duomo e ne uscirono le urne, coperte come allarrivo, e seguite da alcuni membri del capitolo metropolitano e dal Calabiana. Nel buio della notte, rapidamente la piazza cominciò ad illuminarsi: erano le candele che alcuni fedeli avevano portato e dividevano fra tutti i presenti, calcolati in alcune migliaia. Si formò così uno spontaneo e lungo corteo: alla testa i corpi dei santi, seguiti dal piccolo corteo di Calabiana e, dietro, lo snodarsi di questo fiume di fioca luce dal quale salivano sommesse preghiere. Giunti nei pressi della basilica di S. Ambrogio i giovani del circolo omonimo intonarono il Te Deum, che fu ripreso dal popolo. Con questo inno di trionfo, le spoglie dei tre santi rientrarono nella loro basilica. Calabiana celebrò la messa, accompagnata dal canto del popolo e tutti attesero lalba: solo allora la folla cominciò a sciogliersi lentamente per far posto ai pellegrini, che continuarono ad arrivare ininterrotti per più di un mese. Non fu lunico momento di contrasto che Calabiana dovette gestire. Bisognerebbe ricordare la tenace ed astiosa polemica della Massoneria, che nel Milanese in tutti i modi combatté leducazione cristiana, sia quella impartita nelle scuole sia quella degli oratori. A dare unidea del clima di molte scuole non si dimentichi limportanza che avevano le maestre ed i maestri a livello locale andrebbe studiata. Già nel n. 116 di domenica 26 aprile 1874 aveva tuonato in prima pagina contro il «Carnevale di Maggio», come definiva la processione, e non meno offensiva era stata allinterno del giornale, ove parlava di «medioevale baldoria organizzata dai vescovi daccordo colle autorità». 94 potrebbe servire un passo di un libro di Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita: La storia mi fa aborrire i preti: non una piccola offesa fatta a me da un miserabile, che poteva ancora non essere prete, ma diciotto secoli di delitti, di rapine, di sangue, ma i roghi ed i tormenti, ma un immenso cumulo di mali, di corruzione, dignoranza, di ferocia, ma la servitù della mia patria, e di tante contrade della terra, mi fanno ribollire lanima nel pensare al prete, che è stato, ed è cagione di tutte le umane miserie 57. Contro gli oratori, poi, si giunse ad istituire degli sfortunati nel senso letterale dato che non ebbero fortuna ricreatori laici 58. Gli oratori infatti, scriveva la Massoneria, non erano «solo un male per il futuro», ma anche «un pericolo presente e immediato»: Con seimila fanciulli negli oratori i preti esercitano uninfluenza non indifferente sopra seimila famiglie della città. Questi fanciulli a loro insaputa irradiano nelle famiglie a cui appartengono buona parte dei sentimenti e delle dottrine che assorbono per opera delleducazione clericale. Essi possono venir adoperati per conoscere segreti domestici, per servir da messaggeri fra la chiesa e la casa e perfino in una lotta politica per distribuire, poniamo, nelle rispettive famiglie un proclama, una scheda elettorale, per ridestare forsanche in caso di conflitto il fanatismo delle moltitudini ignoranti 59. Proprio per evitare questi perniciosi influssi, la Massoneria proponeva di contrapporre agli oratori dei «ricreatori o come si voglian chiamare, con carattere prettamente liberale, destinati a raccogliere, educare e sollazzare i giovanetti nei giorni festivi» 60. In fondo questa opposizione massonica fu utile: dimostrò la vivacità delle strutture ecclesiali, la loro capacità di coinvolgere la LUIGI SETTEMBRINI, Ricordanze della mia vita, Morano, Napoli 1892, p. 167. Rimando al mio libro: ENNIO APECITI, LOratorio ambrosiano da san Carlo ai nostri giorni, Ancora, Milano 1998, pp. 78-87, 104-107. 59 [D. NULLI], Gli oratori cattolici a Milano. Relazione ad una Società Filantropica, Giuseppe Civelli, Milano 1877, pp. 6-7. 60 Ibid., p. 7. 57 58 95 gioventù e le famiglie, cioè la società, non quella «legale» ma quella «reale», secondo un effato divenuto ormai classico. Questa vivacità ecclesiale era quanto mai necessaria ed anche sollecitata dalle circostanze. Basterebbe ricordare che ben più feconda per il futuro della stessa storia milanese fu la presenza del socialismo. A Milano, infatti, nacque il primo Partito Operaio (1882) e qui fu eletto al parlamento il primo deputato socialista, Andrea Costa, e si organizzò la Camera del Lavoro (1890). Calabiana non si lasciò mai scoraggiare, e continuò a raccomandare il dialogo ed il rispetto ed insieme a difendere la libertà della sua Chiesa ed a incoraggiare preti e fedeli sulla via della concordia e della verità. Neppure in questo fu sempre capito e sostenuto. Abbiamo già citato le pagine de «LOsservatore Cattolico», sempre pronto a polemizzare, in modi talvolta disgustosi, come avvenne nel 1878 in un articolo sulla morte di Vittorio Emanuele II, di cui basti leggere lincipit: «A Roma siamo, a Roma resteremo! E a Roma restò come egli aveva profetizzato; ma vi resta cadavere in un palazzo papale!» 61. Calabiana rimase disgustato e con lui il clero liberale circa 150 sacerdoti che sottoscrisse una Dichiarazione di biasimo per i toni del giornale intransigente e di solidarietà con larcivescovo, che aveva decretato celebrazioni di suffragio per il re e che veniva così, almeno implicitamente, criticato da «LOsservatore». Purtroppo la Dichiarazione, che doveva rimanere riservata, fu divulgata dalla stampa. «LOsservatore» per tutta risposta si mise a pubblicare articoli nei quali si dichiarava «figlio di ubbidienza [...] dolente daverlo comecchessia amareggiato» [larcivescovo]62. Ma contemporaneamente (con perfidia?) riportava encomi, congratulazioni ed applausi per ciò che aveva pubblicato e di cui si dichiarava dolente nei confronti del suo vescovo. La tensione, che andava inevitabilmente crescendo, fu placata ancora una volta dal papa il quale, pur anchegli vicino alla morte, rinnovò lumiliazione di Calabiana inviando un nuovo Breve di encomio che lasciò sconcertati anche perché vi si poteva co61 In morte di Vittorio Emanuele: A Roma siamo, a Roma resteremo, in «LOsservatore Cattolico», 10-11 gennaio 1878, p. 1. 62 «LOsservatore Cattolico», anno 15, n. 14, giovedì-venerdì 18-19 gennaio 1878, p. 2. 96 gliere una censura allarcivescovo: «[Biasimiamo] coloro che col pretesto della prudenza e della carità fantasticano assurde ed impossibili conciliazioni» 63. Ci fermiamo qui. Ci sembra di aver illustrato sufficientemente il clima teso della diocesi, lincrociarsi di diverse tensioni. In fondo a Milano si viveva la stessa questione romana, la fatica di costruire una nuova nazione, che custodisse la grande tradizione cristiana, che fa singolare anzi unica nel mondo lItalia. Purtroppo, una minoranza faziosa ed arrogante radicale nei suoi due estremi, quello massonico e quello ultraclericale ed una maggioranza troppo remissiva permisero quello che in questi casi succede: il degenerare dellunità e della concordia, il prevalere dellingiustizia e della mediocrità. Volendo fermarci ad unanalisi più approfondita dobbiamo ora sostare brevemente secondo lo schema che abbiamo adottato sulla condizione del laicato, dei religiosi, del clero. b) Quale la situazione del laicato? Ci sembra di poter dire che il laicato della diocesi di Milano nella seconda parte dellOttocento presentava caratteristiche di vivacità singolari. Si pensi al Circolo giovanile cattolico SantAmbrogio di Milano (6 marzo 1873), che possiamo considerare lantesignano della Gioventù di Azione Cattolica. Ricordiamo, poi, lapporto dato dallOpera dei Congressi sin dal I congresso di Venezia (12-16 giugno 1874), mentre lUnione Cattolica per gli studi sociali (29 dicembre 1889), di cui fu presidente Giuseppe Toniolo 64, diede Archivio Segreto Vaticano, Ep. ad Princ., Reg. 285 (1878) 9,4. Datato il 17 gennaio 1878. Fu pubblicato con la traduzione, che abbiamo ripreso, ne «LOsservatore Cattolico», 23-24 gennaio 1878, p. 1. 64 Per unintroduzione esauriente: PAOLO PECORARI, Toniolo Giuseppe, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980. I protagonisti, vol. II, Marietti, Casale Monferrato 1982, pp. 636-644. Si veda anche la commemorazione di DALMAZIO MINORETTI, Il professor Toniolo, in «La Scuola Cattolica», 46 (1918/2), pp. 337-343. 63 97 singolare contributo agli studi conclusivi dellenciclica Rerum Novarum (15 maggio 1891). Un laicato impegnato nella vita sociale, ed insieme caratterizzato da una fede profonda anche se tradizionale, legato alle devozioni che ancor oggi diciamo popolari, quella al rosario per esempio: il solo Leone XIII nel suo pontificato scrisse undici encicliche per raccomandare la recita del rosario, soprattutto nel mese di ottobre. Esso voleva essere una preghiera familiare, atta a raccogliere la famiglia in preghiera ed a sostenere la sua spiritualità. Potremmo allora parlare di cura della spiritualità familiare, insidiata comera (sè visto) dallinsistente propaganda per il divorzio 65. In questottica sinseriscono listituzione della Festa della Famiglia (1893) e la diffusione delle immaginette con Giuseppe falegname aiutato dal fanciullo Gesù, sotto locchio materno di Maria che cuce: lesempio della Sacra Famiglia è indicativo dellimportanza della vita quotidiana, delle cose di ogni giorno come via alla santità; gli affetti familiari richiamano allattenzione, alla bontà ed alla misericordia. Il frutto fu una rivisitazione teologica del sacramento del matrimonio ed una predicazione che pose al centro della sua attenzione la famiglia e i suoi valori, e la sua importanza nel cammino della santità. 65 Il 1° giugno 1879 Leone XIII intervenne con una durissima lettera, intitolata Ci siamo grandemente, ai vescovi del Piemonte e della Liguria, per condannare il progetto di legge, approvato dalla Camera dei Deputati il 19 maggio 1879 con 153 voti a favore e 101 contro che avrebbe dovuto rendere «reato» la celebrazione del matrimonio religioso prima di quello civile. Le proteste che si levarono, non solo da parte cattolica, spinsero a non presentare il progetto di legge al Senato, e pertanto decadde. Il papa intervenne poi più ampiamente il 10 febbraio 1880 con lenciclica Arcanum Divinae, a difesa della famiglia e del sacramento del matrimonio. Ma il governo italiano non si rassegnò e nel 1892 di nuovo propose la legge che imponeva la precedenza del matrimonio civile su quello religioso. Ancora una volta il papa intervenne pubblicamente con una lettera al vescovo di Verona, cardinale di Canossa, dal titolo Il divisamento (8 febbraio 1893), in cui bollava come «sacrilega usurpazione» la proposta di legge. Il testo delle lettere e dellenciclica in: UGO BELLOCCHI, Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, V/1 [Leone XIII (1878-1891)], Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1996, pp. 49-52 (la lettera del 1879); pp. 76-92 (lenciclica del 1880); ibid., V/2 [Leone XIII (1892-1903)], 1997, pp. 44-49 (per la lettera del 1893). 98 Non meno importante fu la devozione al Sacro Cuore 66, che trovò la sua sanzione nella Consacrazione del genere umano al Sacro Cuore, fatta da Leone XIII a coronamento dellAnno Santo del 1900, il primo dopo quello avvenuto in sordina nel 1825 67. Il Sacro Cuore, poi, ci rimanda allimportanza progressiva che assunse nella spiritualità ottocentesca la devozione allEucaristia. Essa era vista come uno stimolo alla carità, un simbolo della concordia, una cena comunitaria. Vi sono qui i prodromi del grande sviluppo che lEucaristia prenderà nel Novecento e gli elementi che danno vita alle numerose confraternite di carità che crebbero in quel periodo. Il primo Congresso Eucaristico italiano si tenne a Napoli nel 1891 e fu occasione per unapprofondita ricerca dei mezzi per la diffusione delle verità eucaristiche, il più efficace dei quali era senza dubbio il catechismo 68. 66 Una buona introduzione anche storica in FRANCESCA MARIETTI, Il Cuore di Gesù. Culto, devozione, spiritualità, Ancora, Milano 1991. La devozione al Sacro Cuore deve molto allopera dei Gesuiti ed alle confraternite fondate da Giovanni Eudes, Grignon de Monfort. San Paolo della Croce e Alfonso Maria de Liguori, che compose una Novena al Sacro Cuore, ne sostennero la diffusione presso papa Clemente XIII, come mezzo per arginare il giansenismo e le sue esagerazioni. Purtroppo la devozione al Sacro Cuore risentì della polemica antigesuitica e della soppressione della Compagnia. Essa però continuò a diffondersi tra il popolo e trovò la sua conferma nella stessa ricostituzione della Compagnia: si pensi allApostolato della Preghiera, sorto per opera del gesuita F. X. Gautrelet nel 1844 Durante il concilio Vaticano I circa 225 padri indirizzarono un voto a Pio IX, perché sostenesse la consacrazione al Sacro Cuore, cosa che il papa fece approvando la formula della Consacrazione per lAnno Santo (mancato) del 1875. 67 Lett. Enc. Annum Sacrum, 25 maggio 1899. È la prima enciclica pontificia dedicata al Sacro Cuore. In essa il papa disponeva che in preparazione alla festa del Sacro Cuore (11 giugno), si consacrasse lumanità al Sacro Cuore. Con la stessa enciclica Leone XIII riconobbe le Litanie del Sacro Cuore. A questo documento seguirono: Pio XI, Miserentissimus Redemptor (1928); Pio XII, Haurietis aquas (1956); Paolo VI, Investigabiles divitias Christi (1965). 68 ANTONIO RIMOLDI, Profilo storico dei Congressi Eucaristici Nazionali, Centro Direttivo 20° CEN, Milano 1981; ACHILLE ZAMBARBIERI - ANTONIO OCCHIONI - ENRICO CATTANEO, I Congressi eucaristici nella Chiesa e nella società italiana, Milano 1983. 99 Di qui, comunque, il cammino inarrestabile con unaccentuazione della valenza sociale dello stesso culto eucaristico, che si espresse attraverso i congressi eucaristici, iniziati a Lille nel 1881 69 e rapidamente diffusi anche in Italia. Essi volevano essere anche un modo di testimoniare la propria fede cristiana nella società, come ha scritto Enrico Cattaneo a proposito del quinto Congresso Eucaristico, tenutosi a Milano nel 1895, che fu «un magnifico e fervente atto di omaggio allEucaristia, ma anche un continuo grido di protesta contro le leggi italiane che vietavano le pubbliche manifestazioni religiose ed un invito accorato a fare dellEucaristia la forza unitiva dei cattolici italiani» 70. Il sacramento eucaristico veniva così ad assumere un nuovo carattere, divenendo forza sociale e simbolo dunità fra le diverse classi per affermare i valori religiosi nella società e per il rinnovamento spirituale dei fedeli. Si comprendono, pertanto, le parole con cui larcivescovo di Torino terminava il suo discorso al Congresso Eucaristico milanese: Il popolo aprirà maggiormente gli occhi e vedrà altre cose; non vedrà solamente i mali che affliggono la società e gli ordini materiali e gli ordini civili e tutte le pertinenze sociali; vedrà qualche cosa di più. Esso che [...] nel fondo del suo cuore sente... il bisogno di Gesù Cristo, sentirà pure che Gesù Cristo non è ancora al suo posto; e con il popolo apriranno pure gli occhi tanti cattolici e capiranno ciò che 69 Dovremmo qui ricordare prima la figura di Pietro Giuliano Eymard (18111868), che fondò nel 1856 la Congregazione dei Sacerdoti del SS.mo Sacramento e nel 1863 quella delle Ancelle del SS.mo Sacramento. Tra queste entrò nel 1865 Maria Marta Emilia Tamisier (1834-1910), che fu lispiratrice vera e propria dei congressi eucaristici. Alla sua azione si dovettero i primi solenni pellegrinaggi eucaristici francesi, che poi spinsero a fondare lOpera dei Congressi Eucaristici Internazionali. Il primo si tenne a Lille il 28-30 giugno 1881. Seguirono quelli di Friburgo (1885) e di Tolosa (1886). Già al primo congresso parteciparono anche gli italiani, che proposero di ospitare il Congresso Eucaristico Internazionale a Torino, la «città del SS. Sacramento». Non fu possibile per lopposizione del governo (il primo si poté fare solo nel 1905). Maturò allora lidea di fare dei congressi eucaristici nazionali, a partire da quello di Napoli (19-22 novembre 1891). 70 ENRICO CATTANEO, Le Quarantore ieri e oggi, in «Ambrosius», 43 (1967), pp. 238. 100 molti e molti di essi ancora purtroppo non sanno intendere; vedranno Gesù Cristo prigioniero nel suo Vicario, ed allora per tutta Italia i cuori si ridesteranno 71. La devozione allEucaristia era, dunque, un modo di sostenere lottimismo, la fiducia, il coraggio, che permettevano concretamente un rinnovato impegno di animazione, di annuncio. Questo ritorno alla centralità dellEucaristia non a caso scandisce il secolo XIX ed il suo spirito missionario. In altre parole, ci domandiamo se lo stesso diffondersi della devozione eucaristica e della pratica della comunione quotidiana, dellAdorazione Riparatrice delle Nazioni Cattoliche e delle Quarantore non sia in linea frutto ed insieme causa del rinnovato impegno missionario che è, poi, il desiderio che tutti i popoli credano nel Signore Gesù e nel suo amore appassionato per ogni essere umano. Allora non parrà strano notare che le Quarantore ebbero un incremento impressionante nella diocesi ambrosiana, in concomitanza anche con la canonizzazione di santAntonio Maria Zaccaria. Non parrà strano che in questa diocesi accanto al prorompente sviluppo del socialismo si ponesse un vivacissimo laicato cattolico: ovunque cè bisogno di annunciare il Vangelo, lì cè missione. c) Quale la situazione dei religiosi? Lo stesso prorompente fiorire si ebbe nel campo dei nuovi ordini religiosi, che Calabiana approvò o accolse con lungimiranza nella diocesi. Nuovi ordini che meritano di essere perlomeno ricordati sono le Suore del Preziosissimo Sangue, dette comunemente Preziosine, riconosciute nel 1876; la Famiglia del Sacro Cuore di Gesù, fondata da madre Laura Baraggia nel 1880; i Figli dellImmacolata Concezione, fondati nel 1857 da padre Luigi Monti, originario della diocesi ambrosiana, condotto a maturare la sua scelta dalle prediche infiammate dei padri di Rho, tra cui ricordava sempre padre Angelo Ramazzotti: era dunque il ritorno di un 71 Ibid., p. 239. 101 figlio quello del 1886, quando il nuovo istituto aprì una casa a Saronno. Non meno preziose, poi, le Suore Misericordine, fondate da mons. Luigi Talamoni (1891). Mi sembra che lo spirito che animò questi nuovi istituti possa proprio essere esplicitato da un passo di questultimo: Aiutare caritatevolmente e materialmente gli ammalati, per curare santamente e spiritualmente le loro anime e procurare la loro salvezza. Ma, cogli ammalati, giovare anche ai sani, portando nelle loro case lamore di Gesù Cristo, losservanza delle sue leggi e dei precetti della sua Chiesa, lamore vicendevole, il rispetto ai capi di casa, laborrimento al vizio, lamore e lo stimolo alla virtù. Per arrivare a ciò non bisogna guardare a sacrifici, a bassezza di uffici, a privazioni, a dicerie, a disprezzi, a invidie; è a ben più caro prezzo che il nostro Divin Salvatore ci ha ricomprati dalla schiavitù del peccato. E noi, che vogliamo farci Sue seguaci nella salvezza delle anime collaiutare i corpi, ci ritireremo dal soffrire? Padre Monti dopo gli ammalati accolse gli orfani e gli sventurati, per provvedere alla loro formazione in vista di un loro riuscito inserimento sociale. Le suore di madre Baraggia si impegnarono nelle parrocchie, proprio per raggiungere gli strati più umili della popolazione, quelli più bisognosi e quelli che cementano una parrocchia: gli ammalati, visitare i quali era uno dei massimi punti donore per i parroci ambrosiani. Le Preziosine erano invece dedite alla formazione delle fanciulle del circondario di Milano nacquero a Monza quasi a completare la scelta di mons. Biraghi con le Marcelline: se queste si dedicavano alle ragazze della borghesia medio-alta, quelle le Preziosine si sarebbero dedicate a quelle del ceto più popolare. Tutti questi nuovi ordini, si sarà notato, avevano tra i loro carismi un forte senso di carità, una forte esigenza di pastoralità e un forte desiderio di formazione dei loro contemporanei. Cera in essi un forte desiderio di evangelizzazione, di missione. Non ci stupirà, dunque, trovare le Preziosine in Brasile, con le Marcelline ed i Figli di padre Monti: la missione ad gentes era nel loro sangue, come lo era nellhumus della diocesi che li aveva accolti. 102 d) Quale la situazione del clero? Alla luce di quanto abbiamo detto sopra, crediamo di aver delineato sufficientemente il volto del clero ambrosiano nellultima parte del secolo XIX sotto lepiscopato di Calabiana. Permane, dunque, una singolare attenzione ed una nuova ripresa dello spirito missionario-pastorale, di cui ci è testimone la costituzione giuridica degli Oblati Vicari (4 novembre 1875). Essi avrebbero provveduto alla vita delle comunità prive del parroco, pronti a lasciare tutto appena il governo avesse approvato la nomina del pastore legittimo. Allora, con la stessa prontezza con cui erano arrivati ed avevano vissuto della carità dei fedeli (non potevano toccare il beneficio), lasciavano il posto che avevano servito con la dedizione di chi sapeva che era lì per coprire unemergenza, facendo come il servo del Vangelo, che sa di essere prezioso ed inutile insieme. I Vicari Oblati, nella loro scelta di insicurezza economica e di primato del ministero pastorale, vennero destinati normalmente alle parrocchie più abbandonate o difficili, a quelle in altre parole più vicine alla frontiera della missione. Non a caso mons. Calabiana curò la fondazione di nuove parrocchie proprio nella periferia di quella che andava divenendo la grande città (si pensi alle parrocchie di S. Luigi e di S. Gioachimo) e permise il ritorno discreto dei Gesuiti, purché si stabilissero nelle zone periferiche: scelta preferenziale che fu continuata dal cardinale Ferrari, che permise larrivo in diocesi dei Salesiani, purché si stabilissero nella periferia di allora, lattuale zona della Stazione centrale. Era una scelta che impegnava anche il futuro della diocesi, noi diremmo: una strategia pastorale di Calabiana. Egli volle preparare un clero in cui convivessero libertà personale e attenzione privilegiata alla pastorale, cioè allannuncio efficace, proposto secondo le categorie culturali più comprensibili alluomo del suo tempo. Era, in fondo, la scelta fatta da Paolo sin dal discorso paradigmatico ai sapienti dellAreopago di Atene. Modernizzare gli studi seminaristici fu, pertanto, unaltra scelta, che segnò il volto del prete diocesano. Calabiana volle che fossero adottati i programmi statali per gli studi del ginnasio-liceo. Il motivo? Nel caso i ragazzi avessero lasciato il seminario durante il cammino di formazione, non avrebbe103 ro perso tutti i loro studi e le loro fatiche; nel caso invece fossero divenuti sacerdoti, essi avrebbero avuto una cultura pari a quella delle menti migliori dellepoca basti ricordare cosa volesse dire, soprattutto a quel tempo, frequentare il liceo classico , una cultura raffinata, capace di un fecondo dialogo con gli uomini e le donne, capace di rispondere alle domande più profonde e complesse che fossero nate nel cuore dei loro fedeli. Se poi si tiene conto del contesto sociale e dellostilità della cultura ufficiale verso tutto ciò che apparteneva alla sfera religiosa ed ecclesiale, la scelta di preparare i futuri sacerdoti secondo i programmi statali e del liceo-ginnasio era indirizzata a permettere al clero di dialogare con quel ceto sociale che, prevedibilmente, avrebbe retto le sorti della società civile: a questi compiti, infatti, arrivavano tradizionalmente gli studenti del ginnasio-liceo. Un prete, dunque, formato sin da giovane a saper «rendere ragione della sua speranza» (cfr. 1 Pt 3,17); un prete tendenzialmente missionario, che trovava logico incontrare sul suo cammino anche forme di ministero presbiterale specificamente preparate ad gentes. Di qui lappoggio incondizionato che Calabiana diede sia al Seminario Villoresi, di cui abbiamo già parlato, sia alla comunità dei preti di S. Calocero. Una pluralità di presenze che rese la Chiesa milanese vivace e impegnata. Accanto ai molti preti già presentati ed ancora sulla breccia nel momento storico che stiamo descrivendo, dobbiamo porre ora don Luigi Talamoni (1848-1926), che fu a lungo docente nei seminari di Milano, confessore e predicatore ricercato, consigliere comunale di Monza finché il fascismo non gli chiuse la bocca 72. Egli esprime quel desiderio di impegno nella vita politica italiana che è poco conosciuto. Si parla molto di non expedit e di indifferenza conseguente dei cattolici allo Stato unitario italiano. Non è precisamente ANGELO RECALCATI, Documenti e appunti per la biografia di Monsignor Luigi Talamoni, Monza 1980; ID., Mons. Luigi Talamoni e lassistenza dei malati a domicilio, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, NED, Milano 1981, pp. 55-68; ID., Talamoni Luigi (1848-1926), in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. VI, NED, Milano 1993, pp. 3629-3630; ID. Le lettere di mons. Luigi Talamoni alle Suore Misericordine, Monza 1986. Accanto a questi studi potremmo porre: GIOVANNI COLOMBO, Mons. Luigi Talamoni, in Maestri di vita, NED, Milano 1985, pp. 151166; ANGELO MAJO, Monsignor Luigi Talamoni e il suo tempo, NED, Milano 1988. 