NATURA TRA NOI - testo completo

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NATURA TRA NOI
DAL CARSO ALLE LAGUNE
A Cucco Zampis, gatto piscione
Abbandono o supersfruttamento: la ricerca di un equilibrio
Partendo da Trieste per giungere a Grado si possono vedere i principali usi del territorio:
urbanizzazione, abbandono, turismo, industria, agricoltura intensiva, conservazione ambientale e di
nuovo turismo. Intorno a Trieste il bosco ricopre le pendici collinari marnoso-arenacee venendo a
contatto con le zone edificate più o meno recenti, mentre sempre più limitate sono le zone agricole,
salvo eccezioni in zona Monte d’Oro-Grandi Motori, e anche le cosiddette “graie”, zone con
cespugli e rovi, derivate dall’abbandono dei coltivi e dei pascoli sono ormai poco presenti. Di
recente ho rivisto un ampia zona di “graia” sotto Montebello non lontano dall’ospedale di Cattinara.
Lungo la strada costiera i pastini sono edificati oppure abbandonati con successivo rimboschimento
spontaneo, mentre i vigneti e uliveti sono ridotti in estensione. Dopo Duino a sinistra la lecceta della
Cernizza e a destra le pendici dell’Ermada ancora non ricoperte dal bosco. Tra Monfalcone e il
mare ci sono le zone industriali del Lisert e di Schiavetti costruite al posto di estese zone umide. Poi
verso l’Isonzo ed oltre domina l’agricoltura intensiva con ampie superfici in cui è presente un'unica
specie vegetale, quella coltivata. In vaste zone anche le scoline di drenaggio sono state eliminate
mediante la posa di tubi interrati che eliminano l’eccesso d’acqua. “In sostanza, la pianura
fortemente “industrializzata” da un punto di vista agricolo, è gestita per sviluppare un’unica
funzione: aumentare la produttività” (Santolini, Pasini e Casini per la pianura riminese, ma vale
anche da noi). Due zone sono gestite quali Riserve Naturali: la foce dell’Isonzo e la Valle Cavanata.
Oltre il ponte di Primero, la bocca più orientale della laguna di Grado, il turismo domina il territorio
con porti turistici, campeggi, campi di golf e zone urbanizzate in forte espansione. A livello europeo
i problemi maggiori riguardano le specie di uccelli legate alle zone agricole e pastorali con oltre il
30% di esse in diminuzione, per l’intensificazione delle pratiche colturali nelle zone più produttive
e l’abbandono in quelle marginali. In una zona agricola presso Pieris in circa 100 ha nidificano 31
specie di uccelli, ma solamente 5/8 (Fagiano, Cappellaccia, Civetta, Merlo e Verzellino - queste
ultime tre specie nei vigneti alberati - e saltuariamente Quaglia, Beccamoschino e Cutrettola) si
riproducono propriamente nei coltivi, mentre le altre specie utilizzano gli edifici rustici, le siepi, gli
alberi e i canali che interessano meno del 10% del territorio. Gli uccelli e la vegetazione spontanea
costituiscono le componenti più evidenti ma anche gli altri animali scompaiono progressivamente
per l’intensificazione dell’agricoltura. In sintesi in Carso e sulle colline triestine e muggesane
prevale l’abbandono o l’espansione urbana, mentre nella pianura alla forte espansione edilizia si
accompagna la riduzione dell’agricoltura tradizionale stretta tra i centri abitati e le aziende
agroindustriali. La biodiversità è tuttora altissima ma molte specie sono scarse e localizzate in
porzioni ridotte di territorio mentre alcune sono scomparse e tra queste si possono citare la
Coturnice della landa carsica e il Basettino dei canneti della foce dell’Isonzo.
Foris-stare
Il termine foresta deriva dal latino foris-stare - stare al di fuori. La civiltà romana così marcava la
differenza tra le zone coltivate e quelle selvagge. In altre civiltà, a partire da quella celtica o
germanica un tale stacco era meno netto ovvero inesistente. Dopo millenni di compressione delle
terre selvagge si assiste oggi ad una nuova espansione in particolare nelle zone montane e collinari
abbandonate progressivamente dalla popolazione umana. Ora ci vorrebbe un attacco generalizzato
di biofilia puerile, amore per la natura tipico dei bambini, che sani la frattura tra noi e la
selvatichezza che certamente è indifferente alle nostre vicissitudini ma non è “matrigna” se
conosciuta e rispettata. Io la sento accogliente come il grembo materno.
