il vaso di pandora

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il vaso di pandora
Spedizione in Abbonamento Postale 70% - Filiale di Savona
Vol. XX, N. 4, 2012
TRA PRASSI E TEORIA
APPUNTI DI VIAGGIO
Edizioni
QUATTRO PASSI PER STRADA
OLTRE...
* Omaggio a Hermann Zapf *
Progetto informatico di Tiziano Stefanelli
IL VASO DI PANDORA
Edizioni
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XIX, N.1, 2011
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane
<<Il Vaso di Pandora>>
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IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°1, 2011
Sommario
Editoriale
Paola Bartolini
pag. 6
TRA PRASSI E TEORIA
Interventi precoci nelle psicosi: cosa sappiamo e cosa possiamo fare
Panfilo Ciancaglini, Lucio Ghio, Marco Vaggi
pag. 11
APPUNTI DI VIAGGIO
4
Alexitimia e disturbi da “addiction”.
Aspetti psicodinamici e considerazioni generali
Sabino Nanni
pag. 35
Memoria e Sentimenti: esperienze di Musicoterapia
in Comunità Psichiatriche
Giacomo Cassano
pag. 65
QUATTRO PASSI PER STRADA
Recensione:
“Psicoterapia Psicoanalitica. Verso una tecnica di interventi specifici”
di Hugo Bleichmar
Filippo Mittino
pag. 89
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°1, 2011
Table of contents
Editorial
Paola Bartolini
pag. 6
TRA PRASSI E TEORIA
Early interventions in Psychosis: what we know and what we can do
Panfilo Ciancaglini, Lucio Ghio, Marco Vaggi
pag. 11
APPUNTI DI VIAGGIO
Alexitimia and Addiction Disorders.
Psychodinamic aspects and general consideration
Sabino Nanni
pag. 35
Memory and Feeling: Experiences of Musictherapy
into a Psychiatric Clinic
Giacomo Cassano
pag. 65
QUATTRO PASSI PER STRADA
Recensione:
“Psicoterapia Psicoanalitica. Verso una tecnica di interventi specifici”
di Hugo Bleichmar
Filippo Mittino
pag. 89
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
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Editoriale
6
Quest'anno il primo numero della rivista si apre con l‟interessante
contributo di Ciancaglini, Vaggi e Ghio sugli esordi schizofrenici. Gli
autori riportano la loro esperienza, svolta presso un Centro di Salute
Mentale genovese nell‟ambito di un progetto di ricerca nazionale
(PROGRAMMA 2000) per l‟individuazione ed il trattamento precoce
degli esordi psicotici. La letteratura scientifica evidenzia come la
diagnosi precoce di schizofrenia ed il trattamento tempestivo del
quadro psicopatologico siano correlati ad un miglioramento degli esiti a
breve e a lungo termine. In particolare, appare centrale l‟importanza del
cosiddetto “periodo critico”, ovvero i due anni successivi al primo
episodio psicotico, caratterizzato dalle massime possibilità d‟intervento
sia per il quadro neurobiologico, suscettibile di modificabilità, sia per
evitare danni psicosociali secondari che compromettono la rete sociale
e le abilità degli individui. In quest‟ottica diventano quindi essenziali
nel trattamento della schizofrenia adeguate politiche socio-sanitarie,
volte a favorire interventi di prevenzione secondaria e terziaria
Il lavoro successivo – per opera di Sabino Nanni - propone una
raffinata disamina clinica e terapeutica dell‟alexitimia, ponendola in
relazione con “l‟addiction to normality” di Kohut. Gli alessitimici
appartenenti a tale gruppo sono soggetti all‟apparenza “normali” ma
inclini a problemi di addiction e a scompensi somatici gravi in presenza
di stressor emozionali. Mancando della possibilità di riconoscere,
descrivere e condividere le proprie emozioni, e, di conseguenza, di
trarre giovamento da relazioni affettive autentiche, tali soggetti
ancorano il proprio equilibrio in modo rigido e dipendente alla
normalità. In presenza di eventi a forte impatto emotivo sono carenti
delle risorse necessarie all‟elaborazione psichica e tendono ad
esprimere e scaricare la propria sofferenza sul corpo con gravi rischi
per la propria salute.
Rievocando Ivan Ilijc di Tolstoj, con il suo “conformismo istintuale”,
Nanni ci descrive la patologia della normalità “coatta” mettendo in luce
come la possibilità di “impazzire un po‟” permetta di “non impazzire
del tutto”e sia uno dei fattori per preservare la salute mentale.
Vengono poi esposte le diverse modalità di trattamento della
dipendenza patologica che si collocano lungo un continuum che va
dall‟attivazione di un addiction sostitutiva meno nociva sul piano
somatico e sociale, all‟intervento psicoterapico volto allo sviluppo di
aspetti sani della personalità. Con un esame critico dei vari fattori che
possono orientare nell‟uno o nell‟altro senso la cura di questi pazienti,
l‟autore sottolinea infine la necessità di una relazione empatica e di un
approccio integrato come elemento fondamentale nella scelta della
terapia più adeguata al singolo paziente.
E‟ esperienza comune che l‟ascolto della musica favorisca il riemergere
di ricordi ed emozioni. Cassano nel suo articolo illustra le basi
neurobiologiche che sottendono alla fruizione musicale ed evidenzia
come essa possa diventare strumento di cura e riabilitazione per i
pazienti psichiatrici.
Egli descrive la propria attività di conduttore di gruppi di
Musicoterapia in Comunità terapeutica, delineandone le modalità di
svolgimento e le varie tecniche d‟intervento. In particolare valorizza
l‟importanza del gruppo e dell‟atmosfera di condivisione e confronto
quali elementi di contenimento ed elaborazione delle esperienze
individuali. All‟interno di un contesto non verbale, in un setting
definito, il terapista propone l‟ascolto di brani musicali che afferiscono
a due registri, quello della “famigliarità rassicurante” e quello della
“novità che stimola”al fine di rievocare il passato, sollecitando nel
presente la funzione creativa della mente.
Chiude questo numero la recensione di Mittino su “Psicoterapia
Psicoanalitica. Verso una tecnica d‟interventi specifici” di Hugo
Bleichmar.
Buona lettura!
Paola Bartolini
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
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Tra prassi e teoria
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IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
Panfilo Ciancaglini1, Lucio Ghio2, Marco Vaggi3
Interventi precoci nelle psicosi: cosa sappiamo e
cosa possiamo fare
Un nuovo modello di intervento: la basi teoriche
Negli ultimi anni molti studi (Birchwood et al., 1997; McGorry et al.,
1999; Birchwood et al., 2002) hanno posto sempre più l‟accento
sull‟ampia variabilità degli esiti a breve e a lungo termine della
schizofrenia e hanno mostrato come questi siano correlati con la
durata della psicosi non trattata (DUP: duration of untreated
psychosis) e con l‟evoluzione durante i due anni successivi al primo
episodio psicotico, il cosiddetto “Periodo Critico”.
Appare, cioè, documentato il rapporto tra il mancato trattamento
precoce della psicosi e gli esiti sfavorevoli a lungo termine, sulla base
della proposta teorica di un “periodo critico” di alcuni anni che
coinciderebbe, nella psicosi, al periodo di massima plasticità e
modificabilità del quadro psicopatologico, al termine del quale si
raggiungerebbe un “plateau”, sul piano sintomatologico e delle
disabilità, difficilmente reversibile (McGorry et al., 2000).
L‟irreversibilità sintomatologica avverrebbe quindi in un periodo molto
precoce della malattia, dato confermato dallo studio di Carpenter et al.
(1991) che evidenzia, in un follow-up di 11 anni, come il 75% dei
pazienti non mostri cambiamenti significativi relativi a tassi di ricadute,
Associazione Italiana per gli Interventi Precoci nelle Psicosi, Milano
Dipartimento di Neuroscienze, Oftalmologia e Genetica, Università degli Studi di
Genova
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U.O. Salute Mentale Distretto 8, Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze, ASL 3
Genovese
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relazioni sociali, capacità lavorativa e sintomi residui tra il secondo e
l‟undicesimo anno.
In seguito a questi risultati da alcuni anni il riconoscimento precoce e
una diversa e più intensiva gestione della schizofrenia all‟esordio sono
diventati temi centrali di salute mentale e obiettivi prioritari di sanità
pubblica, capovolgendo di fatto le basi teoriche delle pratiche cliniche
attuali, che tendono a fornire interventi riabilitativi intensivi e
prolungati nelle fasi avanzate della psicosi, per pazienti spesso ormai
affetti da disabilità cronica, e a riservare solo interventi di crisi nelle
prime fasi di malattia.
L‟ipotesi degli interventi precoci nella schizofrenia è quella, quindi, che
una riduzione della durata della psicosi non trattata (DUP), attraverso
interventi di individuazione precoce e trattamenti farmacologici e
psicosociali nelle primissime fasi della malattia, possa migliorare gli esiti
a breve e a lungo termine. Come confermato, infatti, da alcuni studi
(Crow et al., 1986; Johnstone et al., 1986) la durata della psicosi non
trattata (DUP) sembra essere il fattore predittivo più importante di
successive recidive, più significativo anche dell‟adesione al trattamento
farmacologico.
L‟intervento precoce nella schizofrenia, pur nella sua complessità,
rappresenta, quindi, oggi la direzione più innovativa verso la quale si
stanno muovendo gli sforzi della ricerca, della pratica clinica e delle
politiche sociosanitarie. Lo scopo è quello di evitare che le persone
vengano prese in carico quando la malattia è consolidata e i suoi effetti
disabilitanti hanno interrotto o pesantemente intaccato lo sviluppo e la
realizzazione del progetto personale di vita, quando la rete affettiva e
sociale si è spezzata e le famiglie e la società risentono fortemente
dell‟impatto con la patologia.
L‟esperienza clinica e le ricerca attuali indicano che un atteggiamento
più attivo e un‟offerta più tempestiva e mirata di trattamento
consentono di “invertire la rotta” (Meneghelli e Bislenghi, 2003), di
ritardare o moderare le conseguenze di malattia, di avviare un processo
di miglioramento o di guarigione più rapido e più stabile e di garantire
una più appagante qualità della vita. (Loebel et al., 1992; Hafner et al.,
1995; McGlashan e Johannessen, 1996; Larsen et al., 2000; McGorry et
al., 2000; Schaffner e McGorry, 2001; Larsen et al., 2001).
Intervento precoce, dunque, non significa “prima del tempo”,
“prematuro”, ma “a tempo” e soprattutto, come sottolinea Larsen
(2001), “prima di quanto sia usuale”. Nell‟ambito della schizofrenia e
dei disturbi psicotici in generale risulta difficile parlare di prevenzione
primaria, mentre buone sono le prospettive nell‟area della prevenzione
secondaria in particolare quando rivolta al riconoscimento precoce di
nuovi casi, alla riduzione del ritardo nel mettere in atto un trattamento
efficace e alla possibilità di fornire un trattamento ottimale e
prolungato nel “periodo critico” dei primissimi anni di malattia.
Diminuire l‟impatto e il peso dei disturbi sarebbe già un risultato
rilevante, ma secondo alcuni autori è possibile pensare anche alla
riduzione della loro prevalenza, ad esempio ritardando nel tempo
l‟inizio della malattia, abbreviando il tempo passato in condizioni di
disabilità o accelerando il processo di guarigione.
I benefici potenziali di un intervento precoce includono quindi:
la riduzione della morbilità
il processo di guarigione più rapido
la prognosi migliore
il mantenimento di abilità psicosociali
la conservazione di supporti familiari e sociali
la minore necessità di ospedalizzazione.
Gli interventi precoci nella Schizofrenia sono indirizzati a tre fasi
specifiche del decorso della patologia: la fase prodromica o prepsicotica, il primo episodio psicotico e la fase successiva al primo
episodio psicotico, definito periodo critico.
Gli interventi nella fase pre-psicotica implicano un‟ampia gamma di
questioni etiche e concettuali.
In primo luogo i segni e i sintomi prodromici che potrebbero essere
associati ad una malattia psicotica, che compaiono generalmente in età
adolescenziale, non sono necessariamente specifici per uno sviluppo
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psicotico, ma possono essere causati da altri disturbi o essere reazioni
temporanee ad eventi stressanti.
Occorre molta prudenza per evitare di stigmatizzare senza necessità
come pre-psicotici individui non psicotici ed evitare il rischio che
venga offerto un trattamento preventivo a persone che avrebbero
avuto una buona prognosi anche senza trattamento o che non
avrebbero affatto sviluppato una psicosi (falsi positivi).
In secondo luogo, anche immaginando un‟alta specificità di previsione
del successivo sviluppo psicotico, esistono comunque molte resistenze
nell‟ipotizzare in questa fase l‟utilizzo di trattamenti psicofarmacologici,
come proposto da alcuni autori.
Vi è maggior consenso nel proporre per questi soggetti interventi
psicologici come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e
interventi di individuazione precoce attraverso il coinvolgimento dei
Medici di Medicina Generale.
I medici di famiglia sono spesso il primo punto di contatto con i
giovani e/o i loro genitori, e possono giocare un ruolo importante nel
ridurre al minimo i ritardi dell‟intervento. I programmi di intervento
precoce hanno bisogno di sviluppare la collaborazione con i MMG
locali e con le loro organizzazioni rappresentative.
Le strategie includono:
Incrementare la consapevolezza e promuovere l‟interesse per la
psicosi;
Fornire informazioni sull‟intervento precoce nella psicosi;
Educare e formare in modo mirato al miglioramento delle abilità
nella valutazione psichiatrica, nella individuazione della malattia e
nei principi di trattamento;
Consigliare e supportare attraverso un collegamento attivo, tirocini
psichiatrici guidati o supervisioni cliniche (Falloon et al.,1996);
Facilitare il percorso di invio ai servizi specialistici.
Il ritardo del riconoscimento dei primi segni di malattia psicotica nelle
persone giovani può derivare anche dal mancato riconoscimento da
parte delle famiglie e degli amici e i sintomi possono essere tollerati
per lunghi periodi di tempo prima della richiesta di aiuto.
L‟esordio spesso insidioso dei disturbi psicotici è un altro fattore che
ritarda il riconoscimento da parte di chi è vicino al giovane. Favorire le
conoscenze sulla salute mentale della popolazione potrebbe migliorare
potenzialmente il riconoscimento di sintomi psicotici precoci e
l‟accesso al trattamento.
Gli interventi che vengono proposti al momento del primo episodio
psicotico sono articolati (vedi figura 1) e hanno diversi obiettivi.
Il primo è, ovviamente, quello di ridurre il periodo della psicosi non
trattata, attraverso interventi di individuazione precoce, che
permettano anche di favorire una presa in carico volontaria e di ridurre
i tassi di trattamenti obbligatori e coercitivi, molto frequenti in questa
fase di malattia (sopra il 50%).
Un secondo obiettivo importante è quello di diminuire i tassi di dropout precoce e di allontanamento dal servizio di cura (50% in 18 mesi)
favorendo il mantenimento della presa in carico a lungo termine del
paziente e la riduzione del rischio, presente in questo periodo di
malattia, di suicidio o di ricovero in strutture penitenziarie.
Il terzo obiettivo è quello di prevenire fin dal primo episodio il rischio
di ricadute che sembrano essere correlate alla resistenza al trattamento
e allo sviluppo precoce di disabilità (Birchwood, 2000).
Low
Lowdose/
dose/
atypical
atypical
medication
medication
Work
Workand
and
training
training
Substance
Substance
misuse
misuse
Recovery
Recovery
Monitoring
Monitoringfor
for
depression
depressionand
and
suicidal
suicidal
thinking
thinking
Personal
Personaland
and
Family
Family
adjustment
adjustment
Relapse
Relapse
prevention
prevention
Figura 1. I principali interventi all‟esordio psicotico (Birchwood, 2000)
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Nel complesso gli interventi rivolti al primo episodio psicotico fanno
riferimento al modello già noto dell‟integrazione dei trattamenti; un
trattamento integrato di interventi biologici, psicologici e sociali
sembra, infatti, offrire il massimo vantaggio per il paziente.
Al di là di alcune tecniche specifiche ciò che appare come un approccio
nuovo è la raccomandazione di fornire interventi integrati, inclusi quelli
riabilitativi, nella fase molto precoce della malattia, e non, come spesso
accade, in una fase avanzata, quando il quadro di stabilizzazione della
sintomatologia (il “plateau”) si è ormai consolidato.
E‟ indispensabile attivare il sostegno della famiglia, anche per
sviluppare un piano di intervento nelle situazioni di crisi e per
prevenire comportamenti di coping disfunzionali, come l‟abuso di
sostanze o deliberati atti autolesivi.
Per facilitare il coinvolgimento sia dei pazienti che delle famiglie
vengono raccomandati già nelle prime fasi della malattia interventi di
tipo psico-educativo, sia per il paziente che per i familiari. Gli
interventi per i familiari possono essere di gruppo o rivolti al singolo
nucleo familiare, quelli per il paziente individuali o di gruppo.
Per quanto riguarda le terapie farmacologiche la maggior parte degli
studi raccomanda l‟utilizzo di farmaci antipsicotici a basso dosaggio al
fine di minimizzare gli effetti collaterali, in particolare i sintomi
extrapiramidali, l‟iperprolattinemia, l‟eccessivo aumento ponderale, la
modificata tolleranza al glucosio con un conseguente maggior rischio
di sviluppare diabete.
Il trattamento farmacologico del primo episodio psicotico è molto
importante non solo per la remissione della sintomatologia, ma anche
perché può influenzare il successivo atteggiamento del paziente verso
la terapia in generale. Le persone che soffrono di un primo episodio
psicotico sono spesso sospettose e timorose all‟idea di assumere
farmaci “per la mente”, tuttavia se il farmaco offre sollievo dai sintomi
senza presentare gravi effetti collaterali è probabile che i pazienti
collaborino anche nei tempi successivi della terapia.
Per quanto riguarda il supporto psicologico la terapia cognitivocomportamentale è il tipo di psicoterapia raccomandata.
Due importanti aree di intervento della terapia cognitivocomportamentale riguardano l‟abuso di sostanze e il rischio di suicidio.
L‟abuso di sostanze è uno dei più comuni problemi di comorbilità nel
primo episodio psicotico (Rabinowitz et al., 1998). Circa il 70% dei
pazienti al primo episodio psicotico hanno usato sostanze nei 12 mesi
precedenti il primo contatto con per il servizio, nella maggior parte dei
casi cannabis. Esistono d‟altra parte numerose evidenze che
sottolineano il ruolo delle sostanze d‟abuso nell‟insorgenza e nel
decorso di disturbi psicotici.
