COME PROGETTAVANO I PIANI REGOLATORI

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COME PROGETTAVANO I PIANI REGOLATORI
COME PROGETTAVANO I PIANI REGOLATORI NELLA CITTÀ
GRECA E ROMANA
Marco Romano
Che cosa insegnavano nel mondo antico – in quei mille anni dal 700 a.C. al 300
d.C - a chi doveva tracciare il piano regolatore di quelle nuove colonie che le
polis più dinamiche andavano fondando in tutto il Mediterraneo e persino nel Mar
Nero - da Marsiglia a Cirene a Olbia – e in seguito di quelle, relativamente poche,
che i romani tracciavano nel loro impero, dalla Britannia all’Algeria, o di quelle
fiorite nei deserti siriani?
Le città greche in Grecia, nella Magna Grecia e nel Mediterraneo (da Paolo
Morachiello)
Le città dell’Ellade non offrivano in origine un modello cui riferirsi, erano di fatto
costituite dall’aggregazione di modesti e irregolari villaggi, nati accanto a qualche
sorgente, che avevano di solito affidato in un primo momento a un tiranno il loro
riscatto da antiche signorie locali di stanca ascendenza micenea, per dar luogo in
seguito a una polis democratica, un soggetto politico consistente – secondo
Aristotele - in un corpo di cittadini con una propria costituzione.
I cittadini sono poi di fatto contadini, residenti nel loro villaggio e con un loro
modesto podere, e quando qualche secolo dopo nelle città più grandi, ad Atene,
compariranno consistenti gruppi di neofiti, la cittadinanza verrà esplicitamente
attribuita soltanto ai discendenti dei cittadini originari, figli quindi di coppie
rigorosamente di cittadini, cui era riservata la proprietà della terra, mentre ai
liberti o ai meteci - immigrati o bastardi - che pure possono esercitare senza
impedimenti tutti gli altri mestieri, il diritto di cittadinanza e la proprietà della
terra sono preclusi.
Mentre dunque in Europa i Comuni cresceranno dopo il Mille distinti dal loro
contado che, se ne costituisce parte integrante, pure è abitato da villani che non
sono cittadini, dunque come città murate quasi contrapposte alla campagna, qui in
Grecia il sinecismo dei villaggi si manifesta prima di tutto - a partire diciamo dal
750 a.C. - nella fondazione di un santuario comune, sovente disposto su
un’acropoli, e in seguito di templi secondari per le molte altre divinità, Apollo
Afrodite Artemide Dioniso Hera Poseidone, ciascuno nel suo sito appropriato
nell’ambito dell’intero territorio della polis, che comprende al medesimo titolo
tutti i suoi villaggi: ricordiamo quello di Poseidone al capo Sunion, un
promontorio affacciato sul mare parte integrante dell’Attica nei cui villaggi
vivevano gli abitanti dei demi, a tutti gli effetti cittadini ateniesi.
Il tempio di Poseidone al capo Sunion
In una città fondata ex novo in terre lontane distribuire i coloni in villaggi sarebbe
impensabile – è già tortuoso individuare un sito, seppure con il soccorso di un
oracolo, figurarsi trovarne parecchi, mentre popolazioni locali spesso minacciose
renderebbero imprudente vivere divisi in piccoli gruppi - sicché, individuato su
una acropoli il sito del santuario, occorrerà tracciare un abitato compatto cinto di
mura, l’asty, suddividendolo in lotti da destinare alle case (e fuori dall’asty, nella
chora, ai campi coltivabili: ma di questi per ora non ci occuperemo).
La casa, seppure non ancora quel presidio della libertà individuale che diventerà
nei Comuni europei, è il cuore stesso dell’essere cittadini, casa il cui focolare
rappresenta la continuità famigliare che assicura di generazione in generazione il
diritto di cittadinanza come l’hestia koiné – il perenne focolare comune rappresenta la continuità della polis, una casa “fornita di ogni comodità, il cui
godimento quotidiano scaccia ogni malinconia”, dirà Pericle commemorando i
primi caduti ateniesi nella guerra del Peloponneso.
Queste case erano poi allineate lungo strade dal percorso irregolare, forse i sentieri
originari, nelle quali – quando poi i villaggi diventeranno qualche volta città più
grandi – Aristotele legge un aiuto alla difesa militare, il nemico impantanato nelle
loro tortuose strettoie: ma che questo punto di vista sia più che altro l’esito della
sua smania classificatoria sembra dimostrato dal fatto che nelle colonie, fondate
ex-novo in territori ostili, sono state sempre tracciate strade rettilinee.
Poiché queste colonie sono società democratiche e, almeno nelle abitazioni, in
linea di principio egualitarie, costituite da agricoltori con poderi equivalenti, lo
schema di lottizzazione più diffuso sarà quello di schierare le case una accanto
all’altra in isolati larghi quanto due case addossate e lunghi fino a qualche
centinaio di metri, affacciati su due strade parallele larghe tre metri o tre metri e
mezzo, quelli che vediamo a Casmene e a Megara Iblea, due colonie siciliane
fondate verso il 725 a.C: quasi una metafora dello schieramento compatto degli
opliti, il nerbo militare dei greci.
Casmene e Megara Iblea, pianta
A Megara Iblea il principio dell’eguaglianza delle abitazioni ha una curiosa
evidenza, perché la case, sempre con un piccolo patio aperto verso sud, hanno
tutte la medesima superficie di 121 metri quadrati: ma poiché la larghezza degli
isolati varia da 25 metri sul lato a ovest a 23 metri a est, la lunghezza delle case
sul fronte strada non è costante.
Questo pettine di strade parallele verrà innestato su una o due strade più larghe,
nella maggior parte dei casi tracciate ortogonali facendo ricorso alla groma
(come la chiamarono poi i romani – due assi di legno inchiodate a croce con cui
traguardare due linee a 90°), innesto che sembra suggerire la propensione per una
gerarchia ad albero, di matrice geometrica, che a sua volta comporta un
significato sociale, nel senso che le strade maggiori sono più larghe in quanto
comuni a tutti i cittadini, distinte da quelle dove sono invece affacciate le loro
case e dunque più “private” in quanto a rigore pertinenti soltanto ai frontisti.