72 104 così. Il non expedit valeva a livello di elezioni politiche generali per entrare in Parlamento, e può addirittura avere una giustificazione storica, almeno allinizio. Meno noto è che a livello locale invece i cattolici furono addirittura sollecitati a farsi presenti, poiché qui era effettivamente possibile operare e salvaguardare i valori propri del cristianesimo, che può a buon diritto essere fermento della società, della sua giustizia e del suo progresso. Mons. Talamoni è uno dei tanti, anche preti, che sentirono come loro dovere pastorale animare la società ed educarono le giovani generazioni ad assumersi le responsabilità della vita civile. Personalmente credo siano stati questi mille e mille sconosciuti consiglieri comunali o provinciali che hanno custodito in Italia quel tesoro prezioso che è la fede. Unattenzione non improvvisata, piuttosto preparata da studi specifici. Se nella prima parte dellOttocento ai parroci era chiesto di conoscere le tecniche agricole e di impollinazione poiché essi servivano comunità a grande maggioranza dedite allagricoltura, adesso, in tempi di vivace sviluppo pre-industriale, occorreva che ci fossero preti capaci di saper affrontare la questione operaia. È per questo motivo che troviamo emergente tra il clero del tempo don Dalmazio Minoretti, che divenne poi arcivescovo di Genova 73. Egli fu incaricato di insegnare dottrina sociale nel Seminario di Milano, succedendo al suo maestro Giuseppe Toniolo. Per unintroduzione vedi: DANILO VENERUSO, Minoretti Carlo Dalmazio, in Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia 1860-1980. II. I protagonisti, Marietti, Casale Monferrato 1982, pp. 391-394; CARLO CATTANEO, Minoretti Carlo Dalmazio, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. IV, NED, Milano 1990, pp. 2250-2252; ANTONIO RIMOLDI, Il movimento cattolico nel milanese (18671915). Appunti, in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana, vol. V, Milano 1975, pp. 366-378; ERNESTO COMBI, Carlo Dalmazio Minoretti e linsegnamento di economia sociale, in «Bollettino dellArchivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 22 (1987), pp. 226-287; FEDERICO MANDELLI, Ricordo del cardinal Minoretti, in Profili di preti ambrosiani del Novecento, NED, Milano 1987, pp. 58-68; ERNESTO COMBI, Aspetti inediti del prete sociale ambrosiano C. D. Minoretti. Il carteggio con Toniolo (1899-1980), in «Bollettino dellArchivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 34 (1999), pp. 195249. Per le fonti: CARLO DALMAZIO MINORETTI, Omelie, discorsi, panegirici. Volume I (1909-1929), SEI, Torino 1934; CARLO DALMAZIO MINORETTI, Omelie, discorsi, panegirici. Volume II (1930-1933), SEI, Torino 1934; CARLO DALMAZIO MINORETTI, Ideali umani, a cura di LORENZO CABOARA, Paideia, Brescia 1963. 73 105 Vale la pena soffermarci su alcune sue pagine, poiché delineano limmagine del prete consegnato al secolo XX per la diocesi di Milano. Sono rimasto affascinato dalla lettura del primo breve articolo, scritto da don Carlo Dalmazio Minoretti sul fascicolo di settembreottobre 1900 de «La Scuola Cattolica», la prestigiosa rivista del Seminario di Milano, ben più che centenaria (nacque nel 1873): Dobbiamo prendere il popolo là dove si trova stipato nelle afose officine o disperso sui sudati campi, non immaginarcelo diverso da quello che è, prenderlo colle sue tendenze legittime, prenderlo come è insidiato dai suoi nemici, ed organizzarlo. Vogliamo condurlo al cielo questo caro popolo, ma non abbiamo il diritto noi di infliggergli come condizione e passaporto per la felicità il certificato di miserabilità e di servitù 74. In quello stesso mese don Minoretti teneva la prolusione del nuovo anno scolastico del Seminario di Milano, al sorgere del nuovo secolo. Il titolo era significativo: La missione scientifica e pratica del clero agli inizi del secolo XX 75. Lanalisi storica era lucida: È convinzione diffusa nei cattolici più insigni per studii sociali, che sia imminente unultima aspra e decisiva lotta fra il principio cristiano ed il principio razionalista e materialista [...] Sia che la Chiesa per lazione concorde e generosa del clero e dei cattolici riesca vincitrice in questo tremendo cozzo di forze avverse e ci scampi dal pericolo di cadere in una società ridivenuta pagana e barbara, sia che per mancata obbedienza ai reiterati inviti della Chiesa, a questa non sia riservato che lufficio di ripigliare lazione dei primi secoli di fronte allumanità abbrutita, sempre è vero che un ciclo storico sta per chiudersi ed un altro per aprirsi; luno di civiltà ed ordinamento materialistico, laltro di civiltà cristiana 76. CARLO DALMAZIO MINORETTI, Il XVII Congresso..., in «La Scuola Cattolica», 10 (1900), pp. 248-250. 75 CARLO DALMAZIO MINORETTI, La missione scientifica e pratica del clero agli inizi del secolo XX, in «La Scuola Cattolica», 10 (1900), pp. 406-421. 76 Ibid., p. 407. 74 106 Vale la pena sottolineare laltra valenza del discorso di don Minoretti: se lanalisi era impietosa, lo sguardo verso il futuro era carico di speranza. E la Chiesa che non ha mai odiato il popolo, che lha raccolto disperso, sollevato abbrutito, che insieme alla grazia lo ha educato alle virtù civili, volete oggi lo lasci in balìa dei nemici del nome cristiano e della società, oggi che le sorti della civiltà cristiana sono nelle sue mani? [...] Perciò la Chiesa non si accontenta di aprire i battenti dei suoi templi, di far echeggiare nellaria i gravi suoni dei sacri bronzi, ma corre al popolo là dove si trova, disperso nei campi, stipato nelle officine, parla un linguaggio sensibile che può essere inteso, lo aiuta nella sue giuste rivendicazioni, non glimpone come condizione e passaporto pel cielo la servitù e miserabilità in terra. Ecco se non erro la posizione che allaprirsi del nuovo secolo prende la Chiesa, in questi ultimi tempi. Essa discende al popolo, allordine economico, e di qui collorganizzazione, colla giustizia intende risalire le radiose vette di una integrale civiltà cristiana 77. Questo, però, richiedeva nel pastore alcune condizioni precise: Ma perché questa nuova ed urgente missione del clero abbia un esito felice sono necessarie condizioni chio mi permetto di enumerare: scienza, amore, fede integra, condotta santa. In mezzo ad una società materialmente progredita, religiosamente regredita, con un diffuso spirito di investigazione e disputa, il sacerdote non può presentarsi rispettato ed ascoltato se non fornito a dovizia di unampia coltura teologica ed economica; con questa a nessuno sarà secondo nellaiutare il popolo; con quella saprà difendere e diffondere le ragioni della Chiesa e della fede. È stato detto che la soluzione della questione sociale non si avrà che attraverso ad inondazione di sangue, od inondazione damore. La seconda è il nostro ideale, le fonti donde deve sgorgare tale fiumana irrompente incoercibile di carità sono i cuori dei sacerdoti. Amatelo, o sacerdoti, il popolo, memori che i più di voi sono del popolo, amatelo, memori che fu amato da G.C. dalla Chiesa, amatelo nonostante la ruvidezza delle forme e dei tratti, amatelo poiché sotto rozze spoglie batte un cuore e rivela uno spirito che educato forse sarebbe più pregevo77 Ibid., pp. 417-418. 107 le del nostro, e ad ogni modo tiene unanima cara a Dio. Mosè diede mano alla liberazione del popolo dopo avere accostato il roveto ardente; saccinse a dirigere le mobili volontà del popolo dopo avere riportato dal colloquio con Dio sul monte due luminosi raggi in fronte. Uscite dal tempio ma dopo esservi stati, dopo aver accostato il roveto ardente che è il Cuore di Cristo, riportandone impressi e manifesti i raggi della carità e della scienza divina 78. In altre parole, per don Minoretti il prete deve animare la società con la sua santità. Questo era lideale costantemente proposto al clero ambrosiano. Un ideale sempre lontano, o meglio sempre oltre la meta raggiunta da un prete: la santità, che è lunica condizione di fecondità pastorale, è come un cammino la cui meta viene costantemente spostata da Dio verso di Sé, poiché la santità sta nellessere immersi nelloceano damore di Dio. e) Quarta conclusione: quale modello ecclesiologico emerge? Possiamo dire che lazione pastorale di Calabiana, ispirata allassioma agostiniano «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas», seppur osteggiata da diverse parti permise la maturazione del «dialogo» con la società, anche se essa era pregiudizialmente ostile alla Chiesa. Calabiana chiese alla sua comunità ecclesiale di praticare il suo motto episcopale «Ognun mi sente»; di essere una Chiesa più aperta e pronta a farsi carico delle relazioni con il mondo. Era, in fondo, quello che Giovanni XXIII, figlio dellOttocento, propose con il suo discorso in apertura del Concilio Vaticano II: Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso [la dottrina], come se ci preoccupassimo unicamente dellantichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quellopera che la nostra età esige, proseguendo così il cammino, che la Chiesa compie da quasi venti secoli. [...] Lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione 78 108 Ibid., pp. 420-421. dottrinale e una penetrazione delle coscienze; è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata [...] Al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità; ritiene che si debba andare incontro alle necessità odierne esponendo più efficacemente il valore della dottrina piuttosto che condannando [...] La Chiesa cattolica, innalzando con questo concilio la fiaccola della verità religiosa, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e bontà verso i figli da lei separati 79. Mons. Calabiana condusse così la sua comunità a maturare una coscienza ecclesiale più alta, più convinta dellimportanza della comunione, della fraternità, della concordia, dellunità; più convinta almeno come tensione ideale dellimportanza della dimensione fraterna, della comunione tra i diversi carismi ecclesiali, sia laicali che religiosi che presbiterali, più convinta dei carismi diversi che possono essere seminati da Dio anche allinterno delle diverse compagini ecclesiali, dei diversi ordines: in quanti modi si può vivere la comune vocazione al laicato, al sacerdozio, alla vita consacrata? Quando la nostra fantasia di uomini avrà esaurito le possibilità di pensarli, sarà ben lungi dallessere esaurita linfinita fantasia di Dio al riguardo. La Chiesa ambrosiana verso la fine dellOttocento continua a manifestare una vivace e primaria attenzione per la dimensione della carità vista sia come attenzione ai bisogni immediati degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, sia come concreta attenzione alla dimensione politica e sociale, per affrontare con progettualità di soluzione il dramma dellingiustizia e della povertà. Nel fare 79 Su questo discorso: Fede, tradizione, profezia, Brescia 1984. Contiene la sinossi delle varie redazioni ed un commento di Giuseppe Alberigo. Si veda anche: VINCENZO CARBONE, Il Concilio Vaticano II (= Quaderni de «LOsservatore Romano» 42), Città del Vaticano 1998, pp. 29-39. 109 questo, dunque, si mostra una Chiesa non gelosa delle sue iniziative e anche se non sempre non in polemica organizzativa con la realtà civile, quasi a dimostrare che «noi siamo più bravi», come spesso sembrava dire don Davide Albertario nel suo esaltare le iniziative ecclesiali e denigrare quelle governative. Era, piuttosto, un sincero desiderio di vivere ciò che è un proprium della Chiesa quanto il Vangelo, la dimensione caritativa e sociale, poiché «luomo è la via della Chiesa». Ma, allora, la Chiesa ambrosiana di fine Ottocento sembra anticipare quei fermenti che ritroveremo splendidamente espressi nellenciclica programmatica di Paolo VI Ecclesiam Suam (6 agosto 1964), che era uno splendido invito al dialogo, e che non a caso si deve alla consulenza operosa di don Carlo Colombo: Gesù Cristo ha fondato la sua chiesa, perché sia nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza. [...] Nessuno è estraneo al suo cuore materno. Nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo. Non a caso si dice cattolica; non a caso è incaricata di promuovere nel mondo lunità, lamore, la pace. La Chiesa non ignora le formidabili dimensioni duna tale missione; conosce le sproporzioni delle statistiche fra ciò che essa è e ciò che è la popolazione della terra; conosce i limiti delle sue forze; conosce perfino le proprie umane debolezze, i propri falli; conosce anche che laccoglimento del Vangelo non dipende, alla fine, da alcuno suo sforzo apostolico, da alcuna favorevole circostanza dordine temporale: la fede è dono di Dio; e Dio solo segna nel mondo le linee e le ore della sua salvezza 80. Paolo VI, che fu vescovo di questa Chiesa ambrosiana, sospingeva tutta la Chiesa su questo sentiero: egli per lei non desiderava altro che si facesse «ancella dellumanità per servire luomo in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità». 80 Enchiridion Vaticanum, 2, Dehoniane, Bologna 1981, pp. 163-210. Su di essa si può leggere: «Ecclesiam suam». Première lettre encyclique de Paul VI. Colloque international (Rome 24-26 octobre 1980) (= Pubblicazioni dellIstituto Paolo VI 2), Istituto Paolo VI - Studium, Brescia-Roma 1982. 110 Considerazioni conclusive Possiamo, in conclusione, affermare che il volto della Chiesa ambrosiana dellOttocento è ancora quello tridentino, non ben definito se non attraverso la prassi consolidatasi nel corso dei due secoli precedenti e testimoniata dallinsegnamento del Catechismo cosiddetto tridentino. Lo si vede bene se si considera la figura dellepiscopato, che è letto ancora soprattutto nel primato di giurisdizione, sino al caso limite di Giovanni Montecuccoli Caprara, che apre il secolo da noi considerato. Accanto a questa immagine episcopale, dobbiamo riconoscere la singolare importanza del presbiterato e la sua radicale autonomia nei confronti del vescovo, come testimoniato dal testo certo estremo dellAppello ai Parochi. Allinterno del clero, poi, riscontriamo per tutto il secolo una presenza sinfonica di figure diverse di formazione e di esercizio del ministero presbiterale, che sebbene manifesti una non omogeneità, permette anche un arricchimento, sia pure vivace e talvolta polemico, di stili pastorali, tutti tesi nella reciproca e tensiva sollecitazione a sottolineare con progressiva urgenza la dimensione pastorale, missionaria, sintetizzabile nella frase tipica del cardinale Ferrari, sin dal suo primo sinodo diocesano (1902): «Dobbiamo uscire dalle case nostre, poiché tocca al pastore cercare le pecorelle e chi vuole fare più abbondante pesca ascolta le parole del Salvatore, non sta in casa, ma va al mare». Nella Chiesa ambrosiana dellOttocento riconosciamo una notevole importanza del laicato: esso è pienamente coinvolto nella vita pastorale ed ecclesiale, un coinvolgimento forse non tematizzato teologicamente lApostolicam actuositatem è ancora lontana ma convintamente praticato. Una comunità ecclesiale così vivace da arrivare a forti tensioni polemiche porta in progressiva emergenza i temi della missione, della carità, del dialogo culturale con il mondo coevo. Volendo ulteriormente precisare, potremmo sinteticamente affermare quanto segue: 1. Il punto di partenza è quello di una Chiesa che ha forti tradizioni caroline, almeno formalmente; che vive la tentazione del 111 gallicanesimo, di una Chiesa, cioè, soggetta allo Stato e che insieme è rivolta alle «novità» straniere, doltralpe; che è fortemente attenta alla dignità delluomo ed alla catechesi. 2. Questo si realizza attraverso (o determina) un forte coinvolgimento laicale, una Chiesa assolutamente capace di dialogo interno, una Chiesa gelosa della sua autonomia dal potere imperiale e regio, sia esso napoleonico, austriaco, sabaudo. 3. Una Chiesa che riscopre (trasforma, attualizza) la dimensione della carità sia attraverso le soppressioni degli ordini non utili (scelta mantenuta da Gaisruck), sia attraverso lo stile del prete ambrosiano tradizionale, che mira ad una parrocchia vasta quanto lombra del campanile sulle case; con un parroco amico e conoscente di tutti e consigliere agricolo in campagna e dotto professore in città. 4. Il prosieguo delle vicende complesse e delle tensioni, favorito dalle stesse scelte austriache, determina un volto di Chiesa ambrosiana che sottolinea fortemente la fedeltà al papa e il legame con Roma, la preferenza per la scelta della fine del potere temporale, vista come occasione di attenzione alla dimensione pastorale ed universale della Chiesa. Unattenzione al papato romano che si coniuga con un tradizionale e forte senso dellobbedienza al Vescovo, secondo lassioma ripreso e divulgato da Nazari di Calabiana: «Ubi Petrus, ibi Ecclesia Mediolanensis», che si può leggere sottolineando volta a volta la prima parte o la seconda... 5. La permanenza di un vivace dibattito intraecclesiale determina una dottrina vicina al Concilio Vaticano II, che passa attraverso limportanza del presbiterio, che trascina con sé la maturazione di un volto di Chiesa dialogante e fraterno e, attraverso questo, la maturazione del «dialogo» con la società, anche quando fosse ostile, così come determina una Chiesa più aperta e pronta a farsi carico delle relazioni con il mondo, con tutto il mondo, tesa ad essere fedele al mandato del suo Signore: «Andando, battezzate tutti gli uomini, fino allestremità della terra» (cfr. Mt 28,19). 6. In ultimo: una Chiesa, quella ambrosiana, che sentì naturale, anzi suo bene prezioso, avere dei figli da destinare alla missione. 112 NUOVI IDEALI MISSIONARI: ROSMINI, LUQUET, RAMAZZOTTI di Fulvio De Giorgi Figura e importanza di Rosmini Dopo la profonda crisi che le missioni cattoliche avevano attraversato dal Settecento al primo Ottocento, la ripresa cominciò con la nomina il 2 ottobre 1826 del card. Mauro Cappellari, camaldolese, a prefetto della Congregazione di Propaganda Fide. Egli fu il primo prefetto a fissare la propria residenza nel palazzo di Propaganda e a creare un circolo di collaboratori ed amici che, condividendo le sue idee culturali e spirituali che possono definirsi ispirate a uno zelantismo riformatore , rilanciassero nello stesso tempo la tradizionale linea missionologica e pastorale di Propaganda Fide. Insieme ed accanto a Cappellari vi furono, dunque, il suo confratello card. Zurla, che era stato prefetto degli studi nel Collegio Urbano di Propaganda, mons. Castruccio Castracane degli Alteminelli, segretario della Congregazione dal 15 dicembre 1828 (fino al 1833), il laico Gaetano Moroni, segretario personale del Cappellari, dal quale ebbe lincarico di trascrivere il registro dei documenti darchivio di Propaganda e che fu poi autore del notissimo, enciclopedico Dizionario di erudizione ecclesiastica. Minutante di Propaganda Fide era poi don Gaspare del Bufalo, il fondatore dei Fulvio De Giorgi insegna storia contemporanea presso lUniversità Cattolica di Brescia. Si occupa di storia della cultura e delleducazione nelletà contemporanea, con particolare riferimento alla storia religiosa e della spiritualità. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: La scienza del cuore, spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini; Cattolici ed educazione tra Restaurazione e Risorgimento. Inoltre ha curato il volume Daniele Comboni tra Africa ed Europa. 113 Missionari del Preziosissimo Sangue, che nel 1826 fu incaricato di stendere la bozza di due lettere che il papa avrebbe inviato luna ai vescovi dello Stato Pontificio affinché promuovessero vocazioni missionarie nel loro clero, laltra a tutti i sacerdoti e regolari cattolici invitandoli a prendere in considerazione la possibilità di diventare missionari di Propaganda Fide. A Roma giungeva poi, alla fine del 1828, per restarvi fino al 1830, Antonio Rosmini, che già era stato nellUrbe, ma per poco tempo, nel 1823 (aveva, in quelloccasione, conosciuto di persona sia Zurla sia Cappellari, con il quale peraltro era in contatto epistolare fin dal 1821). Ritornando a Roma nel 1828, dunque, il Roveretano riprendeva stretti contatti con il prefetto di Propaganda Fide e con il circolo che attorno a lui si riuniva. Proprio a Roma, nel 1830, Rosmini pubblicò due sue opere fondamentali: le Massime di perfezione cristiana e il Nuovo saggio sullorigine delle idee. Esse ebbero un notevole successo, furono accolte favorevolmente dal Cappellari e da altri prelati ed intellettuali e diedero grande fama e lustro al Roveretano. Le prime due massime di perfezione cristiana erano: «I. Desiderare unicamente ed infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere giusto. II. Rivolgere tutti i propri pensieri ed azioni allincremento e alla gloria della Chiesa di Gesù Cristo». Spiegando la seconda massima, Rosmini chiariva che il cristiano non si poteva mai sbagliare se rivolgeva il suo pensiero, il suo affetto, il suo impegno a tutta la Chiesa (la stessa sicurezza, invece, non vi poteva essere nel caso si dovesse trattare di una sola parte, non essenziale nella sua particolarità alla Chiesa universale): Se dunque il cristiano che si propone di secondare la sua vocazione e seguire la sua perfezione, non ha tolto a far altro che a cercar in tutte le cose la gloria di Gesù Cristo, la sua professione consiste per necessaria conseguenza nelloccupare le sue forze a servire unicamente alla Santa Chiesa: a questa, in qualunque modo egli può, dee pensare, e per questa desiderare di logorar le sue forze, e di versare il suo sangue, ad imitazione di Gesù Cristo e de martiri. [...] Come adunque egli dee aver sempre presente la celeste gloria, così pure egli dee aver sempre presente in tutte le sue operazioni la caducità di tutte le altre cose, il loro repentino transito, e la morte, come mezzo allultimo celeste riposo. Camminerà adunque in questa vita, come se ogni gior- 114 no dovesse abbandonare tutto, come se dovesse morire ad ogni istante, senza far per sé lunghi provvedimenti. Nel Nuovo saggio sullorigine delle idee, che fu certo una delle più importanti e profonde opere filosofiche del primo Ottocento europeo, Rosmini affermava come in ogni uomo vi fosse il lume della ragione, che non è Dio ma è il divino nelluomo (e ciò spiega pure perché, sul piano spirituale e pastorale, egli insistesse sullamore che il cristiano deve avere per ogni uomo, anche se non fa parte della Chiesa). In ogni uomo, inoltre, secondo Rosmini, era innata lidea dellessere, fondamento del pensiero umano e della conoscenza. La dottrina tradizionale del pensiero cristiano era, dunque, ripresa con originalità dal Roveretano e temprata nel fecondo rapporto critico con la filosofia moderna. Luniversalità della verità, fondamento implicito dellazione missionaria, era pertanto giustificata teoricamente con unargomentazione robusta ed aggiornata. A Roma e negli ambienti di Propaganda, Rosmini inoltre conobbe alcune personalità che gli rimasero sempre affezionate, dimostrandogli stima sincera e apprezzando il suo lavoro filosofico. Paolo Barola, lettore di filosofia morale nel Collegio Urbano di Propaganda, fu un suo caldo ammiratore, ebbe con lui un intenso carteggio, divenne seguace delle sue dottrine e ne sostenne lortodossia fino alla morte (nel 1863). Rosmini conobbe pure due giovani veronesi, Giovanni Battista Giuliari e Ludovico De Besi. Giuliari giunse a Roma nel novembre 1829, si iscrisse alla Gregoriana ma frequentò pure alcuni corsi al Collegio Urbano. Qualche tempo dopo lo seguì De Besi, accolto come alunno del Collegio di Propaganda Fide. I due veronesi, che si incoraggiavano vicendevolmente allimpegno missionario, conobbero Rosmini e gli rimasero poi sempre affezionati, tanto da essere fra coloro che gli testimoniarono per iscritto la loro immutata amicizia dopo la messa allIndice, nel 1849, delle Cinque piaghe della Santa Chiesa. Entrambi, incoraggiati da Cappellari, coltivarono progetti missionari, ma con esiti diversi. Giuliari, ordinato sacerdote a Verona nel 1834, tornò a Roma e frequentò i corsi di teologia di Propaganda Fide. Nonostante il suo forte desiderio non riuscì però a partire per le missioni e infine, 115 consigliato dallo stesso Rosmini, rimase a Verona, dove fu bibliotecario della Capitolare. De Besi, alunno come si è detto del Collegio Urbano, fu in intima relazione col Cappellari che gli confidò tra laltro la sua meraviglia per la mancanza in Italia di un seminario per le missioni estere. Egli fu poi missionario in Cina, vicario apostolico di Shan-Tong. Rimase sempre in contatto, oltre che col Cappellari, con Rosmini e con Giuliari, ma fu anche amico di Ramazzotti. In realtà lindirizzo missionario del De Besi era piuttosto tradizionale e rimase sostanzialmente distinto dalle posizioni rosminiane. Tuttavia Giuliari e De Besi ebbero una notevole importanza nellimpulso dato allambiente veronese e dunque nel ruolo di primo piano giocato da Verona nella storia del movimento missionario. Essi stabilirono un legame significativo con Roma e con Propaganda Fide. Furono vicini a don Nicola Mazza, al suo istituto e ad alcuni mazziani come don Francesco Oliboni, don Luigi Dusi, don Angelo Vinco, più sensibili alla vocazione missionaria e che poi in effetti partirono per le missioni. Ma la loro vicinanza a Rosmini fece partecipi Giuliani e, sia pure in modo più mediato, De Besi anche dello svilupparsi delle simpatie rosminiane a Verona. Ancora una volta fu importante lambito dellIstituto Mazziano, a partire dallo stesso Mazza che aveva ricevuto una decisiva influenza da parte del filippino Antonio Cesari, molto legato a Rosmini ma poi pure di altri membri dellistituto, come Alessandro Aldegheri e, soprattutto, Francesco Angeleri. Si andava così profilando, in Verona, un indirizzo spirituale, culturale e missionario sostanzialmente diverso da quello, di matrice filogesuitica, rappresentato da Gaspare Bertoni e dalla Congregazione degli Stimmatini. Mazza manteneva buoni rapporti con i religiosi delle Sacre Stimmate, ma la sua posizione era autonoma e nel suo istituto, come si è visto, cresceva linfluenza rosminiana, tanto da pesare negativamente, in un momento successivo, sui rapporti dei mazziani con Roma. Nel 1853, infatti, dopo che Mazza aveva nominato Angeleri vicesuperiore per le opere maschili e vicerettore dellIstituto fondamentale e Aldegheri rettore dellIstituto fondamentale, don Tommaso Toffaloni responsabile vero116 nese dellOpera della Propagazione della Fede e vicino agli Stimmatini scriveva a Propaganda Fide, denunciando linfluenza del rosminianesimo sullIstituto Mazziano, implicitamente assumendolo come screditante sul piano delliniziativa missionaria. Circostanze non chiare portarono poi nel 1856 allabbandono dellistituto da parte di Aldegheri e di Angeleri, pur rimasti in buoni rapporti col Mazza. Tuttavia il sospetto di rosminianesimo doveva permanere a lungo sullambiente mazziano. Soltanto molto tempo dopo, col Comboni, questa «frattura veronese» sarebbe stata in un certo senso superata. Limportanza di Rosmini, peraltro, era anche propriamente interna allambito missionario: nel 1828, prima di recarsi a Roma, egli aveva steso le Costituzioni dellIstituto della Carità, che aveva sottoposto allattenzione del Cappellari. La nuova congregazione religiosa cominciava a svilupparsi, assumendo subito una fisionomia missionaria peculiare: nel 1835, infatti, lIstituto della Carità iniziava una missione in Inghilterra. Alla fine del 1838 si aveva poi lapprovazione romana delle Costituzioni. Nella sua struttura lIstituto della Carità prevedeva un quarto voto di speciale obbedienza al papa, «in modo da essere disposti ad andare immediatamente ovunque gli piaccia di mandarli, tra i Fedeli o gli Infedeli, anche senza sussidio di viaggio, e a servire alacremente alla Chiesa di Dio, anche col dare la propria vita, a quel modo che prescriverà lo stesso Pontefice, in tutto quello che si degnerà di loro comandare» 1. Il tema delle missioni era affrontato specificamente nel capo V della parte VIII delle Costituzioni. Tra laltro Rosmini stabiliva: «chi sarà designato dal Sommo Pontefice a recarsi in qualche luogo, si offra generosamente senza chiedere né da sé né per mezzo daltri nulla per il viaggio, ed anzi sia mandato dal Sommo Pontefice nel modo che Sua Santità, non tenendo in ciò alcun conto di altra cosa, giudicherà dover riuscire al maggior ossequio di Dio 1 A. ROSMINI, Costituzioni dellIstituto della Carità [dora in poi Cost.], StresaTrento 1974, n. 7. 