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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI
MILANO-BICOCCA
FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELL’EDUCAZIONE
______________________________________________________________________
"IL DOLORE MERAVIGLIOSO" :
PROBLEMATICHE PSICOLOGICHE DELL’ADOZIONE.
L’ESPERIENZA ADOTTIVA NELLA PRIMA E SECONDA
INFANZIA
Relatore: dott.ssa Carla ANTONIOTTI
Correlatore: prof.ssa Ottavia ALBANESE
Tesi di laurea di:
Elena SPOSITO
Matricola:
026175
ANNO ACCADEMICO 2002/2003
TD vers. 1
Indice del documento
1 PREFAZIONE................................................................................................................................. 6
2 INTRODUZIONE............................................................................................................................ 7
3 CAP. I - L’ADOZIONE: IL DIRITTO AD UNA FAMIGLIA SOSTITUTIVA......................................10
3.1 PROCREAZIONE E FILIAZIONE....................................................................................10
3.2 PROFILO STORICO DELL’ADOZIONE E ITER NORMATIVO......................................10
3.3 LA NUOVA LEGGE SULL’ADOZIONE DEI MINORI ITALIANI E STRANIERI: LE
PRINCIPALI NORME.................................................................................................... 13
3.4 CRITICHE ALLE NUOVE DISPOSIZIONI LEGISLATIVE ..............................................14
3.5 LA CONVENZIONE DE L’ AJA.......................................................................................15
3.6 GLI ENTI AUTORIZZATI................................................................................................. 15
3.7 VALUTAZIONE DELLA COPPIA....................................................................................16
3.8 L’AFFIDAMENTO PREADOTTIVO.................................................................................17
3.9 RISCHIO GIURIDICO..................................................................................................... 17
3.10 L’ADOZIONE DIFFICILE............................................................................................... 18
4 CAP. II - LA SITUAZIONE PSICOLOGICA DEL BAMBINO ADOTTATO.....................................20
4.1 ATTACCAMENTO E ADOZIONE...................................................................................20
4.1.1 La teoria dell’attaccamento...................................................................................20
4.1.2 Regolazione diadica delle emozioni: sviluppo del legame d’attaccamento...........21
4.1.3 Fornire una base sicura........................................................................................ 22
4.1.4 Problemi di comportamento d’attaccamento ........................................................24
4.1.5 La grande sofferenza emotiva: il lutto infantile......................................................24
4.1.6 Le conseguenze negative del ricovero in istituto ..................................................26
4.2 IL BAMBINO DA ZERO A TRE ANNI..............................................................................28
4.2.1 Separazione e nascita..........................................................................................28
4.2.2 Ambiente ed ereditarietà.......................................................................................28
4.2.3 Bisogno di nutrimento e di affetto..........................................................................29
4.2.4 Controllo sfinterico e smarrimento nel sonno........................................................29
4.2.5 La rappresentazione mentale...............................................................................30
4.2.6 Il senso di sè........................................................................................................ 31
4.2.7 L’importanza del dialogo.......................................................................................32
4.3 IL BAMBINO DA TRE A SEI ANNI..................................................................................34
4.3.1 L’autonomia: sviluppo motorio e verbale...............................................................34
4.3.2 Lo sviluppo sociale................................................................................................34
4.3.3 I perché................................................................................................................. 36
4.3.4 L’ansia e la paura del bambino............................................................................36
5 RACCONTARE L’ADOZIONE: I LIBRI PER L’INFANZIA.............................................................39
6 CAP. IV - STORIE DI VITA: UN’INDAGINE QUALITATIVA.........................................................44
6.1 PREMESSA METODOLOGICA......................................................................................44
6.2 ANALISI DEI DATI.......................................................................................................... 46
6.2.1 SEZIONE GENERALE..........................................................................................46
6.3 MOTIVAZIONI, INFORMAZIONI E CANALI....................................................................52
6.4 ADATTAMENTO: RAPPORTO GENITORI-FIGLIO........................................................56
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6.5 STATO ADOTTIVO ED ORIGINI....................................................................................61
7 CONCLUSIONE........................................................................................................................... 68
8 APPENDICI.................................................................................................................................. 70
8.1 Appendice A - A.N.F.A.A: UN’ASSOCIAZIONE A TUTELA DEI MINORI.......................70
8.2 Appendice B - N.A.A.A: ENTE AUTORIZZATO ALL’ADOZIONE INTERNAZIONALE. . .70
9 BIBLIOGRAFIA............................................................................................................................. 72
10 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA DEI LIBRI PER L’INFANZIA......................................................77
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A Rupa... Per ringraziarla della sua presenza...
«Se potessi nel cuore del bambino
avere un posto
in quel nido certo
vedrei più cose
che non in tutto l’universo»
(Tagore, 1979)
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Giunta alla fine di questo percorso desidero ringraziare molte persone...
La mia relatrice, la dott.ssa Carla Antoniotti, per aver creduto nel mio lavoro e per avermi sostenuta
con la sua presenza, attenzione e grande disponibilità.
La mia correlatrice, la prof.ssa Ottavia Albanese per il suo incoraggiamento.
Le psicologhe dell’associazione N.A.A.A di Torino: Cinzia Fabrocini, Daniela Onorato, Irene Pavese e
la responsabile dell’associazione A.N.F.A.A di Milano: Maria Grazia Floridi, per avermi permesso di
seguire un percorso di formazione rivolto ai genitori adottivi e per avermi fatto accedere alla
biblioteca. In particolare ringrazio Irene Pavese per avermi dimostrato la sua disponibilità,
comprensione, pazienza e amicizia.
Ringrazio tutti i genitori adottivi che hanno risposto alla mia intervista, poiché grazie alla loro
testimonianza mi hanno permesso di comprendere con maggiore profondità l’esperienza adottiva.
Ringrazio specialmente: Lorenza Tosato per avermi sostenuta, incoraggiata e aiutata lungo tutto il mio
percorso e soprattutto per avermi fatto comprendere quanto sia forte e potente l’amore che si può
provare per un "bambino/a nato/a da altri"; Carla Magrone per i suoi consigli e suggerimenti, Enzo
Contini per aver inserito sul suo sito internet la mia intervista, Anna Genni Miliotti per avermi chiesto di
partecipare e di raccontare la mia esperienza ad un convegno sull’adozione al Ce. S.A di Firenze
(Centro, sostegno, aiuto per l’infanzia).
Ringrazio i miei genitori per avermi fatta crescere in un ambiente sereno, colmo di fiducia e d’amore...
Per essere stati nella mia vita un "porto sicuro" nel quale potermi sempre rifugiare. Ringrazio mia
sorella Laura per avermi appoggiata con tutto il suo affetto; con una dedizione che solo una sorella ti
può donare.
Ringrazio la presenza dei miei cari che da lassù hanno sempre vegliato su di me...
Infine, ringrazio tutti i miei "compagni di viaggio", i miei meravigliosi amici dell’università: Mariateresa,
Claudia, Ilaria, Roberta, Silvia ecc. che con la loro allegria e "desiderio di farcela" mi hanno
incoraggiata nei momenti più difficili. Ma soprattutto ringrazio Gianfelice per il sostegno e l’appoggio
reciproco che ci siamo donati in questi anni, per avermi trasmesso la sua passione nello studio e nel
lavoro e soprattutto per avermi tenuta per mano fino alla fine di questo percorso incominciato insieme.
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PREFAZIONE
Il titolo della mia tesi nasce dalla lettura dell’omonimo libro: "Il dolore meraviglioso" di Boris
Cyrulnik (1999), un saggio provocatorio che utilizza l’ossimoro per mostrare il contrasto presente nella
vita di una persona che, se da una parte soffre per un grande dolore, dall’altra si prepara a
raccogliere con energia tutto ciò che le può dare un pò di felicità e di forza di vivere.
L’ossimoro diventa tipico di una persona ferita ma resistente, sofferente ma felice di sperare
comunque. Ciascun termine "dolore-meraviglioso" sottolinea l’altro e il contrasto ne chiarisce il
significato. Le parole usate caratterizzano, quindi, il modo di osservare e di comprendere il mistero di
chi ha superato un trauma.
Non esiste un dolore meraviglioso, ma si prova meraviglia quando un bambino riesce a
superare un’indicibile sofferenza come quella dell’abbandono e a trasformarla in un’opportunità di
crescita.
Per comprendere il mistero di chi riesce a superare un trauma, Cyrulnik ricorre alla "resilienza".
Il termine è stato coniato in fisica per descrivere l’attitudine di un corpo a resistere ad un urto. Tale
termine è stato poi mutuato delle scienze sociali per indicare la capacità di riuscire, di vivere e di
svilupparsi positivamente, in maniera socialmente accettabile, nonostante lo stress o un evento
traumatico che generalmente comportano il grave rischio di un esito negativo (Vanistendael, 1996).
John Bowlby, uno dei padri fondatori della teoria dell’attaccamento, è morto sperando che
fossero avviati studi sulla resilienza. La psicologia, secondo lo psicanalista inglese, è basata sul
concetto aprioristico implicito che sembra suggerire: "Più la vita è dura, maggiori sono le possibilità di
cadere in depressione" (Bowlby, 1992). In realtà, per Bowlby: ˝Più la vita è dura, maggiori sono le
possibilità di accorgersene˝ (Bowlby, 1992), quindi, sofferenza e tristezza non sono necessariamente i
sintomi di una depressione. Se si riesce a tramutare l’infelicità in racconto, si riesce a dare un senso
alle sofferenze, si capisce, a distanza di tempo, come si è riusciti a tramutare il dolore in meraviglia e
a superare le cicatrici del passato.
Il resiliente non può sfuggire all’ossimoro (mondo interiore dei vincitori feriti) e Cyrulnik ricorre
ad una splendida immagine per rappresentarne l’emblema: un’ostrica disturbata da un granellino di
sabbia, per reazione produce qualcosa di infinitamente più bello e resistente: la perla. La reazione
difensiva crea un gioiello duro, brillante e prezioso.
Ma la resilienza non deve essere ricercata soltanto all’interno della persona, ma nel rapporto
con l’altro, perché la resilienza è un intreccio continuo fra divenire interiore e divenire sociale.
Il bambino che ha sperimentato l’abbandono e la coppia che ha scoperto di non poter procreare
hanno vissuto un grande dolore, un salto nel vuoto, una caduta nel nulla: la perdita delle certezze
fondamentali nella loro vita. Il loro dolore diventerà meraviglioso soltanto se decideranno di "adottarsi
reciprocamente" e scoprire la gioia di sentirsi parte di una famiglia.
Credo, quindi, che l’adozione possa essere considerata una madre-perla, proprio perché
rappresenta la sorprendente testimonianza del risultato dell’elaborazione interiore di un nuovo modo
di affrontare la vita e di trasformare il dolore in meraviglia.
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INTRODUZIONE
Il presente lavoro nasce nell’intento di fare luce sul fenomeno dell’adozione nazionale ed
internazionale, poiché l’adozione è una realtà che troppo spesso rimane nelle zone d’ombra e viene
considerata come un surrogato della genitorialità biologica.
Mi sono avvicinata all’adozione grazie alla conoscenza d’alcune famiglie che hanno adottato
con adozione nazionale ed internazionale.
La possibilità di avere contatti con loro mi ha permesso di comprendere cosa sia veramente
l’adozione: un cammino lento e faticoso, sofferto ma felice, che se viene affrontato con perseveranza,
costanza, tenacia, porta al raggiungimento del sogno di creare una famiglia.
Ho scelto di trattare gli aspetti psicologici dell’adozione mossa dal desiderio di contribuire ad
approfondire le dinamiche che si vengono strutturando nel nucleo familiare adottivo, per trasformare i
problemi in risorse e i vincoli in possibilità.
Il mio obiettivo è quello di provare a cambiare lo sguardo sulla sofferenza, per renderlo capace
di cogliere la meraviglia, in quanto essa risiede nella completa accettazione dell’altro e nella reciproca
adozione da parte di genitori e figli.
La tesi si articola in quattro capitoli a loro volta suddivisi in varie parti:
Nel primo capitolo ho esposto brevemente il profilo storico dell’adozione ed esposto il quadro
legislativo partendo dalla legge del 5 giugno 1967 n. 431 e proseguendo con la legge 4 maggio 1983:
"Diritto del minore ad una famiglia". Se si parte dal bambino, tutto il percorso verso l’adozione e la
costruzione della nuova famiglia, prendono una strada diversa rispetto a quella seguita in passato:
non ci si basa più sulle aspettative e i desideri degli adulti, ma al centro di tutto si viene a porre il
bambino, i suoi bisogni e le sue esigenze di vivere in una famiglia.
In seguito ho affrontato la nuova legge sull’adozione: 28 marzo 2001, evidenziando le modifiche
apportate alla legge 4 maggio 1983 e le critiche mosse dall’associazione A.N.F.A.A (Associazione,
Nazionale Famiglie, Adottive, Affidatarie), per i nodi problematici che tale legge lascia irrisolti.
Ho poi trattato in materia d’adozione internazionale la Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993
e la ratifica ad essa apportata con la legge 476/98 che ha reso obbligatorio l’intervento degli Enti
autorizzati in tutte le procedure d’adozione internazionale. Gli Enti informano, formano e affiancano i
futuri genitori adottivi nel percorso dell’adozione internazionale e curano lo svolgimento all’estero delle
procedure necessarie per realizzare l’adozione.
È fondamentale rendere consapevoli le persone che intendono adottare d’essere "portatrici di
un servizio", di dover essere disponibili ad accogliere un bambino in difficoltà e non di voler
rivendicare un diritto: "Abbiamo diritto ad un figlio". Ciò significa che la fase di richiesta da parte della
coppia al Tribunale per i Minorenni gioca un ruolo importante al momento dell’abbinamento, poiché
non si attua un’adozione per dare un figlio ad una coppia, ma per dare ad un bambino dei genitori. Di
qui l’importanza della valutazione della coppia, dell’affidamento preadottivo per rispondere alla
necessità del Tribunale di comprendere se la famiglia è adatta ad accogliere e far crescere il
bambino.
In ultima analisi ho affrontato il rischio giuridico dell’adozione nazionale e preso in
considerazione l’adozione definita "difficile".
Nel rischio giuridico c’è appunto il rischio che l’adozione non possa andare a buon fine, quando
i genitori biologici o parenti prossimi, ricorrono contro il provvedimento del Tribunale per riavere il
minore.
Con l’adozione difficile si tratta di considerare la disponibilità ad accogliere bambini grandicelli o
con gravi problemi di handicap. Di per sè tale adozione sarebbe molto facile e con una tempistica
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molto breve, ma viene definita difficile, in quanto è davvero raro trovare delle coppie o famiglie
desiderose d’accogliere questi bambini.
Nel secondo capitolo ho affrontato il significato che l’esperienza adottiva assume per lo
sviluppo del minore analizzandola a partire dallo stato d’abbandono e di separazione precoce e come
queste esperienze influiscono sulla relazione con i nuovi genitori adottivi.
Ho suddiviso il capitolo in tre parti. Nella prima parte ho affrontato il tema della teoria
dell’attaccamento: nascita e sviluppo del legame d’attaccamento, comportamento d’attaccamento e
sofferenza del bambino per la perdita del rapporto primario.
Nella seconda e terza parte ho descritto, in linea generale, i passaggi psicoevolutivi più
importanti dagli 0 ai 6 anni, per riflettere e valutare, volta per volta, le diverse situazioni psicologiche
del bambino adottato.
Il rapporto con la nuova famiglia rappresenta per il bambino un momento delicato che
attraversa: chiusure, rifiuti, aggressività e paure... I genitori devono imparare ad accettare, conoscere,
accogliere il bambino rispettando il suo sviluppo psico-fisico, privilegiando il dialogo aperto. Quando
un genitore comprende cosa l’adozione può rappresentare per il bambino, allora, diventa più
consapevole e preparato ad interagire in modo efficace durante i diversi stadi dello sviluppo: guarderà
il mondo attraverso gli occhi dell’adottato per capire come esso vive la propria condizione. Per il
bambino, infatti, l’adozione diviene l’occasione di poter riprendere il cammino della crescita all’interno
di un "sistema diverso".
Il terzo capitolo è diviso in tre parti.
Nelle prime due ho esposto i contenuti appresi nei corsi di preparazione all’adozione, rivolti agli
aspiranti genitori adottivi presso l’Ente morale A.N.F.A.A di Milano e l’Ente autorizzato per le adozioni
internazionali N.A.A.A (Nucleo Assistenza Adozione e Affido-Onlus) di Torino.
Le coppie che desiderano adottare necessitano di essere preparate e seguite da persone
specializzate, per individuare gli strumenti utili per affrontare le situazioni problematiche che si
troveranno a vivere con l’inserimento del bambino all’interno del nuovo nucleo familiare. Durante i
corsi di formazione è stato dato rilievo alla situazione emozionale del bambino abbandonato e dei suoi
futuri genitori prima, durante e dopo il loro incontro e al tentativo d’adattamento reciproco del primo
periodo.
Presso l’ente N.A.A.A nel corso: "Il puzzle dell’adozione" vengono affrontate le problematiche
delle "tre D dell’adozione: diversità, dolore, differenza" e analizzata la "realtà adottiva" così come essa
si presenta nello scenario adottivo.
Presso l’associazione A.N.F.A.A nel corso: "Adozione e informazione" viene considerato il
compito principale dei genitori che è quello di raccontare il percorso dell’adozione in modo da
permettere al bambino di riconoscersi, di integrare il passato con il presente; in modo che anche gli
eventi più complessi possano essere accolti e formare un pezzo della storia personale. (Per
informazioni generali su tali associazioni vedere l’appendice A e B).
Nella terza parte del capitolo ho analizzato il modo attraverso il quale iniziare a spiegare o
meglio "raccontare" l’adozione ai bambini.
Ho, quindi, esposto il contenuto di alcuni libri scritti per bambini della prima e seconda infanzia,
sottolineando la loro importanza come primo approccio all’informazione sulle proprie origini e sulla
propria storia.
Il quarto capitolo riporta l’analisi qualitativa di un’indagine da me condotta tramite un
questionario a domande aperte sottoposto alla compilazione di genitori che hanno adottato, mediante
adozione nazionale e internazionale, bambini che al momento dell’adozione avevano un’età
compresa tra 0 e 6 anni.
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Questa modalità è stata pensata per “dare voce” ai genitori adottivi, per capire come essi hanno
valutato la loro esperienza adottiva, la relazione con il bambino e il rapporto con i servizi socioassistenziali.
L’esperienza adottiva non si esaurisce nel rapporto tra genitori e figlio ma coinvolge anche
quelle persone che quotidianamente hanno rapporti ravvicinati con il bambino e che, in qualche modo,
fanno parte del suo mondo. Basta pensare ai nonni/e, parenti, maestre/i o a quelle persone che
trascorrono un tempo significativo con il bambino e riescono ad instaurare con lui un legame
profondo. Io rappresento una di queste persone, in quanto lavoro da quasi tre anni come baby-sitter
presso una famiglia che ha adottato una bambina nata in Nepal e che attualmente ha quattro anni.
Ho pensato che fosse utile inserire nella tesi (appendice F), anche il mio diario che ho
presentato all’esame di Pedagogia Interculturale: "Un anno con Rupa: memoria, identità e simbolo",
basato sull’osservazione dei comportamenti della bambina durante il suo primo anno di inserimento
nella famiglia adottiva.
Nelle mie descrizioni mi sono soffermata soprattutto sugli oggetti, luoghi ed eventi di memoria
che ricordano alla piccola le sue origini o che hanno una valenza significativa nella sua nuova
famiglia. Gli oggetti, infatti, sono investiti di un significato "totale" che consente di evocare il senso di
appartenenza e di condivisione all’interno di un gruppo; in questo caso della famiglia (Giusti, 1996).
Osservando con attenzione i piccoli gesti e ascoltando le semplici parole della bambina, ho
compreso il suo bisogno di sentirsi parte della nuova famiglia, di essere accettata con il suo passato,
le sue origini e con i suoi ricordi...
La mia esperienza rappresenta una "voce esterna" alla triade familiare, ma anche una "voce
interna" all’esperienza adottiva, in quanto è vissuta con partecipazione e coinvolgimento. Credo che
l’adozione sia un cammino complicato e faticoso ma che racchiude in sè la ricchezza di un’esperienza
di vita autentica, in quanto permette ad un bambino lasciato solo e ad una coppia di incontrarsi, di
crescere insieme e di trasformare il loro dolore in meraviglia.
Infine, mi è sembrato utile raccogliere il maggior numero di opere inerenti al fenomeno adottivo,
anche dal punto di vista dei libri rivolti all’infanzia, per creare una bibliografia il più possibile completa
sull’argomento.
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CAP. I - L’ADOZIONE: IL DIRITTO AD UNA FAMIGLIA
SOSTITUTIVA
3.1 PROCREAZIONE E FILIAZIONE
Cos’è l’adozione? L’adozione è la modalità con cui si diventa madre o padre di un figlio non
procreato (Perico, Santanera, 1968).
La procreazione è un fatto unilaterale che coinvolge solo gli adulti, mentre la filiazione, mette al
centro il bambino, che diviene il vero protagonista. L’ambiente in cui vive e il calore affettivo che lo
circondano hanno un ruolo determinante sul suo sviluppo.
Recentemente Papa Giovanni Paolo II ha sostenuto a questo proposito, il 5 settembre 2000,
che «Adottare dei bambini, sentendoli e trattandoli come veri figli, significa riconoscere che il rapporto
tra genitori e figli non si misura solo sui parametri genetici. L’amore che genera è innanzitutto dono di
sé. C’è una “generazione” che avviene attraverso l’accoglienza, la premura, la dedizione. Il rapporto
che ne scaturisce è così intimo e duraturo, da non essere per nulla inferiore a quello fondato
sull’appartenenza biologica. Quando esso, come nell’adozione, è anche giuridicamente tutelato, in
una famiglia stabilmente legata dal vincolo matrimoniale, esso assicura al bambino quel clima sereno
e quell’affetto, insieme paterno e materno, di cui egli ha bisogno per il suo pieno sviluppo umano.
Proprio questo emerge dalla vostra esperienza. La vostra scelta e il vostro impegno sono un invito al
coraggio e alla generosità per tutta la società, perché questo dono sia sempre più stimato, favorito e
anche legalmente sostenuto».
L’adozione dei minori in situazione di privazione di cure materiali e morali da parte dei genitori
va, pertanto, considerata una seconda nascita che non annulla la prima, ma non ne conserva alcun
legame giuridico. Non si tratta di cancellare i ricordi relativi alla loro storia personale. Occorre, invece,
aiutare questi minori, soprattutto se adottati grandicelli, a rimarginare le ferite subite, quasi sempre
assai gravi. (A.N.F.A.A, 2003)
3.2 PROFILO STORICO DELL’ADOZIONE E ITER NORMATIVO
L’adozione esiste dai tempi dell’antica Roma, ma aveva caratteristiche ben diverse da quelle
che conosciamo oggi. Il figlio, filiusfamilias, poteva essere venduto senza il suo consenso, dal padre,
paterfamilias, ad un altro paterfamilias acquistando così lo status di figlio di quest’ultimo con diritti e
doveri pari a quelli degli altri paterfamilias di sangue. L’adozione, pertanto, creava un distacco totale
dalla famiglia d’ origine di cui l’adottato perdeva il nome e ogni diritto successorio.
Con Napoleone l’istituto dell’adozione fu proibito. Napoleone riteneva che adottare un bambino
fosse pericoloso per l’integrità della famiglia legittima. Il rischio era quello di fare entrare in casa un
figlio illegittimo, diminuendo in tal modo la quota ereditaria dei figli nati dal matrimonio. Soltanto chi
non aveva figli poteva adottare, ma non doveva avere meno di 50 anni e l’adottato non meno di 18. Si
trattava, quindi, di un’adozione tra adulti, nella quale ciascuno valutava i vantaggi e la convenienza.
Il codice civile di Napoleone ha influenzato fortemente anche la legge in Italia; il codice civile
del Regno, promulgato da Vittorio Emanuele nel 1865, in vigore dal 1866, stabiliva nell’articolo 206: "Il
minore non può essere adottato se non ha compiuta l’età di anni diciotto". Nel caso di guerre o gravi
disastri naturali, per esempio il terremoto di Messina, veniva derogato il divieto di consentire
l’accoglienza di numerosi orfani.
Il codice del 1865 è rimasto in vigore fino al 1940, quando fu promulgato il codice civile, che
consentiva l’adozione di bambini e sanciva che il consenso dell’adottando doveva essere dato in sua
vece da un genitore. Era, quindi, ancora un’adozione patrizia basata sull’accordo di due adulti:
l’adottante ed il genitore del bambino d’adottare. L’adottante non doveva essere necessariamente
sposato, in quanto l’adozione era considerata come un atto del capofamiglia, quindi di un singolo e
non di una coppia. Questo tipo di prassi riconosceva come fondamentale l’uguaglianza formale dei
consensi ed era centrata esclusivamente sui bisogni degli adulti. In tal modo erano garantite le
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esigenze successorie, sociali ed anche personali, come ad esempio supplire alla mancanza di figli e
garantirsi una compagnia ed aiuto per la vecchiaia.
Il vantaggio del minore era principalmente materiale. Dopo l’adozione i contatti con la famiglia
d’origine non erano interrotti; rimanevano diritti e doveri reciproci, pur attenuati. Il cognome d’origine
non scompariva, ma gli veniva aggiunto il nuovo. Questo tipo d’adozione è definito privatistico, in
quanto interamente basato sul consenso delle parti e sugli schemi del diritto privato.
Agli inizi degli anni sessanta, questo schema entrò in crisi sia nel nostro paese che in tutto
l’occidente, in quanto l’osservazione, da parte di psicologi e neuropsichiatri, di bambini ospitati negli
orfanotrofi portò alla presa di coscienza degli effetti nocivi provocati dalle lunghe permanenze in
istituti, soprattutto della deprivazione affettiva e nello sviluppo psicologico. Tali studiosi focalizzarono
l’attenzione sui gravi effetti che il tipo d’adozione vigente aveva sui bambini e incoraggiarono ad una
radicale modifica alla legislazione.
Il nuovo assetto legislativo doveva avere come fine primario quello di dare una famiglia ad un
bambino e, solo come fine secondario, quello di soddisfare il desiderio di un figlio da parte di una
coppia. L’adozione diveniva così la scelta di una coppia e non di un singolo. Il 5 giugno 1967 fu
promulgata la legge n. 431 sull’"adozione speciale" che inseriva nel codice, vicino alla vecchia
legislazione, una trentina d’articoli innovativi (Fadiga, 1999).
Erano, infatti, principi nuovi per il nostro diritto di famiglia, poiché prevedevano l’interruzione
completa e definitiva dei rapporti con la famiglia d’origine, sancivano il segreto assoluto sull’identità
della nuova famiglia del minore ed equiparavano il figlio adottivo ad un figlio legittimo. Era inoltre
stabilito il limite d’età per gli adottati e un periodo di prova prima della definizione dell’adozione, che
diveniva irrevocabile.
Questi principi si contrapponevano alla cultura corrente che consideravano fondamentale il
legame di sangue, estremamente radicato in tutta la popolazione. Le innovazioni della legge 431/1967
sono essenzialmente due. La prima è quella di aver provocato la caduta del sospetto generalizzato
sull’istituto dell’adozione, consentendo in tal modo a chi non aveva figli propri d’adottare; la seconda è
quella di avere proposto per la prima volta un modello d’adozione pubblica, sottratta alla sfera privata
e gestita dall’autorità pubblica nell’interesse del minore. L’adozione speciale era consentita solamente
alle coppie coniugate e non ai singol o conviventi. Non era, inoltre, più previsto il consenso da parte
dei genitori biologici, ma lo stato d’abbandono veniva dichiarato dal giudice, in tal modo diveniva
illegale la ricerca privata di un bambino (Cavalli, Aglietti, 2004).
Con il tempo ci si rese conto che quanto era previsto nella legge 431, non era sufficiente a
gestire la materia adottiva, così il 4 maggio 1983 il Parlamento italiano varò la legge n. 184: “Diritto
del minore ad una famiglia”. Con tale legge il bisogno degli adulti passa in secondo piano rispetto al
bisogno del minore. Non si attua cioè un’adozione per dare un figlio ad una coppia ma per dare ad un
bambino dei genitori. Ciò significa che non sarà il bambino oggetto di una selezione, ma lo sarà la
coppia che dovrà mettersi, appunto, al servizio dello Stato affinché esso ne valuti l’idoneità.
La fase di richiesta da parte della coppia al Tribunale per i Minorenni gioca un ruolo importante
al momento dell’abbinamento.
Grazie all’impulso della legge 4 maggio 1983, l’adozione diviene un fenomeno di larga
diffusione sociale, soprattutto nella tipologia dell’adozione internazionale (Sacchetti, 1983).
La distinzione maggiore, in campo d’adozione, riguarda, infatti, il tipo d’adozione richiesta:
nazionale o internazionale. L’una dà la possibilità di essere abbinati ad un bambino con cittadinanza
italiana (qualsiasi bambino di qualsiasi colore e provenienza che sia cittadino italiano, se in stato
d’abbandono, è adottabile attraverso l'adozione nazionale), l’altra fornisce l’idoneità alla coppia per
poter recarsi in paesi, in genere del Terzo Mondo e potere effettuare domanda d’adozione secondo le
leggi proprie di quello Stato. In questi anni si sta verificando il boom dell’adozione internazionale, con
una media di più di 2000 adozioni internazionali e 2500 affidamenti preadottivi l’anno. I dati sono
sempre in crescita fino ai 3123 affidi preadottivi internazionali e ai 1024 decreti d’affidamento
nazionale del 1999 e mostrano ancora un aumento negli ultimi anni.
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In totale, in Italia dal 1994 al 1999 sono stati adottati 18.209 bambini: 5298 con l’adozione
nazionale e 12.911 con quella internazionale, con un rapporto di quasi 1 a 2.
Si può, quindi, iniziare a parlare di un fenomeno sociale, che riguarda migliaia di famiglie nel
nostro Paese e che rappresenta un diverso modello d’integrazione sociale e culturale.