Oltre agli interventi previsti nel periodo di maggiore acuzie è
importante programmare un piano assistenziale specifico nel periodo
di remissione. Il periodo che fa seguito al primo episodio psicotico è
infatti fondamentale per ri-orientare e ricostruire la vita del paziente,
che va aiutato nella comprensione della psicosi e nello sviluppo di
risorse per il futuro.
Il cosiddetto “periodo critico”, come è stato detto, può durare da due a
cinque anni ed è fondamentale per i cambiamenti biologici, psicosociali
e cognitivi che si sviluppano attivamente in questo spazio di tempo e
che possono influenzare il decorso della psicosi.
In questa fase tempo e sforzi devono essere spesi per scoprire le aree
di funzionamento rimaste integre, favorendo ad esempio interventi
mirati al reinserimento sociale e lavorativo e ad un continuo supporto
individuale e familiare.
Oltre a interventi di reinserimento, è importante mantenere un
approccio attento alla prevenzione delle ricadute che determinano ogni
volta un aumento dei sintomi residui e delle disabilità. A questo
proposito è raccomandata una particolare attenzione allo sviluppo dei
sintomi prodromici in modo da fornire interventi tempestivi che
evitino il progredire verso un franco episodio psicotico.
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I modelli organizzativi: le esperienze internazionali e nazionali
Se da una parte sta crescendo l‟entusiasmo riguardo al concetto di
intervento precoce, dall‟altra l‟applicazione nei servizi delle conoscenze
rapidamente acquisite nel trattamento dei primi episodi psicotici appare
ancora ai primi passi.
Esistono comunque molte esperienze a livello internazionale che si
sono sviluppate negli ultimi 5-15 anni e che, nonostante le differenze,
hanno permesso di tracciare un quadro operativo di riferimento.
Alcune di queste sono strutturate come programmi di ricerca altre
rappresentano i primi tentativi di applicazione nei servizi di assistenza
della teoria degli interventi precoci.
In Australia e Nuova Zelanda l‟interesse per gli interventi precoci nella
schizofrenia è diffuso ed esistono numerosi gruppi di ricercatori che si
occupano del problema e tentano di determinare dei cambiamenti nelle
modalità di assistenza.
Un esempio è il Centro per l‟Intervento Precoce e la Prevenzione della
Psicosi (EPPIC, Early Psychosis Prevention and Intervention) di
Melbourne costituito: da un Team per l‟ Accesso dei Giovani (YAT)
che offre una valutazione mobile sul territorio 24h/24h, 7 giorni la
settimana ed è il primo punto di contatto con il centro; da un centro
per la crisi che offre un servizio di valutazione clinica (PACE, Personal
Assesment Crisis Evaluation); da un ambulatorio dedicato; e da un
reparto con 16 posti letto.
Nel nord America programmi per gli interventi precoci sono stati
sviluppati soprattutto in Canada, ad esempio in Ontario con il
Programma di Intervento Precoce e Prevenzione per le Psicosi (PEPP,
Prevention and Early Intervention in Psychosis Programme) che già
dal 1997 prevede l‟integrazione tra trattamenti medici e psicosociali ed
una stretta collaborazione tra le agenzie di collocamento presenti sul
territorio, le istituzioni, le scuole e le associazioni generiche.
Il programma operativo comprende un servizio per pazienti
ambulatoriali e ha un‟unità di ricovero che può accettare fino a 16
pazienti ricoverati.
La prima valutazione avviene entro 24-48 ore dalla segnalazione e se il
paziente presenta sintomi psicotici viene intrapresa una valutazione ad
ampio spettro entro una settimana.
Anche in Europa le iniziative riguardanti gli interventi precoci sono
molto diffuse in particolare nei paesi scandinavi e in Inghilterra ma
anche in Olanda e in Germania.
Uno dei più importanti è il servizio di intervento precoce (EIS, Early
Intervention Service) di Birmingham, in Inghilterra.
Il fulcro operativo di questo servizio è composto da un gruppo molto
attivo nell‟individuazione dei casi che opera sette giorni alla settimana
ed è formato da 10 case-managers (per lo più infermieri psichiatrici)
con un carico di circa 15 casi ciascuno. Il protocollo di trattamento
comprende: basse dosi di farmaci antipsicotici, psicoterapia cognitiva
per le allucinazioni ed i deliri; psicoterapia cognitiva rivolta a ridurre la
comorbidità; interventi psicosociali relativi ai problemi di
tossicodipendenza, orientamento professionale. Esiste poi una unità
residenziale che può accogliere fino ad un massimo di 8 persone che
necessitano di un recupero più prolungato magari per l‟alto rischio di
suicidio o per gravi problemi interpersonali.
In Italia il primo progetto di applicazione della teoria degli interventi
precoci è stato il PROGRAMMA 2000, un programma di
individuazione e trattamento precoce degli esordi psicotici che, dopo
un percorso di definizione concettuale e di progettazione organizzativa
iniziato nel 1997 ha avviato l‟attività sul campo nel 1999, coinvolgendo
parte di un Dipartimento di Salute Mentale della città di Milano, con
un bacino di utenza complessivo di circa 200.000 abitanti (Cocchi et
al., 2001; Cocchi e Meneghelli, 2002; Cocchi e Meneghelli, 2004;
Meneghelli et al., 2010).
Il suo scopo era mettere a punto, applicare e verificare una procedura
operativa che, sin dal primo contatto tra utente e servizio, fosse in
grado di dispiegare tutte le opportunità tecniche idonee a ritardare
l‟insorgenza della patologia psicotica e a prevenirne le ricadute. In altre
parole il progetto prevedeva di attuare una scelta operativa strategica
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che, partendo da una presa in carico precoce ed articolata, potesse
ridurre il rischio di cronicità e i relativi costi.
Gli obiettivi dal punto di vista clinico erano:
L‟individuazione quanto più precoce possibile dei quadri
psicotici su cui intervenire tempestivamente, cercando di
coinvolgere le famiglie e di motivare il malato;
Aumentare la risposta al trattamento e renderlo valido anche sul
lungo termine, migliorandone il rapporto costi/beneficio.
Come gli altri Progetti internazionali, anche il PROGRAMMA 2000
aveva uno spazio per la valutazione, con strumenti di misura ed analisi
dei risultati.
Sulla base delle tendenze internazionali il PROGRAMMA 2000 ha
deciso di privilegiare un modello organizzativo di tipo specialistico a
scapito si un programma di tipo generalista.
L‟équipe è il nucleo centrale, definito core, del progetto ed è composto
da: professionisti scelti appositamente, per particolare motivazioni e
competenze e psichiatri dei Servizi che dedicano parte della loro
attività ai pazienti del Programma, presso le sedi del Programma.
L‟équipe è in connessione con altri operatori ed altre strutture del
Dipartimento e con altre Agenzie del territorio, pubbliche e private,
coinvolte con i problemi del mondo giovanile.
Il gruppo di lavoro risulta quindi trasversale all‟interno del
Dipartimento, sia per composizione che per funzioni, salvaguardando
la sua specificità tecnica ed operazionale e preservando la sua spinta
motivazionale, ma essendo al tempo stesso una parte strettamente
interconnessa con il tutto. Ne è derivata una scelta specialistica
all‟interno di una cornice unificante di tipo generalista. Alcuni degli
psichiatri, in linea di massima uno per presidio, che operano nelle varie
strutture del Dipartimento individuati come “medici di riferimento”,
sono coinvolti nel lavoro presentando i nuovi casi nelle riunioni
settimanali, seguendoli per la parte di loro competenza e per le azioni
concordate nella sede del PROGRAMMA 2000 e dedicandovi una
parte del loro tempo lavoro, partecipando alle attività di assessment, di
monitoraggio e di ricerca. Gli infermieri addetti al triage nei Centri di
Salute Mentale assegnano agli psichiatri di riferimento i primi casi che
presentano una problematica ad impronta o a rischio psicotico. Uno
psichiatra, acquisito con un contratto ad hoc, segue sotto il profilo
medico i pazienti provenienti dall‟esterno del bacino di utenza del
Dipartimento.
Se viene ricoverata una persona psicotica non già conosciuta, lo
psichiatra di riferimento del reparto ospedaliero fa una tempestiva
segnalazione alla segreteria del PROGRAMMA 2000, da dove viene
inviato un operatore in ospedale per instaurare un rapporto con il
nuovo paziente, permettendo l‟avvio dell‟assessment e la presentazione
del caso nel corso della riunione settimanale di équipe fatta dallo
psichiatra segnalante. Si mantiene così, come già detto, una stretta
interconnessione all‟interno del Dipartimento.
Le Linee Guida
Prenderemo in considerazione le Linee Guida (LG) inglesi NICE
(National Institute for Clinical Excellence) pubblicate nel 2002 e quelle
italiane del Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG) pubblicate
dal Ministero della Salute nel 2007.
I punti fondamentali delle LG-NICE possono essere così riassunti:
Invio urgente ai servizi specialistici dei nuovi casi di schizofrenia
diagnosticati dal MMG. In caso di sospetto diagnostico il MMG
deve contattare lo psichiatra consulente;
Presenza di servizi d‟intervento precoce in grado di offrire la
corretta proporzione di interventi specialistici farmacologici,
psicologici,sociali,occupazionali ed educativi;
Terapia farmacologica con farmaci antipsicotici di seconda
generazione con dosaggio ai limiti inferiori del range terapeutico
Utilità di un secondo parere sulla diagnosi;
Valutazione dei bisogni completa riguardo aspetti medici, sociali,
psicologici, lavorativi, economici, fisici e culturali;
Disponibilità di terapia cognitivo-comportamentale;
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
21
22
Disponibilità di interventi di supporto della famiglia;
Prosecuzione del trattamento farmacologico per 1-2 anni;
Monitoraggio di almeno 2 anni dopo la sospensione del farmaco.
Le LG del SNLG-Ministero della Salute, contrariamente alle NICE,
non sono parte di LG di carattere generale sulla schizofrenia ma sono
specificamente dedicate agli interventi precoci. Sono suddivise tra
soggetti a rischio o in fase prodromica e soggetti al primo episodio
psicotico. Essendo state pubblicate cinque anni dopo, risultano più
aggiornate e non devono essere adattate alla realtà italiana. Le
raccomandazioni possono essere così riassunte:
Programmi strutturati di identificazione e trattamento precoci di
soggetti al primo episodio di schizofrenia;
Impiego delle scale di valutazione, sufficientemente accurate nel
formulare una diagnosi di schizofrenia;
Uso di tecniche di imaging a supporto della diagnosi;
Terapia farmacologica nel periodo che segue l‟esordio con farmaci
antipsicotici. L‟alternativa tra farmaci di prima o seconda
generazione deve essere valutata caso per caso;
Trattamenti di tipo psicoeducativo famigliare indirizzati a singoli
nuclei;
Training di competenza sociale nel periodo che segue il primo
episodio;
Terapia cognitivo comportamentale in sinergia con altre strategie
terapeutiche;
Regime di Trattamento assertivo di comunità (ACT) e
caratteristiche di multidisciplinarità, domiciliazione e flessibilità.
L’esperienza del CSM di Genova Voltri
A partire dalla fine degli anni ‟90 la letteratura sul tema degli interventi
precoci è stata oggetto della nostra attenzione.
Nel 2003 i colleghi del Programma 2000 ci chiesero di partecipare ad
una ricerca di valutazione degli esiti in qualità di gruppo di controllo.
Questa circostanza ci consentì di verificare l‟inadeguatezza della nostra
organizzazione per la presa in carico dei giovani psicotici al primo
contatto.
La maggior parte dei casi reclutabili perdeva precocemente il contatto
con il servizio rendendo impossibile la somministrazione degli
strumenti di valutazione. Inoltre gli invii dal SPDC presentavano
difficoltà di vario genere, nonostante l‟ottima collaborazione e la
presenza di un protocollo ad hoc. Peraltro i report del nostro Sistema
Informativo segnalavano che i pazienti giovani ricevevano mediamente
meno prestazioni di quelli di età più avanzata confermando il
paradosso di un sistema che utilizzava quasi tutte le sue risorse per
pazienti in fase avanzata di malattia.
Da quel momento l‟intervento precoce su tutte la patologie divenne
una priorità assoluta del servizio. Nell‟ambito di un programma
generale di spostamento di risorse verso le fasce giovanili si decise di
individuare un gruppo dedicato alla presa in carico dei nuovi pazienti di
età inferiore ai 30 anni che presentassero sintomi psicotici o grave
rischio di svilupparli. Venne quindi superata la logica della presa in
carico indifferenziata a rotazione, come già si era fatto in precedenza
per la psicogeriatria.
Il gruppo dedicato, formato da uno psichiatra, uno psicologo, una
assistente sociale e due infermieri faceva un assessment dei casi
utilizzando gli stessi strumenti del PROGRAMMA 2000. L‟invio
rimaneva di competenza del medico dedicato alle visite di valutazione
per tutto il servizio. Un secondo psichiatra venne individuato per il
lavoro di sostegno alle famiglie.
Venne elaborato un protocollo di trattamento che tenesse conto, da un
lato, delle evidenze di letteratura e delle esperienze cliniche e, dall‟altro,
delle nostre specificità e risorse.
Poiché nel frattempo il servizio aveva implementato un progetto di
collaborazione stabile e continuativa con i MMG, il loro ruolo negli
interventi precoci fu oggetto di diverse iniziative.
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24
Gli obiettivi prioritari della presa in carico erano il mantenimento del
contatto con il paziente o, ove non possibile, almeno con la sua
famiglia e la preservazione del ruolo sociale. Lo stile di lavoro faceva
riferimento ad una relazione amicale ed informale in un contesto che
tenesse conto dei seguenti punti:
massima flessibilità sui tempi e luoghi della cura
grande attenzione al timore della stigmatizzazione
priorità nei tempi di attesa
presa in carico durante il ricovero in SPDC
accettazione di eventuali terapeuti esterni al servizio se graditi al
paziente
sostegno precoce alla famiglia
particolare attenzione agli effetti collaterali dei farmaci
particolare considerazione delle disabilità precoci.
A diciotto mesi dalla sua implementazione, nel novembre del 2006, il
programma venne sottoposto ad una prima verifica da cui emersero
alcuni punti di forza:
diminuzione dei drop-out
diminuzione delle giornate di degenza in SPDC
incremento delle prestazioni
valutazione routinaria degli esiti ma anche diverse criticità
miglioramento clinico e sociale insoddisfacente
mancanza di procedure per l‟informazione a pazienti e famiglie
lavoro di supporto alle famiglie poco formalizzato
mancanza di figure professionali in grado di assumere compiti
tutoriali (educatori e terapisti della riabilitazione).
Nel 2007 e nel 2008 si fecero due revisioni del protocollo terapeutico
allo scopo di migliorare le criticità.
Tra le modifiche apportate vi fu l‟uscita dal gruppo dedicato degli
infermieri che comportava difficoltà organizzative superiori ai vantaggi
nel trattamento. Tuttavia il capo sala assunse l‟impegno di mettere
tempestivamente a disposizione del programma l‟infermiere più adatto
per i singoli progetti terapeutici.
L‟ingresso nel gruppo di una psicologa in tirocinio di specializzazione
consentì di ridefinire meglio l‟offerta per il supporto alle famiglie su tre
livelli:
intervento psicoeducativo di base per tutte le famiglie
sostegno individuale protratto alle coppie più problematiche
intervento di gruppo successivo.
Il gruppo delle attività sportive del servizio, che fino a quel momento
aveva lavorato prevalentemente con pazienti cronici, diventò un
importante interlocutore del programma, assumendosi l‟onere di
mantenere il contatto con alcuni giovani maschi che non accettavano
altro tipo di intervento. Con il passare del tempo abbiamo potuto
osservare un progressivo abbassamento dell‟età media dei partecipanti
alle attività sportive.
Sul versante dei rapporti con i servizi socio-sanitari per i minori il
gruppo dedicato ha consentito maggiore fluidità e continuità dei
contatti, valutazione pregressa dei casi in trattamento prima del
“passaggio” al diciottesimo anno, utilizzo di educatori per il sostegno
scolastico, presa in carico congiunta degli adolescenti in comunità che
comportassero difficoltà di gestione.
Nel 2009 il servizio si è assunto l‟onere del comitato locale
nell‟organizzazione del 2° Congresso Nazionale dell‟ Associazione
Italiana per gli Interventi Precoci nelle Psicosi (AIPP). La preparazione
di diversi contributi è stata l‟occasione per una migliore focalizzazione
di alcune questioni:
i rapporti tra attività generalista del servizio e gruppo dedicato ai
giovani psicotici
il ruolo del PLS e del MMG nella individuazione degli stati mentali
a rischio e degli esordi
le differenze nei bisogni di supporto delle famiglie
lo studio del drop-out sui giovani di tutte le patologie trattati dal
servizio.
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
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Nel 2010 il gruppo di lavoro che gestisce il Sistema Informativo del
DSM di Genova ha prodotto un report sui giovani psicotici al primo
contatto da cui si evince che l‟istituzione del gruppo dedicato migliora
l‟aderenza dei trattamenti erogati alle raccomandazioni delle Linee
Guida sui seguenti punti:
uso sistematico delle scale di valutazione
utilizzo di trattamenti psicoterapici cognitivo-comportamentali
utilizzo di interventi psicoeducativi per le famiglie.
26
Conclusioni
Le informazioni che abbiamo a disposizione sul tema degli interventi
precoci nelle psicosi dimostrano che è possibile migliorare l‟esito delle
patologie psichiatriche più gravi e invalidanti.
In molti paesi sono stati implementati programmi nazionali, regionali e
locali che hanno prodotto molte ricerche pubblicate su riviste
internazionali.
In Italia il PROGRAMMA 2000 ha fatto da traino e stimolo a diverse
esperienze locali e l‟AIPP con le sue iniziative scientifiche ha
disseminato nel paese la cultura degli interventi precoci.
Le Linee Guida Nazionali rappresentano un riferimento
imprescindibile per chi esercita responsabilità nella organizzazione di
servizi psichiatrici di comunità.
Possiamo dire di avere sufficienti informazioni su quello che dobbiamo
fare. Ignorare queste informazioni non sarebbe etico.
L‟esperienza del nostro CSM dimostra che è possibile produrre
graduali cambiamenti che, anche in un contesto generalista, mettano a
disposizione dei giovani pazienti gravi un percorso di cura specifico
aderente alle indicazioni della letteratura e alle raccomandazioni delle
Linee Guida.
RIASSUNTO
Negli ultimi anni molti studi hanno posto sempre più l‟accento
sull‟ampia variabilità degli esiti a breve e a lungo termine della
schizofrenia e hanno mostrato come questi siano correlati con la
durata della psicosi non trattata (DUP: duration of untreated
psychosis) e con l‟evoluzione durante i due anni successivi al primo
episodio psicotico, il cosiddetto “Periodo Critico”.