117 e della Sede Apostolica» 2. In altri termini Rosmini voleva che i suoi missionari si abbandonassero completamente alla volontà della Santa Sede, rimettendosi in tutto alle sue istruzioni 3 e, dunque, lasciando a Roma anche lindicazione specifica dellindirizzo missionario da seguire: «se uno fosse mandato a una missione, dovrebbe essere avvisato, oltre il resto, se debba andare a guisa dei poveri, senza veicolo o giumento, e senza denaro, o con maggiore comodità; e così pure se debba servirsi di lettere di presentazione, ecc.» 4. Luquet e la Neminem Profecto Lascesa al soglio pontificio del Cappellari nel 1831 dava un notevole impulso allimpegno romano per le missioni. Con Gregorio XVI, per la prima volta, un prefetto di Propaganda Fide diveniva papa. Sempre nel 1831, Angelo Mai che dal 1828 era anche rettore del Collegio Urbano scoprì nella Biblioteca Vaticana, dove era primo scrittore, il manoscritto di Nicola Forteguerri che descriveva le missioni cattoliche. Nel pubblicarlo, il Mai invitava a seguire lesempio del Forteguerri, suggeriva di tracciare una descrizione aggiornata delle missioni e anche proponeva unopera originale. Egli infatti auspicava: «Unaltra lodevole opera, da trarsi similmente dai registri della Propaganda, sarebbe lepiscopologio cattolico nelle regioni di eterodossi o dinfedeli; ed una quasi geografia cattolica romana de nostri tempi: il quale progetto mi risveglia il desiderio di altra opera assai maggiore e di estesissima utilità, cioè dellorbis christianus, ossia episcopologio universale» 5. Appare estremamente significativa questa sensibilità del Mai rispetto allepiscopato, in prospettiva missionaria. Del resto Cost., n. 586. Cost., n. 589 (cfr. anche n. 714 D.). 4 Cost., n. 727 D. 5 [A. MAI], Memorie intorno alle missioni di Africa, di Asia e di America, estratte dallArchivio di Propaganda Fide dordine della santa memoria di Clemente XI dal celebre Nicolò Forteguerri che fu segretario della medesima Propaganda, Roma 1831, p. 2. 2 3 118 nel 1833 Angelo Mai divenne segretario di Propaganda Fide subentrando al Castracane e tenne questo ufficio fino al 1839 quando divenne cardinale. Nel dare un più forte impulso allo slancio missionario cattolico, Gregorio XVI operò secondo due indirizzi: una linea che si potrebbe dire di restaurazione e una invece di innovazione. Per quanto riguarda la prima, essa si espresse nellesortare la Compagnia di Gesù a riprendere su vasta scala il suo antico impegno missionario. In effetti nel 1833, a seguito della circolare del padre generale Roothaan, De missionum esterarum desiderio excitando et favendo, si ebbe un progressivo aumento del numero dei Gesuiti impegnati nelle missioni. Daltra parte, Gregorio XVI, convinto assertore dellideale zelante della libertas Ecclesiae e dunque ostile allingerenza del potere temporale, si impegnò per separare lopera di evangelizzazione dalle forme di controllo politico coloniale. Ciò, in particolare, portò a un rapido e talvolta traumatico superamento del secolare istituto del Patronato, tanto rispetto alla monarchia spagnola quanto a quella portoghese. Di grande importanza ideale fu poi, il 3 dicembre 1839, la lettera apostolica In Supremo, fermamente antischiavista, dunque con una chiara condanna della tratta dei neri e, soprattutto, dellideologia razzista che ne costituiva il presupposto. Papa Cappellari sottolineava luguaglianza naturale di tutti gli uomini. Se tale solenne pronunciamento non ebbe forse subito, nel mondo cattolico italiano, la diffusione che meritava (perfino riviste missionarie non vi fecero cenno), esso fu invece accolto con vivo consenso in quegli ambienti che, come si è visto, erano in qualche modo collegati a Rosmini: fu il caso, per esempio, di don Mazza e dei mazziani a Verona. Del resto fu proprio Rosmini, nella sua Filosofia del diritto, a dimostrare, sulla base del riconoscimento della dignità della persona, linsostenibilità teorica della schiavitù, che pertanto doveva essere a suo parere immediatamente e totalmente abolita ovunque. Il 15 agosto 1840 Gregorio XVI emanò poi la Probe Nostis, la prima enciclica pontificia esplicitamente e unicamente dedicata alle missioni. Anche in questo documento i toni tradizionali si in119 trecciavano a registri innovativi: se le missioni erano viste, con toni bellicosi e trionfalisti, collegate a un impegno «civilizzatore», tuttavia linsistenza era sullevangelizzazione svolta senza sostegni umani e con una disponibilità al martirio che il papa collegava esplicitamente allesempio della «prima età della Chiesa». Gregorio XVI invitava i vescovi cattolici a sostenere lOpera della Propagazione della Fede e altre istituzioni simili, come la viennese Società Leopoldina. Ricordava pure, con approvazione e soddisfazione, quelle altre società come lIstituto della Carità 6 «le quali, sotto lautorità della stessa Chiesa, ciascuna a proprio modo, contribuiscono con lunione delle forze ai doveri di carità, allistruzione dei fedeli e alla diffusione della fede». Ma, ancor più significativa dellenciclica Probe Nostis, fu listruzione Neminem Profecto, indirizzata il 23 novembre 1845 da Propaganda Fide a tutti i capi di missioni. Con tale istruzione si voleva promuovere la moltiplicazione delle Chiese locali nei territori evangelizzati, attraverso la creazione di vescovati 7. A questo scopo si insisteva sulla creazione del clero indigeno. Inoltre si osservava come i missionari dovessero occuparsi, in primo luogo, delleducazione dei giovani per puntare allautopromozione dei popoli evangelizzati, e dunque alla loro autonomia e non alla loro dipendenza dagli europei. Listruzione riprendeva e rilanciava quella che era sempre stata la linea di Propaganda Fide, a favore della creazione del clero indigeno: una linea che era stata più volte e in vari modi osteggiata e disattesa, ma che non era mai stata abbandonata. Peraltro proprio in questo spirito era stata fondata, verso la metà del XVII secolo, la Società per le Missioni Estere di Parigi la quale, del resto, negli anni 20 e 30 dellOttocento conosceva un significativo avvio di una nuova fioritura. Fu dunque proprio un membro delle Missioni Estere di Pari- 6 Che non era citato, ma che certo era compreso in tale indicazione: del resto le sue Costituzioni erano state appena approvate da Roma. 7 In effetti, durante il suo pontificato, Gregorio XVI creò circa una settantina tra vescovati, vicariati e prefetture di missione. 120 gi, Jean-Félix-Onésime Luquet, a provocare con il suo appassionato impegno la Neminem Profecto. Nato nel 1810 in Francia, Luquet era entrato dapprima nel Seminario di S. Sulpizio e poi, dal 19 luglio 1841, nel Seminario delle Missioni Estere di Parigi. Dopo essere stato ordinato sacerdote, partì il 21 dicembre 1842 per la missione di Pondichéry, un immenso vicariato dellIndia meridionale 8. Qui, in seguito alla celebrazione di un sinodo nel gennaio 1844, il vescovo Clément Bonnand, personalità di grande rilievo, decise di inviare Luquet a Roma per far approvare le deliberazioni sinodali, in particolare per lauspicato stabilimento della gerarchia cattolica in India. Un osservatore privilegiato, Gaetano Moroni, ben addentro come si è visto alle questioni di Propaganda Fide e segretario personale del papa, così dava conto degli avvenimenti, nel volume XXXIV del suo Dizionario di erudizione, pubblicato proprio nel 1845, alla voce Indie Orientali: Il principale scopo del Sinodo che si è tenuto in Pondichery nel mese di gennaio 1844, fu di provvedere ai mezzi efficaci di formare un buon clero indiano, secondo il fine della Santa Sede, quando stabilì la congregazione ossia il seminario delle missioni estere di Parigi. In questo sinodo, che farà certamente epoca nella storia ecclesiastica dellIndostan, si trattò dellimportanza del clero indigeno in generale, e della necessità di un tal clero nellIndostan particolarmente. Poi si discusse sopra i mezzi più adatti per stabilire con frutto i seminari per gli studi di teologia, altre scienze e belle lettere. Ma siccome la gioventù senza avere ricevuta una educazione buona nella prima età, di raro può perfettamente adattarsi poi agli studi ed anche alle virtù necessarie allo stato ecclesiastico, e siccome la necessità dellistruzione si sente vivamente per tutta la popolazione indiana tanto per gli uomini che per le donne, così il sinodo ha fatto della questione delle LIndia meridionale, sotto il nome di Missione del Malabar, era stata affidata alla Società per le Missioni Estere di Parigi nel 1776, in seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù. Dopo il ristabilimento dei Gesuiti e il loro rinnovato impegno missionario, la Compagnia di Gesù riprese il Madura, ma il vicariato di Pondichéry rimase ai missionari delle Missioni Estere di Parigi. 8 121 scuole in generale il soggetto delle sue più importanti deliberazioni, dopo quelle riguardanti al clero indigeno. Le altre deliberazioni del sinodo spettarono a diversi punti di disciplina. Dopo aver riassunto i lavori e le deliberazioni del Sinodo di Pondichéry, Moroni proseguiva dando conto degli sviluppi romani: In seguito dallo stesso sinodo fu mandato in Roma il sacerdote francese Giovanni F.O. Luquet di Langres, del seminario delle missioni estere di Parigi, zelante missionario di Pondichéry, collincarico di umiliare alla Santa Sede le deliberazioni dellassemblea, insieme con diversi progetti importanti per lincremento e maggior stabilità della regione cattolica in queste parti dellIndie. Il pontefice Gregorio XVI, e la sacra congregazione di Propaganda Fide hanno accolto questi progetti con favore, facendo concepire le più belle speranze ai missionari e benemerito vicario apostolico di Pondichery. Gli atti di suddetto Sinodo, dopo la presentazione di un importante memoriale scritto dal sacerdote Luquet sotto questo titolo: Eclaircissements sur le Synode de Pondichéry, furono approvati dalla congregazione di propaganda. Quindi sulla proposizione dei cardinali della medesima, fu proposta una istruzione generale per tutti i vescovi e missionari del mondo per raccomandar loro lapplicazione dei principii esposti negli Eclaircissements. In una adunanza dei cardinali di Propaganda Fide, la suddetta istruzione fu da loro esaminata e approvata, quindi sottomessa alla suprema sanzione del Papa. Sempre nello stesso volume del Dizionario di erudizione, alla voce Indigeno Clero, Moroni citava ancora il sinodo di Pondichéry e listruzione Neminem Profecto, ma soprattutto, sulla scorta dellopera di Luquet Lettres à Mgr. lEvêque de Langres sur la Congrégation des Missions Etrangères (Paris 1843), ricostruiva limpegno di Propaganda Fide a favore della costituzione di un clero indigeno. I cardinali che avevano esaminato la Ponenza, estratta dallo scritto di Luquet, proposero al papa che il religioso fosse nominato coadiutore del vicario apostolico mons. Bonnand. Gregorio XVI approvò il suggerimento della congregazione e il Luquet, nominato vescovo di Hesebon in partibus, fu consacrato nella chiesa di S. Maria in Vallicella, dei Filippini, dal card. Giacomo Filippo Fransoni, prefetto di Propaganda Fide, il 7 settembre 1845. Tuttavia sia listru122 zione Neminem Profecto sia la nomina di Luquet a coadiutore di Bonnand trovarono opposizioni di vario tipo, così che il Luquet nel 1851 fu costretto a dimettersi dalla coadiutoria e si ritirò nel Seminario francese di Roma, dove morì il 3 settembre 1858. Il sinodo di Pondichéry La presenza di Luquet in Italia dal 1845 al 1858 fu comunque significativa, sia per la sua opera di scrittore impegnato anche se non unicamente a favore della causa del clero indigeno, sia per la rete di contatti personali che riuscì a stabilire. Tra laltro egli fu amico di Rosmini (il quale ne condivideva gli ideali missionari) ed ebbe anche un ruolo importante nella nascita del Seminario Lombardo per le Missioni Estere. Nel 1843 Luquet inviò a Rosmini, che evidentemente già stimava ed apprezzava, il suo volume di lettere che illustravano la storia delle Missioni Estere di Parigi. Il 31 marzo dello stesso anno Rosmini gli rispondeva: Listruzione e la consolazione spirituale che marrecò la lettura delle vostre lettere a Mr. Vescovo di Langres sulla Congregazione delle Missioni Straniere, non mi concede di tenere in me la gratitudine che Vi porto pel dono del vostro libro, e mi muove a manifestarvela, porgendovi in iscritto i miei più vivi ringraziamenti. Oltre quellaccesa pietà e zelo per la diffusione del Vangelo, che spira da un capo allaltro questo vostro erudito lavoro; vi ho trovato ben sovente de sentimenti così conformi ai miei, che ho dovuto concepire, insieme colla stima, uno speciale affetto in Gesù Cristo al suo autore. Io mi propongo di far leggere le vostre lettere ai Sacerdoti del minimo nostro Istituto, ai quali son certo che non potrà che comunicare dello Spirito, e crescere via più il loro ardore per le Missioni fra glinfedeli, alle quali debbono trovarsi sempre pronti, secondo lo spirito della loro vocazione, e limpegno che ne hanno preso entrandovi. Rosmini, dunque, fin dallora segnalava una profonda sintonia col Luquet e con gli indirizzi missionari (ma forse anche spirituali) delle Missioni Estere di Parigi. E concludeva la sua lettera: «Id123 dio benedica e fecondi le vostre fatiche! Benedica e fecondi quelle de zelanti vostri confratelli! Faccia egli ancora che alle vostre fatiche apostoliche possiamo aggiunger le nostre, e non solo le fatiche, ma ancora il sangue!» 9. Il 29 febbraio 1844 Luquet rispondeva a Rosmini, dallIndia, chiamandolo «Reverendissimo e (lo dirò benché non ne abbia il diritto) amatissimo Padre in Cristo Gesù». Il francese dimostrava di aver compreso benissimo il punto fondamentale in cui il pensiero missionario rosminiano si incontrava col suo e con la tradizione della sua congregazione: la questione del clero indigeno. Luquet scriveva infatti al roveretano: Con massimo piacere e vera riconoscenza ho ricevuto la sua onoratissima lettera nei primi mesi del mio soggiorno in questa celebre vigna del Signore, nella quale vedo gran lavoro ed assai pochi lavoratori. La detta lettera, che conserverò preziosamente per memoria della sua benevolenza verso di me, mi ha fatto conoscere che lei voleva stabilire le sue missioni future sul vero principio che la Santa Chiesa ha ricevuto da N.S. e dagli apostoli. Di tutto cuore mio ne ringrazio la bontà di Dio! Faccia questo Padre benedetto delle misericordie che quanto prima i missionari dellIstituto della Carità possieno lavorare fra glinfedeli alla formazione di questi boni e santi sacerdoti indiani, chinesi, ecc. che tutti noi desideriamo tanto. Poiché, senza di tali sacerdoti, la santa Chiesa romana nostra carissima madre, non vedrà mai la religione fondata in queste regioni di modo che non sia più possibile di distruggerla per le persecuzioni e le altre calamità che vengono spesso contra il Regno di Cristo 10. Il sinodo di Pondichéry si era concluso da appena quindici giorni e Luquet dunque ne scriveva a Rosmini con entusiasmo: Son certo che lei saprà con massima consolazione, che, nel mese di Gennaro passato, noi abbiamo celebrato il primo sinodo che sia sta9 Archivio Storico dellIstituto della Carità - Stresa [dora in poi ASIC], A. 1, XVIII, 1843, 523 (394); cfr. A. ROSMINI, Epistolario Ascetico [dora in poi EA], III, Roma 1912, p. 23. 10 ASIC, A. 1, XIX, A-M, 1844, 846 r (589). 124 to mai tenuto in Pondichéry. Il reverendissimo ed illustrissimo vescovo di Drusipara nostro tanto degno Vicario Apostolico ci ha tutti convocati, francesi o indiani missionari per quella venerabile assemblea, e tutti (25 francesi e 5 indiani) venirono. [...] Prima di tutto, abbiamo stabilito di una voce solenne ed unanime che dor innanzi, la perfetta educazione del clero indiano sarebbe più che mai loggetto delle nostre prime cure e più particolari lavori. Appena due settimane son passate dal tempo che fu terminato il sinodo, e la bontà pietosa di N.S. ci ha dato le grazie più abbondanti per lesecuzione dei nostri progetti. In questo momento abbiamo ottanta scolari nel collegio nostro di Pondichéry; fra i quali trenta mostrano belle disposizioni per lo stato ecclesiastico 11. Luquet si augurava che tutti i vicari apostolici di quelle regioni asiatiche seguissero lesempio di mons. Bonnand, anche se ricordava le parole di un vicario apostolico inglese in India che aveva giurato di non ordinare mai un indigeno. Il sacerdote francese si augurava infine di vedere missionari dellIstituto della Carità lavorare alla formazione del clero indiano. Quando dunque nel 1845 Luquet fu a Roma, egli prese contatto con i religiosi rosminiani. Fece avere a Rosmini, tramite Carlo Gilardi, la sua Memoria sul sinodo presentata a Propaganda Fide. Nel luglio dello stesso anno, inoltre, scrisse al Roveretano per metterlo a parte dellapprovazione della Ponenza, decisa dalla congregazione, ma comunicandogli pure i tentativi messi in atto dalle «persone che voi sapete» per ridurre la portata di tale decisione e raccontando anche i problemi avuti con alcuni Gesuiti 12. Il 23 luglio Rosmini gli rispondeva, accennando subito al testo della Ponenza: Io la trascorsi con infinito mio piacere, perché lo posso ben assicurare che quelle sono sempre state le cose che mi vennero in mente fin dal principio chio presi a pensare allopera delle missioni. Io non sapevo (saranno almeno ventanni fa) come sintendesse la cosa a Roma, e andavo meco stesso maravigliato a veder come quasi per tre secoli le missioni saffidassero a semplici religiosi senza pensiero di Vescovi e di clero indigeno; che mi parevano [cose] sì chiare e co11 12 Ibid., 846 r-v. ASIC, A. 1, XX, 1845, 717-718 (504). 125 stantemente praticate da tutta la sacra antichità. La sua bella esposizione alla S.C. giustifica a pieno colla storia a mano la Santa Sede; la quale non mancò di fare degli sforzi per conseguire que due importantissimi oggetti, benché fosse contrariata dalle circostanze e il saper questo, il saperlo comprovato di fatti e di documenti positivi, mi recò grandissima consolazione: perché io mi consolo di tutto ciò che torni in onore della Santa Sede, e del contrario mi contristo. La ringrazio dunque oltremodo del prezioso regalo, che tengo carissimo come un importante monumento da giovarsene a buon tempo 13. In effetti nellarchivio dellIstituto della Carità si conserva la copertina del Ristretto con Sommario e Schiarimenti sulle deliberazioni del Sinodo tenuto in Pondichéry etc. in addizione alla Ponenza analoga, contenente gli atti suddetti: ha lintestazione della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, è datato maggio 1845 e il ponente è il card. Angelo Mai. Su tale copertina, Rosmini aveva annotato di suo pugno: «Conformità colle nostre massime. 1 Vescovi. 2 Clero indigeno» 14. Peraltro è significativo che al n. 791 delle Costituzioni dellIstituto della Carità, Rosmini avesse stabilito: «È sommamente desiderabile che alcuno di coloro che sono deputati alle missioni degli infedeli sia consacrato Vescovo. I nostri missionari poi devono aver somma cura che i Vescovi non manchino alle nuove Cristianità e che in esse a poco a poco si educhi un clero indigeno» 15. Successivamente, Luquet inviò a Rosmini ledizione degli atti del sinodo di Pondichéry, corredati dai documenti di Propaganda Fide. Il Roveretano gli rispose per ringraziarlo e per felicitarsi per la sua promozione allepiscopato. Nella lettera, del 30 marzo 1846, egli dunque scriveva al francese alludendo alla Neminem Profecto: «LIstruzione da Lei provocata ed ottenuta sarà memorabile nella Storia delle Missioni a popoli infedeli, e gloria immortale del Corpo, a cui Ella appartiene. I due principij del Clero indigeno e dellEpiscopato saranno dora in avanti regole immutabili, e le Missioni si estenderanno così allo stesso modo, nel quale le estesero e ASIC, A. 1, XX, 1845718 v (505). ASIC, A. G. 2, 627 r. 15 Cost., n. 791. 13 14 126 diffusero gli Apostoli. Da gran tempo io era venuto meco stesso desiderando, che la Santa Sede facesse de nuovi sforzi per incamminar le Missioni su questa via; ma vedendo gli ostacoli (colpa la mia poca fede) appena osava sperarlo» 16. Qualche mese più tardi, il 5 maggio 1846, Rosmini in una lettera a un chierico trentino esprimeva i suoi convincimenti circa ladeguata preparazione, necessaria allapostolato missionario: «Primieramente lopera delle sacre missioni è santissima, ed è somma grazia, se Iddio chiama a sì sublime ministero. In secondo luogo, è anche sommamente ardua e pericolosa, e perciò esige tre condizioni: la prima, che sia ben accertata la vocazione; la seconda, che chi è chiamato si prepari ad essa colla santità della vita; la terza, che nella maniera di dar mano a tantopera si usi di ogni prudenza per cautelarsi contro i pericoli spirituali e per poter raccogliere frutto più copioso delle proprie fatiche» 17. Il clero indigeno e i riti orientali Il tema della seria preparazione, che Rosmini riteneva necessaria per intraprendere lapostolato missionario, ritornava nella lettera del 10 giugno 1846 che il Roveretano scrisse al Luquet, in risposta a una lettera del 30 maggio del francese e a proposito di un diretto impegno nelle missioni ad gentes dellIstituto della Carità. In particolare Luquet accennava a due realtà nelle quali lo stabilimento della gerarchia locale e il lavoro per la formazione del clero indigeno apparivano necessari e urgenti: Ceylon dove, come altrove in India, si risentivano ancora gli effetti del breve Multa praeclare del 1838 che aveva abolito le diocesi di patronato in India e in Indocina affidandone i territori ai vicari apostolici e provocando reazioni ostili nel clero favorevole al patronato (rispetto a questo clero mons. Bonnand, il vicario apostolico di Pon- 16 17 ASIC, A. 1, XXII, 1846, 1015 (763). EA, III, p. 300. 