I decreti d’idoneità all’adozione di minori stranieri (ex art. 30 della legge n. 476/98) emessi dai
Tribunali per i Minorenni competenti e trasmessi, con copia della relazione e della documentazione
esistente negli atti, alla C.A.I. sono stati alla data del 30/06/2003 pari a 15.374. Di questi decreti, 443
sono pervenuti nel periodo 16 novembre – 31 dicembre 2000, 7.041 nel corso dell’intero anno 2001,
5.711 nell’anno 2002 e 2.179 nei primi sei mesi del 2003. Le più rilevanti incidenze d’emissione di
decreti d’idoneità si registrano nei Tribunali per i Minorenni di Milano (11,5%), Roma (11,1%), Venezia
(9,2%), Firenze (8,5%), Bologna (8,4%), Torino (6,4%), Napoli (6,3%), Brescia (5,2%) e Bari (4,2%).
Delle 15.374 coppie che hanno ottenuto l’idoneità all’adozione di minori stranieri, 4.929 hanno
richiesto alla C.A.I l’autorizzazione all’ingresso in Italia di minori stranieri nel periodo 16/11/2000 –
30/06/2003. Ciò significa che circa un terzo delle coppie, ovvero 32 coppie ogni 100 ritenute idonee
all’adozione, hanno richiesto successivamente l’autorizzazione all’ingresso di almeno un minore a
scopo adottivo.
Delle 4.929 coppie che hanno richiesto l’autorizzazione all’ingresso in Italia di minori stranieri,
alla data del 30/06/2003, 386 hanno fatto richiesta nell’anno 2000, e specificamente nel periodo 16
novembre – 31 dicembre, 1.843 hanno fatto richiesta nell’anno 2001, 1.530 nel corso dell’anno 2002 e
1.170 nel primo semestre del 2003. I bambini per i quali è stata concessa l’autorizzazione all’ingresso
in Italia, alla data del 30/06/2003, sono stati 5.750, ovvero nel 99,9% dei casi esaminati.
La distribuzione di frequenza delle autorizzazioni per mese di concessione evidenzia, nel
periodo novembre 2000 – giugno 2003, mediamente 180 autorizzazioni al mese, con un picco
registrato nell’ultimo trimestre della rilevazione rispettivamente di 273 autorizzazioni ad aprile, 233 a
maggio e 288 a giugno. Tra i bambini entrati prevalgono i maschi, sono infatti il 55,8% del totale
mentre le femmine sono il 44,2% (rispettivamente 3.209 e 2.541).
Per quanto riguarda l’età, tanto per i maschi quanto per le femmine, si ha una marcata
prevalenza della classe di età 1-4 anni con 2.685 bambini e il 47% del totale. La seconda classe per
frequenza è la 5-9 anni con 1.900 bambini ed il 33% del totale. I bambini più grandicelli, con un’età
superiore ai 10 anni, sono in totale 686, ovvero l’12% dei minori adottati. Infine i bambini di meno di
un anno sono in termini assoluti 479 e rappresentano l’8% del totale.
Il 70% dei bambini, 3.906 su 5.750, proviene da Paesi che non hanno ratificato la Convenzione
de L’Aja, mentre il restante terzo da Paesi ratificanti. Figurano come ratificanti unicamente quei Paesi
esteri i quali hanno effettivamente riconosciuto, nel loro ordinamento giuridico interno, tale strumento
internazionale, mentre tra gli Stati non ratificanti sono considerati altresì i Paesi firmatari e quelli
aderenti.
Al primo posto della graduatoria dei Paesi di provenienza dei minori stranieri entrati a scopo
adottivo si ha l’Ucraina (24,2%) che risulta peraltro nettamente staccata dalle altre nazioni di
provenienza, facendo segnare in termini assoluti 1.392 ingressi di minori stranieri. Incidenze molto
interessanti le fanno segnare nell’ordine: la Bulgaria (10%), la Colombia (9,1%), la Bielorussia (8,8%),
la Russia (8,6%), il Brasile (5,9%), l’India (5,8%), la Polonia (5%), e la Romania (4,5%). Dunque, dopo
l’Europa dell’est, è l’America centro-meridionale l’area continentale dalla quale proviene un flusso
consistente di bambini stranieri adottati. L’ultimo semestre in particolare rispecchia l’andamento fin qui
evidenziato; i paesi con i maggiori flussi di minori sono stati, infatti, Ucraina (270), Bulgaria (170),
Bielorussia (167), Russia (158) e Colombia (132).
Nelle regioni del nord Italia – a differenza di quelle del sud - si hanno quote rilevanti di bambini
provenienti dall’America latina (26,1 % Italia nord-occidentale e 24,2% Italia nord-oriental) e dall’Asia
(19,3% Italia nord-occidentale e 16,1% Italia nord-orientale).
Lo sviluppo dell’adozione internazionale è strettamente legato a vari fattori: alla base, il
desiderio di genitorialità, spesso reso impossibile a causa della sterilità che ormai coinvolge il 25%
delle coppie, col quale s’interseca l’evolversi della crisi economica e sociale dei Paesi dell’Est Europa;
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con il crollo del comunismo e la conseguente crisi politico-sociale, questi Paesi divengono, infatti, il
serbatoio dell’adozione internazionale.
Così dopo il Brasile, l’India, il Perù e il Cile – mete tradizionali dell’adozione internazionale da
cui proveniva la maggior parte dei bambini adottati – hanno aperto le loro porte all’adozione prima la
Romania, poi la Russia, la Bulgaria e la Polonia e, oggi, l’Ucraina e la Bielorussia (Commissione
adozioni, 2003).
Il fenomeno dell’adozione internazionale resta, quindi, strettamente legato ad alcuni fattori
contingenti, ma le sue caratteristiche sociali e le problematiche relative all’integrazione culturale e
sociale dei minori adottati, non sono mutate nel tempo. Anzi, l’aumentato numero di minori stranieri
adottati ha reso più visibili le inadeguatezze del nostro sistema sociale e culturale, che non si è
ancora attrezzato ad accoglierli e a sostenerli nel modo dovuto, durante il loro percorso d’inserimento.
Per questo spesso, a cominciare dalla scuola, i minori stranieri adottati rischiano di perdere la loro
preziosa identità etnica e culturale, a causa delle forti sollecitazioni che conducono al suo
annullamento, nella rincorsa verso una voluta quanto difficile “normalizzazione”. Fare dell’adozione
internazionale una risorsa per la società, è uno degli scopi delle iniziative di promozione e di sostegno
svolte dalla Commissione per le adozioni internazionali.
3.3 LA NUOVA LEGGE SULL’ADOZIONE DEI MINORI ITALIANI E STRANIERI:
LE PRINCIPALI NORME
La normativa principale in materia d’adozione è la legge 28 marzo 2001 n° 149: “Modifiche alla
legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», nonché
al titolo VIII del libro primo del codice civile”.
La riforma della legge sull’adozione stabilisce un decalogo dei diritti del bambino, primo fra tutti
quello di essere assegnato ad una famiglia “senza distinzioni di sesso, di etnia, di lingua o di religione,
nel rispetto dell’identità culturale del minore”.
L’indigenza dei genitori, ossia la mancanza d’assistenza dovuta a causa di forza maggiore di
carattere transitorio, non può essere d’ostacolo al diritto dei bambini alla propria famiglia naturale,
pertanto lo Stato e gli enti locali devono sostenere economicamente i nuclei famigliari in difficoltà.
Qualora, invece, i minori da 0 a 18 anni, risultino privi d’assistenza morale e materiale da parte dei
genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, saranno ritenuti in stato d’adottabilità.
La disponibilità all’adozione è prevista per i coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, non
separati neppure di fatto, con o senza figli e le coppie che hanno convissuto in modo stabile e
continuativo prima del matrimonio per almeno tre anni. Inoltre sono consentite più adozioni, anche
con atti successivi.
Sono previsti limiti di età dei coniugi adottanti: l’età dell’adottante deve superare di almeno 18 e
di non più di 45 anni l’età dell'adottando, ma con deroghe caso per caso. È possibile che uno dei due
coniugi superi il limite fino ad un massimo di 10 anni. Non si prevede l’adozione per le coppie
omosessuali; i single possono, invece, fare domanda d’adozione per bambini portatori di handicap.
Per chi volesse adottare un bambino con più di cinque anni e con handicap accertato esiste una
corsia prefereniale.
Per manifestare la disponibilità all’adozione di minori italiani la domanda può essere presentata
a uno o più Tribunali per i minorenni, per l’adozione di minori stranieri l’istanza può essere inoltrata
esclusivamente al Tribunale per i minorenni del luogo di residenza degli adottanti.
È possibile presentare contemporaneamente domanda di adozione per un bambino italiano e
straniero.
La domanda di adozione nazionale decade dopo tre anni. Ogni Tribunale per i minorenni
definisce i modi di presentazione della domanda d’adozione e l'elenco dei relativi documenti. È
necessario quindi rivolgersi alla cancelleria del tribunale competente in relazione al luogo in cui
risiede la coppia per sapere come procedere.
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Il Tribunale per i minorenni dispone l'esecuzione d’adeguate indagini sui coniugi che hanno
presentato domanda d’adozione da parte dei servizi socio-assistenziali degli enti locali e delle aziende
sanitarie e ospedaliere, per assicurare al minore la famiglia adottiva più idonea. Le indagini (che
devono concludersi entro quattro mesi, ulteriormente prorogabili di altri quattro) riguardano l’attitudine
a educare il minore, la situazione personale ed economica, la salute, l’ambiente familiare degli
adottanti, i motivi per i quali questi desiderano adottare. Per l’adozione nazionale, il Tribunale per i
minorenni sceglie fra le coppie disponibili quella in possesso delle caratteristiche atte a meglio
rispondere alle esigenze specifiche dei minori che sono dichiarati adottabili. Per l’adozione
internazionale, il Tribunale per i minorenni, se ritiene idonei all’adozione gli aspiranti genitori adottivi,
emette un decreto di idoneità. Se la coppia non è ritenuta idonea dal Tribunale, può presentare
ricorso presso la Sezione per i minorenni della Corte d’Appello.
Entro un anno dal rilascio del decreto la coppia deve conferire ad uno degli enti autorizzati per
l’adozione internazionale l’incarico di curare la propria procedura d’adozione internazionale (Oliviero
Ferraris, 2002).
Con l’entrata in vigore della legge di ratifica della Convenzione de L’Aja sull’adozione
internazionale (l.n.476/1998) è obbligatorio avvalersi degli Enti autorizzati che operano in stretto
rapporto con la Commissione per le adozioni internazionali anche per le adozioni di minori provenienti
da Paesi che non hanno aderito alla Convenzione.
Con l’adozione l’adottato italiano o straniero acquista lo stato di figlio legittimo degli adottanti,
dei quali assume e trasmette il cognome. Con l’adozione cessano i rapporti verso la famiglia d’origine,
salvo i divieti matrimoniali. Il minore straniero assume la cittadinanza italiana. L’adottato una volta
compiuti i 25 anni d’età, con il consenso del giudice, potrà conoscere le proprie radici e il nome dei
genitori biologici. Una opportunità negata se quest’ultimi hanno chiesto l’anonimato o se la madre
naturale non ha riconosciuto il figlio. Nel caso dovessero sussistere problemi di tipo psicofisico, il
ragazzo potrà conoscere le proprie origini all’età di 18 anni.
3.4 CRITICHE ALLE NUOVE DISPOSIZIONI LEGISLATIVE
L’ANFAA (Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie) ritiene che la legge 28 marzo
2001 n° 149 “Modifiche alla legge 4 maggio 1983 n° 184, recante: “Disciplina dell’adozione e
dell’affidamento dei minori” nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile” abbia, purtroppo,
profondamente e negativamente modificato la legislazione in materia, rispondendo più alle pretese
degli adulti che alle reali esigenze dei minori in stato di adottabilità. Infatti per l’ANFAA è contrario
all’interesse dei bambini adottabili elevare la differenza massima di età fra adottanti e adottando a 45
anni, differenza ulteriormente prorogabile in circostanze specifiche a discrezione del Tribunale per i
minorenni, quando già adesso il numero delle domande è di gran lunga superiore rispetto al numero
dei minori adottabili.
L’elevazione della differenza massima d’età porterà i seguenti problemi:
•
non sarà adottato un solo bambino in più rispetto agli attuali;
•
crescerà il numero delle domande e quindi il numero delle coppie illuse ed escluse;
•
sarà più difficile l'adozione dei bambini più grandicelli, perché gli ultraquarantacinquenni
premeranno per avere un bambino piccolo.
Disciplinando a livello legislativo le modalità d’accesso degli adottati maggiorenni all’identità dei
loro procreatori il Parlamento ha mortificato il ruolo dei genitori adottivi, trattati come “allevatori” e ha
affermato, nei fatti, l’indissolubilità del legame di sangue, consentendo la ripresa di rapporti fra adottati
e procreatori, rapporti che, nella realtà, hanno avuto conseguenze negative e spesso devastanti.
È questo un vero colpo al cuore dell'adozione intesa come genitorialità e filiazione vere.
Riconoscere un ruolo ai procreatori che hanno abbandonato la loro prole, significa soprattutto
disconoscere per tutte le famiglie, in primo luogo quelle biologiche, l’importanza dei rapporti affettivi
ed educativi sullo sviluppo della personalità dei figli.
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Attraverso l’adozione, l’adottato diventa figlio legittimo degli adottanti che diventano i suoi unici
veri genitori: l’adozione dei minori può essere considerata una seconda nascita, che non annulla la
prima, ma che non ne conserva alcun legame giuridico.
Il figlio adottivo ha certamente diritto di essere tempestivamente informato sulla sua situazione
adottiva e i genitori e lui stesso devono ricevere tutte le informazioni che hanno rilevanza per lo stato
di salute dell’adottato. Ma la famiglia adottiva è una famiglia vera e completa, sotto tutti gli aspetti, con
i suoi rapporti ed i suoi problemi. (A.N.F.A.A, 2003)
3.5 LA CONVENZIONE DE L’ AJA
La Convenzione de L’Aja del 29.05.1993 sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di
Adozione Internazionale costituisce l’importante risultato di uno sforzo congiunto dei paesi d’origine e
dei paesi di destinazione per garantire che le Adozioni Internazionali si facciano nell’interesse
superiore del minore e nel rispetto dei suoi diritti fondamentali e per porre un freno alle adozioni
illegali.
A tal fine essa stabilisce un sistema di cooperazione fra i Paesi contraenti, ciascuno dei quali
deve designare un’autorità centrale responsabile dell’attuazione della Convenzione.
Le adozioni pronunciate in un paese contraente in conformità con le norme della Convenzione
sono riconosciute in tutti gli altri paesi contraenti.
Secondo quanto dispone la Convenzione un minore può essere trasferito per adozione dal
proprio paese ad un altro soltanto se:
•
le autorità del suo paese d’origine hanno stabilito che egli è adottabile;
•
hanno vagliato la possibilità di affidamento nel paese d’origine e constatato che l’adozione
internazionale corrisponde al suo superiore interesse;
•
hanno accertato che i consensi necessari per l’adozione non sono stati carpiti con l’inganno o
dietro pagamento di somme di denaro o altri corrispettivi;
•
le autorità del paese di destinazione hanno verificato che i futuri genitori adottivi sono qualificati
ed idonei per l’adozione;
•
si sono assicurate che essi sono stati adeguatamente preparati all’adozione;
•
hanno accertato che il minore può essere autorizzato all’ingresso e al soggiorno permanente
per l’adozione nel paese medesimo.
Per ridurre i rischi di adozioni illegali la Convenzione stabilisce che tutte le procedure di
Adozione Internazionale, tanto nel paese di destinazione quanto in quello di origine, debbano essere
svolte per il tramite di Enti autorizzati e controllati dalle Autorità centrali medesime.
L’Italia ha aderito alla Convenzione, che è stata ratificata dal Parlamento con la legge 31
dicembre 1998 n.476 e che perciò è divenuta legge dello Stato (Morozzo, 1999).
Autorità centrale per l’Italia è la Commissione per le adozioni Internazionali.
3.6 GLI ENTI AUTORIZZATI
Gli Enti autorizzati sono investiti di una precisa responsabilità nei confronti di tutti i minori che
aspirano all’adozione internazionale: devono garantire cioè ad ognuno di loro dei genitori realmente in
grado di prendersi cura dei loro bisogni.
Gli Enti informano, formano, affiancano i futuri genitori adottivi nel percorso dell’adozione
internazionale e curano lo svolgimento all’estero delle procedure necessarie per realizzare l’adozione;
assistendoli davanti all’autorità straniera e sostenendoli nel post-adozione.
La legge 476/98 ha reso obbligatorio l’intervento dell’ente autorizzato in tutte le procedure di
adozione internazionale, inoltre prevede espressamente la realizzazione di una forma di
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collaborazione tra i servizi sociali degli enti locali territoriali e gli Enti autorizzati, definita formazione
integrata.
Secondo l’art.31 che regola i compiti degli enti autorizzati; l’ente che ha ricevuto l’incarico deve
prima di tutto informare gli aspiranti genitori sulle procedure che inizierà e sulle concrete prospettive di
adozione nel paese che gli stessi hanno scelto. Deve poi trasmettere alle autorità straniere la loro
dichiarazione di disponibilità all’adozione, unitamente al decreto di idoneità e alle relazioni dei servizi
sociosanitari e attendere di ricevere da quelle autorità la proposta di incontro con un bambino
determinato.
L’autorità straniera fa la proposta all’ente che la comunica agli aspiranti genitori adottivi, e se
essi accettano di incontrare il bambino e, avvenuto l’incontro, si comunica all’Autorità straniera la
propria adesione alla proposta fatta ai coniugi, i quali dal canto loro hanno acconsentito
all’abbinamento, ed assiste quest’ultimi in tutte le attività da svolgere nel paese straniero: presienza
all’udienza di adozione, trasmette la sentenza di adozione alla Commissione per le Adozioni
Internazionali e chiede a quest’ultima l’autorizzazione all’ingresso del minore in Italia (Moro, 2000).
Ottenuto il provvedimento di autorizzazione all’ingresso, l’ente vigila sulle modalità di
trasferimento del bambino in Italia, i servizi degli enti locali, se richiesti, assistono gli adottanti ed il
minore. L’Ente autorizzato resta un punto di riferimento importante ed è tenuto a svolgere le relazioni
post-adozione da mandare all’autorità straniera.
Per poter svolgere la loro attività gli enti devono dichiarare di conoscere bene il Paese, la sua
tradizione e la sua cultura; di conoscere bene la normativa interna sulle adozioni e di utilizzare
personale serio e corretto. Inoltre tutti gli organismi che si occupano di procedure di Adozione
Internazionale devono essere in possesso di un’apposita autorizzazione governativa che viene
rilasciata dalla Commissione per le adozioni internazionali previo accertamento del possesso dei
requisiti di legge, vale a dire:
•
che siano diretti e composti da personale specializzato;
•
che dispongano di un’adeguata struttura organizzativa;
•
che non abbiano fini di lucro;
•
che non operino discriminazioni ideologiche e religiose;
•
che si impegnino a partecipare ad attività di promozione dei diritti dell’infanzia nei Paesi
d’origine;
•
che abbiano sede legale in Italia.
L'albo degli Enti Autorizzati si trova nella Gazzetta Ufficiale del 31 ottobre 2000, consultabile sul
sito: www.commissioneadozioni.it
3.7 VALUTAZIONE DELLA COPPIA
La conoscenza della coppia è lo strumento attraverso cui si cerca di salvaguardare il bambino
da esperienze che lo possano vedere, un’altra volta, coinvolto in realtà deprivanti sul piano materiale,
relazionale e affettivo.
Una corretta selezione delle coppie esige una conoscenza approfondita dei due aspiranti
genitori, la loro maturità personale e di coppia, i loro rapporti con il mondo esterno e il loro
atteggiamento nei confronti dell’abbandono.
“Selezionare”, per quanto sgradevole, è il termine appropriato perché si tratta di scegliere
coloro che hanno le caratteristiche adatte a stare con un figlio adottivo (Abrate, 1993).
Il Tribunale per i minorenni è il soggetto istituzionale che ha il compito di verificare le capacità
genitoriali di una coppia e di garantire i requisiti dei soggetti che presentano domanda d’adozione, al
bambino in stato d’abbandono.
“Stare” con un figlio adottivo non vuole dire soltanto vivere con lui, ma accoglierlo, contenerlo,
comprenderlo e crescere con lui (Zanardi, 1999).
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Nonostante l’orientamento legislativo italiano ed internazionale sia corretto sia sul piano etico
che civile, la maggior parte delle coppie che si avvicinano all’adozione, vivono il momento della
valutazione come un’intrusione, un limite esterno al loro proprio diritto di avere un bambino, che la
famiglia biologica non deve sostenere. La coppia si sente valutata, sotto esame, spinta a presentare
un immagine di sè molto precisa e coerente. La situazione d’incertezza dell’esito finale aumenta le
paure e di conseguenza le difese per tutelarsi da un evento che potrebbe destabilizzare la propria
immagine. Ma la valutazione dovrebbe essere “letta” come un momento di dialogo aperto, che
contribuisce ad un’autovalutazione e quindi una presa di coscienza personale dell’eventuale realtà di
non essere adatti alla scelta adottiva. Importante è verificare l’effettiva disponibilità di chi richiede di
adottare a soddisfare le esigenze del bambino, ossia la capacità della coppia di sentirsi “qualcuno”
anche senza il figlio, di non aver necessità di lui per definirsi e sentirsi validi (Paradiso, 1999).
Una caratteristica indispensabile alla coppia adottante è la dinamicità, la capacità di plasmarsi
per aderire alle molteplici situazioni che il tempo presenta, senza cercare risposte preconfezionate,
ma trovandole giorno per giorno. Occorre una coppia che si senta stimolata intellettivamente dalle
diversità che la spinge alla curiosità e non al timore; una coppia che voglia rinnovarsi continuamente,
dimostrando la sua capacità di adeguarsi positivamente a qualunque situazione reale.
Più una famiglia avrà rigidità di schemi mentali e comportamentali, cosa che si manifesta in
ruoli tendenzialmente chiusi, abitudini e atteggiamenti strutturati, ritualità d’azione, più non sarà in
grado di gestire positivamente il nuovo rapporto (Di nuovo, Abbate, Lizzio, 1999).
Avere davanti una coppia dinamica non è sufficiente, occorrono persone abituate ad interagire
con la società e in grado di domandare aiuto, qualora la situazione lo richiedesse. Persone equilibrate
disponibili ad accettare ed amare il bambino reale, ad accoglierlo senza inglobarlo, a dargli
appartenenza, senza possederlo (Abrate, 1993).
3.8 L’AFFIDAMENTO PREADOTTIVO
Il periodo d’affidamento incomincia a partire dal momento in cui il bambino, in stato
d’adottabilità definitiva, viene dato alla coppia adottiva prescelta.
Tale periodo inizia, per legge, soltanto a iter giudiziario concluso: eventuali periodi di
affidamento a rischio giuridico precedenti non verranno quindi in nessun modo considerati.
L’affidamento risponde alla necessità, da parte del Tribunale, di seguire l’inserimento del
bambino per un tempo che si ritiene congruo, sia per valutarne l’andamento, che per aiutare la
famiglia nel caso dovessero presentarsi particolari problemi di adattamento ed ambientamento.
L’adozione avviene dopo un anno di convivenza, che permette alla coppia, al bambino e agli operatori
sociali di valutare l’evoluzione dei rapporti familiari, della possibilità reciproca di sperimentare una
situazione di affetto e di riconoscersi come figlio e come genitori. La dichiarazione di adottabilità
avviene, quindi, solo al termine del buon andamento dell’affido preadottivo.
Per quanto riguarda l’adozione internazionale soltanto i Paesi che hanno aderito alla
convenzione de L’Aja potranno avere un’adozione all’estero efficace e ratificata in Italia. Lo stesso
accade in caso d’accordo bilaterale tra l’Italia e il Paese d’origine dell’adottando.
Nei casi in cui il Paese d’origine preveda che la coppia adotti con provvedimento definitivo
(provvedimento giudiziario o governativo), il provvedimento viene ratificato in Italia con gli effetti dei
giudici che esso ha nel Paese straniero. Negli altri casi si avrà l’affidamento preadottivo.
3.9 RISCHIO GIURIDICO
In Italia alcuni Tribunali per i Minorenni hanno istituito la cosiddetta “adozione a rischio
giuridico”.
Quando il tribunale valuta che un minore si trova in stato d’abbandono, emette un decreto che
viene per legge spedito ai genitori o ai parenti fino al quarto grado, perché questi volendo possano
opporsi. Dal giorno in cui hanno ricevuto il decreto, dalla notifica, essi hanno trenta giorni utili per
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opporsi. Se nell’attesa il minore non può restare nel posto in cui si trova, si cerca una famiglia adottiva
tra quelle che accettano di essere abbinate a lui nell’attesa dei trenta giorni.
La controparte, genitori del bimbo o parenti prossimi, può ricorrere per tre volte contro il
provvedimento del Tribunale per i Minorenni: un primo riesame viene fatto dal Tribunale stesso, un
secondo grado di giurisdizione è dato dalla Corte d’Appello ed infine può esserci il ricorso presso la
Corte di Cassazione; spesso passano anni.
Si può immaginare il dolore che tutto questo può comportare, la sofferenza di non essere sicuri,
di non sapere se si può farsi chiamare mamma e papà ecc. Non tutte le coppie vogliono rischiare,
poiché non tutte sono pronte ad affrontare questo tipo di problematiche.
Se la coppia non se la sente ha tutto il diritto di dare il proprio consenso solo per bambini il cui
stato di abbandono è del tutto definitivo. Anche se sono proprio i bambini a rischio giuridico ad essere
percentualmente di più rispetto a quelli definiti e quindi sale la possibilità di giungere all’abbinamento.
È una situazione che comporta un lungo e prolungato stress, anche se raramente il rischio giuridico
non evolve poi in adozione. Ma il bambino in stato di abbandono non può permettersi di avere dei
genitori che risparmiano il loro affetto per mantenersi razionali al possibile evento, ma ha diritto a tutto
l’amore possibile.
Non esiste possibilità di calcolo, soprattutto quando ci si trova davanti ad un bimbo che si è
amato con tutto il cuore e che però deve tornare da una madre e da un padre che hanno lo stesso
sofferto nel vedere il figlio allontanarsi per effetto di un pur giusto provvedimento giuridico (Abrate,
1993).
È fondamentale, quindi, iniziare l’iter adottivo avendo bene in mente il presupposto legislativo,
ossia che si sta offrendo una occasione ad un bambino in stato di grave difficoltà. Se non si può
essere genitori, si può ugualmente proteggere ed accudire un bambino con uguale soddisfazione.
Tale tipo di adozione-affidamento permette al bambino, per cui lo stato di abbandono non sia ancora
del tutto definito giudiziariamente, di non rimanere, a volte per anni, in istituti per l’infanzia o comunità.
Il rischio giuridico non va sottovalutato ma capito e responsabilmente accettato oppure rifiutato
(Ferranti, 2003).
3.10 L’ADOZIONE DIFFICILE
La disponibilità ad accogliere bambini grandicelli o con problemi fisici gravi quali handicap o
malformazioni congenite, rappresenta un’adozione difficile.
Di per sè tale denominazione “difficile” è errata: in realtà l’adozione di questi bambini sarebbe
estremamente facile, visto anche l’alto numero di soggetti con problemi presenti nel mondo dei
bambini in stato di abbandono. Ciò che è difficile, infatti, non è l’adozione in se stessa, quanto il
reperimento di coppie o famiglie desiderose di accogliere questi bambini. Nella nostra società esiste
una sorta di limite fisiologico e non dipende soltanto dalla nostra volontà di farci carico di situazioni
così altamente problematiche. L’innalzamento di questo limite fisiologico dipende dalla crescita
culturale della società nel suo complesso, dalle politiche sociali di ciascun paese, dal grado di
benessere raggiunto e da una mentalità più vicina alla solidarietà, allo spirito di servizio, ad una fede
o ideale.
Un altro tipo di adozione difficile, è quella che riguarda bambini di una certa età (la soglia
dovrebbe essere intorno ai cinque anni, nel senso che un bambino di sei anni è paradossalmente
considerato già grande); la coppia che si appresta a fare domanda tende a rifiutarli.
Quando l’adozione viene considerata come la soddisfazione di un bisogno di recuperare la
perduta o mai avuta capacità di procreare, allora questa dovrà il più possibile avvicinarsi, nelle forme
e nelle aspettative, alla maternità naturale.
Il che significa che il figlio adottivo dovrà per forza essere il più possibile uguale al figlio che si
sarebbe messo al mondo.
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In questo caso, quindi, si avrà una motivazione all’adozione di tipo fortemente compensatorio,
per rifarsi da un torto ritenuto ingiustamente subito.
Il figlio se non proprio nato dalla coppia, dovrà almeno essere talmente piccolo da non avere
avuto altra origine psicologica che quello della coppia stessa.
Se ciò che permette ad un individuo di crescere e svilupparsi in modo equilibrato è la
commistione tra i caratteri genetici di cui è portatore e l’influenza dell’ambiente esterno che lo plasma
e indirizza, sarà su questo secondo aspetto che si incentrerà l’attenzione della coppia adottiva,
cercando di rendere il figlio adottivo il più possibile espressione totale del loro sistema familiare. La
richiesta di un bimbo piccolo risponde anche all’opportunità della coppia di non affrontare in modo
troppo diretto lo scontro-incontro tra il proprio sistema familiare e qualcuno che, già dotato di parola e
carattere, può a quel punto già metterlo in discussione, volerlo implicitamente modificare. Il lavoro di
trasformazione del sistema dovuto all’ingresso di un bambino estremamente piccolo è sicuramente
più semplice che non con un bambino che abbia già una sua spiccata personalità ed individualità. Più
il bambino è piccolo e più sarà facile per entrambe le componenti il crescere insieme in sintonia. Più il
potere contrattuale del bambino è forte (quindi più è in grado di interagire anche dialetticamente con i
genitori) e più difficile sarà per il sistema trovare un proprio nuovo ed equilibrato assetto. Ciò significa
essenzialmente che l’inserimento di un bambino già grandicello (per non parlare degli adolescenti) è
effettivamente più difficile e quindi meno desiderato dalle coppie che si propongono per un’adozione.