Il “Periodo Critico” sarebbe l‟intervallo di massima plasticità e
modificabilità del quadro psicopatologico, al termine del quale si
raggiungerebbe un “plateau”, sul piano sintomatologico e delle
disabilità, difficilmente reversibile. Interventi terapeutici intensivi in
questa fase sono quindi indicati per evitare precoci cronicizzazioni.
L‟obiettivo del presente lavoro è quello di descrivere le principali
esperienze internazionali e nazionali di intervento sulle psicosi
d‟esordio mettendo a confronto aspetti concettuali, modelli
organizzativi e le principali linee guida specifiche (NICE 2002,
Ministero della Salute 2007).
Inoltre vengono illustrati i principali ostacoli all‟implementazione di
servizi specifici e descritta l‟esperienza maturata in questi anni nel CSM
di Genova Voltri dove, all‟interno di un servizio “generalista”, si è
strutturata una equipe dedicata al trattamento delle psicosi d‟esordio.
PAROLE CHIAVE: psicosi, intervento precoce, linee guida
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
27
ABSTRACT
In recent years many studies have placed increasing emphasis on the
wide variability of short and long-term outcome of schizophrenia and
showed how these are correlated with the duration of untreated
psychosis (DUP) and the evolution during the two years following the
first psychotic episode, the so-called "critical period".
The “critical period” is thought to be the time of maximum plasticity
and modifiability of psychopathological picture, after which a "plateau"
in terms of symptoms and disability, difficult to reverse, would be
reached. Intensive intervention in this phase are then recommended to
avoid early chronic evolution.
The aim of this paper is to review the main international and national
experiences of intervention in early psychosis by comparing the
conceptual and organizational models,
and the main specific
guidelines (NICE 2002, Ministry of Health 2007).
Moreover the most frequent barriers to the implementation of specific
services of early interventions and the experience of a service for early
psychosis, within a "generalist" service, at the Mental Health Center of
Genoa Voltri are described.
28
KEY-WORDS: psychosis, early intervention, guidelines
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Appunti di viaggio
33
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
Sabino Nanni4
Alexitimia e disturbi da “addiction”.
Aspetti psicodinamici e considerazioni generali
I – Definizione
Esiste, in letteratura, tutta una serie di formulazioni da intendersi, a mio
avviso, come descrizioni di aspetti particolari, o di particolari fasi
evolutive, o di varianti cliniche di un‟unica situazione psicopatologica.
Tra quelle che conosco, elenco:
1. Psicofobia (Giberti – Rossi)
2. False self (Winnicott)
3. “As if” personalities (Deutsch)
4. “Pensée opératoire” e “Depression essentielle” (Marty e Coll)
5. “Dull normal” personalities (Eissler)
6. Alexithymia (Sifneos e Coll. - Taylor e Coll.)
7. Addiction to normality (Kohut)
8. Normopathy (McDougall).
Situazioni, queste, tutte caratterizzate da difficoltà o impossibilità ad
entrare in contatto con le proprie, autentiche emozioni e da “addiction”
nei confronti di oggetti o situazioni diverse. Fra tutte le suddette
denominazioni, ho preferito privilegiare quella di alexitimia
(“alessitimia” secondo alcuni) sia perché la descrizione di Sifneos [12]
corrisponde ad un “comune denominatore” presente in tutte le altre
situazioni cliniche sopra menzionate, sia per facilità di comunicazione:
“alexitimia” è l‟unico termine, fra quelli elencati, presente nello
4
Psichiatra, Psicoterapeuta, già Primario Ospedaliero ASL 22 Piemonte
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
35
“American Psychiatric Glossary” [1] ed entrato nel linguaggio
psichiatrico corrente.
Per alexitimia s‟intende l‟incapacità di assegnare un nome alle diverse
emozioni, di differenziarle l‟una dall‟altra, di distinguerle dalle
sensazioni somatiche. È in generale caratterizzata da una coartazione
della vita affettiva e da povertà della fantasia. Si tratta di un argomento
immenso, per il quale esiste un‟ampia letteratura [2, 3, 4, 7, 8, 9, 10, 12,
16, 17, 18, 19, 20, 21, 22]. In questa relazione mi limiterò a parlare dei
casi in cui l‟alexitimia si coniuga con “addiction to normality” [6];
questa condizione, in molti casi, si riscontra nelle fasi iniziali
dell‟evoluzione della patologia di cui stiamo parlando.
II – Condizioni di “grave normalità”
36
Al di là delle apparenze, gli alexitimici di questo gruppo sono pazienti
gravi, spesso candidati ad una morte precoce. Essi presentano una
particolare combinazione di fattori che rende, di regola, difficilmente
curabile o incurabile ciò che sta alla radice del loro male. Prima che si
manifestino le più gravi complicazioni, si presentano come persone che
il senso comune giudica mentalmente “normali”. In effetti, nelle
manifestazioni esteriori del pensiero e dell‟affettività, nelle relazioni
interpersonali e nelle capacità di adattamento alle usuali situazioni,
presentano una parvenza di perfetta “normalità”; eppure, non può che
essere una sofferenza di carattere psichico a renderli soggetti a
quell‟insieme di comportamenti che pone costoro in condizione di
grave rischio riguardo alla salute corporea: dipendenza da nicotina,
abusi alcolici, disordini alimentari, uso improprio di farmaci, ricerca
attiva di situazioni stressanti (eccessi, a carattere compulsivo, di lavoro
e/o di attività fisica o sessuale); comportamenti di regola accompagnati
ed aggravati da una particolare facilità con cui si producono, in loro,
scompensi somatici in rapporto a stressor emozionali. Ciò che
maggiormente ostacola, in queste persone, il trattamento di una
sofferenza mentale così grave nei suoi effetti, sono la repulsione e
l‟evitamento a carattere fobico di tutto ciò che implica, ai loro occhi, un
allontanamento dalla condizione di “normalità” psichica: innanzi tutto
l‟avere a che fare con uno psichiatra. La presenza dei comportamenti
abituali patogeni visti sopra (tutti con il carattere della “addiction”), la
parvenza di “normalità” psichica ed il terrore di doversi riconoscere
“anormale” appaiono legati tra loro da un nesso logico. È quanto
sembrano suggerire alcuni casi, tra cui quello che sto per descrivere.
III – Il caso di Daniela
All‟inizio di un trattamento reso disagevole dalla distanza della sua città,
e tuttavia protrattosi nei successivi dieci anni, Daniela comunicò una
strana impressione: le sembrava che il trovarsi nel mio studio in veste di
paziente psichiatrica (si tratta di una Collega) fosse per lei penoso più
dei disturbi che ce l‟avevano portata. E questo nonostante il carattere
particolarmente spiacevole del suo malessere: gli ultimi due anni, infatti,
avevano trasformato una ragazza sino allora forte, sicura di sé e
soprattutto “normale” (l‟aggettivo più ricorrente nelle descrizioni di se
stessa) in una persona “fuori di sé”, incapace di vivere senza consumare
quantità “inaudite” di sigarette e di cibo (soprattutto dolci) o senza
impegnarsi in uno “jogging” frenetico, estenuante; e senza poter fare a
meno di veder erompere, a tratti, la sua tensione in attacchi di panico
per lei sconvolgenti.
La vita precedente di Daniela si era caratterizzata soprattutto per
stabilità, anche riguardo al luogo di residenza: prima di trasferirsi in
questa parte d‟Italia, non si era mai allontanata dalla “terra natia” se non
per turismo e per brevi periodi. Vivendo in una città universitaria,
infatti, aveva potuto portare a compimento i suoi studi (laureandosi in
Medicina e specializzandosi) senza separarsi dalla famiglia d‟origine. Le
sofferenze della paziente erano iniziate due anni prima d‟incontrarmi,
subito dopo aver trovato lavoro ed essere venuta ad abitare da queste
parti. Eppure a Daniela non sembrava di avere un particolare rapporto
di dipendenza dai familiari: la sorella maggiore, infatti, viveva fuori casa
già da tempo e alla paziente non pareva di averne sentito la mancanza;
quanto ai genitori, erano sempre stati entrambi fortemente impegnati
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
37
38
nella loro attività di Medici Ospedalieri e Daniela, affidata fin dalla
prima infanzia a persone di servizio e ad un‟anziana parente (una
prozia), aveva ben presto imparato ad essere “autonoma” (altro
aggettivo spesso usato dalla malata nella descrizione di ciò che lei era
nel passato). Ricordi penosi di solitudine e tormentosa mancanza dei
genitori emersero solo più avanti nell‟analisi; all‟inizio Daniela poneva
soprattutto in evidenza la sicurezza di sé e (appunto) la “autonomia”
precocemente acquisite: adattatasi prontamente all‟ambiente scolare, la
paziente si era rifiutata fin dall‟inizio di farsi accompagnare a scuola
dagli adulti. Studiava, con eccellenti risultati, senza l‟aiuto di nessuno;
ricorda, in particolare, i pomeriggi passati a fare i compiti
nell‟ambulatorio, adiacente alla loro abitazione, dove i genitori
lavoravano, dandosi il cambio l‟un con l‟altro, dopo aver terminato le
loro ore in ospedale: la madre o il padre erano a pochi passi di distanza,
ma Daniela non poteva rivolgere loro la parola e neppure vederli e così
aveva imparato molto presto a non chiedere aiuto a nessuno nei suoi
studi. Le persone che si trovavano in sala d‟attesa la vedevano e tutti le
facevano i complimenti per quanto diligente e giudiziosa si dimostrava
passando così tante ore, pur così piccola, a scrivere ed a leggere senza
mai muoversi né fare chiasso. Nella narrazione della paziente, non vi
era stata soluzione di continuità nel passaggio dall‟infanzia
all‟adolescenza e da questa all‟età giovanile; colpiscono soprattutto, nel
suo resoconto, l‟assenza di trasgressività e di conflitti coi genitori, oltre
che la superficialità dei rapporti sentimentali (Daniela mi aveva anche
rivelato di non provare alcun piacere nel fare l‟amore col fidanzato di
allora, né con quelli che l‟avevano preceduto). La sua vita era quasi
interamente dedicata allo studio, già in preparazione di quella che si
preannunciava come la sua unica grande passione: la Medicina.
Un‟esistenza, dunque, vissuta all‟insegna della morigeratezza e della
“normalità”; unici vizi: il consumo di una quantità allora modesta di
sigarette e la tendenza, di tanto in tanto, ad esagerare col cibo, cosa che
compensava con ragionevoli diete e con attività sportive.
Daniela, nei primi tempi del trattamento, parlava volentieri, e con
sentimenti di viva nostalgia, del suo passato; ma appena pensò di aver
esaurito la descrizione del suo modo d‟essere precedente la malattia e
passò a parlare di questa, si fecero evidenti grosse difficoltà di
comunicazione. Innanzi tutto, non poteva fare a meno di usare termini
tecnici, cosa che le impediva di entrare in contatto, in seduta, con
l‟esperienza vissuta e soprattutto con le proprie emozioni. Invitata, poi,
ad associare liberamente in rapporto ai sogni o ai sintomi, esprimeva,
ogni volta, perplessità riguardo alle sensazioni ed ai pensieri “assurdi”
che attraversavano la sua coscienza; non riusciva ad avere pazienza nel
lavoro che le chiedevo, in collaborazione con me, necessario per
scoprire il senso di quanto diceva. Se poi, nonostante tutte le difficoltà,
si arrivava a qualche parziale, provvisoria ipotesi interpretativa,
immediata ed immancabile era la sua domanda: “E allora, cosa devo
fare?”. Quasi che lo scopo del lavoro analitico fosse la prescrizione, da
parte mia, di comportamenti che avrebbero dovuto farla rientrare nella
“normalità”. Spesso le sue associazioni d‟idee erano puramente
cerebrali o riguardanti fatti concreti della vita quotidiana, senza alcun
riferimento ai sentimenti che essi potevano averle suscitato; parlava
svelta, senza pause, cercando d‟evitare di “perdere quel tempo per cui
mi stava pagando”, come mi disse esplicitamente più di una volta, quasi
che questo fosse il modo più vantaggioso d‟utilizzare i 45 minuti che
mettevo a sua disposizione in cambio dell‟onorario. Divenne chiaro che
Daniela immaginava che la durata della sua malattia avrebbe coinciso
perfettamente con quella della cura e che, simultaneamente alla fine di
questa, si sarebbe verificata, come “di colpo”, la sua guarigione. La sua
fretta di rientrare nella “normalità” e nella “autonomia” era grande ed a
nulla servivano i miei tentativi di spiegarle che, in quel modo, il tempo
l‟avrebbe perso e non risparmiato.
Un altro modo di (non) chiedere aiuto, compariva nelle crisi di
agitazione che presto presero il posto degli attacchi di panico. In queste
circostanze, il cui fattore scatenante era di regola una mortificazione o
una mancanza di riguardo subite, l‟emotività di Daniela, di solito
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40
repressa o ignorata, diveniva esplosiva e, per fronteggiarla, mi chiedeva,
di solito, una o più sedute supplementari. Chiamava questi miei
interventi straordinari “sfoghi” che le concedevo, e ne aveva ben
donde: commenti o riflessioni su quanto aveva detto (insomma, un mio
intendere le parole da lei pronunciate come forma di comunicazione)
venivano sistematicamente respinti, soprattutto se tentavo di riprendere
con più calma ed a distanza di tempo l‟argomento. Quanto faceva o
diceva in quelle circostanze aveva, quindi, la pura funzione di
“evacuare” i sentimenti spiacevoli; il suo pianto, ad esempio, pareva
sempre esprimere rabbia in cerca di “sfogo”, anziché dispiacere in cerca
di consolazione.
A dispetto di tutte queste difficoltà, il trattamento di Daniela produsse
presto miglioramenti sorprendenti: gli attacchi di panico scomparvero
del tutto in poche settimane (anche in rapporto al SSRI che avevo
integrato nella cura), dopo qualche mese le “addiction” e le attività
“autocalmanti” [19] iniziarono a presentarsi meno virulente; infine,
fatto particolarmente clamoroso, nel corso di un flirt durante le
vacanze, Daniela ebbe il primo rapporto sessuale soddisfacente della
sua vita. Eppure, di fronte a questi progressi, la paziente si comportava
in modo paradossale: pur attribuendoli alla cura, non manifestava nei
confronti del sottoscritto alcuna forma di riconoscenza; anzi, la sua
fretta di rientrare nella “normalità” e, quindi liberarsi del terapeuta, non
ne risultò minimamente diminuita: Daniela non perdeva occasione per
esprimere “quanto le pesasse” venire da me e che il trattamento fosse
così lungo.
Due interpretazioni, le prime che Daniela dimostrò chiaramente d‟aver
capito, diedero una svolta decisiva alla sua analisi. La prima riguardava il
comportamento paradossale descritto poc‟anzi. Le dissi che con me
riproduceva la stessa situazione coi genitori quando faceva i suoi
compiti nel loro ambulatorio: anch‟io, come loro, mi trovavo a pochi
passi da lei ed anche con me non c‟era un vero incontro (delle sue
emozioni con le mie, nel nostro caso), eppure la mia sola vicinanza
materiale, come allora quella del padre o della madre, era sufficiente a
darle la calma necessaria per poter organizzare e far progredire la sua
vita; e questo in un modo pressoché autonomo, che quasi le dava la
possibilità di dimenticare il mio apporto. Le aggiunsi che probabilmente
il motivo per cui evitava un vero e proprio contatto con me, come
allora coi genitori, era una sua grande paura d‟essere respinta e non
capita; paura che, sentendo il pericolo d‟incomprensioni e di
abbandono mai del tutto scongiurato, spiegava anche la sua fretta di
ritornare completamente “autonoma” e liberarsi di me. Nella seduta
seguente, Daniela ritornò su alcuni temi che aveva già toccato: innanzi
tutto, il ricordo tormentoso di quando, molto piccola, veniva esiliata
d‟estate dai genitori in una loro casa di montagna isolata, in compagnia
soltanto della vecchia zia. Ricorda che il padre e la madre
l‟accompagnavano in quel luogo in macchina e che spesso,
approfittando di un suo momento di distrazione, se ne andavano
furtivamente. In un‟occasione aveva sentito che avviavano il motore,
era corsa da loro chiamandoli disperata, ma aveva fatto in tempo solo a
vedere il retro della macchina che s‟allontanava, inesorabile. In quel
periodo, c‟erano stati incendi nei boschi vicini e Daniela, assillata dalla
paura che le fiamme arrivassero alla casa, temeva che, lei così piccola e
la zia così debole e lenta, non sarebbero riuscite a fuggire e a salvarsi. In
secondo luogo, Daniela ritornò sul fastidio delle proprie spontanee
sensazioni (sia quelle che le chiedevo di descrivere nelle libere
associazioni, sia quelle che emergevano nelle crisi d‟agitazione e che
“evacuava” nei suoi sfoghi) e sulla “assurdità” della mia “pretesa” che
lei si soffermasse o tornasse su tali “insensatezze”. Menzionò, infine,
una crisi di “voracità” di dolciumi in cui era ricaduta. Le dissi che aveva
qualche ragione di criticare la mia “pretesa” che si occupasse delle
proprie sensazioni: in realtà, prima ancora delle sensazioni di per sé,
aveva bisogno che affrontassimo insieme, anche con cure corporee, il
“fastidio” che esse le ispiravano; non farlo avrebbe significato lasciarla
da sola in una situazione incontrollabile, quasi come rimetterla di nuovo
nella casa isolata di montagna ad affrontare da sola, senza aiuto, le
fiamme “voraci” del proprio bisogno frustrato e della rabbia verso i
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suoi genitori. Un silenzio insolitamente lungo mi parve sottolineare una
vicinanza emotiva che si era chiaramente creata tra noi in
quell‟occasione.