127 dichéry, aveva subito raccomandato a Propaganda Fide un atteggiamento mite e conciliante) e lOregon, negli USA, dove proprio nel 1846 fu costituita una nuova provincia ecclesiastica, con Oregon City per metropoli. Gli rispondeva dunque Rosmini: Ciò che Le è stato detto, che lIstituto della Carità non accetterebbe al presente una Missione nellOregon, o a Ceijlon, è del tutto vero. Avanti qualche anno [cioè nel 1840] Sua Em.za il Card. Franzoni ebbe la degnazione di offerirci la Missione di Filippopoli. Ma professandomi sempre disposto ad ubbidire a quanto la S.S. si compiacesse di comandarci, ho creduto da parte mia di dovergli rispettosamente dichiarare, che non credevo fosse ancora venuto il momento dassumere unopera di tanto rilievo. LIstituto della Carità è fatto, si può dire, in particolar modo per la grandopera di annunziare il Vangelo aglInfedeli, ma sente in pari tempo tutto il bisogno di premettere una lunga e seria preparazione. Benché io abbia poca esperienza, ed anzi appunto per questo, sono intimamente convinto, che il prendere Missioni straniere leggermente si è di grave danno a quelli che si mandano, ed alla stessa causa del Vangelo. Sono ancora persuaso che se i missionarii già spediti fra le nazioni infedeli fossero in numero minori e maggiori in virtù, si raccoglierebbe una messe assai più abbondante. LIstituto della Carità presentemente ha una colonia in Inghilterra, dove la messe già biancheggia; ed è mia intenzione di non disperdere troppo i missionari, ma di tenerli piuttosto uniti. Onde venendomi dimandati da quellIsola importante sempre nuovi operai, preferisco per ora di mandare colà quelli che mi avanzano delle case nostre in Italia. E tuttavia non creda, Monsignore, che non volga il pensiero ed il desiderio alle nazioni infedeli. Sospiro il tempo, in cui io possa stabilire un apposito Collegio, in cui quelli che saranno chiamati da Dio possano educarsi alla vita apostolica e ricevervi unaccomodata istituzione 18. Nella sua lettera del 30 maggio, poi, il Luquet, che era in contatto con i rosminiani residenti a Roma, Gilardi e Setti, accennava ai problemi personali che gli erano occorsi a causa dei nemici dellistituzione del clero indigeno nelle missioni. Inoltre egli deplora- 18 128 ASIC, A. 1, XXI, P. II, 1846, 287 r-v (234); cfr. EA, III, pp. 306-307. va lopera antigesuitica di Gioberti e si diceva daccordo col Rosmini che ne aveva proibito la lettura ai suoi religiosi 19. Rispondendogli, il Roveretano osservava: Ella mi dice nella vener.ma Sua del 30 Maggio, che io mi sarò ben pensato che il sapientissimo Decreto della S.C. de Propaganda sullo stabilimento della Gerarchia e del Clero indigeno nelle Missioni dellIndie avrebbe trovato nella sua esecuzione gli oppositori antichi. No, Monsignore, non ho pensato mai questo; anzi ho ringraziato il Signore di tutto cuore che avesse condotta la S. Sede a finire una questione così vitale per lincremento della Chiesa, e mi persuasi che tutti i Missionari indistintamente avrebbero dora in poi data mano con piena concordia alleffettuazione di quelle due gran massime camminando fedelmente sulla via tracciata dal Capo della Chiesa. Ora sento con dolore e maraviglia dalla lettera Sua, che lopposizione continua, benché oggimai non possa più essere di buona fede. Ma quello che mindignerebbe, se convenisse indignarsi di ciò che permette Iddio pe suoi altissimi fini, si è la maniera vile e disonesta, colla quale procedono quegli oppositori, di cui Ella mi ragiona, facendo uso della calunnia. Il Signore, dandole questa prova assai grave alla natura, intende sicuramente a perfezionarla, giacché una delle più belle e necessarie virtù apostoliche si è appunto quella di sopportare con animo forte e confidenza in Dio le calunniose imputazioni, opponendo la semplicità allastuzia, la veracità al falsiloquio, la benevolenza allodio, la mansuetudine alla prepotenza ed alla violenza. Sì, vuole il Signore anche da Lei, come il volle da S. Paolo, che lo serva per infamiam et per bonam famam; e, ciò che forse non ha sperimentato fra glinfedeli, vuole che sperimenti fra cattolici, il gaudio di chi è fatto degno pro nomine Jesu contumeliam pati 20. Rosmini aveva già sperimentato quel «gaudio» e ancora lo avrebbe sperimentato. Tuttavia le preoccupazioni di Luquet erano realistiche e fondate: solo nel 1919 con la Maximum Illud di Benedetto XV furono effettivamente avviate tutte le missioni cattoliche sulla strada dello stabilimento di una gerarchia e di un clero indigeni. 19 20 ASIC, A. 1, XXI, P. II, 1846, 285-286 (233). ASIC, A. 1, XXI, P. II, 1846, 287 r (234); cfr. EA, III, PP. 305-306. 129 Luquet scrisse ancora a Rosmini, da Roma, il 25 novembre 1846, di aver saputo da Newman dei progressi dellIstituto della Carità in Inghilterra 21. Il riferimento è significativo: una rete di legami spirituali e culturali di alto livello intellettuale e di profondo sentimento religioso collegava Luquet, Newman, Rosmini e altri. Rispondendo al francese infatti, il 7 dicembre, Rosmini scriveva: «Io spero che vedrò il sig. Newman chElla menziona nella venerata Sua lettera al ritorno di lui da Roma. Manzoni mi recò la lettera di Filipps [Phillipps] che me lo raccomandava, qui a Stresa, e mi duole di non aver avuto occasione di preparargli qualche servigio da queste parti» 22. A Luquet e a Rosmini si avvicinavano dunque Newman e Ambrogio M. Phillipps (poi noto con lo pseudonimo di Phillipps de Lisle) che era vicino a Wiseman, il quale era sia un ammiratore dellIstituto della Carità (ne divenne un ascritto), sia un fautore del ristabilimento della gerarchia cattolica in Inghilterra. Newman, Wiseman e Phillipps coltivavano prospettive unioniste tra anglicani e cattolici: Phillipps avrebbe poi aderito, nel 1857, allAssociation for the Promotion of the Union of Christendom (APUC), promossa da alcuni ecclesiastici anglicani favorevoli alla «corporate reunion» (cioè alla riunione con Roma di tutta la Chiesa dInghilterra e non solo di singoli «convertiti») condannata da Pio IX nel 1864 23. Rosmini, nella lettera, riprendeva pure un apprezzamento di Luquet per il fatto che lIstituto della Carità fosse sottoposto allordine gerarchico della Chiesa e cioè al ministero episcopale. Affrontava poi, sempre su richiesta di Luquet, la grave questione dei riti orientali, richiamando significativamente le disposizioni di Benedetto XIV e dimostrando di essere daccordo, anche su ciò, con Luquet: Venendo ora al discorso de riti orientali, che è il principale oggetto della venerata sua lettera, niente affatto dubito di confidare alla sua ASIC, A. 1, XXI, P. 1, 1846, 229 r (173). ASIC, A. 1, XXI, P. 1, 1846, 231 r (174); cfr. EA, III, p. 334. 23 Phillipps si sottomise a Roma. Wiseman avrebbe forse tentato di rendere meno severo il decreto di condanna, ma Manning che ammetteva solo conversioni individuali lo dissuase. Cfr. J. BIVORT DE LA SAUDÈE, Anglicani e cattolici. Il problema dellunione anglo-romana (1833-1933), trad. it., Milano 1954. 21 22 130 prudenza ed amicizia la mia maniera di sentire; ed ecco qual è. Lattaccamento de varii popoli ai loro riti è così grande, e se mi permette di dire, così cieco, che io credo che sarebbe impossibile di far rientrare nella Chiesa le nazioni scismatiche ed eretiche dellOriente, quando si pretendesse di farle nello stesso tempo cangiar di rito inducendole al rito latino od altro; o almeno io giudico che per tali nazioni sarebbe uno sforzo assai più difficile mutar di rito che mutar di fede. Lattenta osservazione del fatto lo prova a qualunque uomo che sappia osservare. Quindi la sapienza della Chiesa e della S. Sede raccomandò sempre a missionarij che i riti orientali fossero rispettati: Ella conosce in particolare i Decreti di Benedetto XIV. Posto dunque questo sommo attaccamento alle antiche e venerabili liturgie di popoli orientali; posto altresì lefficacia del pubblico culto sul sentimento religioso; io credo, che una delle principali massime della Chiesa Cattolica nellopera dinvitare a sé que Cristiani che sono fuori del suo seno debbe essere e sia di mantenere o restituire a que riti tutta la dignità che possono aver perduta agli occhi dellOccidente, comElla dice egregiamente. Stimo del pari che sia un felicissimo pensiero quello che mi accenna, lintrodurre i diversi riti fra i membri delle congregazioni cattoliche destinati a diventar Missionarj e Pastori di quelle pecore sbrancate. Per riguardo allIstituto della Carità basta il nome che porta a far risposta alla Sua dimanda, basta il motto che la caratterizza Omnibus Omnia. Ma acciocché non nascesse confusione da tale provvedimento si dovrebbero costituire Collegii di Missionarj per ciascun rito, ciascun de quali Collegii educasse i Missionarj destinati a vantaggio di que popoli che professan quel rito. E lIstituto della Carità a ciò sarebbe disposto tanto più, che egli vuole dividere i suoi membri in altrettanti Collegii, quante sono le opere principali di carità chegli esercita. Onde sarebbe cosa tutta conforme alla sua istituzione e al suo spirito che vavesse, poniamo, un Collegio di Missionarj pei Russi, uno pei Greci, uno per gli Armeni, e così discorrendo, per le diverse chiese scismatiche di rito diverso 24. 24 ASIC, A.1, XXI, 1846, 231v-232r (174); cfr. EA, III, pp. 335-336. Rispetto al motto Omnibus Omnia, si può ricordare ciò che Rosmini, fin dal 1835, scriveva ai suoi religiosi in Inghilterra. In una lettera dell8 novembre di quellanno, diretta a don Luigi Gentili, ma rivolta anche a don Antonio Rey e al chierico Emilio Belisy, Rosmini affermava: «Raccomando a tutti e tre di rendervi un poco alla volta inglesi in tutte le cose dove non ci sia peccato, poiché così pratichere- 131 La questione dei riti orientali assumeva in quel momento una grande importanza, che riguardava il mondo missionario perché degli affari ecclesiastici orientali si occupava Propaganda Fide fin dalla sua costituzione. Luquet era un caldo fautore dellunione della Chiesa latina con le Chiese orientali 25, sulla base del rispetto dei riti e della disciplina orientali: una prospettiva che, come si è accennato, aveva avuto limportante sanzione di Benedetto XIV (si veda in particolare lenciclica Allatae sunt del 26 luglio 1755) e che, anche per questo, trovava il pieno consenso di Rosmini. Pure Pio IX avrebbe coltivato aspirazioni unioniste, espresse nellenciclica In suprema Petri del 6 gennaio 1848 (che però, per i toni utilizzati, urtò gli orientali e riaccese le polemiche). In realtà le prospettive che si seguirono furono allopposto di quanto speravano Luquet e Rosmini nel senso di unopera, aperta o dissimulata, di latinizzazione. Lindirizzo di assimilazione e latinizzazione fu sostenuto in generale dai Gesuiti francesi che operavano in Medio Oriente, dai Cappuccini e dai Francescani (in particolare i custodi dei luoghi santi). Tra i fautori della centralizzazione e uniformizzazione latinizzatrice vi furono don Guéranger, che esercitava una notevole influenza sullopinione pubblica cattolica in Francia, il cappuccino Angelo di Fazio delle Pianelle, delegato apostolico in Siria dal 1836 al 1839, ma in particolare mons. Giuseppe Valerga, missionario a Mossul dal 1841 e divenuto patriarca latino di Gerusalemme, dopo il ripristino del patriarcato da parte di Pio IX in accordo col sultano, il 23 luglio 1847 26. Valerga, che era anche mo quello di S. Paolo: Omnia Omnibus factus sum. In tutte le cose dove non cè peccato, non giova contraddire: ogni nazione ha i suoi costumi, e sono buoni agli occhi suoi. Voi dovete avere quelli della nazione in cui vi trovate, e devono essere buoni agli occhi della vostra Carità. Lessere tropo attaccato ai costumi italiani, o romani, o francesi, è difetto grande ne servi di Dio, pei quali la vera patria è il cielo». 25 Cfr. R. ROUSSEL, Un précurseur. Mgr Luquet (1810-1858), Langres 1960. 26 Cfr. A. POSSETTO, Il Patriarcato latino di Gerusalemme, Milano 1938; J. HAJJAR, Lapostolat des missionnaires latins dans le Proche-Orient selon les directives romaines, Gerusalemme (Giordania) 1956; ID., LEurope et les destinées du ProcheOrient, Paris 1970. 132 delegato apostolico in Siria, fu aiutato nel suo impegno latinizzatore dal prodelegato apostolico, il gesuita francese Benoît Planchet. Un momento di forte tensione si ebbe in occasione degli attacchi che, a Roma, mons. Valerga e il gesuita C. van Overbroeck portarono alle risoluzioni del sinodo «nazionale» del patriarcato cattolico greco-melchita, svolto nel 1848 sotto la guida del patriarca Maximos III Mazloum, una personalità di notevole livello, che era stato molto stimato da Gregorio XVI ma che ora veniva accusato, dai latinizzatori, di essere un «foziano mascherato» per il suo attaccamento alla tradizione orientale 27. Si può dunque affermare che si realizzava una significativa convergenza su una serie di questioni cruciali per la vita delle missioni (stabilimento di una gerarchia locale, clero indigeno, impegno missionario dei vescovi cattolici, adeguata preparazione dei missionari, rispetto dei riti orientali, importanza delleducazione del clero) tra Rosmini, cioè tra il rappresentante forse più qualificato della cultura cattolica e della filosofia italiana in quel momento, e Luquet, interprete autentico e generoso della tradizione delle Missioni Estere di Parigi e dei loro indirizzi missionari, sostanzialmente omogenei a quelli di Propaganda Fide. Emblematico era pure il già citato richiamo, contenuto in una lettera di Luquet, alla polemica antigesuitica di Gioberti, che tanto Rosmini quanto Luquet deprecavano, ma che in realtà divideva e infiammava gli animi nella seconda metà degli anni 40 del secolo XIX. Si può dire che, in ambito missionario, Rosmini e Luquet non accettassero quello che, nonostante le polemiche, appariva il tratto comune ai Gesuiti e a Gioberti: lidea, cioè, di una prevalente azione civilizzatrice della Chiesa che accompagnando levangelizzazione portasse di fatto a unassimilazione di popoli, culture e civiltà da parte della civiltà europea e del cattolicesimo romano. Riprendendo la nota distinzione rosminiana della triplice carità, si può dire che lindirizzo missionario di Rosmini (ma anche di Cfr. J. HAJJAR, Un lutteur infatigable, le patriarche Maximos III Mazloum, Harissa (Libano) 1957. 27 133 Luquet) fosse caratterizzato: sul piano della carità corporale, da un impegno antischiavistico e di difesa della dignità della persona umana; sul piano della carità intellettuale, da una prioritaria opera di educazione, sia come formazione di missionari capaci di assumere in profondità le culture locali, sia come preparazione di un clero indigeno, sia come istruzione delle popolazioni per renderle autonome e non dipendenti dagli europei; sul piano, infine, della carità spirituale, da unazione di evangelizzazione, condotta in particolare da vescovi, in grado di fondare nelle diverse terre la gerarchia locale e le Chiese locali, sullesempio di quanto fecero gli Apostoli. Linfluenza di Luquet su Ramazzotti Nel 1847 soggiornò a Roma per qualche tempo un altro religioso francese delle Missioni Estere di Parigi, Emmanuel-JeanFrançois Verrolles, vicario apostolico nella Manciuria cinese. Egli, dopo unudienza pontificia, indirizzò a Propaganda Fide un interessante memoriale per perorare listituzione della gerarchia ecclesiastica ordinaria in Cina, in Giappone, in Corea e in Indocina. Il memoriale fu discusso nella congregazione particolare dell11 maggio 1848 ma non portò a risoluzioni specifiche. Fu invece promossa una consultazione conoscitiva dei vicari apostolici, che però non diede i risultati sperati perché molti dei vescovi missionari dellEstremo Oriente ritenevano la costituzione di una gerarchia ecclesiastica locale prematura, inutile o perfino dannosa 28. Ancora nel 1847, intanto, diventava sempre più delicata la situazione svizzera, dove i sette cantoni cattolici fin dal 1845 avevano deciso di costituire il Sonderbund, cioè una confederazione separata. Gli animi si erano ancor più riscaldati per larrivo dei Gesuiti a Lucerna. Ne avevano approfittato i radicali che, con la loro Cfr. J. METZLER, La Santa Sede e le Missioni, in J. METZLER (a cura), Dalle Missioni alle Chiese locali (1846-1965), Cinisello Balsamo 1990, pp. 54-57. 28 134 campagna antigesuitica, ottennero, nella primavera del 1847, la maggioranza alla dieta federale. Il 1° luglio Pio IX indirizzò una lettera agli svizzeri, invocando la pacificazione. Ma il 20 luglio la dieta dichiarava illegale il Sonderbund e pertanto ne intimava lo scioglimento. Il 3 settembre, poi, la dieta ordinava lespulsione dei Gesuiti dalla Svizzera. Questa situazione, comè noto, sarebbe ben presto precipitata, provocando la «guerra del Sonderbund». Intanto, però, nel novembre 1847 Pio IX faceva un ultimo tentativo di pacificazione religiosa inviando in Svizzera in sua rappresentanza, per una missione straordinaria ed ufficiosa, mons. Luquet come delegato apostolico. Nel suo viaggio da Roma in Svizzera, Luquet ebbe modo di passare per la Lombardia e di trattare questioni anche di argomento missionario. Nel novembre 1847, dunque, Luquet si recò a Milano per parlare con mons. Carlo Bartolomeo Romilli, divenuto arcivescovo della diocesi ambrosiana giusto qualche mese prima. Non trovandolo nel palazzo episcopale, saputo che il Romilli era in ritiro per gli esercizi spirituali nel Collegio degli Oblati di Rho, Luquet vi si recò. Era allora superiore del collegio (elettovi il 10 settembre 1847 per la terza volta) Angelo Ramazzotti. Luquet parlò allarcivescovo alla presenza di Ramazzotti e gli comunicò il desiderio di Pio IX per lapertura di un seminario di missioni estere con il concorso dei vescovi. Gli parlò pure della necessità di diffondere lOpera della Propagazione della Fede che non era ben vista dal governo austriaco, che preferiva la viennese Società Leopoldina e della necessità di collegarla al centro di Lione. Romilli si dichiarò disponibile a fare il possibile. Ma fu soprattutto Ramazzotti ad accogliere con convinzione le proposte del Luquet: il desiderio pontificio, infatti, poteva dare unautorevole e solenne sanzione ai deboli e velleitari tentativi fino ad allora messi in atto in Lombardia. Progetti in questo senso infatti erano stati ideati da don Carlo Strazza, collaboratore del direttore diocesano milanese dellOpera della Propagazione della Fede e professore per alcuni anni nei seminari ambrosiani, e da don Luigi Biraghi, anchegli insegnante nel seminario e fondatore della Congregazione delle Marcelline. In modi diversi sia Strazzi sia Biraghi appartenevano a quella parte del clero ambrosiano che conosceva e ap135 prezzava Rosmini. Tra il 1845 e il 1846, inoltre, un gruppo di chierici del Seminario di Milano e di giovani sacerdoti di Milano e di Lodi aveva vagheggiato la fondazione di un istituto missionario lombardo, ricevendo un sostegno significativo dal francese padre Lorenzo Marcello Supriès, che allora si trovava alla certosa di Pavia in qualità di vicario, ma che dal 1829 al 1838 era stato membro della Società per le Missioni Estere di Parigi ed era stato in missione a Pondichéry. Ramazzotti conosceva questi tentativi falliti e si sentiva personalmente attratto dalla vocazione missionaria. Per questo le parole di Luquet ebbero uneco profonda nel suo animo. Nel 1851, in un articolo sull«Amico Cattolico», don Giuseppe Marinoni, antico discepolo di Biraghi e principale collaboratore di Ramazzotti nella fondazione del Seminario delle Missioni Estere in Lombardia, scriveva: Il primo pensiero di questo Seminario si deve al Vicario di Gesù Cristo, il regnante Sommo Pontefice, il quale abbracciando nella sua paterna carità tutti i popoli della terra, e la sorte infelice commiserando di tante nazioni ancora sedenti nelle ombre della morte, sin dal principio del suo pontificato, per mezzo del suo delegato straordinario il Vescovo di Esebon [cioè Luquet], che trovavasi qui di passaggio, faceva sentire quanto caro gli sarebbe tornato che il clero numeroso di queste province non tardo al certo alle Sante imprese, e quella eletta schiera di buoni dogni ceto e condizione che tanto onorano la patria nostra, prendessero parte ad unopera di tanta pietà qual si è la conversione deglinfedeli. Le parole del delegato apostolico facevano alta impressione nellanimo del P. Angelo Ramazzotti allora missionario nel collegio di Rho, ora meritatamente elevato alla sede episcopale di Pavia, uomo di quel cuore e di quello zelo che a tutti è noto, e risvegliavano in lui una sua antica idea vagheggiata lungamente negli anni più verdi, lidea di consacrarsi alla grandopera delle estere missioni: se non più con la persona, almeno con tutti quei mezzi che fossero in sua disposizione. Medita egli, prega, consulta, e finalmente risolve 29. G. MARINONI, «Il nuovo Seminario delle Missioni Estere in Lombardia», in «LAmico Cattolico», novembre 1851, p. 651. 29 136 Ramazzotti non poté immediatamente dare corso ai disegni missionari, poiché ne fu impedito dalle «cinque giornate» di Milano, dagli eventi della rivoluzione e dalla guerra del 1848-1849. In questo frangente egli si distinse, insieme al confratello padre Angelo Taglioretti, per unopera di pacificazione sociale, richiestagli dal governo provvisorio con il consenso di Romilli. Ramazzotti inoltre, sempre su richiesta del governo provvisorio, che gliene fu grato, accolse nel suo orfanotrofio di Saronno i figli rimasti a Milano degli ufficiali austriaci che, nella fuga, non avevano potuto condurli con sé. Dopo la restaurazione austriaca, peraltro, Ramazzotti ricevette anche, il 7 febbraio 1849, il ringraziamento e la lode del governo imperiale. Limperatore Francesco Giuseppe, inoltre, lo preconizzò l11 novembre 1849 vescovo di Pavia e ricevette lincarico da Pio IX nel concistoro del 20 maggio 1850. Fu poi consacrato a Roma, il 30 giugno, proprio prefetto di Propaganda Fide card. Franzoni. Mons. Ramazzotti non abbandonò infatti i suoi piani missionari e nel luglio 1850 fondò, nella sua casa di Saronno, il Seminario Lombardo per le Missioni Estere. Tra coloro che contribuirono allavviamento del seminario, le Memorie dellIstituto, redatte da don Giacomo Scurati, ricordano: «M.R.P. Angiolo Taglioretti, oblato di Rho, M.R.P. Taddeo Supriès, Priore della Certosa di Pavia, M.R.P. Vandoni, barnabita, M.R.D. Luigi Biraghi, Dottore della Biblioteca Ambrosiana, M.R.D. Pietro Tacconi, Preposto di Vimercate». Supriès, come si è visto, portò lesperienza delle Missioni Estere di Parigi e del suo apostolato a Pondichéry. Biraghi rafforzò le simpatie filorosminiane. Il principale collaboratore di Ramazzotti fu tuttavia don Giuseppe Marinoni, direttore del Seminario per le Missioni Estere. Egli era stato alunno di Biraghi nel seminario milanese, si era poi recato a Roma e, dopo tentativi falliti di farsi prima gesuita e poi pallottino, fu parroco a Roma e, per tutti gli anni 40, fu legato al card. Antonio Tosti, estimatore ed amico di Rosmini. Il 2 maggio 1850 Ramazzotti aveva scritto, a nome di Romilli, un Promemoria per il luogotenente generale di Lombardia, nel quale presentando il nuovo istituto e chiedendo lapprovazione governativa si affermava: 137 Si tratta di iniziare unassociazione di Sacerdoti secolari per le Missioni Estere a propagazione della fede cristiana. La novità e affatto speciale importanza di siffatta impresa consiste in ciò che si avrebbe una casa diocesana di Missionarj dipendente dal proprio Vescovo. Non sarebbero quindi alcuni Sacerdoti (come avveniva in passato) che per dedicarsi alle missioni estere si staccano dalla propria Diocesi e dal paese proprio, cercando altrove leducazione a sì sublime ministero, ed aggregandosi perciò a qualche famiglia, o a qualche altro estero Istituto; ma si tenterebbe invece di stabilire tra noi stessi una casa di Missioni Estere, nella quale potessero raccogliersi quei Sacerdoti che sentissero la spinta a tale vocazione e dove potrebbero provarla ed abilitarsi cogli esercizi dello studio e della pietà senza bisogno dabbandonare a tale effetto la propria patria e Diocesi. Si capisce da questo approccio che lesperienza alla quale si guardava era quella della Società per le Missioni Estere di Parigi. Ciò è ancora più evidente nelle regole elaborate da Ramazzotti con la collaborazione di Marinoni e di Taglioretti. Infatti dopo lapprovazione governativa, che giunse (nonostante i timori per le simpatie guelfe e rosminiane dei sacerdoti dellistituto) il 30 agosto 1850, era cominciato il lavoro di stesura delle regole. Nellottobre fu inviata ai vescovi lombardi una Proposta di alcune massime e norme per lIstituto delle Missioni Estere. Emendata e approvata, essa costituì il testo delle regole dellistituto, che fu ufficialmente e formalmente eretto il 1 dicembre 1850 dallarcivescovo di Milano e dagli altri presuli lombardi, i vescovi di Como, Crema, Lodi, Mantova, Cremona, Pavia e Brescia. Nella avvertenza preliminare della Proposta si affermava, dunque: LArcivescovo di Milano e i Vescovi Comprovinciali, non rattenuti dal timore di perdere qualche soggetto ai bisogni della Diocesi; considerando il compenso che devono attendere le loro Chiese dal Signore; considerando che gli splendidi esempi di distaccamento e di sacrificio sono atti più che altro a svegliare la fede e possono rendere fruttuoso alla Diocesi non meno il Missionario, il quale parte per un altro emisfero, che il sacerdote rimasto ad operare fra i suoi; che anzi, spingendo in alcuni individui la vocazione ecclesiastica al suo pieno sviluppo, viensi a suscitarla e meglio maturarla in altrui; ma più che tutto considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dila- 138 tazione della Chiesa universale, e che ciascuna delle Diocesi è in qualche modo tenuta a fornire per questo intento il suo contingente di milizia apostolica, pensarono di dover favorire e tener cura delle vocazioni al ministero delle estere Missioni con non minor zelo di quello che usino per la buona educazione del Clero destinato alla Diocesi. [...] Di più queste spedizioni diocesane e provinciali stabilirebbero un vincolo tra le Chiese native dei Missionari e quelle che il loro zelo benedetto da Dio verrebbe a formare nelle popolazioni convertite, e dovrebbe risultare un impegno delle nostre Diocesi e provincie a proteggere gli interessi di quelle Chiese, le quali si raccomanderebbero a noi coi dolci titoli di una quasi parentela spirituale 30. Anche se non si parlava, dunque, di formazione di clero indigeno, lottica era tutta rivolta alla costituzione di Chiese locali. Esplicito e centrale era poi linserimento dellapostolato missionario allinterno del ministero episcopale. Nel trattare delle discipline ordinate a coltivare lo spirito e le virtù degli aspiranti alle missioni, le regole insistevano per una «vita di spirito e di fede». Il missionario doveva essere mosso dalla «pura vista di Dio», non preoccupandosi di raccogliere il frutto delle proprie fatiche: «Anzi questanima non cerca a Dio le ragioni della missione da Lui ricevuta, ed opera sulla sua parola, e su quella de suoi rappresentanti, come strumento docile, della adorabile volontà, e in ogni evento ripete con gioia e profonda convinzione: servi inutiles sumus: quod debuimus facere, fecimus (Luc. c. XVII, v. 10)» 31. Ciò che importava dunque era che gli allievi del Seminario Missionario avessero disposizioni solide di schietto zelo, di puro amore e timor di Dio, nonché sicura padronanza delle proprie passioni: «A tale intento si procura primieramente, che nella Casa, mantenuta pur sempre la semplicità, lilarità, anche un cotal grado di vivacità, domini potentemente il fervore per le cose spirituali, e lo studio della vita interiore e della perfezione. [...] Non saranno trascurati, ad aiuto della pietà e dello spirito, gli eser- 30 Proposta di alcune massime e norme per lIstituto delle Missioni Estere (Settembre 1851), Roma 1961, pp. 14-15 e 17. 