Non a caso la maggior parte delle adozioni che si sono rilevate altamente problematiche sono quelle
dove il bambino non è stato tempestivamente collocato in una famiglia adottiva o quando si è trovato
in stato d’abbandono in età non più giovanissima. Paradossalmente si può anche affermare che non è
infrequente che un ragazzino già grandicello riesca a trovare subito una sintonia con la coppia
adottiva. In questo caso l’inserimento e la trasformazione del sistema sarà facilitata proprio dalla
capacità/possibilità che le due componenti, figlio-genitori, hanno di comunicare, scambiarsi
impressioni, risolvere insieme eventuali problemi (Abrate, 1993).
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4
CAP. II - LA SITUAZIONE PSICOLOGICA DEL BAMBINO
ADOTTATO
4.1 ATTACCAMENTO E ADOZIONE
4.1.1
La teoria dell’attaccamento
La formazione dei primi legami affettivi è importante ai fini dell’acquisizione della competenza
sociale e dell’adattamento all’ambiente e rappresenta un passaggio fondamentale nelle famiglie
naturali quanto in quelle adottive.
John Bowlby noto psichiatra inglese, intorno agli anni 1950 ha formulato la teoria
dell’attaccamento, un paradigma scientifico che ha rivoluzionato il modo di concepire lo sviluppo
umano.
Il concetto chiave della sua teoria è quello di sistema di controllo cibernetico.
Gli schemi emozionali e comportamentali dell’attaccamento, pur essendo frutto della selezione
naturale e quindi pre-programmati, sono, anche, delle risposte che vengono prodotte grazie a
processi di elaborazione delle informazioni che provengono dell’ambiente esterno, organizzate
secondo un processo omeostatico.
La vicinanza con la madre e l’esplorazione dell’ambiente sono i due poli di questo sistema
d’equilibrio: quando il bambino si trova davanti ad un pericolo, il sistema si attiva e mette in atto quei
comportamenti che mantengono la vicinanza della madre. Il concetto d’attaccamento differisce da
quello di dipendenza, perché essa non implica una relazione carica d’emotività nei confronti di
individui chiaramente preferiti, non implica un legame duraturo e non le è mai stata attribuita una
valida funzione biologica.
Il concetto di dipendenza ha, inoltre, implicazioni di valore opposte a quelle che derivano dal
concetto d’attaccamento; parlare di una persona come dipendente tende ad avere un carattere
dispregiativo e riflette un’incapacità di riconoscere il valore che ha il comportamento d’attaccamento
per la sopravvivenza.
Dire di un bambino che è attaccato a qualcuno, vuol dire che è fortemente portato a cercare la
prossimità e il contatto specialmente in certe situazioni specifiche. Il comportamento d’attaccamento si
riferisce a una delle varie forme d’attaccamento che la persona mette in atto per mantenere la
prossimità che desidera.
Il comportamento d’attaccamento viene così definito come una qualsiasi forma d’attaccamento
che porta una persona al raggiungimento e mantenimento della vicinanza con un altro individuo
preferito, considerato in genere come più forte/esperto.
I particolari schemi del comportamento d’attaccamento variano a seconda delle esperienze che
si son vissute con le prime figure importanti della propria vita.
La teoria dell’attaccamento pone l’accento sulle seguenti caratteristiche (Bowlby, 1979):
•
Specificità. Il comportamento d’attaccamento è diretto verso pochi individui, di solito in un
preciso ordine di preferenza.
•
Durata. Un attaccamento persiste, non viene abbandonato durante il corso della vita, anche se
durante l’adolescenza i primi attaccamenti possono diventare complementari ad altri
attaccamenti.
•
Ruolo delle emozioni. Molte delle emozioni più intense sorgono durante la formazione, il
mantenimento, la distruzione e il rinnovarsi di relazioni d’attaccamento. La formazione di un
legame è descritta come l’innamoramento, il mantenimento di un legame come l’amare
qualcuno, la perdita di un partner come il soffrire per qualcuno.
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•
Ontogenesi. Il comportamento d’attaccamento per una figura preferita si sviluppa,
generalmente, durante i primi nove mesi di vita. Il comportamento d’attaccamento resta
facilmente attivabile fino alla fine del terzo anno di vita del bambino; più esperienze
d’interazione avrà con una persona, tanto più questa diventerà la sua principale figura
d’attaccamento.
•
Apprendimento. Imparare a distinguere le persone familiari dagli estranei è un processo chiave
nello sviluppo dell’attaccamento.
•
Inoltre, un attaccamento può svilupparsi malgrado ripetute punizioni da parte della figura
d’attaccamento.
•
Organizzazione. Dalla fine del primo anno di vita intervengono sistemi comportamentali
organizzati a livello cibernetico e comprendenti modelli rappresentativi dell’ambiente e del sè.
Tali sistemi vengono attivati da terminate condizioni quali: l’estraneità, la fame, la fatica e ogni
causa di spavento. Possono anche essere inibiti da altre condizioni: vista della figura materna e
serena interazione con essa.
•
Funzione biologica. Il comportamento d’attaccamento si verifica in quasi tutte le specie di
mammiferi, ed in alcune specie persiste per tutta la vita adulta. La funzione più probabile del
comportamento d’attaccamento è la protezione, particolarmente per i predatori. Il
mantenimento della vicinanza di un animale immaturo a un adulto preferito è la regola che
indica come tale comportamento abbia un valore di sopravvivenza.
4.1.2
Regolazione diadica delle emozioni: sviluppo del legame d’attaccamento
Nei primi mesi di vita il neonato, per sopravvivere, ha bisogno di una persona che si occupi di
lui a tempo pieno, generalmente la madre, la quale soddisfa i suoi bisogni attraverso comportamenti
gratificanti, accoglienti, di nutrimento, contatto, presenza, che fanno sentire il neonato protetto e al
sicuro.
Più o meno dopo il sesto mese il bambino inizia a manifestare le proprie preferenze in modo
inequivocabile, mostrando di voler stare con quelle persone con le quali sta instaurando un legame.
Il piccolo si sente protetto, accudito, riconosce il viso, le mimiche, il significato di tutta una serie
di messaggi verbali e non e di scambi comunicativi che avvengono normalmente tra loro.
La reciprocità è fondamentale nel dare inizio a quel processo che porta il bambino a “trattenere”
l’immagine dell’altro nella propria mente, per imparare a tollerare la separazione e diventare
autonomi.
In questa fase, infatti, il bambino va formandosi un primo concetto di Sè: una sorta di immagine
di sè nel mondo, una rappresentazione dei propri sentimenti profondi di fronte al fatto di vivere, che
può essere un sentimento di fiducia o di sfiducia nei confronti delle persone che lo accudiscono.
L’attaccamento che emerge nelle prime fasi della vita continuerà a caratterizzare, anche in
futuro, il rapporto “figura d’attaccamento-bambino” ma in forme man mano più mature.
Bowlby afferma che il legame è il risultato di un sistema di schemi comportamentali a base
innata.
A differenza di Freud (1920) che riteneva l’affetto del bambino determinato da motivazione
secondaria, (ossia derivante dal fatto che la madre provvede ai bisogni fisiologici di nutrimento e
pulizia, per cui il bambino la investe della sua pulsione libidica), Bowlby (1969) riconduce
l’attaccamento alla madre ad una motivazione primaria.
Esistono, infatti, schemi pre-programmati come il pianto, il sorriso, l’aggrapparsi, che
favoriscono la prossimità e il contatto con la madre e che aumentano la possibilità del piccolo di
sopravvivere.
Allo stesso modo anche la madre sviluppa una sensibilità pre-programmata capace di cogliere
e decodificare i segnali del figlio. Prendere in braccio il proprio bambino che piange, ad esempio, non
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si configura come un rinforzo che condiziona il piccolo rendendolo “viziato”, ma piuttosto risulta la
risposta più adeguata ad un segnale di disagio.
La madre diviene una base sicura per il figlio, in quanto gli fornisce: presenza, disponibilità,
prontezza, incoraggiamento... Affidarsi ad una base sicura, per il bambino, a sua volta significa: poter
riuscire ad affacciarsi con coraggio verso il mondo esterno sapendo di poter tornare dal genitore
qualora si sentisse spaventato o minacciato, perché sarà sempre accettato, confortato e ben voluto. Il
fatto che l’attaccamento sia “monotropico”, ossia con una singola figura, se diventa assoluto, può
avere implicazioni profonde per lo sviluppo delle competenze sociali e dell’autonomia.
Gli attaccamenti di un bambino piccolo devono essere meglio pensati come una gerarchia:
solitamente, ma non necessariamente, con la madre al vertice, seguita da vicino dal padre, nonni,
fratellini ecc. È necessario che il bambino nel corso della sua crescita impari a capire che la figura cui
egli è attaccato deve essere condivisa con il suo partner sessuale e con gli altri fratellini, il che fa della
separazione e della perdita una parte inerente alla dinamica di attaccamento: la capacità di separarsi
dalle figure d’attaccamento e di formare nuovi attaccamenti rappresenta una sfida evolutiva molto
importante.
Fra il sesto e l’ottavo mese, fino all’inizio del secondo anno di vita, avviene, infatti, un
cambiamento rispetto alle prime fasi del legame, che è da ricondurre sia allo sviluppo cognitivo,
(come la conquista della permanenza dell’oggetto) che consente al bambino di discriminare la madre
dalle altre persone; sia all’attivarsi di predisposizioni di natura filogenetica come la paura
dell’estraneo.
È proprio intorno agli otto mesi che si verifica l’imprinting filiale ossia quella capacità del piccolo
di fissare e conservare nella memoria le caratteristiche della figura allevante.
Questo concetto Bowlby lo mutua da Konrad Lorenz (1935); si deve, infatti, agli esperimenti
condotti dall’etologo tedesco sulle anatre ed oche la scoperta che nelle verie speci animali esista un
periodo critico, in cui più facilmente i piccoli apprendano e fissano nella memoria con prontezza il
primo oggetto in movimento che compare nel suo campo visivo.
Nei primati, le caratteristiche di base che rendono una figura oggetto di imprinting filiale, non è il
movimento, bensì la morbidezza associata al calore come dimostrano gli esperimenti condotti da
Harlow e Zimmermann (1959) sui macachi.
L’esperimento consiste nell’allontanare delle piccole scimmiette dalle loro madri naturali e di
metterle a contatto con surrogati di madri; alcune fatte di fili di ferro dotate di un biberon con latte,
altre ricoperte di panno caldo e morbido ma senza biberon. Benché nutrite dalla “madre” di ferro, le
scimmiette passano la maggior parte del tempo attaccate alla madre di stoffa, perché il bisogno di
caldo, morbido, tenerezza è un bisogno a sè stante, un bisogno fondamentale. Inoltre, se poste in
contesti in cui certi stimoli particolari elicitano in loro una reazione di paura, le scimmiette si rifugiano
ed aggrappano sempre alla madre di panno. Quest’ultima costituisce una base sicura, a partire dalla
quale le scimmiette esplorano l’ambiente e si rifugiano.
4.1.3
Fornire una base sicura
Se un bambino, prima di essere adottato, ha avuto l’opportunità di formare un forte legame
d’attaccamento, può avere meno problemi rispetto ad un bambino di 1 o 2 anni che non ha avuto
l’opportunità di legarsi affettivamente a qualcuno e quindi sentirsi accolto e protetto.
La possibilità che un bambino presenti dei problemi d’attaccamento dipende, dunque, dalla
forza e dalle caratteristiche degli attaccamenti iniziali, dall’età in cui è avvenuta la separazione o la
rottura, da eventuali incontri successivi.
Una conseguenza diretta della mancanza di legami d’attaccamento forti è, a volte, una fiducia
indiscriminata in chiunque, un’assenza di selettività tra adulti conosciuti e sconosciuti verso cui è bene
essere cauti.
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Bambini che hanno vissuto in istituto o in diverse famiglie si affidano senza nessuna
discriminazione, specialmente nei primi tempi, quando il rapporto con i genitori adottivi non si è
ancora consolidato.
Al contrario, sul fronte opposto, ci sono bambini che resi insicuri dalle vicende passate, hanno
bisogno di vicinanza e di rassicurazione maggiore; questo accade perché il processo d’attaccamento
non ha seguito le normali fasi evolutive e loro non hanno interiorizzato un sufficiente senso di serenità
e sicurezza: “la base sicura ” resta esterna, al di fuori di loro.
Si tratta di un insieme di fattori variabile da caso a caso: non tutti i bambini rispondono alle
difficoltà allo stesso modo.
Qualunque sia stato il tipo d’attaccamento precedente il bambino ha una forte necessità di
formare un legame con i membri della nuova famiglia; un legame che non passi soltanto attraverso la
presenza, le parole, ma anche grazie al contatto fisico, il bisogno di vicinanza.
L’attaccamento è, infatti, mediato dal guardare, dall’ascoltare: la vista di chi amiamo ci riempie
l’animo, il suono del suo avvicinarsi risveglia in noi sensazioni piacevoli, essere tenuti fra le sue
braccia e sentire la sua pelle contro la nostra ci trasmette un senso di calore, di sicurezza, di
benessere condiviso. La reciprocità è, infatti, una caratteristica dell’attaccamento tra genitori e figli.
Non tutti i bambini rispondono alle difficoltà allo stesso modo, ciò dipende dal tipo d’attaccamento che
il bambino ha vissuto prima di essere stato adottato. Ricerche effettuate nell’ambito della teoria
dell’attaccamento sono a tal proposito utili in quanto hanno cercato di individuare il contributo dato
dalla figura d’attaccamento principale allo strutturarsi del legame affettivo. I risultati di tali indagini
mostrano che la storia affettiva del bambino con la sua figura d’attaccamento influenza la sua
capacità di regolare le emozioni e la sua possibilità di mettere in atto comportamenti congruenti con la
situazione.
Quando Mary Salter Ainsworth lavorava presso la Tavistock Institute, ha condotto uno studio
longitudinale basato su osservazioni sistematiche e ripetute nel tempo dell’interazione madrebambino durante tutto il primo anno di vita e ha misurato con la metodica “Strange Situation” l’impatto
del legame affettivo sulla capacità del bambino di provare e regolare certe emozioni (Ainsworth,
Blehar, Walter e Wall, 1978).
La Strange Situation si basa su otto episodi, ciascuno di pochi minuti, durante i quali il bambino
si trova in una situazione che rappresenta per lui un progressivo accumulo di tensione. Dallo studio è
emerso che se un bambino durante i primi mesi di vita ha avuto una madre attenta e sensibile alle
sue richieste, nella Strange Situation risulta in grado di eplorare in maniera attiva l’ambiente
circostante. Quando la madre lo lascia con un estraneo si sente a disagio ma dimostra di superare la
separazione, perché comunque si lascia confortare da tale presenza e riprende a giocare. Quando la
madre torna le corre incontro con calore ed affetto, dimostrando di non aver alcun rancore per averlo
lasciato solo. Questo tipo di legame è basato sulla certezza di poter avere una madre che si pone
come base sicura, ed è per questo che bambini che mostrano questa organizzazione del
comportamento e questa regolazione delle emozioni sono stati chiamati dalla Ainsworth bambini
sicuri.
Se un bambino, nel corso del primo anno di vita, ha sperimentato il rifiuto del suo bisogno
d’affetto perché ha avuto una madre che ha scoraggiato il contatto fisico soprattutto in situazioni
nuove di disagio e di paura, formerà un attaccamento evitante o distaccato. Il bambino in presenza e
assenza della madre mette in atto comportamenti di falsa autonomia: si impegna nel gioco anche
quando la madre si allontana, sembra tranquillo e concentrato. Anche nel caso avesse provato
momenti di tensione e sconforto, alla madre non mostra il suo dolore per la separazione. Il bambino
che, invece, ha avuto una madre imprevedibile nelle risposte, elabora un tipo di legame
d’attaccamento insicuro di tipo ansioso – ambivalente. In presenza della madre si mantiene stretto ad
essa, in assenza mostra segni di sconforto, piange e non esplora l’ambiente che lo circonda. Quando
la madre torna e cerca di prenderlo in braccio, però, fugge dal contatto; mostra segni di rabbia e
anche se viene confortato non riesce a calmarsi.
Il bambino fa ricorso a quella che viene detta “rabbia disfunzionale”, ossia mette in atto
comportamenti aggressivi proprio nei confronti della persona dalla quale voleva essere protetto.
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Ricerche successive condotte da Main, Kaplan e Cassidy (1985) hanno evidenziato un’altra
tipologia d’attaccamento: ansiosa disorganizzata.
Il bambino nella Strange Situation, mostra sequenze disorganizzate di comportamento: resta
immobile, si copre gli occhi alla vista della madre. Tali manifestazioni sono state associate a storie di
abuso e di maltrattamento subito da parte del genitore (Attili, 2000).
In generale è importante ricordare che l’ansia da separazione è una reazione comune a tutti i
bambini di tutte le culture; il suo superamento avviene attraverso la percezione della figura
d’attaccamento come “base sicura”, come punto di riferimento certo, da cui potersi allontanare per
esplorare l’ambiente fisico e sociale nella certezza che, in caso di necessità, il suo aiuto e conforto
non verranno a meno.
4.1.4
Problemi di comportamento d’attaccamento
La possibilità che un bambino presenti problemi d’attaccamento dipende dalle caratteristiche
degli attaccamenti iniziali, dall’età in cui è avvenuta la separazione o la rottura, da eventuali incontri
successivi, dalle attese nei confronti della nuova famiglia e anche dal suo temperamento.
Intorno ai 18 mesi il bambino costruisce un modello operativo interno, ossia una
rappresentazione interna della relazione con la figura d’attaccamento principale (Bowlby, 1973). Tale
rappresentazione tende a fare da filtro nell’interpretazione delle informazioni che provengono
dall’ambiente esterno. I bambini che, ad esempio, non discriminano tra estranei e familiari, non hanno
mai interiorizzato nessuno come portatore della caratteristica unica e speciale di “madre” e “padre”.
Per aiutare il bambino a superare la fiducia indiscriminata verso chiunque, un primo passo da fare è
quello di evitare di lasciarlo da solo con persone diverse, fino a quando non si è formato un legame di
favore (Oliviero Ferrarsi, 2002).
Se il bambino ha vissuto in ambienti in cui le punizioni consistevano nel saltare i pasti o avere
una razione ridotta di cibo, tenderà ad ammassare il cibo e a mangiare anche di nascosto.
Per il bambino, infatti, il cibo è sinonimo di cure e affetto, quindi il suo comportamento può
essere indicativo di un vuoto interiore, in questo caso il piccolo ha bisogno di rassicurazione, non
soltanto attraverso le parole, ma con atteggiamenti di tenerezza.
Ma non tutti i bambini sono disposti a lasciarsi abbracciare, accarezzare, perché il rifiuto che
hanno subito in passato ha suscitato in loro frustrazione e chiusura.
Il genitore adottivo deve riuscire a comprendere la barriera che il bambino sovrappone fra lui e
gli altri e gradualmente cercare di abbatterla.
Alla frustrazione il bambino può anche reagire con comportamenti aggressivi, che rivelano
rabbia e risentimento. Il bambino utilizza questa strategia per tenere gli altri a debita distanza, per non
doversi confrontare con le proprie paure e il rifiuto degli adulti, e ci possono volere anche alcuni anni
prima di vedere un reale cambiamento. L’esperienza di separazione e abbandono può, al contrario,
portare ad una dipendenza totale; il bambino non tollera di separarsi, ha bisogno di sapere che chi
ama è raggiungibile e finchè non si sentirà abbastanza sicuro manterrà questo comportamento.
È importante ricordare che qualsiasi sia stato il tipo d’attaccamento precedentemente vissuto
nella famiglia d’origine, il bambino ha bisogno di formare un legame con i membri della nuova
famiglia; un legame che passi attraverso la presenza, le parole, il contatto fisico e il bisogno di
vicinanza.
4.1.5
La grande sofferenza emotiva: il lutto infantile
La carenza affettiva è stata oggetto di importanti ricerche tra il 1940 e il 1960.
Molti furono gli psicoanalisti che si occuparono del problema: J. Bowlby (1969), nella sua teoria
della perdita, considera l’angoscia come una risposta realistica da parte di un individuo vulnerabile per
la separazione o per una minaccia di separazione dall’agente delle cure materne. Dato che la
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dinamica d’attaccamento prosegue per tutta la vita adulta, l’angoscia da separazione sorgerà ogni
volta vengano minacciate le relazioni più importanti.
Bowlby considera la reazione al lutto come un caso particolare di angoscia da separazione,
considerando il fatto che la perdita è una forma irreversibile di separazione.
Mentre l’angoscia di separazione è la risposta usuale a una minaccia di perdita, il lutto è la
risposta alla perdita dopo che si è verificata.
È impossibile definire la carenza affettiva in maniera univoca, poiché bisogna tener conto,
nell’interazione madre- bambino di tre dimensioni:
•
l’insufficienza dell’interazione che rimanda all’assenza della madre e del sostituto materno
(affidamento istituzionale precoce);
•
la distorsione che tiene conto della qualità dell’apporto materno
•
•
(madre imprevedibile);
la discontinuità del rapporto che provoca la separazione, quale che ne siano i motivi.
René A. Spitz (1949) compie a tal proposito una ricerca sul comportamento dei lattanti tra i sei
e diciotto mesi posti in ambiente sfavorevole: ospedale, brefotrofio. Dopo una separazione materna
brutale egli nota dapprima un periodo di piagnucolamenti, poi uno stadio di ritiro e d’indifferenza,
accompagnati da una regressione dello sviluppo e da sintomi somatici.
Spitz chiama questa reazione del bambino, simile al marasma “depressione anaclitica” (Spitz,
1946) poiché il bambino non può appoggiarsi alla madre per essere accudito.
Altri studiosi quali, James Robertson (1953) e Cristoph Heinicke (1956) hanno studiato il
comportamento di bambini dell’età compresa tra i 2 e tre anni, esposti ad una situazione particolare,
come la permanenza in un istituto o in un reparto ospedaliero, allontanati dalle cure della figura
materna e da tutte le altre figure importanti e conosciute.
Le reazioni infantili ad un trasferimento in tali luoghi sono varianti dei fondamentali processi di
lutto. Se un bambino dai quindici ai trenta mesi ha avuto una relazione sicura con la madre,
manifesterà nella situazione sopra descritta una sequenza di comportamento abbastanza prevedibile.
Tale comportamento può essere diviso in tre fasi:
•
protesta,
•
disperazione,
•
distacco.
All’inizio il bambino invoca il ritorno della madre con il pianto e sembra fiducioso di riuscire nel
proprio intento.
È questa la fase della protesta che può durare anche per diversi giorni.
Il bambino resta preoccupato per l’assenza della madre e spera nel suo ritorno; ma l’esito
negativo lo fa cadere nella disperazione. Successivamente si verifica un cambiamento radicale: il
bambino pare disinteressato e sembra essersi quasi dimenticato della madre.
Una volta tornato a casa, nel suo ambiente familiare, il comportamento del bambino dipenderà
dalla fase raggiunta nel periodo di separazione. In seguito a perdite improvvise c’è sempre una fase
di protesta, durante la quale chi ha subito la perdita tenta in ogni modo di recuperare la persona persa
e la rimprovera d’averla abbandonata.
Durante questa fase e in quella successiva della disperazione le sensazioni sono ambivalenti;
anche se l’alternanza di speranza e disperazione può continuare per molto tempo, alla fine vengono
messe in atto misure di distacco emotivo della persona persa. La reazione alla separazione è alla
base delle reazioni di paura e di ansietà che il bambino svilupperà da adulto, oppure dello sviluppo di
un attaccamento ansioso verso gli altri.
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Boris Cyrulnik (2001) ricorre all’immagine del brutto anatroccolo per spiegare la sofferenza
emotiva provata dal bambino; il fatto che trovi una famiglia di cigni non significa che il problema sia
concluso, perché la ferita è scritta nella sua storia, incisa nella sua memoria, come se il brutto
anatroccolo pensasse: “Bisogna colpire due volte per fare un trauma”. Il primo colpo provoca il dolore
della ferita e il secondo fa nascere la sofferenza di essere stato abbandonato. Per curare il primo
colpo il proprio corpo e la propria memoria devono fare un lento lavoro di cicatrizzazione; per
attenuare la sofferenza del secondo colpo, bisogna poi cambiare l’idea che ci si è fatti di quanto è
accaduto.
L’adattamento viene facilitato se i genitori adottivi son sereni e permettono al bambino di
parlare del suo passato in modo aperto e di capire i motivi che hanno cambiato il percorso della sua
esistenza; la vita precedente non può, infatti, essere cambiata, ma se al bambino viene data la
possibilità di elaborare il lutto, di riannodare il filo della sua vita là dove si è spezzato potrà ristabilire
una continuità tra presente e passato. Per crescere sereno il bambino ha, infatti, bisogno di stabilità,
di punti di riferimento chiari da individuare perché essi rappresentano le fondamenta su cui costruire
pian piano il proprio senso di sicurezza e la propria identità.
Nei primi quattro anni di vita il sostegno al proprio Sè proviene essenzialmente dalle figure
d’attaccamento principali, mentre verso i cinque-sei anni l’identità individuale poggia sull’identità
familiare.
A quest’età, nel confrontarsi con il mondo esterno, il bambinio ha una maggiore e piena
coscienza di incontrare altri adulti e bambini.
Il Noi familiare nell’infanzia diventa, quindi, importante perché gli altri Noi sono ancora troppo
deboli; è, infatti, l’identità familiare a fornire quella sicurezza della quale un bambino ha bisogno
quando si trova fuori casa.
La teoria dell’attaccamento contribuisce alla definizione d’alcuni principi cardine del discorso.
Innanzitutto conferma la centralità del legame primario che è quello con la madre destinato a
segnare l’imprinting per la formazione dei legami successivi. La sofferenza causata dalla separazione
dalla figura di riferimento è maggiore quando il bambino supera l’anno d’età; inoltre la reazione più
frequente all’abbandono si traduce con l’assunzione di comportamenti aggressivi, mirati a “punire” chi
si cura del bambino nel tentativo di evitare ulteriori separazioni; il modo in cui chi si occupa del
bambino accoglie le sue reazioni alla perdita, influenzerà certamente in modo determinante lo
sviluppo successivo di quel bambino.
Infine il bambino abbandonato, in genere, è in possesso delle risorse necessarie che gli
consentono di stabilire altri legami di uguale importanza in grado di colmare la perdita e di consentire
l’elaborazione e la cicatrizzazione della profonda ferita provocata dal fallimento del legame primario.
È ciò che rende tanto delicato quanto straordinariamente importante il vincolo adottivo, quando
si dimostra all’altezza di riprendere il processo di sviluppo dell’affettività del bambino laddove è stato
dolorosamente interrotto per portarlo a termine con successo.
4.1.6
Le conseguenze negative del ricovero in istituto
Le ricerche scientifiche condotte nel 1950 da John Bowlby per conto dell’Organizzazione
mondiale della Sanità (OMS), sono di fondamentale importanza per comprendere le conseguenze
negative del ricovero del bambino in istituto.
Gli studi condotti da David Levy (1937), Dorothy Burlingham e Anna Freud (1942, 1944), Renè
Spitz (1945, 1946), Lauretta Bender (1947), che egli aveva consultato in Europa e negli Stati Uniti,
concordavano nell’affermare che le cure materne e paterne prodigate al bambino nei primi anni di vita
rivestono un’importanza fondamentale per l'armonico sviluppo della sua salute mentale. Per cure
materne e paterne si devono intendere non solo il soddisfacimento dei bisogni fisiologici immediati di
nutrimento, assistenza e protezione, ma anche la capacità di assicurare adeguate risposte ai bisogni
affettivi e intellettivi del bambino.
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La privazione prolungata di cure familiari nell’infanzia può avere ripercussioni gravi, talvolta
permanenti, sulla formazione del carattere e quindi sulla personalità adulta. Sono diverse le
conseguenze nel caso in cui il bambino non abbia mai avuto una relazione stabile e rassicurante con
le figure paterna e materna dalla situazione in cui questa relazione invece esisteva ed è stata
interrotta.
La carenza di cure familiari è negativa per tutto il ciclo dello sviluppo, dalla nascita
all’adolescenza, ma è tanto più grave quanto più si configura come “un’assenza completa”. La perdita
delle figure materne e paterne è meno grave se è temporanea. Il collocamento in comunità
assistenziale deve essere pertanto il più breve possibile e solamente in funzione di una soluzione
eterofamiliare da individuare al più presto.
Le cure familiari di cui il bambino necessita possono essere fornite da persone diverse da
coloro che l’hanno generato, purché esse assicurino un legame affettivo intimo e costante, fonte di
soddisfazione e gioia. Gli istituti educativo-assistenziali, anche se organizzati nei cosiddetti gruppi
famiglia, non sono strutturalmente in grado di fornire ai bambini relazioni interpersonali che assicurino
loro le necessarie cure familiari.
La prevenzione dei danni da carenza di cure familiari può essere attuata assicurando, quando
possibile, ogni aiuto alla famiglia d’origine perché possa svolgere adeguatamente il suo compito
educativo oppure garantendo ai bambini privi di un idoneo ambiente familiare un’altra famiglia
(adozione o affidamento, a seconda della situazione).
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4.2 IL BAMBINO DA ZERO A TRE ANNI
4.2.1
Separazione e nascita
Con il parto il neonato perde quella sensazione di protezione e calore che provava nel grembo
materno e si trova a dover affrontare emozioni forti e terribili a lui sconosciute.
Questa esperienza definita “trauma della nascita”, (Masal Pas Bagdadi, 2002) viene sopportata
soltanto grazie al supporto della madre, che attraverso il suo corpo caldo, il latte, la voce avvolgente e
le carezze, gli garantisce la sopravvivenza.
Il bambino, anche se viene adottato subito dopo la nascita, subisce frustrazione e delusione
rispetto al suo bisogno d’accoglimento, per cui chi adotta deve tener conto di questo “buco” affettivo e
cercare di compensarlo.