Le interpretazioni appena esposte permisero di iniziare a ricostruire che
cosa in Daniela aveva preparato la malattia e cosa aveva scatenato il suo
esordio. Con il suo trasferimento fuori casa, per la prima volta nella sua
vita Daniela era uscita da quella situazione familiare (riprodotta in parte
nel rapporto transferale) che, nell‟atto stesso in cui offriva un sostegno
alla sua vita soggettiva (dandole la calma ed il senso di apparente
autonomia e di sicurezza che le occorrevano per occuparsi delle sue
cose), le imponeva un comportamento, in realtà, non spontaneo,
inautentico: la bambina quieta e giudiziosa che diligentemente faceva i
suoi compiti senza mai disturbare i genitori o i pazienti
dell‟ambulatorio. Daniela finì per convincersi di essere davvero quel
tipo di bambina, ma i suoi bisogni di vicinanza emotiva (oltre che la
rabbia per le frustrazioni subite) rimasero inespressi e inappagati. La sua
appartenenza al gruppo familiare (il gruppo delle persone “normali”,
“autonome”, che lavorano e non “disturbano”, com‟era negli ideali dei
genitori) le offriva una potente rassicurazione dalla paura di essere un
“nulla”, di non avere posto al mondo. Si trattava, tuttavia, di una
relazione “adesiva”, vale a dire efficace solo per la presenza materiale
dei familiari, ma priva di interazioni più vere e durevoli, ovverosia
capaci di regolare le sue tensioni emotive in modo adeguato, senza
reprimerle in modo massiccio e senza imporle una falsa natura;
interazioni che avrebbe potuto gradualmente interiorizzare. Quella che
Daniela riteneva fosse la sua perduta “autonomia” era in realtà, in
ordine di tempo e d‟importanza, la prima “addiction” da cui sarebbero
derivate tutte le altre: l‟appartenenza, a carattere “addictive”, al “gregge”
dei “familiari-persone-autonome-normali”. Allontanatasi da casa, uscita
dal gruppo originario (che ho definito “gregge” per sottolineare il
carattere anonimo, poco definito sul piano umano, del modo con cui si
presentavano coloro che vi appartenevano), di fronte al compito di
padroneggiare le proprie emozioni la paziente si scoprì sprovvista delle
risorse interiori che sarebbero potute derivarle da relazioni familiari più
autentiche, oltre che incapace di nuove, valide relazioni di un genere
che non aveva mai conosciuto. Il primo disagio della solitudine,
incontrando l‟ottusità e la freddezza dei familiari (ormai lontani da lei
da tutti i punti di vista), scatenò una “crisi d‟astinenza”, dovuta alla
brusca sottrazione di ciò che sinora l‟aveva protetta dall‟angoscia;
Daniela, per fronteggiarla, non poté che spostare la sua “addiction” su
altri oggetti e comportamenti: le circa cinquanta sigarette al giorno, le
crisi di “voracità” (fino ad arrivare a veri e propri episodi di “binge
eating”) il “jogging” compulsivo, ecc. Tuttavia, come s‟è detto, ciò non
bastava a tamponare l‟angoscia ed essa, talora, si manifestava
acutamente in quella forma primitiva ed imperfettamente mentalizzata
che è l‟attacco di panico.
Approfondendosi e sviluppandosi il rapporto di traslazione, emersero
in Daniela l‟aggressività ed i bisogni narcisistici inappagati sino allora
nascosti dalla maschera di “bambina quieta e giudiziosa” o soffocati dai
vari tipi di “addiction”. Questa svolta fu preannunciata
dall‟assegnazione a me, con gli “sfoghi”, di una funzione di “tampone”
sulle emozioni esasperate di umiliazione e rabbia quali risposte alle
ferite narcisistiche che le capitava di subire; funzione che, divenuta in
parte un‟alternativa alle varie forme di “addiction”, contribuì a ridurne
l‟intensità e la gravità. Più avanti i bisogni emotivi e la suscettibilità di
Daniela si spostarono gradualmente e infine si polarizzarono sul
sottoscritto: per periodi anche discretamente lunghi iniziò ad avanzare
pretese a non finire (di spostamento d‟orario delle sedute, di sedute da
lei saltate che a suo avviso non avrebbe dovuto pagare, di sedute
straordinarie che avrei dovuto concederle immediatamente, appena
richieste, ecc.) con nessuna considerazione per la mia reale possibilità di
soddisfarle (e neppure per le mie più ovvie esigenze personali) ed
assoluta intolleranza per la benché minima frustrazione. Quando la
situazione cominciava a divenire intollerabile, anche per l‟irritazione di
cui non le facevo mistero, quasi sempre, nella seduta successiva,
interveniva in Daniela un disturbo fisico (più spesso un‟emicrania
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molto dolorosa) a ripristinare tra noi un rapporto terapeutico: in queste
circostanze le manifestazioni di sofferenza e l‟umile richiesta d‟aiuto
prendevano il posto delle pretese arroganti e della rabbia delle sedute
precedenti e la tensione si allentava per qualche tempo. Dopo numerosi
“cicli” di questo tipo, e con non poca fatica da parte di entrambi,
riuscimmo gradualmente ad isolare, nel mare delle pretese di Daniela,
alcuni bisogni narcisistici più sani, a carattere maturativo: si trattava di
una richiesta di confronto con il tipo di lavoro del sottoscritto e/o di
“mirroring” (accettazione partecipe, conferma narcisistica) riguardo alle
attitudini ed alle ambizioni connesse alla sua attività medica. In alcuni
casi, ci rendemmo conto che le richieste intransigenti ed irragionevoli di
Daniela rappresentavano, per lei, una sorta di reclamo di risarcimento
per il mancato, pronto soddisfacimento dei bisogni più sani,
analogamente a quanto accade in certi “capricci” dei bambini. Quegli
stessi capricci, per inciso, che non aveva mai potuto permettersi
quand‟era piccola. Si era stabilita una traslazione narcisistica in cui in
virtù di quella stessa idealizzazione che mi aveva reso, agli occhi di
Daniela, personaggio oltremodo autorevole e “potente” – capace,
quindi, di soddisfare del tutto il suo sano bisogno di crescere – per lo
stesso motivo divenivo “colpevole” di un‟insoddisfazione che, a suo
modo di vedere, “se solo avessi voluto” avrei potuto risparmiarle. Solo
portando a livelli e a contenuti più realistici l‟idealizzazione del
sottoscritto (attraverso una serie di graduali “disillusionment” o
“frustrazioni ottimali”), i “capricci” si ridimensionarono (senza mai
scomparire del tutto) e gli aspetti più sani e terapeuticamente utilizzabili
della traslazione narcisistica comparvero con maggiore continuità. Gli
atteggiamenti più positivi si presentavano spesso subito dopo che il
rapporto terapeutico era stato ripristinato tramite le cure corporee che
le somministravo periodicamente: interventi psicofarmacologici, ma
anche prescrizioni di esami, richieste di consulenze, ecc. Su molte di
queste cose, per inciso, Daniela ne sapeva più di me, tuttavia il mio
avvallo le era sempre indispensabile. Partendo dal proprio corpo,
spesso la paziente passava a parlare di quello dei suoi pazienti e degli
interventi da lei attuati che amava illustrarmi anche nei minimi dettagli
tecnici. Che non si trattasse più di un arido resoconto, come avveniva
nelle fasi precedenti dell‟analisi, era attestato da una maggior vivacità del
tono della voce, della gestualità, della mimica, oltre che da un ritmo del
discorso adeguato al contenuto: tutti aspetti del suo modo di esprimersi
che testimoniavano una viva partecipazione emotiva. Divenne chiaro
che, nei sentimenti di stima che era evidentemente capace d‟ispirarmi,
Daniela cercava una conferma affettiva del valore del suo lavoro con
cui rafforzare la propria autostima. Inoltre, da un confronto tra il suo
ed il mio lavoro, volto a comprendere le caratteristiche che
accomunano le due diverse attività terapeutiche, Daniela traeva un
rafforzamento della sicurezza nelle proprie attitudini. Soltanto poche,
sintetiche osservazioni furono sufficienti a stabilire un nesso tra il
lavoro clinico di cui mi stava parlando ed i vissuti antichi connessi con
le cure materne. Si trattava delle esperienze affettive più intense ed
autentiche che la paziente avesse mai conosciuto.
Nel corso di quasi tutto il trattamento, dopo aver superato
un‟apparente indifferenza affettiva verso l‟altro sesso, Daniela
attraversò molti, brevi rapporti sentimentali, quasi sempre burrascosi e
spesso causa, in lei, di quelle agitazioni emotive che solo gli “sfoghi”
con me riuscivano a calmare. Negli ultimi anni, parallelamente al
concentrarsi nel rapporto transferale degli aspetti più difficili della sua
vita affettiva e, verso la fine, al parziale soddisfacimento dei suoi
bisogni narcisistici più sani, i rapporti sentimentali divennero un po‟ più
calmi e si arricchirono di una componente di piacere, anche attraverso
l‟integrazione della sessualità. Attraverso il lavoro analitico,
l‟investimento affettivo nell‟attività medica, la parte più importante della
sua vita, s‟intensificò; ciò la rese più serena, più disponibile alla pazienza
anche con conoscenti e fidanzato (con i malati ne aveva sempre avuta).
Nell‟ultimo anno, una durata relativamente lunga per lei, Daniela
s‟impegnò in un rapporto affettuoso e stabile con un Medico del suo
luogo d‟origine; rapporto culminato, poco prima del termine dell‟analisi,
in un progetto di matrimonio.
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IV – Uno sguardo ai casi più gravi
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1 - Addiction to “normality” – Che l‟appartenenza ad un
ambito di persone “normali” possa essere oggetto di una addiction era
stato compreso da Kohut, benché in un contesto del tutto particolare
(quello dell‟istituzione psicoanalitica): “Il termine „addiction‟ … indica la
presenza della paura di ritornare alle antiche insicurezze e squilibri se l‟attività di
protezione [della „normalità‟] viene abbandonata, o anche solamente allentata. E
indica anche che alcune attività che sembrano chiare manifestazioni di salute –
realistiche, adattative e socialmente utili – possono essere svolte in modo troppo
zelante e mancare di quel misto di tolleranza e saggezza che [altrove] ho definito
una delle più significative trasformazioni del narcisismo” [6, pag. 208 e seg.].
L‟esistenza, tra molti “normali”, di una rigida maniera di vivere a
carattere “addictive”, possibile matrice di numerose e gravi patologie,
suggerisce l‟utilità di distinguere, dal concetto di “normalità”, quello di
“salute” mentale. Quest‟ultimo, nel pensiero di Kohut e di Winnicott,
privilegia una considerazione dell‟integrità strutturale globale
dell‟individuo piuttosto che quella delle singole attitudini. Questa
concezione esclude, quali caratteristiche essenziali della salute, la
capacità d‟adattamento o l'assenza di sintomi psichiatrici; vale a dire le
qualità che principalmente caratterizzano la condizione di “normalità”
mentale qual è generalmente intesa. Si tratta di due concezioni
nettamente contrastanti: per la prima, caratteristica essenziale della
salute è la capacità dell‟individuo di mantenersi fedele al nucleo più
autentico della propria vita soggettiva, anche a costo di qualche
difficoltà d‟adattamento e di qualche manifestazione di sofferenza; per
la seconda le qualità fondamentali dell‟essere normale sono l‟assenza di
sintomi e la capacità d‟adattamento, anche a discapito della possibilità di
tener ferma la propria vera natura e di realizzarla.
L‟esistenza, in pazienti quali era stata Daniela per un certo periodo, di
una “normalità” come condizione obbligatoria per sentire di esistere,
rende comprensibile il loro terrore dell‟anormalità psichica. Inoltre, la
stessa qualità “addictive” del loro modo d‟essere “normale”, implicando
un adattamento alla realtà affettivamente rigido e imperfetto, spiega
come, per sedare le tensioni emotive che ne derivano, queste persone
debbano frequentemente ripiegare su addiction supplementari. Il
carattere spesso fisicamente dannoso di queste ultime, unitamente alla
fragilità somatica dovuta ad una reazione di stress “sbilanciata”,
chiarisce come il malessere di costoro tenda a spostarsi e ad esprimersi
nella sfera corporea. Quello di Daniela, tuttavia, non fa parte dei casi
incurabili con mezzi psichiatrici. Infatti l‟alexitimia “psicofoba”, che
pure le appartiene, non è in lei così tenace da impedirle d‟esprimere la
sua sofferenza anche con attacchi di panico. Vale a dire con una
sintomatologia al confine tra il somatico ed il mentale che, dopo due
anni di peregrinazioni da cardiologi e neurologi, la convince infine ad
approdare nel mio studio. Fino a che punto le sue vicende possono
farci capire qualcosa dei pazienti più gravi? Di quelli, cioè, in cui la
“psicofobia” e la schiavitù verso la “normalità” sono talmente tenaci da
spingersi fino alle estreme, tragiche conseguenze; e questo senza che
uno psichiatra, o talora un qualsiasi curante, sia da loro mai consultato?
Come sempre, è con i suggerimenti che ci offre un grande Artista che
possiamo cercare una risposta a quesiti di questo genere.
2 - “La morte di Ivan Ilijc” – “La morte di Ivan Ilijc” di
Tolstoj [23] rappresenta la migliore illustrazione letteraria che io
conosca dell‟argomento che stiamo trattando. Si presenta, all‟inizio,
come la storia di un uomo esemplare nella sua “normalità”, soprattutto
riguardo alle capacità d‟adattamento all‟ambiente borghese cui
appartiene: incline ad assecondare le persone altolocate, a vivere
secondo i loro principi, al rispetto scrupoloso delle formalità che il suo
lavoro di magistrato richiede, Ivan Ilijc, com‟è ovvio, percorre
facilmente le tappe di una rapida carriera. Il suo modo conformista
d‟intendere l‟esistenza, il concetto di decoro, tutt‟uno con quello delle
persone che contano, ispirano anche la scelta della donna che Ivan
decide di sposare e lo stile di vita che egli introduce nella famiglia.
Trovando troppo complicati i problemi emotivi posti dalla moglie in
situazioni delicate come la gravidanza e il puerperio, Ivan, imponendo
ai familiari un rigoroso rispetto delle forme esteriori, ne irrigidisce i
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rapporti e, nello stesso tempo si allontana da casa rifugiandosi nel
lavoro. Ma anche la sua occupazione finisce per creargli grosse
difficoltà: ritenendo d‟essere stato ingiustamente escluso da una
promozione cui ambiva, Ivan, forse per la prima volta nella sua vita,
viene a lite con un superiore. Ne segue una situazione di generale
freddezza nei suoi confronti e persino il padre non si ritiene in obbligo
d‟aiutarlo. Quest‟episodio, sebbene Ivan riesca in seguito a recuperare il
terreno perduto riguardo alla carriera, crea una frattura nella continuità
della sua esistenza. Poco tempo dopo si manifestano i primi segni della
malattia che lo condurrà alla morte. Man mano che se ne avvicina la
fine, Ivan si rende conto di tutta la falsità e l‟insensatezza della sua
esistenza, come se scoprisse, nella morte, l‟unica realtà per lui autentica.
Si accorge soprattutto dell‟inconsistenza dei suoi rapporti: è evidente
che i familiari conoscono la gravità del suo male ed intuiscono che lui
stesso lo ha capito, ma, ignorando le sue sofferenze morali, fanno finta
di nulla; come se un evento tragico e solenne, come la morte, potesse
esser ridotto ad un fatto sconveniente qualsiasi, che bisogna tacere.
Nell‟atteggiamento dei parenti, Ivan vede riflessi la menzogna,
l‟inganno, il vuoto rispetto delle forme esteriori, che avevano
caratterizzato il suo stesso stile di vita. Ora scopre in se stesso un
autentico bisogno di “carezze e lacrime” da parte d‟una persona che lo
ami, ma non ha il coraggio di confidarlo, né di opporsi alle ciniche
menzogne dei familiari, per paura di restare completamente isolato.
Tuttavia la solitudine, alla fine, non può essere negata: Ivan, che aveva
dedicato gran parte della sua vita allo scopo di guadagnarsi
l‟approvazione altrui, si accorge che ora, come “premio”, si trova
“…solo, sull‟orlo del baratro, senza una creatura umana che lo capisca e lo
compatisca”. Soltanto poco prima della morte, Ivan riesce a trovare
qualche frammento autentico di vita soggettiva e di rapporto con le
persone a lui vicine.
3 – La situazione traumatica precoce – Le stesse parole con
cui Tolstoj descrive il momento della rottura dell‟equilibrio narcisistico
di Ivan Ilijc (quello della mancata promozione, della prima lite della sua
vita con un superiore e della generale freddezza intorno a lui)
potrebbero servire ad illustrare ciò che provò Daniela quando il suo
modo d‟essere “normale” entrò in crisi: “…tutti lo dimenticarono e ciò che a
lui pareva un‟enorme, crudele ingiustizia, per gli altri era una cosa assolutamente
regolare. Anche suo padre non si credette in obbligo d‟aiutarlo. Egli sentiva che tutti
lo abbandonavano…” [23, pag. 32].
Per la paziente il fattore scatenante non era stato una mancata
promozione, ma un‟accoglienza non amichevole da parte dell‟ambiente
di lavoro. Di fronte a questo disagio, concomitante con quello della
nuova città, Daniela si sentì del tutto ignorata ed abbandonata dai
familiari: le sue telefonate a casa, sempre più concitate, non sembravano
incontrare il minimo segno d‟interesse. Non era la prima volta che le
capitava: ho menzionato più sopra i ricordi dell‟esilio nella casa isolata
di montagna ed il loro essere significativi della costante solitudine di
Daniela bambina, dell‟impossibilità di poter contare sulla comprensione
empatica dei genitori anche di fronte ai propri bisogni più intensi ed alle
emozioni più violente. Questi ricordi, emersi solo gradualmente in
analisi, si riferiscono ad una fase precoce della vita della paziente e
riflettono
un‟esperienza
d‟abbandono
resa
particolarmente
traumatizzante dallo sviluppo ancora imperfetto della capacità di
simbolizzare e tradurre in parole [4, pag. 1093]: essa è rappresentata in
termini piuttosto concreti (come abbandono materiale) e solo
vagamente metaforici. Dobbiamo, inoltre, supporre che questa stessa
rappresentazione sia frutto di una ricostruzione posteriore: all‟epoca del
trauma è presumibile che Daniela abbia avvertito, quale riflesso
dell‟abbandono, quella stessa tensione emotiva indifferenziata e violenta
con cui era esordita la sua malattia recente; vale a dire quello
sconvolgimento indefinibile della sua coscienza per scacciare il quale
era ricorsa per due anni alle addiction sostitutive di quella alla
“normalità”.
In Ivan non c‟è neppure questo: ad avvertire il (rinnovato) malessere
dell‟abbandono traumatico è il corpo, molto più della coscienza. In lui,
al di fuori di ogni elaborazione mentale consapevole, si riattiva una
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tendenza autodistruttiva somatica simile a quella della depressione
anaclitica dei bambini abbandonati [14, pag. 6].
In entrambi, l‟addiction all‟ambito dei “normali” può essere ricondotta
alle presumibili conseguenze traumatiche della precoce deprivazione
affettivo-empatica: un crollo nell‟edificazione del sé immaturo, una
“agonia primitiva” avvertita come vuoto intollerabile [24] allontanò
violentemente queste persone dal loro mondo interiore, portandole a
“consegnare” se stesse, e le proprie possibilità di sopravvivenza,
all‟ambiente esterno delle persone adulte e “normali”. Con esso si creò
una simbiosi regressiva che sopperì alla carenza di strutture interne
capaci di contenere gli affetti più intensi e spiacevoli; o alla mancanza di
relazioni interpersonali atte a svolgere analoghe funzioni [14, pag. 62].