E qui nasce una vera e propria sfera estetica perché, mentre la lottizzazione dei
terreni destinati alle abitazioni assumerà presto un modello standard, la
disposizione delle strade maggiori sarà in ogni città diversa, rispondente ai
singolari criteri di chi le ha tracciate.
A Megara Iblea compare un deliberato disegno di tre strade maggiori - larghe
quasi sei metri, il doppio di quelle che delimitano gli isolati – due delle quali
raccolgono il pettine delle strade di lottizzazione, mentre la terza sembra volerle
includere in un disegno di insieme dominato dall’agorà: strano a vedersi, peraltro,
perché di agorà non c’è a quel tempo quasi nessuna traccia altrove se non proprio
nell’ambito di Megara Iblea.
Le case e le strade maggiori di Megara Iblea
A Selinunte, fondata quasi cent’anni dopo proprio da Megara Iblea, nella città
vera e propria, distinta dall’acropoli, gli isolati saranno larghi 32 metri e lunghi
190, fiancheggiati da due strade simmetriche dei consueti tre metri e mezzo: ma
nel disegno delle strade maggiori farà la sua comparsa una nuova strategia
formale.
La città è infatti ritmata da alcune strade maggiori che chiudono le testate degli
isolati, ma anche da altre strade della medesima larghezza seppure con la giacitura
e con il ruolo di quelle residenziali, suggerendo così la novità di un telaio che
forma grandi comparti, quasi quadrati, entro i quali racchiudere gli isolati minori
delle case, mentre nello scarto tra due giaciture compare anche qui quella agorà
così clamorosa nella città madre.
Selinunte, la città e l’acropoli
Ma anche sull’acropoli compare una novità destinata a molto successo: le strade
che delimitano a pettine gli isolati – anche qui larghi 32 metri ma meno lunghi
dei 190 nella città, quel che consente il dirupo - confluiscono in una sola strada
maestra, della dimensione inusuale di nove metri, anima di una sequenza aperta
dalla stessa agorà e dalla porta nelle mura (che da un lato introduce alla città vera
e propria e che dall’altro costituisce la veduta trionfale che domina tutto il suo
tracciato) e conclusa dal recinto templare, la cui alterità viene sottolineata dai sei
metri dell’ultima strada residenziale, che lo lambisce formando la figura di una
croce, e soprattutto dalla strada che chiude la sequenza, verso il mare, larga otto
metri.
Selinunte, l’acropoli e la strada maggiore
In quel medesimo anno, il 630 a.C., nella piana del golfo di Taranto viene fondata
Metaponto, dove gli isolati sono anche qui larghi 35 metri e lunghi 190 – quasi
ormai una misura canonica - mentre tutte le strade sono invece più ampie: quelle
di lottizzazione sono larghe circa cinque metri, le strade maggiori che ne
raccolgono gli sbocchi e quelle parallele che delimitano il grande isolato quadrato
sono larghe dodici metri mentre la strada maestra che conduce al recinto dei
templi è ora larga sedici metri, dimensioni quasi doppie di quelle adottate a
Selinunte. Ma analoghi sono i criteri che ne suggeriscono la disposizione, strade
maggiori che delimitano quadre entro le quali raccogliere gruppi di isolati minori,
e una strada maestra in sequenza con il recinto dei templi.
Metaponto, pianta e schema delle strade maggiori e della strada maestra
Cinquant’anni dopo, ad Agrigento e a Imera, la larghezza degli isolati è ormai
quella consueta, 35 metri, mentre la loro lunghezza varia da 270 a 310 metri,
delimitati ad Agrigento da strade larghe quattro metri e a Imera quasi sei: ma ora
delle grandi quadre e della strada maggiore in sequenza con il recinto templare
sembra essersi persa la traccia.
Agrigento e Imera, pianta
Comunque il modello va ormai consolidandosi e diffondendosi anche nell’Italia
settentrionale, dove un secolo dopo, verso il 500 a.C., gli etruschi fonderanno
Marzabotto, con i consueti isolati di 35 metri e con le loro strade di servizio
larghe cinque metri, inquadrati da due strade maggiori e da una strada maestra che
connette l’auguraculum sull’acropoli – matrice sacrale e geometrica della
lottizzazione – ai due templi del sacrario: di tutto il sapere augurale, tuttavia, qui
non si vede altra traccia che l’orientamento delle strade maggiori.
Proprio nella larghezza delle strade maggiori viene qui consolidato un principio
suggerito a Poseidonia già cent’anni prima. Lì la carreggiata della strada maggiore
aveva la medesima sezione delle strade di lottizzazione – quattro metri e mezzo –
ma era fiancheggiata da due marciapiedi di tre metri ciascuno per un’ampiezza
totale di dieci e cinquanta, mentre a Marzabotto la carreggiata della strada
maggiore ha sì la medesima sezione delle strade di lottizzazione ma è resa solenne
da due marciapiedi larghi altrettanto: in sostanza a Marzabotto il significato
collettivo della strada maggiore non viene affidato tanto alla sua larghezza
complessiva quanto al fatto che la sua carreggiata, non diversa dalle altre, sia
fiancheggiata da due marciapiedi simmetrici larghi altrettanto.
Marzabotto
Con il medesimo schema tra il 480 e il 474 a.C. verranno fondate Napoli (isolati
di 35 metri per 165, strade tra i tre metri e i tre e mezzo, tre strade maggiori
trasversali e una strada maestra longitudinale), Naxos (isolati di 39 metri per 175,
strade di cinque metri - salvo una di sei e cinquanta – tre strade maggiori
trasversali, quella centrale, più larga, di nove e mezzo), Eraclea (isolati larghi in
media 37 metri, strade di quattro o quattro e mezzo); trenta o quarant’anni dopo
Olinto (isolati di 35 metri x 86 con strade di cinque metri incrociate con sette
strade delle medesima larghezza – una sola di sette metri) e Thurii (isolati larghi
35 metri e lunghi 293); alla fine del secolo, nel 400 a.C., Cassone (isolati di 30
metri x 126, con le strade larghe da quattro e quattro e mezzo, quelle maggiori
poco di più, fino a cinque o cinque e cinquanta), circa gli stessi di Pompei.