Il diverso atteggiamento dell’uomo nei confronti degli animali
Un tempo non lontano, il dopoguerra e i decenni successivi con intensità decrescente, la fauna
selvatica rappresentava una fonte alimentare per quelli che ne avevano accesso: cacciatori,
uccellatori, bracconieri, contadini etc. Se gli animali non venivano mangiati potevano essere
imbalsamati se rari o tenuti in gabbia se belli o cantori. C’era insomma un prevalente atteggiamento
predatorio nei confronti della fauna che è successivamente cambiato per motivi culturali e
socioeconomici. L’abitante delle città ha un atteggiamento diverso, spesso animalista, a volte
ambientalista, raramente utilitarista nei confronti della natura. La stessa difficoltà pratica
nell’utilizzare come cibo un animale ricoperto di pelo o penne e pelle rende per la grande
maggioranza improponibile l’alimentazione sulla fauna selvatica, a parte al ristorante dove il lavoro
sporco lo fanno gli altri. Certamente decenni di allarmi sulla rarefazione degli animali hanno
concorso alla nascita di un tabù: la fauna e gli animali divengono intoccabili, aumentano i
vegetariani. Alla radio in questo momento un famoso conduttore (FV) intervista una vecchina,
assolutamente tranquilla, sull’uccisione delle galline, tra lo scalpore e indignazione generali degli
ascoltatori. Nelle campagne sono sempre le donne, ormai quasi solamente le anziane, a fare questo
lavoro e quello di pulire la selvaggina eventualmente abbattuta o regalata dai cacciatori locali.
Ritengo che il mancato “utilizzo” degli animali, inteso in senso lato ed escludendo le crudeltà
gratuite, sia fondamentale per mantenere il contatto con loro. Se nessuno montasse a cavallo in
occidente sarebbero rimasti solo gli equini utilizzati per la carne; smettendo di mangiarli, come ho
fatto io, sparirebbero anche quelli. Un viaggio in Mongolia mi ha fatto capire come amore e rispetto
possa andare insieme all’uso anche alimentare degli animali domestici. Si possono individuare due
modi prevalenti di considerare l’altro da noi: quello animalista che pone in primo piano il singolo
soggetto e quello ambientalista che privilegia la specie e l’habitat. Ritornando ai “selvatici” le
specie più opportuniste hanno gradualmente risposto al diverso atteggiamento avvicinandosi agli
insediamenti umani e sfruttando le opportunità di cibo e siti riproduttivi offerte da città e paesi.
Successione, clima e tendenze in atto
Con il termine di successione ecologica si definisce l’evoluzione della vegetazione verso strutture
complesse e relativamente stabili in equilibrio con il clima di una particolare regione. Sul carso e in
pianura i boschi quercini a foglie caduche costituiscono il climax a cui tendono naturalmente molti
siti abbandonati. Nella costiera triestina calcarea tale ruolo è svolto dal bosco di leccio, quercia
sempreverde, che richiama alla macchia mediterranea e che ritroviamo anche a Bibione e in misura
minore a Lignano e Grado. Verso il Nord Est la faggeta del monte Goli presso Grozzana prelude
alle comunità vegetali dei climi più freddi e con maggiore piovosità. Fattori naturali come la
sommersione, la salinità, le piene fluviali, la pendenza e la presenza di terreno smosso, ovvero
derivati dall’azione dell’uomo come l’ agricoltura, il pascolo e gli utilizzi forestali, mantengono la
comunità vegetale lontana dal climax potenziale. La presenza di una soglia climatica coincidente
con la linea di costa e poco estesa all’interno è evidente nelle temperature che sono regolarmente
più alte a Trieste, Grado e Lignano e massime alla Boa Paloma posta in mare, e scendono
bruscamente sul carso oltre il costone e nella pianura. In certi notti tra una stazione meteo presso le
sorgenti dell’Isonzo in Slovenia e il mare antistante la foce dello stesso fiume ci sono 25 gradi di
differenza. Risulta chiaro che tale notevole varietà climatica è presupposto per un’alta varietà di
vegetazione e fauna. In 100 km si passa dalla Pernice bianca, tipica delle tundre artiche e presente
come relitto glaciale nelle praterie alpine, all’Occhiocotto, passeriforme della macchia
mediterranea. Il nostro mare ospita poi molte specie di uccelli acquatici rari a livello Mediterraneo e
rappresenta per escursione di marea, di temperatura e di salinità un ambiente di transizione tra il
Mediterraneo tipico e i mari nordici. L’Edredone, un‘ anatra dei mari settentrionali, nidifica da noi
ed è il solo sito riproduttivo noto nel Mediterraneo insieme alla Liguria. L’estensione delle zone che
emergono durante la bassa marea supportano popolazioni svernanti di uccelli limicoli tra le
maggiori dell’Italia e dell’intera Europa meridionale. Attualmente si assistono a tendenze
faunistiche molteplici, in particolare riguardanti gli uccelli, di cui menzionerei le quattro che mi
sembrano più evidenti e interessanti. La prima riguarda la comparsa e l’affermazione di specie
tipiche di climi più caldi come l’Airone guardabuoi, il Fenicottero e il citato Occhiocotto, mentre
durante l’inverno risultano più scarse specie che svernavano da noi, mentre attualmente possono
farlo a monte delle Alpi ed è il caso del Corvo e della Cesena. La seconda è l’aumento delle specie
di climi freschi e boschi maturi dovuto al minor sfruttamento forestale di molte zone boschive, ed è