Ecco perché quando, in Ivan ed in Daniela, venne a mancare la
protezione della “normalità”, si verificarono in loro gli stessi
scompensi, a carattere traumatico, che l‟avevano preceduta.
4 – L’addiction al “gregge” – Fin dalle prime pagine, Tolstoj
illustra vivacemente l‟indole conformista di Ivan Ilijc. Egli è definito
come “…severamente attaccato a ciò che credeva il suo dovere: e il dovere per lui
era quel che si riteneva tale dai suoi superiori. Non era stato strisciante… ma fino
dagli anni della prima gioventù aveva avuto quel tale istinto che spinge la mosca
verso la luce e spingeva lui verso gli uomini che hanno un‟alta situazione nel mondo,
facendogli assimilare i loro modi, le loro vedute, e stabilire con loro rapporti
d‟amicizia (…) aveva commesso alcune azioni che allora gli erano parse
indecorose…ma, in seguito, vedendo che queste medesime azioni erano compiute
anche da uomini che stavano in alto e non le consideravano peccaminose, egli non le
riguardò come buone ma le dimenticò completamente” [23, pag. 23 e seg.]
Notiamo, innanzi tutto, il carattere aspecifico, “anonimo” di questi
superiori così affettivamente importanti nella vita di Ivan; egli non ha
preferenze, non fa scelte: adotta i “modi e le vedute” (in particolare il
concetto di “dovere”) di chi lo comanda, chiunque questi sia, senza che
la propria indole lo porti a prediligere, come modello, un superiore
piuttosto che un altro. Il suo adeguarsi all‟esempio di coloro che
“stanno in alto” è, quindi, fine a se stesso e non frutto di
un‟inclinazione verso particolari opinioni o comportamenti. Ciò che lo
spinge verso “gli uomini che hanno un‟alta situazione nel mondo” non
è il calcolo dell‟adulatore (egli “non era mai stato strisciante”), ma un
“istinto”, un comportamento del tutto spontaneo e non premeditato.
Manca, inoltre, in Ivan una vera e propria istanza morale autonoma: egli
riesce a dimenticare le proprie azioni da lui stesso giudicate
“indecorose”, se solo sono state commesse anche da coloro che stanno
in alto. È il superiore del momento a porsi, nel mondo interno di
questo personaggio, come ideale dell‟io ed a svolgere la funzione del
superio, esattamente come in coloro che fanno parte delle folle
primitive [5]. Tuttavia, mentre persone più sane perdono solo
temporaneamente, quando “catturate” dalla folla, la loro specificità
individuale, per Ivan ciò costituisce un modo d‟essere costante.
Su Daniela una simile influenza non è esercitata da qualsiasi superiore,
ma dai soli genitori. Finché non s‟allontanò da casa, tuttavia, anche lei
s‟adeguò ad un “ideale” di vita impostole dall‟esterno: quello della
persona “normale”, impegnata pienamente ed in modo “autonomo” nel
lavoro, che non “disturba” se stessa e gli altri con le “insensatezze” del
proprio mondo interno. La “sottomissione all'ordine della psicologia
collettiva” (completa e permanente nel personaggio tolstojano, parziale
e limitata nel tempo nella paziente) tende a privare il pensiero di ogni
traccia di qualità soggettive individuali (come avviene tipicamente nel
paziente “opératoire” [17, pag. 1413, 1419]): il “gregge” cui queste
persone appartengono non ammette l‟esistenza d‟individui separati ed
indipendenti ed ogni indizio d‟individualità dev‟essere rigorosamente
censurato. Ecco perché l‟addiction tenta d‟eliminare rapidamente non
solo i sentimenti spiacevoli, ma anche molti fra quelli piacevoli [9, pag.
514]. In costoro, infatti, qualsiasi sentimento spontaneo, in quanto
espressione di una vita soggettiva autonoma, è tendenzialmente
pericoloso, può comportare l‟improvvisa espulsione dal “gregge”:
l‟ostracismo nei confronti di Ivan, quando emerge in lui il ribelle, è
pronto e totale, come pure la freddezza dei familiari quando, in Daniela
in crisi, emerge la persona fragile. L‟espulsione dal gruppo
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d‟appartenenza rappresenta spesso, per queste persone, l‟eventualità più
temuta al mondo: per loro essa significa annientamento soggettivo e
talora, come succede ad Ivan, fine anche dell‟esistenza corporea.
5 – “Illusion” e “delusion” – L‟espulsione dal “gregge”
comportò, per Daniela, una crisi lunga e tormentosa, ma non un crollo
totale, come accadde ad Ivan Ilijc. Ad esempio, il lavoro e gli
aggiornamenti professionali, entrambi per lei affettivamente molto
importanti, non ne subirono danni o interruzioni. Si è vista più sopra,
come una delle possibili cause di questa differenza, un coinvolgimento
nel gruppo patologico non così totale nella paziente come nel
personaggio tolstojano. Correlata a ciò è anche una diversa qualità
dell‟idealizzazione dei leader del “gregge”: quella che ne fa Ivan è
indiscriminata (riguarda tutti i superiori), assolve un‟unica funzione
(quella di cementare la sua appartenenza al gruppo), non subisce
cambiamenti ma, ad un certo punto, crolla del tutto cedendo il posto a
rancore verso quegli stessi personaggi. Viceversa l‟idealizzazione da
parte di Daniela, come si è visto nel rapporto transferale, è capace di
evoluzione: impegnata all‟inizio a ricostruire, in me, il leader di un
“gregge” simile a quello della sua famiglia (benché vissuto, stavolta, con
fastidio e fretta di sbarazzarsene), in seguito viene da lei impiegata allo
scopo di ritrovare dapprima un genitore su cui riversare i propri
“capricci” e poi, evolvendosi verso la costruzione di un‟immagine di me
più ridimensionata e realistica, un sostituto genitoriale capace d‟aiutarla
a riprendere il cammino evolutivo interrotto nell‟infanzia.
Quella propria di Ivan assomiglia alla tenace idealizzazione del genitore
(e dei suoi sostituti) caratteristica del bambino che ha (o del paziente
che da bambino ha) subito un abuso [14, 15]: essendo intollerabili gli
aspetti persecutori del genitore reale e non disponendo di alternative,
questo malato è costretto ad aggrapparsi ad un‟immagine falsa ed
idealizzata di chi lo accudisce. Non si tratta della idealizzazione sana,
che consiste nell‟accentuazione e nell‟isolamento, dalle altre qualità del
genitore, d‟aspetti realmente favorevoli al figlio: una “illusion”, nel
senso winnicottiano, necessaria come tale all‟inizio della vita, ma in
seguito capace di ridimensionarsi progressivamente ed evolversi [15].
Quella di queste persone è, piuttosto, una mistificazione a carattere
delirante volta alla negazione del carattere persecutorio e ad
un‟esaltazione, priva di basi reali, di chi ha dato loro la vita: un delirio –
“delusion” – come tale impermeabile a qualsiasi influenza esterna.
Come ogni delirio, anche questo tipo d‟idealizzazione, urtando con la
realtà, può crollare, ma non modificarsi; questo anche in coerenza con il
sistema di valori narcisistico del “tutto o nulla”: la persona idealizzata o
è “perfetta” (e quindi al di fuori d‟ogni eventualità d‟evoluzione) o è
“completamente spregevole”, senza alcuna possibilità di riscatto. Come
conseguenza, questi pazienti possono anche trovare sostegno in
genitori o sostituti genitoriali “perfetti”, ma mai rapporti capaci di
evolversi ed aiutare ad evolvere. Le persone reali, imperfette ma dotate
di pregi veri, di una loro specifica individualità e di capacità di
progredire (quindi le uniche in grado di aiutarli), restano al di fuori del
mondo affettivo di questi pazienti, popolato solo di esseri
immutabilmente “perfetti” ma non “veri”, come pure da anonimi
“greggi” indifferenziati, ma non da gruppi evoluti di individui tra loro
distinti, capaci di reale collaborazione e cambiamento.
6 – Impossibilità di dipendenze sane – I pazienti simili a
Daniela e ad Ivan Ilijc, così preoccupati per una (perduta) “autonomia”
che si rivela del tutto ingannevole, debbono, in realtà, ancora
“imparare” a dipendere in modo sano da chi può aiutarli nell‟affrontare
le proprie tensioni emotive, quanto in tutto il resto. Vediamo, ad
esempio, Ivan a contatto con uno dei medici cui ha chiesto aiuto per la
sua grave malattia. Il suo occhio disincantato vede, nel rituale della
visita medica, solo più un cumulo di “sciocchezze e vuoti inganni” . Eppure,
in un momento di disperazione, egli finisce per aggrapparsi al
messaggio di speranza del curante “come si lasciava prendere dalle arringhe
degli avvocati quando egli già sapeva benissimo che essi mentivano e perché
mentivano” [23, pag. 68]. Convivono in Ivan una credulità infantile
sempre più delusa e la più completa diffidenza; quest‟ultima, tuttavia
prevale fin dalla prima visita: “…Tutto fu com‟egli s‟aspettava, tutto come
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avviene sempre. E l‟attesa, e la gravità del medico (…), quella gravità a lui ben
nota, la medesima che egli riconosceva in se stesso quando era al tribunale (…) e le
domande che richiedevano risposte già previste ed evidentemente inutili, e
quell‟aspetto imponente che sembra dire: „Voi dovete soltanto fidarvi di noi, e noi
accomoderemo tutto – noi sappiamo come si fa ad accomodare tutto, sempre allo
stesso modo, per qualsiasi persona‟. Tutto fu proprio come al tribunale. Il contegno
che egli teneva in tribunale verso gli accusati, lo stesso contegno lo teneva verso di lui
il celebre medico…”. [23, pag. 43]
E‟ possibile che Ivan, qui, sappia vedere selettivamente solo gli aspetti
negativi del curante, o ne distorca proiettivamente l‟immagine, oppure
che egli abbia scelto davvero la persona sbagliata cui affidarsi, ma nella
convinzione che non esista di meglio: tutto, infatti, si svolge “com‟egli
s‟aspettava” e come, nella sua opinione, “avviene sempre”. In ogni
caso, è evidente che Ivan sa vedere, nella cura, solo quel rapporto di
reciproco inganno che ha sempre caratterizzato le sue stesse relazioni:
quelle presenti con i familiari ed anche, probabilmente, le più antiche.
Credulità, delusione, “fede”, (e mai “fiducia”) dominano, per un lungo
periodo, anche le tempestose relazioni sentimentali di Daniela. In una
certa fase, come abbiamo visto, lo stesso rapporto transferale ne fu
interessato. A differenza del personaggio tolstojano, tuttavia, la mia
paziente aveva la capacità di ripiegare, di tanto in tanto, su un rapporto
basato su cure corporee; rapporto che si rivelò particolarmente solido:
con esso veniva puntualmente ristabilita, tra noi, una relazione
terapeutica. Inoltre, sempre “appoggiandoci” alla relazione con il corpo
(quello di Daniela stessa e quello dei suoi malati), fu possibile rafforzare
l‟investimento affettivo su (e la fiducia della paziente in) se stessa come
curante (ad un livello più profondo, sulla sua identificazione con la
madre arcaica e sulla propria femminilità); fatto, questo, che
rappresenta, a mio avviso, l‟elemento cardine dell‟analisi di questa
persona. Cure materne precoci affettivamente valide, avevano prodotto
in Daniela, attraverso l‟interiorizzazione, “strutture” del sé
psicocorporeo che, a dispetto della labilità di tutto il resto della sua
personalità, si mantenevano solide. Esse, nel rapporto transferale,
conferivano alla paziente la fiducia di poter trovare nel sottoscritto
“l'eco confortante della risonanza empatica” [6, pag. 109] sia pure
limitatamente alla sfera corporea. Tutto questo costituì in Daniela una
solida base ed un punto di partenza per il processo terapeutico: ciò che
manca, purtroppo del tutto, ai pazienti più simili ad Ivan Ilijc. Qui sia
l‟impostazione prevalente nel loro mondo interno, sia il tipo di persone
o di attività che essi percepiscono o scelgono, li conducono unicamente
verso rapporti di addiction e mai di vero e proprio aiuto o cura.
7 – Incapacità di “impazzire” – La mancanza di valide
strutture interne con cui contenere l‟intensità delle emozioni e l‟assenza
di relazioni interpersonali atte ad ottenere lo stesso scopo, pongono i
pazienti simili ad Ivan Ilijc (ed, in minor misura, a Daniela) in
condizioni di grave vulnerabilità di fronte ad eventi esterni sfavorevoli.
Esiste in loro anche un terzo fattore di debolezza, direttamente legato
alla “normalità” addictive: essi sono del tutto incapaci di “impazzire”;
vale a dire: di fronte a mali estremi, non sanno ricorrere all‟estremo
rimedio della “pazzia” quando questo rimane l‟unico modo per
preservare il nucleo più autentico e specifico della propria vita interiore.
Ciò è particolarmente evidente in situazioni che minacciano interessi
oggettivamente o soggettivamente vitali: esempi ne sono la mancata
promozione e poi la grave malattia fisica per Ivan, oppure l‟ostilità
(invidiosa) dell‟ambiente di lavoro per Daniela. Si tratta di circostanze
che pongono a lungo in uno stato d‟impotenza e d‟incertezza circa il
futuro, senza il sostegno empatico di un proprio simile su cui poter
contare. Qui un crollo o una resa alle circostanze esterne (che
significherebbero il sacrificio di esigenze interiori fondamentali)
possono essere evitati solo scostandosi dallo specifico settore
minaccioso della realtà o alterandone la percezione soggettiva; e ciò
attraverso quei particolari quadri psichiatrici che, per Kohut, sono
compatibili con una diagnosi di salute psichica costituendone,
addirittura, un elemento essenziale. È quanto amo definire la capacità di
“impazzire un po‟ per non impazzire del tutto” e soprattutto per non
andare incontro ad un completo crollo psico-fisico. Il fallimento di
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questa lotta difensiva, infatti, vale a dire la “resa” alla realtà ostile, può
significare lo “acting in” somatico [10, 16] con cui Ivan Ilijc pone fine
alla sua esistenza, oppure le pericolose addiction con cui Daniela cerca
(per sua fortuna senza riuscirci) di soffocare completamente il suo
disagio. Kohut si spinge fino a far rientrare, in queste situazioni di
pazzia “sana”, persino quadri psicotici; ad esempio: “…l‟evocazione
allucinatoria di un gruppo di oggetti-sé speculari creati talvolta in situazioni di
segregazione, che protegge la personalità dal riportarne danni permanenti…”;
oppure: “…l‟evocazione allucinatoria di una Divinità idealizzata, che rende
alcuni individui capaci di atti di coraggio supremo, non solo senza l‟aiuto di un
gruppo di sostegno ma anche di fronte alla quasi totale disapprovazione sociale (per
esempio, i martiri isolati della resistenza ai nazisti, come Franz Jaegerstaetter…)”
[6, pag. 107 e seg.]
Vediamo, invece, fino a che punto si spinge la “normalità” addictive di
Ivan Ilijc in una fase già avanzata della sua malattia: “…in alcuni momenti,
dopo lunghe sofferenze, avrebbe voluto più d‟ogni altra cosa, per quanto avesse
vergogna di confessarlo, che qualcuno lo compatisse come un bambino malato.
Avrebbe voluto che qualcuno lo accarezzasse, lo baciasse, piangesse su di lui (…) ed
ecco giungere il suo amico, il magistrato Scebek e, invece di lacrime e carezze, Ivan
Ilijc faceva un viso serio, severo, profondamente pensieroso e, per forza d‟inerzia,
diceva la sua opinione su d‟un verdetto della Cassazione e ostinatamente lo
difendeva. Questa menzogna intorno a sé e in se stesso avvelenava più di tutto gli
ultimi giorni della vita d‟Ivan Ilijc…” [23, pag. 64].
Giudicare un uomo sano, oltre che un coraggioso eroe, il “folle
visionario” Franz Jaegerstaetter ed invece ritenere tragicamente malato
(nella mente non meno che nel corpo) l‟austero e serioso Ivan Ilijc;
tutto ciò può apparire paradossale, ma diventa un‟ovvia verità se
prestiamo attenzione alle sensazioni che l‟Autore ci suscita con la
descrizione sopra riportata. Qui quella “ostinata difesa” del verdetto
della Cassazione, lontana anni luce da ciò che veramente interessa Ivan
in quel momento, quell‟atteggiamento “serio, severo, profondamente
pensieroso” da parte di chi avrebbe soltanto bisogno di piangere come
un bambino e abbandonarsi alle carezze di qualcuno che lo compatisca
e lo ami; tutto ciò ci suscita una grande pena per questo personaggio:
avvertiamo, nel suo modo di essere, qualcosa di profondamente malato
che lo porta ad aggiungere, alle sofferenze del corpo, altri e più gravi
tormenti morali. Senza dubbio, avremmo visto come più naturale e
“sano” un atteggiamento regressivo di ricerca d‟attenzione ed aiuto;
atteggiamento che, isolato dal suo contesto (e soprattutto non
“filtrato”, nella sua descrizione, dalla sensibilità dell‟Artista) potrebbe
essere qualificato come “teatrale” ed “isteriforme”.
La capacità di Daniela di “impazzire un po‟ per non impazzire del
tutto” si presentava, all‟inizio del trattamento, piuttosto modesta,
limitandosi all‟ansia che la paziente non poteva fare a meno di provare,
nonostante l‟enorme quantità di sigarette, cibo, corse e lavoro che
s‟imponeva per soffocarla. Questa capacità, tuttavia, sia per il carattere
sconvolgente degli attacchi di panico, sia per la stessa misura eccessiva e
chiaramente inaccettabile che, sotto l‟incalzare dell‟ansia, avevano
assunto le addiction supplementari, ebbe un ruolo fondamentale nel
consentire a Daniela d‟avvertire un sentimento di crisi, di difficoltà
insormontabile con le sue sole forze, e nell‟indurla a chiedere aiuto.
Tutto questo manca ad Ivan Ilijc esattamente come manca al tipo di
paziente in cui il crollo di una addiction alla normalità determina una
dipendenza da sostanze tossiche quale problema esclusivo o prevalente.