È necessario, per il genitore, immaginare il bambino come se fosse uscito dalla propria pancia,
sentirlo come una propria creatura, abbandonarsi alle sensazioni fisiche di calore, amore e tenerezza
per far sì che l’attaccamento si ripristini subito sia fisicamente che mentalmente. La vera mamma è
colei che diventa contenitrice-nutrice, che non risparmia le sue attenzioni, il suo amore: è la madre
che è dentro ad ogni donna. I bambini adottati entro il primo anno di vita sono generalmente stati
lasciati in istituto per alcuni mesi in attesa di nuovi genitori. Qui possono aver trovato una o più
“mamme” che hanno garantito loro una qualche forma d’attaccamento sufficiente ad infondere
sicurezza.
Se avviene un ulteriore distacco anche da queste figure alle quali avevano iniziato ad attaccarsi
emotivamente, i bambini accusano un colpo che può procurare una disorganizzazione del
comportamento e possono regredire. L’espressione del loro disagio avviene a livello fisico; nei primi
sei mesi di vita sono frequenti i disturbi intenstinali, dell’alimentazione e del sonno e nei casi più gravi
avviene il blocco della crescita. Tra i sei e i dodici mesi il disagio si manifesta con la chiusura, il
pianto, la protesta e la scarsa vitalità. Naturalmente ci sono bambini più sensibili di altri sia per
differenze di temperamento, sia perché alcuni possono essere nati dopo una gravidanza difficile;
eventualità non rara quando un bambino non è desiderato e la madre ha pianificato in anticipo di
darlo in adozione. I bambini, però, sono attrezzati a far fronte alle difficoltà e hanno una notevole
capacità di recupero, soprattutto se la nuova famiglia è in grado di garantir loro cure appropriate, un
clima familiare sereno ed accogliente, allegro e rispettoso dei loro ritmi di sviluppo.
4.2.2
Ambiente ed ereditarietà
Dal punto di vista scientifico è risaputo che l’ereditarietà riguarda solamente i tratti somatici
(forma del naso, colore degli occhi, ecc.). È vero che esistono dei caratteri ereditari che influenzano le
capacità intellettive, ma la predisposizione ad attività musicali, pratiche, verbali, è pur sempre
un'ereditarietà di carattere fisico, nel senso che le strutture cerebrali possono essere più favorevoli e
predisposte allo sviluppo di determinate capacità. È poi l’ambiente, nel quale il bambino cresce, a
giocare un ruolo determinante nello sviluppo o meno di quelle capacità. In alcuni casi, infatti, vi può
essere un’ereditarietà positiva non sviluppata a causa di relazioni familiari e ambientali negative e in
altri invece si può verificare la situazione di patrimoni ereditari medi o inferiori alla media che possono
essere sviluppati mediante l’apporto di positive relazioni familiari.
Spesso, però, la paura che certi comportamenti devianti dei genitori biologici possano ritrovarsi
nei figli adottivi, pregiudica qualsiasi valido rapporto educativo.
In questi casi il bambino non viene e non verrà mai considerato dai genitori adottivi figlio loro.
L’iter scolastico, la carriera professionale, i rapporti con gli amici soprattutto con l’altro sesso,
l’appartenenza a questo o a quel partito o sindacato e le altre scelte fondamentali di vita, saranno per
lui banchi di prova.
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Occorre, pertanto, che le coppie che si accingono ad adottare un figlio siano animate da
profonde motivazioni e che non si scoraggino di fronte alle prime difficoltà. Coloro che vivono chiusi in
se stessi, ritenendosi detentori di verità assolute, difficilmente riusciranno ad accettare la personalità
del bambino e a non essere condizionati dalla sua presunta (e negativa) “ereditarietà morale”.
4.2.3
Bisogno di nutrimento e di affetto
Il cibo oltre ad una funzione di nutrimento, ha un valore simbolico poiché consente la
soddisfazione sensoriale: fornisce piacere e rassicurazione, è un mezzo di comunicazione e
gratificazione affettiva.
Freud (1920) definisce fase orale i primi 12-18 mesi di vita del bambino, in quanto concentra
soprattutto sulle necessità del piccolo di soddisfare i bisogni che riguardano la zona orale.
Il pasto diviene uno dei momenti più importanti in cui è permesso al bambino di stabilire un
legame fisico e affettivo con una persona che gli offre calore e protezione. Il senso di pieno dà, infatti,
benessere, mentre il senso di vuoto fa star male, di conseguenza il bambino associa il benessere
della pancia piena a chi gli offre il cibo ed entra in relazione con la persona che lo nutre. All’inizio dello
svezzamento, il bambino può annusare e manipolare ciò che mangia prima di metterlo in bocca per
prendere familiarità e confidenza con il cibo. Il “lasciar fare” deve rimanere un’esperienza affettiva
d’esplorazione e va protetta da eventuali atti distruttivi che potrebbero svalutarla; il bambino che non
mangia, o che rifiuta o divora il cibo esprime con questi gesti, profonde difficoltà legate alla vita
emotiva.
Gli atti aggressivi esprimono un rifiuto del cibo-mamma-amore e servono per vedere fino a che
punto la madre può reggere un bambino con tali problematiche.
La madre adottiva diviene insicura e colpita nel suo intimo si sente inadeguata al suo ruolo.
È bene, però ricordare, che spesso le motivazioni del rifiuto del cibo non sono da ricondurre
alla madre adottiva, ma al legame del bambino col suo passato che lo porta a reagire con atti
aggressivi.
4.2.4
Controllo sfinterico e smarrimento nel sonno
Il periodo che va dall’anno e mezzo ai tre anni è quello che corrisponde alla fase caratterizzata
dalla graduale acquisizione della dimensione della realtà esterna e dalla notevole diminuzione della
propria dipendenza dalla figura di riferimento principale.
In questo periodo il bambino comincia ad avere il controllo del suo corpo, è in grado di
controllare il muscolo sfinterico, per questo motivo si parla di fase anale (Freud, 1920).
Tale controllo è legato alla relazione con la madre, perché per raggiungere l’autonomia è da lei
che ci si deve separare. Essa deve richiedere al bambino la sua emancipazione basandosi sullo
scambio affettivo avuto fino a quel momento. L’elaborazione dei vari sentimenti legati ai conflitti tra le
richieste genitoriali e la sua autonomia richiede, però, molto tempo per essere integrata nella
personalità del bambino in modo completo.
La maturazione psico-fisica consente una maggiore autonomia, al tempo stesso, però il
bambino non si sente ancora sicuro.
In alcuni momenti sembra che il bambino regredisca comportandosi da “bambino piccolo”; ciò
accade varie volte nel corso della crescita e rappresenta una fase normale e passeggera. Il bambino
tra i 15 e 22 mesi apparentemente indipendente, ad esempio, può avere dei momenti di incertezza:
episodi regressivi che per qualche tempo lo fanno tornare dipendente e bisognoso d’attenzioni.
È importante lasciare al bambino la libertà di poter fare ciò che è capace di fare, in modo che
possa sviluppare le competenze tipiche della sua età, la fiducia in se stesso e l’autostima: ingredienti
necessari per una progressiva acquisizione dell’autonomia.
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Durante la notte il bambino ha bisogno di dormire tranquillo per poter sognare e per poter avere
un buon equilibrio nervoso: il controllo notturno è molto lento e richiede tempo e pazienza.
Quando il normale equilibrio del bambino non viene rispettato, egli faticherà ad abbandonarsi al
sonno, anzi, tenderà a rimanere sveglio per controllare la realtà che lo circonda e soprattutto i
genitori.
Un’altra causa dello “smarrimento nel sonno” del bambino è dato dalla paura che esso ha di
perdersi nel nulla e di essere lasciato per sempre.
Ai suoi occhi il non esserci mentre dorme equivale alla morte, il buio assume aspetti minacciosi:
queste fantasie provocano resistenza timore di lasciarsi andare nel sonno.
I bambini abbandonati sentono più degli altri queste sensazioni e presentano dei forti disturbi
nell’addormentamento.
Per essere vicini al bambino bisogna prima identificarsi col suo stato psichico, sentire la sua
profonda angoscia e il suo senso di smarrimento, prendersi carico delle sue paure. È necessaria una
profonda disponibilità e tranquillità interiore, sia per tollerare il rifiuto che il bambino può esprimere, sia
per introiettarlo e farlo proprio. Il bambino adottivo, ancor più del figlio naturale, non riuscendo a
reggere il distacco fisico notturno, per addormentarsi cercherà la presenza del genitore.
È importante non privargliela, altrimenti accumulerà malessere, disagio e rabbia.
È fondamentale parlare con lui, per comprendere cosa lo tormenta: già ad uno, due anni, anche
se non sa esprimersi correttamente, gli si può offrire la parola giusta affinché possa utilizzarla man
mano che cresce. Prima di dormire, inoltre, può essere utile seguire dei preparativi, che devono
essere sempre uguali e nello stesso ordine temporale: mettere a posto i giochi, lavarsi, mettere il
pigiama, stabilire l’orario in cui andare a dormire.
Il rito può aiutare il bambino a tranquillizzarsi e a favorire il passaggio dalla notte al giorno.
4.2.5
La rappresentazione mentale
Il bambino di pochi mesi considera l’ambiente in cui vive un’estensione del proprio corpo: tutto
ciò che avviene attorno a lui trova diretta risonanza dentro di sè, nella sua emotività. Questo modo di
interpretare il rapporto tra sè e la realtà è detto animismo (Piaget, 1923): il bambino attribuisce anche
agli oggetti inanimati coscienza ed intenzionalità.
Crescendo il bambino ha la sensazione che il mondo ruoti intorno a lui e ai suoi bisogni; il suo
pensiero è basato sull’egocentrismo cognitivo (Piaget, 1937).
L’egocentrismo consiste nel riferire alla propria persona ogni esperienza e misurare il mondo
secondo il proprio metro. Per questi motivi il bambino potrebbe arrivare a pensare di essere la causa
d’eventi che in realtà non dipendono da lui e quindi compiere degli errori di valutazione, ad esempio,
credere di essere stato lui la causa della separazione dal suo nucleo d’origine. Anche se il genitore
adottivo cerca di spiegargli la sua storia, il bambino mostra d’avere un’idea poco chiara dell’adozione,
proprio perché la comprensione va di pari passo con lo sviluppo cognitivo.
Lo sviluppo cognitivo avviene grazie a processi d’assimilazione e d’accomodamento che
proseguono durante tutto il percorso della vita (Piaget, 1936).
Il bambino nasce con il desiderio di mantenere un senso d’organizzazione e d’equilibrio nelle
proprie conoscenze e nella propria visione del mondo (equilibrazione).
Quando si trova davanti ad un’esperienza cerca di adattarsi ad essa, ossia mette in atto due
meccanismi che sono contemporaneamente antagonisti e complementari in quanto servono ad
un’unica funzione: l’assimilazione e l’accomodamento.
L’assimilazione consiste nell’incorporare il mondo esterno negli schemi operativi motori,
emotivi, mentali che il bambino già possiede.
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L’accomodamento trasforma questi schemi adattandoli agli oggetti per essere in armonia e
mantenere l’equilibrio con la realtà esterna.
Soltanto grazie alla maturazione e all’esperienza avverrà uno sviluppo psicologico che potrà
portare il bambino a comprendere la sua posizione d’adottato.
Un altro modo del bambino di interpretare l’esperienza traumatica di separazione può essere
quella di allontanare i ricordi precedenti al suo stato d’abbandono e di assimilare la parola “adozione”
con la parola “nascita”, pensando che tutti i bambini siano stati adottati. Un bambino di due anni può
affermare tranquillamente d’essere stato adottato, senza sapere cosa ciò significhi veramente; potrà
desiderare di sentire la sua storia d’adozione, il fatto che i genitori son andati a prenderlo in un paese
lontano, che lo hanno “riconosciuto” tra altri bambini, che si son voluti subito bene, ma non lo capirà
nei termini di un adulto.
4.2.6
Il senso di sè
Il compito più importante nel primo anno di vita è lo sviluppo del senso di fiducia, a cui sono
collegate tutte le altre dimensioni evolutive.
Fiducia significa che il bambino può contare sui propri comportamenti, così come su quelli delle
persone con cui vive.
Se questa fiducia di base non si forma, il piccolo non avrà una sufficiente sicurezza in se stesso
e dubiterà delle intenzioni degli altri. La fiducia in sè e negli altri va di pari passo con la progressiva
percezione di una differenza tra il proprio corpo e quello della madre. Crescendo si colgono i confini
fisici e psicologici tra l’Io e il non-Io. La formazione di questi confini, avviene attraverso un processo
che si svolge nel tempo. Winnicott (1962) definisce fase transizionale dello sviluppo dell’Io, quella
attraverso cui, tra i quattro e i dodici mesi, il bambino costruisce un rapporto tra pura soggettività e
realtà oggettiva.
Winnicott ha postulato uno spazio potenziale tra il bambino e la madre, per dare al gioco un suo
“luogo”.
Lo spazio potenziale viene colmato da specifici oggetti simbolici definiti oggetti transizionali;
questi permettono alla madre di allontanarsi, mentre il bambino se la sente vicino simbolicamente.
Winnicott riconduce ad una stessa linea di sviluppo il sorgere della fase transizionale, il suo
successivo tradursi in gioco immaginativo e infine il vivere creativo e all’intera vita culturale dell’uomo
adulto.
Questa capacità di giocare e poi di vivere creativamente è determinata dal rapporto di fiducia o
meno che inizialmente il bambino ha avuto con il mondo esterno. Sono proprio i simboli sostitutivi
della madre, il gioco creativo e l’esperienza culturale che nella mente del bambino evitano la
separazione.
Daniel Stern (1975), noto psichiatra infantile, ha individuato quattro momenti dell’emergere del
senso di sè nel corso dei primi dieci mesi di vita: momenti che corrispondono ad altrettante scoperte
da parte del bambino che si apre alla vita:
•
Sè poroso. Il neonato tenta di coordinare le prime percezioni, emozioni, movimenti e sensazioni
in modo improbo, poiché non ha ancora una visione d’insieme dei fenomeni. In questa fase non
ci sono confini tra sè e il resto di un mondo totalmente “poroso”: non c’è differenza tra lui e la
madre, tra il suo corpo e quello delle persone che lo accudiscono.
•
Primo nucleo del sè. Gradualmente il bambino scopre di essere un’entità diversa e separata
dalla madre; quando questa scoperta diventa chiara e stabile è come se il bambino vivesse una
seconda nascita.
•
Senso oggettivo di sè. Tra i sei e i nove mesi sia pure ad un livello molto iniziale, il bambino
incomincia a capire le intenzioni degli altri da alcuni loro semplici comportamenti che si ripetono
nell’arco della giornata.
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•
Senso di sè verbale. Intorno ai quindici, venti mesi si sviluppa il linguaggio che consente delle
prime forme di riflessione su di sè. Le parole aiutano a pensare in un modo nuovo, ad un livello
più rappresentativo; ora il bambino quando si guarda allo specchio, si riconosce e non pensa
più di vedere un altro bambino. Tra il primo e il terzo anno di vita il bambino diventa, quindi,
impegnato ad esercitare un controllo su di sè, sul mondo e mostra di avere una sana voglia
d’autonomia: gli piace provare, fare e capire.
A questo punto si può affermare che quanto più salda e sicura è stata la formazione del
primitivo Sè, tanto più sarà facilitato lo sviluppo dello stesso Sè nel suo cammino verso l’indipendenza
e la maturità adulta.
Per le formazione di un Sè integro ed autentico occorrono, quindi, il potenziale ereditario del
bambino e una madre “sufficientemente buona” (Winnicott, 1962).
Questi due fattori sono considerati, indispensabili, il problema diventa complesso se si
considera il Sè del bambino adottato (Winnicott, 1984) la cui realtà è quella dell’abbandono e il rifiuto:
mancano le caratteristiche essenziali per favorire i processi maturativi, ossia della continuità,
dell’attendibilità.
Tali mancanze creano attorno al bambino un ambiente non familiare fatto di odori, sensazioni
tattili, suoni così diversi e incostanti, da creare in lui instabilità ed insicurezza.
Senza il filtro di una persona che si prenda cura di lui, il piccolo non ha la presentazione di
quelle porzioni del mondo adeguate alle sue possibilità, che potrebbero dargli ripetute occasioni
d’illusione.
Senza il requisito della continuità, il bambino si trova davanti ad un compito arduo: il processo
di scoperta del mondo e di riunificazione delle varie parti del suo Sè in un tutto coerente, possono
risultare notevolmente ostacolati e compromessi.
Il Sè, infatti, riconosce se stesso nell’espressione della madre e nello specchio che il suo viso
può arrivare a rappresentare.
Attraverso tale rispecchiamento il bambino conosce dal corpo e dai gesti della madre il proprio
corpo e i propri gesti, riconoscendosi in lei.
Il bambino adottato vive l’angoscia di questa perdita e sviluppa come estrema difesa uno stato
di non integrazione, ostacolando così il naturale processo evolutivo.
4.2.7
L’importanza del dialogo
Comunicare significa saper usare il linguaggio verbale e non verbale, in modo da trasmettere e
comprendere efficacemente i messaggi.
La parola è ciò che permette di comunicare con gli altri, che fa accedere al mondo simbolico e
crea legami affettivi con l’altro.
Il bambino per provare il desiderio di parlare, comunicare, ha bisogno di sentire che la propria
storia è presente e mantenuta nella mente della figura di riferimento; pertanto il genitore deve
imparare ad “osservare” con la mente sgombra da aspettative e proiezioni, per comprendere e
accompagnare il bambino nella direzione che lui spontaneamente intraprende.
Jerome Bruner (1983) sostiene che il ruolo dell’adulto è essenziale per lo sviluppo delle
competenze comunicative, in quanto il suo contributo non si esaurisce nel porsi in rapporto con il
bambino.
La capacità dell’adulto si basa sul modo di costruire questo rapporto: dare un significato ai
suoni e alle prime espressioni infantili, rivolgere un’attenzione congiunta agli oggetti dell’ambiente.
Questi scambi producono modelli d’interazione e garantiscono una capacità di creare significati
condivisi, che iniziano già nel periodo neonatale.
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Quando una madre e il suo bambino si trovano faccia a faccia, si verificano fasi d’interazione
sociale. Ogni fase comprende espressioni facciali e vocali che portano la madre a modificare il proprio
comportamento per adattarsi al bambino: ogni azione viene accordata per tempo e per forma a ciò
che il bambino sta facendo.
La madre usa un linguaggio semplificato, la scelta dei vocaboli è ripetitiva e l’intonazione è
particolarmente accentuata proprio per comunicare efficacemente con il bambino e facilitargli
l’acquisizione del linguaggio.
La velocità e l’efficienza con cui il dialogo si sviluppa e la mutua soddisfazione che produce,
indica che ciascun partecipante è preadattato per impegnarvisi; da una parte c’è la prontezza intuitiva
della madre, dall’altra c’è quella dei ritmi del bambino che si adattano gradualmente agli interventi
materni.
Esempi per la comprensione di questo tipo di interazioni sono le ricerche condotte da Klaus,
Trause e Kennel (1975) che hanno osservato il comportamento delle madri nei confronti dei figli dopo
il parto. Essi hanno constatato che le madri tendono a prendere i piccoli in braccio e ad accarezzare il
loro volto, prima con la punta delle dita, poi piano piano utilizzando tutto il palmo della mano, fino ad
arrivare ad accostare i neonati al seno. Dal momento della nascita l’attenzione si riversa sul bambino:
la madre trascorre molte ore a guardarlo, a cullarlo, soprattutto durante il momento dell’allattamento
Kaye (1977) ha scoperto che tende ad interagire in perfetta sincronia con lo schema del bambino di
succhiare e fare una pausa: l’esame del ritmo temporale mostra che è il bambino a condurre e la
madre a seguire.
Quello che, infatti, emerge da questi studi è che la madre dotata di sensibilità riesce ad
accostarsi ai ritmi del suo bambino e a creare con lui un dialogo profondo, noto solo a loro due. Man
mano che il bambino cresce il linguaggio diventa di tipo egocentrico, poiché il piccolo non riesce ad
uscire dal proprio punto di vista per assumere quello altrui.
Le forme più tipiche di questo tipo di linguaggio sono: la ripetizione o ecolalia, il monologo e il
monologo collettivo; in quest’ultimo caso più bambini parlano contemporaneamente ma ognuno si
rivolge soltanto a se stesso.
Soltanto grazie all’informazione adattata (Piaget, 1955) il bambino uscirà dalla pseudoinformazione del monologo riuscendo a trasmettere ai suoi interlocutori informazioni comprensibili,
socialmente adattate.
Lo sviluppo della capacità comunicativa del bambino è fortemente legata alla crescita della sua
capacità a prendere in considerazione la prospettiva di chi ascolta ed è una conquista che
presuppone il superamento di molti ostacoli sia di natura cognitiva che emotiva.
Per instaurare un rapporto basato sul dialogo e l’ascolto c’è, infatti, bisogno di una disponibilità
emotiva, di una fiduciosa accettazione dell’altro.
Le persone non disposte ad accettare emotivamente la diversità dell’altro erigeranno barriere a
livello comunicativo; soltanto con l’accettazione dell’altro si potrà costruire un rapporto.
Accettare significa ammettere la diversità dell’altro e capire che le azioni e pensieri sono diversi
da persona a persona.
Per quanto riguarda il bambino adottato che ha subito gravi privazioni affettive, può accadere
che non sia motivato interiormente a parlare, che viva le parole come fossero pericolose e che tenti di
controllarle. In tal caso è importante concentrare l’attenzione su comportamenti riparativi d’amore, per
ripristinare in lui il benessere mancato e la voglia di comunicare.
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4.3 IL BAMBINO DA TRE A SEI ANNI
4.3.1
L’autonomia: sviluppo motorio e verbale
L’età compresa fra i 3 e i 6 anni è caratterizzata da importanti conquiste da parte del bambino,
che compie notevoli progressi in tutti i settori della sfera intellettiva e in modo particolare nel
linguaggio, nella cognizione dello spazio, del tempo, della causalità. La curiosità e l’entusiasmo per
ogni cosa nuova contribuiscono ad aumentare la sua sensibilità ricettiva.
In questo periodo dell’autonomia (Erikson, 1963) il bambino acquista delle abilità che gli
permettono di esplorare, prendere iniziative, porre domande su qualsiasi cosa vede o accade intorno
a lui.
Le esperienze che compie in modo autonomo, come l’allacciarsi le scarpe, lavarsi i denti,
guidare il triciclo, lo sostengono nella formazione della sua personalità. La riuscita rinforza la sua
sicurezza e la sua disponibilità nel compiere altre esperienze. Per potersi sentire libero e sicuro, il
bambino ha bisogno di avere un’idea di quali siano le regole e le aspettative degli adulti. Le regole
aiutano a capire ciò che è lecito e ciò che è vietato in quanto pericoloso, ma devono essere poste in
modo da non limitare l’entusiasmo e la creatività del piccolo. Tale creatività emerge con il pensiero
simbolico: linguaggio e altre forme di simbolizzazione (gestualità, disegno...) permettono al bambino
di ampliare la sua visione del mondo attraverso la rappresentazione mentale di persone, oggetti,
eventi, situazioni. Questa capacità è molto importante perché consente di pensare al proprio mondo
senza bisogno di dover agire su di esso attraverso i sensi, che pure continuano a restare per tutta
l’infanzia un veicolo fondamentale di conoscenza. Ad esempio, un bambino di pochi mesi interagisce
con la mamma toccandola, annusandola, mentre un bambino di due o tre anni può rappresentarla con
le parole, con il disegno, nel gioco.
Per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio, il bambino riesce ad utilizzare a livello del
discorso le regole grammaticali e morfosintattiche che prima controllava solo a livello frasale. Grazie a
questo progresso il bambino giunge a cimentarsi con interazioni verbali più complesse ad esempio
evoca situazioni non presenti, fornisce resoconti di eventi ed esperienze passate. Secondo Pichert e
Anderson (1977) durante l’ascolto di un testo un individuo se ne costruisce una rappresentazione
mentale grazie a processi di inferenza che gli permettono di cogliere il significato delle singole
proposizioni, di metterle in rapporto l’una con l’altra e di collegare le informazioni che ne trae con le
conoscenze e le esperienze personali di cui dispone circa l’argomento in questione.
Un tipo di produzione particolarmente studiato per verificare la relazione tra l’organizzazione
delle conoscenze e la produzione linguistica nei bambini è stata la narrazione di storie (Baumgartner,
Devescovi, 1996).
Narrare è un’attività che permette di cogliere il funzionamento di molti processi psicologici: l’uso
della memoria episodica, semantica, l’attivazione di processi di problem solving, la sfera emotiva
tramite i sentimenti che possono nascere verso i personaggi. Le storie, in particolare quei testi che
entrano a far parte della vita quotidiana, contribuiscono alla strutturazione del Sè in un contesto
sociale e rappresentano un vero e proprio prodotto culturale attraverso cui si tramandano valori,
conoscenze e principi educativi.
Nella situazione adottiva i genitori devono porsi dalla parte del bambino e sostenerlo nella
rielaborazione della perdita e del rifiuto della famiglia d’origine: è necessario che diventino i primi
testimoni dell’adozione e che non diano informazioni distorte. Molti bambini fra i tre e i sei anni amano
sentir raccontare la loro storia di adozione, alcuni hanno dei ricordi ben precisi, altri confusi, altri
ancora non ricordano nulla. Sta ai genitori riuscire a raccontare una favola che possa sostenere il
piccolo nella costruzione della sua identità e farlo sentire parte di una famiglia (Pasquale, 1977).
4.3.2
Lo sviluppo sociale
Il periodo tra i tre e i sei anni è molto importante per lo sviluppo della socialità: il bambino ha un
interesse crescente per i suoi coetanei e si avventura verso quel mondo sconosciuto che sta oltre la
porta di casa.
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Sebbene abbia già avuto modo di avvicinare altri bambini negli anni precedenti, è soprattutto in
questo periodo che impara a vivere in armonia coi propri pari. Impara a condividere, a rispettare i
turni, a tradurre i sentimenti in parole, a far rispettare i propri diritti e a rispondere ai maltrattamenti.
Mentre entra in contatto con gli altri, edifica, passo dopo passo, la fiducia in se stesso.
Come hanno evidenziato Tassi e Fonzi (1991), durante l’età prescolare si registra una
progressiva tendenza ad acquisire modalità sociali sempre più adeguate allo svolgimento della
cooperazione. Gli anni della scuola materna sono caratterizzati dalla cultura dei coetanei (Carugati e
Selleri, 1996) ossia da quell’insieme stabile d’attività, routine ed obiettivi comuni che i bambini
condividono durante l’interazione con i coetanei. L’importanza di partecipare alla vita di gruppo, il
tentativo di affrontare le incertezze e le paure e il mettere in discussione ciò che dice l’adulto,
rappresentano i temi dominanti di tale cultura.
Gran parte delle interazioni tra pari avvengono all’interno di situazioni di gioco. Grazie alle
capacità verbali e al gioco simbolico che i bambini padroneggiano, essi sono in grado di costruire
nuove versioni della realtà, comunicare significati, negoziare regole. Non sempre, però, il bambino
riesce a sentirsi parte del gruppo: le relazioni con i bambini della sua età sono radicalmente diverse
dall’universo famigliare. Nella famiglia è amato ed accettato per quello che è, invece, tra gli altri
bambini potrebbe non essere così. Il mondo dei bambini ha un sistema tacito di regole e d’esigenze,
che contribuiscono a sottolineare sia i propri punti di forza che le proprie debolezze: si può essere
accettati ma si può anche essere rifiutati. Connesse con le relazioni d’accettazione, rifiuto ed
isolamento ci sono spesso forme di interazione di tipo prosociale oppure aggressivo. Le condotte
prosociali denotano un interesse verso l’altro, a condividere risorse, a partecipare ad attività,
un’esigenza di voler mantenere un legame. Queste azioni possono essere il frutto di una
partecipazione empatica, vale a dire di un riconoscimento delle emozioni del compagno e di una
risposta emotiva corrispondente (Bonino, Lo Coco e Tani, 1998).
Le interazioni di tipo aggressivo sono piuttosto comuni negli anni prescolari perché
costituiscono una forza importante che può consentire di superare la dipendenza infantile e garantire
l’affermazione di sè.
Il termine aggressività, infatti, deriva dal latino adgredior che significa “avanzo verso”, quindi
muoversi in direzione dell’altro per affermare se stessi, la propria vitalità, ma anche per riconoscere il
confine che separa la propria personalità da quella dell’altro.
L’aggressività è legata al processo di separazione-individuazione che il bambino adottato
intraprende grazie al rapporto con i nuovi genitori. Essa deve essere vista come un movimento sano e
vitale, essenziale alla separazione, al senso di realtà e di conoscenza.
Quando il bambino avanza nei rapporti utilizzando spesso, però, condotte di tipo aggressivo,
diventa necessario fornirgli un argine, un confine, un contenimento, vigoroso e determinato (Fischetti,
1996).
L’aggressività deve essere utilizzata in maniera produttiva per poter mantenere una buona
competenza sociale. È necessario trovare una mediazione tra la necessità di opporsi per affermare i
propri bisogni e quella di non perdere i legami con il gruppo.
Il bambino molto attivo, turbolento e poco collaborativo rischia periodi di incertezza e di
tensione con i suoi coetanei di essere rifiutato. Per reazione egli poterebbe ritrarsi in se stesso ed
evitare gli altri bambini.
Consentirgli di restare al riparo dentro casa e di isolarsi, non è una buona strategia per i
genitori che si trovano a dover fronteggiare tali problematiche.
Il genitore che si trova davanti a tali situazioni deve sostenere il bambino nel riconoscere, non
negare, le proprie emozioni e comunicargli che non c’è nulla di strano in quello che sta provando e
che si cercherà insieme una soluzione.
Pagina 35 di 78
4.3.3
I perché
A partire dai tre anni il bambino incomincia a notare le differenze di genere e ad assumere
comportamenti dell’uno o dell’altro sesso che vede assumere dagli adulti.
