un patrizio devoto di santu padri
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un patrizio devoto di santu padri
Un patrizio devoto di Santu Padri di Trapani In tante chiese trapanesi si custodiscono lapidi ed epigrafi scampate a sicura distruzione e ancora, cenotafi e cappellanie sopravvissute a rifacimenti o ad incomprensibili restauri. Nella chiesa di San Francesco di Paola si conserva il sepolcro ed epigrafe di Stefano Fardella Mocharta, figlio di Michele, cavaliere costantiniano, 1 morto a Trapani il 31 agosto 1791. Il patrizio trapanese spese i novantuno anni della sua intensa vita curando gli affari e i prestiti che concesse ai suoi pari; coltivando, nello stesso tempo, la propria albagia, gli interessi nella politica cittadina e la personale elevazione spirituale. Rampollo d’antica casata (generis nobilitate), il patrizio sostentò i miseri concittadini (minimorum familiae parentis) e si adoperò per il restauro della chiesa di San Francesco di Paola 2 (quod templum hoc aere suo restituendum curaverit). 1 L’ordine Costantiniano di San Giorgio, istituito dall’imperatore Isacco Angelo Comneno nell’anno 1190, s’intitolò dai comnesi a Costantino fondatore dell’impero romano d’Oriente, da cui essi credevano avere discendenza. Nel 1699 morto Andrea Angelo Comneno, ultimo discendente, l’onorifico ordine costantiniano passò, in perpetuo, a Francesco Farnese duca di Parma, suoi successori e ai Borboni delle “Due Sicilie”. Per beneficiare dell’onorificenza si chiese ai cavalieri la prova della discendenza d’antica nobiltà, il voto d’ubbidienza e di castità coniugale. L’emblema adottato dall’Ordine era la croce con San Giorgio a cavallo nell’atto di trafiggere il drago. 2 Interessante la descrizione sulla chiesa di padre Benigno da Santa Caterina, al paragrafo 142. I Padri Paolotti vennero in Trapani l’anno 1570, sotto il dì Primo di Agosto XV indizione. Per allora se gli diede l’Oratorio di San Vito lo Piccolo, fuori le Mura della Città, con alcune terre attorno e case donate dalla liberalità del nobile don Francesco Barlotta e di Giovanna Cotillaro. Ma poi per l’aere nocivo si trasferirono in altro luogo, detto di Biaggio, alle falde del Monte Ericino e venduto da’ Padri Carmelitani coll’annuenza del vicerè don Carlo di Aragona e del vescovo di Mazzara Monsignor Lombardo, quale sotto il dì 27 Giugno IV indizione dell’anno 1576 si diè principio alla edificazione della Chiesa e Convento. 143. Si La genesi dei Fardella Mokarta è “legata” nelle impolverate pagine dei “registri della Real Cancellaria e di Protonotaro” di Palermo, negli scritti resi leggendari dal cavalier Inveges, cavalier Minutoli, Pietro Ansalone, cavalier Porto, Giuseppe Fardella di Torrearsa, Filadelfo Mugnos e in diversi manoscritti. In quello di frate Pietro Giustiniani di Salemi (inserito in un atto notarile d’inizio Settecento) leggiamo che Ernando Signore di Mindro [Minden] nella Alemagna e di Licinio, terra del Duca di Slesia, con cui aveva nodo di parente, la diede il cognome à questa Illustre Famiglia in tempo che, combattendo con li Svizeri circa il 1055, havendo perduta quasi la battaglia ed atterratasi la bandiera, egli si sciolse la Banda militare in tela d’argento e fattane tre fascie, legolle all’asta. Indi subito inalberatela diè colla novità, animo à suoi combattenti ed ottenne la desiata vittoria. E perché in lingua sleva tanto vale [per] vittoria de tre fardelle 3 quanto Quenfort, cossì nell’avvenire fè nominarsi e prese per arme di sua famiglia tre fascie d’argento in campo rosso, ch’è à punto la mantenuta nella famiglia Fardella di Candia piantatavi da Caudechino ed Umfrido quando vi furono mandati da Ottone nel 1110, alla