Napoli e Naxos, piante
Eraclea e Olinto, piante
Thurii e Cassone, piante
Pompei, pianta
Il fatto che il disegno di Thurii, fondata da Pericle, sia stato attribuito al famoso
urbanista Ippòdamo - che dopo averla progettata vi sarebbe venuto ad abitare l’ha reso il tema di molte riflessioni e di molti approfondimenti archeologici intesi
a dar conto del perché mai questa città sia stata tanto ammirata nell’antichità,
forse soltanto per rispetto di Aristotele, che di lui parla come inventore di città
modello.
Sostiene oggi qualche archeologo che esistano tracce convincenti di strade
secondarie ortogonali che tagliano i suoi lunghi isolati in quattro corpi di circa 74
metri, ciascuno dei quali sarebbe poi a sua volta diviso da uno stretto percorso di
servizio che renderebbe l’intera pianta modulata su quadrati di circa 35x35 metri:
dunque ecco comparire davvero l’impronta della pretesa quadrettatura uniforme
delle città inventata da Ippòdamo.
La lottizzazione a quadrati di Thurii e un quartiere secondo qualche
archeologo
Percorsi di servizio attraverso la linea longitudinale dell’isolato erano in effetti
già conosciuti da molto tempo, li troviamo a Imera cent’anni prima – dove si
intravedono questi medesimi lotti quadrati - e in quegli stessi anni a Olinto, larghi
un metro e quaranta (li ritroveremo nelle città di fondazione europee del
Duecento, a Monpazier, a Pietrasanta, a Camaiore, a San Giovanni Valdarno) e in
seguito a Solunto, che dividono l’isolato in unità quadrate di 17 metri di lato circa,
talvolta corrispondenti sempre a una casa standard ma talvolta a due più piccole,
tutte comunque dotate di un piccolo patio esposto a mezzogiorno sul quale viene
aperto un portico su colonne lignee.
Isolati con un percorso di servizio a Imera e a Olinto
Monpazier e San Giovann Valdarno, piante
Ciò che invece salta agli occhi, in questa ricostruzione della pianta di Thurii, è
piuttosto il disegno delle strade maggiori, perché questi isolati allungati
(prescindendo qui se siano davvero tagliati in lotti quadrati) sono affacciati
almeno da un lato su due strade maggiori di calibro inusitato, trenta metri, a sua
volta connesse da una strada maestra larga anch’essa trenta metri, quasi a
costituire due grandi isolati separati a loro volta da una strada maggiore più
stretta. Ma su questa ricostruzione gli archeologi sono in clamoroso disaccordo –
ritenendola arbitraria come quella celebre di Mileto, frutti entrambe del desiderio
di trovare concrete tracce di piani regolatori ippodamei - perché altri hanno
intravisto più plausibili due strade maggiori, a raccogliere le testate degli isolati,
larghe sette metri e incrociate da una strada maestra di tredici metri.
Gli scavi di Thurii
Il principio che sembra trasparire in tutte queste città è che la maglia ormai
consolidata delle strade a pettine innestate su strade maggiori debba venire
attraversata da una strada maestra che conduce verso il recinto templario, situato
su una acropoli estranea alla loro rigorosa geometria o quanto meno nel limbo di
una cerniera tra l’astys e la chora, principi che possono poi venire o no ripresi
all’interno dell’acropoli, come a Selinunte.
Del resto anche le assemblee cittadine - a parte il precedente di Megara Iblea e di
Selinunte - vengono tenute ai margini dell’abitato, in uno spiazzo contrassegnato
dal tumulo del fondatore che soltanto verso il 650 a.C. prenderà lentamente
l’aspetto dell’agorà: dapprima soltanto piena di carri, di bancarelle, di chioschi,
con i palchi per le esibizioni poetiche o musicali – forse dello stesso Omero - , con
una pista per le gare atletiche e in seguito pian piano affollata dagli edifici
rappresentativi della polis.
Ma sarà a Cirene, fondata nel medesimo anno di Metaponto, che sembra
consolidarsi il principio di integrare l’agorà nel disegno dell’astys, proprio come
nella contemporanea Selinunte, ma qui con maggiore determinazione e
consapevolezza. Se gli isolati sono larghi come di consueto 35 metri con strade
di quattro metri, se le strade maggiori, trasversali sono larghe sei metri e se
l’acropoli è abitata con lotti quadrettati meno lunghi del solito, di 35 metri x 20
soltanto, la strada maestra, larga più di otto metri, traccia una sequenza
dall’acropoli al santuario di Apollo, appena esterno al circuito murario, con al
centro l’agorà.
Cirene, pianta
La strada maestra e l’agorà di Cirene
Trent’anni dopo, nel 600 a.C., a Poseidonia, dove gli isolati sono ormai quelli
classici, larghi 35 metri e qui lunghi 273, la strada maestra, significativamente
larga diciotto metri (con marciapiedi larghi quasi sei), attraversa nella sua parte
centrale un vero e proprio cuore civico, su un lato l’agorà come a Cirene ma sul
lato opposto il recinto dei templi, incorporato così nella struttura della città. La
strada maestra è poi raddoppiata da due strade maggiori parallele, quella a nord –
per questo più larga, dodici metri – lambisce a sua volta il confine tra l’agorà e un
altro recinto di templi, di secondaria importanza, mentre quella a sud, pur con il
suo rilievo perché delimita il recinto dei templi più importanti, è larga soltanto
dieci metri: la larghezza delle strade diventa lo specchio – a partire dall’acropoli
di Selinunte - del loro significato, e le competenze degli agrimensori, ormai quasi
di routine nel disegno delle lottizzazioni, assumono un nuovo rilievo estetico nelle
sequenze delle strade maggiori con la strada maestra, e di questa con i recinti
templari e con l’agorà.
Poseidonia, pianta e schema delle strade maggiori con l’agorà e i due recinti
dei templi
Nel corso del VII secolo, fin dai suoi primi decenni, un’ondata molto simile a
quella descritta da Raul Glabro nell’Europa del 1003 - allorché tutti costruivano
nuove chiese o ricostruivano quelle esistenti “che non ne avevano alcun bisogno”
- sospingerà tutto il mondo ellenico a sostituire gli antichi edifici in legno con
quelli nuovissimi in marmo, incidendo nelle loro dimensioni, nei loro colonnati,
nel loro apparato decorativo una vistosa impronta monumentale.
