il vaso di pandora
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Spedizione in Abbonamento Postale 70% - Filiale di Savona Vol. XX, N. 4, 2012 TRA PRASSI E TEORIA APPUNTI DI VIAGGIO Edizioni QUATTRO PASSI PER STRADA OLTRE... * Omaggio a Hermann Zapf * Progetto informatico di Tiziano Stefanelli IL VASO DI PANDORA Edizioni IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XIX, N.1, 2011 IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane <<Il Vaso di Pandora>> Copyright © 1992 by REDANCIA Iscrizione per il Tribunale di Savona N° 418/93 – ISSN 1828-3748 Direttore Responsabile: Giovanni Giusto Direttore Scientifico: Carmelo Conforto Comitato Editoriale: R. Antonello (Genova) A. Bonfanti (Cuneo) P. De Fazio (Catanzaro) G. Ferrigno (Genova) M. Marcenaro (Genova) P. Melo (Savona) A. Narracci (Roma) B. Orsini (Genova) P. Pisseri (Savona) E. Robotti (Genova) R. Valdrè (Genova) G. Ba (Milano) M. Carnovale (Savona) P. Destefani (Genova) A. M. Ferro (Savona) E. Maura (Genova) C. Mencacci (Milano) D. Nicora (Savona) P. F. Peloso (Genova) P. 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Verso una tecnica di interventi specifici” di Hugo Bleichmar Filippo Mittino pag. 89 IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°1, 2011 Table of contents Editorial Paola Bartolini pag. 6 TRA PRASSI E TEORIA Early interventions in Psychosis: what we know and what we can do Panfilo Ciancaglini, Lucio Ghio, Marco Vaggi pag. 11 APPUNTI DI VIAGGIO Alexitimia and Addiction Disorders. Psychodinamic aspects and general consideration Sabino Nanni pag. 35 Memory and Feeling: Experiences of Musictherapy into a Psychiatric Clinic Giacomo Cassano pag. 65 QUATTRO PASSI PER STRADA Recensione: “Psicoterapia Psicoanalitica. Verso una tecnica di interventi specifici” di Hugo Bleichmar Filippo Mittino pag. 89 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 5 Editoriale 6 Quest'anno il primo numero della rivista si apre con l‟interessante contributo di Ciancaglini, Vaggi e Ghio sugli esordi schizofrenici. Gli autori riportano la loro esperienza, svolta presso un Centro di Salute Mentale genovese nell‟ambito di un progetto di ricerca nazionale (PROGRAMMA 2000) per l‟individuazione ed il trattamento precoce degli esordi psicotici. La letteratura scientifica evidenzia come la diagnosi precoce di schizofrenia ed il trattamento tempestivo del quadro psicopatologico siano correlati ad un miglioramento degli esiti a breve e a lungo termine. In particolare, appare centrale l‟importanza del cosiddetto “periodo critico”, ovvero i due anni successivi al primo episodio psicotico, caratterizzato dalle massime possibilità d‟intervento sia per il quadro neurobiologico, suscettibile di modificabilità, sia per evitare danni psicosociali secondari che compromettono la rete sociale e le abilità degli individui. In quest‟ottica diventano quindi essenziali nel trattamento della schizofrenia adeguate politiche socio-sanitarie, volte a favorire interventi di prevenzione secondaria e terziaria Il lavoro successivo – per opera di Sabino Nanni - propone una raffinata disamina clinica e terapeutica dell‟alexitimia, ponendola in relazione con “l‟addiction to normality” di Kohut. Gli alessitimici appartenenti a tale gruppo sono soggetti all‟apparenza “normali” ma inclini a problemi di addiction e a scompensi somatici gravi in presenza di stressor emozionali. Mancando della possibilità di riconoscere, descrivere e condividere le proprie emozioni, e, di conseguenza, di trarre giovamento da relazioni affettive autentiche, tali soggetti ancorano il proprio equilibrio in modo rigido e dipendente alla normalità. In presenza di eventi a forte impatto emotivo sono carenti delle risorse necessarie all‟elaborazione psichica e tendono ad esprimere e scaricare la propria sofferenza sul corpo con gravi rischi per la propria salute. Rievocando Ivan Ilijc di Tolstoj, con il suo “conformismo istintuale”, Nanni ci descrive la patologia della normalità “coatta” mettendo in luce come la possibilità di “impazzire un po‟” permetta di “non impazzire del tutto”e sia uno dei fattori per preservare la salute mentale. Vengono poi esposte le diverse modalità di trattamento della dipendenza patologica che si collocano lungo un continuum che va dall‟attivazione di un addiction sostitutiva meno nociva sul piano somatico e sociale, all‟intervento psicoterapico volto allo sviluppo di aspetti sani della personalità. Con un esame critico dei vari fattori che possono orientare nell‟uno o nell‟altro senso la cura di questi pazienti, l‟autore sottolinea infine la necessità di una relazione empatica e di un approccio integrato come elemento fondamentale nella scelta della terapia più adeguata al singolo paziente. E‟ esperienza comune che l‟ascolto della musica favorisca il riemergere di ricordi ed emozioni. Cassano nel suo articolo illustra le basi neurobiologiche che sottendono alla fruizione musicale ed evidenzia come essa possa diventare strumento di cura e riabilitazione per i pazienti psichiatrici. Egli descrive la propria attività di conduttore di gruppi di Musicoterapia in Comunità terapeutica, delineandone le modalità di svolgimento e le varie tecniche d‟intervento. In particolare valorizza l‟importanza del gruppo e dell‟atmosfera di condivisione e confronto quali elementi di contenimento ed elaborazione delle esperienze individuali. All‟interno di un contesto non verbale, in un setting definito, il terapista propone l‟ascolto di brani musicali che afferiscono a due registri, quello della “famigliarità rassicurante” e quello della “novità che stimola”al fine di rievocare il passato, sollecitando nel presente la funzione creativa della mente. Chiude questo numero la recensione di Mittino su “Psicoterapia Psicoanalitica. Verso una tecnica d‟interventi specifici” di Hugo Bleichmar. Buona lettura! Paola Bartolini IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 7 Tra prassi e teoria 9 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 Panfilo Ciancaglini1, Lucio Ghio2, Marco Vaggi3 Interventi precoci nelle psicosi: cosa sappiamo e cosa possiamo fare Un nuovo modello di intervento: la basi teoriche Negli ultimi anni molti studi (Birchwood et al., 1997; McGorry et al., 1999; Birchwood et al., 2002) hanno posto sempre più l‟accento sull‟ampia variabilità degli esiti a breve e a lungo termine della schizofrenia e hanno mostrato come questi siano correlati con la durata della psicosi non trattata (DUP: duration of untreated psychosis) e con l‟evoluzione durante i due anni successivi al primo episodio psicotico, il cosiddetto “Periodo Critico”. Appare, cioè, documentato il rapporto tra il mancato trattamento precoce della psicosi e gli esiti sfavorevoli a lungo termine, sulla base della proposta teorica di un “periodo critico” di alcuni anni che coinciderebbe, nella psicosi, al periodo di massima plasticità e modificabilità del quadro psicopatologico, al termine del quale si raggiungerebbe un “plateau”, sul piano sintomatologico e delle disabilità, difficilmente reversibile (McGorry et al., 2000). L‟irreversibilità sintomatologica avverrebbe quindi in un periodo molto precoce della malattia, dato confermato dallo studio di Carpenter et al. (1991) che evidenzia, in un follow-up di 11 anni, come il 75% dei pazienti non mostri cambiamenti significativi relativi a tassi di ricadute, Associazione Italiana per gli Interventi Precoci nelle Psicosi, Milano Dipartimento di Neuroscienze, Oftalmologia e Genetica, Università degli Studi di Genova 3 U.O. Salute Mentale Distretto 8, Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze, ASL 3 Genovese 1 2 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 11 12 relazioni sociali, capacità lavorativa e sintomi residui tra il secondo e l‟undicesimo anno. In seguito a questi risultati da alcuni anni il riconoscimento precoce e una diversa e più intensiva gestione della schizofrenia all‟esordio sono diventati temi centrali di salute mentale e obiettivi prioritari di sanità pubblica, capovolgendo di fatto le basi teoriche delle pratiche cliniche attuali, che tendono a fornire interventi riabilitativi intensivi e prolungati nelle fasi avanzate della psicosi, per pazienti spesso ormai affetti da disabilità cronica, e a riservare solo interventi di crisi nelle prime fasi di malattia. L‟ipotesi degli interventi precoci nella schizofrenia è quella, quindi, che una riduzione della durata della psicosi non trattata (DUP), attraverso interventi di individuazione precoce e trattamenti farmacologici e psicosociali nelle primissime fasi della malattia, possa migliorare gli esiti a breve e a lungo termine. Come confermato, infatti, da alcuni studi (Crow et al., 1986; Johnstone et al., 1986) la durata della psicosi non trattata (DUP) sembra essere il fattore predittivo più importante di successive recidive, più significativo anche dell‟adesione al trattamento farmacologico. L‟intervento precoce nella schizofrenia, pur nella sua complessità, rappresenta, quindi, oggi la direzione più innovativa verso la quale si stanno muovendo gli sforzi della ricerca, della pratica clinica e delle politiche sociosanitarie. Lo scopo è quello di evitare che le persone vengano prese in carico quando la malattia è consolidata e i suoi effetti disabilitanti hanno interrotto o pesantemente intaccato lo sviluppo e la realizzazione del progetto personale di vita, quando la rete affettiva e sociale si è spezzata e le famiglie e la società risentono fortemente dell‟impatto con la patologia. L‟esperienza clinica e le ricerca attuali indicano che un atteggiamento più attivo e un‟offerta più tempestiva e mirata di trattamento consentono di “invertire la rotta” (Meneghelli e Bislenghi, 2003), di ritardare o moderare le conseguenze di malattia, di avviare un processo di miglioramento o di guarigione più rapido e più stabile e di garantire una più appagante qualità della vita. (Loebel et al., 1992; Hafner et al., 1995; McGlashan e Johannessen, 1996; Larsen et al., 2000; McGorry et al., 2000; Schaffner e McGorry, 2001; Larsen et al., 2001). Intervento precoce, dunque, non significa “prima del tempo”, “prematuro”, ma “a tempo” e soprattutto, come sottolinea Larsen (2001), “prima di quanto sia usuale”. Nell‟ambito della schizofrenia e dei disturbi psicotici in generale risulta difficile parlare di prevenzione primaria, mentre buone sono le prospettive nell‟area della prevenzione secondaria in particolare quando rivolta al riconoscimento precoce di nuovi casi, alla riduzione del ritardo nel mettere in atto un trattamento efficace e alla possibilità di fornire un trattamento ottimale e prolungato nel “periodo critico” dei primissimi anni di malattia. Diminuire l‟impatto e il peso dei disturbi sarebbe già un risultato rilevante, ma secondo alcuni autori è possibile pensare anche alla riduzione della loro prevalenza, ad esempio ritardando nel tempo l‟inizio della malattia, abbreviando il tempo passato in condizioni di disabilità o accelerando il processo di guarigione. I benefici potenziali di un intervento precoce includono quindi: la riduzione della morbilità il processo di guarigione più rapido la prognosi migliore il mantenimento di abilità psicosociali la conservazione di supporti familiari e sociali la minore necessità di ospedalizzazione. Gli interventi precoci nella Schizofrenia sono indirizzati a tre fasi specifiche del decorso della patologia: la fase prodromica o prepsicotica, il primo episodio psicotico e la fase successiva al primo episodio psicotico, definito periodo critico. Gli interventi nella fase pre-psicotica implicano un‟ampia gamma di questioni etiche e concettuali. In primo luogo i segni e i sintomi prodromici che potrebbero essere associati ad una malattia psicotica, che compaiono generalmente in età adolescenziale, non sono necessariamente specifici per uno sviluppo IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 13 14 psicotico, ma possono essere causati da altri disturbi o essere reazioni temporanee ad eventi stressanti. Occorre molta prudenza per evitare di stigmatizzare senza necessità come pre-psicotici individui non psicotici ed evitare il rischio che venga offerto un trattamento preventivo a persone che avrebbero avuto una buona prognosi anche senza trattamento o che non avrebbero affatto sviluppato una psicosi (falsi positivi). In secondo luogo, anche immaginando un‟alta specificità di previsione del successivo sviluppo psicotico, esistono comunque molte resistenze nell‟ipotizzare in questa fase l‟utilizzo di trattamenti psicofarmacologici, come proposto da alcuni autori. Vi è maggior consenso nel proporre per questi soggetti interventi psicologici come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e interventi di individuazione precoce attraverso il coinvolgimento dei Medici di Medicina Generale. I medici di famiglia sono spesso il primo punto di contatto con i giovani e/o i loro genitori, e possono giocare un ruolo importante nel ridurre al minimo i ritardi dell‟intervento. I programmi di intervento precoce hanno bisogno di sviluppare la collaborazione con i MMG locali e con le loro organizzazioni rappresentative. Le strategie includono: Incrementare la consapevolezza e promuovere l‟interesse per la psicosi; Fornire informazioni sull‟intervento precoce nella psicosi; Educare e formare in modo mirato al miglioramento delle abilità nella valutazione psichiatrica, nella individuazione della malattia e nei principi di trattamento; Consigliare e supportare attraverso un collegamento attivo, tirocini psichiatrici guidati o supervisioni cliniche (Falloon et al.,1996); Facilitare il percorso di invio ai servizi specialistici. Il ritardo del riconoscimento dei primi segni di malattia psicotica nelle persone giovani può derivare anche dal mancato riconoscimento da parte delle famiglie e degli amici e i sintomi possono essere tollerati per lunghi periodi di tempo prima della richiesta di aiuto. L‟esordio spesso insidioso dei disturbi psicotici è un altro fattore che ritarda il riconoscimento da parte di chi è vicino al giovane. Favorire le conoscenze sulla salute mentale della popolazione potrebbe migliorare potenzialmente il riconoscimento di sintomi psicotici precoci e l‟accesso al trattamento. Gli interventi che vengono proposti al momento del primo episodio psicotico sono articolati (vedi figura 1) e hanno diversi obiettivi. Il primo è, ovviamente, quello di ridurre il periodo della psicosi non trattata, attraverso interventi di individuazione precoce, che permettano anche di favorire una presa in carico volontaria e di ridurre i tassi di trattamenti obbligatori e coercitivi, molto frequenti in questa fase di malattia (sopra il 50%). Un secondo obiettivo importante è quello di diminuire i tassi di dropout precoce e di allontanamento dal servizio di cura (50% in 18 mesi) favorendo il mantenimento della presa in carico a lungo termine del paziente e la riduzione del rischio, presente in questo periodo di malattia, di suicidio o di ricovero in strutture penitenziarie. Il terzo obiettivo è quello di prevenire fin dal primo episodio il rischio di ricadute che sembrano essere correlate alla resistenza al trattamento e allo sviluppo precoce di disabilità (Birchwood, 2000). Low Lowdose/ dose/ atypical atypical medication medication Work Workand and training training Substance Substance misuse misuse Recovery Recovery Monitoring Monitoringfor for depression depressionand and suicidal suicidal thinking thinking Personal Personaland and Family Family adjustment adjustment Relapse Relapse prevention prevention Figura 1. I principali interventi all‟esordio psicotico (Birchwood, 2000) IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 15 16 Nel complesso gli interventi rivolti al primo episodio psicotico fanno riferimento al modello già noto dell‟integrazione dei trattamenti; un trattamento integrato di interventi biologici, psicologici e sociali sembra, infatti, offrire il massimo vantaggio per il paziente. Al di là di alcune tecniche specifiche ciò che appare come un approccio nuovo è la raccomandazione di fornire interventi integrati, inclusi quelli riabilitativi, nella fase molto precoce della malattia, e non, come spesso accade, in una fase avanzata, quando il quadro di stabilizzazione della sintomatologia (il “plateau”) si è ormai consolidato. E‟ indispensabile attivare il sostegno della famiglia, anche per sviluppare un piano di intervento nelle situazioni di crisi e per prevenire comportamenti di coping disfunzionali, come l‟abuso di sostanze o deliberati atti autolesivi. Per facilitare il coinvolgimento sia dei pazienti che delle famiglie vengono raccomandati già nelle prime fasi della malattia interventi di tipo psico-educativo, sia per il paziente che per i familiari. Gli interventi per i familiari possono essere di gruppo o rivolti al singolo nucleo familiare, quelli per il paziente individuali o di gruppo. Per quanto riguarda le terapie farmacologiche la maggior parte degli studi raccomanda l‟utilizzo di farmaci antipsicotici a basso dosaggio al fine di minimizzare gli effetti collaterali, in particolare i sintomi extrapiramidali, l‟iperprolattinemia, l‟eccessivo aumento ponderale, la modificata tolleranza al glucosio con un conseguente maggior rischio di sviluppare diabete. Il trattamento farmacologico del primo episodio psicotico è molto importante non solo per la remissione della sintomatologia, ma anche perché può influenzare il successivo atteggiamento del paziente verso la terapia in generale. Le persone che soffrono di un primo episodio psicotico sono spesso sospettose e timorose all‟idea di assumere farmaci “per la mente”, tuttavia se il farmaco offre sollievo dai sintomi senza presentare gravi effetti collaterali è probabile che i pazienti collaborino anche nei tempi successivi della terapia. Per quanto riguarda il supporto psicologico la terapia cognitivocomportamentale è il tipo di psicoterapia raccomandata. Due importanti aree di intervento della terapia cognitivocomportamentale riguardano l‟abuso di sostanze e il rischio di suicidio. L‟abuso di sostanze è uno dei più comuni problemi di comorbilità nel primo episodio psicotico (Rabinowitz et al., 1998). Circa il 70% dei pazienti al primo episodio psicotico hanno usato sostanze nei 12 mesi precedenti il primo contatto con per il servizio, nella maggior parte dei casi cannabis. Esistono d‟altra parte numerose evidenze che sottolineano il ruolo delle sostanze d‟abuso nell‟insorgenza e nel decorso di disturbi psicotici. Oltre agli interventi previsti nel periodo di maggiore acuzie è importante programmare un piano assistenziale specifico nel periodo di remissione. Il periodo che fa seguito al primo episodio psicotico è infatti fondamentale per ri-orientare e ricostruire la vita del paziente, che va aiutato nella comprensione della psicosi e nello sviluppo di risorse per il futuro. Il cosiddetto “periodo critico”, come è stato detto, può durare da due a cinque anni ed è fondamentale per i cambiamenti biologici, psicosociali e cognitivi che si sviluppano attivamente in questo spazio di tempo e che possono influenzare il decorso della psicosi. In questa fase tempo e sforzi devono essere spesi per scoprire le aree di funzionamento rimaste integre, favorendo ad esempio interventi mirati al reinserimento sociale e lavorativo e ad un continuo supporto individuale e familiare. Oltre a interventi di reinserimento, è importante mantenere un approccio attento alla prevenzione delle ricadute che determinano ogni volta un aumento dei sintomi residui e delle disabilità. A questo proposito è raccomandata una particolare attenzione allo sviluppo dei sintomi prodromici in modo da fornire interventi tempestivi che evitino il progredire verso un franco episodio psicotico. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 17 18 I modelli organizzativi: le esperienze internazionali e nazionali Se da una parte sta crescendo l‟entusiasmo riguardo al concetto di intervento precoce, dall‟altra l‟applicazione nei servizi delle conoscenze rapidamente acquisite nel trattamento dei primi episodi psicotici appare ancora ai primi passi. Esistono comunque molte esperienze a livello internazionale che si sono sviluppate negli ultimi 5-15 anni e che, nonostante le differenze, hanno permesso di tracciare un quadro operativo di riferimento. Alcune di queste sono strutturate come programmi di ricerca altre rappresentano i primi tentativi di applicazione nei servizi di assistenza della teoria degli interventi precoci. In Australia e Nuova Zelanda l‟interesse per gli interventi precoci nella schizofrenia è diffuso ed esistono numerosi gruppi di ricercatori che si occupano del problema e tentano di determinare dei cambiamenti nelle modalità di assistenza. Un esempio è il Centro per l‟Intervento Precoce e la Prevenzione della Psicosi (EPPIC, Early Psychosis Prevention and Intervention) di Melbourne costituito: da un Team per l‟ Accesso dei Giovani (YAT) che offre una valutazione mobile sul territorio 24h/24h, 7 giorni la settimana ed è il primo punto di contatto con il centro; da un centro per la crisi che offre un servizio di valutazione clinica (PACE, Personal Assesment Crisis Evaluation); da un ambulatorio dedicato; e da un reparto con 16 posti letto. Nel nord America programmi per gli interventi precoci sono stati sviluppati soprattutto in Canada, ad esempio in Ontario con il Programma di Intervento Precoce e Prevenzione per le Psicosi (PEPP, Prevention and Early Intervention in Psychosis Programme) che già dal 1997 prevede l‟integrazione tra trattamenti medici e psicosociali ed una stretta collaborazione tra le agenzie di collocamento presenti sul territorio, le istituzioni, le scuole e le associazioni generiche. Il programma operativo comprende un servizio per pazienti ambulatoriali e ha un‟unità di ricovero che può accettare fino a 16 pazienti ricoverati. La prima valutazione avviene entro 24-48 ore dalla segnalazione e se il paziente presenta sintomi psicotici viene intrapresa una valutazione ad ampio spettro entro una settimana. Anche in Europa le iniziative riguardanti gli interventi precoci sono molto diffuse in particolare nei paesi scandinavi e in Inghilterra ma anche in Olanda e in Germania. Uno dei più importanti è il servizio di intervento precoce (EIS, Early Intervention Service) di Birmingham, in Inghilterra. Il fulcro operativo di questo servizio è composto da un gruppo molto attivo nell‟individuazione dei casi che opera sette giorni alla settimana ed è formato da 10 case-managers (per lo più infermieri psichiatrici) con un carico di circa 15 casi ciascuno. Il protocollo di trattamento comprende: basse dosi di farmaci antipsicotici, psicoterapia cognitiva per le allucinazioni ed i deliri; psicoterapia cognitiva rivolta a ridurre la comorbidità; interventi psicosociali relativi ai problemi di tossicodipendenza, orientamento professionale. Esiste poi una unità residenziale che può accogliere fino ad un massimo di 8 persone che necessitano di un recupero più prolungato magari per l‟alto rischio di suicidio o per gravi problemi interpersonali. In Italia il primo progetto di applicazione della teoria degli interventi precoci è stato il PROGRAMMA 2000, un programma di individuazione e trattamento precoce degli esordi psicotici che, dopo un percorso di definizione concettuale e di progettazione organizzativa iniziato nel 1997 ha avviato l‟attività sul campo nel 1999, coinvolgendo parte di un Dipartimento di Salute Mentale della città di Milano, con un bacino di utenza complessivo di circa 200.000 abitanti (Cocchi et al., 2001; Cocchi e Meneghelli, 2002; Cocchi e Meneghelli, 2004; Meneghelli et al., 2010). Il suo scopo era mettere a punto, applicare e verificare una procedura operativa che, sin dal primo contatto tra utente e servizio, fosse in grado di dispiegare tutte le opportunità tecniche idonee a ritardare l‟insorgenza della patologia psicotica e a prevenirne le ricadute. In altre parole il progetto prevedeva di attuare una scelta operativa strategica IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 19 20 che, partendo da una presa in carico precoce ed articolata, potesse ridurre il rischio di cronicità e i relativi costi. Gli obiettivi dal punto di vista clinico erano: L‟individuazione quanto più precoce possibile dei quadri psicotici su cui intervenire tempestivamente, cercando di coinvolgere le famiglie e di motivare il malato; Aumentare la risposta al trattamento e renderlo valido anche sul lungo termine, migliorandone il rapporto costi/beneficio. Come gli altri Progetti internazionali, anche il PROGRAMMA 2000 aveva uno spazio per la valutazione, con strumenti di misura ed analisi dei risultati. Sulla base delle tendenze internazionali il PROGRAMMA 2000 ha deciso di privilegiare un modello organizzativo di tipo specialistico a scapito si un programma di tipo generalista. L‟équipe è il nucleo centrale, definito core, del progetto ed è composto da: professionisti scelti appositamente, per particolare motivazioni e competenze e psichiatri dei Servizi che dedicano parte della loro attività ai pazienti del Programma, presso le sedi del Programma. L‟équipe è in connessione con altri operatori ed altre strutture del Dipartimento e con altre Agenzie del territorio, pubbliche e private, coinvolte con i problemi del mondo giovanile. Il gruppo di lavoro risulta quindi trasversale all‟interno del Dipartimento, sia per composizione che per funzioni, salvaguardando la sua specificità tecnica ed operazionale e preservando la sua spinta motivazionale, ma essendo al tempo stesso una parte strettamente interconnessa con il tutto. Ne è derivata una scelta specialistica all‟interno di una cornice unificante di tipo generalista. Alcuni degli psichiatri, in linea di massima uno per presidio, che operano nelle varie strutture del Dipartimento individuati come “medici di riferimento”, sono coinvolti nel lavoro presentando i nuovi casi nelle riunioni settimanali, seguendoli per la parte di loro competenza e per le azioni concordate nella sede del PROGRAMMA 2000 e dedicandovi una parte del loro tempo lavoro, partecipando alle attività di assessment, di monitoraggio e di ricerca. Gli infermieri addetti al triage nei Centri di Salute Mentale assegnano agli psichiatri di riferimento i primi casi che presentano una problematica ad impronta o a rischio psicotico. Uno psichiatra, acquisito con un contratto ad hoc, segue sotto il profilo medico i pazienti provenienti dall‟esterno del bacino di utenza del Dipartimento. Se viene ricoverata una persona psicotica non già conosciuta, lo psichiatra di riferimento del reparto ospedaliero fa una tempestiva segnalazione alla segreteria del PROGRAMMA 2000, da dove viene inviato un operatore in ospedale per instaurare un rapporto con il nuovo paziente, permettendo l‟avvio dell‟assessment e la presentazione del caso nel corso della riunione settimanale di équipe fatta dallo psichiatra segnalante. Si mantiene così, come già detto, una stretta interconnessione all‟interno del Dipartimento. Le Linee Guida Prenderemo in considerazione le Linee Guida (LG) inglesi NICE (National Institute for Clinical Excellence) pubblicate nel 2002 e quelle italiane del Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG) pubblicate dal Ministero della Salute nel 2007. I punti fondamentali delle LG-NICE possono essere così riassunti: Invio urgente ai servizi specialistici dei nuovi casi di schizofrenia diagnosticati dal MMG. In caso di sospetto diagnostico il MMG deve contattare lo psichiatra consulente; Presenza di servizi d‟intervento precoce in grado di offrire la corretta proporzione di interventi specialistici farmacologici, psicologici,sociali,occupazionali ed educativi; Terapia farmacologica con farmaci antipsicotici di seconda generazione con dosaggio ai limiti inferiori del range terapeutico Utilità di un secondo parere sulla diagnosi; Valutazione dei bisogni completa riguardo aspetti medici, sociali, psicologici, lavorativi, economici, fisici e culturali; Disponibilità di terapia cognitivo-comportamentale; IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 21 22 Disponibilità di interventi di supporto della famiglia; Prosecuzione del trattamento farmacologico per 1-2 anni; Monitoraggio di almeno 2 anni dopo la sospensione del farmaco. Le LG del SNLG-Ministero della Salute, contrariamente alle NICE, non sono parte di LG di carattere generale sulla schizofrenia ma sono specificamente dedicate agli interventi precoci. Sono suddivise tra soggetti a rischio o in fase prodromica e soggetti al primo episodio psicotico. Essendo state pubblicate cinque anni dopo, risultano più aggiornate e non devono essere adattate alla realtà italiana. Le raccomandazioni possono essere così riassunte: Programmi strutturati di identificazione e trattamento precoci di soggetti al primo episodio di schizofrenia; Impiego delle scale di valutazione, sufficientemente accurate nel formulare una diagnosi di schizofrenia; Uso di tecniche di imaging a supporto della diagnosi; Terapia farmacologica nel periodo che segue l‟esordio con farmaci antipsicotici. L‟alternativa tra farmaci di prima o seconda generazione deve essere valutata caso per caso; Trattamenti di tipo psicoeducativo famigliare indirizzati a singoli nuclei; Training di competenza sociale nel periodo che segue il primo episodio; Terapia cognitivo comportamentale in sinergia con altre strategie terapeutiche; Regime di Trattamento assertivo di comunità (ACT) e caratteristiche di multidisciplinarità, domiciliazione e flessibilità. L’esperienza del CSM di Genova Voltri A partire dalla fine degli anni ‟90 la letteratura sul tema degli interventi precoci è stata oggetto della nostra attenzione. Nel 2003 i colleghi del Programma 2000 ci chiesero di partecipare ad una ricerca di valutazione degli esiti in qualità di gruppo di controllo. Questa circostanza ci consentì di verificare l‟inadeguatezza della nostra organizzazione per la presa in carico dei giovani psicotici al primo contatto. La maggior parte dei casi reclutabili perdeva precocemente il contatto con il servizio rendendo impossibile la somministrazione degli strumenti di valutazione. Inoltre gli invii dal SPDC presentavano difficoltà di vario genere, nonostante l‟ottima collaborazione e la presenza di un protocollo ad hoc. Peraltro i report del nostro Sistema Informativo segnalavano che i pazienti giovani ricevevano mediamente meno prestazioni di quelli di età più avanzata confermando il paradosso di un sistema che utilizzava quasi tutte le sue risorse per pazienti in fase avanzata di malattia. Da quel momento l‟intervento precoce su tutte la patologie divenne una priorità assoluta del servizio. Nell‟ambito di un programma generale di spostamento di risorse verso le fasce giovanili si decise di individuare un gruppo dedicato alla presa in carico dei nuovi pazienti di età inferiore ai 30 anni che presentassero sintomi psicotici o grave rischio di svilupparli. Venne quindi superata la logica della presa in carico indifferenziata a rotazione, come già si era fatto in precedenza per la psicogeriatria. Il gruppo dedicato, formato da uno psichiatra, uno psicologo, una assistente sociale e due infermieri faceva un assessment dei casi utilizzando gli stessi strumenti del PROGRAMMA 2000. L‟invio rimaneva di competenza del medico dedicato alle visite di valutazione per tutto il servizio. Un secondo psichiatra venne individuato per il lavoro di sostegno alle famiglie. Venne elaborato un protocollo di trattamento che tenesse conto, da un lato, delle evidenze di letteratura e delle esperienze cliniche e, dall‟altro, delle nostre specificità e risorse. Poiché nel frattempo il servizio aveva implementato un progetto di collaborazione stabile e continuativa con i MMG, il loro ruolo negli interventi precoci fu oggetto di diverse iniziative. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 23 24 Gli obiettivi prioritari della presa in carico erano il mantenimento del contatto con il paziente o, ove non possibile, almeno con la sua famiglia e la preservazione del ruolo sociale. Lo stile di lavoro faceva riferimento ad una relazione amicale ed informale in un contesto che tenesse conto dei seguenti punti: massima flessibilità sui tempi e luoghi della cura grande attenzione al timore della stigmatizzazione priorità nei tempi di attesa presa in carico durante il ricovero in SPDC accettazione di eventuali terapeuti esterni al servizio se graditi al paziente sostegno precoce alla famiglia particolare attenzione agli effetti collaterali dei farmaci particolare considerazione delle disabilità precoci. A diciotto mesi dalla sua implementazione, nel novembre del 2006, il programma venne sottoposto ad una prima verifica da cui emersero alcuni punti di forza: diminuzione dei drop-out diminuzione delle giornate di degenza in SPDC incremento delle prestazioni valutazione routinaria degli esiti ma anche diverse criticità miglioramento clinico e sociale insoddisfacente mancanza di procedure per l‟informazione a pazienti e famiglie lavoro di supporto alle famiglie poco formalizzato mancanza di figure professionali in grado di assumere compiti tutoriali (educatori e terapisti della riabilitazione). Nel 2007 e nel 2008 si fecero due revisioni del protocollo terapeutico allo scopo di migliorare le criticità. Tra le modifiche apportate vi fu l‟uscita dal gruppo dedicato degli infermieri che comportava difficoltà organizzative superiori ai vantaggi nel trattamento. Tuttavia il capo sala assunse l‟impegno di mettere tempestivamente a disposizione del programma l‟infermiere più adatto per i singoli progetti terapeutici. L‟ingresso nel gruppo di una psicologa in tirocinio di specializzazione consentì di ridefinire meglio l‟offerta per il supporto alle famiglie su tre livelli: intervento psicoeducativo di base per tutte le famiglie sostegno individuale protratto alle coppie più problematiche intervento di gruppo successivo. Il gruppo delle attività sportive del servizio, che fino a quel momento aveva lavorato prevalentemente con pazienti cronici, diventò un importante interlocutore del programma, assumendosi l‟onere di mantenere il contatto con alcuni giovani maschi che non accettavano altro tipo di intervento. Con il passare del tempo abbiamo potuto osservare un progressivo abbassamento dell‟età media dei partecipanti alle attività sportive. Sul versante dei rapporti con i servizi socio-sanitari per i minori il gruppo dedicato ha consentito maggiore fluidità e continuità dei contatti, valutazione pregressa dei casi in trattamento prima del “passaggio” al diciottesimo anno, utilizzo di educatori per il sostegno scolastico, presa in carico congiunta degli adolescenti in comunità che comportassero difficoltà di gestione. Nel 2009 il servizio si è assunto l‟onere del comitato locale nell‟organizzazione del 2° Congresso Nazionale dell‟ Associazione Italiana per gli Interventi Precoci nelle Psicosi (AIPP). La preparazione di diversi contributi è stata l‟occasione per una migliore focalizzazione di alcune questioni: i rapporti tra attività generalista del servizio e gruppo dedicato ai giovani psicotici il ruolo del PLS e del MMG nella individuazione degli stati mentali a rischio e degli esordi le differenze nei bisogni di supporto delle famiglie lo studio del drop-out sui giovani di tutte le patologie trattati dal servizio. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 25 Nel 2010 il gruppo di lavoro che gestisce il Sistema Informativo del DSM di Genova ha prodotto un report sui giovani psicotici al primo contatto da cui si evince che l‟istituzione del gruppo dedicato migliora l‟aderenza dei trattamenti erogati alle raccomandazioni delle Linee Guida sui seguenti punti: uso sistematico delle scale di valutazione utilizzo di trattamenti psicoterapici cognitivo-comportamentali utilizzo di interventi psicoeducativi per le famiglie. 26 Conclusioni Le informazioni che abbiamo a disposizione sul tema degli interventi precoci nelle psicosi dimostrano che è possibile migliorare l‟esito delle patologie psichiatriche più gravi e invalidanti. In molti paesi sono stati implementati programmi nazionali, regionali e locali che hanno prodotto molte ricerche pubblicate su riviste internazionali. In Italia il PROGRAMMA 2000 ha fatto da traino e stimolo a diverse esperienze locali e l‟AIPP con le sue iniziative scientifiche ha disseminato nel paese la cultura degli interventi precoci. Le Linee Guida Nazionali rappresentano un riferimento imprescindibile per chi esercita responsabilità nella organizzazione di servizi psichiatrici di comunità. Possiamo dire di avere sufficienti informazioni su quello che dobbiamo fare. Ignorare queste informazioni non sarebbe etico. L‟esperienza del nostro CSM dimostra che è possibile produrre graduali cambiamenti che, anche in un contesto generalista, mettano a disposizione dei giovani pazienti gravi un percorso di cura specifico aderente alle indicazioni della letteratura e alle raccomandazioni delle Linee Guida. RIASSUNTO Negli ultimi anni molti studi hanno posto sempre più l‟accento sull‟ampia variabilità degli esiti a breve e a lungo termine della schizofrenia e hanno mostrato come questi siano correlati con la durata della psicosi non trattata (DUP: duration of untreated psychosis) e con l‟evoluzione durante i due anni successivi al primo episodio psicotico, il cosiddetto “Periodo Critico”. Il “Periodo Critico” sarebbe l‟intervallo di massima plasticità e modificabilità del quadro psicopatologico, al termine del quale si raggiungerebbe un “plateau”, sul piano sintomatologico e delle disabilità, difficilmente reversibile. Interventi terapeutici intensivi in questa fase sono quindi indicati per evitare precoci cronicizzazioni. L‟obiettivo del presente lavoro è quello di descrivere le principali esperienze internazionali e nazionali di intervento sulle psicosi d‟esordio mettendo a confronto aspetti concettuali, modelli organizzativi e le principali linee guida specifiche (NICE 2002, Ministero della Salute 2007). Inoltre vengono illustrati i principali ostacoli all‟implementazione di servizi specifici e descritta l‟esperienza maturata in questi anni nel CSM di Genova Voltri dove, all‟interno di un servizio “generalista”, si è strutturata una equipe dedicata al trattamento delle psicosi d‟esordio. PAROLE CHIAVE: psicosi, intervento precoce, linee guida IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 27 ABSTRACT In recent years many studies have placed increasing emphasis on the wide variability of short and long-term outcome of schizophrenia and showed how these are correlated with the duration of untreated psychosis (DUP) and the evolution during the two years following the first psychotic episode, the so-called "critical period". The “critical period” is thought to be the time of maximum plasticity and modifiability of psychopathological picture, after which a "plateau" in terms of symptoms and disability, difficult to reverse, would be reached. Intensive intervention in this phase are then recommended to avoid early chronic evolution. The aim of this paper is to review the main international and national experiences of intervention in early psychosis by comparing the conceptual and organizational models, and the main specific guidelines (NICE 2002, Ministry of Health 2007). Moreover the most frequent barriers to the implementation of specific services of early interventions and the experience of a service for early psychosis, within a "generalist" service, at the Mental Health Center of Genoa Voltri are described. 