custodia di quest’Isola, conservava in questo Convento e dentro la Chiesa in una Cappella un mezzo busto di creta rappresentante San Francesco di Paola troppo al Naturale. Vincenzo Nobile nel suo “Tesoro Nascosto” riferisce che abbia una volta parlato. Questo mezzo busto si conserva al presente in Trapani nel Convento di detti Paolini. Manteneva questo Convento da quattordici Religiosi coll’annua rendita di onze 370. Frattanto venne poi abolito ed anche la Chiesa restò diroccata e solo restano al presente le Mura e la forma della Chiesa e Convento. 144. Coll’occasione però di essere questo Convento due miglia distante dalla Città di Trapani, si pensò fondare una Gancia dentro la medesima Città per commodità de’ Religiosi Infermi circa l’anno 1630. Questa col progresso del tempo si andò dilatando ed augumentando di Religiosi. Di sortacchè se ne fece poi un altro Convento in forma. Questo colla Limosina del Signor don Stefano Fardella Barone di Mokarta e con quella ancora del barone Don Benedetto Todaro e di altri benefattori si ristorò dell’intutto e nella Chiesa e nell’interno del medesimo. E così avendosi abolito il primo alle falde di Erice, restò impiantato questo secondo, in dove vi dimorano da dodici Religiosi coll’annua rendita cennata di sopra. 145. La Chiesa frattanto venne costrutta sul gusto greco, secondo il disegno del già vivente sacerdote Don Giuseppe la Bruna, Ingegniere di questo Senato. Ella fa comparsa di sette Altari, e pria di tutti l’Altare Maggiore, dove in una nicchia si vede la Bella Statua di San Francesco di Paola. Il Cappellone và tutto pittato del pennello del virtuoso Signor Francesco Cutrona, Pittore Trapanese. Per secondo Altare è la Cappella col Quadro di San Michele Arcangelo, Protettore dell’Ordine dè Minimi di San Francesco di Paola. Nel terzo Altare vi è il Quadro rappresentante la Sacra Famiglia. Nel quarto Altare vi è il Quadro di Maria Santissima di Trapani con Sant’Alberto. Nel quinto Altare a sinistra del Cappellone vi è il Quadro di San Biaggio Vescovo. Nel sesto Altare vi è il Quadro della Visione di San Francesco di Paola con diversi Santi dell’Ordine. Nel settimo, finalmente, vi è il Quadro dè due Santi Martiri Cosma e Damiano. Tutti questi sei Quadri sono Opera dell’anzidetto Cutrona. (da Trapani Sacra del 1812, Capo V – delle Chiese e dei Conventi di Trapani – paragrafo 15). 3 Nel dizionario siciliano di A. Traina e in quello di Mortillaro, con fardicedda è inteso il termine pezzuola o brandelluccio. Con fardiddata si fa riferimento ad un pezzo lungo e stretto di qualsiasi striscia, da cui deriva il termine farda d’apparatu, cioè drappellone. restando à quei di Germania il cognome di Quenfort. 4 Un Umfrido militò sotto l’imperador Federico 2’, dal quale fù mandato in Sicilia alla fabrica della Città di Augusta. Nella real patente del 1232 s’esprime la significatione del cognome Alemanno, poiché si legge «Nobilis Umfridi Quenfort et de Fardellis in Italico sermone nuncupati nostri Gubernatoris». L’istesso si nota in una lettera del re Mamfredo al sudetto Umfrido Giustitiero del Val di Noto nel 1263. Di questo nacquero Lancellotto ed Alberto. Lancellotto fù Cameriere di Enrico 1’ figlio di Federico 2’ imperadore suo luogo tenente del Regno di Sicilia e Castellano del Monte Erice. Da Lancellotto nacque Federico che morì Capitano di Galera in battaglia navale tra i Siciliani e Francesi e di questo fù figlio Lancellotto Fardella, Cameriere del re Federico 2’ assieme con Francesco Ventimiglia ed ottenne per li suoi servitij prestati alla Real Corona onze cento d’oro nel 1299. Lanzone, figlio di Antonio, nel 1425 dotò la Cappella del Crocifisso nella Chiesa di San Nicolò, dove erano pittate l’armi loro e degli antecessori. Sposò Benvenuta Sieri de Pepoli baronessa di Fontana Salsa, che generò Giacomo [cavaliere gerosolimitano] e Giacomo Lanzone ceppo dei baroni della Moxharta e Gibiligalef. 