Nello spiazzo dell’agorà vengono progressivamente costruiti il bouleuterion – la
sala del consiglio, spesso centinaia di persone - e il più raccolto pritaneo, dove
intorno all’hestia koiné siede solennemente il governo che la rappresenta e che vi
consuma i propri pasti in comune, spesso i tribunali, sempre il sito dove vengono
esposti gli ordini del giorno, le convocazioni dei consigli, le deliberazioni, le
sentenze e quant’altro attiene alla vita politica – come ad Atene l’altare dei dodici
dei, dal quale venivano misurate le distanze dall’astys ai villaggi dei demi e alle
altre città, ma anche dove venivano appiccati tutti gli atti pubblici.
Vero è che molte delle 750 polis delle quali conosciamo l’esistenza
raggiungevano appena i 1000 cittadini, sicché l’agorà era poi la piazza di un
grosso villaggio di oggi. Ma ai tempi di Demostene, nel IV secolo a.C., Atene era
un corpo di 30.000 cittadini, sicché in una giornata normale nel bouleuterion
erano coinvolte 500 persone, nel pritaneo un’altra cinquantina, nei tribunali da
500 a 2000, cui una volta al mese si aggiungevano i 6000 cittadini che andavano a
guadagnasi il loro gettone di presenza partecipando all’assemblea nella sua sede
sulla Pnice. E se aggiungiamo le donne e i minorenni – altre 70.000 persone -, se
conteggiamo i 40 o 50.000 meteci che, se non partecipavano alle assemblee, pure
erano attenti alle vicende dalla vita pubblica, e se evochiamo il brulicare di
qualcuno dei 150.000 schiavi sparsi nell’Attica e arrivati lì per le faccende dei
loro padroni, è facile immaginare la vispa confusione dell’agorà, piena della vita
di un vivace mercato, attraversata da una larga strada sacra, folta di altari e di
statue soprattutto dei cittadini illustri, ma anche di capannelli a commentare gli
eventi della vita politica e forse di retori a sperimentare i loro argomenti.
L’agorà di Atene in un disegno di Paolo Morachiello
L’edificio per le assemblee, l’ekklesiasterion, era invece troppo grande per avere
una tipologia fissa come quella del bouleuterion (un corpo quadrato con sedili
digradanti e addirittura coperto come quello mirabile di Mileto, modello per tutti i
successivi odeon anche romani) e un sito canonico nell’agorà, sicché lo
costruiranno soltanto le città più grandi e come ad Atene lontano dall’agorà, sulla
collina della Pnice. D’altronde, se le polis minori continuavano a tenere le
assemblee nell’agorà, le più grandi utilizzavano spesso anche il teatro - secondo
Pericle un’invenzione ateniese – il cui sito era suggerito ai piedi dell’acropoli per
intagliarne i gradini nel monte: teatro le cui rappresentazioni costituivano il clou
delle feste sacre che rinsaldavano lo spirito di corpo della città
Il progressivo addensarsi nell’agorà di edifici sempre più monumentali destinati
alle diverse magistrature cittadine ne faranno uno spazio celebrativo della sfera
politica, sicché le bancarelle e le merci meno pregiate verranno spostate in una
seconda agorà - proprio come le tabernae alimentari dovranno migrare a Roma
dai fori al macellum e come, accanto alla piazza principale, le città europee
provvederanno dal Trecento a una piazza del mercato - contrappuntata talvolta
nelle città portuali da una terza agorà per i traffici mercantili: ma nel periodo
ellenistico, venuta meno la sfera politica della polis, il significato originario della
agorà andrà perdendosi e tutte diventeranno piazze di mercato o di flanerie.
Fondamentali nel nuovo paesaggio dell’agorà saranno le stoà porticate, lunghi
edifici di solito a due piani - con gli uffici amministrativi e con le botteghe dei
commerci più nobili - che, disposte inizialmente a delimitare qualche lato
dell’agorà indurranno a immaginare, in una città nuova, di costruirla fin da subito
come una grande piazza circondata da portici, un vero e proprio tema
architettonico molto simile ai ginnasi che erano andati configurandosi proprio a
partire da quei tempi.
Nello stesso VI secolo vengono infatti fondati i ginnasi, inizialmente una pista per
la corsa – quella fino ad allora collocata ai margini dell’agorà - affiancata da
edifici coperti per gli spogliatoi, poi da un portico colonnato e infine dalla
palestra, un grande peristilio quadrato per la lotta e per il pugilato, corredata da
stanze di relax per i giovani atleti e per i visitatori, da bagni a immersione o a
vapore, da sempre numerosi santuari, sovente da una biblioteca - il suo cuore
pedagogico - e infine dallo stadio.
Nel ginnasio, istituzione privilegiata per formare giovani cittadini disciplinati ed
educati alla guerra, ferve la promessa della polis; lì i filosofi tengono le loro
lezioni (l’Accademia e il Liceo di Atene, sedi delle scuole di Platone e di
Aristotele, erano per l’appunto dei ginnasi) e se sono fuori dell’astys rimangono
tuttavia al centro della polis - l’Attica dei cittadini ateniesi e la Lacedemone dei
cittadini spartani - mentre col tempo, nei regni dei diadochi sorti dopo la morte di
Alessandro, i ginnasi formeranno una borghesia che ora vive in ricche ville di
migliaia di metri quadrati, vicina alle loro splendide reggie, rigorosamente
collocate nell’astys a dominare una chora di servi e di schiavi che non
diventeranno mai, né gli uni né gli altri, i cittadini di una polis.
I tempi sono maturi perché il suggerimento lontano di Cirene e di Poseidonia
venga infine raccolto, e l’agorà diventi il tema centrale delle nuove città. E’
questo che registra il piano di Mileto, ricostruita dopo l’invasione persiana, dove
gli isolati hanno le dimensioni correnti – la famosa pianta quadrettata è un disegno
di pura fantasia redatto (come quelli di Thurii) nell’ansia di reperire finalmente le
tracce della altrimenti imperscrutabile celebrità di Ippòdamo – ma l’intera città è
fondata su un ordinato contrappunto di tre agorà: una stoà di 177 metri e uno
stadio a mezzogiorno, al centro quella maggiore, poi l’agorà commerciale sul
porto e a cerniera il celebre bouleuterion, costruito tre secoli dopo.
