Il dito di Caravaggio nella piaga della ricerca

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Il dito di Caravaggio nella piaga della ricerca
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“Non mi fido di nulla se non della testimonianza degli occhi “.
Francis Bacon
Il dito di Caravaggio nella
piaga della ricerca
assunto questo dipinto come
emblema della sua tesi, che
vede nell’arte del Caravaggio
una diversa espressione dello
stesso ambito culturale da cui
ha preso avvio la rivoluzione
scientifica. In un suo libro,
uscito nello stesso anno della
mostra romana, cita il quadro
d i S a n To m m a s o s i n d a l
titolo, ne riproduce l’immagine in copertina e lo interpreta come un manifesto
della nascente cultura sperimentale, tanto da rappresentare “la volontà di verifica,
di accertamento per prova...
in termini che ora possiamo
dire galileiani a ragion
veduta”1.
Incredulità di S.Tommaso, Caravaggio.
(1601-1602) olio su tela; 107x149 cm. Potsdam-Sanssouci, Bildergalerie, Berlin.
Il dito nella piaga
Nel 1992 Roma ospitò la mostra “Michelangelo
Merisi da Caravaggio. Come nascono i capolavori”,
curata da Mina Gregori. In quell’occasione fu
esposta per la prima volta in Italia anche la “Incredulità di San Tommaso”, che risiede normalmente a
Postdam, in Germania.
Ricordo di essere rimasto impressionato allora soprattutto dal dito dell’apostolo che penetra nella
ferita del costato, sino a sollevarne crudelmente il
labbro.
Osservandolo, ancora oggi mi colpisce la concentrazione del racconto: il volto dolente di Cristo
reclinato in ombra, quasi vergognoso della penetrazione, e la mano sovrapposta a guidare e trattenere il gesto maldestro. L’uomo del quadro
concede ai discepoli di fare esperienza, cioè di apprendere, letteralmente sulla propria pelle.
Non a caso, il critico Ferdinando Bologna ha
Dice la saggezza popolare che il medico pietoso
fa la piaga pustolosa, ma nel quadro è il ditaccio
con le unghie sporche dell’apostolo che rischia di
infettare una ferita miracolosamente pulita. Agli
occhi di uno spettatore medico, il gesto indagatore può richiamare l’agire del clinico, deciso ad
andare sino in fondo nell’accertamento del male.
Allora la mano che lo trattiene (mentre l’altra
scosta la veste in un gesto di accondiscendenza)
rappresenta la volontà del paziente che dà il suo
consenso a essere scrutato e curato, ma che
mantiene sempre la possibilità di decidere dove e
quando il curante deve fermarsi.
Però la curiosità intensa dipinta sui volti dei tre
apostoli rimanda in maniera ancor più convincente
al mondo della ricerca clinica, ammesso che questo
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come garanzia almeno contro l’occultamento di dati
sgraditi agli sponsor.
Richard Smith, ex direttore del British Medical
Journal, dubita in realtà che le soluzioni sinora
proposte, dal registro dei trial alla trasparenza sui
ruoli degli sponsor e dei ricercatori, cambino davvero
un corso delle cose determinato da così potenti interessi economici. Poiché ormai le riviste scientifiche
sono ridotte a “estensione del ramo marketing delle
compagnie farmaceutiche”, secondo Smith dovrebbero smettere di pubblicare i trial, concentrandosi sul compito di analizzarne criticamente i risultati, che dovrebbero essere disponibili a tutti su
siti web controllati pubblicamente3.
Anche questa drastica misura però, se anche risolvesse la crisi di credibilità che affligge ormai il
sistema di pubblicazione scientifica, tagliando con la
spada il nodo che l’avvolge in un conflitto di interessi
inestricabile, lascerebbe intatto il difetto a monte.
Occorre prendere atto che, soprattutto in campo
biomedico, la ricerca non ha più le caratteristiche di
un’impresa “disinteressata e collaborativa”, come
era stata definita dal sociologo della scienza Robert
Merton solo mezzo secolo fa. Con le parole del
premio Nobel per la medicina Karis Mullis, “probabilmente lo sviluppo scientifico più importante del
XX secolo è che l’interesse economico ha rimpiazzato la curiosità come forza trainante della
ricerca”.