5 Tre giorni dopo il decesso del barone Stefano Fardella, il suo “esclusivo” notaio, Nicolò Badalucco, pubblicava il testamento redatto il 5 gennaio 1789 e la schedola testamentaria, in tutto scritto in oltre ottanta pagine. All’aperitio (apertura) del testamento erano presenti il giudice Saverio Piombo barone di Santa Maria, il nipote Michele Martino Fardella 6 e sette testimoni 4 Sembra che la banda (“bandiera”) o benda di Ernando consistesse in quel drappo avvolto intorno la corazza dei soldati di solito portato in battaglia. Ernando (o Ermanno a detta di alcuni) strappò la banda in tre fardeddi, cioè in tre strisce di stoffa, creando in tal modo un’insolita bandiera per incitare i suoi sul campo di battaglia. È probabile che l’ornamento della fascia sia stato noto allo scultore Domenico Nolfo, il quale ha modellato una fettuccia rossa attorno al bustino del soldato, statua del gruppo dei Misteri della “spogliazione”. 5 Giuseppe Fardella di Torrearsa, cento anni dopo la stesura del manoscritto del frate Giustiniani, scrisse una simile storia sull’origine dei Fardella. Ciò c’induce a ritenere che il parroco Fardella conoscesse il manoscritto di Giustiniani e che entrambi abbiano letto l’atto del notaio Giovanni Nuris del 15 maggio 1425, rogato su istanza di Antonio e Lanzone Fardella, Padre e figlio, nel quale si attestava: in qua Tribona sunt depicta arma praedictorum de fardella et sueru praedecissorum ovvero fecero restaurare la Cappella del Santissimo Crocifisso entro il Venerabile Parrocchiale Chiesa di San Nicolò. Cappella dei loro Maggiori, nella quale vi erano li Trofei e stemma della casa Fardella sin da tempo immemorabile. 6 Sappiamo che il 30 ottobre 1787, Michele Martino Fardella (figlio di Marcello e di Francesca Bianco) sposò Giovanna Ferro ([1756/1824], figlia di Berardo XXIV [1721/1799] e d’Isabella Riccio), dalla quale ebbe Stefano, Isabella Francesca e Maria (coniugatasi nel 1806 con Sicomo Pastore barone delle Terre di Vita). Anche Michele Martino, come lo zio Stefano, impose al figlio erede il maggiorascato e la custodia della fettuccia nera per attaccare la Spada (d’oro ereditata dallo zio Stefano) e Bastone in Croce, oggetti d’ornamento d’abito di cavaliere dell’ordine costantiniano di San Giorgio. imposti dalla legge testamentaria: don Ignazio Palmeri, don Nicolò Buscaino, Michele Tolomei, Salvatore Mazarese, don Giuseppe Vairelli, il sacerdote don Francesco Alù e il ricco raiss 7 Giuseppe Scichili. Sebbene infermo di corpo, ma sano di mente, il barone intercesse Gesù, Maria e Giuseppe, San Gioachino e San Francesco di Paola, mio speciale Protettore, ad assisterlo al supremo trapasso. Dettava le sue ultime volontà, conscio d’essere stato fedele cristiano, cattolico, profondo conoscitore di quanto l’Anima sia più nobile del corpo e creata ad imagine e somiglianza di sua Divina Maestà. Dopo aver implorato i Santi, la corte celeste e il Gran Padre Protettore, dichiarava di voler essere sepolto nella Venerabile Chiesa di San Francesco di Paola, in loco di porparia, innanzi all’Altare maggiore, con farvi sopra la lapide di pietra giaca colli stegmati gentilizie della casa Fardella. Il suo fidecommissario Berardo XXIV Ferro esaudì e fece seppellire il cadavere del barone, nel loculo espressato dentro la detta chiesa. Don Stefano Fardella, Barone della Moarta, è stato il titolare ed erede dello jus beneficialis 8 degli Isdraeli istituito nel lontano 1439 nella chiesa di San Benedetto 