28 KEY-WORDS: psychosis, early intervention, guidelines BIBLIOGRAFIA Birchwood M., McGorry P. D. e Jackson H. (1997): Early intervention in schizophrenia. British Journal of Psychiatry. 170: 25. Birchwood M., Fowler D., Jackson C. (2000): Early Intervention in Psychosis. A Guide to Concepts, Evidence and Intervention. Chichester, John Wiley e Sons. Birchwood M., Fowler D., Jackson C. (2002) Early Intervention in Psychosis. A Guide to Concepts, Evidence and Intervention. Chichester, John Wiley e Sons. Carpenter W., Strauss J. (1991): The prediction of outcome in schizophrenia. V: Eleven year follow-up of the IPSS cohort. Journal of Nervous and Mental Disease, 179: 517-525. Cocchi A., Meneghelli A. (2001) Programma 2000. 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Darmstadt: Steinfopff Verlag. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 29 30 Johnstone E.C., Crow T.J., Johnson A.L., Macmillan J.F. (1986): The Northwick Park study of first episodes of schizophrenia:1. Presentation of the illness and problems relating to admission. Br J Psychiatry 148:115-120. Kraepelin E. (1893): “Dementia praecox”. In The Clinical Roots of the Schizophrenia Concepts. Cutting J and Shepherd M. (eds), Cambridge: Cambridge University Press, 1987. Larsen T.K, Johannessen J.O, Mc.Glashan T., Horneland M., Mardal S., Vaglum P. (2000): “Can duration of untreated illness be reduced?” In Early Intervention in Psychosis. A Guide to Concepts, Evidence and Intervention, eds. M. Bircwood, D.Fowler e C. Jackson, Chichester, John Wiley e Sons. Larsen T. K., Friis S., Haahr U., Joa I., Johannessen J.O., Melle I., Opjordsmoen S., Simonsen e Vaglum P. (2001) Early detection and intervention in first-episode schizophrenia: a critical review. 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Ministero della Salute. http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_714_allegato. pdf IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 31 Appunti di viaggio 33 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 Sabino Nanni4 Alexitimia e disturbi da “addiction”. Aspetti psicodinamici e considerazioni generali I – Definizione Esiste, in letteratura, tutta una serie di formulazioni da intendersi, a mio avviso, come descrizioni di aspetti particolari, o di particolari fasi evolutive, o di varianti cliniche di un‟unica situazione psicopatologica. Tra quelle che conosco, elenco: 1. Psicofobia (Giberti – Rossi) 2. False self (Winnicott) 3. “As if” personalities (Deutsch) 4. “Pensée opératoire” e “Depression essentielle” (Marty e Coll) 5. “Dull normal” personalities (Eissler) 6. Alexithymia (Sifneos e Coll. - Taylor e Coll.) 7. Addiction to normality (Kohut) 8. Normopathy (McDougall). Situazioni, queste, tutte caratterizzate da difficoltà o impossibilità ad entrare in contatto con le proprie, autentiche emozioni e da “addiction” nei confronti di oggetti o situazioni diverse. Fra tutte le suddette denominazioni, ho preferito privilegiare quella di alexitimia (“alessitimia” secondo alcuni) sia perché la descrizione di Sifneos [12] corrisponde ad un “comune denominatore” presente in tutte le altre situazioni cliniche sopra menzionate, sia per facilità di comunicazione: “alexitimia” è l‟unico termine, fra quelli elencati, presente nello 4 Psichiatra, Psicoterapeuta, già Primario Ospedaliero ASL 22 Piemonte IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 35 “American Psychiatric Glossary” [1] ed entrato nel linguaggio psichiatrico corrente. Per alexitimia s‟intende l‟incapacità di assegnare un nome alle diverse emozioni, di differenziarle l‟una dall‟altra, di distinguerle dalle sensazioni somatiche. È in generale caratterizzata da una coartazione della vita affettiva e da povertà della fantasia. Si tratta di un argomento immenso, per il quale esiste un‟ampia letteratura [2, 3, 4, 7, 8, 9, 10, 12, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22]. In questa relazione mi limiterò a parlare dei casi in cui l‟alexitimia si coniuga con “addiction to normality” [6]; questa condizione, in molti casi, si riscontra nelle fasi iniziali dell‟evoluzione della patologia di cui stiamo parlando. II – Condizioni di “grave normalità” 36 Al di là delle apparenze, gli alexitimici di questo gruppo sono pazienti gravi, spesso candidati ad una morte precoce. Essi presentano una particolare combinazione di fattori che rende, di regola, difficilmente curabile o incurabile ciò che sta alla radice del loro male. Prima che si manifestino le più gravi complicazioni, si presentano come persone che il senso comune giudica mentalmente “normali”. In effetti, nelle manifestazioni esteriori del pensiero e dell‟affettività, nelle relazioni interpersonali e nelle capacità di adattamento alle usuali situazioni, presentano una parvenza di perfetta “normalità”; eppure, non può che essere una sofferenza di carattere psichico a renderli soggetti a quell‟insieme di comportamenti che pone costoro in condizione di grave rischio riguardo alla salute corporea: dipendenza da nicotina, abusi alcolici, disordini alimentari, uso improprio di farmaci, ricerca attiva di situazioni stressanti (eccessi, a carattere compulsivo, di lavoro e/o di attività fisica o sessuale); comportamenti di regola accompagnati ed aggravati da una particolare facilità con cui si producono, in loro, scompensi somatici in rapporto a stressor emozionali. Ciò che maggiormente ostacola, in queste persone, il trattamento di una sofferenza mentale così grave nei suoi effetti, sono la repulsione e l‟evitamento a carattere fobico di tutto ciò che implica, ai loro occhi, un allontanamento dalla condizione di “normalità” psichica: innanzi tutto l‟avere a che fare con uno psichiatra. La presenza dei comportamenti abituali patogeni visti sopra (tutti con il carattere della “addiction”), la parvenza di “normalità” psichica ed il terrore di doversi riconoscere “anormale” appaiono legati tra loro da un nesso logico. È quanto sembrano suggerire alcuni casi, tra cui quello che sto per descrivere. III – Il caso di Daniela All‟inizio di un trattamento reso disagevole dalla distanza della sua città, e tuttavia protrattosi nei successivi dieci anni, Daniela comunicò una strana impressione: le sembrava che il trovarsi nel mio studio in veste di paziente psichiatrica (si tratta di una Collega) fosse per lei penoso più dei disturbi che ce l‟avevano portata. E questo nonostante il carattere particolarmente spiacevole del suo malessere: gli ultimi due anni, infatti, avevano trasformato una ragazza sino allora forte, sicura di sé e soprattutto “normale” (l‟aggettivo più ricorrente nelle descrizioni di se stessa) in una persona “fuori di sé”, incapace di vivere senza consumare quantità “inaudite” di sigarette e di cibo (soprattutto dolci) o senza impegnarsi in uno “jogging” frenetico, estenuante; e senza poter fare a meno di veder erompere, a tratti, la sua tensione in attacchi di panico per lei sconvolgenti. La vita precedente di Daniela si era caratterizzata soprattutto per stabilità, anche riguardo al luogo di residenza: prima di trasferirsi in questa parte d‟Italia, non si era mai allontanata dalla “terra natia” se non per turismo e per brevi periodi. Vivendo in una città universitaria, infatti, aveva potuto portare a compimento i suoi studi (laureandosi in Medicina e specializzandosi) senza separarsi dalla famiglia d‟origine. Le sofferenze della paziente erano iniziate due anni prima d‟incontrarmi, subito dopo aver trovato lavoro ed essere venuta ad abitare da queste parti. Eppure a Daniela non sembrava di avere un particolare rapporto di dipendenza dai familiari: la sorella maggiore, infatti, viveva fuori casa già da tempo e alla paziente non pareva di averne sentito la mancanza; quanto ai genitori, erano sempre stati entrambi fortemente impegnati IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 37 38 nella loro attività di Medici Ospedalieri e Daniela, affidata fin dalla prima infanzia a persone di servizio e ad un‟anziana parente (una prozia), aveva ben presto imparato ad essere “autonoma” (altro aggettivo spesso usato dalla malata nella descrizione di ciò che lei era nel passato). Ricordi penosi di solitudine e tormentosa mancanza dei genitori emersero solo più avanti nell‟analisi; all‟inizio Daniela poneva soprattutto in evidenza la sicurezza di sé e (appunto) la “autonomia” precocemente acquisite: adattatasi prontamente all‟ambiente scolare, la paziente si era rifiutata fin dall‟inizio di farsi accompagnare a scuola dagli adulti. Studiava, con eccellenti risultati, senza l‟aiuto di nessuno; ricorda, in particolare, i pomeriggi passati a fare i compiti nell‟ambulatorio, adiacente alla loro abitazione, dove i genitori lavoravano, dandosi il cambio l‟un con l‟altro, dopo aver terminato le loro ore in ospedale: la madre o il padre erano a pochi passi di distanza, ma Daniela non poteva rivolgere loro la parola e neppure vederli e così aveva imparato molto presto a non chiedere aiuto a nessuno nei suoi studi. Le persone che si trovavano in sala d‟attesa la vedevano e tutti le facevano i complimenti per quanto diligente e giudiziosa si dimostrava passando così tante ore, pur così piccola, a scrivere ed a leggere senza mai muoversi né fare chiasso. Nella narrazione della paziente, non vi era stata soluzione di continuità nel passaggio dall‟infanzia all‟adolescenza e da questa all‟età giovanile; colpiscono soprattutto, nel suo resoconto, l‟assenza di trasgressività e di conflitti coi genitori, oltre che la superficialità dei rapporti sentimentali (Daniela mi aveva anche rivelato di non provare alcun piacere nel fare l‟amore col fidanzato di allora, né con quelli che l‟avevano preceduto). La sua vita era quasi interamente dedicata allo studio, già in preparazione di quella che si preannunciava come la sua unica grande passione: la Medicina. Un‟esistenza, dunque, vissuta all‟insegna della morigeratezza e della “normalità”; unici vizi: il consumo di una quantità allora modesta di sigarette e la tendenza, di tanto in tanto, ad esagerare col cibo, cosa che compensava con ragionevoli diete e con attività sportive. Daniela, nei primi tempi del trattamento, parlava volentieri, e con sentimenti di viva nostalgia, del suo passato; ma appena pensò di aver esaurito la descrizione del suo modo d‟essere precedente la malattia e passò a parlare di questa, si fecero evidenti grosse difficoltà di comunicazione. Innanzi tutto, non poteva fare a meno di usare termini tecnici, cosa che le impediva di entrare in contatto, in seduta, con l‟esperienza vissuta e soprattutto con le proprie emozioni. Invitata, poi, ad associare liberamente in rapporto ai sogni o ai sintomi, esprimeva, ogni volta, perplessità riguardo alle sensazioni ed ai pensieri “assurdi” che attraversavano la sua coscienza; non riusciva ad avere pazienza nel lavoro che le chiedevo, in collaborazione con me, necessario per scoprire il senso di quanto diceva. Se poi, nonostante tutte le difficoltà, si arrivava a qualche parziale, provvisoria ipotesi interpretativa, immediata ed immancabile era la sua domanda: “E allora, cosa devo fare?”. Quasi che lo scopo del lavoro analitico fosse la prescrizione, da parte mia, di comportamenti che avrebbero dovuto farla rientrare nella “normalità”. Spesso le sue associazioni d‟idee erano puramente cerebrali o riguardanti fatti concreti della vita quotidiana, senza alcun riferimento ai sentimenti che essi potevano averle suscitato; parlava svelta, senza pause, cercando d‟evitare di “perdere quel tempo per cui mi stava pagando”, come mi disse esplicitamente più di una volta, quasi che questo fosse il modo più vantaggioso d‟utilizzare i 45 minuti che mettevo a sua disposizione in cambio dell‟onorario. Divenne chiaro che Daniela immaginava che la durata della sua malattia avrebbe coinciso perfettamente con quella della cura e che, simultaneamente alla fine di questa, si sarebbe verificata, come “di colpo”, la sua guarigione. La sua fretta di rientrare nella “normalità” e nella “autonomia” era grande ed a nulla servivano i miei tentativi di spiegarle che, in quel modo, il tempo l‟avrebbe perso e non risparmiato. Un altro modo di (non) chiedere aiuto, compariva nelle crisi di agitazione che presto presero il posto degli attacchi di panico. In queste circostanze, il cui fattore scatenante era di regola una mortificazione o una mancanza di riguardo subite, l‟emotività di Daniela, di solito IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 39 40 repressa o ignorata, diveniva esplosiva e, per fronteggiarla, mi chiedeva, di solito, una o più sedute supplementari. Chiamava questi miei interventi straordinari “sfoghi” che le concedevo, e ne aveva ben donde: commenti o riflessioni su quanto aveva detto (insomma, un mio intendere le parole da lei pronunciate come forma di comunicazione) venivano sistematicamente respinti, soprattutto se tentavo di riprendere con più calma ed a distanza di tempo l‟argomento. Quanto faceva o diceva in quelle circostanze aveva, quindi, la pura funzione di “evacuare” i sentimenti spiacevoli; il suo pianto, ad esempio, pareva sempre esprimere rabbia in cerca di “sfogo”, anziché dispiacere in cerca di consolazione. A dispetto di tutte queste difficoltà, il trattamento di Daniela produsse presto miglioramenti sorprendenti: gli attacchi di panico scomparvero del tutto in poche settimane (anche in rapporto al SSRI che avevo integrato nella cura), dopo qualche mese le “addiction” e le attività “autocalmanti” [19] iniziarono a presentarsi meno virulente; infine, fatto particolarmente clamoroso, nel corso di un flirt durante le vacanze, Daniela ebbe il primo rapporto sessuale soddisfacente della sua vita. Eppure, di fronte a questi progressi, la paziente si comportava in modo paradossale: pur attribuendoli alla cura, non manifestava nei confronti del sottoscritto alcuna forma di riconoscenza; anzi, la sua fretta di rientrare nella “normalità” e, quindi liberarsi del terapeuta, non ne risultò minimamente diminuita: Daniela non perdeva occasione per esprimere “quanto le pesasse” venire da me e che il trattamento fosse così lungo. Due interpretazioni, le prime che Daniela dimostrò chiaramente d‟aver capito, diedero una svolta decisiva alla sua analisi. La prima riguardava il comportamento paradossale descritto poc‟anzi. Le dissi che con me riproduceva la stessa situazione coi genitori quando faceva i suoi compiti nel loro ambulatorio: anch‟io, come loro, mi trovavo a pochi passi da lei ed anche con me non c‟era un vero incontro (delle sue emozioni con le mie, nel nostro caso), eppure la mia sola vicinanza materiale, come allora quella del padre o della madre, era sufficiente a darle la calma necessaria per poter organizzare e far progredire la sua vita; e questo in un modo pressoché autonomo, che quasi le dava la possibilità di dimenticare il mio apporto. Le aggiunsi che probabilmente il motivo per cui evitava un vero e proprio contatto con me, come allora coi genitori, era una sua grande paura d‟essere respinta e non capita; paura che, sentendo il pericolo d‟incomprensioni e di abbandono mai del tutto scongiurato, spiegava anche la sua fretta di ritornare completamente “autonoma” e liberarsi di me. Nella seduta seguente, Daniela ritornò su alcuni temi che aveva già toccato: innanzi tutto, il ricordo tormentoso di quando, molto piccola, veniva esiliata d‟estate dai genitori in una loro casa di montagna isolata, in compagnia soltanto della vecchia zia. Ricorda che il padre e la madre l‟accompagnavano in quel luogo in macchina e che spesso, approfittando di un suo momento di distrazione, se ne andavano furtivamente. In un‟occasione aveva sentito che avviavano il motore, era corsa da loro chiamandoli disperata, ma aveva fatto in tempo solo a vedere il retro della macchina che s‟allontanava, inesorabile. In quel periodo, c‟erano stati incendi nei boschi vicini e Daniela, assillata dalla paura che le fiamme arrivassero alla casa, temeva che, lei così piccola e la zia così debole e lenta, non sarebbero riuscite a fuggire e a salvarsi. In secondo luogo, Daniela ritornò sul fastidio delle proprie spontanee sensazioni (sia quelle che le chiedevo di descrivere nelle libere associazioni, sia quelle che emergevano nelle crisi d‟agitazione e che “evacuava” nei suoi sfoghi) e sulla “assurdità” della mia “pretesa” che lei si soffermasse o tornasse su tali “insensatezze”. Menzionò, infine, una crisi di “voracità” di dolciumi in cui era ricaduta. Le dissi che aveva qualche ragione di criticare la mia “pretesa” che si occupasse delle proprie sensazioni: in realtà, prima ancora delle sensazioni di per sé, aveva bisogno che affrontassimo insieme, anche con cure corporee, il “fastidio” che esse le ispiravano; non farlo avrebbe significato lasciarla da sola in una situazione incontrollabile, quasi come rimetterla di nuovo nella casa isolata di montagna ad affrontare da sola, senza aiuto, le fiamme “voraci” del proprio bisogno frustrato e della rabbia verso i IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 41 42 suoi genitori. Un silenzio insolitamente lungo mi parve sottolineare una vicinanza emotiva che si era chiaramente creata tra noi in quell‟occasione. Le interpretazioni appena esposte permisero di iniziare a ricostruire che cosa in Daniela aveva preparato la malattia e cosa aveva scatenato il suo esordio. Con il suo trasferimento fuori casa, per la prima volta nella sua vita Daniela era uscita da quella situazione familiare (riprodotta in parte nel rapporto transferale) che, nell‟atto stesso in cui offriva un sostegno alla sua vita soggettiva (dandole la calma ed il senso di apparente autonomia e di sicurezza che le occorrevano per occuparsi delle sue cose), le imponeva un comportamento, in realtà, non spontaneo, inautentico: la bambina quieta e giudiziosa che diligentemente faceva i suoi compiti senza mai disturbare i genitori o i pazienti dell‟ambulatorio. Daniela finì per convincersi