Mileto, la nota pianta di fantasia redatta nel 1924, e il contrappunto delle
agorà
Ma se la pianta di Mileto è frutto di fantasia, qualche anno dopo, nel 350 a.C., a
pochi chilometri di distanza Priene viene fondata su un disegno rigorosamente
geometrico che riconduce l’intera città a una scacchiera di isolati quadrati (di 35
metri x 47) delimitati da strade di tre metri - quelle parallele al declivio della
collina - e di quattro metri le maggiori, che lo risalgono in parte a scalinata.
L’agorà – manufatto architettonicamente compiuto – viene inserita in questo
reticolo cancellando un paio di isolati: se la sua consistenza materiale è ora
conosciuta, se sono noti gli edifici che vi dovranno venire costruiti, dal
bouleuterion al pritaneo, dall’archivio al tribunale, dalle stoà al monumento del
fondatore al temenos di Zeus, ebbene, è ragionevole progettarla nel suo insieme
fin dall’inizio inscrivendola nella maglia delle case.
L’agorà diventa la matrice di una sequenza che attraversa l’intera città risalendo
la collina, a partire nella pianura dal peristilio del ginnasio grande, accanto allo
stadio, per concludersi in alto con il teatro e il ginnasio minore. Ma ad apparirci
singolare è che questa sequenza non sia affatto sottolineata dalle strade maggiori,
disposte invece trasversalmente, la prima (larga intorno ai sei metri) a lambire
l’agorà e la seconda (larga sui sette metri) a costituire la strada processionale
verso il tempio di Atena, dove un portico chiudeva verso valle la sua corte:
nonostante le leggende sull’ampia vista davanti ai loro teatri – che era obbligata
dalla necessità di scavarne la cavea in un monte - i greci non amavano i
panorami. Più in alto, escluso dalle sequenze dell’astys e già immerso nella chora,
il santuario di Hera, nell’ambito di una più ampia devozione territoriale il cui
culmine, a qualche distanza, sarà il gigantesco oracolo di Didima.
Priene, pianta, e il santuario di Didima
Gli isolati di Priene non avranno un particolare seguito, e lo stesso castrum
romano, inventato cinquant’anni dopo, del quale viene celebrata la regolarità e la
quadrettatura, è poi solcato dai consueti isolati rettangolari di 35x70, come lo ha
disegnato in questa tavola Sebastiano Serlio desumendolo dalla descrizione di
Polibio: forse è piuttosto il castrum a somigliare a una città che non viceversa.
L’accampamento romano in un disegno di Sebastiano Serlio
Quel che appare evidente è, con molti ondeggiamenti e ripensamenti,
l’accorciarsi delle esorbitanti lunghezze degli isolati consuete fino ad allora.
Nell’ambiente romano Alba Fucens, fondata agli inizi del 300 a.C., ha isolati di
35x70, e nella contemporanea Atri – come a Priene - soltanto 35x47; e mentre
trent’anni dopo Paestum ha ancora le lunghe strisce della preesistente città greca lì
accanto, la sua gemella Cosa, in alta Italia, li ha 30x70 (con strade di quattro e
mezzo: ma le maggiori sono larghe soltanto sei metri). Tolemaide, fondata vicino
a Cirene quarant’anni dopo, intorno al 230 a.C, ha ancora una volta due strade
maggiori larghe diciotto metri, diramate dal porto (con vie parallele minori larghe
sei metri) e cinque strade ortogonali larghe nove (salvo quella accanto al porto che
è larga quindici); nel 189 a.C., poi, Bologna ha come Rimini isolati di 74x110 -
dimensione davvero inconsueta ma ancora nel campo degli isolati rettangolari –
ma ecco che nel medesimo anno verrà fondata dal sovrano greco della Battriana
nel Punjab - là dove Le Corbusier progetterà cinquant’anni fa un’altra capitale,
Chandighar - una città, Taxila, con i consueti lotti allungati affacciati su una
strada maestra.
Cosa e Tolemaide, pianta
Il sito del Punjab in India e la pianta di Taxila
Quei primi decenni del II secolo a.C. saranno per i romani davvero cruciali,
perché la conquista della Grecia li mette in contatto con una cultura che già da
qualche secolo aveva acquisito la consapevolezza del fasto edilizio
incorporandolo nella polis, e che i regni ellenistici avevano esaltato nella loro
grandiosa magnificenza, sicché la loro luxuria farà la sua comparsa a Roma nei
portici del macellum, nelle prime stoà, e in seguito, nel 168 a.C. nel portico di
Ottavia – con il nome datole da Augusto all’epoca del suo rifacimento – che è
una vera e propria agorà porticata.
Ora i modesti fora che erano andati comparendo da un secolo, circondati dalle
tabernae pubbliche affittate a qualche negoziante – come quello di Cosa –
vengono nobilitati da colonnati alla guisa delle agorà greche, diventano i fori che
conosciamo, gli sfolgoranti fori imperiali di Roma.
I fori imperiali di Roma
Così, come tre secoli prima in Grecia, i templi verranno a Roma rifatti in marmo e
circondati da porticati – la luxuria sono anche capitelli di bronzo e sculture
ellenistiche –, i teatri e lo stesso Circo massimo, fin’allora con panche di legno
rimovibili, diventeranno di marmo, le case saranno ora smisurate e vi
compariranno i peristili - la casa del Fauno a Pompei era grande 3000 metri
quadrati, più della reggia di Pergamo, due atrii, due peristilii, mosaici a bizzeffe –
anche se era saggia politica, almeno a Roma, che la parte pubblica della casa,
l’atrio e il tablinum, rispecchiassero la severità tradizionale, riservando il lusso
alla parte privata.
In sostanza il catalogo che va consolidandosi – soprattutto in Italia e nelle regioni
occidentali dell’impero - comprende il foro, i templi degli dei cittadini, la curia, la
basilica (dal 150 a.C.), il teatro, il macellum come piazza circondata da portici, gli
horrea come magazzini annonari, le terme – che nel II secolo occupano ormai più
spazio del foro medesimo -, l’anfiteatro, ciascuno dei quali con una propria
funzione, con il proprio significato e in un sito appropriato: da fuori città per la via
monumentale dei sepolcri, le mura, le porte, al centro il foro con i suoi templi,
l’arx, le vie principali dove affacciano i mercati e le terme – di solito –, il teatro e
l’anfiteatro, infine le basiliche chiudono il lato opposto a quello del santuario più
importante cella città.