il caso delle varie specie di picchi. Attualmente ci sono boschi che ospitano fino a cinque specie di
Picchi, tra i quali il Picchio nero e il Picchio cenerino. La terza è la tendenza alla riduzione e alla
scomparsa delle specie degli ambienti aperti coltivati o pascolati. La quarta è la forte diffusione di
specie poco esigenti che si adattano a quello che gli urbanisti chiamano lo sprawl urbano: le
espansioni recenti di case con giardino, centri commerciali, zone artigianali, infrastrutture, coltivi
residui e zone abbandonate e talvolta momentaneamente rinselvatichite. Anche varie specie di
rapaci riescono a vivere e in vari casi riprodursi in tali zone, tra i quali lo Sparviere, la Poiana, il
Gheppio, la Civetta e il Gufo comune, mentre, in presenza di parchi con alberi maturi, è nidificante
l’Assiolo. In generale fauna e flora, con modalità diverse, non devono essere viste come entità
statiche ma piuttosto dinamiche, dove espansioni e scomparse costituiscono, entro certi limiti, la
norma e non l’eccezione. Lo Scoiattolo rosso ha colonizzato l’intera pianura friulana ed ha
raggiunto anche le isole lagunari, lo Sciacallo dorato ha ampliato il suo areale verso nord-ovest
mentre negli stessi anni altre specie come lo Zigolo muciatto e il Pendolino hanno ridotto gli areali
distributivi e la consistenza delle loro popolazioni. Interessante è la lettura di un lavoro di Calligaris
et al (1976) su “la gestione del patrimonio faunistico della provincia di Trieste”, in cui già si
tratteggiano chiaramente le tendenze che oggi, 33 anni dopo, risultano completamente affermate,
come il regresso o scomparsa locale delle specie delle zone aperte e l’affermarsi del Capriolo,
mentre il Cinghiale era ancora raro. Ancora nello “Studio Naturalistico del Carso Triestino e
Goriziano” del 1985, Fabio e Franco Perco non menzionano come affermate varie specie di bosco
mentre sono ancora presenti, con pochissimi individui, la Coturnice e la Starna.
Piscianzi
I dintorni di Trieste sono particolarmente interessanti e non sono città pur non essendo Carso. Il
substrato a flysch - alternanza di arenaria e marna- e la conseguente presenza di acque superficiali
in un gran numero di ruscelli - i “patòc”-, i pastini a vigneto, le strade strette e tortuose e i piccoli
villaggi con le Osmize creano un insieme peculiare. Si tratta certamente di un posto stimolante con
bellissimi panorami ed angoli selvaggi già descritti nel 1909 da Nicolò Cobol che nel volume
“Guida dei dintorni di Trieste” scrive: “sentieri senza numero serpeggiano tra l’abitato, i coltivi e il
bosco, che scende al fondo romito, ove mormora il ruscello, ove tardo giunge e poco si sofferma
raggio di sole, ove piede umano, che non sia di botanico o del fuorviato, di rado lascia l’impronta”.
Fa piacere che a un secolo di distanza rimangano degli angoli dove trovare un po’ di natura
selvaggia senza andare in Alaska a far brutte figure tipo “Into the wild”. Certamente ora ci sono più
case, meno coltivi e le zone boscate sono più mature e ricoprono ampie zone un tempo coltivate.
Passati utilizzi rimangono nei toponimi e nei nomi delle vie che richiamano addirittura il pascolo di
capre (via del Caprile nel rione di Roiano.). La visita a queste zone provoca pensieri piuttosto usuali
in quest’epoca postmoderna: cosa accadrebbe se l’uomo scomparisse da parte o da tutto il pianeta?
Quercie crescono tra i muri di contenimento, l ’edera ricopre le scalette percorse per secoli dai
contadini, la “cucia” tipo di casita ricavata nei pastini crolla o ospita la carrozzeria di una vecchia
vespa “Primavera” della Piaggio appartenuta a chissà chi. Nei tratti a rovi si nascondono gruppi di
cinghiali, una novità faunistica dovuta anche a rilasci più o meno intenzionali ma certamente
favorita dalla maturità del bosco quercino e dalla presenza di rifugi poco disturbati. Tassi, volpi,
caprioli e moltissime specie di uccelli vivono in questa peculiare periferia cittadina. Insomma per
chi ha letto “Asterix e il regno degli dei” certe parti di Piscianzi ricordano le vignette finali del
cartone, con le grandi quercie che, grazie alla bevanda magica, ricoprono in un attimo le rovine
dell’insediamento romano, seguite dai soliti cinghiali. Il mantenimento di zone aperte in questo
contesto è certamente positivo e aumenta la biodiversità. Lo zigolo nero è presente sui pastini grazie
al mantenimento della viticoltura. Silvano Ferluga, viticoltore di Lajnarji, “frazione” di Piscianzi,
racconta della fauna degli anni 50’ e 60’ con lepri e coturnici, quest’ultime provenienti dalla”grisa”
calcarea e scoscesa situata sotto l’Obelisco; in quegli anni il pascolo bovino era ancora praticato
nella zona di Monte Radio e saltuariamente anche a Piscianzi.. La Coturnice è da tempo scomparsa
mentre le ultime lepri erano presenti intorno al 1980 quando iniziò a comparire il Capriolo. La
presenza del Cinghiale, iniziata negli anni 90’ ora è massiccia e causa di ingenti danni alle viti e alle
coltivazioni di patate mentre gli indennizzi sono molto bassi. Si ripropongono i diversi punti di vista
tra cittadini animalisti e agricoltori preoccupati dall’invadenza di certe specie. A mio avviso non è
corretto che i contadini sostengano l’impatto della fauna selvatica senza un aiuto consistente in
termini monetari e di tecniche di difesa dei coltivi e degli allevamenti da parte della collettività.