di essere davvero quel tipo di bambina, ma i suoi bisogni di vicinanza emotiva (oltre che la rabbia per le frustrazioni subite) rimasero inespressi e inappagati. La sua appartenenza al gruppo familiare (il gruppo delle persone “normali”, “autonome”, che lavorano e non “disturbano”, com‟era negli ideali dei genitori) le offriva una potente rassicurazione dalla paura di essere un “nulla”, di non avere posto al mondo. Si trattava, tuttavia, di una relazione “adesiva”, vale a dire efficace solo per la presenza materiale dei familiari, ma priva di interazioni più vere e durevoli, ovverosia capaci di regolare le sue tensioni emotive in modo adeguato, senza reprimerle in modo massiccio e senza imporle una falsa natura; interazioni che avrebbe potuto gradualmente interiorizzare. Quella che Daniela riteneva fosse la sua perduta “autonomia” era in realtà, in ordine di tempo e d‟importanza, la prima “addiction” da cui sarebbero derivate tutte le altre: l‟appartenenza, a carattere “addictive”, al “gregge” dei “familiari-persone-autonome-normali”. Allontanatasi da casa, uscita dal gruppo originario (che ho definito “gregge” per sottolineare il carattere anonimo, poco definito sul piano umano, del modo con cui si presentavano coloro che vi appartenevano), di fronte al compito di padroneggiare le proprie emozioni la paziente si scoprì sprovvista delle risorse interiori che sarebbero potute derivarle da relazioni familiari più autentiche, oltre che incapace di nuove, valide relazioni di un genere che non aveva mai conosciuto. Il primo disagio della solitudine, incontrando l‟ottusità e la freddezza dei familiari (ormai lontani da lei da tutti i punti di vista), scatenò una “crisi d‟astinenza”, dovuta alla brusca sottrazione di ciò che sinora l‟aveva protetta dall‟angoscia; Daniela, per fronteggiarla, non poté che spostare la sua “addiction” su altri oggetti e comportamenti: le circa cinquanta sigarette al giorno, le crisi di “voracità” (fino ad arrivare a veri e propri episodi di “binge eating”) il “jogging” compulsivo, ecc. Tuttavia, come s‟è detto, ciò non bastava a tamponare l‟angoscia ed essa, talora, si manifestava acutamente in quella forma primitiva ed imperfettamente mentalizzata che è l‟attacco di panico. Approfondendosi e sviluppandosi il rapporto di traslazione, emersero in Daniela l‟aggressività ed i bisogni narcisistici inappagati sino allora nascosti dalla maschera di “bambina quieta e giudiziosa” o soffocati dai vari tipi di “addiction”. Questa svolta fu preannunciata dall‟assegnazione a me, con gli “sfoghi”, di una funzione di “tampone” sulle emozioni esasperate di umiliazione e rabbia quali risposte alle ferite narcisistiche che le capitava di subire; funzione che, divenuta in parte un‟alternativa alle varie forme di “addiction”, contribuì a ridurne l‟intensità e la gravità. Più avanti i bisogni emotivi e la suscettibilità di Daniela si spostarono gradualmente e infine si polarizzarono sul sottoscritto: per periodi anche discretamente lunghi iniziò ad avanzare pretese a non finire (di spostamento d‟orario delle sedute, di sedute da lei saltate che a suo avviso non avrebbe dovuto pagare, di sedute straordinarie che avrei dovuto concederle immediatamente, appena richieste, ecc.) con nessuna considerazione per la mia reale possibilità di soddisfarle (e neppure per le mie più ovvie esigenze personali) ed assoluta intolleranza per la benché minima frustrazione. Quando la situazione cominciava a divenire intollerabile, anche per l‟irritazione di cui non le facevo mistero, quasi sempre, nella seduta successiva, interveniva in Daniela un disturbo fisico (più spesso un‟emicrania IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 43 44 molto dolorosa) a ripristinare tra noi un rapporto terapeutico: in queste circostanze le manifestazioni di sofferenza e l‟umile richiesta d‟aiuto prendevano il posto delle pretese arroganti e della rabbia delle sedute precedenti e la tensione si allentava per qualche tempo. Dopo numerosi “cicli” di questo tipo, e con non poca fatica da parte di entrambi, riuscimmo gradualmente ad isolare, nel mare delle pretese di Daniela, alcuni bisogni narcisistici più sani, a carattere maturativo: si trattava di una richiesta di confronto con il tipo di lavoro del sottoscritto e/o di “mirroring” (accettazione partecipe, conferma narcisistica) riguardo alle attitudini ed alle ambizioni connesse alla sua attività medica. In alcuni casi, ci rendemmo conto che le richieste intransigenti ed irragionevoli di Daniela rappresentavano, per lei, una sorta di reclamo di risarcimento per il mancato, pronto soddisfacimento dei bisogni più sani, analogamente a quanto accade in certi “capricci” dei bambini. Quegli stessi capricci, per inciso, che non aveva mai potuto permettersi quand‟era piccola. Si era stabilita una traslazione narcisistica in cui in virtù di quella stessa idealizzazione che mi aveva reso, agli occhi di Daniela, personaggio oltremodo autorevole e “potente” – capace, quindi, di soddisfare del tutto il suo sano bisogno di crescere – per lo stesso motivo divenivo “colpevole” di un‟insoddisfazione che, a suo modo di vedere, “se solo avessi voluto” avrei potuto risparmiarle. Solo portando a livelli e a contenuti più realistici l‟idealizzazione del sottoscritto (attraverso una serie di graduali “disillusionment” o “frustrazioni ottimali”), i “capricci” si ridimensionarono (senza mai scomparire del tutto) e gli aspetti più sani e terapeuticamente utilizzabili della traslazione narcisistica comparvero con maggiore continuità. Gli atteggiamenti più positivi si presentavano spesso subito dopo che il rapporto terapeutico era stato ripristinato tramite le cure corporee che le somministravo periodicamente: interventi psicofarmacologici, ma anche prescrizioni di esami, richieste di consulenze, ecc. Su molte di queste cose, per inciso, Daniela ne sapeva più di me, tuttavia il mio avvallo le era sempre indispensabile. Partendo dal proprio corpo, spesso la paziente passava a parlare di quello dei suoi pazienti e degli interventi da lei attuati che amava illustrarmi anche nei minimi dettagli tecnici. Che non si trattasse più di un arido resoconto, come avveniva nelle fasi precedenti dell‟analisi, era attestato da una maggior vivacità del tono della voce, della gestualità, della mimica, oltre che da un ritmo del discorso adeguato al contenuto: tutti aspetti del suo modo di esprimersi che testimoniavano una viva partecipazione emotiva. Divenne chiaro che, nei sentimenti di stima che era evidentemente capace d‟ispirarmi, Daniela cercava una conferma affettiva del valore del suo lavoro con cui rafforzare la propria autostima. Inoltre, da un confronto tra il suo ed il mio lavoro, volto a comprendere le caratteristiche che accomunano le due diverse attività terapeutiche, Daniela traeva un rafforzamento della sicurezza nelle proprie attitudini. Soltanto poche, sintetiche osservazioni furono sufficienti a stabilire un nesso tra il lavoro clinico di cui mi stava parlando ed i vissuti antichi connessi con le cure materne. Si trattava delle esperienze affettive più intense ed autentiche che la paziente avesse mai conosciuto. Nel corso di quasi tutto il trattamento, dopo aver superato un‟apparente indifferenza affettiva verso l‟altro sesso, Daniela attraversò molti, brevi rapporti sentimentali, quasi sempre burrascosi e spesso causa, in lei, di quelle agitazioni emotive che solo gli “sfoghi” con me riuscivano a calmare. Negli ultimi anni, parallelamente al concentrarsi nel rapporto transferale degli aspetti più difficili della sua vita affettiva e, verso la fine, al parziale soddisfacimento dei suoi bisogni narcisistici più sani, i rapporti sentimentali divennero un po‟ più calmi e si arricchirono di una componente di piacere, anche attraverso l‟integrazione della sessualità. Attraverso il lavoro analitico, l‟investimento affettivo nell‟attività medica, la parte più importante della sua vita, s‟intensificò; ciò la rese più serena, più disponibile alla pazienza anche con conoscenti e fidanzato (con i malati ne aveva sempre avuta). Nell‟ultimo anno, una durata relativamente lunga per lei, Daniela s‟impegnò in un rapporto affettuoso e stabile con un Medico del suo luogo d‟origine; rapporto culminato, poco prima del termine dell‟analisi, in un progetto di matrimonio. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 45 IV – Uno sguardo ai casi più gravi 46 1 - Addiction to “normality” – Che l‟appartenenza ad un ambito di persone “normali” possa essere oggetto di una addiction era stato compreso da Kohut, benché in un contesto del tutto particolare (quello dell‟istituzione psicoanalitica): “Il termine „addiction‟ … indica la presenza della paura di ritornare alle antiche insicurezze e squilibri se l‟attività di protezione [della „normalità‟] viene abbandonata, o anche solamente allentata. E indica anche che alcune attività che sembrano chiare manifestazioni di salute – realistiche, adattative e socialmente utili – possono essere svolte in modo troppo zelante e mancare di quel misto di tolleranza e saggezza che [altrove] ho definito una delle più significative trasformazioni del narcisismo” [6, pag. 208 e seg.]. L‟esistenza, tra molti “normali”, di una rigida maniera di vivere a carattere “addictive”, possibile matrice di numerose e gravi patologie, suggerisce l‟utilità di distinguere, dal concetto di “normalità”, quello di “salute” mentale. Quest‟ultimo, nel pensiero di Kohut e di Winnicott, privilegia una considerazione dell‟integrità strutturale globale dell‟individuo piuttosto che quella delle singole attitudini. Questa concezione esclude, quali caratteristiche essenziali della salute, la capacità d‟adattamento o l'assenza di sintomi psichiatrici; vale a dire le qualità che principalmente caratterizzano la condizione di “normalità” mentale qual è generalmente intesa. Si tratta di due concezioni nettamente contrastanti: per la prima, caratteristica essenziale della salute è la capacità dell‟individuo di mantenersi fedele al nucleo più autentico della propria vita soggettiva, anche a costo di qualche difficoltà d‟adattamento e di qualche manifestazione di sofferenza; per la seconda le qualità fondamentali dell‟essere normale sono l‟assenza di sintomi e la capacità d‟adattamento, anche a discapito della possibilità di tener ferma la propria vera natura e di realizzarla. L‟esistenza, in pazienti quali era stata Daniela per un certo periodo, di una “normalità” come condizione obbligatoria per sentire di esistere, rende comprensibile il loro terrore dell‟anormalità psichica. Inoltre, la stessa qualità “addictive” del loro modo d‟essere “normale”, implicando un adattamento alla realtà affettivamente rigido e imperfetto, spiega come, per sedare le tensioni emotive che ne derivano, queste persone debbano frequentemente ripiegare su addiction supplementari. Il carattere spesso fisicamente dannoso di queste ultime, unitamente alla fragilità somatica dovuta ad una reazione di stress “sbilanciata”, chiarisce come il malessere di costoro tenda a spostarsi e ad esprimersi nella sfera corporea. Quello di Daniela, tuttavia, non fa parte dei casi incurabili con mezzi psichiatrici. Infatti l‟alexitimia “psicofoba”, che pure le appartiene, non è in lei così tenace da impedirle d‟esprimere la sua sofferenza anche con attacchi di panico. Vale a dire con una sintomatologia al confine tra il somatico ed il mentale che, dopo due anni di peregrinazioni da cardiologi e neurologi, la convince infine ad approdare nel mio studio. Fino a che punto le sue vicende possono farci capire qualcosa dei pazienti più gravi? Di quelli, cioè, in cui la “psicofobia” e la schiavitù verso la “normalità” sono talmente tenaci da spingersi fino alle estreme, tragiche conseguenze; e questo senza che uno psichiatra, o talora un qualsiasi curante, sia da loro mai consultato? Come sempre, è con i suggerimenti che ci offre un grande Artista che possiamo cercare una risposta a quesiti di questo genere. 2 - “La morte di Ivan Ilijc” – “La morte di Ivan Ilijc” di Tolstoj [23] rappresenta la migliore illustrazione letteraria che io conosca dell‟argomento che stiamo trattando. Si presenta, all‟inizio, come la storia di un uomo esemplare nella sua “normalità”, soprattutto riguardo alle capacità d‟adattamento all‟ambiente borghese cui appartiene: incline ad assecondare le persone altolocate, a vivere secondo i loro principi, al rispetto scrupoloso delle formalità che il suo lavoro di magistrato richiede, Ivan Ilijc, com‟è ovvio, percorre facilmente le tappe di una rapida carriera. Il suo modo conformista d‟intendere l‟esistenza, il concetto di decoro, tutt‟uno con quello delle persone che contano, ispirano anche la scelta della donna che Ivan decide di sposare e lo stile di vita che egli introduce nella famiglia. Trovando troppo complicati i problemi emotivi posti dalla moglie in situazioni delicate come la gravidanza e il puerperio, Ivan, imponendo ai familiari un rigoroso rispetto delle forme esteriori, ne irrigidisce i IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 47 48 rapporti e, nello stesso tempo si allontana da casa rifugiandosi nel lavoro. Ma anche la sua occupazione finisce per creargli grosse difficoltà: ritenendo d‟essere stato ingiustamente escluso da una promozione cui ambiva, Ivan, forse per la prima volta nella sua vita, viene a lite con un superiore. Ne segue una situazione di generale freddezza nei suoi confronti e persino il padre non si ritiene in obbligo d‟aiutarlo. Quest‟episodio, sebbene Ivan riesca in seguito a recuperare il terreno perduto riguardo alla carriera, crea una frattura nella continuità della sua esistenza. Poco tempo dopo si manifestano i primi segni della malattia che lo condurrà alla morte. Man mano che se ne avvicina la fine, Ivan si rende conto di tutta la falsità e l‟insensatezza della sua esistenza, come se scoprisse, nella morte, l‟unica realtà per lui autentica. Si accorge soprattutto dell‟inconsistenza dei suoi rapporti: è evidente che i familiari conoscono la gravità del suo male ed intuiscono che lui stesso lo ha capito, ma, ignorando le sue sofferenze morali, fanno finta di nulla; come se un evento tragico e solenne, come la morte, potesse esser ridotto ad un fatto sconveniente qualsiasi, che bisogna tacere. Nell‟atteggiamento dei parenti, Ivan vede riflessi la menzogna, l‟inganno, il vuoto rispetto delle forme esteriori, che avevano caratterizzato il suo stesso stile di vita. Ora scopre in se stesso un autentico bisogno di “carezze e lacrime” da parte d‟una persona che lo ami, ma non ha il coraggio di confidarlo, né di opporsi alle ciniche menzogne dei familiari, per paura di restare completamente isolato. Tuttavia la solitudine, alla fine, non può essere negata: Ivan, che aveva dedicato gran parte della sua vita allo scopo di guadagnarsi l‟approvazione altrui, si accorge che ora, come “premio”, si trova “…solo, sull‟orlo del baratro, senza una creatura umana che lo capisca e lo compatisca”. Soltanto poco prima della morte, Ivan riesce a trovare qualche frammento autentico di vita soggettiva e di rapporto con le persone a lui vicine. 3 – La situazione traumatica precoce – Le stesse parole con cui Tolstoj descrive il momento della rottura dell‟equilibrio narcisistico di Ivan Ilijc (quello della mancata promozione, della prima lite della sua vita con un superiore e della generale freddezza intorno a lui) potrebbero servire ad illustrare ciò che provò Daniela quando il suo modo d‟essere “normale” entrò in crisi: “…tutti lo dimenticarono e ciò che a lui pareva un‟enorme, crudele ingiustizia, per gli altri era una cosa assolutamente regolare. Anche suo padre non si credette in obbligo d‟aiutarlo. Egli sentiva che tutti lo abbandonavano…” [23, pag. 32]. Per la paziente il fattore scatenante non era stato una mancata promozione, ma un‟accoglienza non amichevole da parte dell‟ambiente di lavoro. Di fronte a questo disagio, concomitante con quello della nuova città, Daniela si sentì del tutto ignorata ed abbandonata dai familiari: le sue telefonate a casa, sempre più concitate, non sembravano incontrare il minimo segno d‟interesse. Non era la prima volta che le capitava: ho menzionato più sopra i ricordi dell‟esilio nella casa isolata di montagna ed il loro essere significativi della costante solitudine di Daniela bambina, dell‟impossibilità di poter contare sulla comprensione empatica dei genitori anche di fronte ai propri bisogni più intensi ed alle emozioni più violente. Questi ricordi, emersi solo gradualmente in analisi, si riferiscono ad una fase precoce della vita della paziente e riflettono un‟esperienza d‟abbandono resa particolarmente traumatizzante dallo sviluppo ancora imperfetto della capacità di simbolizzare e tradurre in parole [4, pag. 1093]: essa è rappresentata in termini piuttosto concreti (come abbandono materiale) e solo vagamente metaforici. Dobbiamo, inoltre, supporre che questa stessa rappresentazione sia frutto di una ricostruzione posteriore: all‟epoca del trauma è presumibile che Daniela abbia avvertito, quale riflesso dell‟abbandono, quella stessa tensione emotiva indifferenziata e violenta con cui era esordita la sua malattia recente; vale a dire quello sconvolgimento indefinibile della sua coscienza per scacciare il quale era ricorsa per due anni alle addiction sostitutive di quella alla “normalità”. In Ivan non c‟è neppure questo: ad avvertire il (rinnovato) malessere dell‟abbandono traumatico è il corpo, molto più della coscienza. In lui, al di fuori di ogni elaborazione mentale consapevole, si riattiva una IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 49 50 tendenza autodistruttiva somatica simile a quella della depressione anaclitica dei bambini abbandonati [14, pag. 6]. In entrambi, l‟addiction all‟ambito dei “normali” può essere ricondotta alle presumibili conseguenze traumatiche della precoce deprivazione affettivo-empatica: un crollo nell‟edificazione del sé immaturo, una “agonia primitiva” avvertita come vuoto intollerabile [24] allontanò violentemente queste persone dal loro mondo interiore, portandole a “consegnare” se stesse, e le proprie possibilità di sopravvivenza, all‟ambiente esterno delle persone adulte e “normali”. Con esso si creò una simbiosi regressiva che sopperì alla carenza di strutture interne capaci di contenere gli affetti più intensi e spiacevoli; o alla mancanza di relazioni interpersonali atte a svolgere analoghe funzioni [14, pag. 62]. Ecco perché quando, in Ivan ed in Daniela, venne a mancare la protezione della “normalità”, si verificarono in loro gli stessi scompensi, a carattere traumatico, che l‟avevano preceduta. 