Città immaginarie in affreschi romani con il loro aspetto monumentale
La dimensione degli isolati (ora di norma nel rapporto 1:2, dunque molto più
compatti e più larghi di quelli classici) rispecchia una nuova tipologia delle case,
che non sono più quelle ricavate sulla profondità di 17 metri, viste nel dettaglio a
Olinto, ma sono ora molto più grandi, con vaste corti a peristilio - magari del tipo
rodio con un’ala alta due piani - con una sala di rappresentanza, androceo e
gineceo: insomma, case che rispecchiano quella società ereditata dal periodo
ellenistico che ha dimenticato l’impronta egualitaria delle polis.
Sicché incominceranno a comparire con maggiore frequenza - nel corso del II
secolo a Cremona e a Parma - isolati più o meno quadrati, di circa 80 metri di
lato, dove queste nuove case trovano posto accanto a quelle più modeste del
popolo, seguite cent’anni dopo ad Ascoli, a Imola, a Verona, a Pavia, ad Asti, a
Faenza, a Lodivecchia; ai tempi di Cesare a Como e ai tempi di Augusto a
Concordia, a Fano, ad Aosta e a Torino: città dove ora una consistente parte
centrale viene destinata al foro porticato, spesso in un significativo rapporto con il
teatro e con l’anfiteatro – che i greci ignoreranno – e con le terme, che invece
incontreranno il favore del mondo ellenistico.
Verona e Aosta
La predilezione romana per la città quadrata – e dunque al suo interno per una
scacchiera di lotti quadrati – ha peraltro una consolidata ascendenza simbolica
nella “Roma quadrata” tracciata dal suo solco fondativo, la cui memoria resta
sullo sfondo leggendario della città e viene evocata nelle prime colonie romane,
avamposti militari costieri di 300 abitanti, quando ancora le colone latine, forti di
6.000 abitanti (che non erano cittadini romani) ricorrevano ai consueti isolati
accentuatamente rettangolari. La scacchiera della colonia romana domina anche
la campagna, dove la centuriazione ortogonale disegna i poderi dei nuovi coloni
che non avranno, è ovvio, la medesima dimensione dei lotti dell’urbs ma
rispecchiano il principio che la cittadinanza è egualitaria, eguale l’assegnazione
dei campi e delle case, ed eguale l’impegno militare di ciascuno: e se le case nei
lunghi isolati della polis evocano le schiere degli opliti, l’ordine del quadrato
suggerisce la città quadrata della legione, del popolo in armi.
Quanto poi alla presenza di due strade maggiori a croce, cardo e decumano, non è
da un lato affatto così costante come spesso si pretende ma, abbiamo visto,
costituisce d’altro lato la semplice declinazione, in una città per principio quadrata
– la forma complessiva della città non ha invece per greci alcun interesse - delle
strade a croce che compaiono quasi costanti dai tempi di Imera: un archétipo del
resto di antichissima data, se il geroglifico egizio della città è appunto una croce
inscritta in un cerchio.
Isolati allungati e isolati quadrati, e tanto più quelli moderatamente rettangolari,
sono ora tutti sul tappeto: sotto lo stesso Augusto a Cartagine ritorna lo schema di
isolati rettangolari di 35 metri x 140 circa, riprendendo la lottizzazione
precedente, forse fenicia o tardopunica, seppure poi con la croce di due strade
maggiori; Utica avrà isolati leggermente più larghi, 39 x 86, simili a quelli di
Olinto; a Treviri negli anni 50, il reticolo urbano si articola in due strade maggiori
ad angolo retto (costeggiate da due fasce di insulae strette e rettangolari mentre gli
altri isolati tendono al quadrato) sulle quali più di cent’anni dopo verrà inscritta
una sequenza monumentale; al volgere del secolo Sufetula, in Algeria, riprenderà
gli isolati stretti – qui lunghi un centinaio di metri - ma sempre più larghi del
consueto, 45 metri, con strade di quattro metri e le due maggiori di sette; a Doura
Europos, sulle rive dell’Eufrate, gli isolati sono di 35 metri x70 e le strade hanno
larghezze variabili nella proporzione 1:1,5:2 (in metri: 6,35; 8,45).
Cartagine e Treviri
Sufetula e Doura Europos, pianta
Che la città quadrata, la “Roma quadrata” della leggenda di fondazione,
costituisse una sorta di mito fondativo, una nostalgia serpeggiante nella classe
dirigente romana, così come i lotti quadrati richiamavano la severità repubblicana,
suggerì nel 100 a Traiano una città volutamente esemplare di questa memoria. Ai
piedi dell’Aurés, in Algeria, Timgad è perfettamente quadrata (328 x 317 metri) e
perfettamente quadrettata, i lotti uguali 20 metri di lato, sicché la gerarchia
sociale dovrà rappresentarsi nei limiti di ogni lotto, dai 100 ai 400 metri quadrati
al massimo. Questa città rigorosamente egualitaria, la città romana delle origini,
non ha peraltro nulla di un severo accampamento militare, corredata come si
conviene a una vera urbs da un foro, da templi, da terme, da un teatro, da un
mercato, su un impianto di strade maggiori a T - e non a croce - tutte porticate
davanti alle case alla maniera da qualche secolo in uso nelle città romane e che
abbiamo visto ad Aosta cent’anni prima.
Beninteso Timgad è una straordinaria utopia regressiva: presto la borghesia
ellenistica prenderà piede anche lì, nell’entroterra algerino, e fuori dalle mura
originarie andrà crescendo una città consona ai tempi, ricca di monumenti
imprevisti nel severo piano originario e di case assai più ampie dei 400 metri
quadri concessi da Traiano.
Timgad, pianta e decumano colonnato, e l’ingrandimento successivo
Ma soprattutto Timgad è clamorosamente in controtendenza, perché non vi ha
alcuna eco la grande strada monumentale diffusa proprio nel corso del I secolo.