9 dal Magnifico Guglielmo Stefano, che sposò Maria Giovanna Lazio de Queiros Burgio d’Alcamo, impose al primogenito Michele di sposarsi con Dorotea Fardella di Torrearsa Omodei (nata il 21 ottobre 1824, figlia di Antonino Fardella). È la Dorotea ricordata da Fogalli in bene istruita nei precetti delle belle lettere e della filosofia, si diede ad apprendere il ricamo e la lingua francese ed indi il ballo e la musica. Risultata perita in questa specie di belle arti, venne affidata ad un’ottima aja di nazione francese dalla quale apprese altre virtù. Antonino Fardella è stato secreto di Trapani. Era il primogenito di Vincenzo marchese di Torrearsa e di Dorotea Fardella, fratello di Giuseppe (parroco di San Nicola) e di Giovanni Battista (brigadiere, poi maresciallo e ministro della Guerra e Marina di Sua Maestà, promotore della scuola lancasteriana, morto di colera a Napoli, il 6 novembre 1836). Si coniugò con Rosalia Sicomo Pastore (1772-1801) baronessa di Vita, dalla quale ebbe Teodora morta ventenne nel 1819. Col secondo matrimonio sposò Maria Teresa Omodei, figlia di Giovanni Maria barone di Reda e di Francesca Milo baronessa di Salina (1744-1827, figlia di Benedetto ed Emilia Pepoli). Oltre Dorotea, i due coniugi ebbero: Giovanni, il senatore Vincenzo, (1808-1889), il sindaco Giovanni Battista (1818-1881) ed il secondo “eroe dei due mondi”, Enrico (1821-1892) anch’esso sindaco nel 1874, marito dell’irlandese Giannina Drucket ([1831-1878], figlia del giudice John e di Maria Mincion). 7 Con il termine rajsi o raiss si designava colui che dirigeva l’organizzazione della pesca e degli uomini addetti a tonnara. Leonardo Orlandini, in Trapani succintamente descritta, riferisce che quasi non vi ha tonnara in tutta l’Isola ove i Trapanesi non sieno capi con istraniero nome, chiamati Raisi. 8 A differenza dei preti missari, i beneficiali celebravano le messe negli altari di piccole cappelle gentilizie. Le famiglie detentrici di jus o diritto di nomina di beneficiale conferivano quest’importante incarico o ad un decano o un alto prelato conosciuto e riservato, il “beneficiava” l’esclusivo congruo compenso. 9 In questa chiesa dimorò per tanti anni la Venerabile Congregazione del Santissimo Crocifisso nostro Signore Gesù Cristo, e della Regina de’ Marteri Madre Santissima Maria Addolorata sotto titolo del Trentatrè, è stata da Divoti Confrati Crapanzano, 10 con proprio jus patronatus. 11 In merito, lasciava alla sorella Maria (vedova del patrizio Pietro Mollica Burgio) i beni ereditari del quondam Giovanni Battista Viali indicati e trasferiti con testamento da Dorotea Isdraeli. Il mio amatissimo fratello Pospero, agostiniano, ebbe in eredità soltanto 12 onze. Il barone, avendo ponderato per tanto tempo l’istituzione e la tutela in fidecommesso del suo patrimonio, di beni così stabili che rusticani ed altro, nominava eredi universali in uguali porzioni i tre nipoti figli di suo fratello Marcello: Michele Martino, Maria (moglie di Francesco di Blasi di Salemi) e Vincenzo. Non ci soffermiamo sui cinquanta quattro articoli dettati dal barone nella sua schedola testamentaria, perché vertono principalmente su obblighi e disposizioni impartite ai parenti. Non sappiamo se ebbe propria famiglia; dalle sue parole si evince che restò celibe e che è stato un profondo devoto di San Francesco di Paola, ligio alle regole mantenute nella sua casata. Discendente di Michele Martino Fardella, 12 Don Stefano, cosciente della scarsa sussistenza prestata agli dell’istessa a maggiore culto di Dio e della Vergine Santissima Madre Maria dei Dolori, ristavorata e posta col sommo Zelo come s’asserisce da poco tempo, e posta con Spirituale