Si tratta di interessi ingenti e crescenti: secondo
una recente analisi, i finanziamenti per la ricerca in
campo biomedico sono raddoppiati, arrivando nei
soli Stati Uniti alla cifra di 100 miliardi di dollari; su
questo totale, quasi il 60% degli investimenti
proviene dall’industria, mentre il contributo dei National Institutes of Health è inferiore al 30%4. Eppure,
per quanto enormi possano sembrare le somme investite oggi dall’industria nella ricerca, esse costituiscono tuttora meno di un terzo di quello che le
compagnie farmaceutiche spendono per marketing,
promozione e gestione5.
ambito debba considerarsi nettamente distinto da
quello della pratica.
Ricordo di avere sentito negli anni Settanta Giulio
Maccacaro dire che non si deve fare ricerca sull’uomo, ma con l’uomo. Quel cambio di proposizione mi colpì, perché mi sembrò allora una verità
allo stesso tempo folgorante e troppo semplice. Si fa
presto a dire “con l’uomo”, ma come evitare il
rischio che resti una bella frase, o un’utopia fuori
dalla realtà?
Oggi che mi trovo a osservare le cose dall’interno
del Comitato etico di un’importante istituzione di
ricerca mi rendo conto che quell’utopia è forse più
lontana di allora.
Certo, sono ormai scomparse le violazioni vistose
dei diritti umani che Maccacaro negli anni Cinquanta e Sessanta denunciava sistematicamente, sollevando la sua voce isolata contro i baroni che facevano “sperimentazioni” criminali su ignare cavie
umane: culture di germi fatte ingoiare ai bambini ricoverati in pediatria, milze asportate ai cirrotici,
prelievo di umor acqueo dall’occhio di diabetici.
Oggi questo non sarebbe neppure pensabile,
grazie al diffondersi di un’etica della ricerca e di una
cultura della “good clinical practice”. Contemporaneamente si è affermata però una più sottile forma
di prevaricazione, che consiste nello sfruttare la
buona fede dei pazienti per arruolarli (il termine militare la dice lunga su quanto sia considerato attivo
il coinvolgimento dei soggetti) in ricerche che nulla
hanno a che vedere con il desiderio di conoscenze,
o con la salute della gente, ma che sono concepite
e condotte a scopo di profitto, spesso addirittura
come puro ingrediente del marketing.
Ricerca e marketing
Il grido di allarme lanciato nel settembre del 2001
dai direttori di 12 tra le più autorevoli riviste internazionali di medicina, attraverso la pubblicazione
contemporanea di un editoriale a firma congiunta,
è ormai un classico2. Poiché a distanza di 5 anni da
quell’appello alla responsabilità e affidabilità non vi
è cenno a un recupero di credibilità della ricerca
clinica pubblicata, gli editori raccolti nell’International Committee of Medical Journal Editors (ICMJE:
tra cui New England Journal of Medicine, Journal of
the American Medical Association, Lancet, Archives
of Internal Medicine, ecc.) stanno dando seguito a
una iniziativa comune concreta: non pubblicheranno
più i risultati di trial clinici che non siano stati iscritti
sin dall’inizio in un registro pubblico e indipendente,
Perdita di rilevanza
Le aberrazioni che questo stato di cose sta producendo hanno già creato una vasta letteratura, di
cui si può trovare un’eccellente e aggiornata sintesi
nel libro di Marco Bobbio “Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza”6. L’insieme di questi
stravolgimenti si può però riassumere in una sola
espressione sintetica: perdita di rilevanza.
Un esempio al limite del grottesco, a proposito di
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ANNO XII N. 4
uno studio sul trattamento della stitichezza cronica,
è stato esaminato in un recente editoriale del Bollettino d’Informazione sui Farmaci7. Ma molti altri
possono essere citati: le ricerche di nuovi farmaci
contro l’obesità e contro l’insonnia (due condizioni
presentate dal marketing e dai media come
“epidemie” e quindi come priorità per la salute
pubblica) si accontentano spesso di verificare solo
che le molecole sperimentali siano superiori al
placebo nel produrre effetti misurabili ma di dubbio
impatto sulla salute, anche per il breve periodo di osservazione. Sulla base di quegli studi, nessuno saprà
mai quanto la perdita di peso o la ridotta latenza al
sonno si mantengano nel tempo, e rappresentino
un reale vantaggio di salute a fronte di sicuri e
talvolta gravi effetti collaterali.