4 – L’addiction al “gregge” – Fin dalle prime pagine, Tolstoj illustra vivacemente l‟indole conformista di Ivan Ilijc. Egli è definito come “…severamente attaccato a ciò che credeva il suo dovere: e il dovere per lui era quel che si riteneva tale dai suoi superiori. Non era stato strisciante… ma fino dagli anni della prima gioventù aveva avuto quel tale istinto che spinge la mosca verso la luce e spingeva lui verso gli uomini che hanno un‟alta situazione nel mondo, facendogli assimilare i loro modi, le loro vedute, e stabilire con loro rapporti d‟amicizia (…) aveva commesso alcune azioni che allora gli erano parse indecorose…ma, in seguito, vedendo che queste medesime azioni erano compiute anche da uomini che stavano in alto e non le consideravano peccaminose, egli non le riguardò come buone ma le dimenticò completamente” [23, pag. 23 e seg.] Notiamo, innanzi tutto, il carattere aspecifico, “anonimo” di questi superiori così affettivamente importanti nella vita di Ivan; egli non ha preferenze, non fa scelte: adotta i “modi e le vedute” (in particolare il concetto di “dovere”) di chi lo comanda, chiunque questi sia, senza che la propria indole lo porti a prediligere, come modello, un superiore piuttosto che un altro. Il suo adeguarsi all‟esempio di coloro che “stanno in alto” è, quindi, fine a se stesso e non frutto di un‟inclinazione verso particolari opinioni o comportamenti. Ciò che lo spinge verso “gli uomini che hanno un‟alta situazione nel mondo” non è il calcolo dell‟adulatore (egli “non era mai stato strisciante”), ma un “istinto”, un comportamento del tutto spontaneo e non premeditato. Manca, inoltre, in Ivan una vera e propria istanza morale autonoma: egli riesce a dimenticare le proprie azioni da lui stesso giudicate “indecorose”, se solo sono state commesse anche da coloro che stanno in alto. È il superiore del momento a porsi, nel mondo interno di questo personaggio, come ideale dell‟io ed a svolgere la funzione del superio, esattamente come in coloro che fanno parte delle folle primitive [5]. Tuttavia, mentre persone più sane perdono solo temporaneamente, quando “catturate” dalla folla, la loro specificità individuale, per Ivan ciò costituisce un modo d‟essere costante. Su Daniela una simile influenza non è esercitata da qualsiasi superiore, ma dai soli genitori. Finché non s‟allontanò da casa, tuttavia, anche lei s‟adeguò ad un “ideale” di vita impostole dall‟esterno: quello della persona “normale”, impegnata pienamente ed in modo “autonomo” nel lavoro, che non “disturba” se stessa e gli altri con le “insensatezze” del proprio mondo interno. La “sottomissione all'ordine della psicologia collettiva” (completa e permanente nel personaggio tolstojano, parziale e limitata nel tempo nella paziente) tende a privare il pensiero di ogni traccia di qualità soggettive individuali (come avviene tipicamente nel paziente “opératoire” [17, pag. 1413, 1419]): il “gregge” cui queste persone appartengono non ammette l‟esistenza d‟individui separati ed indipendenti ed ogni indizio d‟individualità dev‟essere rigorosamente censurato. Ecco perché l‟addiction tenta d‟eliminare rapidamente non solo i sentimenti spiacevoli, ma anche molti fra quelli piacevoli [9, pag. 514]. In costoro, infatti, qualsiasi sentimento spontaneo, in quanto espressione di una vita soggettiva autonoma, è tendenzialmente pericoloso, può comportare l‟improvvisa espulsione dal “gregge”: l‟ostracismo nei confronti di Ivan, quando emerge in lui il ribelle, è pronto e totale, come pure la freddezza dei familiari quando, in Daniela in crisi, emerge la persona fragile. L‟espulsione dal gruppo IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 51 52 d‟appartenenza rappresenta spesso, per queste persone, l‟eventualità più temuta al mondo: per loro essa significa annientamento soggettivo e talora, come succede ad Ivan, fine anche dell‟esistenza corporea. 5 – “Illusion” e “delusion” – L‟espulsione dal “gregge” comportò, per Daniela, una crisi lunga e tormentosa, ma non un crollo totale, come accadde ad Ivan Ilijc. Ad esempio, il lavoro e gli aggiornamenti professionali, entrambi per lei affettivamente molto importanti, non ne subirono danni o interruzioni. Si è vista più sopra, come una delle possibili cause di questa differenza, un coinvolgimento nel gruppo patologico non così totale nella paziente come nel personaggio tolstojano. Correlata a ciò è anche una diversa qualità dell‟idealizzazione dei leader del “gregge”: quella che ne fa Ivan è indiscriminata (riguarda tutti i superiori), assolve un‟unica funzione (quella di cementare la sua appartenenza al gruppo), non subisce cambiamenti ma, ad un certo punto, crolla del tutto cedendo il posto a rancore verso quegli stessi personaggi. Viceversa l‟idealizzazione da parte di Daniela, come si è visto nel rapporto transferale, è capace di evoluzione: impegnata all‟inizio a ricostruire, in me, il leader di un “gregge” simile a quello della sua famiglia (benché vissuto, stavolta, con fastidio e fretta di sbarazzarsene), in seguito viene da lei impiegata allo scopo di ritrovare dapprima un genitore su cui riversare i propri “capricci” e poi, evolvendosi verso la costruzione di un‟immagine di me più ridimensionata e realistica, un sostituto genitoriale capace d‟aiutarla a riprendere il cammino evolutivo interrotto nell‟infanzia. Quella propria di Ivan assomiglia alla tenace idealizzazione del genitore (e dei suoi sostituti) caratteristica del bambino che ha (o del paziente che da bambino ha) subito un abuso [14, 15]: essendo intollerabili gli aspetti persecutori del genitore reale e non disponendo di alternative, questo malato è costretto ad aggrapparsi ad un‟immagine falsa ed idealizzata di chi lo accudisce. Non si tratta della idealizzazione sana, che consiste nell‟accentuazione e nell‟isolamento, dalle altre qualità del genitore, d‟aspetti realmente favorevoli al figlio: una “illusion”, nel senso winnicottiano, necessaria come tale all‟inizio della vita, ma in seguito capace di ridimensionarsi progressivamente ed evolversi [15]. Quella di queste persone è, piuttosto, una mistificazione a carattere delirante volta alla negazione del carattere persecutorio e ad un‟esaltazione, priva di basi reali, di chi ha dato loro la vita: un delirio – “delusion” – come tale impermeabile a qualsiasi influenza esterna. Come ogni delirio, anche questo tipo d‟idealizzazione, urtando con la realtà, può crollare, ma non modificarsi; questo anche in coerenza con il sistema di valori narcisistico del “tutto o nulla”: la persona idealizzata o è “perfetta” (e quindi al di fuori d‟ogni eventualità d‟evoluzione) o è “completamente spregevole”, senza alcuna possibilità di riscatto. Come conseguenza, questi pazienti possono anche trovare sostegno in genitori o sostituti genitoriali “perfetti”, ma mai rapporti capaci di evolversi ed aiutare ad evolvere. Le persone reali, imperfette ma dotate di pregi veri, di una loro specifica individualità e di capacità di progredire (quindi le uniche in grado di aiutarli), restano al di fuori del mondo affettivo di questi pazienti, popolato solo di esseri immutabilmente “perfetti” ma non “veri”, come pure da anonimi “greggi” indifferenziati, ma non da gruppi evoluti di individui tra loro distinti, capaci di reale collaborazione e cambiamento. 6 – Impossibilità di dipendenze sane – I pazienti simili a Daniela e ad Ivan Ilijc, così preoccupati per una (perduta) “autonomia” che si rivela del tutto ingannevole, debbono, in realtà, ancora “imparare” a dipendere in modo sano da chi può aiutarli nell‟affrontare le proprie tensioni emotive, quanto in tutto il resto. Vediamo, ad esempio, Ivan a contatto con uno dei medici cui ha chiesto aiuto per la sua grave malattia. Il suo occhio disincantato vede, nel rituale della visita medica, solo più un cumulo di “sciocchezze e vuoti inganni” . Eppure, in un momento di disperazione, egli finisce per aggrapparsi al messaggio di speranza del curante “come si lasciava prendere dalle arringhe degli avvocati quando egli già sapeva benissimo che essi mentivano e perché mentivano” [23, pag. 68]. Convivono in Ivan una credulità infantile sempre più delusa e la più completa diffidenza; quest‟ultima, tuttavia prevale fin dalla prima visita: “…Tutto fu com‟egli s‟aspettava, tutto come IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 53 54 avviene sempre. E l‟attesa, e la gravità del medico (…), quella gravità a lui ben nota, la medesima che egli riconosceva in se stesso quando era al tribunale (…) e le domande che richiedevano risposte già previste ed evidentemente inutili, e quell‟aspetto imponente che sembra dire: „Voi dovete soltanto fidarvi di noi, e noi accomoderemo tutto – noi sappiamo come si fa ad accomodare tutto, sempre allo stesso modo, per qualsiasi persona‟. Tutto fu proprio come al tribunale. Il contegno che egli teneva in tribunale verso gli accusati, lo stesso contegno lo teneva verso di lui il celebre medico…”. [23, pag. 43] E‟ possibile che Ivan, qui, sappia vedere selettivamente solo gli aspetti negativi del curante, o ne distorca proiettivamente l‟immagine, oppure che egli abbia scelto davvero la persona sbagliata cui affidarsi, ma nella convinzione che non esista di meglio: tutto, infatti, si svolge “com‟egli s‟aspettava” e come, nella sua opinione, “avviene sempre”. In ogni caso, è evidente che Ivan sa vedere, nella cura, solo quel rapporto di reciproco inganno che ha sempre caratterizzato le sue stesse relazioni: quelle presenti con i familiari ed anche, probabilmente, le più antiche. Credulità, delusione, “fede”, (e mai “fiducia”) dominano, per un lungo periodo, anche le tempestose relazioni sentimentali di Daniela. In una certa fase, come abbiamo visto, lo stesso rapporto transferale ne fu interessato. A differenza del personaggio tolstojano, tuttavia, la mia paziente aveva la capacità di ripiegare, di tanto in tanto, su un rapporto basato su cure corporee; rapporto che si rivelò particolarmente solido: con esso veniva puntualmente ristabilita, tra noi, una relazione terapeutica. Inoltre, sempre “appoggiandoci” alla relazione con il corpo (quello di Daniela stessa e quello dei suoi malati), fu possibile rafforzare l‟investimento affettivo su (e la fiducia della paziente in) se stessa come curante (ad un livello più profondo, sulla sua identificazione con la madre arcaica e sulla propria femminilità); fatto, questo, che rappresenta, a mio avviso, l‟elemento cardine dell‟analisi di questa persona. Cure materne precoci affettivamente valide, avevano prodotto in Daniela, attraverso l‟interiorizzazione, “strutture” del sé psicocorporeo che, a dispetto della labilità di tutto il resto della sua personalità, si mantenevano solide. Esse, nel rapporto transferale, conferivano alla paziente la fiducia di poter trovare nel sottoscritto “l'eco confortante della risonanza empatica” [6, pag. 109] sia pure limitatamente alla sfera corporea. Tutto questo costituì in Daniela una solida base ed un punto di partenza per il processo terapeutico: ciò che manca, purtroppo del tutto, ai pazienti più simili ad Ivan Ilijc. Qui sia l‟impostazione prevalente nel loro mondo interno, sia il tipo di persone o di attività che essi percepiscono o scelgono, li conducono unicamente verso rapporti di addiction e mai di vero e proprio aiuto o cura. 7 – Incapacità di “impazzire” – La mancanza di valide strutture interne con cui contenere l‟intensità delle emozioni e l‟assenza di relazioni interpersonali atte ad ottenere lo stesso scopo, pongono i pazienti simili ad Ivan Ilijc (ed, in minor misura, a Daniela) in condizioni di grave vulnerabilità di fronte ad eventi esterni sfavorevoli. Esiste in loro anche un terzo fattore di debolezza, direttamente legato alla “normalità” addictive: essi sono del tutto incapaci di “impazzire”; vale a dire: di fronte a mali estremi, non sanno ricorrere all‟estremo rimedio della “pazzia” quando questo rimane l‟unico modo per preservare il nucleo più autentico e specifico della propria vita interiore. Ciò è particolarmente evidente in situazioni che minacciano interessi oggettivamente o soggettivamente vitali: esempi ne sono la mancata promozione e poi la grave malattia fisica per Ivan, oppure l‟ostilità (invidiosa) dell‟ambiente di lavoro per Daniela. Si tratta di circostanze che pongono a lungo in uno stato d‟impotenza e d‟incertezza circa il futuro, senza il sostegno empatico di un proprio simile su cui poter contare. Qui un crollo o una resa alle circostanze esterne (che significherebbero il sacrificio di esigenze interiori fondamentali) possono essere evitati solo scostandosi dallo specifico settore minaccioso della realtà o alterandone la percezione soggettiva; e ciò attraverso quei particolari quadri psichiatrici che, per Kohut, sono compatibili con una diagnosi di salute psichica costituendone, addirittura, un elemento essenziale. È quanto amo definire la capacità di “impazzire un po‟ per non impazzire del tutto” e soprattutto per non andare incontro ad un completo crollo psico-fisico. Il fallimento di IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 55 56 questa lotta difensiva, infatti, vale a dire la “resa” alla realtà ostile, può significare lo “acting in” somatico [10, 16] con cui Ivan Ilijc pone fine alla sua esistenza, oppure le pericolose addiction con cui Daniela cerca (per sua fortuna senza riuscirci) di soffocare completamente il suo disagio. Kohut si spinge fino a far rientrare, in queste situazioni di pazzia “sana”, persino quadri psicotici; ad esempio: “…l‟evocazione allucinatoria di un gruppo di oggetti-sé speculari creati talvolta in situazioni di segregazione, che protegge la personalità dal riportarne danni permanenti…”; oppure: “…l‟evocazione allucinatoria di una Divinità idealizzata, che rende alcuni individui capaci di atti di coraggio supremo, non solo senza l‟aiuto di un gruppo di sostegno ma anche di fronte alla quasi totale disapprovazione sociale (per esempio, i martiri isolati della resistenza ai nazisti, come Franz Jaegerstaetter…)” [6, pag. 107 e seg.] Vediamo, invece, fino a che punto si spinge la “normalità” addictive di Ivan Ilijc in una fase già avanzata della sua malattia: “…in alcuni momenti, dopo lunghe sofferenze, avrebbe voluto più d‟ogni altra cosa, per quanto avesse vergogna di confessarlo, che qualcuno lo compatisse come un bambino malato. Avrebbe voluto che qualcuno lo accarezzasse, lo baciasse, piangesse su di lui (…) ed ecco giungere il suo amico, il magistrato Scebek e, invece di lacrime e carezze, Ivan Ilijc faceva un viso serio, severo, profondamente pensieroso e, per forza d‟inerzia, diceva la sua opinione su d‟un verdetto della Cassazione e ostinatamente lo difendeva. Questa menzogna intorno a sé e in se stesso avvelenava più di tutto gli ultimi giorni della vita d‟Ivan Ilijc…” [23, pag. 64]. Giudicare un uomo sano, oltre che un coraggioso eroe, il “folle visionario” Franz Jaegerstaetter ed invece ritenere tragicamente malato (nella mente non meno che nel corpo) l‟austero e serioso Ivan Ilijc; tutto ciò può apparire paradossale, ma diventa un‟ovvia verità se prestiamo attenzione alle sensazioni che l‟Autore ci suscita con la descrizione sopra riportata. Qui quella “ostinata difesa” del verdetto della Cassazione, lontana anni luce da ciò che veramente interessa Ivan in quel momento, quell‟atteggiamento “serio, severo, profondamente pensieroso” da parte di chi avrebbe soltanto bisogno di piangere come un bambino e abbandonarsi alle carezze di qualcuno che lo compatisca e lo ami; tutto ciò ci suscita una grande pena per questo personaggio: avvertiamo, nel suo modo di essere, qualcosa di profondamente malato che lo porta ad aggiungere, alle sofferenze del corpo, altri e più gravi tormenti morali. Senza dubbio, avremmo visto come più naturale e “sano” un atteggiamento regressivo di ricerca d‟attenzione ed aiuto; atteggiamento che, isolato dal suo contesto (e soprattutto non “filtrato”, nella sua descrizione, dalla sensibilità dell‟Artista) potrebbe essere qualificato come “teatrale” ed “isteriforme”. La capacità di Daniela di “impazzire un po‟ per non impazzire del tutto” si presentava, all‟inizio del trattamento, piuttosto modesta, limitandosi all‟ansia che la paziente non poteva fare a meno di provare, nonostante l‟enorme quantità di sigarette, cibo, corse e lavoro che s‟imponeva per soffocarla. Questa capacità, tuttavia, sia per il carattere sconvolgente degli attacchi di panico, sia per la stessa misura eccessiva e chiaramente inaccettabile che, sotto l‟incalzare dell‟ansia, avevano assunto le addiction supplementari, ebbe un ruolo fondamentale nel consentire a Daniela d‟avvertire un sentimento di crisi, di difficoltà insormontabile con le sue sole forze, e nell‟indurla a chiedere aiuto. Tutto questo manca ad Ivan Ilijc esattamente come manca al tipo di paziente in cui il crollo di una addiction alla normalità determina una dipendenza da sostanze tossiche quale problema esclusivo o prevalente. Manca anche nel paziente, qual era Daniela finchè restò nella famiglia d‟origine, in cui non si ha crollo dell‟addiction alla “normalità”, ma a questa se ne aggiungono altre supplementari allo scopo di “tamponare” il disagio dovuto alle imperfezioni della prima. Nel caso della nostra paziente, in quel periodo, si trattava del consumo abituale di una modesta quantità di sigarette, mentre i disordini alimentari, il jogging e, per un periodo limitato, il lavoro, assumeranno il carattere di addiction solo in conseguenza della crisi. In altri pazienti, addiction supplementari molto più gravi, a sostegno di quella alla “normalità”, soffocano ogni forma di “pazzia” e creano una forma stabile d‟equilibrio patologico che rende queste persone inaccessibili alle cure psichiatriche e, con esse, ad un vero e proprio trattamento causale. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 57 V – Considerazioni sul trattamento 58 1. “Spettro” di possibili trattamenti. In un passato recente, trattamenti come quello psicofarmacologico o comunitario erano da taluni criticati perché tendenti a favorire uno stato di “dipendenza” del paziente ed erano, perciò giudicati “non terapeutici”. La critica nasceva da un concetto, quello di “dipendenza”, che oggi possiamo considerare del tutto inadeguato. Esso, infatti, include (e confonde), sia i rapporti di vera e propria schiavitù (di “addiction”), sia i rapporti verso quei fattori esterni che sono necessari alla salvaguardia dell‟integrità soggettiva: i kohutiani “oggetti-sé”. I due opposti tipi di relazione non possono essere distinti in base ai rispettivi oggetti: anche i più comuni oggetti-sé della persona adulta sana (risorse culturali, famiglia, amici, lavoro, ecc. [6]) possono costituire gli oggetti di comportamenti sicuramente patologici, con il carattere dell‟addiction [2]. Il bisogno adulto sano, non “schiavizzante”, è spesso temperato dalla capacità di scegliere liberamente ed, all‟occorrenza, sostituire gli oggetti-sé; la molteplicità di essi, la certezza di disporne e la presenza di strutture autonome di autoregolazione delle tensioni emotive, consentono di rimanere temporaneamente privi di tali sostegni senza subirne danni di alcun genere. Ma questa non è una caratteristica distintiva sostanziale: molte persone non potrebbero, neppure temporaneamente, fare a meno dei principali sostegni alla loro vita soggettiva. Più importante ed essenziale, è un‟altra differenza che riguarda gli effetti opposti che l‟uno o l‟altro gruppo di rapporti produce sull‟integrità, la forza e le possibilità di espressione del sé quale centro della vita soggettiva. Gli oggetti di addiction, al di là di un temporaneo sollievo, non apportano altri benefici soggettivi: il paziente grave che più ricorre ad essi, impegnato esclusivamente a sottrarsi al disagio, per il resto subisce passivamente la vita anziché condurla in funzione di proprie autentiche esigenze positive [3, 7, 17 pag. 1412]: desideri, ideali, ambizioni, attitudini, interessi, quali peculiari manifestazioni del sé che gli appartiene. Esse vengono sacrificate nel rapporto con l‟oggetto d‟addiction; rapporto, quest‟ultimo, sbilanciato: non un‟interazione, ma un sequestro da parte dell‟oggetto, il soggetto “si perde” in esso. Esattamente l‟opposto accade nel “rapporto oggetto-sé” sano, dove l‟investimento affettivo e la fantasia arricchiscono la rappresentazione dell‟oggetto e quest‟ultimo, appagando importanti esigenze interiori, sostiene ed arricchisce il sé. Qui esiste un‟autentica interazione tra soggetto ed oggetto, sebbene quest‟ultimo venga percepito come estensione del primo. I trattamenti di questi disturbi si collocano, perciò, in un “range” compreso tra due scopi opposti: quello di dare a questi pazienti forme di “schiavitù” che almeno siano innocue da un punto di vista somatico e sociale (addiction sostitutive), e, rispettivamente, quello di fornire alle loro parti sane il sostegno necessario perché esse possano emergere, rafforzarsi ed evolversi: un “selfobject support o environment”. Il primo obbiettivo è di gran lunga il più facile da raggiungere e, per molti di questi pazienti, l‟unico possibile. Nulla da eccepire in questi casi, purché la scelta del trattamento “sostitutivo” dipenda effettivamente dai limiti del malato e non da quelli del terapeuta: più sotto esamineremo più approfonditamente questi ultimi. Tra l‟estremo appena descritto e quello opposto, si situa tutta una gamma di possibili interventi in cui è possibile, in misura variabile da caso a caso, affiancare, ad una nuova dipendenza meno nociva, anche un sostegno allo sviluppo di aspetti potenzialmente sani della personalità. 2. Fattori di cecità del terapeuta: schematicamente comprendono: - Fattori culturali. Viviamo immersi in una cultura che potremmo definire “alexitimica”. Basti ricordare, a questo proposito, il drammatico impoverimento del linguaggio che si riscontra soprattutto nelle ultime generazioni e che riguarda, in particolare, il lessico necessario per descrivere i fatti della vita interiore. La stessa cultura medicopsichiatrica tende a privilegiare l‟aspetto “oggettivo” o obbiettivabile della valutazione clinica: il comportamento del paziente, il suo aspetto esteriore, le modificazioni biochimiche prodotte sul substrato corporeo delle sue emozioni. Se tutto ciò viene accettato acriticamente dal terapeuta, l‟intervento che egli tenderà ad attuare non può che IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 59 60 accentuare le caratteristiche patologiche dell‟alexitimico: il suo falso sé, il distacco dalle sue autentiche emozioni, il suo ripiegare su di una “addiction to normality”. Caratterizza la nostra cultura anche un ostinato, persistente dualismo mente/corpo. Esso porta a considerarli separatamente, come se potessero prescindere l‟una dall‟altro. Vedremo più sotto come quest‟impostazione sia fondata anche su forti resistenze emotive del terapeuta ed incida negativamente sulla sua capacità di affrontare il nucleo centrale della patologia alexitimica. Un altro fattore fuorviante è rappresentato da un‟interpretazione impropria della diagnosi e di ciò che emerge nelle supervisioni, specie quelle che si esauriscono in una singola seduta. In tutti e due i casi, può crearsi la sensazione di “aver capito tutto”, mentre, in realtà si è spesso messo a fuoco solo un aspetto parziale della soggettività del paziente. La falsa convinzione, che ne deriva, che il malato sia un alexitimico “a tempo pieno” rischia di mettere in ombra, o di scotomizzare, quelle aree più sane della sua personalità che, in condizioni propizie, possono emergere e mettere in moto un processo veramente terapeutico. Un intreccio di fattori culturali ed emotivi è rappresentato da quello che Kohut chiamava il “tool & method pride”, ossia l‟investimento narcisistico sugli strumenti ed i metodi che caratterizzano la formazione professionale di ciascuno di noi; investimento che porta a considerare come assoluto il valore del proprio modo di valutare e lavorare. Vittima particolare di quest‟impostazione è proprio il paziente alexitimico. Egli tende spesso ad esprimersi in modo monotono, incolore ed è perciò, quasi di regola, giudicato “inadatto alla psicoterapia”, come se questo autorizzasse i terapeuti ad ignorare la sua vita soggettiva. In altri casi, il “tool & method pride” rende il terapeuta cieco di fronte alle menzogne con cui l‟alexitimico asseconda i metodi e gli assunti teorici di chi lo cura, appagandone, così, il narcisismo. - Fattori emotivi. Il “narcisismo terapeutico” limita, nel curante, le capacità di comprensione empatica fin dal principio, nella scelta stessa del tipo di trattamento e dei suoi obbiettivi. In virtù di questo fattore emotivo, risulta molto difficile rinunciare all‟illusione di risultati terapeutici evidenti ed ottenuti in tempi relativamente brevi. Si tratta, in realtà, di trattamenti che sopprimono il sintomo, quale possibile “segnale” di tendenze autodistruttive (ma anche, paradossalmente di potenzialità favorevoli) senza che si sia neppure iniziato a tentare di “decodificarlo”. Nello stesso senso agisce l‟inconsapevole evitamento fobico, frequente nel terapeuta, di quanto di angosciante il malato potrebbe comunicare. Il paziente viene come “zittito” dagli effetti di una terapia puramente sintomatica. Il contatto-distacco con il corpo del paziente, quale fonte di angosce arcaiche [11, 13], è oggetto di due opposti movimenti difensivi da parte dei terapeuti: l‟evitamento fobico del contatto e l‟isolamento ossessivo da tutto ciò che può implicare separazione. Il primo porta ad ignorare tutto ciò che è corporeo, compresi quei correlati somatici delle emozioni che, soprattutto nel “falso sé” alexitimico, ne rappresentano la “cartina di tornasole” dell‟autenticità. Il secondo porta a considerare solo ciò che è strettamente corporeo, ignorando quanto di mentale può essere contenuto nel corpo stesso. Entrambi gli atteggiamenti, razionalizzati – come si diceva più sopra – da una concezione dualistica mente-corpo, impediscono di affrontare adeguatamente il nucleo centrale della patologia alexitimica. Vediamolo. SOMMARIO L‟Autore sostiene che in molti casi (di cui descrive un esempio) una normalità a carattere “addictive” è la prima fase, compensata, di una patologia che facilmente evolve verso disturbi da addiction e/o complicazioni somatiche. Data la repulsione fobica di questi alexitimici per tutto ciò che allontana dalla “normalità”, difficilmente essi consultano uno psichiatra in una fase precoce della malattia. Utili, IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 61 perciò, si rivelano, in proposito, i suggerimenti offerti da un modello letterario: lo Ivan Ilijc di Tolstoj. Emergono, quali caratteristiche essenziali, l‟assenza di “strutture autoprotettive autonome”, l‟incapacità di ricorrere ad autentici rapporti d‟aiuto, l‟impossibilità di produrre espressioni di malessere a carattere reintegrativo, ossia capaci di salvaguardare l‟integrità del sé. PAROLE CHIAVE: Alexitimia, falso sé, depressione essenziale, addiction, addiction to normality, salute mentale, trauma, prerepresentational elements, corpo. 62 ABSTRACT The Author states that in many cases (among which an example is described) a normality of addictive type is the first phase, compensated, of a pathology which easily evolves towards addiction and/or somatic complications. Due to the phobic repulsion these people have towards anything that may take them away from “normality”, they rarely search a psychiatric help during the early phase of their illness. Useful suggestions on this issue may be found in a literary model: Tolstoj‟s Ivan Ilijc. Here, the lack of „autonomous selfpreservative structures‟, the incapability of true auxiliary relationships, and the impossibility to express one‟s disease through „reintegrative symptoms‟ (i.e. manifestations capable to preserve the integrity of the self) appear as essential features. The limits of alexithymic people and the possible therapists‟ scarce awareness of the opportunities of cure are discussed. KEY WORDS: Alexithymia, false self, essential depression, addiction, addiction to normality, mental health, trauma, pre-representational elements, body. BIBLIOGRAFIA 1. A.A. Vari (1994) American psychiatric glossary (American Psychiatric Press) 2. Adès J. - Lejoyeux M. (1999) Dépendances comportementales: achats compulsifs, addictions sexuelles, dépendance au travail, kleptomanie, pyromanie, trouble explosif intermittent, trichotillomanie (Encycl. Méd. Chir. (Elsevier, Paris, France) Psychiatrie - 37-396 -A -20) 3. Bates Gail C. (2000) Affect regulation: panel report (Int. J. 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Recenti studi neuroscientifici hanno dimostrato chiaramente come nell‟ascoltare musica vengano attivate quasi tutte le aree del nostro cervello. Possiamo, a ragion dire, che l‟attività di ascolto musicale è un‟attività (se non addirittura l‟unica) coinvolgente e stimolante. Ecco perché parlare di ascolto come attività passiva non è esatto. Tutti noi, una volta almeno nella vita, abbiamo sperimentato l‟esperienza di un ascolto musicale che, come per magia, ci ha riportato alla memoria un ricordo sepolto che pensavamo di non aver conservato nell‟archivio della mente. Di conseguenza la sensazione di sorpresa e incanto nel trovarsi a rievocarne ancora, in modo vivido, le sensazioni percettive ad esso collegate. L‟ascolto è allora una prerogativa della mente più che del cervello. L‟orecchio non riceve solo il suono ma inviando lo stimolo uditivo direttamente al cervello, innesca un processo creativo del pensiero. Ciò è dovuto al fatto che la musica a noi famigliare attiva l‟ippocampo, una struttura al centro del cervello nota per la sua importanza nella codifica e nel recupero dei ricordi. Il ruolo dell‟ippocampo nella memoria è oggetto di dibattito. Secondo il modello Standard l‟ippocampo gioca un ruolo temporaneo: cioè è attivo nel consolidamento ma non nell‟immagazzinamento di ricordi Musicista, Musicoterapista, Diplomato in clarinetto al Conservatorio Santa Cecilia di Roma e specializzato in Musicoterpia alla Scuola triennale Anffas-Apim di Genova 5 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 65 remoti. Secondo la teoria dei modelli a traccia multipla, invece, l‟ippocampo è sempre coinvolto nel riattivare la traccia mnestica, perché ricostruisce il contesto. Ogni esperienza è quindi potenzialmente codificata nella memoria o meglio in gruppi di neuroni che configurati in un certo modo fanno riaffiorare un ricordo, rappresentandolo nel teatro della nostra mente. Se non riusciamo a richiamare tutto quello che vogliamo, quindi, non è perché non sia immagazzinato nella memoria; piuttosto il problema è trovare la giusta chiave per accedere al ricordo. In teoria con i giusti suggerimenti potremmo accedere a qualsiasi esperienza passata 66 Perché si ascolta Ascoltiamo per imparare, informarci, per sapere chi siamo, da dove veniamo, per conoscere meglio gli altri, per stare con noi stessi, per conservare la memoria del passato, per evadere, per provare emozioni, per immaginare, per trovare un senso, per comunicare… Ogni atto d‟ascolto proietta un desiderio su una musica, così come musiche diverse attivano più facilmente certi tipi di ascolto piuttosto che altri. Non esiste un ascolto più giusto di un altro. Musiche diverse corrispondono a condotte di ascolto diverse, in relazione a diversi bisogni, motivazioni, desideri. Questo riguarda anche il rapporto tra compositore e fruitore o meglio, in molti casi, tra compositore, esecutore e fruitore. Come diceva Freud: “La creazione artistica non si esaurisce nel compimento dell‟opera ma si rinnova indefinitamente nelle fruizione/ricreazione di essa attraverso i tempi.” (Freud, 1913) L‟arte non è nei tratti del pittore o dello scultore, nelle note del compositore o nelle parole del poeta ma bensì negli occhi, nelle orecchie, nella mente di chi ascolta, osserva e immagina l‟opera d‟arte. In qualche modo il fruitore dell‟opera diviene indispensabile affinché la stessa opera sia; Nessun artista crea per poi nascondere al mondo la sua creazione. In più il fruitore diviene egli stesso partecipe alla creazione dell‟opera d‟arte in quanto nel suo fruire ricrea l‟opera. Le emozioni del compositore s‟incontrano con le emozioni di colui che ascolta, il quale ne da un rimando diverso, nuovo, da quello che era il punto di partenza del compositore. Delalande, a tal proposito, parla di “diritto d‟infedeltà” della musica: “l‟ascolto di una musica si concretizza in un‟esperienza di piacere che fa eco all‟esperienza del produttore che a sua volta ha vissuto un‟esperienza di piacere, ma forse non per le stesse ragioni. L‟atto dell‟ascolto ri-compone l‟oggetto a suo modo” (Delalande, 1993. Pag. 176-190). Ogni atto d‟ascolto presuppone il piacere di ascoltare capace di sollecitare interesse e curiosità, aspettative centrali affinché un ascolto musicale sia recepito attivamente. Per questo nella scelta dei brani da proporre dobbiamo considerare due diverse tendenze/aspettative: la consuetudine e la meraviglia. Questo perché vi è nell‟ascoltatore l‟esigenza di ritrovare qualcosa di famigliare, che possa tranquillizzarlo e favorire occasioni di confronto in gruppo a partire dalle proprie preferenze. Ascoltare una musica che conosciamo e che amiamo dà senza dubbio un piacere immediato legato all‟idea di qualcosa già conosciuto, rassicurante (la consuetudine). Dall‟altra parte vi è, contemporaneamente, anche l‟esigenza di ascoltare qualcosa che sorprende, d‟ insolito, che stimoli e crei mistero (la meraviglia). Stupore e spaesamento però non sono sempre piacevoli: possono anche provocare repulsione, dissonanza, divergenza, conflitto. Ma sempre producono senso, confronto, energia che fluisce. Ritengo quindi che la scelta dei brani da proporre deve tener presente di queste tendenze che fanno capo a quelle pulsioni neofobiche e neofiliche, che sono ben spiegate dallo studioso etologo Desmond Morris nel suo libro “La scimmia nuda”. Queste due tendenze possono essere viste complementari in un percorso che intrecci attese e imprevisti, conosciuto e sconosciuto, IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 67 vicino e lontano, prossimità ed estraneità. È importante utilizzare musiche ricche di stimoli, che diano da parlare. 68 Il Setting Il setting in Musicoterapia ha importanza rilevante ed è il primo fondamentale elemento che da inizio al processo di cura. L‟elemento che contraddistingue il setting musicoterapico è il contesto non verbale. Il contesto non verbale è dato dall‟interazione dinamica di molti elementi quali quello sonoro, gestuale, corporeo, della mimica, del colore, dello spazio e perfino dell‟odore. L‟invarianza è caratteristica fondamentale del setting: si è notato che modificandolo avvengono cambiamenti di comportamento dei pazienti in seduta. La costanza del setting consente e facilita l‟interazione verbale, la dinamica associativa In musicoterapia il setting assume quindi una grande valenza in quanto costituisce una comunicazione implicita che può contenere, guidare, condizionare e addirittura, inibire il paziente. In altri termini, esso è l‟insieme di regole senza le quali non sarebbero percorribili gli itinerari trasformativi della terapia. La disposizione ideale e più usata è quella in cerchio o semicerchio. Questa organizzazione dello spazio offre un certo contenimento ma allo stesso tempo una certa apertura e condivisione. Il cerchio è un archetipo, simbolo della madre terra, dell‟abbraccio del grembo materno, del flusso vitale. Il cerchio è un simbolo onnipresente nelle culture di impronta prevalentemente patriarcale: pensiamo per esempio agli indiani d‟America per cui la nazione pellerossa traeva la sua forza dall‟essere un “cerchio sacro”; pensiamo a quanti simboli della cultura Celtica si rifanno ala figura del cerchio. E‟ quella che Benenzon definisce “Posizione del focolare” che richiama simbolicamente le riunioni serali attorno al fuoco tipiche dei popoli tribali o degli stessi progenitori, vissuti in epoca rurale che a sera erano soliti riunirsi davanti al camino per raccontarsi le loro giornate. Il fuoco nei popoli tribali è controllato dal “guardiano del fuoco”, persona incaricata di alimentare continuamente le fiamme affinché il calore e l‟unica fonte di luce non venga meno e non si corra il rischio di essere attaccati dagli animali predatori della notte. Se facciamo un parallelismo, la musica di ognuno (con tutti i suoi contenuti emotivi), è il fuoco da tenere sempre vivo; il terapista assume simbolicamente il ruolo del “guardiano del fuoco” e deve cercare di mantenere un certo equilibrio di calore e luce affinché ogni partecipante si senta a suo agio e possa esprimere i suoi vissuti emotivi. Il rituale è completo e pronto per accogliere e contenere le memorie e i sentimenti di ognuno. L’Ascolto nel setting Solitamente la scelta dei brani parte da proposte fatte dai pazienti per mettere a loro agio i partecipanti e per sondare il repertorio musicale dei singoli. Man mano che gli incontri procedono il terapista cerca di strutturare un percorso di ascolti che contempli dei brani noti al gruppo e l‟inserimento di brani “ad hoc” utili per conseguimento degli obbiettivi prefissati. All‟ascolto segue una breve fase di condivisione dove ognuno può esternare verbalmente le proprie impressioni, ricordi, considerazioni. Tale fase di verbalizzazione inserita in un contesto non verbale, com‟è quello che caratterizza l‟attività di Musicoterapia, è uno spazio necessario affinché vengano fuori possibili vissuti persecutori o angoscianti che la musica ha evocato. La struttura di pensiero di uno psicotico, infatti, è una struttura angosciante, popolata di elementi distruttivi e mortiferi, dalla quale sembra necessario, come atto difensivo, prendere le distanze; così i pensieri del paziente diventano sempre più distanti dal proprio mondo interno. La risposta del terapeuta sarà allora quella di restituire al IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 69 paziente le sue proiezioni piene d‟angoscia e di dolore, dopo averle rese più tollerabili. L‟ascolto musicale permette ai partecipanti di effettuare un passaggio tra diversi livelli di esperienza: da quella più regressiva legata alla fruizione musicale a quella più comunicativa, attraverso la verbalizzazione dei propri vissuti ed infine a quella integrativa nel confronto col gruppo. Volendo usare una metafora, possiamo paragonare la mente ad un castello in cui il soggetto pensante è chiamato a intraprendere un cammino che, a partire dalle secrete buie e impolverate, risale verso l‟alto, sempre più su fino alla torre maestra. Sfruttando la stessa metafora possiamo allora paragonare lo svolgersi del processo terapeutico alla costruzione di una scala ideale dove giorno per giorno si aggiunge uno scalino al fine di permettere al soggetto di risalire verso i piani più alti, là dove si gioca il confronto con il reale e dove la luce permette di ascendere con passo più sicuro. 