31 Ibid., p. 45. 139 cizi della mortificazione esteriore, sebbene sia necessario, trattandosi massime di giovani recenti dal seminario, procedere con discrezione [...] Quel che più importa è che queste pratiche di pietà e di mortificazione si abbia cura di non lasciarle diventare collabitudine una formalità materiale» 32. Le virtù più coltivate perché ritenute necessarie allapostolato missionario erano la castità, la carità e soprattutto lo spirito di sacrificio. La disposizione al sacrificio appariva «essenzialissima» agli alunni della missione: «Se la formino col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in Croce per le anime nostre. Non è a dubitarsi che se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, non siano per esibirsi a perder tutto e morire per Lui e con Lui» 33. Significativo era poi limpianto generale dato alla prospettiva formativa perseguita dal Seminario per le Missioni Estere: Può forse dirsi che siavi presso alcuni unopinione esagerata sullampiezza delle cognizioni e sulla coltura intellettuale richiesta in un Missionario. Alcuni nella Casa che lo prepara alle funzioni apostoliche vorrebbero trovare un Istituto di scienze ed arti, una scuola di tutte le lingue. Invece il piccolo Seminario non potrà far molto in questo punto senza perdere perciò la speranza di formare buoni alunni alle Missioni. E convien che si rimarchi; anzi non solo a togliere la sorpresa di chi si aspettasse dal seminario grande apparato di studi, ma anche a vieppiù insinuare negli alunni la cura del raccoglimento, dellumiltà, e migliore indirizzo dello spirito verso quel punto che più dogni altro importa, gioverà che qui sia proclamata la gran massima del primo e più grande dei Missionari tra gli infedeli, dellapostolo S. Paolo: la somma scienza, anzi lunica veramente necessaria è quella del Crocifisso. Ben ritenuta però questa massima e presa a norma dello spirito con cui devono studiare; vigilando sopra sé che talora la soverchia intensità dellapplicazione agli studi non sottragga il tempo o inaridisca il cuore agli esercizi della pietà, e la riuscita non lo gonfi; riferendo al tempo dello studio principalmente la raccomandazione 32 33 140 Ibid., pp. 46-48. Ibid., p. 54. delle divote giaculatorie; attenderanno gli alunni a studiare con ogni sollecitudine 34. Per una più precisa determinazione del piano di studi la Proposta di alcune massime rimandava a un periodo successivo, quando si sarebbe potuto far tesoro dellesperienza concreta acquisita nei paesi da evangelizzare. Intanto si stabiliva di rivolgersi agli studi di prima necessità per lesercizio pratico del ministero sacerdotale, di fondarsi nelle prove del catechismo, di conoscere per poterle confutare le dottrine dei protestanti, così attivi allora nelle missioni. Tali studi, uniti a quelli della Sacra Scrittura e della storia ecclesiastica, dovevano costituire la principale occupazione. Per la conoscenza delle lingue ci si limitava a prescrivere uno studio molto impegnato dellinglese e un esercizio del francese. Interessante e originale era invece il metodo di studio proposto, sia perché non si pensava a uno studio contemporaneo e parallelo delle varie discipline, sia perché si suggeriva una sorta di stile seminariale più che lezioni cattedratiche. Per quanto riguarda il primo punto, si affermava infatti: «Nel metodo di condurre gli studi si ha questa avvertenza di non frastagliarli dividendo lapplicazione sopra materie disparate, ma si esauriranno a mano a mano i trattati principali dedicando ad essi uno studio continuato e completo» 35. Per il secondo aspetto, invece, si stabiliva: Ma per rendere questi studi di minor peso ed insieme notabilmente più impegnati e fruttuosi, si è giudicato di aiutarli con famigliari ma ben regolate conferenze. Queste sono quotidiane, e procedendosi da tutti insieme di pari passo, e colla guida di un medesimo autore, ciascuno vi porta il transunto scritto del caso studiato, propone senza superfluità ed inutili digressioni le difficoltà che ha incontrato in qualche punto, e di cui bramerebbe una più chiara soluzione. Anzi, essendo pure raccomandato che ciascuno secondo la propria capacità procuri di meglio approfondire la materia massime collassociare allo 34 35 Ibid., pp. 57-58. Ibid., p. 61. 141 studio dellautore adottato per guida la lettura di trattati più ampi e ben ponderati di altri autori, ciascuno recherà nelle conferenze il frutto dei suoi studi individuali a comune erudizione e vantaggio 36. I primi allievi dellistituto furono alcuni giovani seminaristi del quarto corso teologico: Giovanni Mazzuconi, Carlo Salerio, Timoleone Raimondi, Alessandro Mornico. In quegli anni linfluenza rosminiana era stata ben viva nei seminari ambrosiani e dunque fu probabilmente presente anche nella formazione di questi giovani che poi si avviarono allIstituto delle Missioni Estere. In particolare, Carlo Salerio poi missionario in Melanesia e successivamente fondatore dellIstituto delle Pie Signore di Nazareth, ebbe come professore di filosofia negli anni del liceo, dal 1844 al 1846, don Alessandro Pestalozza, amico di Rosmini e convinto assertore del sistema filosofico rosminiano. Ed è significativo che quando don Salerio, inviato a Roma da don Marinoni insieme a don Paolo Reina, fu ricevuto il 21 agosto 1851 da Pio IX, il pontefice accennasse in fondo con affetto proprio a Rosmini. Conclusioni Si può, dunque, concludere che nellesperienza dellIstituto delle Missioni Estere di Milano venissero a incrociarsi e a intrecciarsi, in forme peraltro originali, la linea metodologica tradizionalmente sostenuta dalla Società per le Missioni Estere di Parigi e la linea spirituale e culturale del rosminianesimo. Veniva così a delinearsi, nellambito della storia italiana del movimento missionario, una posizione nuova, che si ricollegava alla tradizione romana di Propaganda Fide ma la innovava significativamente, riproponendola nel nuovo contesto storico di unEuropa che sarebbe presto dovuta passare dai problemi posti dal nazionalismo e dal colonialismo a quelli posti dallimperialismo e dal razzismo. 36 142 Ibid., pp. 60-61. La nuova posizione missionaria era ben distinta tanto dalla tradizione francescana e cappuccina quanto dalle metodologie missionarie gesuitiche. Nel contesto italiano della seconda metà degli anni 40 del secolo XIX, tale innovativa posizione missionaria trovò i suoi interpreti più alti e significativi in Rosmini, Luquet e Ramazzotti. Frutti significativi di tale esperienza furono, prima, la fondazione dellIstituto per le Missioni Estere in Lombardia e, poi, con laggiungersi degli sviluppi dei fermenti veronesi, lopera di Daniele Comboni e la nascita dellIstituto Comboniano. 143 LA CHIESA E L ORIENTE: IL DISEGNO MISSIONARIO DI PIO IX E IL SEMINARIO LOMBARDO PER LE MISSIONI ESTERE di Agostino Giovagnoli Pio IX e le missioni «Il numero di ordini religiosi e di congregazioni maschili e femminili con orientamento missionario fondati nel XIX secolo è tanto elevato che un inventario non può essere fatto con pretese di completezza», afferma Joseph Metzler. La nascita del futuro PIME si iscrive nel contesto di generale risveglio dello spirito missionario, dopo la grave crisi del XVIII secolo e le conseguenze della Rivoluzione francese, ed è preceduta da molte altre iniziative sorte altrove, soprattutto in Francia. Ma mons. Angelo Ramazzotti non fondò un istituto o una congregazione: la sua iniziativa rappresenta qualcosa di nuovo e diverso nel pur ricco panorama missionario dellepoca 1. Loriginalità del Seminario Lombardo per le Missioni Estere emerge già nel complesso iter che portò nel 1850 alla sua fondazione, indubbiamente influenzato anche da vicende esterne, ma C. SUIGO, Pio IX e la fondazione del primo Istituto per le missioni estere, PIME, Roma 1976, p. 125. 1 Agostino Giovagnoli ha insegnato nelle università di Bari e di Sassari ed è ordinario di storia contemporanea allUniversità Cattolica di Milano. Ha condotto studi e ricerche sulla storia dellItalia contemporanea e su Chiesa e relazioni internazionali nel XX secolo. Ha pubblicato, fra laltro, il volume Roma e Pechino. La svolta extraeuropea di Benedetto XV (Roma, Studium 1999) e ha in corso di pubblicazione un volume sul pontificato di Pio IX. 145 determinato soprattutto dallo sforzo paziente e tenace di mons. Ramazzotti di tener conto il più possibile di soggetti diversi e delle loro differenti prospettive. Egli si adoperò intensamente perché «questo prospettato collegio [...] lungi dal presentare inconvenienti dalcuna sorta, li prevenisse ed offrisse per ogni lato rilevantissimi vantaggi» da qualunque punto di vista lo si fosse guardato e cioè se lo «si considerasse in rapporto alla chiesa universale, o [...] in rapporto ai doveri episcopali, o in relazione al Governo, o nellinteresse dei Missionari medesimi» 2. Le diverse prospettive qui sintetizzate furono effettivamente considerate da mons. Ramazzotti ed egli ebbe la capacità di armonizzarle e fonderle nel corso dellattenta opera da lui compiuta per giungere allapertura del seminario. Il suo disegno infatti, pur articolato e complesso, rivela anche unispirazione unitaria e la volontà di mettere sempre al primo posto linteresse delle missioni attraverso un collegamento costante con le prospettive universali della Chiesa. In questo senso, la sua azione appare profondamente inserita nel quadro complessivo dello sforzo missionario perseguito in quegli anni da Pio IX. Fin dai primi tempi del suo pontificato, questi mostrò grande interesse per le questioni missionarie, riprendendo lintensa attività avviata dal suo predecessore, Gregorio XVI, di cui cercò di portare a compimento molti disegni. Nel novembre 45, pochi mesi prima del passaggio di pontificato, era stata emanata listruzione di Propaganda Fide Neminem Profecto per la creazione di un clero indigeno, con cui Gregorio XVI innovava rispetto a numerosi pronunciamenti contrari degli anni precedenti, raccomandando di «dividere i territori in preparazione allo stabilimento della gerarchia [...] reclutare e formare un clero indigeno e, a questo scopo, erigere seminari per condurre il clero indigeno fino allepiscopato [...] non trattare i sacerdoti indigeni come clero ausiliario, ma dare loro precedenze, onori e cariche come agli europei [...] rinunciare alla tradizione di usare gli indigeni solo come catechisti [...] non D. COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, EMI, Bologna 2000, p. 100. 2 146 mescolarsi affatto agli affari politici e profani [...] curarsi di tutto ciò che favorisca il radicarsi della religione nella società» 3. Come nota Aubert, nel pontificato di Pio IX non ci fu nessun pronunciamento di carattere generale che possa essere paragonato alla Neminem Profecto: tuttavia questa coraggiosa direttiva, che rappresentò il punto darrivo dellintenso impegno svolto dal camaldolese Mauro Cappellari, prima come prefetto di Propaganda e poi come papa, costituì unimportante eredità per il pontificato del suo successore. Alla metà dellOttocento, per la Chiesa cattolica missione voleva dire soprattutto Oriente: questo termine, applicato in senso geografico a unarea molto vasta e indeterminata, indicava anzitutto lImpero ottomano, che copriva ancora gran parte dei Balcani, comprendeva tutto il Medio Oriente e si estendeva fino allAfrica settentrionale. Ciò spiega una certa sovrapposizione tra impegno missionario vero e proprio e rapporto con le Chiese orientali in unottica uniatistica 4. LOriente costituì per Pio IX una preoccupazione rilevante durante tutto il suo pontificato 5. La sua «offensiva orientale» si sviluppò fin dallinizio in stretto collegamento con le trasformazioni in corso nel Mediterraneo. Con lindipendenza greca, la rivolta dellEgitto, i tanti movimenti nazionalistici nel contesto di un progressivo declino del potere centrale, lImpero ottomano iniziò un lungo declino a cui corrispose una crescente influenza delle grandi potenze europee, con loccupazione francese dellAlgeria, la penetrazione inglese in Medio Oriente, le pressioni russe sui Balcani. Tra il 1846 e il 1878, gli anni del pontificato di Pio IX, la «questione orientale» costituì un problema decisivo nel campo delle relazioni internazionali. J. LEFLON, Restaurazione e crisi liberale (1975), SAIE, Torino 1984, p. 915. R. AUBERT, Il pontificato di Pio IX (1846-1878) (1964), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, p. 638. 5 Fin dai primi momenti, Pio IX cercò di staccarsi dalle incertezze del suo predecessore, papa Gregorio XVI. Cfr. G. MARTINA, Pio IX (1846-1850), Università Gregoriana Editrice, Roma 1974, p. 467. Lo stesso Martina mette però in rilievo anche lesistenza di elementi di continuità (ivi, p. 469). 3 4 147 Pur trattandosi di una questione anzitutto politica, Pio IX ne colse limportanza anche per la Chiesa cattolica: per la prima volta dopo secoli, Roma vedeva riaprirsi la porta dellOriente. In un certo senso, Pio IX cercò di precedere le potenze europee, prendendo liniziativa indipendentemente e talvolta in contrasto con queste. In soli due anni, subito dopo lascesa al soglio pontificio, egli cercò di stabilire relazioni diplomatiche con lImpero ottomano, decise di istituire un patriarcato latino a Gerusalemme e lanciò un appello agli ortodossi per il loro «ritorno» a Roma: i primi passi della sua politica orientale furono addirittura «spettacolari» 6. Per prima volta dopo secoli, un papa cercava relazioni dirette con un principe «pagano» staccandosi dalla protezione delle «nazioni cristiane» 7. (Nella stessa prospettiva, nel 1860 Pio IX si sarebbe rivolto direttamente allimperatore cinese). Appena eletto, infatti, egli tentò di stabilire rapporti diplomatici con Costantinopoli, ignorando il diritto che la Francia si era assicurata di rappresentare gli interessi cattolici allinterno dellImpero ottomano (negli stessi anni, la Francia cercava di affermare analoghi diritti anche in Cina) 8. Svincolarsi dal controllo francese e giungere allo scambio di rappresentanti diplomatici con la Sublime Porta doveva servire, nel disegno di Pio IX, a sviluppare una presenza più diretta della Chiesa di Roma in Medio Oriente. A questo scopo, egli procedette anche alla creazione di un patriarcato latino a Gerusalemme, tenendo alloscuro la diplomazia francese ed impedendo così un intervento della Francia, fortemente contraria anche a questa iniziativa 9. In Terra Santa, la presenza latina era tra6 114. J. HAJJAR, Le Christianisme en Orient, Librairie du Liban, Beirut 1971, p. 7 J. HAJJAR, L Europe et les destinées du Proche-Orient, vol. I, TLASS, Damasco 1988, p. 601. 8 Malgrado la dura opposizione francese e le contrarietà, diversamente motivate, di Austria e Russia Pio IX proseguì su questa strada fino ad inviare, nel gennaio 1848, mons. Ferrieri a Costantinopoli per accreditare un rappresentante pontificio presso la Sublime Porta. Cfr. A. TAMBORRA, Chiesa cattolica e ortodossia russa. Due secoli di confronto e dialogo. Dalla Santa Alleanza ai nostri giorni, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1992, p. 97. 9 Cfr. HAJJAR, L Europe, cit., vol. I, pp. 482 segg. 148 dizionalmente affidata alla Custodia francescana 10, la cui opera però non sembrava più sufficiente per contrastare le crescenti influenze russo-ortodossa e britannico-anglicana, coordinare i missionari cattolici, sviluppare la chiesa locale e creare clero latino autoctono, come Pio IX avrebbe desiderato. A Roma si sperava che lo stesso patriarca potesse diventare anche il rappresentate diplomatico della Santa Sede presso lImpero ottomano 11. La scelta cadde su mons. Valerga, un missionario con esperienza mediorientale, cittadino del Regno di Sardegna: anche questa scelta irritò notevolmente i francesi, ostili ai tentativi del Piemonte di sviluppare la propria influenza in Medio Oriente. Il patriarca latino a Gerusalemme, diventato in seguito il consigliere più ascoltato dal papa per tutte le questioni orientali, fu tra i concelebranti nellordinazione episcopale di mons. Ramazzotti, come annotò questultimo traendone buoni auspici. Gli storici di cultura francese sono molto critici verso la politica orientale di Pio IX. Hajjar parla di tentativi prematuri, maldestri e velleitari: secondo questo studioso, Pio IX riuscì ad ottenere qualcosa in Oriente solo grazie a quegli Stati europei di cui cercò di contrastare linfluenza, come la Francia o lAustria 12. Anche Aubert concorda: «in realtà, gli aiuti più utili al cattolicesimo dOriente vennero dallAustria e dalla Francia» 13. Martina sottolinea invece che, agendo in questo modo, Pio IX si pose esplicitamente lobiettivo di «liberare la Chiesa da ogni dipendenza dalla protezione interessata delle potenze» europee 14. È la prospettiva perseguita da Pio IX anche nei confronti del padroado portoghese: perseguendo con metodi diversi finalità simili a quelle del suo predecessore, cercò di liberare la Chiesa cattolica dal pesante condizionamento portoghese in India e altrove 15. A. GIOVANNELLI, HAJJAR, LEurope, cit., vol I, p. 501. 12 J. HAJJAR, Les Eglises Orientales Catholiques, in R. AUBERT ET AL., LÉglise dans le monde moderne (1848 à nos jours), Seuil, Paris 1975, pp. 491 segg. 13 R. AUBERT, Pio IX, cit., t. 2, p. 632. 14 G. MARTINA, Pio IX (1846-1850), cit., pp. 465-466. 15 G. MARTINA, Pio IX (1851-1866), Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986, pp. 378, 383-385. 10 11 149 Nei primi giorni del 1848, il papa inviò mons. Valerga e mons. Ferrieri rispettivamente a Gerusalemme e Costantinopoli il secondo viaggiò su una nave da guerra sarda, altra coincidenza non casuale consegnando loro lenciclica In Suprema Petri Apostoli Sede, indirizzata «ad Orientales». Pio IX riprendeva così unidea già coltivata da Gregorio XVI 16 e sollecitata da vari protagonisti del dibattito sullunione delle Chiese avviato dopo il 1815 e divenuto sempre più intenso: tra gli altri, seppur senza un ruolo di primo piano, influì in questo dibattito anche Niccolò Tommaseo. Raccogliendo queste sollecitazioni, Pio IX compì una scelta audace: per la prima volta dopo secoli la Chiesa di Roma si rivolgeva in modo diretto al mondo ortodosso. Nella sostanza, la lettera esprimeva orientamenti «unionisti»: animata dalla speranza di un «ritorno» in massa degli ortodossi, soprattutto slavi, proponeva il modello degli uniati, invitando i dissidenti a riconoscere lautenticità della dottrina custodita dalla Chiesa cattolica e accettando il primato del papa. Roma però prometteva di rispettare le diverse tradizioni liturgiche orientali. La reazione ufficiale fu negativa: il patriarca di Costantinopoli, a nome anche dei patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme e di moltissimi vescovi, respinse la proposta del papa. La lettera del papa tuttavia suscitò tra gli ortodossi anche altre reazioni 17 e soprattutto scatenò allinterno del mondo cattolico una valanga di progetti per lunione 18. Tamborra sottolinea «il merito grande di Pio IX di aver aperto o riaperto una strada che si riteneva ormai senza uscita [...] Da questo primo inizio [...] prenderà lavvio fra lungo contendere teologico e dottrinale il colloquio in termini puntuali e moderni fra la Chiesa di Roma e il mondo ortodosso nelle sue varie componenti ed espressioni» 19. La politica orientale di Pio IX fu determinante anche sotto il profilo più specificamente missionario. La Santa Sede, ad esempio, «fu la prima potenza europea che approfittò del varco aperto MARTINA, Pio IX (1846-1850), cit., p. 470. TAMBORRA, Chiesa cattolica, cit., pp. 99-111. 18 Ibid., pp. 137-224. 19 Ibid., p. 111. 16 17 150 dagli egiziani per realizzare un insediamento nellAfrica interna» 20. Malgrado molti pareri contrari, allinizio del 1846 Propaganda deliberò lerezione del vicariato apostolico dellAfrica centrale: «limportanza storica di quanto si operò deriva dallessere stata la prima circoscrizione ecclesiastica istituita stabilmente sul suolo africano, esclusa la fascia costiera» 21. Liniziativa romana destò grande interesse nelle potenze europee: la penetrazione in Africa non avvenne allora con laiuto della Francia 22, tradizionale curatrice degli interessi cattolici in Oriente, mentre Inghilterra ed Austria sostennero la spedizione missionaria promossa da Propaganda. Pur tra molte difficoltà, la missione in Africa centrale venne avviata con grande fretta tra il 1846 e il 1847, ma gli eventi del 18481849 fecero venir meno molte speranze e Roma rimase a lungo incerta sulle prospettive da dare allimpresa africana 23. In questo contesto, il responsabile della missione, Knoblecher, si rivolse al governo di Vienna 24, interessato ad accompagnare lo sviluppo della presenza cattolica in Africa: Propaganda, pur preoccupata per le possibili reazioni negative della Francia, accettò alla fine il protettorato austriaco e la missione in Sudan poté riprendere. In campo missionario, dunque, Pio IX cercò di svincolarsi da protezioni troppo impegnative come quelle del Portogallo o della Francia per assumere uniniziativa quanto più possibile autonoma: egli ricorse di volta in volta alle varie potenze europee in funzione dei propri disegni. Vari esempi mostrano che Pio IX, nei primi anni del suo pontificato, puntò su uno stretto collegamento con il Piemonte per sviluppare iniziative importanti della sua politica orientale: oltre al Medio Oriente, ci fu convergenza anche a proposito dei Balcani e dellEuropa orientale. È uno dei segni della sua iniziale apertura verso questo Stato, la causa italiana e in generale il risveglio delle nazionalità, che, almeno in una prima 20 G. ROMANATO, Daniele Comboni. L Africa degli esploratori e dei missionari, Rusconi, Milano 1998, p. 72. 21 Ibid., p. 75. 