Lisert
Tra la foce del Timavo e la zona industriale e portuale di Monfalcone si estende una zona di
sorprendente valore naturalistico. Il nome Lisert deriva dal latino Desertum ma la zona sta
lentamente perdendo quella splendida desolazione tipica dei posti apparentemente “vuoti”. Tuttora
sono presenti canneti, stagni d’acqua dolce e salata, barene, velme, il tratto terminale del Timavo e
il mare basso antistante la foce dello stesso. Il carso lambisce la palude e la lecceta della Cernizza
richiama l’Istria meridionale e la Dalmazia mentre le briccole della foce richiamano le lagune
venete. Il vicino castello di Duino, punta Sdobba a chiudere il golfo di Panzano e punta Salvore
all’orizzonte a chiudere quello di Trieste, l’Ermada alle spalle e le stesse industrie concorrono a
rendere unici gli sfondi di questo ultimo lembo litoraneo umido e basso verso la costa alta e
rocciosa dell’Adriatico orientale. L’avifauna dell’area è ricchissima e sono state osservate specie
rarissime come il Gobbo rugginoso mentre molti uccelli acquatici si riproducono nella zona. Il
Tarabuso, airone mimetico, molto scarso come nidificante in regione si è probabilmente riprodotto
nel 2004, mentre nel 2008 una coppia di Falco di palude ha nidificato con successo. Il Grillastro
marmorato Zeuneriana marmorata è una specie endemica, cioè caratterizzata da un areale
circoscritto, dell’Alto Adriatico di cui sono note due sole popolazioni, una delle quali nei canneti
del Lisert. Anche dal punto di vista geologico la zona è particolare con quello che rimane delle Isole
Clare, che un tempo emergevano dal Lacus Timavi e in seguito da una grande zona umida.
Attualmente questi residui rocciosi sono circondati dalle industrie e dal porto di Monfalcone. La
zona delle sorgenti del Timavo e del breve corso del fiume per la sua peculiare posizione di confine
geomorfologico è menzionata in varie storie mitiche greche e romane come quello di Giasone e
degli Argonauti con il vello d’oro e quello di Antenore e Diomede in fuga dalla guerra di Troia.
L’espansione della zona portuale e industriale rischia di compromettere questo ambiente unico che
è tutelato solamente in parte quale Sito di Importanza Comunitaria.
Isonzo
Il fiume detto “vagabondo” oggi costretto da argini continua ad ospitare una fauna e flora
caratteristici. Tra il ponte della statale 14 (Pieris, poco dopo l’Aeroporto) e la foce la varietà degli
ambienti è notevole: alta pianura asciutta, risorgive, ghiaie fluviali, zone agricole, boschi ripariali e
golenali maturi, prati falciati o pascolati, paludi dolci e salmastre, barene e isolotti sabbiosi e infine
il mare. Questa varietà ambientale supporta un altissimo numero di specie di uccelli, tra le più alte
d’Italia e d’Europa, attratte nella zona anche dalle opere di ripristino ambientale e di controllo della
presenza umana attuate nella Riserva Naturale Regionale “Foce dell’Isonzo”. In questa zona è forte
il contrasto tra zone sfruttate intensamente per l’agricoltura e quelle poco o punto modificate
dall’azione dell’uomo. Verso la foce l’Isola della Cona è molto nota e frequentata mentre altre zone
pur importanti sono poco conosciute. Al Bosco Grande, piccolo relitto dei boschi umidi della bassa
pianura, i coltivi di bonifica lambiscono il sottobosco con specie di climi freschi come i Bucaneve e
il Giglio martagone molto rari in pianura. In questi boschi maturi nidifica il Picchio nero, specie
montana che qui arriva al livello del mare, fatto unico in Italia. Più a monte, nelle golene fluviali
della Marcorina e nei coltivi intorno all’abitato di Pieris sono in atto molteplici attività che hanno
riflessi sulle caratteristiche naturalistiche del territorio. Il centro abitato si espande a spese delle
zone agricole più tradizionali mentre le zone golenali, di riconosciuta importanza per vegetazione e
fauna, risentono dell’impatto delle molteplici attività del tempo libero: accesso motorizzato, in
bicicletta e a cavallo, pesca, caccia oltre alle consuete pratiche agricole. In particolare a pasquetta e
ferragosto moltitudini di giovani festeggiano sulle rive del fiume lasciando spesso sul posto notevoli
quantità di rifiuti. In questo conteso si sviluppa il confronto culturale tra l’allevatore di “Pezzata
rossa friulana” e cacciatore sensibile Giuseppe Cosolo, gran lavoratore, e il sottoscritto, certamente
più contemplativo. In questo contesto assume valore il singolo salice o gelso capitozzato, la siepe
che ospita piante autoctone, il piccolo incolto.