Come si può uscire da questa situazione insostenibile? In altri termini, quale può essere per la ricerca
clinica l’equivalente della mano di Cristo, che guida
e trattiene il dito indagatore, spinto ormai da ingenti
interessi in una ricerca troppo poco rispettosa dell’uomo, che dovrebbe invece essere il vero riferimento ultimo?
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2005
Di fronte a queste rigidità, ai comitati etici resta
dunque spesso solo la scelta secca tra approvare gli
studi così come sono o bocciarli in tronco: due
opzioni che lasciano comunque immutato il corso
complessivo delle cose: lo sponsor che riceve un
rifiuto in un istituto, ne ha molti altri a cui rivolgersi.
Per uscire da questo stato di cose, una prima via
potrebbe essere cercata in un maggior scambio di
informazioni e pareri tra i diversi comitati chiamati a
decidere su argomenti simili: coordinando le proprie
decisioni, i comitati etici potrebbero acquisire una
maggior capacità di influenzare a monte il disegno
degli studi, attraverso la mediazione dei ricercatori.
Alcuni passi in questa direzione si stanno facendo,
anche se purtroppo in assenza di un organismo con
compiti di coordinamento istituzionale a livello nazionale, tutto si fonda per ora sulla buona volontà
dei singoli comitati; i cui membri sono a loro volta
volontari, nel senso che mancano sia di formazione
specifica sia di retribuzione per l’opera che prestano.
L’Osservatorio nazionale sulla sperimentazione
clinica (OsSC), unico in Europa, è uno strumento di
trasparenza, e la sua prossima apertura verso il
pubblico costituirà una garanzia per la pubblicazione
dei risultati anche negativi della ricerca. Purtroppo il
suo aggiornamento da parte degli sponsor non è costante e il suo uso come strumento di comunicazione e di scambio tra tutti gli attori del settore,
nonostante le intenzioni del progetto, non ha mai
preso piede.
Anche se, per ipotesi improbabile, si realizzasse
domani un’azione coerente in ambito nazionale da
parte dei comitati etici, ancora non basterebbe per
svolgere in maniera diretta il ruolo della mano che
guida e trattiene, se si considera il quadro sempre
più internazionale e globale della ricerca multicentrica. Un diniego in un solo paese avrebbe come
unico effetto di far migrare altrove i fondi industriali
per la ricerca.
L’impotenza dell’etica
Molti individuano oggi nei comitati etici un possibile argine alla prepotente invadenza del mercato
nel mondo della scienza. In realtà, il punto di osservazione interno all’attività di questi organismi offre
un panorama scoraggiante. Lasciando da parte i
piccoli protocolli locali, spesso di bassa qualità, i
grandi trial multicentrici sono disegnati in maniera
ineccepibile sul piano del metodo e del rigore, ma
quasi sempre in modo tale da soddisfare le esigenze
dei produttori dei farmaci in studio, piuttosto che
per rispondere alle domande che consentirebbero ai
medici di usarli al meglio e ai malati di giovarsene.
Il margine di intervento dei singoli comitati,
grazie anche alla polverizzazione sul territorio, è
quasi nullo, limitato per lo più alle modifiche delle
informazioni scritte (di per sé assai meno importanti
di quelle orali) da fornire per il consenso. Risulta
molto difficile, se non quasi impossibile, proporre e
ottenere correzioni sostanziali dei protocolli (e
persino degli emendamenti) che siano mirate a ottenere risposte più utili in termini di salute: spesso
per esempio, lo sponsor si rifiuta di approfondire,
anche con studi satelliti, i fattori che condizionano
la risposta ai farmaci, in modo da poter individuare
chi se ne gioverà e chi no, temendo in tal modo di
ridurne il mercato potenziale.
Una mano che guida e trattiene
Le uniche istituzioni che avrebbero un reale
potere di argine di fronte alla commercializzazione
della ricerca sono le grandi agenzie regolatorie americane ed europee che dovrebbero rappresentare
l’interesse dei malati e della collettività: Food and
Drug Adminitration (FDA) ed European Medicines
Evaluation Agency (EMEA).