Dinocrate è noto per il suo stravagante progetto di scolpire sul monte Athos una
città con la figura di Alessandro e per l’espediente cui ricorre, secondo la
leggenda, per farsi ricevere dal sovrano - vestirsi di pelle di leone, armarsi di clava
e attraversare così bardato le sale del palazzo fino a raggiungere il trono tra i
cortigiani trasecolati. La città sul monte Athos rimase nel cassetto perché gli
esperti sostennero che tra i suoi dirupi non vi fosse abbastanza acqua per
alimentarla, sicché Alessandro incaricò comunque Dinocrate di progettare
Alessandria, dove acqua ce n’era in abbondanza, situata com’è tra due porti,
quello interno sbocco commerciale di tutto l’Egitto, scendendo dal Nilo, e quello
esterno – dominato dal faro - sulle grandi rotte mediterranee.
Dinocrate mostra il suo progetto a papa Alessandro VII in un disegno di
Pietro da Cortona nel 1655 e il medesimo monte Athos in una stampa di
Fischer von Erlach nel 1721
Siamo nel 332 a.C, meno di vent’anni dopo la fondazione di Priene, e Dinocrate
coglie ed esalta – e forse rovescia - il principio di tutta la tradizione con un
disegno dominato da una sola immensa strada maestra, il Canopo, che i
contemporanei descrivono larga trenta metri e che la attraversa da est a ovest
parallelamente alla costa e che potrebbe continuare senza alcun limite, proprio
come senza limiti potrà venire esteso l’impero avviato da Alessandro.
Sul Canopo verranno allineati tutti gli edifici monumentali di rilievo cittadino e le
varie agorà dei porti, ma sarà poi attraversato da una seconda strada, a croce, che
costituirà verso il mare l’accesso monumentale al palazzo reale, a sua volta un
complesso di edifici della più varia natura – l’amministrazione dello stato, il
museo, la biblioteca, il giardino, la tomba reale - una vera e propria “città
imperiale” che diventerà alla morte di Alessandro il modello delle capitali dei
diadochi.
Alessandria, due piante ricostruite e congetturali
Siamo di fronte a una vera e propria mutazione. Il processo che aveva visto, verso
il 580 a.C., sostituire i templi di legno con quelli di marmo, che aveva visto
crescere progressivamente nel marmo gli edifici collettivi della polis – la sala
delle assemblee, il teatro, il bouleuterion, il pritaneo, il ginnasio, le agorà
monumentali – e che a Priene aveva preso la forma di un programma di insieme
coordinato ex-ante, è ora quasi ribaltato. Sono gli edifici monumentali – tra i quali
beninteso, nei regni dei diadochi, non sono più annoverati quelli della polis – nel
loro insieme, a costituire la bellezza della città; è la loro disposizione reciproca a
esaltarli sullo sfondo delle case individuali che appartengono – anche quelle
sterminate dell’élite borghese - a un mondo indifferente, a un popolo privo ormai
di una sua dignità politica.
E’ il caso clamoroso di Pergamo, i cui quartieri residenziali risalgono
dall’immenso ginnasio nella pianura al disordinato accatastarsi degli edifici
monumentali sulle terrazze dell’acropoli, senza alcuna interna gerarchia visibile
ma percorso dall’originaria strada tortuosa fino al tempio, nel suo punto più alto,
la cui volontà monumentale è forse inscritta nella veduta lontana dei suoi
colonnati e del suo teatro: o almeno a noi piace pensarla oggi così.
L’acropoli di Pergamo in un disegno di Paolo Morachiello e lo scorcio di una
città in un affresco romano del II secolo
Ma ormai, dopo la morte di Alessandro, la tenuta politica e militare del suo regno
va sfaldandosi e inizierà un lungo declino dove i romani saranno in grado di
irrompere inaspettati con relativa facilità - da un lato conquistatori militari ma
dall’altro conquistati, tra molte riserve, dalla luxuria ellenistica – stimolando alla
lunga, quando gli avidi prefetti repubblicani verranno sostituiti dall’efficiente
amministrazione imperiale, una vera e propria rinascita, costellata da una nuova
diffusione di monumenti a gara con la città vicina – sono templi dedicati al culto
dell’imperatore per sollecitarne il favore - dovuti spesso agli evergeti che se ne
attribuiranno volentieri il merito lasciando alle città la loro incerta manutenzione e
soprattutto lasciando ai loro cittadini, spesso ostili a queste spese rappresentative,
il compito delle cose meno nobili, le fognature e gli acquedotti.
E sarà appunto in questo nuovo clima che Erode riprenderà ad Antiochia, ai
tempi di Augusto, il suggerimento di Dinocrate ad Alessandria, una plateia, una
larga strada monumentale che lega tra loro i singoli monumenti – non lasciati alla
loro semplice successione lungo una strada stretta e tortuosa come a Pergamo concludendo così in maniera appropriata e compiuta il principio che la città sia
fatta da una successione di monumenti, tra i quali la plateia medesima,
sovrapposti al brulichio indifferente delle altre strade con le loro case
La plateia di Antiochia ha un immediato successo nell’Anatolia sud occidentale,
a Efeso dal porto verso il suggestivo sfondo del teatro, a Perge lunga 1200 metri e
tracciata per segmenti successivi, con una lunga fontana nel mezzo come quelle
che ritroveremo a Berna o a Chambéry nell’Europa del Duecento ma qui conclusa
ai piedi dell’acropoli da un ninfeo; Sidé sarà poi una vera e propria sarabanda di
plateie - larghe da dieci a dodici metri, con portici tra cinque e mezzo a sei e
mezzo – anche se poi fiancheggiate, raccontano i viaggiatori, da un maleodorante
canale di scolo; persino a Cremnia, a 1200 metri di altitudine sui monti del Tauro
che sovrastano queste città, una plateia domina l’abitato.
Mentre a Perge i successivi segmenti della lunga plateia sono sottolineati da
archi, a Bosra e a Gerasa, nella Siria meridionale, compaiono alcuni artifici che
tendono a rendere monumentali anche gli incroci tra le diverse plateie, il
tetrapylo, una porta con quattro fornici, e la grande piazza ellittica che intende
cancellare la finzione che una piazza debba per forza essere ispirata alle agorà e
non venire piuttosto disegnata come ambito di un puro piacere estetico: come a
Bosra un grande cerchio monumentale di 40 metri proprio come sarà disegnata nel
Seicento, a Roma, piazza San Pietro e come i Quattro Canti verranno realizzati
nella Palermo del Cinquecento.
E’ la città ad avere una sua forma monumentale, con una propria autonomia
fondata sull’aspetto dei suo edifici, cui nel caso sarà la strada maestra in quanto
manufatto monumentale in se stesso ad attribuire quella unitarietà che a Priene era
stata conseguita con il progetto.