Secondo Freud (1920) il bambino attraversa la fase fallica caratterizzata da un forte interesse
sessuale per i propri genitali. In questo periodo il bambino elabora il complesso di Edipo, ossia, vive
fantasie e desideri per il genitore dello stesso sesso e una forte rivalità e gelosia per il genitore dello
stesso sesso.
Il superamento di questo complesso costituisce un punto centrale nello sviluppo della
personalità. Esso avviene, nel maschio, attraverso il complesso di castrazione da parte del padre
rivale, del quale teme la vendetta per aver provato desiderio sessuale verso la madre. Ha così inizio
un processo d’identificazione con il padre prima odiato e ora preso a modello di viralità. Nella
femmina, invece, la constatazione di non avere un pene la porta, prima ad innamorarsi del padre,
ponendosi così in rivalità con la madre, in seguito a superare tale rivalità identificandosi con la propria
madre. Importante, nel processo d’identificazione sessuale, è quindi, il modo di comportarsi dell’adulto
verso il bambino o la bambina: sentirsi riconosciuto ed apprezzato dal genitore dell’altro sesso, è per i
bambini, motivo d’orgoglio e favorisce l’identificazione con il proprio sesso.
È importante che i genitori rispondano sempre alle domande, fornendo spiegazioni concrete,
magari con esempi che facciano riferimento alla vita, al mondo, alle azioni del bambino stesso. A
volte, la sua legittima curiosità diventa quasi un gioco di provocazione nei confronti dell’adulto: il
bambino cerca di metterlo alla prova per verificare la sua prontezza. Occorre rispondere sempre
francamente e con sincerità, perché il rischio di rispondere evasivamente o di rinviare la risposta può
suscitare nel bambino maggiori dubbi. Le domande poste all’adulto hanno una forte valenza
comunicativa e richiedono risposte di tipo affettivo: il bambino vuole sentirsi dire che esiste e che gli si
vuole bene, che anche se è noioso gli si dà retta, che non lo si è ingannato nelle risposte precedenti
ecc.
Una delle domande più frequenti che il bambino incomincia a porsi intorno ai quattro anni,
riguarda, ad esempio, la differenza e la somiglianza con le altre persone che inizia cogliere, sia pure
in maniera estemporanea.
A questa età egli non distingue i tratti fisici non modificabili da quelli modificabili come l’altezza
e il peso e pensa che crescendo possa cambiare i tratti somatici e ad esempio, un bambino adottivo,
il colore della pelle per assomigliare ai suoi genitori e amici. Il desiderio di assomigliare ai propri
famigliari e ai propri coetanei è comprensibile, in quanto le caratteristiche fisiche aiutano nella
definizione di se stessi in relazione agli altri. Nella maggior parte delle famiglie, la somiglianza fisica è
un dato di fatto, non è lo stesso nel caso delle famiglie adottive e il bambino può sentirsi confuso.
Ciò che conta è creare la possibilità di uno scambio su questo tipo di argomenti: il piccolo ha
bisogno d’essere tranquillizzato con spiegazioni che sottolineino gli aspetti positivi della sua come di
altre razze.
4.3.4
L’ansia e la paura del bambino
Quando un bambino vive insieme ad adulti che si occupano di lui con equilibrio, armonia e che
gli forniscono l’affetto di cui ha bisogno, cresce sereno ed autonomo. Il bambino adottivo che dal
canto suo spesso, invece, non ha sperimentato il senso di sicurezza e di fiducia verso una o più
persone adulte, vive eventi come l’ansia e la paura con maggiore intensità rispetto ad altri bambini.
L’esperienza d’abbandono espone il bambino al rischio di un’ansia cronica, per questo motivo i
genitori adottivi devono essere molto comprensivi e fornirgli il maggior sostegno possibile.
Il termine ansia deriva dal latino angere che significa: provocare collera, causare dolore e si
manifesta con una sensazione di confusione, perdita di fiducia, scarsa autostima ecc. Il bambino può
avere difficoltà nelle relazioni interpersonali: è irritabile, incapace di gestire anche le più piccole
frustrazioni. La paura è l’ansia provocata da qualcosa che il bambino può vedere, sentire, provare e si
manifesta come emozione intensa che accompagna la percezione di un pericolo reale o potenziale.
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L’esperienza della paura è esperienza del limite, della finitudine, della fragilità, consapevolezza delle
proprie possibilità di risposta alle sollecitazioni ambientali. Il bambino che si trova a confronto con ciò
che è nuovo è particolarmente esposto alle paure, che provocano in lui indecisione, sospetto di
pericolo...
La fonte di pericolo viene rielaborata nel vissuto soggettivo dando luogo ad immagini che
finiscono con l’acquisire una loro relativa indipendenza, al punto che la reazione di paura viene a
scatenarsi per la presenza dell’immagine interiore che lo rappresenta e lo sostituisce. È come se
dinanzi ad una serie di esperienze di disagio, il soggetto finisca col condensare la difficoltà attorno ad
un’immagine, ad esempio, quella dell’uomo nero, che nell’immaginazione viene ad arricchirsi
d’ulteriori elementi tratti dall’esperienza infantile. Questa immagine così codificata e sempre esposta
ad ulteriori arricchimenti, riemerge nel vissuto del bambino, specialmente durante il sogno; è per
questo che il bambino si sveglia spesso spaventato, le sue paure non sono altro che una risposta ad
immagini che hanno un rapporto con la realtà. Le paure del bambino sono riconducibili o a reazioni a
pericoli esterni e in qualche modo riscontrabili nella condizione fattuale, oppure a reazioni verso
immagini interne difficili da ricostruire e da interpretare. Un modo per comprendere il mondo delle
paure del bambino è dato dal racconto delle fiabe, sia perché consegnano al bambino prototipi di
immagini che si prestano a raccogliere e le angosce del piccolo, sia perché facilitano lo scambio fra
esperienza esterna ed interna. Nel racconto le figure-simbolo sono prima assunte dal bambino, che
trova così un oggetto attorno al quale condensare le sue angosce, poi attraverso la verbalizzazione,
sicché il materiale ansiogeno viene in qualche modo messo all’esterno e reso meno preoccupante.
Quando a scuola il bambino viene sollecitato a manipolare gli oggetti e ad intervenire su di essi
produttivamente, si determinano situazioni di consenso e di approvazione che accrescono la
sicurezza personale. Il bambino che si fa padrone delle cose è sicuramente più sicuro e quindi meno
esposto alle paure; per altro il bambino che a scuola e a casa trova occasione di verbalizzare, che
viene aiutato ad esternare attraverso i racconti di fiabe conflitti ed angosce, trova in tutto questo,
occasione e possibilità di difesa dalle paure. In questo caso la paura agisce come segnale, connesso
al crescere del senso della realtà e, quindi, come correlato della percezione del limite e della
percezione delle proprie effettive possibilità. Per liberarsi della paura è necessario poterla riconoscere
ed accettare, la scuola dell’infanzia può offrire l’occasione ed essere il luogo di scoperta e
manifestazione di sentimenti, di ridimensionamento e contestualizzazione. Il bambino che si trova ad
esprimere sentimenti molto forti, ha bisogno di tempo e di una relazione educativa che sappia
sostenerlo quando necessita. Il bisogno della presenza dell’adulto e della sua sicurezza diventa ancor
più necessario quando il bambino ha vissuto esperienze d’abbandono. Il distacco dalle figure
parentali, che per il bambino costituiscono un punto stabile di riferimento prova in lui ansia e
disorientamento.
Un altro modo per comprendere le paure del bambino è quello di osservare i suoi disegni
(Corman, 1970):
•
Omissioni: riguardano soprattutto l’assenza delle mani e dei piedi nel disegno. L’assenza
simboleggia il sentimento di impotenza del bambino, la sua incapacità di controllare ciò che di
negativo gli sta succedendo e la sensazione di essere dominato
•
Distorsioni: quando un bambino di 5 o 6 anni rappresenta un disegno grottesco ciò può
significare che sia in preda ad una grande ansietà.
•
Forza del tratto: la pressione è il risultato della tensione muscolare che è stata impiegata per
tracciare il disegno. Poiché non è necessaria, essa indica che il bambino si trova sotto
l’influenza di uno stress mentre realizza il disegno. È necessario analizzare più disegni, poiché
la tensione può anche essere occasionale. Se la pesantezza del tratto compare spesso nei
disegni allora si è in presenza di ansia.
•
Colore: quando un colore diventa predominante, ad esempio il bambino colora tutto il disegno
con un unico colore, anche quando l’oggetto del disegno non lo richiede, può significare che
sono presenti problemi d’ansia. Se nei disegni del bambino prevale l’uso del porpora e il nero,
significa che il piccolo sta vivendo un periodo di conflitto che lo sta facendo soffrire. Egli ha,
pertanto, bisogno di rassicurazione e sostegno da parte dell’adulto. Dopo aver ultimato il
disegno può accadere che il bambino ricopra alcune parti con un altro colore, ad esempio a un
prato verde sovrappone il colore giallo o ricolora una casa di mattoni di nero. Le emozioni
espresse dal primo colore vengono nascoste dal secondo colore. Se, ad esempio, il bambino
copre il rosso con il nero, ciò può stare a significare che l’ansia viene usata per celare la rabbia.
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Capire la natura della sovrapposizione dei colori fornisce un aiuto per comprendere le inibizioni
e i conflitti del bambino.
Un altro modo per i genitori di comprendere il mondo del figlio è quello di dare un ruolo decisivo
alle fiabe, sia perché esse consegnano al bambino prototipi d’immagini che si prestano a raccogliere
e le angosce del piccolo, sia perché facilitano lo scambio fra esperienza esterna ed interna. Nel
racconto delle fiabe le figure-simbolo vengono prima assunte dal bambino, che trova così un oggetto
attorno al quale condensare le sue angosce, poi attraverso la verbalizzazione, sicché il materiale
ansiogeno viene in qualche modo messo all’esterno e reso meno preoccupante. Quando il bambino
viene sollecitato a manipolare gli oggetti e ad intervenire su di essi produttivamente, si determinano
situazioni di consenso e di approvazione che accrescono la sicurezza personale. Il bambino che si fa
padrone delle cose è sicuramente più sicuro e quindi meno esposto alle paure; per altro il bambino
che trova occasione di verbalizzare, che viene aiutato ad esternare attraverso i racconti di fiabe
conflitti ed angosce, trova in tutto questo occasione e possibilità di difesa dalle paure. In questo caso
la paura agisce come segnale, connesso al crescere del senso della realtà e, quindi, come correlato
della percezione del limite e della percezione delle proprie effettive possibilità. Per liberarsi della
paura è necessario poterla riconoscere ed accettare; il bambino che si trova ad esprimere sentimenti
molto forti, ha bisogno di tempo e di una relazione educativa che sappia sostenerlo quando necessita.
Il bisogno della presenza dell’adulto e della sua sicurezza diventa ancor più necessario quando il
bambino ha vissuto esperienze d’abbandono. Il distacco dalle figure parentali, che per il bambino
costituiscono un punto stabile di riferimento prova in lui ansia e disorientamento. Il bambino deve
avere l’occasione di sperimentare fin dall’inizio del rapporto con i suoi nuovi genitori la costruzione di
un rapporto di fiducia, la disponibilità nei suoi confronti, la capacità di accoglierlo con le sue
potenzialità e differenze.
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5
RACCONTARE L’ADOZIONE: I LIBRI PER L’INFANZIA
I libri per bambini possono essere considerati come percorsi di crescita per l’infanzia. La
valenza formativa della letteratura è individuata nei contenuti e nei temi proposti e in particolare nei
modelli di vita e nei valori presenti attraverso la narrazione, valori espressi in forma indiretta ed
emotivamente pregnante attraverso i personaggi e le loro azioni.
Sono considerati libri per l’infanzia, sia le storie e leggende tradizionali, le raccolte
d’illustrazioni, le brevi storie di tipo narrativo, i materiali figurati e scritti che illustrano fenomeni della
vita naturale e culturale, che i libri animati, da manipolare, da costruire e ricostruire, di svariati
materiali e fattezze, i quali arricchiscono e completano il quadro.
Oggi i libri per bambini rappresentano uno specchio della stessa condizione infantile, tendono a
riprodurla nelle sue varie sfaccettature, a dare ai bambini un caleidoscopio d’immagini e di aspetti
della loro stessa vita, in cui trovarsi e riconoscersi. Parlano ai bambini dei bambini stessi, delle loro
preoccupazioni, vicissitudini e vissuti quotidiani. Questi libri si rivolgono anche ai piccolissimi, di uno o
due anni, quando riproducono la successione di eventi ordinari di una giornata, di una gita in barca, di
una festa di compleanno, della spesa al supermercato, dei giochi che si possono fare quando c’è la
neve, oppure sulla spiaggia e così via. La rappresentazione vicaria dell’esperienza coincide con il
ritrovare gli ingredienti della propria esperienza squadernati in lucide pagine colorate e interpretate da
orsetti o da pinguini antropomorfizzati (Cardarello, 1998).
I libri per l’infanzia nascono, pertanto, come direttamente rivolti ai bambini stessi e affrontano
temi su misura: l’amicizia, la natura, la scuola, le paure o su conflitti rappresentati, per esempio, dalla
nascita del fratellino, le relazioni all’interno della famiglia... Un universo poco esplorato, e solo
recentemente preso seriamente in considerazione, è il tema dell’adozione e quindi il rapporto con i
genitori adottivi, il riconoscimento della diversità, il rapporto con i coetanei... L’obiettivo è quello di
sostenere il bambino nel riconoscimento delle sue paure e di comprendere che esse esistono al di là
del fatto che si sia stati o meno adottati. I genitori vorrebbero dare delle risposte sincere, fin da subito,
come il bambino vuole e come ha assolutamente il diritto d’avere, ma nella sua storia c’è una parte
facile, quella che riguarda la vita con i suoi attuali genitori, una storia vera e definitiva, e una storia più
difficile, della quale generalmente si sa molto poco. È la storia del pezzo di vita che il bambino ha
vissuto con i suoi genitori d’origine, o con un solo genitore, o parente, forse in una casa ed infine in
istituto.
Quando il bambino comincia a fare domande sulle sue origini, sul suo passato, sul colore della
sua pelle, potrebbe cogliere i genitori impreparati, perché non è facile parlare di questi argomenti. La
lettura di un libro diviene, pertanto, lo strumento consigliato, il mezzo attraverso il quale le paure
vengono affrontate e gestite, insieme all’adulto, fino alla loro scomparsa.
La lettura di un libro, che affronta le tematiche legate all’adozione, può diventare lo strumento
ideale per iniziare ad approcciarsi a tale realtà.
Si può scegliere di raccontare ai figli adottivi la loro storia provando a trasportare, anche
visivamente, l’immagine della nascita, dall’utero, dalla pancia, al cuore. Si può, appunto, dire al
bambino che è nato sia dalla pancia di una donna che gli ha fatto il dono della vita, sia da una
particolarissima e specialissima via della sua attuale mamma: il cuore. Una via che non è dato a tutti
percorrere, ma che è sentita come quella vera, autentica, perché si basa su di un bene profondo. Il
cuore è un’immagine che ha sempre le sue forti valenze, presente in tutte le culture e in tutte le
lingue. "Anche un bimbo sa cos’è, quella cosa rossa, palpitante e che batte come un piccolo tamburo
al centro del petto. Anche un bimbo comprende i molti e annessi significati emotivi" (Miliotti, 1999). In
questo modo si trova un accordo tra la realtà e la fantasia; viene detta la verità, soddisfatta la
coscienza dei genitori e si trova risposta alla sollecitazione affettiva di quel dolcissimo cucciolo
bisognoso d’amore. Le sue ansie e la sua ricerca di sicurezza saranno calmate, grazie ad una storia
vera, bella e dolce... Quella del “cuore della mamma”.
In questa sede ho analizzato i contenuti di alcuni libri adatti ai bambini prendendo in
considerazione le seguenti tematiche:
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•
la storia della coppia che decide di adottare e la realtà del bambino in stato d’abbandono, riletto
in chiave positiva;
•
l’incontro tra la coppia e il piccolo e il dialogo “liberatorio” che deve crearsi con i genitori per
l’accettazione del proprio passato;
•
l’accoglienza senza riserve del “diverso”, che non deve sentirsi estraneo, ma parte integrante
della famiglia;
•
l’importanza del costruire insieme un albero genealogico per l’affermazione di un vero e proprio
senso di appartenenza;
•
rendere consapevole il bambino della sua appartenenza, della sua storia, delle sue radici e
quindi offrirgli le ali per iniziare a volare verso il suo cammino di individuazione.
In bibliografia ho inserito una rassegna di testi adatti all’infanzia, suggeriti dagli stessi genitori
adottivi, che ho trovato visitando i siti internet che trattano il tema dell’adozione.
Una bibliografia completa
www.adozioneinternazionale.net
ed
aggiornata
si
trova
in
particolar
modo
sul
sito
L’obiettivo del c’era una volta di “Una mamma di cuore: una storia di adozione”(Lewis, 2001) è
quello di presentare una realtà dalle mille sfaccettature e piena di emozioni e di trasmettere al
bambino sensazioni, immagini e strumenti utili per iniziare a conoscere la propria storia di adozione. I
protagonisti di questa storia sono sia una piccola bimba che vive in Cina, che la sua futura mamma
adottiva. Questa storia è molto simile a tante altre storie di vita e quindi, nel leggerla, molti genitori e
bambini possono identificarsi e percepirla come la loro storia d’adozione. “C’era una volta in Cina una
bimba che stava dentro a una grande stanza, insieme a tante altre bambine. Ogni piccolina divideva
la culla con un’altra ed erano tutte grandi amiche... A prendersi cura di loro c’erano le didi...
Lontano lontano, dall’altra parte dell’oceano, c’era una donna, anche lei aveva molte amiche,
ma le mancava qualcosa: una bambina. La donna scrisse una lettera alle autorità in Cina e chiese il
permesso di adottare una delle bambine che stavano dentro alla grande stanza. Dopo qualche mese
ricevette una lettera con la foto di una bambina bellissima... ”
Viene quindi presentata sia la situazione della bambina che vive in istituto con altri bambini e
con sole figure di riferimento che abbia mai conosciuto: le didi. Sia il desiderio della donna di
diventare madre e il procedimento burocratico che deve seguire per giungere laddove il suo cuore da
sempre le diceva d’andare.
“Nel giro di poche settimane, la donna fece la valigia riempiendola di giocattoli, libri, pannolini,
cibo e vestiti: tutto solo per la bambina e prese l’aereo per affrontare il lungo viaggio fino in Cina.
C’erano anche molte altre famiglie nell’attesa di conoscere i loro bambini; la donna era molto
emozionata e nervosa, perché non vedeva l’ora di stringere la bambina tra le sue braccia. Il giorno
dopo le didi portarono la bambina e le piccole amiche in città perché potessero incontrare i nuovi
genitori. La donna era tanto felice che scoppiò a piangere appena la prese in braccio, anche la
bambina pianse: era da una vita intera che l’aspettava”. Raccontare l’adozione in questi termini aiuta
il bambino a farsi pian piano un quadro chiaro della sua realtà, del forte desiderio e amore dei genitori
nei suoi confronti, che li ha spinti a superare ogni tipo d’ostacolo e di difficoltà, che li ha incoraggiati a
prendere l’aereo e a fare un lungo viaggio faticoso, ma che li ha portati fino a lui. Nel corso della storia
viene descritto l’arrivo in albergo, la prima notte trascorsa insieme: “quella prima notte la bambina
indossava la tutina che la donna le aveva portato dall’America: rimboccate le coperte, iniziò a baciarle
mille volte le manine e i piedini: era innamorata pazza di lei”.
In questo passo si parla di una tutina di un capo vestiario che acquista un significato profondo,
in quanto diviene il simbolo del loro primo incontro. È importante che i genitori conservino non
soltanto nel loro cuore, ma anche materialmente degli oggetti, dei vestiti, delle scarpe, che lascino un
segno nel tempo, un ricordo di quei momenti, della loro unione. Il racconto procede con la descrizione
del lungo viaggio di ritorno verso casa “era la fine di un viaggio incredibile e l’inizio d’un altro”;
l’incontro con i nuovi nonni, cugini, amici che erano pronti a sommergerla di baci ed abbracci.
“Quando tutti se ne andarono e quel primo giorno scivolò nella notte, la donna la portò nella sua
stanza, la cullò e le cantò una ninnananna fino a farla addormentare: erano diventate madre e figlia
per sempre...”
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Nel sentirsi raccontare questa storia il bambino potrebbe percepire le attenzioni prestate dalla
donna, come quelle della propria madre ed immedesimarsi con la protagonista del libro. Questa storia
potrebbe diventare lo spunto per poter creare una propria storia personale, unica ed irripetibile da
raccontare al proprio bambino. Il piccolo, grazie ad essa, potrà apprendere i particolari della sua
nascita e delle difficoltà che ha affrontato, nonché di tutto l’amore che i suoi genitori, da qualche parte
del mondo erano pronti a donargli.
Il libro: “Mamma di pancia, mamma di cuore” (Miliotti, 2003) conduce ad una riflessione
profonda sulle problematiche dell’adozione, poiché la storia di Sheffali è la storia di una bambina
indiana abbandonata poco dopo la sua nascita, il cui abbandono viene riletto in chiave positiva, grazie
al dialogo sincero, spontaneo e costruttivo con la madre adottiva. Sheffali immagina insieme a
Cristina (madre adottiva) la sua mamma della pancia, come una donna giovane e molto dolce con la
quale potersi riconciliare: “sai io penso che nella pancia della mia mamma Raiata ci stavo proprio
bene.” La bambina con questa affermazione esprime il bisogno di sentirsi dire di essere stata amata
fin dall’inizio della sua storia e di cercare conferma nella madre adottiva che rappresenta la sua nuova
figura di riferimento. È proprio la presenza di Cristina che permette a Sheffali di “riconciliarsi” con la
madre naturale. Nel corso del libro la bambina pone molte domande alla madre, ma Cristina non si
lascia intimorire o spaventare, anzi sostiene Sheffali con amore nella sua ricerca e cerca di
risponderle con sincerità: è questo che rende la bambina veramente felice.“Quando ero piccola,
anche la mia mamma indiana mi teneva in braccio?" " Si ti ha preso nelle sue braccia, e ti ha stretto
contro il suo cuore. Così come faccio adesso io... ” “E com’è stato quando mi ha lasciato?” “Quando
tu sei nata la tua mamma Raiata era molto felice, perché tu eri bella come il sole, e somigliavi a lei.
Ma era anche molto triste, perché sapeva che non poteva tenere la sua bella Sheffali con sè. Era
troppo giovane, e per fare la mamma occorrono tante cose che lei non aveva. Inoltre, era la stagione
dei monsoni, quando in India piove a dirotto per giorni interi. Lei non aveva un posto asciutto dove
farti stare...”
Quella di Sheffali è una storia tenera quanto vera. Anche se questa non fosse la storia di
partenza del bambino, parlane in questi termini, nutre il suo infinito bisogno di sicurezza, che si
soddisfa solo con il sentirsi amato. Cristina propone alla bambina di inviare insieme un messaggio alla
mamma di nascita, lontana nello spazio e forse anche nel tempo, poiché ciò potrebbe servire a
sfogare il dolore, la nostalgia, per far sì che non si trasformi in rabbia, ma in consapevolezza. Il senso
del libro è proprio quello di mandare un messaggio d’amore: “Noi non possiamo inviarle una lettera
per posta. Non abbiamo il suo indirizzo. Allora facciamo così. Puoi scrivere il tuo messaggio, e poi lo
mettiamo in una bottiglia di vetro. E poi affidiamo la bottiglia alle onde del mare, perché portino il tuo
messaggio fino al paese della tua mamma.” Sheffali tiene a far sapere alla sua mamma d’origine che
le vuole bene e che ora, con la sua mamma Cristina è felice, e che spera che anche lei lo sia...
Sheffali invia un messaggio d’amore per Raita e non di rancore, di rabbia, proprio perché la sua
mamma Cristina con la sua presenza e serenità è riuscita a trasmettere a sua volta il suo messaggio
d’amore alla sua Sheffali; ha accettato le sue origini, le ha considerate come parte essenziale della
sua vita, ha amato il suo passato proprio perché esso ha sempre fatto parte della sua bambina.
Ciascuno di noi conosce la storia della propria nascita, per cui anche il bambino adottato ha il diritto di
conoscere la sua storia. Parte della storia iniziale della sua vita sono i suoi genitori adottivi: loro
costituiscono la sua memoria storica, l’origine e la possibilità della sua rinascita, grazie al loro
messaggio d’amore.
Un altro libro: “Doremì è stato adottato” (De Pressensè, 2000) narra la tenera favola di un
piccolo orsacchiotto adottato da una coppia di draghi; una favola che sa “parlare” ai bambini e che
trasmette un messaggio importante: l’accettazione della diversità vissuta come elemento positivo. La
storia di Doremì è la storia di migliaia di bambini, accolti con amore da altrettante famiglie, ma anche
accettati con una consapevolezza e una serenità capace di andare oltre gli ostacoli. Il figlio adottivo
mette spesso alla prova i suoi genitori per comprendere quanto sia grande il loro amore per lui.
Quando Doremì inizia ad andare a scuola, comincia a porsi delle domande, poiché i suoi compagni si
stupiscono del fatto che sia tanto diverso da loro. Lui non ha la pelle squamata e nemmeno gli artigli
alle estremità delle dita. Spesso i bambini lo deridono perché invece della corazza verde lui ha il pelo
candido. A volte, Doremì fa finta di trovare divertenti tutte quelle differenze e ride anche lui, anche se
dentro di sè prova una grande tristezza. Il rapporto con i suoi coetanei, il confronto con loro, lo porta a
prendere consapevolezza della propria diversità e così quando torna a casa si mette davanti allo
specchio e cerca inutilmente di trasformarsi in drago. Col tempo Doremì inizia a non giocare più con
gli altri; è arrabbiato con loro e con se stesso e così distrugge i giocattoli, pasticcia i libri e strappa i
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suoi disegni più belli. Anche a casa inizia a fare una serie di dispetti ai suoi genitori per “metterli alla
prova”, in cuor suo pensa: “Mamma e papà non mi vogliono bene perché non gli assomiglio, io non
sono un drago come loro e come gli altri... Forse vogliono riportarmi dove mi hanno preso.” Così
Doremì non dà più il bacio del buongiorno e della buonanotte, proprio perché sà che i suoi genitori ci
tengono tantissimo. A tavola invece di mangiare butta il cibo fuori dal piatto, poi si sdraia per terra e
inizia ad urlare... Solo quando i suoi genitori lo stringono forte, nonostante tutto quello che ha
combinato, Doremì comprende che il suo essere diverso non influenza in alcun modo l’amore che i
genitori provano per lui. I genitori adottivi lo hanno accolto con il suo colore diverso, i suoi tratti
differenti, i suoi capricci e il suo bisogno di coccole. La serenità e la consapevolezza di essere
profondamente amato, rappresenta il punto di forza su cui Doremì potrà contare per superare
difficoltà e problemi: “non ho bisogno di assomigliargli perché mi vogliano bene. Papà e mamma mi
amano perché sono io, Doremì, e hanno scelto proprio me. ”
Completamente assente è, invece, il conflitto nel racconto autobiografico della bambina Anneli
in “La mia famiglia” (Coran, 1997). Anneli è una bambina nera proveniente da un paese che l’autore si
limita a definire “lontano” e nel quale nessuna famiglia si era presa cura di lei. La svolta nella vita di
Anneli coincide con la sua adozione da parte di due coniugi, Riccardo e Nadia che da tanto tempo
erano tristi poiché impossibilitati ad avere figli. Al fine di far sentire la bambina parte integrante della
famiglia, come qualsiasi figlio naturale, i genitori le raccontano alcune caratteristiche distintive dei
familiari dei loro rispettivi alberi genealogici, che nel libro vengono, a loro volta, descritti da Anneli per
i lettori. La bambina esprime la gioia per la sua nuova condizione, preludio, in parte, dell’affermazione
di un vero e proprio senso di appartenenza.
In conclusione la “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” (Sepùlveda,
1996) rappresenta una splendida metafora, ricca di spunti di riflessione sui significati emozionali più
profondi dell’avventura adottiva. Kenagh è una povera gabbianella che, in punto di morte strappa al
gatto Zorba la promessa di prendersi cura dell’uovo di gabbiano che deporrà e del piccolo fin dalla
nascita ma anche e soprattutto di assumersi il complicato compito, che al gatto apparve quasi
impossibile, di insegnargli a volare. Il messaggio di questa storia, non è soltanto quello d’accettazione
e d’accoglienza del diverso, ma riguarda il bisogno riuscire ad infondere la consapevolezza delle
proprie radici in ogni individuo. I gatti salvano la gabbianella non solo perché ne hanno cura, ma
soprattutto perché le restituiscono il suo orgoglio di uccello, insegnandole a volare. «Fortunata crebbe
in fretta, circondata dall’affetto dei gatti. Diderot sfogliava libri su libri cercando un metodo con cui
Zorba potesse insegnarle a volare “E perché devo volare?” strideva Fortunata tenendo le ali ben
strette al corpo “Perché sei una gabbiana ed i gabbiani volano”, rispondeva Diderot... "Ma io non
voglio volare. Non voglio nemmeno essere un gabbiano…voglio essere un gatto ed i gatti non
volano». Fortunata si sentiva un gatto e non voleva imparare a volare. La possibilità di adeguarsi alla
richiesta del figlio e quindi di negare la realtà dell’adozione rappresenta una vera tentazione per i
genitori. Sembrerebbe risolutivo, infatti, poter cancellare un passato di sofferenze e assecondare i
propri desideri di vita felice. «Commosso dal pianto della gabbianella, che non sapeva più chi fosse
(era un gatto o cibo per gatti?), Zorba le leccò le lacrime e le disse: “Sei una gabbiana…Non ti
abbiamo contraddetto quando ti abbiamo sentito stridere che eri un gatto perché ci lusinga che tu
voglia essere come noi, ma sei diversa e ci piace che tu sia diversa. Non abbiamo potuto aiutare tua
madre ma te si... Ti abbiamo dato tutto il nostro affetto senza alcuna intenzione di fare di te un
gatto…Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare”... “Volare mi fa paura”
stridette Fortunata.. “Quando succederà io sarò con te” miagolò Zorba».