70 La Musica a vari livelli Ogni atto d‟ascolto presuppone il piacere di ascoltare e in questo, la capacità di sollecitare interesse e curiosità. La musica è frutto di un processo biologico, affettivo, cognitivo spirituale, innato nelle facoltà umane. Analogamente, la reazione umana alla musica avviene a tutti questi livelli: Livello biologico = può alterare la frequenza cardiaca o la frequenza e la profondità respiratoria. Livello affettivo = riguarda la variazione delle emozioni. Livello cognitivo = riguarda il piacere estetico e l‟apprendimento. Livello spirituale = riguarda il bisogno di trascendenza; un bisogno che potremmo dire quasi primario per l‟uomo. La musica ci mette in rapporto con qualcosa di trascendente non tangibile, facendoci avvertire l‟unità tra le forze umane e universali, in una totalità che supera i limiti della coscienza individuale. Una reazione è completa se avviene a tutti e 4 i livelli e il grado di influenza della musica su ciascuno di essi varia a seconda del condizionamento culturale, dei valori sociali e delle inclinazioni personali. La Memoria Secondo le più comuni e frequenti definizioni la memoria è definita come la capacità di immagazzinare informazione alle quali attingere quando necessario. Il termine deriva dal nome della dea greca, Mnemousine, madre di tutte le muse. Essa comprende i due processi di apprendimento e ricordo secondo un processo che segue diverse fasi: codifica, consolidamento, immagazzinamento e per ultimo il ricordo. La codifica si riferisce al modo in cui la nuova informazione viene inserita in un contesto di informazioni precedenti; i codici usati possono essere di vario tipo: per es., visivo o semantico. Per quanto riguarda il consolidamento, secondo la “teoria dei livelli di elaborazione”, più è profondo il livello di elaborazione nella codifica più è probabile che la traccia di memoria sia duratura (ovvero vi è una migliore ritenzione). Un altro aspetto è il recupero ed è quello che interessa di più ai fine del lavoro presentato. Secondo Endel Tulving ciò che una persona ricorda non dipende soltanto dalle proprietà della traccia di memoria in quanto tale. Le tracce di memoria sono solo disposizioni o potenzialità. Affinché il recupero avvenga deve essere presente un suggerimento (cue = attacco, battuta, indizio) appropriato che attivi la traccia. Secondo il principio di “specificità di codifica” la compatibilità tra la traccia quale è stata codificata e le caratteristiche dell‟informazione presente al recupero determina il ricordo. Musica ed emozioni Ma vediamo ora che relazione c‟è tra la musica e le emozioni. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 71 72 È quasi un luogo comune il fatto che la musica provochi delle emozioni. In realtà le emozioni sono il risultato di una risposta a oggetti, situazioni o persone precisamente identificabili, mentre gli umori sono stati definiti “generalizzazioni metafisiche delle emozioni”. La musica non esprime emozione ma può creare umori a cui rispondiamo a livello emotivo. L‟umore è un‟emozione che perdura al contrario delle emozioni che sono limitate nel tempo. La depressione, per esempio, si caratterizza per un umore triste e permanente che perdura per lunghi periodi. Un altro equivoco frequente è il confondere la rabbia con l‟aggressività ovvero l‟emozione con “l‟agito” (il passare all‟azione). Come ricorda Stephanie Hahusseau nel suo bellissimo libro “Chi ha paura dell‟umore nero?” (Erickson Edizioni), le emozioni che noi classifichiamo come negative hanno una precisa ragion d‟essere e sono utili alla sopravvivenza della specie. E‟ grazie alle emozioni che l‟uomo si è adattato ai moltissimi cambiamenti ambientali e continua ancora a farlo. La rabbia ad esempio, entra in gioco quando i nostri diritti vengono violati o veniamo feriti e ad essa è connessa l‟attivazione di un contenitore energetico di riserva a cui il cervello da accesso quando si attiva il segnale di “Allerta”. Conoscendo le nostre emozioni si può comprendere ciò che ci spinge ad agire o non agire. Questa conoscenza di noi stessi e delle nostre emozioni e la capacità di canalizzarle è detta “intelligenza emotiva”. Essere “emozionalmente intelligenti” significa essere capaci di etichettare correttamente le proprie emozioni. In sintesi possiamo dire che le nostre emozioni sono in flusso costante e sono sempre mutevoli, ma quando un‟emozione inizia a dominare la nostra psiche può causare un serio squilibrio e per questo è necessario, al fine di ritrovare l‟equilibrio perduto, individuarla, esprimerla e risalire alle cause che l‟hanno provocata. Le emozioni negate all’origine del disagio L‟emozione è il cuscinetto tra noi e le cose che non possiamo controllare. È l‟unica valvola di sfogo a nostra disposizione per ovviare alla mancanza di controllo degli eventi esterni. Non esistono emozioni negative o positive; semplicemente le emozioni sono emozioni, magari con sfumature diverse tra loro. Giudicare negativamente le nostre emozioni porta ad evitarne l‟esperienza (utilizzando strategie di evitamento), trovando un momentaneo beneficio ma a lungo termine l‟evitamento rende le emozioni ancora più intollerabili e aumenta la durata e/o l‟intensità dei nostri disagi, impedendoci di fare fronte ai nostri problemi. Se consideriamo in modo negativo emozioni come tristezza, paura, rabbia, finiamo per provare non una ma due emozioni, la seconda delle quali, detta “emozione secondaria”, è indotta dalla paura e dalla vergogna di provare emozioni e va ad alimentare la prima, amplificando la sensazione di disagio. Quando ciò accade si attivano strategie che hanno lo scopo di evitarne l‟esperienza. Si va dal cercare di pensare ad altre cose al mangiare, bere, fumare, consumare droghe, fino a gesti autolesivi, per non sentire più l‟insostenibile angoscia. Così succede che un‟iniziale ansia venga amplificata dalla paura obbligando la persona a mettere in atto comportamenti evitanti che sconvolgono il normale corso della sua vita. Si evitano le altre persone per paura del loro giudizio (fobia sociale); i propri pensieri divengono carichi di proiezioni fantasmatiche e le azioni utilizzate per cercare di eliminare l‟ansia prendono gran parte del tempo di una giornata (disturbo ossessivo-compulsivo); si ha paura dei luoghi dove è ipoteticamente difficile sfuggire in caso si venga colti da una crisi di ansia (claustrofobia o agorafobia); si ha paura di avere paura e per questo non si esce più di casa (attacco di panico). IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 73 74 Che relazione c’è tra Musica, Emozioni e Ricordi Negli ultimi 10 anni i neuroscienziati hanno mostrato che il nostro sistema mnestico è intimamente legato al nostro sistema emotivo L‟amigdala, sede delle emozioni nei mammiferi, è molto vicina all‟ippocampo, ritenuto la struttura fondamentale per l‟immagazzinamento dei ricordi. L‟amigdala si attiva in presenza di una musica che ci coinvolge emotivamente. Altre aree come il mesencefalo, le regioni della corteccia frontale e lo striato ventrale vengono attivate anch‟esse. Lo striato ventrale, contiene il nucleus accumbens che è il centro del sistema di gratificazione del cervello e riveste un ruolo importante nel piacere e nella dipendenza. Esso è anche coinvolto nella trasmissioni di oppioidi nel cervello a causa della sua capacità di rilasciare dopamina. Ricapitolando nell‟ascolto musicale si attivano una serie di regioni celebrali in un ordine particolare: in primo luogo la corteccia uditiva per l‟elaborazione iniziale delle componenti del suono. Poi le regioni frontali implicate nella elaborazione della struttura musicale e nelle aspettative. Infine il sistema mesolimbico, una rete di regioni, coinvolte nell‟eccitazione nel piacere e nel rilascio di dopamina che culminano con l‟attivazione del nucleus accumbens. In tutto questo il cervelletto, detto anche “area retiliana” o “archipallio” (parte più arcaica presente anche nei rettili) è rimasto attivo tutto il tempo con le sue connessioni con le aree dei lobi frontali e sistema libico, a controllare e regolare l‟emozione. A cosa servono i ricordi Le emozioni sono, quindi, saldamente ancorate ai nostri ricordi. Anzi la nostra mente conserva in memoria prevalentemente eventi “dai colori emotivi più accesi” rispetto ad altri eventi dai colori emotivi più sbiaditi. Per questo motivo nel processo di riconoscimento delle emozioni è importante tener conto delle emozioni del presente sapendole distinguere da quelle del passato. Alcune situazioni presenti svegliano i ricordi del passato (e le emozioni ad essi connesse) senza che ce ne rendiamo conto. Così si genera il medesimo meccanismo di evitamento suddetto. L‟evitamento emozionale non ci permette di vivere con compassione il dolore, generato dal sentimento fastidioso e finisce per amplificare e mantenere vivo il dolore stesso. Dobbiamo riconoscere che abbiamo sofferto in passato e accettare di vivere momentaneamente la nuova sofferenza, non per cambiare gli avvenimenti del passato, ma per modificare le tracce emozionali che hanno lasciato. Questo è l‟unico modo per attenuare la paura di rivivere la stessa storia. L‟uomo ha bisogno di ricordare per dare un senso alla propria vita e gettare un ponte fra passato presente e futuro ai fini una coesione dell‟Io. In altre parole senza i ricordi saremmo tanti “Io” scollegati fra loro (frammentazione) e non potremmo riconoscere un continum necessario a dare senso alle cose che facciamo. A tal proposito la musica è utilissima per evitare il senso di morte e frammentazione. La musica si fonda sulla ripetizione: funziona perché ci ricordiamo i toni appena sentiti e li colleghiamo a quelli che vengono dopo (altrimenti sentiremmo solo dei singoli suoni uno dopo l‟altro e non una canzone). Questi gruppi di toni (frasi) musicali potrebbero ritornare nel brano, in una variazione che solletica il nostro sistema mnestico e nel contempo attiva i nostri centri emozionali. Ora, i modelli di memoria a traccia multipla partono dal presupposto che il contesto venga codificato insieme alle tracce mestiche; ciò significa che anche la musica ascoltata nei vari periodi della nostra vita verrà codificata insieme agli eventi di quei periodi. Questo può essere molto utile nel ricostruire un percorso della memoria che serva a rammentarci chi siamo e come siamo arrivati dove siamo. L’importanza della relazione Abbiamo visto come, di per sé, un ascolto musicale abbia un certo effetto neurochimico sul nostro organismo al pari di alcuni farmaci IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 75 76 dopaminergici, antidepressivi. Qualcuno potrebbe obiettare che allora basta autosomministrarsi della musica (al pari di un‟aspirina) per alleviare il proprio malessere. In realtà le cose non sono così semplicistiche. È come se io prendessi dei farmaci mescolati a caso per autocurarmi da un malessere non ben precisato che si manifesta in maniera plurisintomatica. Ciò che è veramente terapeutico è la relazione e non la musica in se. Certo ognuno di noi avrà provato almeno una volta nelle proprie solitudini adolescenziali a chiudersi in camera in preda ad una soffocante malinconia e cercare sollievo in un ascolto in cuffia di un brano del nostro cantate o gruppo preferito. Ma in un quadro patologico questo non basta. La musica è il mezzo che il terapeuta utilizza al fine di instaurare una relazione col soggetto in cura, la quale relazione ha finalità terapeutica – riabilitativa. Chi si ammala fisicamente e/o mentalmente non fa altro che interrompere un processo di comunicazione sia nei confronti del mondo esterno che con se stesso. Si pregiudicano i contatti e i normali rapporti con l‟ambiente e pian piano l‟individuo raggiunge un tale isolamento da divenire straniero a sé stesso. Il soggetto malato sprofonda sempre più in una coltre di nebbia dove i processi percettivi, intellettivi ed emotivi vengono alterati. La realtà esterna diviene, spesso, qualcosa di sconosciuto e minaccioso, qualcosa che non rispecchia più il proprio mondo interiore. La musica può aiutare a dissipare questa nebbia, e facilitare l‟acquisizione e lo sviluppo della conoscenza di sé e degli altri. In psicodinamica è la qualità della relazione che rivela l‟individualità in essa. Il terapista ascolta sia la musica che viene improvvisata dal paziente sia la persona nella musica. Potremmo dire che la persona non esiste fuori dalla relazione; in tale contesto la persona “è” la musica. L’Improvvisazione strumentale Il fare musica improvvisando, all‟interno del setting musicoterapico, è per molti aspetti diverso dal fare musica di un musicista. L‟improvvisazione clinica deve tenere presente i molteplici e diversi obiettivi che si vogliono raggiungere nell‟ambito di un processo terapeutico riabilitativo. Le regole d‟improvvisazione clinica divergono da quelle di una consueta improvvisazione musicale per vari aspetti. La presenza del terapista deve essere discreta e non invadente favorendo un clima di non-giudizio e rafforzando la funzione di contenimento del setting. Qualora fosse necessario deve saper arginare o indirizzare i partecipanti del gruppo al fine di una migliore coesione dello stesso. Il terapista che suona improvvisando con il paziente deve saper ascoltare le proposte e accoglierle, rielaborandole e arricchendole per poi restituirle alla fonte di provenienza. In un ambito gruppale, il gioco di ascolti - elaborazione – rimandi diviene più complesso, in quanto il terapista deve aver un ascolto a 360° per poter cogliere le singole proposte, gli scambi le “trovate musicali” (come direbbe Delalande) di ogni partecipante al gruppo e, estemporaneamente, cercare di accogliere e rilanciare per valorizzare e facilitare la condivisione e l‟interazione degli elementi del gruppo. L‟invenzione musicale avrà particolari caratteristiche dinamiche (volume) e di agogica (accelerando, rallentando, stringendo, rubando, ritardando, etc); avrà un ritmo strutturato o casuale, stereotipato o libero. Solo ascoltando attentamente il terapista può riuscire ad agganciare i vari soggetti e interagire con loro. Il paziente che ascolta in “eco” la sua produzione musicale si sente compreso, chiamato in causa, gratificato, riconosciuto e ciò favorisce uno scarto mentale, aumentando il livello di attenzione. Il rimando al gruppo dello spunto musicale rielaborato in forma di tema favorisce la circolarità emotiva e lo scambio fra i singoli. Può accadere che nessuno abbia voglia iniziare o che non ci siano idee musicali precise, utili per la costruzione di un‟improvvisazione. Il IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 77 terapista può, in tal caso, prendere l‟iniziativa e proporre delle idee nuove strutturando l‟improvvisazione. Potrebbe offrire una struttura più sicura e continua per contenere le frasi brevi e interrotte. Potrebbe offrire una diversa modalità di suonare in risposta ad un modo di suonare rigido e ripetitivo, rispecchiando inizialmente il suo modo di suonare e provando a variarlo di poco; notando se il suo interlocutore si accorge della variazione e se è disposto a seguirlo. Potrebbe giocare sui livelli di intensità per generare tensione e distensione o potrebbe introdurre pause improvvise per “resettare” l‟attenzione del gruppo e risincronizzare i partecipanti, per poi portarli verso la nascita di una nuova idea con una dolce o improvvisa virata. L‟equilibrio tra le parti deve essere sempre mantenuto anche quando un partecipante si mostra più esuberante di altri e cerca di monopolizzare l‟andamento dell‟improvvisazione. In tal caso deve cercare di frapporsi tra lui e il resto del gruppo per provare a modulare il suo livello energetico e la sua esuberanza e agganciarlo su un piano di dialogo personale. 78 “Tema con variazioni” Una delle tecniche adottate nelle improvvisazioni di Musicoterapia è quella del “Tema con Variazioni”. Questa è una delle forme più usuali adottate nel corso della storia della musica. L'uso della tecnica della variazione risale almeno all'antica Grecia. Alcune forme d‟origine barocca, come la Passacaglia e la Ciaccona, sono esempi di architettura musicale basata in maniera essenziale sulla variazione, sotto forma di riproposizione variata di un ostinato armonico, costituito spesso da un vero e proprio basso ostinato. Nella trasformazione, manipolazione di un tema dato l‟uomo, probabilmente, rispecchia il suo bisogno di sentirsi, nel tempo, sempre sé stesso, pur mutando sempre in qualcos‟altro. All‟interno di un setting di Musicoterapia la tecnica della variazione è utilizzata secondo la teoria delle “sincronizzazioni inesatte” di Stern. Per sincronizzazioni inesatte s‟intende una risposta data, non direttamente corrispondente (sarebbe così una imitazione) alla richiesta. Se la madre risponde in tal modo ad una proposta del suo bambino, egli dovrà, per poter rispondere, riconoscere che una parte della risposta avuta è simile alla sua proposta, ma deve anche considerare la piccola variazione introdotta dalla madre, attraverso una propria elaborazione. Così nella relazione musicoterapica le sincronizzazioni inesatte introducono un elemento di variazione che può essere affrontato e rielaborato dalla mente del paziente e, a sua volta, può essere espresso ad un livello diverso, più complesso. Ecco allora che, durante un‟improvvisazione di Musicoterapia, accade che i soggetti espongano il loro “tema” mettendolo a confronto con altri temi, cercando l‟interazione con essi. Il tema subisce poi delle variazioni (attenzione, non uno stravolgimento perché è importante che il soggetto possa riconoscere il suo tema); esso viene quindi rielaborato e, in fine, ri-assunto e riconosciuto come proprio. Di solito durante un‟improvvisazione di gruppo, all‟interno del setting, nasce un‟atmosfera di distensione e divertimento che neutralizza i tentativi illusori e di fuga. Rinunciando al controllo la mente si libera delle sue paure. Ci si sente allora trascinati al centro del suono e dentro le sue origini come in un vortice, la cui forza centripeta aggregante è irresistibilmente coinvolgente. Può anche succedere che il soggetto si senta assalito da una profonda tristezza ma essa ritrova il suo spazio, in una corretta collocazione, e ci si accorge che non è qualcosa di avulso da ricacciare via, bensì solamente l‟altro lato della medaglia. Se si segue fino in fondo la propria tristezza, se la si segue sin dove essa ci vuol condurre, allora si scopre che essa ha un senso. Sono in accordo con me stesso, anche con i miei desideri inespressi, anche con la mia solitudine, anche con la mia incomprensione; la realtà esterna fa meno paura. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 79 80 Conclusioni L‟uomo è un essere conflittuale e in quanto duale è diviso interiormente e quindi è soggetto alla malattia. La malattia è vista dalla medicina attuale occidentale come un insieme di sintomi da combattere, eliminare per ridare sollievo al soggetto malato. Finché la medicina convenzionale continuerà ad affrontare la malattia solo sul piano sintomatologico trascurando la relazione globale tra corpo e psiche, dimenticandosi, in sostanza, di eliminare le cause che hanno generato la malattia, i segnali di disagio (Sintomi) troveranno un‟altra via per manifestarsi. Il sintomo è un segnale d‟allarme che ci avverte che qualcosa non va come dovrebbe. Ma se io mi limito a spegnere solo la spia di rilevazione senza occuparmi di scoprire dove si è generato il “guasto” e senza occuparmi delle cause che l‟hanno generato, non avrò risolto il problema. Nonostante l‟avanzare delle competenze in campo tecnico e medico, l‟uomo, paradossalmente, è ancora impotente di fronte alle malattie derivanti dalle grandi nevrosi del nostro secolo: depressione, cancro, Aids, anoressia e bulimia. Questo perché tali nevrosi sono figlie di un processo di disumanizzazione della società; figlie dell‟incomunicabilità, della eccessiva razionalizzazione. E‟ la perdita dell‟identità‟ personale frutto di una società edonista basata sull‟estetica e l‟apparenza, che ha dimenticato di nutrire i sogni e i miti dei propri figli lasciando che i mali, fuoriusciti dal vaso di Pandora, regnassero incontrastati senza che nessuno potesse dare un senso a tanta sofferenza. Attraverso l‟arte e la musica, in particolare, il soggetto ritrova il senso perduto del suo esistere. Egli ritrova il proprio sé nel riconoscersi, nell‟apprezzarsi, nel difendere le proprie idee e, in definitiva, nell‟amarsi. E questo sentimento d‟amore è qualcosa da ricostruire, da ritrovare perché, spesso, non si era potuto formare in un “luogo di mancanza” che viene espresso dalla mano che cerca la tua mano per potersi sentire capace, libero, attivo, sicuro e … creativo” (R. Lucioni, 2008). Attraverso la Musicoterapia, la persona, nel suo insieme mente-corpo, torna ad essere luogo dell‟immaginario ed espressione della propria creatività. La musica con il suo potere evocativo, con i suoi legami ancestrali di proto-linguaggio è in grado di metterci in contatto con le parti più arcaiche del nostro essere e ritrovare l‟ equilibrio perduto dell‟infanzia, per poter vivere e non sopravvivere, per poter conoscere le proprie paure e ritrovare una strada da percorrere, consapevoli che non tutte le strade sono un percorso. 81 RIASSUNTO È noto che oramai la Musicoterapia è da tempo inserita come strumento della riabilitazione di pazienti psichiatrici. Vorrei ora cercare di spiegare come la musica può essere utilizzata come strumento riabilitativo nel processo di cura delle malattie mentali. Il titolo della mia relazione menziona due “protagonisti”: la Memoria e i Sentimenti. Proverò qui di seguito a spiegare quale affinità e legame ci sia tra questi due elementi apparentemente così distanti tra loro, che potremmo vedere come rappresentativi l‟uno della psiche e l‟atro dell‟anima. In questo binomio si può inserire la musica, come elemento di coesione capace di parlare all‟uno o all‟altro, dell‟uno e dell‟altro e mettere in collegamento i due poli, in costante tensione tra loro. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 Vorrei cercare di spiegare come mai i ricordi sono così indispensabili per l‟essere umano e capire qual è il meccanismo che ingenera le emozioni; addentrarci per un po‟ nel campo delle neuroscienze per andare a vedere da vicino quali sono le aree del cervello adibite al controllo dei ricordi e delle emozioni, per scoprire che le stesse sono ugualmente attivate quando si ascolta e si pratica musica. PAROLE CHIAVE: memoria, emozioni, musica e musicoterapia 82 ABSTRACT It is now known that music therapy has long been included as an instrument of rehabilitation of psychiatric patients. I now try to explain how music can be used as a tool in the process of rehabilitation of mental health care. The title of my report mentions two "stars": Memory and Feelings. I will try below to explain the affinity and connection there is between these two seemingly distant from each other, we might see as a representative of the atrium of the psyche of the soul. In this combination, you can put the music as a cohesive force capable of speaking one or the other of each other and to link the two poles, in constant tension between them. How come the memories are so essential to the human being and what is the mechanism that generates the excitement? This is the question that will guide us for a while penetrating 'in the field of neuroscience to go and see for yourself how the mechanism works and what memories are sites for the control of emotions occurring in fine, that they are equally active when listening to music and practice. KEY WORDS: memories, emotions, music and clinic musictherapy BIBLIOGRAFIA Alvin J. (1979) La musica come terapia, Armando Editore, Roma. Barembhoim D. 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Verso una tecnica di interventi specifici Pagg. 452 Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2008 Questo libro di Hugo Bleichmar rappresenta una sintesi delle riflessioni che l‟Autore aveva proposto in scritti precedenti8, che possono essere visti come piccole tessere qui raccolte per comporre un unico e policromo mosaico rappresentante il percorso psicoanalitico (Borgogno, 1999) da lui compiuto. L‟Autore è psichiatra e psicoterapeuta, professore all‟Università Pontificia Comillas (Madrid), membro associato della Asociacion Psicoanalitica Argentina (IPA) e presidente della Sociedad Forum de Psicoterapia Psicoanalitica. Sin dall‟introduzione si coglie la forza innovativa di questo testo; viene proposto un confronto tra due tendenze adottate nell‟affrontare lo studio dell‟inconscio: la dottrina speculativa e il modello modularetrasformazionale, quest‟ultima fondamentale per riflettere sui pazienti con una particolare attenzione alla loro soggettività. All‟interno della prima, Bleichmar mette in luce tre aspetti: il pensiero semplificante, ovvero la volontà di descrivere la complessità partendo da categorie con elevato Psicologo, specializzando in Psicoterapia Psicoanalitica dell‟Adolescente e del Giovane Adulto (ARPAd Minotauro, Milano). Collabora con il Dipartimento di Psicologia dell‟Università degli Studi di Torino, svolge attività di orientamento scolastico e di consulenza psicologica con bambini e adolescenti presso il Centro di Psicologia COSPES di Novara 8 Ad esempio cfr. Bleichmar, 1981, 1990, 1994a, 1994b, 1996, 1999. 7 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 89 90 livello d‟astrazione, che trascurano però la peculiarità soggettiva del singolo paziente; l‟unificazione categoriale forzata, intesa come la conversione delle categorie psichiatriche in entità omogenee; la personificazione, secondo la quale le categorie psicopatologiche vengono associate alle persone “in modo tale che si possa parlare dell‟isterico, del depresso, dell‟anoressica o del borderline” (pag. 19). In contrapposizione a questa tendenza viene proposto il modello modularetrasformazionale, che consiste nel considerare lo psichismo come un insieme di dimensioni e parametri analitici capaci di descrivere i molteplici sistemi motivazionali che, componendosi, danno origine all‟attività psichica. Una trattazione più estesa di questa tendenza è offerta all‟interno del primo capitolo, nel quale l‟Autore presenta anche un‟esemplificazione rispetto ai sottotipi della depressione. Inizialmente Bleichmar propone i diversi percorsi di ingresso alla depressione: l‟aggressività, il senso di colpa, i disturbi narcisistici, le angosce persecutorie e l‟identificazione. Ciascuno di questi percorsi può condurre alla depressione in maniera autonoma oppure articolandosi con un altro. Diventa quindi necessario, per uno studio sulla depressione, definire le caratteristiche di base dei disturbi depressivi, stabilire quali sono i processi che ne costituiscono il nucleo e, infine, comprendere le modalità di articolazione sottostanti ai vari sottotipi. L‟Autore fa riferimento a una paziente che, mossa da un‟ostilità radicata in un narcisismo patologico, attaccava il marito per denigrarlo e trasformarlo in un oggetto interno privo di valore; questa svalorizzazione generava in lei il pensiero di aver fallito nella propria vita a causa di una scelta errata che la teneva legata a una relazione insoddisfacente. È quindi l‟aggressività narcisistica contro l‟oggetto d‟amore che conduce la paziente alla perdita dello stesso come oggetto di valore e conseguentemente all‟autosvalutazione e alla depressione. In questa esemplificazione si può leggere l‟obiettivo che il libro si prospetta: decostruire le categorie psicopatologiche focalizzando l‟attenzione sui sottotipi, sui percorsi psicogenetici e sulle dimensioni a essi soggiacenti, e pianificare interventi terapeutici modificando, così, le componenti delle diverse configurazioni psicopatologiche e di personalità. Questo approccio allo studio della psicopatologia viene affrontato in riferimento al masochismo (Cap. II), al rimosso (Cap. III), all‟inconscio (Cap. IV), all‟aggressività (Cap. V), ai disturbi narcisistici (Cap. VI), al Super-io (Cap. VII) e al lutto patologico (Cap. VIII). Per facilitare la comprensione di queste decostruzioni effettuate sulle categorie psicopatologiche, esse vengono graficamente rappresentate in alcuni diagrammi. A completamento dei temi esposti, l‟ultimo capitolo (Cap. IX) offre un‟analisi dei sistemi emozionali che, precedentemente, sono stati affrontati nel loro articolarsi e trasformarsi per dare origine a configurazioni psicopatologiche complessive, come la depressione, il masochismo, ecc. Questi sistemi emozionali sono affrontati nella loro unicità a partire dai sistemi motivazionali sensuale-sessuale, narcisistico, dell‟attaccamento e dell‟evitazione del dispiacere-dolore. Dal momento che essi non esauriscono la lista dei moduli che compongono lo psichismo, l‟AUTORE li scompone nelle loro singole componenti, che vengono poi poste in relazione alle tre configurazioni dell‟Io, dell‟Es e del Superio. Particolarmente stimolante è il tema affrontato a conclusione del capitolo IX, ovvero il rischio di lavorare alla periferia della patologia: Bleichmar afferma che “il terapeuta deve muoversi tra la microscopia della sequenza in seduta e la macroscopia della percezione del paziente nei grandi movimenti che scandiscono la sua vita” (pag. 398). Per questa ragione l‟Autore mette in evidenza tre importanti caratteristiche del lavoro terapeutico: la pertinenza dell‟area di intervento, intesa come la coerenza tra intervento terapeutico e le esigenze di cambiamento del paziente; la rilevanza, ovvero il fatto che l‟intervento deve occupare una posizione di rilievo rispetto agli obiettivi prefissati e alla vita mentale e interpersonale del paziente; l‟articolazione, secondo cui ogni condotta, fantasia, sottostruttura di personalità deve essere pensata nell‟articolazione con le altre componenti (come ad es. il legame tra narcisismo e aggressività; aggressività e angoscia di separazione, ecc.). IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 91 92 Inoltre l‟Autore suggerisce una distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia focale fondata sul fuoco di osservazione: nella psicoanalisi il fuoco deve essere pertinente, rilevante e flessibilmente mobile, seguendo ciò che nel trattamento emerge; per converso, nella psicoterapia focale il fuoco, per ragioni pratiche di tempo, si mantiene stabile per l‟intera durate della terapia tralasciando tutto ciò che porta ad allontanarsi da esso. Ad arricchire maggiormente il volume vi sono infine due appendici: una intitolata “Una guida alla presentazione del materiale clinico in supervisione”, l‟altra “Per una psicoanalisi dei motivi dell‟adesione a modelli riduzionisti”. In quest‟ultima è presente una riflessione molto importante, che mette in luce il nuovo respiro di apertura offerto da questo testo: Bleichmar definisce i sistemi semplificanti lucchetti ideologici, sottolineando come essi dettino regole che diventano assunti indiscutibili. Questi lucchetti, che chiudono il sistema ogni qual volta esso viene messo in discussione, secondo l‟Autore, potrebbero quindi operare anche nei confronti delle tesi proposte nel libro, bloccando la forza generativa insita nelle riflessioni sul modello modularetrasformazionale. In altre parole, se il lettore rimane barricato all‟interno degli insegnamenti appresi nella propria scuola, i modelli complessi esposti potrebbero rimanere delle semplici nozioni che non influenzano il modo di pensare e di vivere il rapporto con il paziente. Da quanto sopra espresso, è possibile affermare che la lettura di questo libro costituisce uno stimolo a riflettere sulla psicopatologia del paziente inteso nella sua singolarità. Il pensiero di Bleichmar sembra pertanto ben collocarsi all‟interno dell‟attuale riaccendersi del dibattito sulla diagnosi e sulla psicopatologia scaturito intorno al Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM Task Force 2006), manuale che offre una valutazione multiassiale, multidimensionale e prototipica prendendo in considerazione le sindromi cliniche, l‟esperienza soggettiva del paziente, il suo profilo del funzionamento mentale e il suo stile di personalità. In linea con quanto espresso da lui, questo manuale permette dunque al terapeuta di effettuare una riflessione sulla psicopatologia del paziente osservando le singole funzioni e il profilo globale; riflessione che può essere guidata da logiche che costituiscono il ragionamento clinico (Albasi 2009). L‟approccio del PDM (PDM Task Force 2006) si anteporrebbe in sostanza al modo riduzionista del DSM di intendere la psicopatologia, modo criticato da Bleichmar in più punti di questo testo. Ricordiamo, infatti, come l‟Autore, all‟interno del suo modello modulare-trasformazionale, intenda lo psichismo come “sistema di integrazione modulare e di trasformazioni (…) capace di superare sia l‟atomismo delle funzioni sia la generalizzazione basata su un ridotto numero di categorie da cui si deducono tutte le rimanenti” (pag. 356). 93 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 BIBLIOGRAFIA 94 ALBASI C. (2009): Psicopatologia e ragionamento clinico. Raffaello Cortina, Milano. BLEICHMAR H. (1981): El narcisismo. Estudio sobre la enunciación y la gramática incosciente. Nueva Visión, Buenos Aires. BLEICHMAR H. (1990): Respuesta al reduccionismo en psicopatología: un modelo generativo de articulación de componentes. Actualidad Psicológica, 170, pp. 2-6. BLEICHMAR H. (1994a): Aportes para una reformulación de la teoría de la cura en psicoanálisis : ampliación de la conciencia, modificación del incosciente. Revista Argentina de Psicología, XXV (44), pp. 23-44. BLEICHMAR H. (1994b): La estructuración del superyó y su transformación terapéutica. Zona Erógena, 24, p. 4. BLEICHMAR H. (1996): Some subtypes of depression and their implications for psychoanalytic therapy. International Journal of Psycho-Analysis, 77, pp. 935-961. BLEICHMAR H. (1999): “Stadi molteplici dell'inconscio (il non costituito, il rimosso e la Untergang freudiana) e loro conseguenze nel trattamento analitico”. In F. BORGOGNO, La partecipazione affettiva dell‟analista, Franco Angeli, Milano 1999. BORGOGNO F. (1999): Psicoanalisi come percorso. Bollati Boringhieri, Torino. PDM TASK FORCE (2006): Manuale Diagnostico Psicodinamico, (a cura di DEL CORNO F., LINGIARDI V.) Raffaello Cortina, Milano 2008. Caro Lettore, lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria. A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad un arricchimento dei temi trattati. La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale. Note per gli Autori 1. Nel proporre il proprio scritto alla Segreteria Scientifica e di Redazione, l’Autore dovrà specificare che si tratta di un lavoro inedito e che intende pubblicarlo esclusivamente sulla rivista “Il Vaso di Pandora”. 2. Preferibilmente, l’elaborato proposto dovrà essere inviato tramite mail come file di WORD allegato agli indirizzi di posta elettronica: [email protected] e [email protected] Qualora ciò non fosse possibile, l’Autore potrà inviare il file WORD, salvato su CD, al seguente recapito: Segreteria de “Il Vaso di Pandora”, Piazza Mameli 5/7 – 17100 Savona (SV), all’attenzione del Dott.ssa Antonella Ferro. 96 3. Ogni testo dovrà essere accompagnato da: Nome e Cognome per esteso degli Autori; una breve nota biografica relativa ad ognuno (la Segreteria si fa carico di omettere questi dati dalle copie che invia ai referee per la valutazione); almeno un indirizzo postale a cui i lettori possano inviare eventuali loro comunicazioni agli autori, un indirizzo di posta elettronica e un numero di telefono per eventuali comunicazioni della Segreteria; titolo in italiano ed inglese; alcune parole chiave in Italiano ed Inglese; un breve riassunto in Italiano ed Inglese; 4. Qualora l’elaborato si sia ispirato ad una relazione presentata ad un Convegno (è questo il caso degli “estratti”), dovrà comunque essere accompagnato da un breve riassunto, sia in Italiano che in Inglese e dalle parole chiave. 5. Le note dovranno essere ridotte al minimo e numerate progressivamente. 6. Le citazioni, accuratamente controllate, dovranno apparire tra virgolette doppie (anche le virgolette usate per fini diversi dalla citazione dovranno essere doppie). I corsivi originali dovranno essere sottolineati (o meglio riportati in corsivo); i corsivi aggiunti dovranno essere indicati tra parentesi con: (corsivo aggiunto), oppure (sottolineatura mia). Ogni aggiunta dell’Autore dell’articolo dovrà essere posta in parentesi quadra; per esempio. “egli [S. Freud] intendeva”. Le omissioni nel testo verranno segnalate nel seguente modo: (…). Parole o frasi in lingua diversa dall’italiano saranno senza virgolette, ma sottolineate (o scritte in corsivo) e seguite, nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota. 7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due: (Racamier et al. 1981, p.184). 8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale. 9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere unicamente gli Autori citati nello scritto. La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello: - Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford. Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in originale. La data della traduzione va in fondo. Es.: - Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983. Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere: - Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19. - Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19. Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore singolo. La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello: - Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977. Oppure, quando l’Autore è lo stesso: - Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°1, 2011 97 La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello: - Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162-168. 10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda esplicativa. La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione. 98