Manca anche nel paziente, qual era Daniela finchè restò nella famiglia
d‟origine, in cui non si ha crollo dell‟addiction alla “normalità”, ma a
questa se ne aggiungono altre supplementari allo scopo di “tamponare”
il disagio dovuto alle imperfezioni della prima. Nel caso della nostra
paziente, in quel periodo, si trattava del consumo abituale di una
modesta quantità di sigarette, mentre i disordini alimentari, il jogging e,
per un periodo limitato, il lavoro, assumeranno il carattere di addiction
solo in conseguenza della crisi. In altri pazienti, addiction supplementari
molto più gravi, a sostegno di quella alla “normalità”, soffocano ogni
forma di “pazzia” e creano una forma stabile d‟equilibrio patologico
che rende queste persone inaccessibili alle cure psichiatriche e, con esse,
ad un vero e proprio trattamento causale.
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57
V – Considerazioni sul trattamento
58
1. “Spettro” di possibili trattamenti. In un passato recente,
trattamenti come quello psicofarmacologico o comunitario erano da
taluni criticati perché tendenti a favorire uno stato di “dipendenza” del
paziente ed erano, perciò giudicati “non terapeutici”. La critica nasceva
da un concetto, quello di “dipendenza”, che oggi possiamo considerare
del tutto inadeguato. Esso, infatti, include (e confonde), sia i rapporti di
vera e propria schiavitù (di “addiction”), sia i rapporti verso quei fattori
esterni che sono necessari alla salvaguardia dell‟integrità soggettiva: i
kohutiani “oggetti-sé”. I due opposti tipi di relazione non possono
essere distinti in base ai rispettivi oggetti: anche i più comuni oggetti-sé
della persona adulta sana (risorse culturali, famiglia, amici, lavoro, ecc.
[6]) possono costituire gli oggetti di comportamenti sicuramente
patologici, con il carattere dell‟addiction [2]. Il bisogno adulto sano, non
“schiavizzante”, è spesso temperato dalla capacità di scegliere
liberamente ed, all‟occorrenza, sostituire gli oggetti-sé; la molteplicità di
essi, la certezza di disporne e la presenza di strutture autonome di
autoregolazione delle tensioni emotive, consentono di rimanere
temporaneamente privi di tali sostegni senza subirne danni di alcun
genere. Ma questa non è una caratteristica distintiva sostanziale: molte
persone non potrebbero, neppure temporaneamente, fare a meno dei
principali sostegni alla loro vita soggettiva. Più importante ed essenziale,
è un‟altra differenza che riguarda gli effetti opposti che l‟uno o l‟altro
gruppo di rapporti produce sull‟integrità, la forza e le possibilità di
espressione del sé quale centro della vita soggettiva. Gli oggetti di
addiction, al di là di un temporaneo sollievo, non apportano altri
benefici soggettivi: il paziente grave che più ricorre ad essi, impegnato
esclusivamente a sottrarsi al disagio, per il resto subisce passivamente la
vita anziché condurla in funzione di proprie autentiche esigenze
positive [3, 7, 17 pag. 1412]: desideri, ideali, ambizioni, attitudini,
interessi, quali peculiari manifestazioni del sé che gli appartiene. Esse
vengono sacrificate nel rapporto con l‟oggetto d‟addiction; rapporto,
quest‟ultimo, sbilanciato: non un‟interazione, ma un sequestro da parte
dell‟oggetto, il soggetto “si perde” in esso. Esattamente l‟opposto
accade nel “rapporto oggetto-sé” sano, dove l‟investimento affettivo e
la fantasia arricchiscono la rappresentazione dell‟oggetto e quest‟ultimo,
appagando importanti esigenze interiori, sostiene ed arricchisce il sé.
Qui esiste un‟autentica interazione tra soggetto ed oggetto, sebbene
quest‟ultimo venga percepito come estensione del primo.
I trattamenti di questi disturbi si collocano, perciò, in un “range”
compreso tra due scopi opposti: quello di dare a questi pazienti forme
di “schiavitù” che almeno siano innocue da un punto di vista somatico
e sociale (addiction sostitutive), e, rispettivamente, quello di fornire alle
loro parti sane il sostegno necessario perché esse possano emergere,
rafforzarsi ed evolversi: un “selfobject support o environment”. Il
primo obbiettivo è di gran lunga il più facile da raggiungere e, per molti
di questi pazienti, l‟unico possibile. Nulla da eccepire in questi casi,
purché la scelta del trattamento “sostitutivo” dipenda effettivamente dai
limiti del malato e non da quelli del terapeuta: più sotto esamineremo
più approfonditamente questi ultimi. Tra l‟estremo appena descritto e
quello opposto, si situa tutta una gamma di possibili interventi in cui è
possibile, in misura variabile da caso a caso, affiancare, ad una nuova
dipendenza meno nociva, anche un sostegno allo sviluppo di aspetti
potenzialmente sani della personalità.
2. Fattori di cecità del terapeuta: schematicamente
comprendono:
- Fattori culturali. Viviamo immersi in una cultura che potremmo
definire “alexitimica”. Basti ricordare, a questo proposito, il drammatico
impoverimento del linguaggio che si riscontra soprattutto nelle ultime
generazioni e che riguarda, in particolare, il lessico necessario per
descrivere i fatti della vita interiore. La stessa cultura medicopsichiatrica tende a privilegiare l‟aspetto “oggettivo” o obbiettivabile
della valutazione clinica: il comportamento del paziente, il suo aspetto
esteriore, le modificazioni biochimiche prodotte sul substrato corporeo
delle sue emozioni. Se tutto ciò viene accettato acriticamente dal
terapeuta, l‟intervento che egli tenderà ad attuare non può che
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accentuare le caratteristiche patologiche dell‟alexitimico: il suo falso sé,
il distacco dalle sue autentiche emozioni, il suo ripiegare su di una
“addiction to normality”.
Caratterizza la nostra cultura anche un ostinato, persistente dualismo
mente/corpo. Esso porta a considerarli separatamente, come se
potessero prescindere l‟una dall‟altro. Vedremo più sotto come
quest‟impostazione sia fondata anche su forti resistenze emotive del
terapeuta ed incida negativamente sulla sua capacità di affrontare il
nucleo centrale della patologia alexitimica.
Un altro fattore fuorviante è rappresentato da un‟interpretazione
impropria della diagnosi e di ciò che emerge nelle supervisioni, specie
quelle che si esauriscono in una singola seduta. In tutti e due i casi, può
crearsi la sensazione di “aver capito tutto”, mentre, in realtà si è spesso
messo a fuoco solo un aspetto parziale della soggettività del paziente.
La falsa convinzione, che ne deriva, che il malato sia un alexitimico “a
tempo pieno” rischia di mettere in ombra, o di scotomizzare, quelle
aree più sane della sua personalità che, in condizioni propizie, possono
emergere e mettere in moto un processo veramente terapeutico.
Un intreccio di fattori culturali ed emotivi è rappresentato da quello che
Kohut chiamava il “tool & method pride”, ossia l‟investimento
narcisistico sugli strumenti ed i metodi che caratterizzano la formazione
professionale di ciascuno di noi; investimento che porta a considerare
come assoluto il valore del proprio modo di valutare e lavorare. Vittima
particolare di quest‟impostazione è proprio il paziente alexitimico. Egli
tende spesso ad esprimersi in modo monotono, incolore ed è perciò,
quasi di regola, giudicato “inadatto alla psicoterapia”, come se questo
autorizzasse i terapeuti ad ignorare la sua vita soggettiva. In altri casi, il
“tool & method pride” rende il terapeuta cieco di fronte alle menzogne
con cui l‟alexitimico asseconda i metodi e gli assunti teorici di chi lo
cura, appagandone, così, il narcisismo.
- Fattori emotivi. Il “narcisismo terapeutico” limita, nel curante, le
capacità di comprensione empatica fin dal principio, nella scelta stessa
del tipo di trattamento e dei suoi obbiettivi. In virtù di questo fattore
emotivo, risulta molto difficile rinunciare all‟illusione di risultati
terapeutici evidenti ed ottenuti in tempi relativamente brevi. Si tratta, in
realtà, di trattamenti che sopprimono il sintomo, quale possibile
“segnale” di tendenze autodistruttive (ma anche, paradossalmente di
potenzialità favorevoli) senza che si sia neppure iniziato a tentare di
“decodificarlo”. Nello stesso senso agisce l‟inconsapevole evitamento
fobico, frequente nel terapeuta, di quanto di angosciante il malato
potrebbe comunicare. Il paziente viene come “zittito” dagli effetti di
una terapia puramente sintomatica.
Il contatto-distacco con il corpo del paziente, quale fonte di angosce
arcaiche [11, 13], è oggetto di due opposti movimenti difensivi da parte
dei terapeuti: l‟evitamento fobico del contatto e l‟isolamento ossessivo
da tutto ciò che può implicare separazione. Il primo porta ad ignorare
tutto ciò che è corporeo, compresi quei correlati somatici delle
emozioni che, soprattutto nel “falso sé” alexitimico, ne rappresentano
la “cartina di tornasole” dell‟autenticità. Il secondo porta a considerare
solo ciò che è strettamente corporeo, ignorando quanto di mentale può
essere contenuto nel corpo stesso. Entrambi gli atteggiamenti,
razionalizzati – come si diceva più sopra – da una concezione dualistica
mente-corpo, impediscono di affrontare adeguatamente il nucleo
centrale della patologia alexitimica. Vediamolo.
SOMMARIO
L‟Autore sostiene che in molti casi (di cui descrive un esempio) una
normalità a carattere “addictive” è la prima fase, compensata, di una
patologia che facilmente evolve verso disturbi da addiction e/o
complicazioni somatiche. Data la repulsione fobica di questi alexitimici
per tutto ciò che allontana dalla “normalità”, difficilmente essi
consultano uno psichiatra in una fase precoce della malattia. Utili,
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perciò, si rivelano, in proposito, i suggerimenti offerti da un modello
letterario: lo Ivan Ilijc di Tolstoj. Emergono, quali caratteristiche
essenziali, l‟assenza di “strutture autoprotettive autonome”, l‟incapacità
di ricorrere ad autentici rapporti d‟aiuto, l‟impossibilità di produrre
espressioni di malessere a carattere reintegrativo, ossia capaci di
salvaguardare l‟integrità del sé.
PAROLE CHIAVE: Alexitimia, falso sé, depressione essenziale,
addiction, addiction to normality, salute mentale, trauma, prerepresentational elements, corpo.
62
ABSTRACT
The Author states that in many cases (among which an example is
described) a normality of addictive type is the first phase,
compensated, of a pathology which easily evolves towards addiction
and/or somatic complications. Due to the phobic repulsion these
people have towards anything that may take them away from
“normality”, they rarely search a psychiatric help during the early phase
of their illness. Useful suggestions on this issue may be found in a
literary model: Tolstoj‟s Ivan Ilijc. Here, the lack of „autonomous selfpreservative structures‟, the incapability of true auxiliary relationships,
and the impossibility to express one‟s disease through „reintegrative
symptoms‟ (i.e. manifestations capable to preserve the integrity of the
self) appear as essential features. The limits of alexithymic people and
the possible therapists‟ scarce awareness of the opportunities of cure
are discussed.
KEY WORDS: Alexithymia, false self, essential depression, addiction,
addiction to normality, mental health, trauma, pre-representational
elements, body.
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Giacomo Cassano5
Memoria
e
Sentimenti:
esperienze
Musicoterapia in comunità terapeutiche
di
Ascoltare musica.
Recenti studi neuroscientifici hanno dimostrato chiaramente come
nell‟ascoltare musica vengano attivate quasi tutte le aree del nostro
cervello.
Possiamo, a ragion dire, che l‟attività di ascolto musicale è un‟attività
(se non addirittura l‟unica) coinvolgente e stimolante. Ecco perché
parlare di ascolto come attività passiva non è esatto.
Tutti noi, una volta almeno nella vita, abbiamo sperimentato
l‟esperienza di un ascolto musicale che, come per magia, ci ha riportato
alla memoria un ricordo sepolto che pensavamo di non aver
conservato nell‟archivio della mente. Di conseguenza la sensazione di
sorpresa e incanto nel trovarsi a rievocarne ancora, in modo vivido, le
sensazioni percettive ad esso collegate.
L‟ascolto è allora una prerogativa della mente più che del cervello.
L‟orecchio non riceve solo il suono ma inviando lo stimolo uditivo
direttamente al cervello, innesca un processo creativo del pensiero.
Ciò è dovuto al fatto che la musica a noi famigliare attiva l‟ippocampo,
una struttura al centro del cervello nota per la sua importanza nella
codifica e nel recupero dei ricordi.
Il ruolo dell‟ippocampo nella memoria è oggetto di dibattito. Secondo
il modello Standard l‟ippocampo gioca un ruolo temporaneo: cioè è
attivo nel consolidamento ma non nell‟immagazzinamento di ricordi
Musicista, Musicoterapista, Diplomato in clarinetto al Conservatorio Santa Cecilia di
Roma e specializzato in Musicoterpia alla Scuola triennale Anffas-Apim di Genova
5
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
65
remoti. Secondo la teoria dei modelli a traccia multipla, invece,
l‟ippocampo è sempre coinvolto nel riattivare la traccia mnestica,
perché ricostruisce il contesto.
Ogni esperienza è quindi potenzialmente codificata nella memoria o
meglio in gruppi di neuroni che configurati in un certo modo fanno
riaffiorare un ricordo, rappresentandolo nel teatro della nostra mente.
Se non riusciamo a richiamare tutto quello che vogliamo, quindi, non è
perché non sia immagazzinato nella memoria; piuttosto il problema è
trovare la giusta chiave per accedere al ricordo. In teoria con i giusti
suggerimenti potremmo accedere a qualsiasi esperienza passata
66
Perché si ascolta
Ascoltiamo per imparare, informarci, per sapere chi siamo, da dove
veniamo, per conoscere meglio gli altri, per stare con noi stessi, per
conservare la memoria del passato, per evadere, per provare emozioni,
per immaginare, per trovare un senso, per comunicare…
Ogni atto d‟ascolto proietta un desiderio su una musica, così come
musiche diverse attivano più facilmente certi tipi di ascolto piuttosto
che altri.
Non esiste un ascolto più giusto di un altro. Musiche diverse
corrispondono a condotte di ascolto diverse, in relazione a diversi
bisogni, motivazioni, desideri. Questo riguarda anche il rapporto tra
compositore e fruitore o meglio, in molti casi, tra compositore,
esecutore e fruitore.
Come diceva Freud: “La creazione artistica non si esaurisce nel compimento
dell‟opera ma si rinnova indefinitamente nelle fruizione/ricreazione di essa
attraverso i tempi.” (Freud, 1913)
L‟arte non è nei tratti del pittore o dello scultore, nelle note del
compositore o nelle parole del poeta ma bensì negli occhi, nelle
orecchie, nella mente di chi ascolta, osserva e immagina l‟opera d‟arte.
In qualche modo il fruitore dell‟opera diviene indispensabile affinché la
stessa opera sia; Nessun artista crea per poi nascondere al mondo la
sua creazione. In più il fruitore diviene egli stesso partecipe alla
creazione dell‟opera d‟arte in quanto nel suo fruire ricrea l‟opera. Le
emozioni del compositore s‟incontrano con le emozioni di colui che
ascolta, il quale ne da un rimando diverso, nuovo, da quello che era il
punto di partenza del compositore.
Delalande, a tal proposito, parla di “diritto d‟infedeltà” della musica:
“l‟ascolto di una musica si concretizza in un‟esperienza di piacere che fa eco
all‟esperienza del produttore che a sua volta ha vissuto un‟esperienza di piacere, ma
forse non per le stesse ragioni. L‟atto dell‟ascolto ri-compone l‟oggetto a suo modo”
(Delalande, 1993. Pag. 176-190).
Ogni atto d‟ascolto presuppone il piacere di ascoltare capace di
sollecitare interesse e curiosità, aspettative centrali affinché un ascolto
musicale sia recepito attivamente. Per questo nella scelta dei brani da
proporre dobbiamo considerare due diverse tendenze/aspettative: la
consuetudine e la meraviglia.
Questo perché vi è nell‟ascoltatore l‟esigenza di ritrovare qualcosa di
famigliare, che possa tranquillizzarlo e favorire occasioni di confronto
in gruppo a partire dalle proprie preferenze.
Ascoltare una musica che conosciamo e che amiamo dà senza dubbio
un piacere immediato legato all‟idea di qualcosa già conosciuto,
rassicurante (la consuetudine).
Dall‟altra parte vi è, contemporaneamente, anche l‟esigenza di ascoltare
qualcosa che sorprende, d‟ insolito, che stimoli e crei mistero (la
meraviglia).
Stupore e spaesamento però non sono sempre piacevoli: possono
anche provocare repulsione, dissonanza, divergenza, conflitto. Ma
sempre producono senso, confronto, energia che fluisce.
Ritengo quindi che la scelta dei brani da proporre deve tener presente
di queste tendenze che fanno capo a quelle pulsioni neofobiche e
neofiliche, che sono ben spiegate dallo studioso etologo Desmond
Morris nel suo libro “La scimmia nuda”.
Queste due tendenze possono essere viste complementari in un
percorso che intrecci attese e imprevisti, conosciuto e sconosciuto,
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vicino e lontano, prossimità ed estraneità. È importante utilizzare
musiche ricche di stimoli, che diano da parlare.
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Il Setting
Il setting in Musicoterapia ha importanza rilevante ed è il primo
fondamentale elemento che da inizio al processo di cura. L‟elemento
che contraddistingue il setting musicoterapico è il contesto non
verbale.
Il contesto non verbale è dato dall‟interazione dinamica di molti
elementi quali quello sonoro, gestuale, corporeo, della mimica, del
colore, dello spazio e perfino dell‟odore.
L‟invarianza è caratteristica fondamentale del setting: si è notato che
modificandolo avvengono cambiamenti di comportamento dei pazienti
in seduta. La costanza del setting consente e facilita l‟interazione
verbale, la dinamica associativa
In musicoterapia il setting assume quindi una grande valenza in quanto
costituisce una comunicazione implicita che può contenere, guidare,
condizionare e addirittura, inibire il paziente.
In altri termini, esso è l‟insieme di regole senza le quali non sarebbero
percorribili gli itinerari trasformativi della terapia.
La disposizione ideale e più usata è quella in cerchio o semicerchio.
Questa organizzazione dello spazio offre un certo contenimento ma
allo stesso tempo una certa apertura e condivisione.
Il cerchio è un archetipo, simbolo della madre terra, dell‟abbraccio del
grembo materno, del flusso vitale. Il cerchio è un simbolo
onnipresente nelle culture di impronta prevalentemente patriarcale:
pensiamo per esempio agli indiani d‟America per cui la nazione
pellerossa traeva la sua forza dall‟essere un “cerchio sacro”; pensiamo a
quanti simboli della cultura Celtica si rifanno ala figura del cerchio.