Nonostante la buona volontà alcune situazioni non si riescono ad affrontare, per questo motivo
è necessario cercare l’aiuto di qualcuno che possa osservare le cose con una diversa prospettiva. Per
un genitore adottivo, non è sempre facile, ammettere di aver bisogno di aiuto e tale bisogno può
essere erroneamente vissuto come una dichiarazione di fallimento del proprio ruolo. Il compito del
professionista è, invece, quello di stimolare i genitori a prendere atto delle proprie ansie, aspettative e
fantasie che solitamente proiettano sul proprio figlio. È quanto fece Zorba quando, quando accortosi
di non essere in grado di insegnare a volare alla gabbianella, decise di rivolgersi ad un essere umano,
dimostrando molta umiltà e consapevolezza dei propri limiti.
Per “insegnargli a volare” è necessario che i genitori imparino a conoscere le vere necessità del
figlio, passando attraverso un autentico riconoscimento non solo della sua diversità ma anche della
consapevolezza del fatto che egli è un individuo con la propria storia. “L’umano aiutò Zorba portando
lui e la gabbianella sul campanile mentre una fitta pioggia cadeva sulla città: “Ho paura Mamma!”
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stridette Fortunata... "Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai
molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora
si chiama sole e arriva sempre una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali” miagolò
Zorba... Zorba rimase a contemplarla finché non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad
annebbiare i suoi occhi gialli di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del
porto.
L’istante del volo coincide con la nascita della gabbianella, ovvero il riconoscimento della sua
individualità nel rispetto delle sue origini.
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6
CAP. IV - STORIE DI VITA: UN’INDAGINE QUALITATIVA
6.1 PREMESSA METODOLOGICA
Il presente lavoro è basato sull’analisi degli aspetti dell’adozione nazionale e internzionale.
Le tematiche affrontate vertono sull’esperienza adottiva vissuta dai genitori, sui loro stati
d’animo, sulle loro emozioni, paure, gioie, sulle eventuali difficoltà incontrate, facendo riferimento
anche alla situazione fisica e psicologica, passata e attuale, del figlio, che al momento dell’adozione
aveva un’età compresa tra 0 – 6 anni.
L’approccio che ho utilizzato s’ ispira alla "ricerca qualitativa" (Cardano, 2003) in quanto il
ricercatore qualitativo raccoglie impressioni e rappresentazioni che riguardano il singolo individuo o il
singolo gruppo (ad esempio, come nel caso qui proposto, il singolo gruppo familiare).
Ho scritto un’intervista strutturata sulla base di un questionario creato dal giudice Melita
Cavallo, dalla psicologa Monica Vitolo, dallo psichiatra Francesco Villa (Cavallo, 1995) e utilizzato da
Balbi, D’Esposito, Ragozini e Vitale per una riflessione sulla realtà delle adozioni internazionali (1999).
L’intervista è divisa in tre aree tematiche, composte da 37 domande, poste nella stessa
formulazione, nella stessa sequenza e disposte in un ordine preciso. Le domande sono state costruite
in forma “aperta” (Cardano, 2003), per permettere a tutti gli intervistati di rispondere in assoluta libertà
(appendice E).
Inizialmente ho presentato l’intervista a Cinzia Fabrocini, psicologa dell’equipè
pscicopedagogica del N.A.A.A, che l’ha proposta ad alcune famiglie che hanno adottato presso l’ente.
Altri contatti li ho avuti mandando una lettera di presentazione al curatore del sito:
http://adozionigiuste.datafox.it/tesi.htm Enzo Contini e alla curatrice del sito www.girobimbi.it Carla
Magrone.
Enzo Contini ha accolto la mia proposta di inserire l’intervista sul suo sito internet, mentre Carla
Magrone ha risposto all’intervista via e.mail e l’ha successivamente inviata ad altri genitori adottivi,
realizzando così un vero e proprio passa – parola. Con Carla Magrone ho anche avuto diversi contatti
telefonici, soprattutto per chiarificazioni e consigli sulla mia tesi.
Utilizzando questi canali ho ottenuto numerosi vantaggi: innanzitutto ho potuto rivolgere
l’intervista a qualsiasi famiglia adottiva che ha intrapreso la strada dell’adozione, indipendentemente
dalla regione d’appartenenza. Le coppie si son potute confrontare tranquillamente prima di rispondere
e farlo con assoluta libertà, in quanto hanno avuto maggiore garanzia d’anonimato e hanno potuto
rispondere alle domande anche a più riprese.
Nella maggioranza dei casi, mi è stata lasciata l’e-mail per ricevere informazioni, chiarimenti,
ma anche per fornirmi consigli e segnalazioni. Il computer è diventato, così, uno strumento dinamico
d’interazione fra me e gli intervistati che hanno valutato l’intervista come un’occasione per esprimere
la propria esperienza. Generalmente, infatti, l’adozione viene considerata come una realtà molto
delicata e si trova molta difficoltà a raccontarla.
L’intervista proposta è composta da domande raggruppate in tre aree tematiche:
•
motivazioni, informazioni e canali;
•
adattamento:rapporto genitori-figlio;
•
stato adottivo ed origini.
Tali aree sono precedute da una parte: "Sezione generale", volta ad indagare le principali
caratteristiche della famiglia adottiva e del minore adottato. Le caratteristiche sono: l’età attuale e
quella al momento dell’adozione sia del bambino che dei genitori, l’anno dell’adozione, la
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composizione del nucleo famigliare e quindi la presenza d’altri figli adottati o naturali e la loro
rispettiva età. La realtà di provenienza del bambino e il nome del paese d’origine.
Nella prima sezione: "Motivazioni, informazioni e canali", ho cercato di individuare le
motivazioni che hanno spinto la coppia ad adottare: le aspettative e i timori che li hanno accompagnati
lungo il loro viaggio adottivo.
Nelle domande mi sono soffermata sugli aspetti critici, vissuti con maggiore difficoltà, sia per
quanto riguarda la sfera burocratica, sia per quella relazionale con il bambino.
Ho domandato del primo luogo d’incontro con il figlio adottivo e se hanno cercato di sapere
qualcosa in più riguardo la sua storia, con quali motivazioni e a chi si sono rivolti. Per indagare il
rapporto con le istituzioni ho chiesto alle coppie se durante l’affidamento preadottivo e dopo
l’adozione si sono rivolte ai servizi sociali di zona e se tale supporto, a loro giudizio, sia stato utile o
meno.
Nella sezione: "Rapporto genitori-figlio", ho posto delle domande per conoscere l’adattamento
iniziale del minore, per ricostruire il suo primo impatto con la realtà familiare ed il nuovo contesto
socio-culturale.
Pertanto ho chiesto ai genitori se il figlio ha instaurato da subito un legame particolare con un
componente della famiglia o se ha espresso il suo disagio con episodi d’insonnia, inappetenza,
enuresi o atteggiamenti violenti e ripetitivi.
Inoltre ho cercato di capire se l’arrivo del figlio ha in qualche modo modificato le abitudini della
coppia e l’entità delle difficoltà incontrate.
Nell’ultima sezione: "Stato adottivo ed origini" ho cercato di capire se il figlio ha la
consapevolezza del suo stato adottivo. In che modo i genitori si sono avvicinati al momento della
rivelazione e se hanno o stanno utilizzando la fiaba come strumento di supporto per accompagnare il
bambino alla presa di coscienza. Ho, inoltre, posto delle domande per conoscere la reazione del
bambino, in particolare se ci sono stati dei mutamenti nel suo comportamento; se ha manifestato
curiosità per le sue origini, per il suo paese e se ha conservato qualche oggetto che potesse
ricordargli il suo luogo di nascita o abbia mai manifestato il desiderio di visitare il suo paese d’origine.
Infine, come domanda conclusiva del percorso ho chiesto ai genitori di provare a pensare al
passato, al presente e la futuro e di scrivere quali immagini, emozioni queste parole suscitano in loro.
Lo scopo del mio lavoro è quello di conoscere l’esperienza adottiva attraverso la testimonianza
di coloro che l’hanno vissuta in prima persona; di capire come i genitori hanno valutato la loro
esperienza adottiva, la relazione con il bambino e il rapporto con i servizi socio-assistenziali. Parlare
della propria esperienza adottiva è una sorta di racconto che procede autonomamente, per questo le
mie domande sono da considerare più che altro degli stimoli per meglio articolare il ricordo. Le
movenze dell’intervista sono quelle del racconto condotto sul filo della memoria. Il metodo
dell’autonarrazione ha permesso un’analisi e un’autoriflessione che ha l’indubbio vantaggio di
permettere agli autointervistati di ponderare le risposte e di fornire una versione che avranno
direttamente controllato, molto di più di quanto non possa accadere con un colloquio orale.
Raccogliere testimonianze d’esperienze adottive significa, quindi, trovarsi di fronte a storie di
vita, a dei racconti autonarrativi centrati sul proprio vissuto personale; per questo motivo il ruolo
dell’intervistatore deve essere piuttosto limitato.
Tale intervista consegna al ricercatore un discorso. Le credenze, i valori, le rappresentazioni
delle traiettorie biografiche sono inscritte all’interno di una struttura argomentativa che ne determina la
sequenza, che ne mostra le connessioni.
In questo discorso si colgono anche le forme espressive presenti, nell’adozione di un idioma
specifico, nell’accostamento di alcune parole e nei tempi verbali: presente, passato, futuro, che
vengono scelti per esprimere l’azione (Demetrio, 1995).
Pagina 45 di 78
Come scriveva Michael Patton (1990) “l’obiettivo prioritario dell’intervista qualitativa è quello di
fornire una cornice entro la quale gli intervistati possano esprimere il loro proprio modo di sentire con
le loro stesse parole”.
6.2 ANALISI DEI DATI
La presentazione dei risultati dell’interviste avviene secondo la prospettiva narrativa, nel senso
che vengono utilizzate le parole degli stessi intervistati per non alterare il materiale raccolto e
trasmettere l’immediatezza delle situazioni studiate.
Il testo scorre dunque in un intreccio continuo fra la mia analisi e illustrazioni, esemplificazioni,
costituiti dai brani delle interviste. Dovendo garantire l’anonimato per individuare le citazioni ho
considerato il tipo d’adozione: nazionale o internazionale (in questo caso ho tenuto conto del nome
del Paese d’origine) ed individuato l’età del bambino al momento dell’adozione, poiché nella tesi ho
affrontato le problematiche psicologiche del bambino adottato da 0 a 6 anni.
6.2.1
SEZIONE GENERALE
All’intervista hanno risposto 22 famiglie: 8 hanno adottato con adozione nazionale e 14
internazionale.
Dall’analisi dei dati relativi alla parte generale ho riscontrato che, le famiglie hanno adottato, nel
caso delle adozioni nazionali, dal 1999 al 2003 e in quelle internazionali dal 1994 al 2003.
L’età dei genitori al momento dell’adozione oscilla tra i 33 e i 47 anni. Generalmente, non esiste
una grande differenza d’età all’interno della coppia, anche se ho riscontrato che in alcuni casi è la
moglie ad essere più grande del marito.
L’età del bambino al momento dell’adozione cambia in maniera considerevole nel caso si tratti
d’adozione nazionale o internazionale.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, i bambini adottati per via internazionale
risultano mediamente più grandi di quelli adottati con adozione nazionale.
Con l’adozione nazionale sono stati adottati bambini dai 18 giorni ai due anni. Prevalentemente
il primo incontro con il bambino è avvenuto in ospedale, negli altri casi nelle case-famiglia (Tab.1).
Con l’adozione internazionale l’età dei bambini è tra i 4 mesi e i 6 -7 anni. L’incontro avviene,
nella maggior parte dei casi, nell’istituto del paese d’origine. I Paesi di provenienza sono nell’America
Meridionale: il Brasile, Colombia, nell’Est Europeo: la Russia, l’Ucraina e la Romania, nell’area
Asiatica: il Nepal, l’India e il Vietnam (Tab. 2 e 3).
Per quanto riguarda la composizione del nucleo familiare ho rilevato la presenza di fratelli
adottati insieme, solo in poche interviste. Ci sono casi in cui dopo aver adottato sono nati figli
biologici, si è fatta una nuova adozione o è in corso una seconda domanda d’adozione. In generale,
quindi, le famiglie tendono a voler allargare il loro nucleo famigliare e a non fermarsi alla prima
adozione.
Per quanto riguarda le origini familiari del bambino, le coppie affermano di avere pochi dati a
loro disposizione.
Ci sono bambini che hanno fratelli o sorelle più grandi dei quali o delle quali si conoscono
pochissime informazioni, a volte nemmeno l’età, che viene definita come incerta ed approssimativa.
Solo in pochi casi le coppie affermano con assoluta certezza che il bambino sia figlio unico nella
famiglia d’origine. Nella maggior parte delle risposte esse, infatti, affermano di non sapere nulla circa
le origini del bambino e che quindi non possono sapere se avesse in passato fratelli o sorelle più
grandi o più piccoli/e. Per una visione più chiara e sintetica di quanto esposto in quest’analisi ho
inserito tre tabelle (presenti nelle successive pagine) che riportano i dati raccolti dalle interviste nella
parte: sezione generale.
Pagina 46 di 78
Pagina 47 di 78
Pagina 48 di 78
Pagina 49 di 78
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
1
2
3
4
5
6
7
8
Anno
adozione
1999
2000
2001
2002
2002
2002
2002
2003
Età genitori
all’adozion
e
m. 35
m.34
m.36
m.33
m.35
m.35
m.36
m.36
p. 34
p.35
p.33
p.36
p.33
p.36
p.40
p.38
Età attuale
genitori
m. 40
m.38
m.39
m.35
m.37
m.37
m.38
m.37
p. 39
p.39
p.36
p.38
p.35
p.38
p.42
p.39
Età
bambino
all’adozion
e
2
11
18
25
40
14
22
anni
mesi
1
anno
giorni
giorni
giorni
mesi
mesi
6
5
4
21
16
22
2anni e
2anni e
anni
anni
anni
mesi
mesi
mesi
7 mesi
6 mesi
Istituto
Casa
Casa
Ospedale
Ospedale
Casa
Casa
Istituto
dalla
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Non
si
NAZIONALE
Età attuale
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Realtà
d’arrivo
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nascita
Figlio unico
nella
famiglia
d’origine
si
Fratelli
-
-
Età fratelli
-
Figlio unico
nell’attuale
famiglia
Fratelli
naturaliadottati
Età fratelli
Non
Non
Non
Non
si sa
si sa
si sa
si sa
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
no
no
si
si
si
si
si
si
Sorella
parto
Sorella
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
si sa
si
-
parto
natural
e
naturale
11
2
mesi
anni
Tab.1 Dati della sezione generale per le coppie che hanno adottato con adozione nazionale
Pagina 50 di 78
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
1
2
3
4
5
6
7
Anno adozione
1994
1994
1998
1999
2000
2001
2001
Età
m. 35
m.33
m.33
m.39
m.35
m.35
m.36
genitori
all’adozione
p. 34
p.35
p.34
p.39
p.33
p.36
p.36
Età
m. 45
m.43
m.39
m.44
m.39
m.38
m.39
attuale genitori
p. 44
p.45
p.40
p.44
p.37
p.39
p.39
Età
14
4
4
18
23
2 anni e
bambino
all’adozione
mesi
mesi
anni
mesi
mesi
1anno e
mezzo
Età
11
10
10
6
Quasi 6
4
5
attuale bambino
anni
anni
anni
anni
anni
anni
anni
Paese
provenienza
India
Romania
Bulgaria
Feder.
Ucraina
Nepal
Bulgaria
Realtà
Istituto
lstituto
Casa
Istituto
d’arrivo
bambino
dalla
INTERZIONALE
1
6 mesi
Russa
Ospedale
Istituto
Istituto
Fam.
nascita
Figlio unico
nella famiglia
d’origine
si
Fratelli
-
Età fratelli
-
Non
Non
no
si sa
si sa
-
-
si
-
24
No, ma
sappiamo
solo che è
nato da un
secondo
parto
Non
Non
si sa
si sa
si
-
-
-
-
-
anni
Figlio unico
nell’attuale
famiglia
si
si
no
si
si
si
si
Fratelli naturaliadottati
-
-
Fratello
-
-
-
-
Età fratelli
-
-
-
-
-
adottato
-
6
anni
Tab.2 Dati della sezione generale per le coppie che hanno adottato con adozione internazionale.
Pagina 51 di 78
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
Fam.
8
9
10
11
12
13
14
Anno adozione
2001
2002
2002
2002
2003
2003
Età
m.38
m.33
m.43
m.34
m.39
m.33
m.36
genitori
all’adozione
p.39
p.34
p.37
p.35
p.47
p.36
p.46
Età
m.40
m.35
m.45
m.38
m.41
m.35
m.37
attuale genitori
p.41
p.36
p.39
p.39
p.49
p.38
p.47
Età
3
8
3
6anni e
6-7
10-6-2
bambino
all’adozione
anni
mesi
anni e
mezzo
9 mesi
6anni e
10 mesi
anni
anni
Età
Quasi 6
anni
2 anni e
5
8
9
6-7
11-7-3
8 mesi
anni
anni
anni
anni
anni
INTERZIONALE
2
attuale
bambino
2002
e mezzo
Paese
provenienza
Nepal
Vietnam
Nepal
Brasile
Colombia
Ucraina
Colombia
Realtà d’arrivo
del bambino
Istituto
Istituto
Istituto
Casa
Casa
Istituto
Istituto
Fam.
Fam.
Figlio unico
nella famiglia
d’origine
no
no
no
Fratelli
Età fratelli
Non
Non
Non
Non
si sa
si sa
si sa
si sa
si
-
-
-
-
si
si
Più
grande di
due anni
-
-
-
-
6-7
11-7-3
Figlio unico
nell’attuale
famiglia
no
si
si
no
Fratelli
naturaliadottati
adottato
-
-
Sorella
e altri più
grandi
parto
no
no
no
Tra di
loro
naturali
Tra di
naturale
Età fratelli
2 anni e
mezzo
-
-
2
loro
naturali
-
11-7-3
anni
Tab.3 Continuazione dei dati della sezione generale per le coppie che hanno adottato con adozione
internazionale.
6.3 MOTIVAZIONI, INFORMAZIONI E CANALI
Nella mia elaborazione ho rilevato che i percorsi che spingono ad intraprendere l’esperienza
adottiva sono tra loro molto simili. Nella storia di vita d’alcune coppie è possibile rintracciare come la
scelta parta da una presa di coscienza di un’impossibilità a generare e proceda con il ricorso alla
fecondazione assistita. Solo quando i vari tentativi falliscono le coppie iniziano a prendere in
considerazione la possibilità di fare domanda d’adozione: "È stata conseguenza naturale dopo diversi
tentativi di fecondazione assistita fallita" (Ucraina, 23 mesi).
Pagina 52 di 78
"Quando ci siamo resi conto che, purtroppo, la cosa che più volevamo (una famiglia con
bambini) non si avverava nel modo tradizionale, abbiamo cominciato a prendere in considerazione
l’adozione" (Nazionale, 28 mesi).
Nella maggioranza dei casi, quindi, l’esperienza dei genitori adottivi si fonda su esperienze di
vuoto, di mancanza, di privazione e nel caso si tratti dell’interruzione di una gravidanza, si basa sul
lutto, in quanto pregiudica la possibilità di riuscire a generare un figlio proprio: "Dopo sei anni di
matrimonio e due gravidanze non portate a termine abbiamo iniziato l’iter per l’adozione" (Nazionale,
11 mesi).
"C’è sempre stato un grande desiderio di diventare genitori, senza grandi risultati, neppure
dopo una gravidanza assistita" (Nazionale, 1 anno)
L’adozione può anche essere un percorso che ha alla base una motivazione di accoglienza di
un’altra persona. In questo caso, l’adozione riveste il suo autentico significato di sostegno affettivo di
uno o più minori che non hanno la possibilità di vivere nella propria famiglia: "Il desiderio c’è sempre
stato, tanto che prima di sposarci avevamo progettato di avere due figli dalla pancia e uno adottato"
(Nepal 1 e mezzo).
"Ci siamo chiesti se per noi fosse necessario avere un figlio che ci assomigliasse. Dato che la
risposta è stata negativa ci siamo orientati verso l’adozione" (Nazionale, 18 giorni).
Accogliere un bambino nato da altri richiede una disponibilità emotiva che può esistere soltanto
se la coppia ha accettato la propria sterilità biologica ed affrontato il dolore per quello che era. Il
cammino deve essere fatto insieme e, a volte, può capitare che nella coppia uno dei due abbia
difficoltà ad accettare l’adozione.
"Il desiderio di adottare per quanto mi riguarda c’è stato da sempre. Per mio marito è nato dopo
lunghi anni di riflessioni e di convincimenti" (India, 14 mesi).
Prima di adottare è, quindi, fondamentale provare a ricostruire la propria storia; riflettere sul
percorso che ha portato a pensare al progetto adottivo, comprendere le emozioni provate, il ruolo di
ogni partner, le motivazioni individuali e di coppia che sostengono la scelta.
La mia seconda domanda si è basata sulla richiesta di provare a pensare ai dubbi, idee,
emozioni, ricordi, che hanno accompagnato la nascita del percorso adottivo.
La maggioranza delle coppie ha risposto d’avere avuto più timori che aspettative, legati
soprattutto alla loro capacità di contenere il vissuto del bambino: "Tutti i timori di una coppia che
desidera un figlio, più le ansie di non essere all’altezza di affrontare le incognite di un’adozione, ma
anche grande speranza e desiderio di diventare una famiglia" (Nazionale, 25 giorni).
"Anche se rivolgendoci ad un’associazione eravamo abbastanza tranquilli, non volevamo
togliere un figlio a nessuno, volevamo solo dargli una famiglia" (Brasile, 6 anni e 9 mesi).
"La paura più grande è stata sicuramente quella di non essere capaci di accogliere il dolore che
accompagna un bambino solo" (Nazionale, 18 giorni).
"Mi aspettavo un figlio ma non me lo immaginavo. Avevo paura che non arrivasse mai; che non
si affezionasse a me e non mi adottasse come mamma. Ho anche avuto paura di non farcela ad
arrivare alla fine del percorso adottivo" (Nepal, 1 anno e mezzo).
Come aspettativa principale prevale il bisogno di avere un bambino piccolo, in buona salute e
di riuscire a portarlo a casa nel più breve tempo possibile: "Inizialmente nessuna aspettativa, tranne
essere genitori di un bambino piccolo. La salute della bambina era la principale preoccupazione e poi
che venisse a casa il prima possibile" (Bulgaria, 2 anni e 6 mesi).
Il timore di non riuscire ad essere genitore di quel figlio nato da altri, nasce anche dalla
consapevolezza che esiste una diversità la quale può condurre all’estraneità e quindi al rifiuto del
bambino che non si riesce a sentire come figlio proprio: "Paura dell’incontro con un bambino che a
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pelle poteva piacerci oppure no. E se non ci piacesse?Insomma la paura che ti dà un salto nel buio, la
paura che ti dà la consapevolezza di fare una scelta irreversibile" (Ucraina, 6 e 7 anni).
"Il timore maggiore, per me, era che l’istinto materno non scattasse e che io non potessi
piacere al bambino e il bambino non piacere a me" (Ucraina, 23 mesi).
Per valutare in che modo le coppie considerano il cammino adottivo ho chiesto loro se
l’adozione può essere paragonata a un viaggio che conduce ad una nascita.
Molte coppie hanno risposto positivamente perché considerano l’adozione, un cambiamento
radicale e rivoluzionario che ha coinvolto loro e il bambino: "Si è trattato sicuramente di una nascita,
non solo del bambino ma anche per noi. Un rivedere tutta la nostra vita e riscoprirla in senso
solamente positivo" (Nepal, 3 anni e mezzo).
"È stata la nascita della nostra famiglia" (Ucraina, 23 mesi).
"Il viaggio in aereo dalla Colombia e l’arrivo in Italia sono i momenti che hanno segnato l’inizio
della nuova vita. Abbiamo affrontato il viaggio con grande fiducia, accompagnati dalla
consapevolezza di compiere qualcosa di decisivo per la nostra vita e la vita di nostra figlia"
(Colombia, 6 anni e 10 mesi).
Ma questo viaggio come nascita porta anche tensione e preoccupazione, per il timore di non
giungere al termine del cammino adottivo: "Io definirei un viaggio della pazienza: bisogna essere
molto pazienti e perseveranti per arrivare alla fine del percorso adottivo" (Nepal, 1 anno e mezzo).
Altre coppie considerano solo la nascita del bambino senza far nessun riferimento al loro
sentirsi nel processo adottivo: "È stata una nascita: la bimba non sapeva nè parlare, nè camminare
bene, ha imparato anche a mangiare" (Bulgaria, 2 anni e 6 mesi).
Oppure considerano la nascita solo dal punto di vista della coppia, dei suoi bisogni ed
aspettative: "L’arrivo della bambina è stata una nascita. L’avevamo aspettata tanto" (India, 14 mesi).
La scelta adottiva contiene al suo interno un’ulteriore scelta: "adottare un bambino attraverso
l’adozione nazionale o internazionale?" Per questo motivo ho domandato alle coppie se, nel momento
della presentazione della domanda d’adozione, fossero propensi ad entrambe le tipologie.
Nella maggior parte dei casi, l’adozione internazionale è risultata l’unica opportunità per avere,
con più probabilità, un bambino: "Eravamo propensi a tutte e due. Dopo abbiamo scelto
l’internazionale perché i tempi della nazionale erano eterni" (India, 14 mesi).
"Solo all’internazionale, perché con quella nazionale c’è il problema del rischio giuridico"
(Vietnam, 8 mesi).
Solo in pochi casi viene specificata la propensione ad entrambe le tipologie per la possibilità di
avere un bambino d’amare al di là del colore della sua pelle e non per le maggiori opportunità di
riuscita che offre l’adozione internazionale rispetto alla trafila burocratica e il rischio giuridico
dell’adozione nazionale (a tal proposito vedere il primo capitolo, p. 28): "Eravamo propensi ad
adottare qualsiasi bambino/a avesse bisogno di una mamma e un papà" (Nepal, 1 anno e mezzo).
"Ci piaceva l’idea di accogliere un bambino o una bambina di un altro paese" (Colombia, 6 anni
e 10 mesi).
Gli aspetti dell’adozione che sono emersi come i più problematici e che le coppie hanno vissuto
con maggiore difficoltà riguardano i tempi dell’attesa e le procedure burocratiche: "L’attesa... Lunga e
snervante... i mesi di silenzio... Ci abbiamo messo quasi quattro anni a realizzare il nostro sogno...
Purtroppo siamo finiti proprio in mezzo al cambiamento della legge sulle adozioni, pertanto abbiamo
atteso, forse, più del dovuto" (Vietnam, 8 mesi).
"I colloqui per l’idoneità sono stati una serie di interrogatori e non un percorso" (Nepal, 3 anni).
Ma anche il periodo del viaggio nel paese d’origine del bambino e il rapporto con lui e la nuova
realtà rappresenta una problematica da non sottovalutare: "Il momento più critico è stato senza
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dubbio il periodo iniziale di convivenza con mia figlia in Colombia. Purtroppo per motivi burocratici ci
siamo dovuti trattenere in Colombia per un periodo di circa 4 mesi.Non è stato facile fronteggiare in
un ambiente nuovo i mille problemi di adattamento che l’arrivo di una figlia richiede ". (Colombia, 6
anni e 10 mesi)
Un altro problema riguarda la comunicazione; quando le famiglie tendono a chiudersi in se
stesse o mancano gli opportuni sostegni da parte dei servizi territoriali: "La difficoltà maggiore è stata
nel non avere la possibilità di scambi di esperienze con altri genitori adottivi e la carenza di supporto
da parte dei servizi" (Bulgaria, 4 anni).
"Viviamo in una realtà di provincia e per ora non vi sono state da parte dei servizi sociali,
iniziative rivolte a famiglie adottive" (Colombia, 6 anni e 10 mesi).
Spesso, però, i veri problemi non dipendono dai servizi territoriali, i quali, solitamente
organizzano dei colloqui con gli aspiranti genitori per comprendere meglio la loro storia personale e di
coppia. Nella maggior parte dei casi, sono proprio i genitori adottivi a vivere l’intervento dei servizi
territoriali come un’azione intrusiva, volta a controllare la loro famiglia, poiché li seguono anche
successivamente per verificare il buon inserimento del bambino: "Abbiamo fatto i colloqui con i servizi
sociali esclusivamente nella prospettiva della seconda adozione... Non ci siamo rivolti a loro per alcun
supporto, perché li abbiamo trovati scarsamente preparati e pieni di preconcetti" (Nepal, 1 anno e
mezzo)
"Non ne abbiamo avuto bisogno " (Nepal, 3 anni). Pare, infatti, che non sempre le coppie
riescono ad individuare gli aspetti positivi che un sostegno da parte di persone competenti può
apportare in un momento delicato come la scelta adottiva. Fortunatamente non è per tutte così, altre
coppie hanno valutato il percorso di colloqui come una prova di solidità di coppia e di verifica delle
loro reali motivazioni all’adozione: "Durante l’affido preadottivo siamo stati seguiti dalla psicologa dei
servizi sociali con degli incontri volti a verificare la nostra elaborazione del fatto che nostro figlio non
fosse nato da noi e su come raccontargli la sua nascita. Il suo supporto ci è stato di grande aiuto"
(Nazionale, 18 giorni).
"Con gli operatori abbiamo instaurato un ottimo rapporto: quando non sappiamo come
comportarci con il bambino ci danno supporto e indicazioni..." (Nazionale, 1 anno).
Sono specialmente le famiglie con più figli o che hanno fatto domanda per un’altra adozione a
richiedere l’intervento di un supporto psicologico per affrontare con più serenità le problematiche che
quotidianamente tendono a presentarsi: "Alla nascita della sorellina miracolosamente fatta in casa, mi
sono rivolta alla psicologa che ci aveva seguito durante l’affidamento preadottivo, (con la quale mi
sono trovata benissimo) per avere consigli su come affrontare l’evento successo in modo molto
ravvicinato all’adozione e su come riuscire a fare meno errori possibili" (Nazionale, 11 mesi).