Medeazza
Medja Vas o Medeazza è un piccolo paese che pur appartenendo alla provincia di Trieste è poco
conosciuto dai triestini forse perché la strada asfaltata finisce nel paese, quindi non c’è passaggio,
mentre molti visitatori provengono da Monfalcone. Il paese è posto alle pendici occidentali del
monte Ermada a circa 130 metri di altezza. Salendo a Medeazza si estende una landa dovuta a
incendi, aridità, carsismo superficiale molto accentuato, vecchio e nuovo pascolo e anche le vicende
belliche della Grande Guerra. Se la zona del monte Cocusso e Goli, tra Basovizza e Pesek, è la più
continentale e fresca del carso triestino a Medeazza si vede invece un carso più caldo con forti
influssi mediterranei che condizionano la flora e la fauna. In paese ci sono molte osmizze, alcune
delle quali praticano la vendita diretta del latte, del formaggio e di molti altri prodotti locali. Dai
250 bovini e 26 cavalli del secondo dopoguerra sono rimaste 50 mucche e vitelli in due aziende
agricole, mentre i cavalli sono una ventina e pascolano la landa carsica oltre a rendere possibile un
nascente turismo equestre. Nell’ottobre 2008 una ben riuscita festa “eno-equestre” ha fatto
conoscere al grande pubblico questa realtà. Le direttive della Comunità Europea sulla
conservazione di specie e habitat scarsi e minacciati sono mirate al coinvolgimento dei portatori di
interesse e della popolazione locale nelle iniziative di tutela e ripristino ambientale. In particolare si
intende conservare ed estendere le zone a landa carsica, proteggere gli affioramenti rocciosi definiti
“pavimenti calcarei” e ripristinare gli stagni carsici, abbeveratoi tradizionali importanti per anfibi e
rettili. Ales Pernarcich sta facendo la tesi di laurea sulla Zona di Protezione Speciale, nell’ambito
delle direttive europee, del Carso Triestino e Goriziano mentre Paolo Pernarcich vorrebbe riportare i
suoi armenti al pascolo nella “gmajna”, il pascolo della comunità locale. Economia rurale e
conservazione dell’ambiente dovrebbero incontrarsi con soddisfazione reciproca. La zona è molto
panoramica con evidenti contrasti: si spazia dalle industre di Monfalcone, la foce del Timavo, la
lecceta della Cernizza, il golfo di Panzano e la foce dell’Isonzo mentre le Alpi e la pianura fanno da
sfondo mentre “alle spalle” si estende il carso sloveno fino all’alto gradino, spesso innevato
d’inverno, del Tarnovski Gozd, la selva di Tarnova. A partire dal 1994 veniva osservato un gruppo
di 3 camosci che hanno dato origine ad una colonia di circa 30 soggetti. Gli animali verosimilmente
provenivano da popolazioni presenti in Slovenia a circa 20 km di distanza oltre la valle del Vipacco;
in precedenza un camoscio era finito in mare a S. Croce nel 1989. L’assenza di grandi predatori, la
presenza di zone aperte alternate a boscaglie e affioramenti rocciosi e la tutela accordata ha
permesso il consolidarsi della specie. Si tratta della popolazione presente a quota più bassa a livello
italiano. Gli abitanti del posto sentono come estranea tale presenza faunistica; personalmente penso
possa rappresentare un arricchimento faunistico, mentre eventuali danni dovrebbero essere risarciti
dagli enti preposti.
Zone umide a rischio
Si parla molto del riscaldamento globale e del conseguente innalzamento del livello del mare. La
costa alta di Trieste risente relativamente del fenomeno data la pendenza esistente per cui pochi
centimetri di innalzamento sono poco percepibili. Diverso è il caso delle lagune ed in particolare di
quella di Marano dove negli ultimi decenni, con un’ accelerazione a partire dagli anni 90’, si è
assistito ad una scomparsa delle terre emerse e al regresso della vegetazione tipica delle foci dello
Stella e del Cormor. E’ probabile che diversi fattori concorrano a tale preoccupante evoluzione e tra
questi la minor portata estiva dei fiumi a causa dei prelievi d’acqua per l’irrigazione dei campi di
mais. La salinità è infatti un fattore limitante la crescita di molte specie vegetali tra i quali il
Bolboshoenus maritimus che formava delle fasce tra i canneti e gli specchi d’acqua lagunari.