22 Ibid., pp. 79 segg. 23 Ibid., pp. 92 segg. 24 Ibid., pp. 106 segg. 151 fase, Roma ritenne componibile con la propria missione universale. Comè noto, però, le vicende del 1848-1849 segnarono la fine di questo tentativo. In genere si tende a vedere la svolta di Pio IX nei termini di un suo «tradimento» della causa italiana precedentemente sostenuta; tuttavia, gli orientamenti da lui assunti tra il 1848 e il 1849 non si radicano solo negli avvenimenti italiani, ma furono ispirati dalla più complessiva situazione europea di quegli anni. Indubbiamente, Pio IX abbandonò le precedenti convergenze con il Piemonte e si rivolse allAustria per ottenerne il sostegno nella restaurazione del suo potere temporale. Occorre però ricordare che la sconfitta di Novara non riguardò solo il Piemonte: ebbe infatti importanti ripercussioni nei Balcani e in Europa orientale, contribuendo al ripiegamento degli altri movimenti nazionalisti che avevano sconvolto lImpero asburgico in quegli anni e aprendo la strada a una presenza russa in questarea particolarmente preoccupante agli occhi di Roma. Le vicende del 1848-1849 costituiscono non a caso la premessa della successiva guerra di Crimea, scoppiata pochi anni dopo. Nel 1849, insomma, la sconfitta della causa nazionale in tuttEuropa aprì la strada a scenari molto problematici per la Chiesa cattolica, spingendo Pio IX a cercare altri e più solidi interlocutori. Per il papa divenne quasi una necessità rivolgersi allAustria, antico baluardo della cattolicità verso i pericoli che venivano da Oriente ieri lespansione Ottomana, a metà ottocento la minaccia russa , anche se le vicende successive avrebbero mostrato lincapacità austriaca di rispondere fino in fondo alle attese di Roma: la stessa restaurazione del potere temporale avvenne, contrariamente ai desideri di Pio IX, con il concorso determinante della Francia, con cui i rapporti continuarono peraltro a restare problematici, a causa della politica ecclesiastica di Napoleone III. Non si può però parlare di totale appiattimento della Santa Sede sulle posizioni austriache: la svolta di Pio IX non aveva carattere legittimista, di mero ritorno agli equilibri pre-quarantotteschi. In quegli anni maturò piuttosto la scelta intransigente che avrebbe segnato il resto del suo lungo pontificato. 152 Slancio missionario, sentimento nazionale e Chiese particolari In questo contesto si inserì lopera missionaria di mons. Ramazzotti. Il suo sforzo paziente e tenace ha radici lontane, anzitutto nella sua stessa personale vocazione missionaria, che egli non seguì, in obbedienza alla volontà dei superiori, ma che continuò certamente a influire sui suoi orientamenti 25. Questa sua personale propensione lo rese sensibile ad analoghe vocazioni missionarie che si manifestarono in giovani sacerdoti della diocesi di Milano, da lui conosciuti personalmente o di cui ebbe notizia attraverso altri. La presenza di tali vocazioni attesta che la sensibilità missionaria, sempre più diffusa nel corso del XIX secolo, era giunta anche in Lombardia e qui si faceva sentire vivacemente, tanto che tra il 1845 e il 1846 «assistiamo ad una vera ventata di ideale missionario causato [...] da un gruppo di chierici del seminario di Milano e da alcuni giovani sacerdoti di Milano e di Lodi» 26. Non si trattava di un caso isolato: erano allora diffusi lo «zelo destendere oltre i mari e nelle più remote contrade il Regno di Dio» 27, la «carità che si slancia oltre i mari, oltre quellemisfero» 28, per usare espressioni allora frequenti 29. Insomma, come si legge nella Proposta di alcune massime e norme per lIstituto delle Missioni Estere, scritta nel 1850 durante i primi mesi di vita del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, «non è cosa nuova né rara tra noi il voto delle Missioni Estere, anzi ogni anno può dirsi che qualche pia e generosa anima, tra quelle educate nei Seminari di queste nostre Diocesi, facesse di per sé offerta a Dio, desiderosa di dedicarsi alla dilatazione del Santo suo Regno colle missioni tra gli infedeli» 30. Emergeva allora quella che Ramazzotti definì una «universale» aspirazione ad impegnarsi per la missione «fuori dalla Chiesa» SUIGO, Pio IX, cit., pp. 38-39. Ibid., p. 19. 27 COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, cit., p. 63. 28 Ibid., p. 68. 29 Ibid., p. 139. 30 Ibid., pp. 137-138. 25 26 153 lespressione coincideva in pratica con «fuori dallEuropa», fuori cioè dalla terra della cristianità tra quelli che venivano chiamati stranieri, infedeli, pagani e talvolta anche selvaggi. Su questo risveglio di interesse influì certamente lopera della Propagation de la Foi e lesempio delle nuove congregazioni missionarie sorte in Francia, oltre ad una serie di iniziative seppure complessivamente sfortunate maturate in Italia negli anni precedenti. È nota, inoltre, la particolare importanza rivestita da alcune figure, come quella di padre Lorenzo Marcello Supriès, già missionario del MEP a Pondichéry (India). A lui si rivolse un gruppo di giovani sacerdoti lombardi che avrebbero voluto «unirsi in una congregazione intitolata a San Francesco Saverio», ma che, nellimpossibilità di fondare a Milano una nuova congregazione, si proponevano comunque di andare in un paese di missione, preferibilmente in Micronesia. Essi speravano in una iniziativa che «possa dirsi missione milanese, oppure lombarda: e ciò per motivi che sembravano a loro fortissimi, tra i quali linteressare lamor della provincia a sostenerla, favorirla e procurarle sempre nuovi aiuti di missionari e di soccorsi temporali, il che forse non accadrebbe se fossero mescolati a missionari di altre nazioni, oppure se non si tenessero riuniti nelle stesse contrade». Quei giovani erano anche convinti che, favorendo la formazione di una comunità missionaria tutta lombarda e perciò animata da uno spirito di unione e di pace, si potesse sviluppare «unattrattiva fortissima per indurre altri lombardi ad unirsi a loro». Anche la preferenza per la Micronesia aveva qualche legame con questottica lombarda: tale preferenza nasceva da un suggerimento di padre Supriès, che ricordava tra laltro come in Micronesia il milanese padre Cantona avesse conosciuto il martirio nel 1731 31. Il legame con la Lombardia costituisce dunque un tratto caratterizzante di questo progetto missionario fin dallinizio. Tale carattere venne accolto ma anche perfezionato da mons. Ramazzotti. Egli infatti rispettò lintuizione iniziale di realizzare qualcosa di diverso da una congregazione missionaria e accolse anche lidea 31 154 Ibid., p. 107. di radicarla nel contesto milanese e lombardo, ma accentuò il senso ecclesiale di questo legame. Nelle intenzioni di quei giovani sacerdoti, il carattere lombardo della nuova iniziativa non esprimeva limitatezza di orizzonti o visuali provinciali, come dimostra proprio lintenso amore da essi manifestato per le missioni. Piuttosto, essi riflettevano un clima culturale e politico intensamente segnato da un senso di nazionalità sempre più diffuso e sempre più rilevante anche sul piano delle relazioni internazionali: pochi anni dopo, il sentimento nazionalistico sarebbe emerso in primo piano in tuttEuropa dando vita ai noti sconvolgimenti del 1848. Anche la Chiesa dovette in quegli anni misurarsi con le novità indotte al suo interno dalla «primavera dei popoli»: nel vivace clima di quegli anni, appassionate istanze di rinnovamento religioso si intrecciavano con problemi inediti nelle relazioni con Stati e opinioni pubbliche e, soprattutto, nei rapporti tra universalità e particolarità o tra papa e vescovi allinterno dellistituzione ecclesiastica. Latmosfera di quegli anni influì anche in campo missionario: la diffusione del sentimento nazionale e di spinte patriottiche accompagnò e favorì il risveglio dello spirito missionario, come sottolinea Piero Gheddo nel volume sui 150 anni del PIME. Il legame tra queste due prospettive di natura assai diversa fu talvolta molto stretto e si manifestò anche in numerosi scritti dellepoca. È il caso ad esempio del noto Primato degli italiani, in cui Gioberti fondava tale «primato» su basi morali collegandolo alla presenza di Roma sul suolo italiano, alla funzione universale del papato e allazione missionaria coordinata da Propaganda Fide. Il legame tra sentimento nazionale e spinta missionaria può apparire oggi piuttosto singolare, ma va considerato in relazione al desiderio, emergente nella società civile dellItalia di metà Ottocento, di realizzare una più esplicita proiezione internazionale della propria identità nazionale. Il sentimento patriottico che esprimeva tale aspirazione si traduceva anzitutto nel progetto di costruire un nuovo Stato nazionale sovrano, «alla pari» di altri Stati europei e come questi interessato anche a prospettive extraeuropee, ma si esprimeva indirettamente anche sul piano religioso attraverso un più vivo senso delle Chiese particolari 155 attestato dallecclesiologia dellepoca e presente anche in Rosmini 32 e favoriva lo slancio missionario di queste Chiese presso popoli lontani. Oggi è difficile immaginarsi collegamenti tra sentimento nazionale e impegno internazionale o, addirittura, tra sentimento nazionale e slancio missionario; ma questo sentimento rappresenta una realtà complessa, che cambia nel tempo: la sua forma prevalente in età romantica aveva caratteristiche dinamiche e proiezioni assenti nelle sue espressioni più recenti. A metà Ottocento, tuttavia, il collegamento tra sentimento patriottico e slancio missionario poneva anche problemi di difficile soluzione: mentre veniva declinando lantico sistema del padroado legato alle grandi potenze coloniali del XVII e XVIII secolo, come Spagna e Portogallo emergeva un interesse sempre più accentuato degli Stati nazionali, in particolare della Francia, a sostenere ma anche ad utilizzare le missioni cattoliche in una prospettiva di espansione della propria potenza nel mondo. I problemi che ne scaturivano hanno costituito una delle ragioni più rilevanti, ma forse anche meno indagate, del conflitto che nel XIX secolo ha opposto la Chiesa sempre più influenzata da tendenze ultramontane e sempre più organizzata secondo principi centralistici alle pretese degli Stati nazionali europei. Si tratta di problemi non facilmente visibili dal punto di vista delle Chiese particolari, presso le quali sentimento nazionale e interessi religiosi potevano apparire più facilmente componibili. Tali problemi, invece, emergevano con chiarezza a Roma, dove essi venivano considerati allinterno di un quadro dinsieme sempre più esteso, come attestano lintenso dibattito su questi temi che si svolse presso la Congregazione di Propaganda Fide e la complessa «politica missionaria» che questa congregazione adottò durante il pontificato di Pio IX. Liniziativa dei giovani sacerdoti milanesi che si recarono da padre Supriès si collocava nel contesto di una Lombardia sospesa tra perduranti legami con Vienna e nuove prospettive italiane. È 32 Di Rosmini parlò Pio IX a due giovani sacerdoti del Seminario delle Missioni Estere, sottolineando il pericolo dellelezione dei vescovi da parte del popolo. Cfr. ibid., p. 139. 156 indubbiamente significativo che tra quanti avvertivano allora lurgenza dellimpegno missionario e tra coloro che sarebbero poi entrati per primi nel nuovo Seminario per le Missioni Estere emergessero sentimenti filoitaliani 33: in questhumus fiorì quelliniziativa missionaria. Padre Supriès trasmise la richiesta di questi giovani sacerdoti a Propaganda e nel maggio 1846 ancora regnante Gregorio XVI il card. Franzoni rispose consigliando loro di mettersi sotto la guida di un vescovo missionario, non essendo disponibile una missione in Micronesia. Questa risposta però, facendo venire meno quella caratteristica dimensione «lombarda» che era a fondamento del progetto, implicava la dispersione del gruppo e quindi il fallimento delliniziativa prima ancora che avesse inizio. Tale esito mise in evidenza che lidea avrebbe potuto avere ulteriori sviluppi solo se fosse stata ripresa e mantenuta la dimensione specificamente lombarda. È quanto intuì mons. Ramazzotti, entrando in contatto con questi giovani che aspiravano ad andare in missione, come Paolo Reina di Saronno 34. Dopo il decisivo incontro del novembre 1847 con mons. Luquet, venuto a Milano per comunicare a mons. Romilli il desiderio di Pio IX che si creasse il seminario per le Missioni Estere, mons. Ramazzotti decise di impegnarsi concretamente per la realizzazione di questa iniziativa 35 e in questa prospettiva sviluppò una riflessione sul legame con il contesto milanese e lombardo che questa avrebbe dovuto avere. Tentando di superare la naturale resistenza dei vescovi e delle diocesi a «perdere» loro sacerdoti, egli approfondì in particolare lidea del «debito» missionario di ogni Chiesa particolare. In un appunto di padre Taglioretti la fondazione del Seminario per le Missioni Estere viene motivata con laffermazione che «per la conversione degli infedeli e la propagazione della Fede, ciascuna parte del mondo Cristiano deve fornire, quasi direbbesi, il suo contingente di milizia apostolica» 36. E nella Proposta di alcune massime e norCfr. SUIGO, Pio IX, cit., pp. 41 segg. Ibid., p. 40. 35 Ibid., p. 47. Su Luquet, cfr. Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis, Roma 1999, p. 107. 36 COLOMBO (a cura), Pime. Documenti, cit., p. 47. 33 34 157 me per lIstituto delle Missioni Estere si sostiene che «è interesse di ogni Chiesa particolare la dilatazione della Chiesa universale e che ciascuna delle Diocesi è in qualche modo tenuta a fornire per questo intento il suo contingente di milizia apostolica» 37. Questo debito e questo interesse comportavano la responsabilità dei vescovi di favorire vocazioni missionarie tra i sacerdoti diocesani. Nel promemoria fatto pervenire a Pio IX nel 1850, si legge che la casa per le missioni estere avrebbe potuto «essere cagione di moltissimi beni non solo per i gravi bisogni delle straniere Missioni, come altresì per accendere di più vivo zelo gli animi degli ecclesiastici, ai quali si aprirebbe così una nuova via di perfezionarsi e di sacrificarsi in pro delle anime» 38. In realtà, queste vocazioni si manifestavano già, ma spesso esse non riuscivano a giungere a buon fine, per limpreparazione di coloro che si recavano tra gli infedeli o per mancanza di adeguata assistenza. Di qui, lobbligo per i vescovi non solo di favorire ma anche di curare tali vocazioni e di fornire una adeguata preparazione ai missionari: nella citata proposta, il Seminario per le Missioni Estere viene presentato come iniziativa promossa dai vescovi lombardi per provvedere a tale esigenza 39. Questinsieme di considerazioni implicava anche una riflessione specifica sul ruolo dei singoli vescovi e dellepiscopato nel suo complesso nella missione ad gentes. Nella Proposta di alcune massime e norme per il nascente seminario, è presente il motivo iniziale che aveva spinto i giovani interlocutori di padre Supriès ad enfatizzare il carattere specificamente lombardo della nuova iniziativa. Vi si legge infatti: «queste spedizioni diocesane e provinciali stabilirebbero un vincolo tra le Chiese native dei Missionari e quelle che il loro zelo benedetto da Dio verrebbe a formare nelle popolazioni convertite e dovrebbe risultarne un impegno delle nostre Diocesi e province e proteggere gli interessi di quelle Chiese, le quali si raccomanderebbero a noi coi dolci titoli di una quasi parentela spirituale». Ibid., p. 139. Ibid., p. 74. 39 Ibid., p. 138. 37 38 158 Ma questo motivo appare ora inquadrato allinterno di una argomentazione più vasta. Vi si parla infatti di «santa cospirazione del nostro Episcopato col Padre Universale dei Fedeli nella grande opera della conversione delle genti» e di «attiva cooperazione dei Vescovi alla propagazione del Vangelo» partecipando allopera del «Supremo Capo» della Chiesa universale, diversa da quella delle «corporazioni religiose» e ancora più importante perché proveniente da «quelli che sono con Lui e sotto di Lui per divina istituzione più direttamente incaricati di continuare lopera affidata agli apostoli, di istruire nella fede e di convertire le nazioni» 40. La responsabilità missionaria enfatizza il ruolo dei vescovi nella Chiesa universale, ma sempre in comunione con il papa e sotto la sua guida, e induce allo sviluppo di nuove forme di cooperazione episcopale: il Seminario per le Missioni Estere fu ad esempio motivo di una riunione collegiale dellepiscopato lombardo, di cui Marinoni sottolineò limportanza 41. Siamo nella prospettiva poi sancita dal Vaticano I, che sul terreno missionario diede spazio alla dimensione della collegialità episcopale. Come infatti sottolineò allora il prefetto di Propaganda, il card. Alessandro Barnabò, «la cura di evangelizzare il mondo intero essendo stata affidata allintero episcopato, il quale come corpo deve avere un capo, che è il Romano Pontefice, lepiscopato collettivamente preso può a buon diritto interloquire sulle missioni» 42. Questi principi sono stati poi ripresi e ribaditi, comè noto, anche dal Vaticano II 43. Mons. Ramazzotti, insomma, seppe accogliere ed interpretare lo spirito del tempo, utilizzando lapporto positivo che ne poteva venire per la missione ad gentes. Egli però si preoccupò di collocare la spinta dei tempi entro un quadro totalmente ecclesiale, anche attraverso unattenta opera di definizione giuridica della fisionomia del nuovo seminario. Il coinvolgimento delle Chiese particolari nella missione ad gentes unimportante novità nella storia Ibid., pp. 139-140. Ibid., p. 203. 42 J. METZLER, Dalle missioni alle Chiese locali (1846-1965), Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990, p. 67. 43 SUIGO, Pio IX, cit., p. 129. 40 41 159 della Chiesa cattolica degli ultimi secoli fu inoltre da lui strettamente collegato e subordinato alle prospettive missionarie della Chiesa universale elaborate a Roma. Il Seminario per le Missioni Estere tra Vienna e Roma Lampia visione ecclesiologica che ispirò il progetto di mons. Ramazzotti non concedeva nulla alle Chiese particolari in termini di iniziativa missionaria autonoma rispetto alle direttive del papa e di Propaganda Fide. Nella Proposta del 1850 si legge infatti che «lIstituto dipende in primo luogo e di sua natura devessere intieramente ed assolutamente subordinato al Sommo Pontefice ed alla Sacra Congregazione di Propaganda». Questa netta affermazione riflette lelaborazione compiuta da mons. Ramazzotti tra il 1847 e il 1849 mentre, dopo le «cinque giornate», lincalzare degli eventi politico-militari gli impediva di metter mano concretamente al suo progetto. Il primo direttore del seminario, mons. Marinoni, ha raccontato la missione a Milano di mons. Luquet nel novembre 1847, scrivendo che in quelloccasione Pio IX fece «sentire quanto caro gli sarebbe tornato che il clero numeroso di queste province [...] e quella eletta schiera di buoni dogni ceto e condizione che tanto onorano la patria nostra, prendessero parte ad unopera di tanta pietà, qual si è la conversione degli infedeli» 44. Nel 1847, dunque, almeno secondo questa ricostruzione, Pio IX puntava sui vescovi e sulle Chiese particolari sulla Lombardia forse anche sulle risorse della società lombarda per sviluppare la missione ad gentes. Fin da allora il papa intendeva giungere alla realizzazione di un seminario «universale» per le missioni estere, un progetto ripreso più tardi dallo stesso mons. Ramazzotti e oggetto di uno studio specifico nel 1853 45. Ma, nellimmediato, la visita di mons. Luquet favorì anzitutto la ripresa dei progetti per uniniziativa specificamente lombarda. 44 45 160 Ibid., p. 49. Ibid., pp. 51 e 109. È inoltre significativo che allora, secondo quanto scrisse mons. Luquet in una lettera del gennaio 1848 ai dirigenti de la Propagation de la Foi, mons. Ramazzotti abbia espresso «non solamente un grande zelo per lopera de la Propagation de la Foi in generale, ma anche la convinzione profonda della necessità di collegarsi a Lione e di fare unopera unica come voi desiderate in Francia e come è intenzione formale degli associati dItalia, che non ne vogliono sapere di inviare i loro fondi in Austria» 46. Questa osservazione sembra indicare in Ramazzotti una certa attenzione verso il ruolo del mondo francese in campo missionario. Dopo le «cinque giornate», tuttavia, il suo comportamento fu apprezzato dal governo provvisorio di Milano, ma non dispiacque neanche al governo di Vienna: non si spiegherebbe altrimenti la sua nomina, alla fine del 1849, a vescovo di Pavia da parte dellimperatore Francesco Giuseppe 47. Forse, ciò che più interessava allora a Ramazzotti era salvaguardare le «energie lombarde», per così dire, che si erano messe in movimento, indipendentemente da quelli che sarebbero potuti essere i destini politici finali di Milano e della Lombardia. Dopo gli eventi del 1848-1849, la necessità di tener conto della volontà di Vienna divenne evidente. Sono note le attenzioni verso questo governo mostrate da mons. Ramazzotti nel corso della sua fatica, attenzioni che hanno destato non poca sorpresa in un uomo generalmente alieno da interessi politici 48 e oltretutto circondato da giovani inclini a sentimenti filoitaliani 49. In realtà, lattenzione agli interessi austriaci si radica in ragioni più profonde, collegate alla nuova opera che egli si proponeva di realizzare. Già il progetto iniziale dei giovani sacerdoti lombardi desiderosi di dedicarsi alle missioni ad gentes escludeva la fondazione di una nuova congregazione missionaria, per il veto posto dalle autorità politiche 50. In questo senso, si può parlare di un conIbid., p. 50. Ibid., p. 59. 48 Nel 1848-1849 la sua opera fu apprezzata sia dal Governo provvisorio che dagli austriaci, ibid., pp. 53-54. 49 Ibid., p. 55. 50 Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio cit., p. 105. 46 47 161 dizionamento iniziale del potere austriaco, che tuttavia svolse a suo modo una funzione positiva: obbligò infatti a cercare una strada nuova ed originale. Successivamente, il problema si ripresentò quando Ramazzotti decise di passare allazione. Egli sentì inizialmente la mancanza di istituti stranieri e «i pericoli duna via straordinaria senza straordinario apparecchio» 51 e fu consigliato da padre Supriès e da altri ad affiliare il nuovo seminario agli Oblati di Rho 52. Lipotesi di creare una nuova congregazione missionaria era in rebus, ma Ramazzotti abbandonò presto questipotesi. Secondo Scurati, ritenne più opportuno non costituire il Seminario delle Missioni Estere dipendente dagli Oblati per non intristirlo appena nato 53. Suigo a sua volta scrive che per Ramazzotti la nuova fondazione doveva avere fisionomia propria e previde che sarebbero scaturiti conflitti con Propaganda 54. Ma questo autore aggiunge anche che egli previde lopposizione del governo austriaco 55: il peso dellAustria sulle modalità di attuazione della nuova iniziativa missionaria venne assunto e in qualche modo utilizzato da mons. Ramazzotti nellelaborazione del suo ampio progetto. Da parte austriaca, si guardò inizialmente con sospetto alla nuova iniziativa che scaturiva da un mondo, quello della Chiesa milanese, considerato filoitaliano 56. Ramazzotti si preoccupò di rimuovere questi sospetti e in una lettera a padre Molteni, superiore degli Oblati di Rho, nel novembre 1849 scriveva: «Il Governo dovrebbe trovare opportuna ai suoi interessi la fondazione di una Casa per le Missioni estere [...] Mi permetta di presentarne una prova in ciò che ho letto sulla Storia generale della Chiesa del Barone Henrion [...]: Per lo meno è fuori di dubbio che lInghilterra vide con una gioia che non si studiò neanche di dissimulare la sua rivale [la Francia] privarsi da sé dei suoi vantaggi immensi che ritraeva dalle Missioni dei gesuiti in America e nelle Indie e si Ibid., p. 106. SUIGO, Pio IX, cit., pp. 61 e 112. 53 Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 110. 54 SUIGO, Pio IX, cit., p. 88 nota 28. 55 Ibid., p. 114. 56 Ibid., p. 56. 51 52 162 può dire di fatto che dopo rovina delle Missioni la potenza Francese in quelle contrade andò sempre declinando» 57. In questa prospettiva, Ramazzotti preparò un testo che poi Romilli trasmise allautorità austriaca, in cui si sottolineava: La novità e affatto speciale importanza di siffatta impresa consiste in ciò, che si avrebbe una casa diocesana di Missionari dipendente dal proprio Vescovo. Non sarebbero quindi alcuni sacerdoti (come avveniva in passato) che per dedicarsi alle missioni estere si staccano dalla propria Diocesi e dal paese proprio, cercando altrove leducazione a sì sublime ministero, ed aggregandosi perciò a qualche famiglia o a qualche estero Istituto [...] senza bisogno di abbandonare la propria patria e la propria Diocesi. [...] La progettata Casa di Missioni estere [...] presenterebbe anche un grande interesse nei rapporti politici e asseconderebbe le generose intenzioni dellAugusto nostro Sovrano e del suo Eccelso Ministero. Sarebbe infatti questo un principio di Missioni estere nazionali che coprendo in lontane regioni sotto la protezione della bandiera austriaca la renderebbe anche colà più rispettosa e cara, dividendosi così colle altre nazioni, e principalmente colla Francese, quellalta influenza morale-politica che indubbiamente esercitano cotali Missioni 58. La risposta da parte del luogotenente austriaco manifestava le perplessità di Radetzky sugli scopi delliniziativa e sui legami che avrebbe avuto con gli Oblati di Rho 59: si temeva che il nuovo istituto fosse un «covo» antiaustriaco 60. La risposta preparata da Ramazzotti insisteva sulla conformità con le intenzioni del papa e di Propaganda e sottolineava la totale indipendenza del nuovo seminario rispetto agli Oblati di Rho 61. Passato un certo tempo, il governo austriaco diede il suo pieno 62 consenso alliniziativa: il luogotenente Schwazemberg manifestò «lassicurazione del più vivo interesse per il prosperamento dellIstituto [...] che prometterebCOLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti cit., p. 56. Ibid., pp. 83-85. Taglioretti critica queste aperture: ibid., p. 91. 