"Siamo in pieno percorso per una seconda adozione, con i nuovi operatori che ci hanno seguito
nella fase precedente il secondo decreto di idoneità abbiamo instaurato un ottimo rapporto che
manteniamo anche telefonicamente" (Ucraina, 23 mesi).
L’incontro con il bambino è uno dei momenti più delicati del percorso adottivo, poiché
rappresenta il momento della conoscenza reciproca. Il momento dell’incontro avviene generalmente
nell’istituto stesso: nella sala giochi o nell’ufficio della direttrice. Se, invece, si tratta di un neonato,
avviene in ospedale. Nel caso i bambini fossero stati precedentemente in un’altra famiglia il luogo
d’incontro può essere tra i più vari: "Ci siamo incontrati all’aeroporto di San Paulo in quanto il bambino
(venendo da un’adozione non riuscita) lo avevano in affidamento da 20 giorni i referenti in Brasile
dell’associazione e quindi è venuto con loro all’aeroporto" (Brasile, 6 anni e 9 mesi).
La conoscenza del bambino nel luogo in cui vive ha diversi aspetti positivi: in primo luogo
permette al genitore di osservare le caratteristiche dell’ambiente d’origine del figlio; in secondo luogo,
dà la possibilità di avvicinarsi e capire le abitudini e lo stile di vita del bambino. È importante rispettare
i suoi ritmi per riuscire ad integrarlo gradualmente nella nuova realtà. Fondamentale diviene, quindi,
anche la raccolta di informazioni sul suo passato e sulla sua storia. Avere tali informazioni non è,
però, facile soprattutto quando i genitori biologici hanno lasciato il bambino alla nascita e richiesto la
garanzia d’anonimato. Spesso le uniche informazioni che si riescono ad ottenere riguardano la
scheda sanitaria che viene fornita dall’istituto stesso: "Non ci è stato possibile sapere niente di lui. Le
Pagina 55 di 78
uniche informazioni le poteva dare l’istituto tramite la scheda personale che conteneva anche notizie
sanitarie. Nessun altro può fornircele" (Nepal, 3 anni e mezzo).
Ma anche quando alcune informazioni sono accessibili si riscontra una certa riluttanza da parte
dei genitori adottivi di poter essere informati sul passato del bambino, come se quest’ultimo non
avesse una storia e nascesse al momento dell’adozione: "Non abbiamo ritenuto opportuno tali
richieste o meglio pensavamo non fossero fondamentali. Abbiamo la scheda medica e nient’altro"
(Bulgaria, 4 anni).
"Appena arrivati ci hanno letto una scheda sul bambino con il minimo dei dati indispensabili. Poi
l’hanno portato e mi hanno detto di prenderlo in braccio visto che era il mio bambino" (Ucraina, 23
mesi).
"Si, ma quando ci stavamo per riuscire abbiamo preferito non sapere" (Nazionale, 22 mesi).
"Per noi è come se fossero nati il giorno che li abbiamo conosciuti" (Colombia, 10, 6 e 2 anni e
mezzo).
È, invece, fondamentale che i genitori adottivi mantengano dove possibile un legame di
continuità con il passato: "Si, sono sempre stata molto curiosa ed interessata a tutto quello che
riguarda le persone che amo. A maggior ragione di mia figlia. Conosco i cognomi, l’ospedale dov’è
nata e dove è stata curata nel primo mese di vita. Conosco a grandi linee la storia della madre e del
padre e le città di provenienza. Conosco qualcosa anche riguardo ai nonni. Gli affidatari conoscevano
diverse cose ed altre le ho trovate negli archivi dei giornali" (Nazionale, 11 mesi) .
6.4 ADATTAMENTO: RAPPORTO GENITORI-FIGLIO
La relazione con il bambino durante i primi momenti d’incontro, richiede un’attenta preparazione
in quanto raccoglie in sè potenzialità per un attaccamento positivo e per il riconoscimento reciproco.
La percezione e la volontà di essere i genitori reali del bambino, non sono sufficienti ad avviare una
relazione genitori-figli adeguata e positiva. La possibilità di sentirsi nel profondo genitori è legata a un
percorso lento che porta l’adulto e il bambino a conoscersi, a fidarsi, sino a provare una relazione
d’affetto.
Il primo incontro può essere caratterizzato da una difficoltà dei genitori a entrare in relazione
con il bambino: "Io non l’ho sentito come mio figlio, mi sono presa cura di lui come avrei fatto per
qualsiasi bambino, da chioccia che accudisce i suoi pulcini. Per tre/quattro giorni ho avuto la
sensazione di vivere quei momenti da spettatrice. La mia persona si muoveva, parlava... Ma il mio io
era affacciato al balcone ad osservare. Poi sono riuscita ad infilarmi nella mia parte di madre che ora
vivo pienamente felice" (Ucraina, 23 mesi).
"Ero rapita dai pensieri e non riuscivo a relazionarmi con il bambino. Cercavo di immaginarmi
cosa stesse pensando mio figlio, se, magari, ci vedeva come due giganti sconosciuti, se gli saremmo
piaciuti, se gli eravamo antipatici... " (Nazionale, 2 anni)
Nella mente del bambino, l’incontro con i genitori adottivi è un evento che presenta una forte
ambivalenza: se da un lato percepisce l’interesse dei genitori nei suoi confronti, dall’altro si rende
conto che questo momento darà luogo ad una nuova situazione. Il bambino, quindi, anche se avverte
la disponibilità degli adulti e il loro desiderio di stabilire con lui una situazione particolare, potrebbe
non essere disponibile e fiducioso nei confronti dei genitori adottivi: "La bambina inizialmente era
molto sulle sue. Trascorreva gran parte del tempo sui giochi o nella piscina del residence in cui ci
trovavamo, osservandoci da lontano. Cercava di evitare il contatto fisico. Privilegiava il rapporto con il
papà, mentre con la mamma ha impiegato più tempo a sciogliersi. Ci chiamava per nome, solo
quando siamo partiti dalla Colombia ha iniziato a chiamarci mamma e papà" (Colombia, 6 anni e 10
mesi).
Il bambino potrebbe non avere mai vissuto con i propri genitori e aver maturato un rapporto
affettivo con le persone che in istituto si son prese cura di lui o potrebbe essere reduce da una
separazione recente dalle figure genitoriali. Sulla base di questa premessa ho constatato che le
risposte sulla relazione instauratasi durante l’incontro con il bambino sono state piuttosto varie:
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"Niente di particolare se non che la piccola avendo vissuto per 11 mesi sempre con la stessa famiglia
chiamava papà e mamma gli affidatari" (Nazionale, 11 mesi).
"Ci avevano detto che i bambini temevano le figure maschili, invece, al bambino mancava
proprio un contatto con un uomo e con mio marito ha instaurato da subito un feeling" (Ucraina, 23
mesi).
La separazione del bambino dal suo ambiente noto e l’adattamento ai nuovi genitori richiede al
piccolo uno sforzo psicologico consistente. In generale i genitori riscontrano come problematica
d’inserimento la difficoltà legata ad una nuova lingua: "I primi giorni piangeva spesso, forse, perché
era spaventato dalla nostra lingua, dai toni di voce e dai suoni così diversi a cui era abituato. Bastava
accendere la tv e il bimbo si calmava... Forse proprio perché riconosceva timbri e suoni a lui familiari"
(Vietnam, 8 mesi).
Nel periodo dell’inserimento, il bambino tende a paragonare i genitori alle figure di riferimento
passate. Per questo motivo potrebbe legarsi, inizialmente, con una figura in particolare: "Il bambino si
è legato inizialmente con il padre per accettare la madre ci ha messo quasi 6 mesi. Attualmente con la
madre " (Bulgaria, 4 anni).
"All’inizio con il papà. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che nostra figlia ha avuto esperienze
negative con figure femminili. Ora ha un ottimo rapporto con tutti" (Nepal, 1 anno e mezzo).
"Inizialmente era attaccato alla mamma. Ora crescendo adora il suo papà, pur rimanendo
tenacemente legato alla mamma" (Vietnam, 8 mesi).
Nell’elaborazione delle interviste ho constatato che il legame non viene percepito soltanto tra
genitori e figlio, ma anche tra quest’ultimo e i parenti più stretti, che vivono un rapporto ravvicinato con
il bambino: fratelli, sorelle, nonni, zie, cugini... Spesso queste persone rappresentano delle figure di
riferimento perché sono presenti nella quotidianità del bambino; si occupano di lui portandolo e
andandolo a prendere a scuola ecc. "Ha un ottimo rapporto con il nonno paterno che lo porta e lo va a
prendere all’asilo" (Vietnam, 8 mesi).
"Ha un rapporto bello con la nonna perché ha sempre giocato moltissimo con lui" (Nazionale, 1
anno).
"Ha un ottimo rapporto con la cugina Maria che abita vicino a noi" (Colombia, 6 anni e 10 mesi).
"La persona che ama in modo più speciale è la sua sorellina che considera il suo angelo
custode che si è tuffato nella pancia della mamma per stare con lei" (Nazionale, 11 mesi). Questa
coppia, infatti, dopo aver adottato ha avuto una bimba con parto naturale.
Generalmente nel rapporto interno al nucleo familiare ho notato che, in alcuni casi, prevale il
bisogno di sentirsi ed essere una famiglia classica con dei ruoli ben precisi: "Ha un legame con
entrambi i genitori: il padre è per lui proprio la classica figura di padre di una volta, la persona da
imitare, perché modello di vita, la madre è l’amica, la confidente, la mamma, la sorella" (Brasile, 6
anni e 9 mesi).
In altri casi (che ho riscontrato essere la maggioranza) è, invece, la madre ad assumere un
ruolo autorevole, mentre il padre diventa colui che permette il gioco, il divertimento, il distacco dai
compiti di routine: "Con papà predomina il rapporto giocoso, quasi fraterno. Con mamma vige più il
rispetto delle regole ed è più forte l’aspetto educativo" (Ucraina, 23 mesi).
"La bambina ha un legame d’amore litigarello con me ed uno adorante con il papà" (Nazionale,
11 mesi).
Generalmente il rapporto tra la coppia e il bambino viene descritto come: "Viscerale, profondo,
amoroso, giocoso" (Ucraina, 23 mesi).
L’inserimento del bambino nel nuovo nucleo familiare, porta grandi cambiamenti a livello
organizzativo e mentale, in quanto tutto inizia a ruotare intorno al bambino, che diventa il punto di
riferimento principale: la coppia si trasforma in una famiglia dedita ai propri figli.
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I cambiamenti principali riguardano la donna, quando si trova a dover fare delle scelte di
rinuncia nella sua carriera, le abitudini consolidate che vengono sconvolte dalla presenza del bambino
e la diminuzione del tempo da vivere per la coppia stessa.
In generale si avverte un cambiamento radicale della propria vita sentito, però, in modo
assolutamente positivo.
"Certamente: come madre ho smesso di lavorare a tempo pieno, abbiamo dovuto rallentare gli
impegni di volontariato ma anche i rapporti con gli amici si sono modificati ricercando maggiormente
quelli che hanno figli" (Bulgaria, 4 anni).
"Abbiamo abituato la bambina ad uscire con noi e a venire in ogni posto. Lei è felice di stare
con noi, piuttosto che sapere che siamo usciti senza di lei; le poche volte che si è reso indispensabile
lasciarla a casa con la nonna era molto addolorata al nostro rientro" (Bulgaria, 2 anni e 6 mesi).
"Il bambino detta i ritmi ... le notti cambiano, i giorni sono più intensi ... Ma questo vale sempre
quando si diventa genitori" (Vietnam, 8 mesi).
"Ora c’è lei che ha bisogno di noi e noi di lei " (India, 14 mesi).
"Si matura, si torna a casa e c’è qualcuno che ti aspetta e che vuole crescere ed imparare"
(Federazione Russa, 18 mesi).
Quando il rapporto con il bambino diventa più intenso, i genitori iniziano a conoscere e a
interpretare il comportamento del piccolo: "Lei è stata sempre brava anche troppo: dormiva tutta la
notte, mangiava tutto e non ha mai fatto storie particolari. Ma appena è stata più sicura, più tranquilla
è finalmente diventata come tutti i bambini: ci chiama di notte, fa le sue brave bizze ed è testarda
come un muletto" (Nazionale, 11 mesi).
In questa risposta è evidente la presa di consapevolezza della madre sulla regressione della
bambina interpretata come un evento assolutamente positivo, in quanto la bambina inizia a lasciarsi
andare e ad essere una bambina con dei bisogni da esprimere. I bambini che vivono in istituto non
possono comportarsi da bimbi; devono sapersela cavare da soli, perché anche se si bagnano e
piangono è raro che qualcuno se ne accorga in tempo, per cui non possono far altro che esercitarsi a
trattenere i bisogni, a diventare ubbidienti e piccoli uomini e donne capaci ed autonomi. Spesso,
infatti, esprimere le proprie esigenze può portare a punizioni, come scrive un’altra mamma: "Non
capivamo certi suoi comportamenti: non voleva che si chiudessero le porte; poi abbiamo scoperto da
una compagna dell’istituto che nostra figlia veniva messa in castigo in uno stanzino al buio quando si
faceva la pipì o la pupù addosso" (Nepal, 1 anno e mezzo).
Se da una parte ci sono bambini che tendono a trattenersi, manifestando un comportamento
tipico assunto in istituto, dall’altra ci sono bambini che esprimono il loro disagio con l’inappetenza,
l’insonnia o atti aggressivi.
"Si, c’è un’inappetenza che continua a durare, enuresi notturna ed incubi per molti mesi "
(Bulgaria, 4 anni).
"Nostra figlia ha avuto solo problemi di sonno il primo anno di permanenza in Italia. Si svegliava
anche più di 10 volte per notte chiamando mamma. Quando mi vedeva si addormentava subito"
(Nepal, 1 anno e mezzo).
"Ricordo che era molto agitata, incapace di concentrarsi a lungo su un gioco e poco autonoma.
Richiedeva sempre la nostra presenza al suo fianco qualunque fosse l’attività. Ricordo che aveva
paura di andare in bagno da sola e poi parlava molto, interrottamente" (Colombia, 6 anni e 10 mesi).
"Alcuni fenomeni di enuresi notturna, scomparsi dopo alcuni
nell’addormentamento e richiesta di un contatto con il papà" (Nazionale, 1 anno)
mesi.
Difficoltà
Nelle risposte è evidente come il bambino cerchi la presenza, la rassicurazione di una stabilità
certa, garantita totalmente, proprio perché teme di essere nuovamente abbandonato.
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Altri genitori considerano gli atteggiamenti d’imperattività del figlio/a come capricci, come un
bisogno di poter prevaricare sui genitori. Secondo loro il bambino assume questi comportamenti
perché pensa: "Questi mi amano e mi fan fare quello che vogliono". Nello specifico scrivono: "Ha
avuto solo una lieve crisi d’isteria dopo 10 giorni che era a casa, credeva di essere arrivata nel
paradiso del posso fare quello che voglio e invece noi l’abbiamo riportata sulla terra. È comune a tutti
i bambini adottivi, dopo la luna di miele tentano di prevaricare i genitori, tanto pensano: questi mi
amano e mi fan fare quello che voglio. Ecco che a questo punto esce fuori il bravo genitore" (Bulgaria,
2 anni e 6 mesi).
In realtà quando il bambino assume comportamenti di tipo aggressivo, cerca l’attenzione per
comprendere fino a che punto i genitori lo amano e lo terranno con loro, proprio perché teme
l’abbandono e non perché si sente troppo amato (Bertuzzi, 2000).
Ci sono bambini che, invece, dimostrano disagi solo in momenti particolari "L’enuresi notturna è
frequente solo fuori casa" (Brasile, 6 anni e 9 mesi), forse perché il bambino trovandosi a dormire in
un altro ambiente e avvertendo il cambiamento, sperimenta nuovamente il disagio e ancora la paura
dell’abbandono.
Il bambino si trova a dover affrontare un inserimento che coincide non soltanto con quello
familiare, ma anche con quello sociale. Fondamentale diventa, quindi, la preparazione del contesto
allargato per l’accettazione del bambino; bisogna informare parenti e amici e stare attenti a cosa si
racconta della storia del piccolo per assicurarsi che le versioni siano uguali. Tutelarlo da possibili
situazioni spiacevoli o poco chiare.
Generalmente nelle risposte prevale un’accettazione positiva da parte della comunità,
soprattutto quando il bambino è molto piccolo, perché prevale il contatto fisico e non il dialogo:"Era
uno scricciolino indifeso e un pò denutrito, per cui tutti, dalla famiglia allargata i vicini di casa l’hanno
accolta con gioia ed affetto" (Nepal, 1 anno e mezzo).
"Lo sapevano già tutti da tempo ed è stata una cosa naturalissima. Tutti lo hanno accolto con
molto entusiasmo e calore" (Nepal, 3 anni e mezzo).
"È nostra figlia, per cui tutti hanno accettato la situazione" (Bulgaria, 4 anni).
"Felicissimi. Parenti e amici sono stati vicino a noi nella fase immediatamente precedente alla
partenza... All’arrivo l’accoglienza è stata calorosa e ricca di doni da parte di tutti" (Ucraina, 23 mesi).
"Tutti l’hanno accolta con molto entusiasmo e partecipazione" (Nepal, 3 anni).
Vengono citati i parenti più stretti soprattutto i nonni: "È stata accolta con la gioia, lo stupore e
l’amore di un nipote tanto atteso, cercato e finalmente ritrovato" (Nazionale, 11 mesi).
Le difficoltà, per alcuni, vengono riscontrate specialmente nella comunità: "La comunità ha fatto
qualche commento fuori luogo. Perché indiana? Non è meglio un’italiana?L’avete adottata perché non
avete potuto avere figli? ecc." (India, 14 mesi).
"Abbiamo responsabilità maggiori dei genitori naturali, se si pensa che dobbiamo dotare i nostri
bimbi di tutti quegli strumenti che gli serviranno per difendersi da ogni tipo di commento o tentativo di
emarginazione. Maggiore è senz’altro lo sforzo di non urtare la loro sensibilità rispetto a certi temi, ma
maggiore è anche la gratificazione che se ne riceve." (Nepal, 3 anni e mezzo).
Le responsabilità vengono considerate come difficoltà legate alla realtà della nascita del
bambino, alla successiva entrata in famiglia e in società. "Le difficoltà che abbiamo riscontrato sono di
tipo scolastico: non riesce a stare attento a scuola, non essendo stato scolarizzato. Appena venuto in
Italia, dopo un mese era già sui banchi di scuola a frequentare la prima elementare e quindi per lui la
scuola è solo il luogo di incontro con gli amici." (Brasile, 6 anni e 9 mesi).
I genitori adottivi avvertono una responsabilità maggiore rispetto alla "categoria genitori" perché
devono affrontare aspetti legati alla famiglia biologica e all’abbandono. Nella maggior parte dei casi
essi sostengono che il nodo della filialità biologica e adottiva va affrontato senza mitizzare, nè
mistificare la madre biologica, senza far avere al bambino dubbi sulla loro determinazione a volerlo
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sempre con loro: "C’è sicuramente una responsabilità maggiore: quella di riuscire a creare una
continuazione tra il prima di noi e il dopo insieme a noi. Il piccolo per noi è nato in quel momento, ma
lui esisteva già prima e come tale ha un passato che va rispettato, riconosciuto ed accettato ..."
(Vietnam, 8 mesi).
"Sono madre di due figlie: una adottata ed una fatta in casa e credo fermamente che mia figlia
adottiva abbia maggiore necessità di conferme, di attenzioni rispetto all’altra che è sempre stata con
me e che non ha mai avuto carenze affettive" (Nazionale, 11 mesi).
"Dobbiamo fare sempre i conti con i famosi buchi neri del bambino, anche se adottato molto
piccolo" (India, 14 mesi).
"Abbiamo responsabilità maggiori perché dobbiamo ricordare al bambino il suo essere altro da
noi, ma comunque parte di noi" (Nazionale, 18 giorni).
Non tutti pensano di avere delle difficoltà, ciò è spesso legato all’età del figlio: "È ancora presto
per avere difficoltà" (Nazionale, 18 giorni)
"Per il momento nessuna, forse perché è ancora troppo piccolo e forse perché è entrato in
famiglia che aveva due anni. L’unica differenza che potrebbe avere rispetto ad altri bambini, è che ha
bisogno spesso di essere rassicurato sul fatto che sarà sempre nostro figlio, che saremo sempre
insieme, che ci ameremo sempre ecc." (Ucraina, 23 mesi)
Una volta affrontate le difficoltà ho chiesto di scrivere una sorta di definizione dell’ "essere
genitori adottivi". Di spiegarmi la genitorialità adottiva in rapporto a quella biologica; se ci sono delle
differenze rispetto ai genitori naturali: "Essere genitori adottivi significa significa amare e crescere un
bambino non nato da noi, ma per il quale il nostro bene significa tutto" (Nazionale, 14 mesi).
"La nostra è stata una scelta di vita, non una esigenza fisiologica" (Federazione Russa, 18
mesi).
Per molti è fondamentale stabilire un ponte fra i genitori naturali e quelli adottivi, perché vi deve
essere continuità fra i due se si vuole che il bambino adottivo cresca sereno. Significa essere aperti al
mondo in tutte le sue sfaccettature: "Significa essere papà e mamma di una bambina che è nata da
qualcun altro, che per qualche motivo non è riuscito a fare anche da genitore (genitore è colui che fa
crescere i suoi figli); significa essere parte di quello che io chiamo miracolo: sentirsi in tutto e per tutto
genitori (anche con le viscere) di un cucciolo che spesso è completamente diverso somaticamente da
te. Significa ritrovarsi nei gesti, nelle espressioni, nei comportamenti di una bimba dalla carnagione
ambrata con i capelli neri neri. Significa essere genitori" (Nepal, 1 anno e mezzo).
C’è anche chi ha ripensato al proprio percorso di accettazione del passato del bambino e ha
rivalutato l’abbandono del bambino per non trasmettergli un’immagine negativa dei suoi genitori
biologici: "Prima pensavo a quei disgraziati che l’hanno abbadondonata, perché non si puó mettere la
mondo un figlio con leggerezza, poi peró mi viene da considerare le circostanze attenuanti:
l’ignoranza, la povertà... E allora penso che han fatto bene a portarla all’istituto così che qualcuno
l’adottasse, per cui credo che abbiamo espletato la loro funzione di procreatori mettendola in un posto
sicuro in attesa che arrivassimo noi. Se non l’avessero creato, noi ora non l’avremmo" (Bulgaria, 2
anni e 6 mesi).
Nella maggioranza dei casi l’adozione viene sentita come un privilegio: "Aver realizzato un
sogno, aver tenacemente voluto un figlio ed averlo incontrato. Essere orgogliosi della sua terra
d’origine che ci ha donato l’onore e la responsabilità di crescere questo bambino" (Vietnam, 8 mesi).
"La realizzazione del nostro progetto familiare" (Nazionale, 25 giorni).
Viene continuamente sottolineato il fatto che il suo passato non deve essere dimenticato:
"Dovremo fare sempre i conti con un pezzo di vita delle nostre figlie che non conosciamo e che oltre
ai problemi comuni a tutti i genitori naturali dovremo anche affrontare quelli derivanti da ció che le
nostre figlie si chiederanno e ci chiederanno sulla loro origine" (Ucraina, 6 e 7 anni).
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"Avere un figlio che amiamo e che ci ama e che peró ha un breve passato nel quale noi non
c’eravamo e che dobbiamo colmare: non è facile" (Bulgaria, 2 anni e 6 mesi).
"Quando desideri ardentemente un figlio che sai di non poter avere, quando finalmente riesci
ad abbracciare fisicamente questo desiderio sotto forma di un bimbo, non ti importa se è giallo a
pallini blu, se è maschio, femmina, bello o brutto. Sai solo che finalmente vi siete trovati e che starete
insieme per sempre. Mia figlia mi dice: io ho avuto tre mamme, la prima non ha potuto tenermi, la
seconda mi ha cresciuto per un pó di tempo perché non fossi sola, la terza - tu- è la mia mamma per
sempre, quella vera. Ecco cosa significa essere genitori adottivi:una profondità di legame, di amore,
d’appartenenza che va al di là di qualsiasi cosa" (Nazionale, 11 mesi).
Diventare genitori adottivi significa, quindi, aver fatto una scelta consapevole e condivisa da
entrambi i coniugi, nei confronti di un figlio i quali bisogni sono assolutamente in primo piano.
Per altri genitori le responsabilità rispetto ai genitori naturali vengono livellate, forse, perché non
vogliono sentirsi diversi, ma semplicemente genitori di quel bambino/a che hanno tanto aspettato e
che considerano come nato nel momento stesso dell’adozione: "Per noi significa essere genitori e
basta (Nepal, 3 anni e mezzo).
"Riteniamo i genitori adottivi totalmente uguali ai biologici, nelle gioie, nei dolori e nelle
responsabilità" (Romania, 4 mesi).
In generale l’adozione viene vissuta come un’esperienza molto importante che conduce ad
un’autentica genitorialità. Per questo motivo molte famiglie iniziano le pratiche per un’ulteriore
adozione, consapevoli del loro percorso: "Si, stiamo già avviando le pratiche per la seconda adozione,
prima di tutto perché desideravamo da subito che i bambini non fossero da soli ad affrontare la loro
nuova vita, ma in Nepal c’era il divieto di adottare piú bimbi per volta, poi perché il nostro bimbo lo
richiede" (Nepal, 3 anni e mezzo).
"Le avremmo iniziate subito ma la burocrazia... È egoistica come risposta ma solo a pensare a
quello che abbiamo lasciato nella Federazione Russa ci viene la nausea" (Federazione Russa, 18
mesi).
"Già fatto... Siamo in attesa dei colloqui con i servizi sociali (Vietnam, 8 mesi).
"Si, se fosse meno costoso. In questo momento non ce lo possiamo permettere, anche perché
l’adozione colombiana e la nostra permanenza nel paese, ci è costata parecchio" (Colombia, 6 anni e
10 mesi).
"Assolutamente sì, anche se la nostra esperienza non è del tutto serena a causa del rischio
giuridico, probabilmente faremo domanda solo internazionale. Purtroppo la legge italiana presenta
ancora troppe lacune..." (Nazionale, 2 anni).
6.5 STATO ADOTTIVO ED ORIGINI
La storia, il passato, le origini del bambino rivestono un ruolo centrale nel processo di sviluppo
e di costruzione della sua identità. Il percorso di elaborazione della propria storia può essere
paragonato al lavoro di costruzione di un mosaico composto da un numero illimitato di tasselli. Ogni
pezzo rappresenta un evento, un ricordo, un’impressione che richiedono una collocazione nella storia
della persona. Il genitore adottivo ha un ruolo di primo piano nella composizione di questo mosaico
perché è l’unica persona che può collegare il passato con il presente, verso il futuro (Paradiso, 2004).
Per un bambino, la consapevolezza della propria storia è paragonabile ad un lavoro incessante,
che pian piano diventa un bisogno di conoscenza in un particolare periodo della vita. Generalmente
tale periodo inizia intorno al terzo, quarto anno di vita, ossia, quando è il bambino stesso a porre le
prime domande. I genitori tendono, comunque, fin da subito a spiegargli la sua situazione, sotto forma
di racconto, indipendentemente dall’età. È, quindi, verso il terzo, quarto anno di vita che il bambino
inizia ad interessarsi realmente alla sua storia e a prendere consapevolezza delle sue origini.
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Tenendo conto di questi elementi nel riportare le citazioni, nel caso l’anno dell’adozione non
fosse recente, farò riferimento anche all’attuale età del bambino.
"Fin dal primo momento ha saputo di essere stato adottato e la sua storia ritorna
quotidianamente nei nostri discorsi. È consapevole e vive la sua storia con serenità e sicurezza, la
stessa che noi siamo in grado di trasmettergli unitamente ad un infinito amore" (Nazionale, 14 mesi).
Ora il bambino ha 2 anni e 7 mesi.
Il bambino/a riesce ad accettare il suo passato in modo positivo, quando i suoi genitori creano
intorno a lui/lei un clima d’accettazione e di comprensione senza confini, un esempio è la storia di una
bambina adottata con adozione nazionale e che ora ha 5 anni: "Gliel’ho detto fin da quando ho
pensato che potesse capire, sotto forma di favola della sua vita. Lo ha preso come un dato di fatto: ci
sono bambini che nascono dalla pancia della mamma ed altri che sono in una pancia ma poi entrano
in un altro cuore, quello della loro mamma per sempre. La mia piccola non l’ha trovato poi tanto
strano, nemmeno quando è nata la sorellina. Ognuno ha il suo destino, il suo modo di trovare la
strada di casa. C’è chi ha un percorso più facile, chi invece deve mettere in conto una fatica
maggiore. Ma il risultato è sempre lo stesso: una famiglia amorevole" (Nazionale, 11 mesi).
Quando il bambino sperimenta la possibilità di riconoscere il suo passato e di sentirlo accettato
da ciascun componente della famiglia, impara a vivere con serenità la sua storia e di sentirla come
parte di se stesso: "Assolutamente sì, l’ha sempre saputo e noi ne parliamo con molta serenità quasi
tutti i giorni, magari ricordando il suo paese o le abitudini. Per il momento non sembrano esserci dei
mutamenti particolari, anche lui pare molto sereno nel parlarne" (Nepal, 3 anni e mezzo) Adesso il
bambino ha 5 anni.
"Ritengono che Dio abbia offerto loro, una nuova occasione di vita" (Colombia, 10, 6 e 2 e
mezzo). I bambini già consapevoli al momento dell’adozione, ora hanno rispettivamente: 11, 7 e 3
anni.
"Lui conosce la sua storia che gli abbiamo raccontato sotto forma di narrazione. È consapevole
del fatto di essere nato dalla pancia di un’altra donna e non dalla mia. L’ha preso come un dato di
fatto, ma è ancora troppo piccolo per porsi delle domande e per soffrirne. Aspettiamo gli sviluppi della
situazione" (Ucraina, 23 mesi). Il bambino ora ha quasi 6 anni.