In effetti l’industria, quando disegna gli studi, si
attiene scrupolosamente ai requisiti minimi che sono
richiesti da queste autorità:
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ricerca indipendente su temi rilevanti per la
salute pubblica, come sta facendo l’Agenzia
Italiana del Farmaco con i bandi su tre aree: medicinali orfani, farmacovigilanza e soprattutto
studi comparativi, utilizzando il fondo di circa
47 milioni di euro istituito con il 5% delle spese
promozionali dell’industria farmaceutica;
• cambiare gli standard di valutazione a livello
europeo e americano, richiedendo che l’approvazione di un nuovo medicinale avvenga
sulla base di una valutazione completa dell’utilità che esso può avere nella pratica clinica,
soprattutto nel confronto con i trattamenti già
disponibili; per non frenare la reale innovazione, questa valutazione potrebbe avvenire
in parte anche dopo la messa in commercio, in
caso di vera novità del prodotto.
Non sono processi semplici che possano avvenire
da un giorno con l’altro, ma i tempi e l’opinione
pubblica sembrano maturi perché se ne possa discutere, con l’intento di trasformare la funzione di FDA
ed EMEA, ormai insoddisfacente per tutti, nella
“mano” che può guidare la ricerca con l’uomo.
il rispetto di standard di qualità per gli studi
(Good Clinical Practice);
la dimostrazione di efficacia e di sicurezza
per i farmaci sperimentati.
Sul primo punto non c’è nulla da dire: come è dimostrato ormai da numerose analisi, la qualità metodologica dei trial sponsorizzati è ormai molto alta, in
genere superiore a quella degli studi indipendenti,
che soffrono di una cronica carenza dei mezzi economici indispensabili per ottemperare a tutti gli
adempimenti.
Sul secondo punto invece la “mano” è decisamente carente. Secondo Jerry Avorn, professore di
medicina ad Harvard e autore di un documentato volume su benefici e rischi dei farmaci8, le agenzie mostrano quasi un disturbo ossessivo-compulsivo nel richiedere sempre e solo che un nuovo farmaco esca
bene da un confronto con un termine di paragone irrilevante (per esempio il placebo, come ben illustrato
in un recente articolo in questa stessa rubrica9) nel
raggiungere un effetto altrettanto irrilevante in uno
studio di breve durata10.
In conseguenza di questo atteggiamento “monomaniacale” non si fanno quasi mai studi di confronto
diretto per stabilire quale, tra diversi trattamenti disponibili per la medesima malattia, è preferibile e in
quali circostanze. Tanto è vero che quando studi di
tal fatta vengono finalmente condotti con ricerche
indipendenti portano spesso con gran sorpresa a indicare come preferibili i farmaci più vecchi e meno
costosi: ciò è accaduto per gli antipertensivi e più recentemente per i rimedi contro le psicosi11.
Le agenzie dovrebbero anche accertare che i nuovi
farmaci siano sufficientemente sicuri, ma gli elementi
di prova di cui si accontentano sono ancor meno soddisfacenti, perché la brevità e le ridotte dimensioni dei
trial consentono di individuare solo rischi immediati e
ingenti. Il resto è affidato alla sorveglianza successiva,
ma con un ruolo scarsamente attivo da parte delle
agenzie, come dimostrato dalle recenti vicende relative agli effetti dannosi dei coxib e degli antidepressivi,
e di altri incidenti minori ma sempre più frequenti. Per
di più, in assenza di una solida valutazione di utilità, risulta comunque impossibile determinare quale grado
di rischio sarebbe teoricamente accettabile.
Per effetto di queste gravi carenze, che antepongono i legittimi interessi industriali a quelli dei cittadini, i sistemi sanitari sono costretti a rimborsare trattamenti sempre più costosi senza sapere se e quanto
valgono.
Le possibili soluzioni sono a due livelli:
• aprire nuovi canali di finanziamento per una
Roberto Satolli
Presidente del Comitato etico
Istituto dei tumori, Milano
Bibliografia
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8. Avorn J. Powerful medicines: the benefits, risks and costs of
prescription drugs. New York: Alfred Knopf, 2004.
9. Bertele’ V, Garattini S. Escher, l’ambiguità degli spazi e l’effetto placebo. BIF 2005; 2: 84-8.
10. Avorn J. FDA standards. Good enough for government
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antipsychotic drugs in patients with chronic schizophrenia.
N Engl J Med 2005; 353: 1209-23.
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