59 SUIGO, Pio IX, cit., p. 89. 60 Ibid., p. 106. 61 Ibid., p. 90. 62 Lo sottolinea Marinoni: ivi, p. 108. 57 58 163 be tanto bene per la Chiesa e per lo Stato», esprimendo tra laltro la previsione che sarebbero state offerte «ad essa Congregazione quelle rilevanti somme che ora si spediscono ad altri consimili istituti allestero» 63. I cenni agli interessi austriaci sembrano indicare in Ramazzotti la consapevolezza della situazione creatasi tra il 1848 e il 1849 e dei gravi problemi che si ponevano allora alla Chiesa cattolica, condizionata dall«aiuto» imposto dalla Francia in tanti campi allo scopo di influenzare luniversalismo cattolico in senso conforme ai suoi interessi. I vincoli posti dalle autorità austriache contribuirono ad accentuare la scelta di mettere listituto alla diretta dipendenza dei vescovi lombardi, escludendo del tutto qualunque «esenzione» tipica di una congregazione religiosa. Le regole dovevano mettere in chiaro che non si trattava di un ordine religioso (di qui lesigenza di non fare voti neanche temporanei 64): i seminaristi restavano incardinati nelle rispettive diocesi 65. Per ogni cosa, il riferimento era ai vescovi: latto formale di erezione fu compiuto da parte dei vescovi lombardi e le regole vennero a loro sottoposte. È significativo che in un documento per il governo austriaco si giunga ad usare lespressione «appendice del seminario vescovile» per indicare il nuovo Seminario delle Missioni Estere. Ai vescovi veniva anche affidata la responsabilità di tenere le relazioni con Roma. Nel promemoria per il papa si parla della missione assegnata da Propaganda a cui si chiederebbero anche le norme per i corsi di studio e per la formazione in genere. Si affermava: «faremo più esplicita professione che non vogliamo dare nulla ai vescovi che sia incompatibile colle attribuzioni dellAutorità suprema». Il superiore, nominato dai vescovi, doveva essere approvato da Propaganda e anche la destinazione dei missionari doveva essere scelta da questultima. Lapprovazione del papa comunicata dal card. Fransoni parla di «erezione di un collegio con la dipendenza e in servizio di Propaganda» 66. COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti, cit., p. 130. Ivi, pp. 114 e 115. 65 Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 136. 66 SUIGO, Pio IX, cit., p. 81. 63 64 164 È evidente lattenzione di mons. Ramazzotti nel curare il collegamento tra dimensione universale del cattolicesimo e concreta azione missionaria, tra indicazioni romane e Seminario Lombardo per le Missioni Estere. È quanto emerge chiaramente dalla già citata Proposta. Permettere ai sacerdoti diocesani la scelta missionaria come via di perfezionamento spirituale, suscitare vocazioni missionarie, curare la loro formazione e assisterli nel loro impegno costituiva per Ramazzotti compito delle Chiese particolari della Lombardia e in particolare responsabilità dei vescovi; ricevere le facoltà opportune, sanzionare in via definitiva il regolamento del seminario, stabilire il luogo di missione e fornire ai missionari le necessarie «patenti» spettava invece a Propaganda. Il seminario da lui fondato ha dunque una duplice natura: da una parte diocesana, o meglio provinciale, nel senso di essere al servizio di più diocesi della stessa provincia ecclesiastica; dallaltra universale. Mons. Ramazzotti si adoperò con grande sensibilità ecclesiale e giuridica per armonizzare questa duplice natura e per impedire la formazione di contrasti. Era però inevitabile che potessero emergere differenze tra le diverse volontà che egli aveva cercato di raccogliere in ununica realizzazione. È quanto si verifica nella questione della destinazione dei nuovi missionari. La preferenza per la Micronesia, presente fin dallinizio, fu riproposta nel momento dellapertura del seminario a Propaganda 67, a cui fu comunque chiesto di pronunciarsi perché in base al luogo di destinazione potesse essere meglio organizzata la preparazione dei futuri missionari. Lingua, cultura, clima ed altro costituiscono infatti variabili decisive, che possono richiedere tipi di preparazione molto diversi. Propaganda tuttavia non dette immediata risposta, mentre sollecitava Ramazzotti a procurare uno o due sacerdoti per lufficio di procuratore di Propaganda in Hong Kong per le missioni in Cina e di prefetto apostolico dellisola. Intanto, Marinoni chiedeva ai vescovi di insistere per la destinazione, con preferenza degli alunni per la Micronesia, ottenendone lassenso 68. 67 68 Ibid., p. 91. Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 135. 165 Nel luglio 1851, per definire operativamente la destinazione, fu inviata a Roma una delegazione a cui il papa espresse il desiderio di avere in Roma un seminario o collegio per le missioni a sua piena disposizione, accennando nello stesso contesto allisola di Corfù (Grecia). Nello stesso senso si espresse il breve del 30 agosto 69. Nel marzo 1852 il card. Fransoni fissò le prime partenze, mentre i preparativi del febbraio 53 furono bloccati da Propaganda 70: i problemi non sono ancora risolti e una sorta di tempesta sembra addensarsi su tutta lopera 71. Il promemoria del 1853 ribadì però la piena subordinazione alle indicazioni romane e nelludienza concessa dal papa a mons. Ramazzotti il 29 settembre 53 tutte le tensioni vennero appianate. Pio IX si accontentò dellofferta di obbedienza assoluta e rinunciò ad insistere su Corfù: la via verso lOriente era definitivamente aperta. Ibid., p. 138 e SUIGO, Pio IX, cit., pp. 137, 140 e 141. Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 140. 71 Ibid., p. 141. 69 70 166 EVOLUZIONE E ATTUALITÀ DEL CARISMA DEL PIME di Domenico Colombo Premessa Il carisma può essere riferito, con significati diversi ma in relazione tra loro, al fondatore, alla fondazione originaria, allistituto come si presenta oggi, dopo 150 anni di storia. È chiaro che il titolo dato a questo capitolo chiama in causa direttamente il terzo significato, ma esso non può prescindere dagli altri due. Inoltre il carisma, sia di mons. Angelo Ramazzotti come fondatore, sia quello originario della fondazione, cioè del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, resta un punto necessario di partenza per comprendere levoluzione e lidentità del carisma dellistituto che dal 1926, in seguito allunione con il Pontificio Seminario dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Roma, porta il nome di Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME). Da aggiungere una motivazione di evidente peso: questo volume è tutto centrato sulla figura e lopera di mons. Ramazzotti. Non si può prescindere da lui perciò, e a maggior ragione trattando dellistituzione che trova alla propria origine la fondazione a lui dovuta. Così il mio discorso si articolerà nelle seguenti tre parti: I. Mons. Ramazzotti come fondatore. II. Identità della fondazione o carisma originario. III. Evoluzione e attualità del carisma dellistituto. Padre Domenico Colombo è bibliotecario della casa generalizia del PIME a Roma. Cura le pubblicazioni «Infor-Pime» e «Quaderni di Infor-Pime», inoltre collabora con diverse riviste missionarie. Ha recentemente curato la pubblicazione PIME (1850-2000). Documenti di fondazione. 167 Una precisazione previa richiederebbe pure il termine «carisma» nella sua applicazione agli istituti e ai loro fondatori. Il problema è complesso e oggetto di non poche discussioni in cui emergono opinioni differenti. Al riguardo basti qui ricordare alcuni punti importanti in connessione al nostro tema. «Carisma» designa in generale un dono di Dio. Lodierna teologia lo definisce un dono soprannaturale dello Spirito, dato in vista dellutilità o comunque delledificazione della Chiesa. Lapplicazione del termine agli istituti è un fatto piuttosto recente, avvenuto nel post-concilio. Il Vaticano II, parlando della vita e delle famiglie religiose, ne attribuisce lorigine allimpulso dello Spirito, pur non usando il termine «carisma». Uneccezione si può vedere nel decreto Ad Gentes n. 23 che, trattando della vocazione degli istituti missionari, ne afferma la provenienza dallo Spirito «che dice distribuisce come vuole i suoi carismi per il bene delle anime». Ma nel periodo post-conciliare luso del termine in riferimento agli istituti è divenuto comune nei documenti ecclesiali e ha suscitato unampia riflessione teologica per approfondirne senso, natura, contenuto, distinzioni e aspetti vari. Ne farò qualche cenno quando sarà opportuno per il caso nostro 1. Mons. Ramazzotti come fondatore a) Il problema Chiedersi se mons. Angelo Ramazzotti fu fondatore del Seminario Lombardo per le Missioni Estere suona oggi irriverente e antistorico, dopo gli studi e gli scritti di padre G.B. Tragella. E si può provare un po dimbarazzo anche quando si parla, non solo 1 Su carisma, fondatori, istituti esiste unampia bibliografia. Si veda, fra gli altri: FABIO CIARDI, I Fondatori, uomini dello Spirito. Per una teologia del carisma di Fondatore, Città Nuova, Roma 1982; ID., In ascolto dello Spirito. Ermeneutica del carisma dei Fondatori, Città Nuova, Roma 1996. 168 dellistituzione missionaria lombarda, ma di istituto o di PIME. La questione merita dessere presa in considerazione perché aiuta a capire come mai la figura di Ramazzotti sia stata nel passato alquanto dimenticata nel nostro stesso istituto. Nellagosto del 1956 appariva su «Il Vincolo», la rivista ufficiale interna del PIME, un articolo sul fondatore dellistituto. Lautore, a firma M.M., pone una serie di obiezioni e difficoltà a chiamare Ramazzotti «fondatore», attingendole dagli stessi eventi e documenti relativi alla fondazione. In breve: Ramazzotti non fondò da solo il seminario, la cui idea non gli apparteneva in proprio; verso lo stesso traguardo si muovevano molte personalità di primo piano come Pio IX, larcivescovo di Milano Romilli, loblato Taglioretti, il certosino Supriès, il primo direttore mons. Marinoni; il documento di erezione ufficiale porta la firma dei vescovi lombardi; non va neppure dimenticata la parte che nella fondazione ebbero i primi alunni; inoltre in libri e periodici dellistituto si parla spesso di «fondatori» al plurale, ecc. Alla fine, M.M. esprime il desiderio che «venga dichiarato in modo definitivo il nome del fondatore dellIstituto». Padre Tragella risponde che molti vocaboli, come «fondatore», hanno un senso stretto e un senso largo; che nelle imprese umane parecchie persone possono concorrere in vario modo per la loro concezione e attuazione, ma conta chi manda a effetto unidea, in modo che senza di lui non si sarebbe realizzata, almeno in quel certo tempo e modo. Ramazzotti ha svolto unazione propria e specifica che gli merita la qualifica di fondatore in senso stretto e unico. Ciò è ormai scritto nella storia, e non cè bisogno di doverlo dichiarare 2. Nel numero seguente de «Il Vincolo» un anonimo torna alla carica, appellandosi anchegli alla vicenda complessa della nostra fondazione e alle diverse espressioni dei documenti. E perfino, possiamo aggiungere, alle lapidi. Sotto il porticato della casa madre di Milano ci sono due lapidi, collocate nel 1956, di cui una parla di Ramazzotti come «ideatore e iniziatore del primo cenaco2 «Il Vincolo», n. 63, agosto 1956, pp. 14-15. 169 lo missionario italiano», e laltra esalta Pio IX e Pio XI (sotto cui avvenne lunione dei seminari missionari di Milano e di Roma) come «fondatori e padri» del Pontificio Istituto Missioni Estere 3. Ancora una volta bisogna distinguere i diversi sensi delle parole e i diversi oggetti considerati, per cui si può ben dire che il PIME nasce nel 1926 formalmente, e conta tuttavia 150 anni di vita risalendo alle sue origini. b) Lopera di fondatore Ma qual è stata lazione concreta e propria di mons. Ramazzotti in ordine alla fondazione del Seminario Lombardo per le Missioni Estere? Cè anzitutto un fatto che lha preparato alla futura impresa. Fin da giovane Ramazzotti sente il desiderio di consacrarsi alle missioni tra gli «infedeli» e ancora da sacerdote cerca di soddisfarvi, come nota Scurati. Direttori spirituali e superiori lo dissuadono. «Il buon giovane sacquietò alla volontà del Signore; ma il desiderio di questo bene non estinto, fu seme nascosto sotto terra: quando Dio mandò la pioggia, germinò e crebbe». Scurati vuol dire che Ramazzotti, il quale era pure un lettore appassionato degli «Annali della Propagazione della Fede» e della vita e degli scritti di san Francesco Saverio, cominciò a pensare di tradurre linclinazione personale alle missioni in una istituzione per preti diocesani missionari, di cui da tempo si sentiva il bisogno 4. A questa decisione giunse attraverso eventi in cui lesse unispirazione di Dio. Il primo chiaro segno arriva nel novembre 1847 con mons. Luquet, già missionario e vescovo in India, inviato da Pio IX in Svizzera per unopera di pacificazione, con lincarico di far sosta a Milano per esprimere allarcivescovo Romilli il desiderio del papa di veder sorgere un seminario per le missioni estere «Il Vincolo», n. 64, gennaio 1957, p. 9. DOMENICO COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, EMI, Bologna 2000, p. 14. 3 4 170 sul tipo di quello di Parigi. Luquet trova larcivescovo dagli Oblati di Rho, intento agli esercizi spirituali, e così il suo messaggio giunge a Ramazzotti, allora superiore del Collegio degli Oblati. Uno sprazzo di luce. Scurati nota che don Angelo «approfittò delloccasione per rendere meno ridicola (son sue parole) la premura di formare questo Seminario» 5. Gli eventi politici del Lombardo-Veneto e di Roma bloccano ogni iniziativa per due anni e poi riprendono a ritmo serrato dall11 novembre 1849, e il protagonista è proprio Ramazzotti. A lui Supriès, già missionario MEP e ora vicario della certosa di Pavia dove i sacerdoti aspiranti alle missioni si danno appuntamento, dice adesso chiaro e tondo che deve assumere la direzione dellimpresa. Lui, spinto da padre Molteni, superiore generale di tutti gli Oblati, e da mons. Romilli, a nome di questi stende la supplica in cui si parla del «progetto di mons. Ramazzotti Vescovo nominato di Pavia», e che il canonico Bertinelli inoltra a Pio IX il quale lapprova il 26 febbraio del 1850. È lui che contatta i vescovi lombardi nella primavera dello stesso anno, per metterli al corrente di questo progetto e ottenerne ladesione. È ancora lui che, con molta pazienza e umiltà, convince il card. Tosti a liberare Marinoni dalla cura di S. Michele a Ripa in Roma. Lui infine che, autorizzato da Romilli, apre il seminario nella sua casa di Saronno, il 31 luglio, e ha un ruolo primario nella compilazione della Proposta con le massime e norme per il nascente istituto. Senza dubbio a Ramazzotti si devono gli stessi documenti, a firma di Romilli, richiesti dal governo per approvare la fondazione 6. Certo, in tutto questo Ramazzotti non è solo. È sostenuto e aiutato dal desiderio di Pio IX, dallapertura di Romilli, dagli stimoli di Supriès, dal grande apporto del sacerdote oblato Taglioretti chiamato perciò «coistitutore», e altri tra cui gli stessi sacerCOLOMBO (a cura), op. cit., p. 15. Per tutti questi eventi, a livello di documenti, v. COLOMBO (a cura), op. cit.; a livello di storia, v. GIOVANNI B. TRAGELLA, Le Missioni Estere di Milano nel quadro degli avvenimenti contemporanei. I. Dallerezione dellIstituto alla morte del Fondatore, PIME, Milano 1950. 5 6 171 doti primi alunni del seminario. Ma tutti costoro indicano Ramazzotti come «motore, promotore, istitutore» della nuova istituzione. Quando Marinoni invia ai vescovi lombardi una copia della Proposta, vi unisce una lettera dove si parla di Ramazzotti come di colui «che primo ideava, promuoveva e iniziava sì bellopera» 7. Espressioni del genere si ritrovano nei testi degli altri collaboratori a diverso titolo. Certo, non si legge la parola «fondatore» in tutti questi documenti. Ma le ragioni sono ovvie. Limpresa è frutto di un concorso vario di persone e autorità; di proposito si vuol dare risalto al ruolo dei vescovi nellerezione formale, per cui sono chiamati anche «istitutori»; e Ramazzotti è il primo a tener conto di tutto ciò, anche se Marinoni gli scrive, senza tema di smentita, che il nascente istituto deve a lui «la sua esistenza, la sua vita» 8. c) Il carisma di fondatore Allazione di fondatore corrisponde in Ramazzotti un carisma di fondatore. Cioè, egli opera in forza di unispirazione e di una spinta che gli vengono dallalto e costituiscono un dono dello Spirito, in concreto un carisma, anche se ai suoi tempi questo termine non era in uso per indicare tale dimensione soprannaturale. Parliamo inoltre del carisma di fondatore, non del fondatore. Gli studiosi della materia danno differente senso alle due espressioni e non sono daccordo sul loro uso. Il carisma del fondatore richiamerebbe una specificità originale in quanto iscritta nella persona e nellesperienza concreta del fondatore, esperienza che i membri dellistituzione in questione sono chiamati a custodire, vivere, approfondire come discepoli, per cui spesso prendono il nome da lui, come i Francescani da S. Francesco, i Domenicani da S. Domenico, ecc. Il carisma di fondatore si limita al dono conferito dallo Spirito a una persona perché possa realizzare una data fondazione. Questo sembra rispondere al caso nostro. Ramazzotti non pre7 8 172 COLOMBO (a cura), op. cit., p. 183. Ibid., p. 179. senta una particolare esperienza dello Spirito che, dopo aver plasmato la sua persona, offra un modello per i membri della sua istituzione. Ma la sua attività di fondatore, reale pur entro certi confini, è la risposta a una mozione dello Spirito, unopera che non si colloca solo su un piano umano ma è guidata dallalto. Ciò appare dalle convinzioni e affermazioni di persone coinvolte nelliniziativa, a cominciare dal Ramazzotti stesso. Do alcuni esempi, pur essendo consapevole che qui occorrerebbe un più approfondito studio. Scrivendo a Marinoni il 6 novembre 1850, con uno sguardo rivolto al percorso complessivo del cammino di fondazione Ramazzotti dice: «Quel Dio che solo ispirava il pensiero di codesta novella Fondazione, che ne disponeva i mezzi, che vi rimoveva gli ostacoli, vorrà bene, io spero, anche in avvenire proteggere e benedire lopera sua» 9. Ma pure parecchi momenti o aspetti di questo cammino sono sentiti da Ramazzotti come una spinta dallalto, a dispetto delle difficoltà e incertezze personali. Così lattrattiva a far nascere unistituzione di missioni estere per i sacerdoti, dopo che la sua non aveva avuto uno sbocco. Scurati sottolinea che, nellottobre 1849, Ramazzotti diresse il ritiro dei Santi Esercizi «a ottenere dal Signore lumi particolari su quanto andava meditando», cioè la fondazione, e aggiunge: «In esso provò divozione a S. Carlo assai più viva dellordinario, e si trovò confermato nel buon proposito» 10. Dopo lincontro col Supriès già ricordato e gli avvenimenti che seguirono, il fondatore si lascia alle spalle ogni dubbio o timore, come uno che sente di dover rispondere a una chiara ispirazione, a un preciso volere di Dio. Sulla stessa linea si esprime larcivescovo Romilli nella lettera a Ramazzotti per autorizzare la riunione dei primi candidati: «Il Signore che ha ispirato a Lei, Monsignore, il disegno di questa santa impresa e che laiutò fin qui con sì visibile protezione, degnasi prosperarla» 11. E pure Marinoni, con molti altri, ritiene che Dio ha scelto Ramazzotti per progettare, promuovere e portare a comIbid., p. 200. Ibid., p. 15. 11 Ibid., p. 122. 9 10 173 pimento la fondazione, e giudica questa unopera di Dio che, dice Taglioretti, è «segnata di molti contrassegni del divino aggradimento» 12. In conclusione: Dio ispira, conduce, realizza, attraverso mons. Ramazzotti, il suo disegno. E Ramazzotti e altri ne hanno piena coscienza. Così il seminario nasce come un dono dello Spirito da incarnare nella vita e nella storia di coloro che sono chiamati a farvi parte. Identità della fondazione o carisma originario Dal fondatore passiamo alla fondazione: il Seminario Lombardo per le Missioni Estere. È necessario conoscerne lidentità per poi parlare di evoluzione e attualità dellistituto. La fondazione è qualcosa di diverso dal carisma del fondatore: è il risultato concreto della sua opera, che nel nostro caso si compie attraverso una larga e varia cooperazione di persone e autorità. Tale concorso convergente di sforzi ha importanti implicazioni. Esso non diminuisce in sé il ruolo del fondatore, perché rientra nel suo compito convogliare, con discernimento, ogni apporto verso il fine. Di fatto, Ramazzotti accoglie e cerca contributi, ma anche li esamina, li vaglia, lasciandosi guidare dai lumi dellalto, e talora prende direzioni diverse da quelle suggerite. È il caso del legame della fondazione con gli Oblati di Rho, o della futura sede stabile, cose in cui egli opta per soluzioni diverse da quelle preferite da Taglioretti, volendo che il seminario non abbia legami istituzionali con gli Oblati e si stabilisca in seguito, dopo Saronno, a Milano e non a Pavia. Tuttavia, il fatto che la fondazione sia frutto di un concorso di persone e autorità a diversi livelli risponde già di per sé alla natura dellopera progettata: un seminario provinciale, della provincia ecclesiastica lombarda, per le missioni estere. È solo in un ampio orizzonte di molteplici volontà che esso può costituirsi nella sua 12 174 Ibid., p. 67. identità. La fondazione, infatti, non va considerata come un oggetto, una cosa, ma una realtà viva, formata da persone che si sentono spinte a unirsi per determinate finalità e modalità di vita, onde realizzare un disegno ispirato da Dio. Nellidentità dellistituzione si traduce ciò che si chiama il carisma originario, distinto dal carisma distituto che ne è il prolungamento nella storia e di cui diremo. Ma quali sono le componenti essenziali dellidentità del Seminario Lombardo per le Missioni Estere? a) Intenzioni e ideali fondanti Se ci si domanda «perché questa nuova fondazione? a che cosa mira? su quali basi si vuole stabilirla?», la risposta di fondo non può che essere data da quellinsieme di valori e ideali che giustificano la fondazione stessa, che costituiscono il nucleo essenziale e irrinunciabile del carisma originario, che sono causa e modello della realizzazione concreta, anche se questa non riuscirà mai a tradurre adeguatamente tutte le esigenze ideali. Ora, le intenzioni e gli ideali fondanti del seminario iniziato a Saronno sono raccolte nella Proposta di alcune massime e norme per lIstituto delle Missioni Estere 13. Questo testo è la magna charta del nascente istituto, pensata per vari aspetti già nel periodo di preparazione ed elaborata formalmente nei mesi di agosto e settembre del 1850, subito dopo lapertura del seminario, a opera di un gruppo comprendente mons. Ramazzotti, Marinoni, Taglioretti e i primi alunni presenti. Il testo veniva offerto come «proposta» allapprovazione dei vescovi lombardi e di Propaganda Fide, donde il suo nome. Esso si compone di una «avvertenza preliminare sulla natura e lordinamento dellistituto» e di un corpo in tre parti dove si tratta ampiamente degli «offici» o compiti dellistituto verso i suoi membri. È nellavvertenza che si trovano le intenzioni e gli ideali fondanti. Eccone una sintesi: 13 Ibid., pp. 133-177. 175 Il seminario viene fondato come espressione e strumento del dovere missionario dei vescovi lombardi e delle rispettive Chiese, «considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dilatazione della Chiesa universale» 14. Esso risponde al bisogno concreto di offrire al clero (poi si specifica che i candidati sono sacerdoti diocesani, chierici prossimi al sacerdozio e anche laici come catechisti), che si sente chiamato alle missioni estere, «laiuto di qualche mano potente» 15 che assicuri la realizzazione di questa vocazione; appunto, una fondazione voluta e sostenuta dallarcivescovo di Milano e dai vescovi comprovinciali, che metta in atto quanto si richiede per raggiungere lo scopo. La nuova istituzione intende manifestare la «santa cospirazione del nostro Episcopato col Padre universale dei fedeli nella grande opera della conversione delle genti» 16. Questo pensiero viene ribadito con energia affermando che «se è permesso in una Proposta stabilire qualcosa di fisso e immutabile, fisso e immutabile vorrebbe stabilirsi questo principio: [...] che, cioè, sotto gli auspici e per mano dei vescovi, anzi per commissione loro e loro autorità, intende lIstituto offrire umilmente i suoi servigi al Sommo Pontefice e alla Sacra Congregazione di Propaganda» 17. Le spedizioni missionarie mirano a creare tra le Chiese dorigine e quelle che nasceranno dallopera dei missionari, il vincolo di «una quasi parentela spirituale» 18. Ben lungi dal sottrarre forze alle Chiese locali, listituzione è un incentivo per lo sviluppo e la formazione delle vocazioni sacerdotali in patria, dato il risveglio di fede che le vocazioni missionarie suscitano e il fatto che esse costituiscono una chiamata al sacerdozio portata al suo pieno sviluppo. Questi punti (e non sono tutti) attestano una concezione di Chiesa, missione e comunione in anticipo di oltre un secolo, perIbid., p. 139. Ibid., p. 138. 