Ci sono bambini che, invece, sembrano voler cancellare il loro passato e desiderare di sentirsi
figli solo di quegli unici genitori che hanno saputo amarli. Questo atteggiamento è tipico dei bambini
un pò più grandi, i quali proprio perché acquistano una maggiore consapevolezza sulla propria
origine, (per non pensare all’abbandono subito, legato al lutto e alla perdita) cercano di dimenticare,
pensandosi nati al momento dell’adozione. Un esempio è la storia di una bambina nata in Bulgaria
che attualmente ha 10 anni: "La bambina sa bene di essere adottata fin dall’inizio, non manifesta
nessuna curiosità nei confronti della madre biologica e dichiara che ha solo una madre cioè me"
(Bulgaria, 4 anni).
È importante prestare attenzione alla totale assenza di richieste di approfondimento sulle
proprie origini. In questo caso è meglio che siano i genitori ad offrire lo spunto per parlare della
vicenda adottiva attraverso il racconto o ripescando oggetti conservati che gli ricordino il luogo della
sua nascita o con l’utilizzo di foto, videocassette che parlino della sua storia.
Quello che bisogna offrire al bambino, sono degli strumenti per elaborare il suo passato e non
per dimenticarlo. Spesso, infatti, davanti al bisogno del bambino di dimenticare, si nasconde la
necessità del genitore di appagare il suo bisogno di sentirsi l’unico vero genitore di quel figlio tanto
atteso.
Quindi, bisogna prestare attenzione alle richieste del bambino e ai suoi reali bisogni di
conoscere o non conoscere:"Cercheremo di sostenerlo in ogni modo, in base alle sue richieste"
(Nazionale, 1 anno); attualmente il bambino ha 4 anni. Il genitore, però, deve anche attrezzarsi,
cercare degli strumenti che lo possano sostenere nella rivelazione delle origini del piccolo. Il genitore
deve riuscire a mettere in luce anche le zone d’ombra, per dare valore anche a quegli aspetti
nascosti, che comunque ed inevitabilmente fanno parte della storia del bambino: "Cercheremo
insieme di trovare una spiegazione al suo abbandono, con l’aiuto dei pochi elementi relativi alla sua
etnia di cui siamo a conoscenza. Sicuramente tenteremo di mantenere sereno il ricordo del suo
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Paese nell’interesse per esso, la sua gente e le sue tradizioni, poiché è un Paese che amiamo molto"
(Nepal, 3 anni e mezzo). La bambina ha attualmente 5 anni; a quest’età l’interesse per ciò che la
circonda si fa sempre più grande, come il bisogno di conoscere le proprie origini, che devono essere
considerate in maniera positiva dai genitori. Per poter aiutarsi nel loro compito, essi si avvalgono
dell’uso di diversi strumenti, come nel caso dei genitori di un bambino di 5 anni: "Lo stiamo
sostenendo raccontando una favola e poi guardando le foto, cercando di rendere piacevole la storia
anche se di piacevole non c’era nulla" (Bulgaria, 2 anni e 6 mesi).
"Purtroppo non c’è molto da raccontare perché è stata partorita in anonimato e lasciata
all’ospedale, per cui non c’è alcuna notizia. Si potrà solo aiutarla a capire ed accettare che talvolta
una mamma non può tenere con sè il suo bambino e lo affida ad un’altra mamma ed un altro papà"
(Nazionale, 40 giorni). Nonostante la bambina ora abbia soltanto 22 mesi, è incoraggiante sapere che
i suoi genitori la sostengono e non connotino con un giudizio negativo la madre naturale.
Un altro elemento di attenzione riguarda la modalità di comunicazione della vicenda adottiva,
che è diversa in relazione all’età del bambino. Importante è che segua il criterio della gradualità e che
man mano si arricchisca di elementi e di significati in base alle richieste del bambino. Un esempio è
quello della favola raccontata ad una bimba nata in Romania e che attualmente ha 10 anni:"Abbiamo
raccontato subito una bella favola, arricchendola sempre di particolari, con immagine positiva della
mamma biologica" (Romania, 4 mesi).
Non esiste un momento più adatto per informare il bambino del legame adottivo: la vicenda
adottiva è parte della vita relazionale di tutti i giorni.
La si può riscontrare nei racconti, nell’album di foto, nella discussione sulla diversità e
somiglianze, perché è fondamentale che il bambino abbia consapevolezza del suo stato d’adottato:
"Da sempre parliamo di lui e di quando siamo andati a prenderlo nella casa dei bimbi. Nostro figlio di
recente ha raccontato di sè all’asilo, alle maestre … È stato un momento di commozione e per noi di
grande orgoglio, perché significa che le nostre parole a lui arrivano ... Un pò per volta ma arrivano.
Dovrà elaborare molti concetti ma sarà speriamo un percorso naturale che crescerà insieme a lui"
(Vietnam, 8 mesi). Il bambino ha attualmente 2 anni e 8 mesi.
"Abbiamo foto, un filmino del paese di nascita della bambina, dei souvenir e una maglietta
sottratta con l’inganno perché in istituto non danno nulla. Mi sono attivata su internet ed ho trovato
altri bimbi provenienti dallo stesso istituto; con le loro mamme ci scriviamo frequentemente" (Bulgaria,
2 anni e 6 mesi) Il bambino ha 5 anni.
Mantenere contatti con altre famiglie che hanno adottato è molto importante, specialmente con
quelle che hanno figli provenienti dal medesimo istituto. Il bambino, soprattutto se già grandicello,
avrà instaurato dei legami con altri bambini e la separazione da loro costituisce un ulteriore dolore.
In alcune risposte ho notato che i genitori tendono a sottolineare il fatto che, a volte, un paio di
volte o addirittura una sola volta il bambino tende a ricordare il suo Paese di origine e le persone che
hanno vissuto con lui; quasi a voler dimostrare che anche se si ricordano della loro vita passata, non
ne hanno una grande nostalgia, come una bambina nata in Nepal e che attualmente ha quasi 6 anni:
"Siamo recentemente tornati nel suo paese per la seconda adozione, ma non ha mostrato particolare
interesse per questi luoghi e a chi le chiedeva se era nepalese lei rispondeva che era nata a
Kathmandu ma che ora era italiana" (Nepal, 3 anni).
"Solo una volta ha detto di voler andare in Nepal a prendere tutti i bambini dell’istituto e di
volerli portare qua" (Nepal, 3 anni e mezzo) Il bambino ha attualmente 5 anni.
Non è detto che il bambino abbia un ricordo positivo dell’istituto e il bisogno di non ricordare e
di "cancellare" quella parte della propria vita può risultare molto forte. Fondamentale diventa, quindi,
rispettare i tempi del bambino e le sue necessità, per sostenerlo a rielaborare poco a poco il suo
doloroso passato: "L’arrivo della sorellina l’ha portato a chiedere molto di più, rispetto al passato, alla
"pancia" dalla quale è nato. Non ha conservato alcun oggetto... Quando siamo andati nell’istituto in
cui aveva vissuto gli ultimi 14 mesi, lui ha detto di non ricordarsi nulla, è rimasto tutto il tempo
aggrappato alla mamma ed ha aggiunto di non volerci più tornare". (Nazionale, 2 anni) Attualmente il
bambino ha 6 anni.
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"Hanno portato con loro qualche piccolo oggetto, che ogni tanto tirano fuori per mostrarcelo,
ricordandoci, ce lo avevano già in istituto. Hanno telefonato due volte alla direttrice e ogni tanto mi
chiedono di poterlo fare ancora" (Ucraina 6 e 7 anni).
I genitori devono cercare di informarsi e di sapere più aspetti possibili della realtà del bambino;
conoscere gli adulti e bambini che stavano con lui, le sue abitudini, i giochi che amava fare... Il
bambino adottato, per conservare un’immagine positiva del suo paese d’origine e quindi della sua
cultura, deve percepire che le persone intorno a lui valorizzano le specificità del popolo di cui fa parte:
"Conosce le sue origini perché glielo abbiamo detto e parlato. È orgoglioso di essere ucraino perché
gli abbiamo trasmesso un’immagine positiva del paese e della sua origine. Lui è un cosacco (l’istituto
era in una città un tempo abitata dai cosacchi; esiste un museo e l’isola dei cosacchi) e i cosacchi
sono coraggiosi e valorosi guerrieri. Non ha oggetti della sua nascita. Però abbiamo oggetti
d’artigianato acquistato qua e là. Desidera andare a prendere anche il fratellino in Ucraina (speriamo
si riesca)" (Ucraina, 23 mesi). Attualmente il bambino ha quasi 6 anni.
Questo non deve accadere soltanto in famiglia, ma anche a scuola, luogo in cui il bambino
incontra altri bambini e con i quali trascorre la maggior parte del suo tempo. Un esempio, che ho
trovato molto importante e che può condurre molte persone, specialmente quelle che lavorano
nell’ambito scolastico, ad una riflessione è quello di una bambina nata in Colombia, che attualmente
ha 9 anni e che ha dovuto "spiegare" alla sua classe l’adozione: "Per la scuola ha dovuto svolgere
alcuni compiti in cui ha parlato dell’adozione; lo ha fatto con semplicità e senza apparenti problemi,
anche se abbiamo notato in concomitanza con quei lavori un grande nervosismo. È importante che
anche a scuola l’esperienza dell’adozione venga affrontata con competenza. Pensiamo che la cosa
più importante sia fare in modo che nostra figlia possa reinquadrare positivamente gli avvenimenti
dolorosi che hanno caratterizzato i suoi primi anni di vita in un disegno complessivo che a quegli
eventi dia significato, fino a considerarli una risorsa. Sarà il lavoro di una vita intera." (Colombia, 6
anni e 10 mesi).
È fondamentale che le insegnanti facciano comprendere ai bambini che non esiste un’unica
realtà, ma esistono una pluralità di mondi possibili, in continua trasformazione (Massa, 1999).
Le insegnanti e tutti coloro che operano nel mondo della formazione devono diventare come l’
architetto, l’artista, il teatrante dell’educazione per produrre delle "forma di esperienza" (Massa, 1999),
quali configurazioni espressive e materiali atte a trasmettere una completa e reale accettazione di
tutte le forma di diversità.
È soprattutto nell’ambiente scolastico che, quindi, il bambino inizia a ricostruire, e a maturare il
fatto di essere stato adottato e di ricercare delle risposte: "Conosce bambini rumeni della sua scuola e
chiede anche a loro se sono stati adottati. Con molta serenità comincia a chiedere perché la prima
mamma non ha potuto tenerla" (Romania, 4 mesi) Il bambino ha attualmente 10 anni.
Il passato, le origini, la storia, la cultura del paese e la storia della nascita del bambino,
rivestono un ruolo centrale nel processo di sviluppo e costruzione della sua personalità. Determinante
è la prontezza a fornire informazioni, la disponibilità a mantenere vivo un dialogo continuo, costruito
sulla sincerità e chiarezza. Sarà proprio questa disponibilità a parlarne sempre, a costituire il punto
saldo rispetto al quale le paure del bambino andranno scemando: "Stiamo realizzando un libro sulla
sua storia che rimanga come testimonianza del suo passato." (Nepal, 3 anni e mezzo) attualmente il
bambino ha 5 anni.
La ricostruzione della storia adottiva rende possibile il recupero di uno spazio di reciprocità e di
condivisione: "Ho scritto un diario di com’è avvenuto tutto il percorso per arrivare a lei, non l’ha ancora
letto ma penso di farglielo leggere appena avrà la maturità per comprendere tutto il dolore e la gioia
che c’è in esso." (Bulgaria, 4 anni) Attualmente il bambino ha solo 10 anni, un’età molto vicina alla
bambina di 9 anni della seguente citazione: "La bambina è molto legata alla Colombia. Spesso
condividiamo con lei il ricordo della sua permanenza là, aiutati dalla musica, dalle fotografie, dal cibo
ecc. Vuole ritornare a visitare la Colombia e le abbiamo promesso che lo faremo quando sarà un pò
più grande. Ricorda la famiglia affidataria (la mamma e un fratellino). Non parla, invece, dei suoi
genitori biologici. A volte pone delle domande relative alla sua vita di quando era piccola e cerchiamo
insieme di costruire situazioni e storie che colmino quel vuoto" (Colombia, 6 anni e 10 mesi).
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In generale lo strumento che viene considerato ideale per iniziare a raccontare la realtà
adottiva è la fiaba, soprattutto per i bambini della prima infanzia: "Andrij amava sentire la storia del
bimbo che arrivò con l’aereo; tutte le sere. Prima di dormire era il racconto che gli facevo nel primo
anno insieme" (Ucraina, 23 mesi) Attualmente il bambino ha quasi 6 anni e i genitori dichiarano che il
dialogo con lui è molto più sereno, proprio perché il bambino pensa all’adozione come ad un dato di
fatto, dato che la sua storia gli è sempre stata raccontata.
"La fiaba è uno strumento molto valido, perché i bimbi vivono nel mondo delle fiabe" (Nepal, 3
anni). Attualmente la bambina ha quasi 6 anni.
Generalmente, quindi, i genitori considerano la fiaba uno strumento utile per iniziare ad
avvicinarsi alle problematiche dell’adozione: leggono fiabe classiche, prendono spunto da quelle che
leggono sui libri per inventarne delle loro ecc. "Abbiamo scritto una favola che narra la sua storia. Mi
ha spinto la lettura di un libro: Cavalcando l’arcobaleno ed il fatto che volevamo fin da subito
raccontarle la sua storia. Mia figlia è contenta, perché è lei la protagonista di questa fiaba." (Nepal, 1
anno e mezzo) Ora la bambina ha 4 anni e ancora oggi la fiaba e la lettura di libri che trattano il tema
dell’adozione restano i "mezzi" ideali per affrontare le problematiche legate all’informazione in modo
sereno.
Per comprendere il riconoscimento della specificità dell’esperienza genitoriale adottiva e la
consapevolezza del percorso che ha portato alla formazione di una nuova famiglia, ho chiesto ai
genitori di provare a pensare al passato, al presente e la futuro e di scrivere quali immagini, emozioni
queste parole suscitano in loro.
Alcuni genitori hanno risposto pensando al cammino compiuto dalla coppia per diventare
famiglia: "Il passato ci ricorda l’incertezza e il senso di incompletezza, il presente è la nostra famiglia
forte, unita... La realizzazione del sogno. Ma dato che un sogno solo non basta, il futuro ce lo
immaginiamo come il completamento della nostra famiglia" (Vietnam, 8 mesi).
"Il passato è stato di ricchezza e di sofferenza, il presente è fatto di felicità e gratitudine e il
futuro sarà pieno di progetti" (Nazionale, 40 giorni).
"Il passato è qualcosa che mancava, il presente è qualcosa che c’è, il futuro è qualcosa che ci
sarà sempre" (Nepal, 3 anni).
"Il passato: noi soli, il presente: noi felici (e stanchi) con il nostro bambino, il futuro: noi felici (e
ancora più stanchi) con più figli (Nazionale, 18 giorni).
"Il passato è qualcosa che è accaduto, che non ritorna, ma che rimane nella nostra mente; il
presente è soltanto ciò che stiamo vivendo; il futuro sono i nostri desideri che si potranno o non
potranno realizzare." (Brasile, 6 anni e 9 mesi).
Alcuni non pensano al passato senza il bambino e, quindi, (come negli altri casi), a come si
sentivano quand’erano una coppia senza figli. L’arrivo del bambino rappresenta una nascita, un
nuovo inizio, sentito e vissuto come eterno: "Viviamo soltanto un perenne presente" (Nepal, 3 anni e
mezzo).
"La nostra vita vera è iniziata 10 anni fa, il presente è con la nostra bambina, il futuro è per lei,
augurandole tanta gioia e serenità" (Romania, 4 mesi).
Per altri genitori questa domanda ha permesso di fare un "grande salto interiore", ripensare ai
propri ricordi, sogni, immaginazioni, stati d’animo, ma anche di pensare al bambino, ai suoi bisogni ed
esigenze, alla sua crescita ecc. Ripensare e il ripensarsi, avendo l’opportunità di mettere tutto per
iscritto... "Se pensiamo al passato ricordiamo il dolore dell’attesa, i pianti senza risposta del bambino,
le notti che ha trascorso senza le braccia di mamma e senza l’amore dei genitori; le carezze che non
ha avuto, il primo sorriso, il suo primo dente, i suoi primi passi. Il presente è sereno, mi sento
completa nell’essere mamma e avverto la pienezza d’essere famiglia. Il presente è la ricchezza d’ogni
giorno insieme, le parole nuove, i discorsi, la maturazione d’ogni giorno, il calore dei baci, la fisicità
degli abbracci. Il futuro racchiude la speranza che duri per sempre, che il bambino cresca sereno,
felice e che possa realizzare i suoi sogni." (Ucraina, 23 mesi).
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La prossima risposta è, invece, stata scritta in prima persona dalla moglie, mentre ciò che ha
vissuto il marito non è stato espresso. Mi ha molto colpito l’intensità con cui vengono espressi i propri
ricordi: "Passato: quasi non riesco più a ricordare cosa voleva dire essere senza figli, mi sembra
vuoto ed insignificante.
Presente: alcuni giorni sono molto faticosi, due bambini sono molto impegnativi, le rinunce
possono essere tante, ma quando mi sento stanca, penso ai pianti che mi facevo in passato perché
desideravo avere dei bambini che non arrivavano. La gioia che mi hanno trasmesso con il loro arrivo
mi riempie la vita.
Futuro: non ci penso. Il rischio giuridico non mi permette di pensare neppure come sarà la
nostra vita fra 6 mesi... Spero che sia sereno; il nostro desiderio è che i nostri bambini crescano sani
ed equilibrati..." (Nazionale, 2 anni)
Pensare al passato, al presente e al futuro può anche revocare delle immagini: "Ci viene in
mente l’immagine di un albero: il passato con le radici che assicurano il passaggio del nutrimento, il
presente è il tronco e sono i rami che stanno germogliando, il futuro è il dispiegarsi di una verde ed
ampia chioma. Potrebbe essere un albero di mango che offre i frutti preferiti da nostra figlia."
(Colombia, 6 anni e 10 mesi).
In conclusione posso affermare di aver raggiunto lo scopo del mio lavoro, in quanto sono
riuscita a conoscere l’esperienza adottiva attraverso la vera testimonianza di coloro che l’hanno
vissuta in prima persona e di capire in che modo i genitori hanno valutato la loro esperienza e la
relazione con il bambino.
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«Io sogno, perché non sono che un bambino in viaggio, lontano dalla terra ferma, la mia parola
è muta e il mio canto senza musica, ciò che vi dico piano non potrò dirlo ad alta voce se non il giorno
in cui, avendomi voi adottato, mi avrete messo in cuore tanto amore e autentica libertà, sulle mie
labbra parole sufficienti, perché possa dire: papà, mamma, io vi scelgo e vi adotto... Allora saprete
che il vostro amore è dono, e che è riuscito» (Michel Quoist)
Tratto da: Adozioni (Ferranti, 2003)
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CONCLUSIONE
Quando ho iniziato la ricerca relativa alla tesi, immaginavo la vastità delle tematiche coinvolte
nello studio del processo adottivo ma non conoscevo quanto si fosse fatto in passato e quanto
attualmente si stia facendo in campo giuridico e psicopedagogico per giungere ad una genitorialità
adottiva matura e consapevole.
L’adozione è, infatti, una realtà in continua evoluzione, ma che spesso viene scarsamente
compresa nella sua reale essenza e spesso affrontata con perplessità e timori.
Con questo lavoro ho voluto dar voce al silenzioso fenomeno adottivo e desiderato diffondere
una reale coscienza su che cosa significhi adottare ed essere adottato, dal punto di vista psicologico
della coppia e del bambino.
L’adozione deve essere una scelta maturata e consapevole e non un modo per sopperire
all’infertilità. Ci deve essere un’autentica disponibilità da parte dei genitori adottivi di voler
comprendere le reali esigenze del bambino e di dare una nuova forma alle aspettative e ruoli che si
erano prefigurati per se stessi e per lui. Inoltre, non esistono età in cui l’adozione risulta più facile o
più difficile, perché a nessuna età è facile inserirsi in un altro nucleo, per quanto disponibile ed
accogliente esso sia. Le difficoltà, in tal senso, sono più evidenti nel bambino che ha già acquisito un
suo modo di porsi nell’ambiente e che, quindi, può avere problemi a cambiare lo stile di vita, in quanto
sente di perdere qualcosa che faceva parte di lui. Ma anche i bambini adottati nei primissimi anni di
vita, hanno delle difficoltà poiché il loro abbandono viene percepito come una grande ferita dovuta al
vago confine che li separa dalla figura materna. Questi bambini non hanno vissuto
l’"ammaternamento": non sono stati presi in braccio, accarezzati, cullati... Tale mancanza comporta
l’assenza di un contenimento e di una organizzazione mentale, che possa favorire lo sviluppo della
personalità.
Fondamentale è anche ciò che i genitori adottivi trasmettono al bambino e, in particolare, cosa
gli comunicano in rapporto alle sue origini.
Ci sono genitori che hanno difficoltà ad accettare gli aspetti meno gratificanti della realtà del
bambino e che desiderano lasciare il passato fuori dal presente, come se esso non fosse mai esistito.
Negare il passato del bambino significa, però, non accettare completamente il piccolo per quello che
è veramente, poiché la sua storia fa parte di lui. Il bisogno di cancellare le origini del bambino viene
percepito in ogni momento della vita quotidiana, perché in qualsiasi momento i genitori trasmettono ai
figli ciò che pensano, non solo con le parole, ma anche con i loro gesti e comportamenti. La coppia
necessita, pertanto, di una preparazione adeguata all'adozione per individuare gli strumenti atti ad
elaborare le proprie aspettative, bisogni, per imparare a guardare l’adozione attraverso gli occhi del
figlio e comprendere le sue reali esigenze. Una tecnica terapeutica pensata per iniziare ad affrontare
nella maniera più idonea la comunicazione del passato al bambino, è la fiaba o meglio la fiabaarcobaleno (Giorni, 2003) che garantisce l’accesso ad un significato più profondo, cattura l’attenzione
del bambino, sa armonizzarsi con le sue ansie e suggerire soluzioni ai problemi che lo turbano. Ogni
bambino ha bisogno di un metaforico arcobaleno, costruito dai suoi genitori adottivi, che congiunga le
parti della sua storia, con le sue verità e con i suoi perché… Il bambino ha, infatti, delle radici che
sono germogliate in un altro luogo, in un mondo che deve essergli raccontato, perché fa parte di lui,
della sua identità. Il rapporto con i servizi sociali e con gli operatori nello specifico deve, quindi, essere
curato nell’intento di diventare per il nucleo adottivo un punto d’appoggio e sostegno forte, cui potersi
sempre rivolgere prima che le difficoltà diventino insormontabili o per ridimensionare preoccupazioni
di piccola entità. I genitori devono, infatti, diventare esperti restauratori, preparati a lavorare con
amore, pazienza, abnegazione per il recupero e la manutenzione di quell’opera d’arte incompiuta da
"ricostruire": l’opera bambino.
In conclusione, ritengo che sia fondamentale creare un autentico spazio d’ascolto per queste
famiglie, uno spazio che si muova tra il sentire e l’agire, che voglia fermarsi a riflettere sulle reali storie
di vita, sui vissuti, emozioni, esperienze… Per fa questo bisogna pensare a nuovi percorsi di crescita
professionale sia per coloro che operano nel settore adottivo, sia per tutte quelle persone che
lavorano quotidianamente con questi bambini, ad esempio gli insegnanti. Poiché se è vero che i
genitori devono imparare ad accettare, conoscere, accogliere il bambino rispettando la sua storia e il
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suo passato, è anche vero che lo stesso devono fare coloro che sono a contatto con questi minori. Su
questo fronte c’è ancora molto da lavorare, risorse da impegnare, progetti da creare e realizzare, ma
l’adozione è un fenomeno in continuo cambiamento e credo che grazie all’interesse mostrato dalle
diverse discipline in campo umanistico e giuridico, presto si apriranno nuovi orizzonti e nuove strade
e... Coloro che presteranno attento orecchio e non superficiale sguardo, comprenderanno come il
dolore possa trasformarsi in meraviglia.
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APPENDICI
8.1 Appendice A - A.N.F.A.A: UN’ASSOCIAZIONE A TUTELA DEI MINORI
L’A.N.F.A.A, Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie è stata fondata a Torino
nel 1962 ed è stata eretta in Ente Morale il 19 marzo 1973. Scopi dell'Associazione sono:
•
affermare che il fine essenziale dell'adozione è quello di dare una famiglia moralmente e
materialmente uguale a quella naturale ai bambini che ne sono privi;
•
difendere gli interessi morali e materiali delle famiglie adottive e affidatarie;
•
studiare e adoperarsi per una riforma degli istituti giuridici che regolano l'adozione e
l'affidamento, sempre tenendo presente che l'interesse prevalente da tutelare è quello del
bambino;
•
sviluppare i contatti tra i Soci al fine di poter scambiare le reciproche esperienze;
•
tenere a disposizione dei Soci una documentazione sulle questioni legali, psicologiche,
pedagogiche relative all’adozione, all’affidamento e all’infanzia abbandonata;
•
ottenere il concorso di giuristi, psicologi, pedagoghi ed esperti;
•
fornire consulenza alle famiglie e alle persone che intendono adottare o accogliere in
affidamento minori.
L'Associazione non ha qualificazione politica, sindacale o confessionale. L'ANFAA è una
Associazione senza fini di lucro e si adopera per instaurare forme di collaborazione con associazioni
e persone sensibili al problema, allo scopo di promuovere i diritti dei minori in situazione di
abbandono o con difficoltà familiari. Oggi in Italia operano diverse sezioni dell’A.N.F.AA e sono decine
i gruppi di famiglie con cui l’Associazione è a contatto e che si fanno carico di proseguire l’impegno
assunto.
8.2 Appendice B INTERNAZIONALE
N.A.A.A:
ENTE
AUTORIZZATO
ALL’ADOZIONE
Il N.A.A.A (Nucleo Assistenza Adozione e Affido – Onlus) è una Associazione fondata da
genitori adottivi il cui intento è quello di offrire un aiuto sincero, corretto e disinteressato, alle famiglie
italiane impegnate in pratiche e progetti d’adozione internazionale.
Il 20 aprile del 1999 ha avuto il riconoscimento come Ente Morale; mentre dal 31ottobre del
2000 risulta iscritta all’Albo degli Enti Autorizzati per l’adozione internazionale.
Il metodo di lavoro utilizzato dall’Associazione consiste in un intervento puntuale e sistematico,
di informazione e formazione, personalizzato alla famiglia adottiva, che permette di seguire tutto l’iter
della procedura d’adozione, con interventi svolti da parte di personale qualificato che peraltro ha
vissuto personalmente una o più esperienze d’adozione internazionale con risultati validi e positivi.
Alle famiglie aderenti il N.A.A.A garantisce il massimo impegno, tenuto conto che la sua attività, oltre
ad essere volta a superare i problemi derivanti dall’iter della’dozione internazionale è soprattutto
improntata ad interventi di sussidiarietà e solidarietà.
L’Adozione Internazionale viene eseguita principalmente con quei Paesi dove esiste un
Coordinamento Nazionale per l’Adozione a cui indirizzare la documentazione per l’abbinamento con
un bambino già in stato d’abbandono. I bambini sono sempre in stato di adottabilità già dichiarato al
momento della segnalazione alla futura famiglia adottiva e secondo i contenuti dell’art.4 della
convenzione de l’Aja del 1993.
Attualmente il N.A.A.A è in grado di assistere nelle adozioni con i seguenti stati: Bielorussia,
Brasile, Bulgaria, Cambogia, Cina; Colombia; Federazione Russa, Haiti, Honduras, Mozambico,
Nepal, Pakistan, Perù, Polonia, Romania, Santo Domingo, Ucraina e Vietnam.
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L’impegno dell’Associazione per aiutare e sostenere le coppie è svolto nel superiore interesse
del bambino, il cui benessere e la cui felicità sono lo scopo principale dell’Associazione.
Per affrontare tutte le problematiche legate all’adozione internazionale il N.A.A.A tiene degli
incontri in-formativi condotti da psicologi, assistenti sociali, volontari e genitori adottivi che coinvolgono
con la loro esperienza.
Il percorso formativo è organizzato in diversi incontri:
•
Cosa fare con il decreto d’idoneità? La coppia viene informata sulla legge italiana e la
possibilità di adottare con il N.A.A.A
•
Il puzzle dell’adozione. Incontro multimediale su aspetti psico-pedagogici e pratici per la
preaparazione all’incontro con il bambino. Vengono affrontate le problematiche psicologiche di
bambini adottati in età presolare e scolare.
•
Zig-zag. Il corso serve per raggiungere la consapevolezza della destinazione del Paese o Paesi
nei quali si vorrebbe adottare. Conoscere e confrontare le diverse realtà di istituzionalizzazione
in cui vivono i bambini nei diversi contesti etnici-culturali.
•
Paese che vai... Incontro multimediale specifico sul Paese in cui si sta adottando per gli aspetti
culturali, legali, logistici e pratici. Sono presenti famiglie che hanno adottato recentemente.
Al rientro in Italia con il bambino la famiglia deve mettersi subito in contatto con l’Associazione.
Tutta la documentazione relativa all’adozione ricevuta dal Paese estero deve essere consegnata
all’Associazione. Dalla data del rientro della famiglia parte il programma di Post-Adozione, che
prevede una serie di relazioni estese dalla famiglia adottiva ed una serie di certificati e di
documentazione dettagliata. Parallelamente alla raccolta periodica parte anche il programma psicopedagogico post-adottivo, di accompagnamento alla famiglia nelle varie fasi di sviluppo del bambino.
L’Associazione, inoltre, mantiene contatti con il Tribunale dei Minori ed i Servizi Sociali di
competenza, per sottolineare eventuali aspetti emersi durante la gestione dell’adozione e delle
relazioni con la famiglia, come previsto dalla legge 476/98.
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