Sarebbe auspicabile studiare il fenomeno e tentare di mitigarne gli effetti. Le lagune, sospese tra
mare e terra, sono per definizione ambienti in perenne evoluzione, ma gli argini di bonifica esistenti
a monte ne impediscono l’espandersi verso l’entroterra nella attuale fase di innalzamento del livello
del mare, per cui la cintura di barene e canneti è destinata a ridursi e forse a sparire con un crollo
delle specie animali e vegetali presenti. Per alcune specie di uccelli di canneto come il Basettino, la
Salciaiola e il Forapaglie è l’unico sito riproduttivo della regione, mentre per l’Airone rosso e il
Falco di palude questa è l’area più importante. A mio avviso è una delle emergenze naturalistiche
più gravi di questi anni. Purtroppo pochi pescatori e cacciatori frequentano la zona dove la crisi è
più grave, mentre alla foce dello Stella, dove si svolgono le visite naturalistiche, il fenomeno è per il
momento meno evidente. Insomma lontano dagli occhi lontano dal cuore e per il momento non c’è
sufficiente interesse per questo fatto.
Uccelli tra noi (gabbiani corvidi etc)
Nel corso degli anni 70’e 80’ si è assistito alla colonizzazione della città di Trieste da parte di 4
specie di corvidi e del Gabbiano reale. Da bambino vedevo la Cornacchia grigia nidificare nel
giardino di Villa Revoltella, a quel tempo circondata da zone poco edificate e agricole, e ricordo
anche un nido di Rondine il cui nome scientifico Hirundo rustica chiarisce il legame della specie
con l’ambiente agricolo. Nel 1977 un nido di Cornacchia era presente su un cipresso nel giardino
del Liceo Galilei poco sopra via Rossetti ed in seguito la specie iniziò a nidificare in molti siti
cittadini. Attualmente esiste un grande dormitorio di molte centinaia di individui, frequentato anche
dalla taccola, nel parco del Comando Militare, villa Necker, tra via dell’Università e viale III
Armata. Le cornacchie si radunano alla sera sul tetto del magazzino del molo IV nel porto vecchio e
poi volano a gruppi verso il parco. La Taccola che nidifica su edifici iniziò a nidificare negli anni
80’ sulla chiesa neogotica presso via Milano e coppie sparse sono presenti su varie case della città.
La Ghiandaia nidifica nei parchi cittadini e in alcuni anni anche sui platani di viale d’Annunzio.
Probabilmente subisce la predazione di uova o pulcini da parte della Cornacchia. Anche la Gazza è
ampiamente diffusa e costruisce grandi nidi muniti di “tetto” che hanno una forma sferica. Una
quinta specie di corvide, il Corvo imperiale si osserva nella periferia (Cattinara, Monte Valerio,
Barcola) e raramente in città. La specie che si adattata maggiormente è certamente la Cornacchia
grigia che ormai frequenta normalmente i marciapiedi cittadini contendendo il cibo ai Colombi di
città. La Tortora dal collare in espansione territoriale da oriente dall’inizio del 900, arrivò a Trieste
alla fine della II Guerra Mondiale ed esiste la leggenda metropolitana che ritiene la presenza di
questa specie dovuta all’introduzione da parte degli Alleati angloamericani. Il Gabbiano reale, fino
agli anni 70’ confinato nella zona portuale, iniziò a nidificare sui tetti cittadini negli anni 80’ con il
primo nido ritrovato nel 1987 (Benussi et al 1993). Certamente il forte aumento nelle colonie
riproduttive delle lagune venete e dell’Istria creò una pressione verso la colonizzazione di nuovi siti
riproduttivi. Piccoli passeriformi vivono e nidificano anche in zone apparentemente poco ospitali,
come ad esempio la Cinciallegra che aveva il nido in un vecchio muro in via Punta del Forno presso
Piazza Unità, o il Cardellino sulle robinie di via Battisti.
Marangoni dal ciuffo
Il Marangone dal ciuffo, una specie simile al più noto Cormorano, ha iniziato a frequentare il golfo
di Trieste a partire dagli anni 80’. I veneti dicono “d’istà cucheto d’inverno falcheto” per la
presenza non contemporanea del cuculo e dello sparviere che possono essere confusi tra loro, così
accade con i nostri “magnabalini” quando d’inverno, soprattutto da metà dicembre a marzo, ci sono
in golfo soprattutto cormorani mentre da maggio a ottobre soprattutto marangoni. La specie nidifica
sugli isolotti dell’Istria meridionale e della Dalmazia e depone le uova già a dicembre-gennaio,
mentre i giovani s’involano ad aprile-maggio, quindi parte della popolazione croata si sposta verso
il golfo di Trieste. Recenti studi del Dipartimento di Biologia dell’Università di Trieste hanno
investigato i motivi di questa migrazione postriproduttiva che probabilmente risiedono nel minor
dispendio energetico nell’alimentazione in acque poco profonde e ricche di pesce di fondo
facilmente catturabile del nostro golfo rispetto alla pesca nel mare profondo e con differenti prede
che risultano più difficili da catturare dell’Adriatico orientale. La nostra costa non è invece idonea
alla riproduzione per cui il Marangone ritorna sugli isolotti rocciosi per nidificare ( Sponza et al
2007). La specie è piuttosto confidente e a Barcola, Miramare o Grignano risulta facilmente
osservabile in sosta sulle rocce o in pesca anche sotto costa. Forma grandi dormitori sulle
mitilicolture (pedocere) di Punta Sottile, dei Filtri e del Villaggio del Pescatore mentre alla foce
dell’Isonzo pernotta sull’isolotto più esterno e su tronchi fluitati e spiaggiati. A differenza del
Cormorano non frequenta le acque interne e anche in laguna risulta scarso.