16 Ibid., p. 139. 17 Ibid., pp. 140-141. 18 Ibid., p. 140. 14 15 176 ché questa visione diverrà comune soltanto col Concilio Vaticano II. Essi sono ordinati nella Proposta a far comprendere in profondità ragioni, finalità e caratteristiche della fondazione. Da essi derivano i tratti essenziali che qualificano il nostro carisma originario. Li presentiamo, ora, distintamente per necessità e chiarezza di discorso, ma non va dimenticato che sono aspetti connessi di un tutto. b) Caratteristiche essenziali Qui ci serviamo di tutta la Proposta e di altri documenti di fondazione come fonti, ma senza dilungarci in citazioni. Possiamo riassumere i tratti che qualificano il nostro carisma originario nei seguenti tre. Le missioni estere come finalità esclusiva e totale. È tanto chiara questa finalità che non si prova neppure il bisogno di spiegarla. Allora non si correva il rischio di confusioni: fondare un seminario per le missioni estere voleva dire inequivocabilmente avere come fine «propagare la fede cattolica tra gli infedeli», come chiarisce la lettera a firma di Romilli, inviata al R.I. luogotenente della Lombardia per mostrare che non cerano legami tra la progettata fondazione e gli Oblati del Collegio di Rho; questi facevano missione in patria, gli alunni del nuovo seminario andavano allestero, tra i non cristiani. Si insiste, se mai, nel desiderio di vedersi assegnato un campo di lavoro lontano, un terreno vergine o abbandonato, proprio come la Melanesia e Micronesia, tanto sospirate. Il cosiddetto incidente di Corfù 19 dove Pio IX avrebbe desiderato mandare i nostri, senza peraltro pronunciarsi con chiarezza in materia servì a mettere in evidenza la finalità propria per cui listituto era sorto e che lo differenziava, con altri aspetti, dal Sullincidente di Corfù v. PIERO GHEDDO, Pime, 150 anni di missione (18502000), EMI, Bologna 2000, pp. 55-57, 80-81. 19 177 futuro Seminario Missionario di Roma (1872), che invierà i suoi membri anche in paesi cristiani ma scarsi di clero. Del resto tutti gli «uffici» o compiti dellistituto erano ordinati a formare apostoli per le missioni estere tra gli «infedeli», impegnando in questo tutta la loro vita e tutte le loro energie. «Il sacrificio che fanno di se stessi, gli alunni allopera delle Missioni, è di sua natura pieno e irrevocabile» 20. Istituto di sacerdoti diocesani e laici. È per loro che viene fondato, senza mai trasformarsi in una congregazione religiosa, né accogliere una proposta avanzata poi dintrodurre una qualche forma di voti privati per i membri laici. Del resto, i candidati sacerdoti restano incardinati nelle rispettive diocesi e fanno domanda di entrare nel seminario missionario sia al direttore sia al proprio vescovo. Come si legge nella Supplica di Marinoni alla Conferenza episcopale lombarda: «Nellobbedire agli impulsi della divina vocazione, i Missionari non intendono di separarsi se non materialmente dai loro venerabili Pastori, né di interrompere giammai quella dolce corrispondenza daffetto e di spirituale parentela che nella sacra Ordinazione hanno con essi contratto» 21. Cè di più. Non solo i membri, ma anche listituto come tale riveste questa particolare nota di ecclesialità, in quanto espressione del dovere missionario dei vescovi che sono suoi istitutori. Dice lAtto di erezione: «Il sottoscritto Arcivescovo di Milano in uno con tutti i Vescovi suoi Comprovinciali [...] hanno risoluto di istituire come di fatto istituiscono col presente atto il detto Seminario delle estere Missioni» 22. Un fatto nuovo e unico in Italia. Il futuro Seminario Missionario di Roma dallinizio incorporerà col giuramento i suoi membri, solo sacerdoti, allistituto, che dipenderà unicamente e direttamente dalla Santa Sede. Il legame ecclesiale a livello di Chiese particolari si combina col vincolo a livello di Chiesa universale. Nellordinamento esterCOLOMBO (a cura), op. cit., p. 171. Ibid., p. 207. 22 Ibid., p. 213. 20 21 178 no si precisa che listituto dipende in primo luogo da e di sua natura è subordinato interamente e assolutamente al Sommo Pontefice e a Propaganda, da cui riceve la missione e le facoltà missionarie. Ma queste relazioni sintrecciano con lautorità ecclesiale locale. Larcivescovo nomina il superiore, daccordo con i vescovi comprovinciali; tutti, poi, intrattengono col seminario rapporti dinformazioni, visite, presenza a cerimonie significative, ecc. Famiglia di apostoli, o dimensione comunitaria e spirituale. La fondazione è chiamata sia seminario sia istituto, ma sbaglierebbe senzaltro chi la intendesse come un semplice mezzo per preparare e inviare personale nelle missioni. Essa si vuole, ed è detta, famiglia, famiglia comune, famiglia spirituale. Ha un ordinamento, uno spirito, una norma. Non intende solo provare con cura le vocazioni, coltivare le disposizioni richieste per le missioni, ma anche e soprattutto assistere i soggetti in partenza, sul campo del lavoro, e in caso di necessario ritorno. Anzi, viene detto espressamente che questufficio indicato per ultimo in sequenza cronologica, è il primo in ragione di valori a cui gli altri due sono ordinati. Listituto è proprio nato perché effettivamente i sacerdoti ma anche i laici, i non religiosi, potessero rispondere alla vocazione missionaria. Ciò esige un seminario o istituto che sia una famiglia vincolata da uno spirito. In proposito si possono leggere nella Proposta tanti passi che illustrano necessità, contenuti e frutti della dimensione comunitaria e spirituale, intesa a «creare quella uniformità di metodo, di spirito, che è la forza degli Istituti» 23. Un brano ci pare meriti dessere riportato: Laver compagni e una Casa che pensa a ordinarne, legarne e dirigerne stabilmente e autorevolmente lassociazione e i loro comuni intenti; laver a capi dellimpresa i Vescovi loro medesimi; il lasciare nella patria, cui danno addio, chi si rammenta di loro e stende fino ad essi, per quanto puossi a immense distanze, le cure, le orazioni, i pensieri; 23 Ibid., p. 150. 179 lentrare sul campo delle funzioni, e loperarvi colla fiducia e colle forze non di un individuo, ma dun Istituto; il poter promettersi nelle loro intraprese una continuazione di opere e di successori; la stessa dolce aspettativa di queste nuove spedizioni, o dellarrivo di Missionari membri di una comune famiglia, questi e altri sono i vantaggi, i quali formano la sostanza dellassunto e la condizione necessaria dello stabilimento che viene ad iniziarsi 24. Evoluzione e attualità del carisma dellistituto Dal carisma originario passiamo al carisma dellistituto, che è il prolungamento del primo nella storia, senza soluzione di continuità con le origini, ma in fedeltà dinamica, capace di attualizzarlo e incarnarlo in tempi e situazioni nuovi. Certo niente assicura che il prolungamento del carisma originario nella storia si mantenga sempre lineare e in positivo sviluppo. Può e di fatto comporta di solito incertezze, ambiguità e perfino involuzioni. Lo stesso sforzo di tradurlo in realtà diverse dalle primitive rischia di esporlo a interpretazioni false o deviate. Non è il caso di trattare qui i criteri che devono guidare il discernimento e lattualizzazione del carisma in maniera sana ed efficace. Mi limito a indicare alcuni momenti e aspetti riguardanti lo sviluppo del nostro carisma, e a fare qualche riflessione sulla sua fisionomia attuale, in riferimento alle caratteristiche essenziali sopra segnalate. a) Finalità Listituto è nato per le «missioni estere tra gli infedeli». Come ha proseguito lungo questa linea fondamentale? La risposta interessa due livelli: quello delle norme e quello della prassi. A livello di norme (regole, costituzioni, ecc.) che si sono succedute dopo la Proposta, dal 1886, in cui esce la prima Regola del24 180 Ibid., p. 167. lIstituto Lombardo per le Estere Missioni, a oggi, con le vigenti Costituzioni e Direttorio Generale approvati nel 1991, il fine rimane sostanzialmente immutato. Solo viene via via riespresso con formulazioni che si preoccupano di precisarlo e adeguarlo allo sviluppo della concezione e dellattività missionaria della Chiesa. Così, mentre allinizio viene definito come la predicazione del Vangelo in terre infedeli, o il lavorare nelle terre infedeli affidateci dal papa per mezzo di Propaganda, in seguito si sottolinea pure come obiettivo particolare la preparazione del clero e delle Chiese locali. Nelle attuali Costituzioni si riconosce come fine proprio dellistituto lattività missionaria qual è descritta dal decreto conciliare Ad Gentes, «e in particolare levangelizzazione dei popoli e gruppi non ancora cristiani» 25. In tale contesto si formulano delle priorità, mentre si evidenzia che tutta lopera nostra missionaria si svolge in un quadro di Chiesa. Risulta chiaro che la finalità rimane immutata nella sostanza, ma assume la nuova visione che la Chiesa ha della missione ad gentes, in una concezione che vuole rispondere ai successivi approfondimenti dottrinali e cambiamenti di situazione. A livello di prassi, il discorso si fa più complesso e complicato. In 150 anni di storia, listituto, divenuto da lombardo italiano, unitosi nel 1926 col Seminario dei SS. Apostoli Pietro e Paolo di Roma, organizzato sempre di più con strutture proprie, ha registrato una grande e svariata crescita di campi missionari, dallOceania e Asia allAfrica e Brasile, nonché ad aree nuove nel continente asiatico. In questa espansione di attività, si registrano missioni assunte per il volere della Santa Sede ma non considerate impegni distituto, come Cartagena in Colombia. Ma il caso più grosso e discusso, almeno per un certo tempo, è quello che riguarda il Brasile, paese cristiano, dove listituto ha inviato dal 1946 in poi, e tuttora tiene, un elevato numero di missionari. Se però si esamina- Costituzioni e Direttorio Generale, Pontificio Istituto Missioni Estere, Roma 1991, p. 8. 25 181 no le ragioni di queste spedizioni e soprattutto le aree e situazioni scelte e il tipo di lavoro compiuto, allora si scopre che si è trattato di unopera spesso di prima evangelizzazione, in ogni caso di un aiuto urgente motivato dallinsufficienza e inadeguatezza dello sviluppo delle Chiese o comunità locali 26. Comunque, il capitolo post-conciliare di aggiornamento (1971-1972) ha dato direttive per un «riorientamento», dove ci fosse bisogno, di campi e di compiti 27. In conclusione si può dire che non si sono avute deviazioni di finalità, almeno di rilievo; che di fronte a dubbi, critiche o semplici allarmi sulla questione, si sono fatte discussioni e si sono decisi interventi nellambito di assemblee regionali e generali. Positivamente, si è operato per adeguarsi alle indicazioni della Chiesa universale e delle Chiese locali, sviluppando negli ultimi decenni forme nuove di presenza e dimpegno in linea col mutato volto della missione ad gentes, sia in generale sia negli ambienti particolari. b) Ecclesialità Nulla da notare circa la qualità dei membri: sono sempre stati e sono a tuttoggi sacerdoti e laici che si consacrano alla missione ad gentes per tutta la vita. Dopo il citato capitolo daggiornamento, si è aperta la via anche a preti e laici «associati». E più recentemente si è costituita lALP (Associazione Laici del PIME), i cui partecipanti assumono impegni temporanei in missione ma non sono membri; e siamo pure in relazione con la Comunità Missionarie Laiche, in vista di iniziative comuni. Ma linterrogativo che nasce riguarda il peculiare carattere ecclesiale che ha contrassegnato le nostre origini, poiché il seminario lombardo fu eretto formalmente dai vescovi e voleva essere lespressione diretta del loro dovere missionario. È lecito domandarsi dove sia andata a finire questa caratteristica unica e vista 26 27 182 GHEDDO, op. cit., capp. XVIII e XIX, pp. 813 segg. Sul Capitolo daggiornamento, ibid., cap. VII, p. 233 segg. come essenziale. La risposta esige obiettività ma anche cautela. Credo che si possa fare una distinzione. La Proposta conteneva una concezione e una struttura. La prima costituiva unintenzione e un ideale fondante; la seconda voleva essere una traduzione concreta allinterno dello stesso ordinamento giuridico. Ora, molto presto la struttura si rivelò fragile e irrealistica. I vescovi (a eccezione di Romilli) lesinavano i soggetti per le missioni, quando non li negavano. Marinoni faticò, con poco successo, di coinvolgerli effettivamente nelle responsabilità che si erano assunti, e fu costretto a chiedere alla Santa Sede di accogliere candidati senza, e perfino contro, il volere dei vescovi. In questi casi lordinazione veniva data titulo missionis e gli alunni non restavano più incardinati nelle loro diocesi bensì nellistituto stesso. Il rapporto giuridico a livello locale scomparve e restò solo quello con Propaganda. Già nella prima Regola dellIstituto Lombardo (1886), redatta da mons. Marinoni, dopo consultazione di tutti i membri, listituto risulta dipendere solo da Propaganda direttamente, senza più alcun tramite dei vescovi, anche se questi continuano per un certo tempo, in maggiore o minor misura, a tenere relazioni morali col seminario missionario. Poi verrà il Codice di diritto canonico (1917) a imporre a tutti i nuovi membri il giuramento incardinante nellistituto. Ha così del tutto fine la struttura originaria. Quanto alla concezione come intenzione e idea fondante, il discorso può essere alquanto diverso. Proprio come istituto di preti secolari e laici, non «religiosi», esso ha sempre conservato un particolare riferimento alla Chiesa, quale espressione e strumento della sua missionarietà. Ciò lha sentito, vissuto e anche dichiarato spesso, considerandosi sempre e solo al servizio della Chiesa. Di qui un comportamento pratico particolare di ecclesialità sia in patria sia in missione, e una certa reazione istintiva dei membri quando sembrava che ciò fosse dimenticato. Faceva parte di questo spirito limpegno esclusivo di curare lo sviluppo del clero e della Chiesa locale in missione. In patria, quando il Vaticano II diede chiarezza e forza al dovere missionario della Chiesa e delle Chiese, il nostro capitolo daggiornamento si propose di recuperare in certo modo lantico legame con le Chiese dorigine, ma i tentativi in questo senso non ebbero successo. 183 Tuttavia, le Costituzioni attuali considerano la nostra attività come un servizio da compiere in comunione e dipendenza dalle Chiese particolari, pur conservando le proprie finalità, e danno norme e orientamenti per mettere in pratica questa visione. Lasciano ai membri la libertà di conservare o chiedere lincardinazione nelle diocesi dorigine, restando incorporati allistituto. Chiedono a tutti, membri e comunità, di vivere concretamente la comunione ecclesiale, a livello sia universale sia locale. Ma, più di queste e altre direttive, il senso ecclesiale si rivela in un certo spirito che rende attenti a «sentire» con la Chiesa, a servirla nella causa missionaria, a darle la preferenza sullistituto nelle questioni concrete. c) Famiglia di apostoli Il seminario fondato da mons. Ramazzotti si proponeva come un istituto per persone che volevano dedicarsi al «ministero delle Missioni Estere», non isolatamente ma come «famiglia comune» di missionari, in unità di metodo e di spirito. In questo senso i primi candidati hanno vissuto unesperienza significativa in attesa di partire e poi sul campo, in Oceania. Unesperienza comunitaria e spirituale, dove lo spirito di famiglia era strettamente associato allimpegno di santità, e ambedue si alimentavano con la dedizione missionaria. Non una comunità fine a se stessa, né una santità costruita a fianco del servizio apostolico, ma luna e laltra intese a nutrirsi e nutrire mediante lopera missionaria. A livello di norme, la dimensione comunitaria e spirituale è sempre stata riaffermata e anzi, a mio parere, si è venuta sempre più consolidando. Nel nuovo Codice di diritto canonico (1983), istituti come il nostro sono riusciti con la loro insistenza e collaborazione a ottenere una categoria nuova per loro, quella delle «società di vita apostolica», che si costruiscono e vivono in base al loro specifico fine, per cui cercano nel proprio essere e agire le ragioni e le vie della santità. Le vigenti Costituzioni nostre lo dicono chiaramente, e descrivono pure il PIME come «famiglia di apostoli», i cui membri vogliono realizzare la propria vocazione in 184 comunione di vita e attività. Con una formulazione anche più ardita dicono che listituto «è il luogo dove i carismi dei vari membri si fondo in armonica unità per un servizio più valido allattività missionaria» 28. E perciò i missionari «si riuniscono in comunità per rispondere meglio alle esigenze oggettive della loro particolare vocazione, rendendo più significativo il servizio al Vangelo» 29. Sullo spirito apostolico che deve animare la famiglia PIME, le Costituzioni aprono un capitolo interamente nuovo, ma che evidentemente fa tesoro di tutta la nostra tradizione 30. Eccone in breve i contenuti: i missionari trovano in Cristo evangelizzatore il fondamento e modello della loro vita apostolica; ne vivono il mistero della croce e risurrezione in chiave di esperienza e annuncio; conducono uno stile di vita plasmato su quello di Cristo, primo missionario, nella rinuncia e povertà, nellobbedienza e castità celibataria, nella preghiera come elemento essenziale della missione; considerano la comunione fraterna una testimonianza del Vangelo e un aiuto alledificazione vicendevole. In questi tratti, su cui si danno norme pratiche di attuazione, penso che il carisma originario venga non solo conservato ma largamente sviluppato. A livello di prassi, resta sempre difficile dare un giudizio obiettivo; solo Dio vede nei cuori. Ma non mancano chiari segni dellimpegno di fraternità e santità. Senza dubbio, è cresciuto lo sforzo di tradurre la comunione in comunità o espressioni comunitarie nei più svariati settori di vita e azione, dalla comunicazione agli incontri, dallinteresse alla corresponsabilità nel cammino di riflessione e decisione, nellattività missionaria sul campo, come nellanimazione, formazione e impegno spirituale. Al presente è in atto unampia opera per conoscere meglio la nostra storia, le grandi figure dei nostri missionari, tra cui 18 hanno versato il sangue per la causa del Vangelo, e per promuovere lelevazione agli altari di altri confratelli, oltre il beato Giovanni Mazzucconi e il santo Alberico Crescitelli. Costituzioni e Direttorio Generale, cit., C. 11, p. 26. Ibid., C. 12, p. 28. 30 Ibid., cap. III, pp. 41-61. 28 29 185 Ma cè pure unaltra novità dampia portata che riguarda lo sviluppo del carisma originario. Il PIME è divenuto un istituto missionario internazionale, accogliendo vocazioni fuori dItalia, in un primo tempo solo nei paesi a maggioranza cristiana, poi anche in aree di giovani Chiese, particolarmente quelle nate dal suo lavoro missionario. Bisogna dire che questapertura ha incontrato difficoltà proprio nel confronto col carisma originario. È sembrato a taluni che ne fosse una deviazione e perfino una contraddizione. Ma tutto si chiarisce alla luce degli sviluppi della missione, del significato e delle modalità che riveste linternazionalità nel PIME. Dopo 150 anni, non solo le Chiese nelle «terre infedeli» di un tempo sono nate e cresciute, ma sono passate da puro oggetto di missione a soggetto di missione. Linternazionalità intende mettere a disposizione di tali Chiese il nostro carisma e la nostra esperienza. Lo scopo primo non è di provvedere un maggior numero di vocazioni per listituto, ma di offrire una via, tra le altre, perché anche i sacerdoti secolari e i laici delle giovani Chiese possano realizzare la loro chiamata missionaria, come già un tempo il clero diocesano e i laici della provincia lombarda, mediante una fondazione che ne garantisca lidentità e provveda alle esigenze di formazione e assistenza. Di più: la modalità di attuazione stabilisce che listituto «accoglie e forma missionari in diversi paesi di modo che membri di nazionalità diversa operano insieme nei medesimi compiti di evangelizzazione» 31. Tutti egualmente missionari, come è invalso dire, «ad gentes, ad vitam, ad extra» e «insieme». Così linternazionalità si associa allinterecclesialità e allinterculturalità. Questa apertura, non prevedibile agli albori dellistituto, non rinnega ma amplifica il carisma originario lungo le stesse sue linee fondamentali. Il PIME non ha perso il carisma originario, ma sè impegnato a contestualizzarlo lungo il suo cammino in una fedeltà dinamica. Sarà sempre necessario tener presente il carisma di Ramazzotti fondatore e delle origini, muovendosi al passo dei tempi nuovi e affrontando le attuali sfide della missione, con laiuto di Dio. Come 31 186 Ibid., C. 10, p. 22. scrive mons. Ramazzotti a Marinoni, il 6 novembre 1850, a conclusione del suo giudizio sulla Proposta: «Altro quindi non mi rimane che desiderare e pregare che codesto Istituto proceda sempre con quello stesso spirito di fervore, di fratellanza, di zelo, di cui durante il mio soggiorno presso Codesta Famiglia, già vidi e ammirai con vera commozione ed esultanza del mio cuore sì belle e continue prove» 32. 32 COLOMBO (a cura), op. cit., p. 200. 187 INDICE Prefazione di Franco Cagnasso .................................. Pag. 7 La figura e la spiritualità di mons. Angelo Ramazzotti di Francesca Consolini ............................................... » 11 Formazione scolastica e sacerdotale .......................... Missionario Oblato di Rho ........................................ Vescovo di Pavia ........................................................ Patriarca di Venezia ................................................... » » » » 13 14 21 31 Modello ecclesiologico e realtà della Chiesa di Milano nellOttocento di Ennio Apeciti ......................................................... » 40 Premessa ..................................................................... 40 » Come comincia il secolo XIX nella diocesi di Milano? .............................................................................. » a) Il vescovo e le sue vicende: G.B. Montecuccoli Caprara (1802-1810), 49 b) Quale tipo di clero, laici, religiosi?, 61 c) Prima conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?, 65 Il ritorno austriaco in diocesi: primo momento ........ » a) Il vescovo e le sue vicende: Carlo Gaetano Gaisruck (1818-1846), 66 b) Quale tipo di laico emerge?, 75 c) Quale tipo di religioso emerge?, 76 d) Seconda conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?, 77 49 66 189 Il ritorno austriaco in diocesi: secondo momento .... Pag. a) Il vescovo e le sue vicende: Bartolomeo Carlo Romilli (1847-1859), 78 b) Un vescovo mancato: Paolo Angelo Ballerini (1859-1867), 81 c) Quale la situazione del clero?, 83 d) Terza conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?, 88 78 Milano nel Regno dItalia .......................................... » a) Il vescovo e le sue vicende: Luigi Nazari di Calabiana (1867-1893), 90 b) Quale la situazione del laicato?, 97 c) Quale la situazione dei religiosi?, 101 d) Quale la situazione del clero?, 103 e) Quarta conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?, 108 90 Considerazioni conclusive ......................................... » 111 Nuovi ideali missionari: Rosmini, Luquet, Ramazzotti di Fulvio De Giorgi .................................................... » 113 Figura e importanza di Rosmini ................................ Luquet e la Neminem Profecto ................................. Il sinodo di Pondichéry ............................................. Il clero indigeno e i riti orientali ................................ Linfluenza di Luquet su Ramazzotti ......................... Conclusioni ................................................................ » » » » » » 113 118 123 127 134 142 La Chiesa e lOriente: il disegno missionario di Pio IX e il Seminario Lombardo per le Missioni Estere di Agostino Giovagnoli .............................................. » 145 Pio IX e le missioni .................................................... » Slancio missionario, sentimento nazionale e Chiese particolari ................................................................... » Il Seminario per le Missioni Estere tra Vienna e Roma » 190 145 153 160 Evoluzione e attualità del carisma del PIME di Domenico Colombo .............................................. Pag. 167 Premessa ..................................................................... » 167 Mons. Ramazzotti come fondatore............................ » a) Il problema, 168 b) Lopera di fondatore, 170 c) Il carisma di fondatore, 172 168 Identità della fondazione o carisma originario ......... » a) Intenzioni e ideali fondanti, 175 b) Caratteristiche essenziali, 177 174 Evoluzione e attualità del carisma dellistituto ......... » a) Finalità, 180 b) Ecclesialità, 182 c) Famiglia di apostoli, 184 180 191