Esercizio. (Trafiletto di un atto notarile del 1800). Anche Benigno da Santa Caterina (opera citata) riferisce che nella chiesa dimorò la Congregazione del 33 e delle 40 Massime di San Filippo Neri. Di certo sappiamo che la chiesa, prospiciente il carcere, la Vicaria, fu distrutta intorno al 1820. Per volere di Guglielmo Crapanzano e del presbitere Tumbarello, la cappella si edificò in questa chiesa, posizionata in frontespizio di queste Carceri Centrali nel quartiero chiamato del Purgatorio a fianco il caseggiato del Barone di Sant’Anna. Ulteriori notizie si sono attinte dagli Annali del parroco Giuseppe Fardella, il quale riferisce che nel 1624 con atto del notaio Ximenes redatto il 15 maggio, la Compagnia di Sant’Anna e Santa Maria de’Custonaci si uniscono, e il 19 Luglio ottengono la Chiesa di San Benedetto con obbligo di ripararla e consegnarla al Patrono e Beneficiale Paolo Crapanzano, rettore nella stessa chiesa. 10 Guglielmo Crapanzano è stato senatore nel 1430, 1435 e 1445. Regio cavaliere e capitano di giustizia nel 1446. (Mugnos, Sicilia Nobile, terza parte del libro quinto della Cronologia Senatoria di Trapani, dal 1375 al 1759, nel quale si hanno i Capitani Giustizieri ed i Senatori della Città di Trapani). Ebbe nove figli: Desiata; Benvenuta; Giovanna; Benedetta; Preziosa; Giovanni; Perna; Palatino e Blanca. 11 Lo jus patronatus era il diritto concesso ad una persona estranea alla gerarchia ecclesiastica, la quale sostenute le spese per la costruzione di una chiesa, di una cappella o di una tomba all’interno di una struttura religiosa, n’assumeva la cura per la celebrazione dei riti e le spese per la manutenzione. 12 Significativa l’espressione dell’Orlandini, il quale non fuor di ragione non discordante dal mio il novo pensiere del S. Baron della Moarta e Ripa Michel Martino Fardella delle memorie antiche studiosissimo, il qual con efficacissime ragioni anco afferma che Trapani sia la Città di Camesena: la qual cosa si vede sotto la celebre fintione poetica della falce di Saturno Egittio cosi cognominato da Beroso, il quale doppo l’haver al suo padre Celo troncati i genitali la sanguinosa falce gittò in questo lito naturalmente falcato. Peroche Cameseno nella lingua Fenice suona quel, che nella nostra, falcato. ammalati, mosso a compassione, dispose che li frutti di detti miei beni debbano erogarsi e servire in compra di tela, coperture di letto ed altro necessario per li letti delli poveri infermi febricitanti in esso ospedale, col solo obligo dell’infermiero, non scordando che, terminata sarà la tavola, far dire alli sudetti infermi un requiem eternam pell’Anima mia. Legava diversi tarì per celebrare annualmente uno dei Mercoledì detti di Udienza nel convento dei carmelitani, 17 onze annuali provenienti da libera rendita sulla baronia della Cuddia, di Mocharta e sull’enfiteusi della Runza (Salemi) per celebrare uno dei quindici sabbati precedenti alla sollennità della nostra gran Madre Maria Santissima di Trapani de’ 15 Agosto, in memoria del solito sabbato da me sin dalla sua fondazione celebrata, con sussidio di cera da consumarsi dinanzi il Santissimo Simulacro. Destinava altri tarì per la sollennità di un sabbato in ogn’anno nella Venerabile Congregazione di Maria Santissima Immacolata, ove trovami uno dej confrati di essa Società. Ma il legato che considerava di grande importanza era quello per sollenizzarsi uno de’ tredici venerdì precedenti alla festività del mio Gran Padre San Francesco di Pavola, solito da tanti anni da me Testatore aversi celebrato. Pertanto, priego il fidecommissario di dover comprare per il dì festivo del mio Gran Santo Patriarca San Francesco di Paola quattro torcie di mezzo rotolo