Alieni tra noi
I tempi moderni che hanno favorito il movimento di uomini provenienti da ogni parte del pianeta
hanno permesso anche il diffondersi di specie vegetali e animali esotiche. Accanto alle specie
vegetali coltivate come il pomodoro, la patata ed il mais si sono naturalizzate nei nostri territori
molte specie arboree, arbustive ed erbacee. L’introduzione può essere volontaria oppure
accidentale. Nel caso della Robinia, albero proveniente dall’America settentrionale comunemente
conosciuto come acacia, l’uomo favorì attivamente la diffusione in queste zone nell’800 allo scopo
di consolidare le scarpate della ferrovia meridionale. La lunga durata dei pali ricavati da questo
albero lo rese popolare tra i viticoltori che aiutarono l’espansione della specie. Oggi è molto diffusa
nella pianura, nei dintorni di Trieste e Muggia e anche in Carso in presenza di terreni profondi,
come nel caso di molte doline. In genere l’urbanizzazione con il denudamento del terreno e lo
spostamento di terreno da altre zone favorisce la diffusione di specie esotiche che spesso sono
buone colonizzatrici. Negli ultimi anni si è assistito ad una forte espansione del Senecio inequidens,
specie sudafricana favorita dal terreno smosso e quindi dai tracciati stradali e dalle piste forestali.
Anche nella fauna sono aumentate le specie non indigene come la Trachemide scritta, una
testuggine acquatica americana, e la Nutria, un grosso roditore dell’America meridionale. Entrambe
sono osservabili ai laghetti delle Noghere e nelle zone umide della foce dell’Isonzo. La presenza
della testuggine è dovuta al rilascio di esemplari in precedenza tenuti in cattività, mentre per la
nutria è in atto un’ espansione dovuta a fughe e liberazioni da allevamenti dove era tenuta come
animale da pelliccia (castorino). Per entrambe si teme un impatto sulla vegetazione e fauna
autoctone già verificate nel caso della Nutria in varie zone d’Italia. Un caso eclatante è quello dello
Scoiattolo grigio del nord America che tende a eliminare per competizione alimentare e forse per
diffusione di agenti patogeni lo Scoiattolo rosso europeo, come accaduto in Gran Bretagna
(Andreotti et al. 2001). Dal Piemonte, dove sono stati introdotti, gli scoiattoli grigi si stanno
espandendo verso est nella pianura padana e sulle Prealpi e un progetto di eradicazione è stato
bloccato negli anni 90’ con un ricorso legale da parte di un gruppo animalista. Attualmente un’
eradicazione è non più realizzabile data l’espansione della specie e la strategia di intervento si
dovrebbe basare sul contenimento dell’ampliamento verso le Alpi e gli Appennini. Purtroppo la
difesa della biodiversità comporta delle scelte a volte dolorose che personalmente ritengo
necessarie. Si stima che il 20% dei vertebrati in pericolo di estinzione nel mondo sia minacciato da
specie alloctone introdotte dall’uomo. Tale percentuale sale al 31% sulle isole dove l’impatto delle
introduzioni è particolarmente grave. Negli isolotti del mar Tirreno la presenza del Ratto nero
vanifica la nidificazione di specie rare e localizzate come la Berta maggiore. In prospettiva il rischio
è l’omogeneizzazione delle comunità vegetali e animali e l’alterazione profonda degli ecosistemi.
Impoverimento e degrado
L’estinzione globale di una specie è figlia di molte estinzioni locali che si saldano progressivamente
fino ad arrivare alla presenza di un unico areale abitato dove si compie l’atto finale come nel caso
dell’Uro – il Bue selvatico- ( Polonia, 1627) ovvero da dove può ripartire l’espansione, spesso
aiutata dall’uomo ( è il caso dello Stambecco sulle Alpi o del Camoscio d’Abruzzo). Personalmente
assisto, spesso tristemente, a continue “estinzioni” locali: a specie che vedevo in un posto e che ad
un certo punto inizio a non vedere più. Le ultime Coturnici della Val Rosandra: 2 maggio 1984
“vedo un maschio sotto la “Grande” mettersi in un punto ben in vista e quindi cantare, dopo 10
minuti s’invola e canta più in basso. Almeno due maschi in canto”. Il 16 maggio del 1986 sento la
specie in canto sul monte Carso. Poi basta, almeno nei miei appunti. L’Ululone è un rospetto con il
ventre giallo e nero da cui il nome scientifico Bombina variegata, che rifugge la presenza delle rane
e si riproduce in pozze nelle zone boschive dal piano alle Alpi. A S. Canzian d’Isonzo una piccola
popolazione esisteva nelle pozzanghere di una strada bianca che attraversa un boschetto presso
l’argine dell’Isonzo. I vecchi contadini del luogo lo chiamavano “Muc” e sapevano che il suo
habitat è costituito spesso dai solchi allagati provocati dal passaggio dei carri. Il Comune ha fatto
riempire le buche è l’Ululone non l’ho più visto, spero che abbia trovato un altro sito dove vivere e