E‟ quella che Benenzon definisce “Posizione del focolare” che
richiama simbolicamente le riunioni serali attorno al fuoco tipiche dei
popoli tribali o degli stessi progenitori, vissuti in epoca rurale che a
sera erano soliti riunirsi davanti al camino per raccontarsi le loro
giornate.
Il fuoco nei popoli tribali è controllato dal “guardiano del fuoco”,
persona incaricata di alimentare continuamente le fiamme affinché il
calore e l‟unica fonte di luce non venga meno e non si corra il rischio
di essere attaccati dagli animali predatori della notte.
Se facciamo un parallelismo, la musica di ognuno (con tutti i suoi
contenuti emotivi), è il fuoco da tenere sempre vivo; il terapista
assume simbolicamente il ruolo del “guardiano del fuoco” e deve
cercare di mantenere un certo equilibrio di calore e luce affinché ogni
partecipante si senta a suo agio e possa esprimere i suoi vissuti emotivi.
Il rituale è completo e pronto per accogliere e contenere le memorie e i
sentimenti di ognuno.
L’Ascolto nel setting
Solitamente la scelta dei brani parte da proposte fatte dai pazienti per
mettere a loro agio i partecipanti e per sondare il repertorio musicale
dei singoli. Man mano che gli incontri procedono il terapista cerca di
strutturare un percorso di ascolti che contempli dei brani noti al
gruppo e l‟inserimento di brani “ad hoc” utili per conseguimento degli
obbiettivi prefissati.
All‟ascolto segue una breve fase di condivisione dove ognuno può
esternare verbalmente le proprie impressioni, ricordi, considerazioni.
Tale fase di verbalizzazione inserita in un contesto non verbale, com‟è
quello che caratterizza l‟attività di Musicoterapia, è uno spazio
necessario affinché vengano fuori possibili vissuti persecutori o
angoscianti che la musica ha evocato.
La struttura di pensiero di uno psicotico, infatti, è una struttura
angosciante, popolata di elementi distruttivi e mortiferi, dalla quale
sembra necessario, come atto difensivo, prendere le distanze; così i
pensieri del paziente diventano sempre più distanti dal proprio mondo
interno. La risposta del terapeuta sarà allora quella di restituire al
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paziente le sue proiezioni piene d‟angoscia e di dolore, dopo averle rese
più tollerabili.
L‟ascolto musicale permette ai partecipanti di effettuare un passaggio
tra diversi livelli di esperienza: da quella più regressiva legata alla
fruizione musicale a quella più comunicativa, attraverso la
verbalizzazione dei propri vissuti ed infine a quella integrativa nel
confronto col gruppo.
Volendo usare una metafora, possiamo paragonare la mente ad un
castello in cui il soggetto pensante è chiamato a intraprendere un
cammino che, a partire dalle secrete buie e impolverate, risale verso
l‟alto, sempre più su fino alla torre maestra. Sfruttando la stessa
metafora possiamo allora paragonare lo svolgersi del processo
terapeutico alla costruzione di una scala ideale dove giorno per giorno
si aggiunge uno scalino al fine di permettere al soggetto di risalire verso
i piani più alti, là dove si gioca il confronto con il reale e dove la luce
permette di ascendere con passo più sicuro.
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La Musica a vari livelli
Ogni atto d‟ascolto presuppone il piacere di ascoltare e in questo, la
capacità di sollecitare interesse e curiosità.
La musica è frutto di un processo biologico, affettivo, cognitivo
spirituale, innato nelle facoltà umane. Analogamente, la reazione
umana alla musica avviene a tutti questi livelli:
Livello biologico = può alterare la frequenza cardiaca o la
frequenza e la profondità respiratoria.
Livello affettivo = riguarda la variazione delle emozioni.
Livello cognitivo = riguarda il piacere estetico e l‟apprendimento.
Livello spirituale = riguarda il bisogno di trascendenza; un
bisogno che potremmo dire quasi primario per l‟uomo.
La musica ci mette in rapporto con qualcosa di trascendente non
tangibile, facendoci avvertire l‟unità tra le forze umane e universali, in
una totalità che supera i limiti della coscienza individuale.
Una reazione è completa se avviene a tutti e 4 i livelli e il grado di
influenza della musica su ciascuno di essi varia a seconda del
condizionamento culturale, dei valori sociali e delle inclinazioni
personali.
La Memoria
Secondo le più comuni e frequenti definizioni la memoria è definita
come la capacità di immagazzinare informazione alle quali attingere
quando necessario. Il termine deriva dal nome della dea greca,
Mnemousine, madre di tutte le muse.
Essa comprende i due processi di apprendimento e ricordo secondo un
processo che segue diverse fasi: codifica, consolidamento,
immagazzinamento e per ultimo il ricordo.
La codifica si riferisce al modo in cui la nuova informazione viene
inserita in un contesto di informazioni precedenti; i codici usati
possono essere di vario tipo: per es., visivo o semantico.
Per quanto riguarda il consolidamento, secondo la “teoria dei livelli di
elaborazione”, più è profondo il livello di elaborazione nella codifica
più è probabile che la traccia di memoria sia duratura (ovvero vi è una
migliore ritenzione).
Un altro aspetto è il recupero ed è quello che interessa di più ai fine del
lavoro presentato. Secondo Endel Tulving ciò che una persona ricorda
non dipende soltanto dalle proprietà della traccia di memoria in quanto
tale. Le tracce di memoria sono solo disposizioni o potenzialità.
Affinché il recupero avvenga deve essere presente un suggerimento (cue
= attacco, battuta, indizio) appropriato che attivi la traccia.
Secondo il principio di “specificità di codifica” la compatibilità tra la
traccia quale è stata codificata e le caratteristiche dell‟informazione
presente al recupero determina il ricordo.
Musica ed emozioni
Ma vediamo ora che relazione c‟è tra la musica e le emozioni.
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È quasi un luogo comune il fatto che la musica provochi delle
emozioni. In realtà le emozioni sono il risultato di una risposta a
oggetti, situazioni o persone precisamente identificabili, mentre gli
umori sono stati definiti “generalizzazioni metafisiche delle emozioni”.
La musica non esprime emozione ma può creare umori a cui
rispondiamo a livello emotivo.
L‟umore è un‟emozione che perdura al contrario delle emozioni che
sono limitate nel tempo. La depressione, per esempio, si caratterizza
per un umore triste e permanente che perdura per lunghi periodi.
Un altro equivoco frequente è il confondere la rabbia con l‟aggressività
ovvero l‟emozione con “l‟agito” (il passare all‟azione).
Come ricorda Stephanie Hahusseau nel suo bellissimo libro “Chi ha
paura dell‟umore nero?” (Erickson Edizioni), le emozioni che noi
classifichiamo come negative hanno una precisa ragion d‟essere e sono
utili alla sopravvivenza della specie. E‟ grazie alle emozioni che l‟uomo
si è adattato ai moltissimi cambiamenti ambientali e continua ancora a
farlo.
La rabbia ad esempio, entra in gioco quando i nostri diritti vengono
violati o veniamo feriti e ad essa è connessa l‟attivazione di un
contenitore energetico di riserva a cui il cervello da accesso quando si
attiva il segnale di “Allerta”.
Conoscendo le nostre emozioni si può comprendere ciò che ci spinge
ad agire o non agire. Questa conoscenza di noi stessi e delle nostre
emozioni e la capacità di canalizzarle è detta “intelligenza emotiva”.
Essere “emozionalmente intelligenti” significa essere capaci di
etichettare correttamente le proprie emozioni.
In sintesi possiamo dire che le nostre emozioni sono in flusso costante
e sono sempre mutevoli, ma quando un‟emozione inizia a dominare la
nostra psiche può causare un serio squilibrio e per questo è necessario,
al fine di ritrovare l‟equilibrio perduto, individuarla, esprimerla e risalire
alle cause che l‟hanno provocata.
Le emozioni negate all’origine del disagio
L‟emozione è il cuscinetto tra noi e le cose che non possiamo
controllare. È l‟unica valvola di sfogo a nostra disposizione per ovviare
alla mancanza di controllo degli eventi esterni.
Non esistono emozioni negative o positive; semplicemente le emozioni
sono emozioni, magari con sfumature diverse tra loro.
Giudicare negativamente le nostre emozioni porta ad evitarne
l‟esperienza (utilizzando strategie di evitamento), trovando un
momentaneo beneficio ma a lungo termine l‟evitamento rende le
emozioni ancora più intollerabili e aumenta la durata e/o l‟intensità dei
nostri disagi, impedendoci di fare fronte ai nostri problemi.
Se consideriamo in modo negativo emozioni come tristezza, paura,
rabbia, finiamo per provare non una ma due emozioni, la seconda delle
quali, detta “emozione secondaria”, è indotta dalla paura e dalla
vergogna di provare emozioni e va ad alimentare la prima,
amplificando la sensazione di disagio.
Quando ciò accade si attivano strategie che hanno lo scopo di evitarne
l‟esperienza. Si va dal cercare di pensare ad altre cose al mangiare, bere,
fumare, consumare droghe, fino a gesti autolesivi, per non sentire più
l‟insostenibile angoscia.
Così succede che un‟iniziale ansia venga amplificata dalla paura
obbligando la persona a mettere in atto comportamenti evitanti che
sconvolgono il normale corso della sua vita. Si evitano le altre persone
per paura del loro giudizio (fobia sociale); i propri pensieri divengono
carichi di proiezioni fantasmatiche e le azioni utilizzate per cercare di
eliminare l‟ansia prendono gran parte del tempo di una giornata
(disturbo ossessivo-compulsivo); si ha paura dei luoghi dove è
ipoteticamente difficile sfuggire in caso si venga colti da una crisi di
ansia (claustrofobia o agorafobia); si ha paura di avere paura e per
questo non si esce più di casa (attacco di panico).
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Che relazione c’è tra Musica, Emozioni e Ricordi
Negli ultimi 10 anni i neuroscienziati hanno mostrato che il nostro
sistema mnestico è intimamente legato al nostro sistema emotivo
L‟amigdala, sede delle emozioni nei mammiferi, è molto vicina
all‟ippocampo,
ritenuto
la
struttura
fondamentale
per
l‟immagazzinamento dei ricordi. L‟amigdala si attiva in presenza di una
musica che ci coinvolge emotivamente. Altre aree come il mesencefalo, le
regioni della corteccia frontale e lo striato ventrale vengono attivate
anch‟esse.
Lo striato ventrale, contiene il nucleus accumbens che è il centro del sistema
di gratificazione del cervello e riveste un ruolo importante nel piacere e
nella dipendenza. Esso è anche coinvolto nella trasmissioni di oppioidi
nel cervello a causa della sua capacità di rilasciare dopamina.
Ricapitolando nell‟ascolto musicale si attivano una serie di regioni
celebrali in un ordine particolare: in primo luogo la corteccia uditiva
per l‟elaborazione iniziale delle componenti del suono. Poi le regioni
frontali implicate nella elaborazione della struttura musicale e nelle
aspettative. Infine il sistema mesolimbico, una rete di regioni, coinvolte
nell‟eccitazione nel piacere e nel rilascio di dopamina che culminano con
l‟attivazione del nucleus accumbens.
In tutto questo il cervelletto, detto anche “area retiliana” o “archipallio”
(parte più arcaica presente anche nei rettili) è rimasto attivo tutto il
tempo con le sue connessioni con le aree dei lobi frontali e sistema
libico, a controllare e regolare l‟emozione.
A cosa servono i ricordi
Le emozioni sono, quindi, saldamente ancorate ai nostri ricordi. Anzi
la nostra mente conserva in memoria prevalentemente eventi “dai
colori emotivi più accesi” rispetto ad altri eventi dai colori emotivi più
sbiaditi.
Per questo motivo nel processo di riconoscimento delle emozioni è
importante tener conto delle emozioni del presente sapendole
distinguere da quelle del passato.
Alcune situazioni presenti svegliano i ricordi del passato (e le emozioni
ad essi connesse) senza che ce ne rendiamo conto. Così si genera il
medesimo meccanismo di evitamento suddetto.
L‟evitamento emozionale non ci permette di vivere con compassione il
dolore, generato dal sentimento fastidioso e finisce per amplificare e
mantenere vivo il dolore stesso.
Dobbiamo riconoscere che abbiamo sofferto in passato e accettare di
vivere momentaneamente la nuova sofferenza, non per cambiare gli
avvenimenti del passato, ma per modificare le tracce emozionali che
hanno lasciato. Questo è l‟unico modo per attenuare la paura di
rivivere la stessa storia.
L‟uomo ha bisogno di ricordare per dare un senso alla propria vita e
gettare un ponte fra passato presente e futuro ai fini una coesione
dell‟Io. In altre parole senza i ricordi saremmo tanti “Io” scollegati fra
loro (frammentazione) e non potremmo riconoscere un continum
necessario a dare senso alle cose che facciamo.
A tal proposito la musica è utilissima per evitare il senso di morte e
frammentazione. La musica si fonda sulla ripetizione: funziona perché
ci ricordiamo i toni appena sentiti e li colleghiamo a quelli che vengono
dopo (altrimenti sentiremmo solo dei singoli suoni uno dopo l‟altro e
non una canzone). Questi gruppi di toni (frasi) musicali potrebbero
ritornare nel brano, in una variazione che solletica il nostro sistema
mnestico e nel contempo attiva i nostri centri emozionali.
Ora, i modelli di memoria a traccia multipla partono dal presupposto
che il contesto venga codificato insieme alle tracce mestiche; ciò
significa che anche la musica ascoltata nei vari periodi della nostra vita
verrà codificata insieme agli eventi di quei periodi. Questo può essere
molto utile nel ricostruire un percorso della memoria che serva a
rammentarci chi siamo e come siamo arrivati dove siamo.
L’importanza della relazione
Abbiamo visto come, di per sé, un ascolto musicale abbia un certo
effetto neurochimico sul nostro organismo al pari di alcuni farmaci
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dopaminergici, antidepressivi. Qualcuno potrebbe obiettare che allora
basta autosomministrarsi della musica (al pari di un‟aspirina) per
alleviare il proprio malessere. In realtà le cose non sono così
semplicistiche. È come se io prendessi dei farmaci mescolati a caso per
autocurarmi da un malessere non ben precisato che si manifesta in
maniera plurisintomatica.
Ciò che è veramente terapeutico è la relazione e non la musica in se.
Certo ognuno di noi avrà provato almeno una volta nelle proprie
solitudini adolescenziali a chiudersi in camera in preda ad una
soffocante malinconia e cercare sollievo in un ascolto in cuffia di un
brano del nostro cantate o gruppo preferito. Ma in un quadro
patologico questo non basta.
La musica è il mezzo che il terapeuta utilizza al fine di instaurare una
relazione col soggetto in cura, la quale relazione ha finalità terapeutica
– riabilitativa.
Chi si ammala fisicamente e/o mentalmente non fa altro che
interrompere un processo di comunicazione sia nei confronti del
mondo esterno che con se stesso. Si pregiudicano i contatti e i normali
rapporti con l‟ambiente e pian piano l‟individuo raggiunge un tale
isolamento da divenire straniero a sé stesso. Il soggetto malato
sprofonda sempre più in una coltre di nebbia dove i processi percettivi,
intellettivi ed emotivi vengono alterati. La realtà esterna diviene,
spesso, qualcosa di sconosciuto e minaccioso, qualcosa che non
rispecchia più il proprio mondo interiore.
La musica può aiutare a dissipare questa nebbia, e facilitare
l‟acquisizione e lo sviluppo della conoscenza di sé e degli altri.
In psicodinamica è la qualità della relazione che rivela l‟individualità in
essa. Il terapista ascolta sia la musica che viene improvvisata dal
paziente sia la persona nella musica. Potremmo dire che la persona non
esiste fuori dalla relazione; in tale contesto la persona “è” la musica.
L’Improvvisazione strumentale
Il fare musica improvvisando, all‟interno del setting musicoterapico, è
per molti aspetti diverso dal fare musica di un musicista.
L‟improvvisazione clinica deve tenere presente i molteplici e diversi
obiettivi che si vogliono raggiungere nell‟ambito di un processo
terapeutico riabilitativo.
Le regole d‟improvvisazione clinica divergono da quelle di una
consueta improvvisazione musicale per vari aspetti. La presenza del
terapista deve essere discreta e non invadente favorendo un clima di
non-giudizio e rafforzando la funzione di contenimento del setting.
Qualora fosse necessario deve saper arginare o indirizzare i partecipanti
del gruppo al fine di una migliore coesione dello stesso.
Il terapista che suona improvvisando con il paziente deve saper
ascoltare le proposte e accoglierle, rielaborandole e arricchendole per
poi restituirle alla fonte di provenienza.
In un ambito gruppale, il gioco di ascolti - elaborazione – rimandi
diviene più complesso, in quanto il terapista deve aver un ascolto a
360° per poter cogliere le singole proposte, gli scambi le “trovate
musicali” (come direbbe Delalande) di ogni partecipante al gruppo e,
estemporaneamente, cercare di accogliere e rilanciare per valorizzare e
facilitare la condivisione e l‟interazione degli elementi del gruppo.
L‟invenzione musicale avrà particolari caratteristiche dinamiche
(volume) e di agogica (accelerando, rallentando, stringendo, rubando, ritardando,
etc); avrà un ritmo strutturato o casuale, stereotipato o libero. Solo
ascoltando attentamente il terapista può riuscire ad agganciare i vari
soggetti e interagire con loro.
Il paziente che ascolta in “eco” la sua produzione musicale si sente
compreso, chiamato in causa, gratificato, riconosciuto e ciò favorisce
uno scarto mentale, aumentando il livello di attenzione. Il rimando al
gruppo dello spunto musicale rielaborato in forma di tema favorisce la
circolarità emotiva e lo scambio fra i singoli.
Può accadere che nessuno abbia voglia iniziare o che non ci siano idee
musicali precise, utili per la costruzione di un‟improvvisazione. Il
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terapista può, in tal caso, prendere l‟iniziativa e proporre delle idee
nuove strutturando l‟improvvisazione.
Potrebbe offrire una struttura più sicura e continua per contenere le
frasi brevi e interrotte. Potrebbe offrire una diversa modalità di
suonare in risposta ad un modo di suonare rigido e ripetitivo,
rispecchiando inizialmente il suo modo di suonare e provando a
variarlo di poco; notando se il suo interlocutore si accorge della
variazione e se è disposto a seguirlo. Potrebbe giocare sui livelli di
intensità per generare tensione e distensione o potrebbe introdurre
pause improvvise per “resettare” l‟attenzione del gruppo e risincronizzare i partecipanti, per poi portarli verso la nascita di una
nuova idea con una dolce o improvvisa virata.