Efeso, la platea in pianta e vista dal teatro
Perge, pianta e vista della platea con la fontana dal ninfeo
Sidé e Cremnia, pianta
Bosra, pianta e sottolineatura delle platee
Gerasa, pianta e vista del colonnato
La plateia, che aveva fin qui le dimensioni quasi domestiche che abbiamo detto,
compare agli inizi del II secolo a Utica in dimensioni analoghe al leggendario
Canopo di Alessandria – larga, con i due marciapiedi colonnati di sette metri, più
di 32 metri - e disposta a legare le terme al teatro, e la cui natura monumentale è
qui sottolineata dalla sua indipendenza dalla giacitura delle altre strade.
Utica
La plateia di Apamea – ricostruita dopo il terremoto del 115 ai tempi di Traiano è lunga 1.600 metri e larga 37,50, compresi i portici colonnati di sette metri e
mezzo: qui il suo ruolo di organizzatore dello spazio urbano e della sequenza
monumentale è sottolineato dalla sua indipendenza dalle strade di lottizzazione (a
loro volta distanziate di 55 metri, molto più dei 35 metri classici) appoggiate tutte
a strade maggiori ortogonali a grande distanza l’una dall’altra – 160 metri – che
sboccano poi a loro volta sulla platea.
Apamea, pianta e vista della platea
Laodicea – l’odierna Lattaqia – ricostruita anch’essa dopo il terremoto, ha un
impianto analogo a quello di Apamea: una strada colonnata centrale, con il suo
portico, e tre strade ortogonali distanti tra loro circa 120 metri, mentre gli isolati
sono di 58 metri x 112, dunque anche qui nel rapporto 1:2: qui, all’incrocio
principale, compare un tetrapilo come a Bosra e a Gerasa. Ad Aleppo poi la strada
maggiore doveva essere larga 20 metri e gli isolati avevano il medesimo rapporto
lunghezza larghezza di 1:2.
Laodicea e Aleppo, pianta
A Damasco la strada maggiore, colonnata e porticata, era larga 25 metri e
contrappuntata anche qui da due strade parallele, a circa 100 metri di distanza,
mentre le strade di lottizzazione ortogonali sono ogni 45 metri, il rapporto dei lati
dell’isolato sarebbe di 1:2.
Ma la pianta di Damasco mostra una singolarità: il tempio nel suo recinto e
l’agorà sono legate da una doppia veduta assiale. Fino a quel momento le vedute
assiali sono molto rare: anzi, mentre a partire dal Duecento le veduta lontana di
una porta della città è una costante delle città nuove europee, nell’antichità greca
le porte delle mura sono svincolate dalla giacitura delle strade, e soltanto con la
mutazione dell’intero corpo della città in un’opera d’arte le porte ne diventano
parte integrante e persino gli incroci verranno sottolineati dal tetrapylon. Ma la
strada trionfale dritta su un tempio o su un palazzo è ancora molto rara e nella
stessa Priene il tempio è svincolato dalla strada maestra.
E’ in qualche modo il segno di un apprezzamento della veduta che in realtà
manca nella letteratura contemporanea, e nelle descrizioni ammirate che Strabone
fa di Alicarnasso o Pausania delle altre città non compare quel sottolineare le
bellezza della veduta da lontano che le nostre guide turistiche segnalano di
continuo.
Damasco, pianta
Nel corso del II secolo la plateia di Palmira, lunga 370 metri, impiega alla grande
tutti questi espedienti, il tetrapylon, l’arco triangolare di Settimio Severo, per
legare insieme una città monumentale quasi indifferente al contesto cittadino, tra
le rovine più spettacolari e melanconiche del deserto siriano. Mentre molto più a
est, sulle rive del Tigri, l’ultima ricostruzione di Seleucia – che per essere sul
confine sarà tormentata da ricorrenti distruzioni degli eserciti dei romani e dei
parti – sarà tagliata anch’essa da una lunga plateia monumentale della quale oggi
restano soltanto tracce.
Palmira e Seleucia, pianta
Più tardi, verso la fine del secolo, Settimio Severo farà costruire, nella sua città
natale, Leptis Magna, una plateia - legata alle nuove terme, al nuovo foro, alla
basilica – larga 45 metri e lunga 450, conclusa da una grande piazza con lo sfondo
del ninfeo.
Leptis Magna, pianta e passeggiata
Leptis Magna con la sua passeggiata da un dépliant
Negli affreschi romani vedremo ergersi lontane le strade colonnate a
costituire il simbolo di una città.
Domenica 30 novembre del 324 Costantino in persona traccia le mura della nuova
capitale che da lui prenderà il nome: saranno ovviamente spariti dal programma
della città cristiana le tentazioni maggiori - il teatro, l’anfiteatro, le terme –
sostituite da un ippodromo per ora, prima della rivolta contro Giustiniano due
secoli dopo, considerato innocuo, saranno ovviamente spariti i templi, che invano
Giuliano tenterà di riammettere, e la città diventerà un presidio devozionale,
protetto dalle due cattedrali di Sant’Irene e di Santa Sofia e dal grande santuario
dei Santissimi Apostoli. Ma l’immagine monumentale della seconda città
dell’impero verrà ancora una volta affidata alle immense plateie colonnate, la via
Regia e la Mesé, con a dividerle il grande foro circolare di Costantino, ultimo
epigono di quelli di Bosra e di Gerasa, e a scandirle le agorà – le cui tentazioni
saranno soltanto per qualche tempo ancora tollerate ma torneranno con l’anima
festosa delle città europee a partire dal Mille - dietro alle quali si accatasteranno
caotiche le case, non più oramai meritevoli di un ordinato piano regolatore
perché ora soltanto provvisorio nido di credenti per i quali l’urbs è soltanto
l’indifferente involucro di una vita terrena il cui senso è soltanto la conquista della
vita davvero eterna dopo la morte, e non più dei cittadini di una polis tutta
mondana gloriosamente ancorata alle gloriose pietre della sua urbs, una Bisanzio
tema nei secoli a venire di rifiuti e di epidemie, di incendi e di crolli, che reiterati
editti cercheranno invano di disciplinare.
Costantinopoli e Bisanzio