riprodursi. A Pieris l’ultimo Biacco e l’ultima Testuggine palustre che ho visto erano morte, uccise
accidentalmente dai mezzi agricoli. Da anni non vedo in certe zone specie un tempo comuni come il
Ramarro o la Donnola, mentre la Volpe vive bene anche in zone parzialmente urbanizzate dove
nella primavera 2008 ho trovato una tana con ben 7 piccoli. La Lontra è scomparsa dalla pianura tra
Monfalcone e l’Isonzo nei primi anni 70’ nell’indifferenza generale, come spesso capita. In campo
naturalistico i nuovi arrivi fanno notizia mentre l’estinzione locale è spesso poco conosciuta, forse
perché rappresenta una piccola o grande sconfitta per chi si occupa di conservazione ambientale. A
volte opere ritenute positive per l’ambiente, ad esempio l’ottimizzazione della quantità di acqua
utilizzata in agricoltura attraverso un sistema di distribuzione con tubi interrati, hanno comportato
nell’agro monfalconese l’eliminazione progressiva dei canaletti di irrigazione con arginelli erbosi e
piccoli spandimenti che ospitavano vegetazione spontanea, anfibi, rettili, piccoli mammiferi e
uccelli acquatici e non. Soprattutto in pianura e sule coste la mancanza di limiti alle attività
economiche porta a un generale impoverimento ambientale. Passando dal locale al globale
concordo con G. Ruffolo (La Repubblica 9 marzo 2009) “E’ significativa l’analogia tra guasti
ambientali e guasti morali dell’economia. Entrambi discendono dall’insostenibilità di
comportamenti distruttivi: degli equilibri naturali nel primo, degli equilibri etici nel secondo”. La
crisi attuale dovrebbe essere l’occasione di ripensare il nostro modo di stare al mondo.
Conservazione
Lo sforzo nel porre rimedio alla perdita di ambienti e specie ebbe inizio, salvo qualche eccezione
precedente, negli anni 70’. Fondamentale per la presa di coscienza della popolazione sui problemi
della natura è stato il ruolo delle associazioni ambientaliste. A livello regionale il Piano Urbanistico
Regionale del 1979, che prevedeva parchi e “ambiti di tutela ambientale”, costituì un momento
importante. Attualmente oltre ai parchi e alle Riserve Naturali esistono le zone tutelate dalla rete
Natura 2000, ai sensi delle direttive “habitat” e “uccelli” della Comunità Europea che sono mirate
alla conservazione di ambienti e specie scarse o in pericolo. Complessivamente una parte rilevante
delle zone più importanti ricadono in aree che hanno qualche grado di tutela legale. In realtà in
montagna molte zone naturali sono presenti anche al di fuori mentre nella pianura e sul carso,
maggiormente antropizzati, le varie forme di tutela fanno da ombrello, più o meno efficiente, a gran
parte delle zone più interessanti, esclusi purtroppo lunghi tratti fluviali. Pur non avendo dati precisi
la mia personale impressione è che al di fuori di un limitato numero di zone dove la naturalità è
stabile o in aumento si assiste ad una generale banalizzazione faunistica e probabilmente floristica.
Il numero di specie risulta elevato e vicino alla fauna “potenziale” dato il benevolo atteggiamento
dei nostri contemporanei, ma si tratta di animali tendenzialmente ubiquitari e poco esigenti dal
punto di vista ecologico. Gli ”specialisti” sono spesso in regresso con la probabile eccezione degli
animali legati ai boschi che vengono favoriti dalla maggiore maturità raggiunta da questi ambienti.
Attualmente in pianura molti siti importanti appaiono isolati da agricoltura intensiva, infrastrutture e
zone urbane e sarebbe auspicabile la costituzione di corridoi ecologici per connettere gli areali e
permettere il movimento e la ricolonizzazione di fauna e flora e il flusso genetico all’interno nelle
varie specie. Una definizione di biodiversità infatti mette in evidenza i tre livelli di varietà
biologica: geni, specie e ecosistemi che insieme costituiscono la biodiversità di una regione. Pochi
individui di una specie con un patrimonio genetico limitato non contribuiscono alla biodiversità
quanto popolazioni vitali e interconnesse. Esistono ricadute sul benessere dell’uomo nel vivere in
un ambiente sano, vivo e vario e la Comunità Europea già nel 1974 considerava la varietà di specie
di uccelli di un territorio come elemento importante che concorre alla qualità della vita. Del resto un
po’ tutti, quando pensiamo al degrado, lo colleghiamo a zone industriali intercalate a periferie
anonime, discariche e strade dove tutti corrono, nelle rispettive macchine, senza un posto dove
incontrarsi. E per concludere vorrei citare il “Cantico dei cantici”
“Dimmi o amore dell’anima mia
dove vai a pascolare il gregge
dove lo fai riposare il meriggio
perché io non sia come vagabonda
dietro alle greggi dei tuoi compagni”
Forse salveremo la natura fragile solo se ci sentiamo responsabili di essa
Bibliografia
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