L‟equilibrio tra le parti deve essere sempre mantenuto anche quando
un partecipante si mostra più esuberante di altri e cerca di
monopolizzare l‟andamento dell‟improvvisazione. In tal caso deve
cercare di frapporsi tra lui e il resto del gruppo per provare a modulare
il suo livello energetico e la sua esuberanza e agganciarlo su un piano di
dialogo personale.
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“Tema con variazioni”
Una delle tecniche adottate nelle improvvisazioni di Musicoterapia è
quella del “Tema con Variazioni”. Questa è una delle forme più usuali
adottate nel corso della storia della musica.
L'uso della tecnica della variazione risale almeno all'antica Grecia.
Alcune forme d‟origine barocca, come la Passacaglia e la Ciaccona, sono
esempi di architettura musicale basata in maniera essenziale sulla
variazione, sotto forma di riproposizione variata di un ostinato
armonico, costituito spesso da un vero e proprio basso ostinato.
Nella trasformazione, manipolazione di un tema dato l‟uomo,
probabilmente, rispecchia il suo bisogno di sentirsi, nel tempo, sempre
sé stesso, pur mutando sempre in qualcos‟altro.
All‟interno di un setting di Musicoterapia la tecnica della variazione è
utilizzata secondo la teoria delle “sincronizzazioni inesatte” di Stern.
Per sincronizzazioni inesatte s‟intende una risposta data, non
direttamente corrispondente
(sarebbe così una imitazione) alla richiesta. Se la madre risponde in tal
modo ad una proposta del suo bambino, egli dovrà, per poter
rispondere, riconoscere che una parte della risposta avuta è simile alla
sua proposta, ma deve anche considerare la piccola variazione
introdotta dalla madre, attraverso una propria elaborazione.
Così nella relazione musicoterapica le sincronizzazioni inesatte
introducono un elemento di variazione che può essere affrontato e
rielaborato dalla mente del paziente e, a sua volta, può essere espresso
ad un livello diverso, più complesso.
Ecco allora che, durante un‟improvvisazione di Musicoterapia, accade
che i soggetti espongano il loro “tema” mettendolo a confronto con
altri temi, cercando l‟interazione con essi. Il tema subisce poi delle
variazioni (attenzione, non uno stravolgimento perché è importante
che il soggetto possa riconoscere il suo tema); esso viene quindi
rielaborato e, in fine, ri-assunto e riconosciuto come proprio.
Di solito durante un‟improvvisazione di gruppo, all‟interno del setting,
nasce un‟atmosfera di distensione e divertimento che neutralizza i
tentativi illusori e di fuga. Rinunciando al controllo la mente si libera
delle sue paure. Ci si sente allora trascinati al centro del suono e dentro
le sue origini come in un vortice, la cui forza centripeta aggregante è
irresistibilmente coinvolgente.
Può anche succedere che il soggetto si senta assalito da una profonda
tristezza ma essa ritrova il suo spazio, in una corretta collocazione, e ci
si accorge che non è qualcosa di avulso da ricacciare via, bensì
solamente l‟altro lato della medaglia.
Se si segue fino in fondo la propria tristezza, se la si segue sin dove
essa ci vuol condurre, allora si scopre che essa ha un senso. Sono in
accordo con me stesso, anche con i miei desideri inespressi, anche con
la mia solitudine, anche con la mia incomprensione; la realtà esterna fa
meno paura.
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Conclusioni
L‟uomo è un essere conflittuale e in quanto duale è diviso
interiormente e quindi è soggetto alla malattia. La malattia è vista dalla
medicina attuale occidentale come un insieme di sintomi da
combattere, eliminare per ridare sollievo al soggetto malato.
Finché la medicina convenzionale continuerà ad affrontare la malattia
solo sul piano sintomatologico trascurando la relazione globale tra
corpo e psiche, dimenticandosi, in sostanza, di eliminare le cause che
hanno generato la malattia, i segnali di disagio (Sintomi) troveranno
un‟altra via per manifestarsi.
Il sintomo è un segnale d‟allarme che ci avverte che qualcosa non va
come dovrebbe. Ma se io mi limito a spegnere solo la spia di
rilevazione senza occuparmi di scoprire dove si è generato il “guasto” e
senza occuparmi delle cause che l‟hanno generato, non avrò risolto il
problema.
Nonostante l‟avanzare delle competenze in campo tecnico e medico,
l‟uomo, paradossalmente, è ancora impotente di fronte alle malattie
derivanti dalle grandi nevrosi del nostro secolo: depressione, cancro,
Aids, anoressia e bulimia. Questo perché tali nevrosi sono figlie di un
processo di disumanizzazione della società; figlie dell‟incomunicabilità,
della eccessiva razionalizzazione.
E‟ la perdita dell‟identità‟ personale frutto di una società edonista
basata sull‟estetica e l‟apparenza, che ha dimenticato di nutrire i sogni e
i miti dei propri figli lasciando che i mali, fuoriusciti dal vaso di
Pandora, regnassero incontrastati senza che nessuno potesse dare un
senso a tanta sofferenza.
Attraverso l‟arte e la musica, in particolare, il soggetto ritrova il senso
perduto del suo esistere. Egli ritrova il proprio sé nel riconoscersi,
nell‟apprezzarsi, nel difendere le proprie idee e, in definitiva,
nell‟amarsi. E questo sentimento d‟amore è qualcosa da ricostruire, da
ritrovare perché, spesso, non si era potuto formare in un “luogo di
mancanza” che viene espresso dalla mano che cerca la tua mano per
potersi sentire capace, libero, attivo, sicuro e … creativo” (R. Lucioni,
2008).
Attraverso la Musicoterapia, la persona, nel suo insieme mente-corpo,
torna ad essere luogo dell‟immaginario ed espressione della propria
creatività.
La musica con il suo potere evocativo, con i suoi legami ancestrali di
proto-linguaggio è in grado di metterci in contatto con le parti più
arcaiche del nostro essere e ritrovare l‟ equilibrio perduto dell‟infanzia,
per poter vivere e non sopravvivere, per poter conoscere le proprie
paure e ritrovare una strada da percorrere, consapevoli che non tutte le
strade sono un percorso.
81
RIASSUNTO
È noto che oramai la Musicoterapia è da tempo inserita come
strumento della riabilitazione di pazienti psichiatrici. Vorrei ora cercare
di spiegare come la musica può essere utilizzata come strumento
riabilitativo nel processo di cura delle malattie mentali.
Il titolo della mia relazione menziona due “protagonisti”: la Memoria e
i Sentimenti. Proverò qui di seguito a spiegare quale affinità e legame ci
sia tra questi due elementi apparentemente così distanti tra loro, che
potremmo vedere come rappresentativi l‟uno della psiche e l‟atro
dell‟anima.
In questo binomio si può inserire la musica, come elemento di
coesione capace di parlare all‟uno o all‟altro, dell‟uno e dell‟altro e
mettere in collegamento i due poli, in costante tensione tra loro.
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
Vorrei cercare di spiegare come mai i ricordi sono così indispensabili
per l‟essere umano e capire qual è il meccanismo che ingenera le
emozioni; addentrarci per un po‟ nel campo delle neuroscienze per
andare a vedere da vicino quali sono le aree del cervello adibite al
controllo dei ricordi e delle emozioni, per scoprire che le stesse sono
ugualmente attivate quando si ascolta e si pratica musica.
PAROLE CHIAVE: memoria, emozioni, musica e musicoterapia
82
ABSTRACT
It is now known that music therapy has long been included as an
instrument of rehabilitation of psychiatric patients. I now try to explain
how music can be used as a tool in the process of rehabilitation of
mental health care.
The title of my report mentions two "stars": Memory and Feelings. I
will try below to explain the affinity and connection there is between
these two seemingly distant from each other, we might see as a
representative of the atrium of the psyche of the soul.
In this combination, you can put the music as a cohesive force capable
of speaking one or the other of each other and to link the two poles, in
constant tension between them.
How come the memories are so essential to the human being and what
is the mechanism that generates the excitement? This is the question
that will guide us for a while penetrating 'in the field of neuroscience to
go and see for yourself how the mechanism works and what memories
are sites for the control of emotions occurring in fine, that they are
equally active when listening to music and practice.
KEY WORDS: memories, emotions, music and clinic musictherapy
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Quattro passi per strada
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IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011
Filippo Mittino7
Hugo Bleichmar
Psicoterapia Psicoanalitica.
Verso una tecnica di interventi specifici
Pagg. 452
Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2008
Questo libro di Hugo Bleichmar rappresenta una sintesi delle
riflessioni che l‟Autore aveva proposto in scritti precedenti8, che
possono essere visti come piccole tessere qui raccolte per comporre un
unico e policromo mosaico rappresentante il percorso psicoanalitico
(Borgogno, 1999) da lui compiuto.
L‟Autore è psichiatra e psicoterapeuta, professore all‟Università
Pontificia Comillas (Madrid), membro associato della Asociacion
Psicoanalitica Argentina (IPA) e presidente della Sociedad Forum de
Psicoterapia Psicoanalitica.
Sin dall‟introduzione si coglie la forza innovativa di questo testo; viene
proposto un confronto tra due tendenze adottate nell‟affrontare lo
studio dell‟inconscio: la dottrina speculativa e il modello modularetrasformazionale, quest‟ultima fondamentale per riflettere sui pazienti con
una particolare attenzione alla loro soggettività. All‟interno della prima,
Bleichmar mette in luce tre aspetti: il pensiero semplificante, ovvero la
volontà di descrivere la complessità partendo da categorie con elevato
Psicologo, specializzando in Psicoterapia Psicoanalitica dell‟Adolescente e del
Giovane Adulto (ARPAd Minotauro, Milano). Collabora con il Dipartimento di
Psicologia dell‟Università degli Studi di Torino, svolge attività di orientamento
scolastico e di consulenza psicologica con bambini e adolescenti presso il Centro di
Psicologia COSPES di Novara
8 Ad esempio cfr. Bleichmar, 1981, 1990, 1994a, 1994b, 1996, 1999.
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livello d‟astrazione, che trascurano però la peculiarità soggettiva del
singolo paziente; l‟unificazione categoriale forzata, intesa come la
conversione delle categorie psichiatriche in entità omogenee; la
personificazione, secondo la quale le categorie psicopatologiche vengono
associate alle persone “in modo tale che si possa parlare dell‟isterico,
del depresso, dell‟anoressica o del borderline” (pag. 19). In
contrapposizione a questa tendenza viene proposto il modello modularetrasformazionale, che consiste nel considerare lo psichismo come un
insieme di dimensioni e parametri analitici capaci di descrivere i
molteplici sistemi motivazionali che, componendosi, danno origine
all‟attività psichica. Una trattazione più estesa di questa tendenza è
offerta all‟interno del primo capitolo, nel quale l‟Autore presenta anche
un‟esemplificazione rispetto ai sottotipi della depressione. Inizialmente
Bleichmar propone i diversi percorsi di ingresso alla depressione:
l‟aggressività, il senso di colpa, i disturbi narcisistici, le angosce
persecutorie e l‟identificazione. Ciascuno di questi percorsi può
condurre alla depressione in maniera autonoma oppure articolandosi
con un altro. Diventa quindi necessario, per uno studio sulla
depressione, definire le caratteristiche di base dei disturbi depressivi,
stabilire quali sono i processi che ne costituiscono il nucleo e, infine,
comprendere le modalità di articolazione sottostanti ai vari sottotipi.
L‟Autore fa riferimento a una paziente che, mossa da un‟ostilità
radicata in un narcisismo patologico, attaccava il marito per denigrarlo
e trasformarlo in un oggetto interno privo di valore; questa
svalorizzazione generava in lei il pensiero di aver fallito nella propria
vita a causa di una scelta errata che la teneva legata a una relazione
insoddisfacente. È quindi l‟aggressività narcisistica contro l‟oggetto
d‟amore che conduce la paziente alla perdita dello stesso come oggetto
di valore e conseguentemente all‟autosvalutazione e alla depressione.
In questa esemplificazione si può leggere l‟obiettivo che il libro si
prospetta: decostruire le categorie psicopatologiche focalizzando
l‟attenzione sui sottotipi, sui percorsi psicogenetici e sulle dimensioni a
essi soggiacenti, e pianificare interventi terapeutici modificando, così, le
componenti delle diverse configurazioni psicopatologiche e di
personalità. Questo approccio allo studio della psicopatologia viene
affrontato in riferimento al masochismo (Cap. II), al rimosso (Cap.
III), all‟inconscio (Cap. IV), all‟aggressività (Cap. V), ai disturbi
narcisistici (Cap. VI), al Super-io (Cap. VII) e al lutto patologico (Cap.
VIII). Per facilitare la comprensione di queste decostruzioni effettuate
sulle categorie psicopatologiche, esse vengono graficamente
rappresentate in alcuni diagrammi.
A completamento dei temi esposti, l‟ultimo capitolo (Cap. IX) offre
un‟analisi dei sistemi emozionali che, precedentemente, sono stati
affrontati nel loro articolarsi e trasformarsi per dare origine a
configurazioni psicopatologiche complessive, come la depressione, il
masochismo, ecc. Questi sistemi emozionali sono affrontati nella loro
unicità a partire dai sistemi motivazionali sensuale-sessuale, narcisistico,
dell‟attaccamento e dell‟evitazione del dispiacere-dolore. Dal momento che essi
non esauriscono la lista dei moduli che compongono lo psichismo,
l‟AUTORE li scompone nelle loro singole componenti, che vengono
poi poste in relazione alle tre configurazioni dell‟Io, dell‟Es e del Superio.
Particolarmente stimolante è il tema affrontato a conclusione del
capitolo IX, ovvero il rischio di lavorare alla periferia della patologia:
Bleichmar afferma che “il terapeuta deve muoversi tra la microscopia
della sequenza in seduta e la macroscopia della percezione del paziente
nei grandi movimenti che scandiscono la sua vita” (pag. 398). Per
questa ragione l‟Autore mette in evidenza tre importanti caratteristiche
del lavoro terapeutico: la pertinenza dell‟area di intervento, intesa come la
coerenza tra intervento terapeutico e le esigenze di cambiamento del
paziente; la rilevanza, ovvero il fatto che l‟intervento deve occupare una
posizione di rilievo rispetto agli obiettivi prefissati e alla vita mentale e
interpersonale del paziente; l‟articolazione, secondo cui ogni condotta,
fantasia, sottostruttura di personalità deve essere pensata
nell‟articolazione con le altre componenti (come ad es. il legame tra
narcisismo e aggressività; aggressività e angoscia di separazione, ecc.).
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Inoltre l‟Autore suggerisce una distinzione tra psicoanalisi e
psicoterapia focale fondata sul fuoco di osservazione: nella psicoanalisi
il fuoco deve essere pertinente, rilevante e flessibilmente mobile,
seguendo ciò che nel trattamento emerge; per converso, nella
psicoterapia focale il fuoco, per ragioni pratiche di tempo, si mantiene
stabile per l‟intera durate della terapia tralasciando tutto ciò che porta
ad allontanarsi da esso.
Ad arricchire maggiormente il volume vi sono infine due appendici:
una intitolata “Una guida alla presentazione del materiale clinico in
supervisione”, l‟altra “Per una psicoanalisi dei motivi dell‟adesione a
modelli riduzionisti”. In quest‟ultima è presente una riflessione molto
importante, che mette in luce il nuovo respiro di apertura offerto da
questo testo: Bleichmar definisce i sistemi semplificanti lucchetti ideologici,
sottolineando come essi dettino regole che diventano assunti
indiscutibili. Questi lucchetti, che chiudono il sistema ogni qual volta
esso viene messo in discussione, secondo l‟Autore, potrebbero quindi
operare anche nei confronti delle tesi proposte nel libro, bloccando la
forza generativa insita nelle riflessioni sul modello modularetrasformazionale. In altre parole, se il lettore rimane barricato all‟interno
degli insegnamenti appresi nella propria scuola, i modelli complessi
esposti potrebbero rimanere delle semplici nozioni che non
influenzano il modo di pensare e di vivere il rapporto con il paziente.
Da quanto sopra espresso, è possibile affermare che la lettura di questo
libro costituisce uno stimolo a riflettere sulla psicopatologia del
paziente inteso nella sua singolarità. Il pensiero di Bleichmar sembra
pertanto ben collocarsi all‟interno dell‟attuale riaccendersi del dibattito
sulla diagnosi e sulla psicopatologia scaturito intorno al Manuale
Diagnostico Psicodinamico (PDM Task Force 2006), manuale che
offre una valutazione multiassiale, multidimensionale e prototipica
prendendo in considerazione le sindromi cliniche, l‟esperienza
soggettiva del paziente, il suo profilo del funzionamento mentale e il
suo stile di personalità. In linea con quanto espresso da lui, questo
manuale permette dunque al terapeuta di effettuare una riflessione sulla
psicopatologia del paziente osservando le singole funzioni e il profilo
globale; riflessione che può essere guidata da logiche che costituiscono il
ragionamento clinico (Albasi 2009). L‟approccio del PDM (PDM Task
Force 2006) si anteporrebbe in sostanza al modo riduzionista del DSM
di intendere la psicopatologia, modo criticato da Bleichmar in più punti
di questo testo. Ricordiamo, infatti, come l‟Autore, all‟interno del suo
modello modulare-trasformazionale, intenda lo psichismo come “sistema di
integrazione modulare e di trasformazioni (…) capace di superare sia
l‟atomismo delle funzioni sia la generalizzazione basata su un ridotto
numero di categorie da cui si deducono tutte le rimanenti” (pag. 356).
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BIBLIOGRAFIA
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BORGOGNO F. (1999): Psicoanalisi come percorso. Bollati
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PDM TASK FORCE (2006): Manuale Diagnostico Psicodinamico,
(a cura di DEL CORNO F., LINGIARDI V.) Raffaello Cortina,
Milano 2008.
Caro Lettore,
lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed
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nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota.
7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente
con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle
pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve:
(Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due,
appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due:
(Racamier et al. 1981, p.184).
8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di
articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento
bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale.
9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve
contenere unicamente gli Autori citati nello scritto.
La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello:
- Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford.
Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo
sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche
la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome
dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in originale. La data della traduzione va
in fondo. Es.:
- Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma,
1983.
Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con
ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica
delle opere:
- Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation.
S.E., 19.
- Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19.
Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il
primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore
apparirà in primo luogo come Autore singolo.
La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo
questo modello:
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et al., Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977.
Oppure, quando l’Autore è lo stesso:
- Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In
First Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952
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La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo
modello:
- Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp.
162-168.
10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su
singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in
fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole sia l’iconografia
dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda
esplicativa.
La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori
piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i
testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà
immediata comunicazione.
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