per ciascuna, le quali, la vigilia dopo pranzo e giorno della Sollennità si devono consumare ogn’anno innanzi la Statua di detto mio Santo Padre, conforme Io per divozione ho pratticato e non altrimenti. Destinava 17 tarì annuali per compra di tanta cera, consistente in torcie a quattro mecci da consumarsi nella vigilia e giorno di esso Santo Padre, secondo jo testatore in vita hà pratticato. E legava altra onza una annualmente sovra la somma delle onze 12,7,7,3 annuali di libero, quali inservir debba per celebrazione di un anniversario da farsi nella Venerabile Chiesa di S. Francesco di Paola, dovendosi dal Padre Correttore di Esso Convento cantar la Messa Cantata co’ Ministri e suonare a mortorio la Campana. Siccome doversi mettere dal detto Padre Correttore sei candele sovra l’Altare e quattro torcie a quattro mecci nel mezzo della Chiesa. Lasciava 150 onze per messe da celebrarsi dai Reverendi Padri Sacerdotali di San Francesco di Paola. Ordinava al fidecommesso Ferro di far celebrare al sacerdote Ignazio Bonomo tre messe cottidiane nella chiesa di San Francesco di Paola, dinanzi l’Altare del glorioso Santo, in suffragio dell’Anima mia e remissione de’ miei peccati. Nel caso di premorienza di Bonomo, cappellano missaro, la competenza passava all’arciprete e diacono don Salvadore Ferro 13 o al pronipote don Giuseppe Fardella Tipa. 13 Salvatore di Ferro è ricordato dal fratello Giuseppe Maria XXVI nella Guida per gli stranieri in Trapani. È stato tra i fondatori dell’Accademia del Discernimento, ciantro della cattedrale di Mazara, vicario generale e capitolare della diocesi di Lipari e vescovo di Catania, con nomina del 16 Con quest’istituzione, concedeva al cappellano Bonomo 30 onze ad effetto di dispensarle per elemosina à Poveri e particolarmente all’Infermi alletticati inabili a potersi procacciare il pane. Inoltre, desiderava si spendesse un’onza annuale per celebrare l’anniversario della sua morte nella chiesa di San Francesco ed altra, da pagarsi alla Congregazione di Maria Santissima dei Setti Dolori (Addolorata) della quale mi ritrovo uno de’ confrati, in sussidio della sua sollennità in perpetuum per mia devozione, al pari dei suoi progenitori. Avvertiva gli eredi a non pasticciare alcuna cosa, perché, credendosi dalla maggior parte delle Persone della Città, che forse io tenessi ingentissima somma di denaro, quantunque, assicuro non essere vero in quanto da loro erroneamente si va a pensare, su questa falsa supposizione mi considero manifestare la pura verità e all’objetto di non far patire ingiustamente le Persone e Servi di Casa che mi assistono, più fiate è accaduto, considerando gran somma di denaro e non trovandola, fanno senza veruna raggione patire ingiustamente molestia e costritioni nelle Carceri alla gente predetta. Quindi, li esortava a non cadere nell’errore, ma si dovrà prestare fede a quanto si rinvenirà, perché le chiavi non l’ho giammai fidato ne fiderò a qualsisia Persona. Don Stefano conservava il gruzzolo in contanti di 2.969 onze in due Cassettini firmati e suggellati, custoditi dalla pronipote Maria Costanza e Maria Ferdinanda Ferro, moniali nel monastero del Soccorso, conforme a quanto dallo stesso dichiarato in un alberano (scrittura privata) custodito da Benedetto Todaro, barone della Galia, insieme alla lista dei suoi crediti raccolti nel libro colla coperta di panchimino. 14 Amante della buona cucina, il barone desinava con i migliori cibi ed assaporava, oltre il tabacco e i vini novelli delle sue campagne, anche il caffé (bevanda nobile quanto la cioccolata) servendosi quotidianamente della sua pregiata argenteria. Nell’inventario dei giogali e argenteria stimati dall’orefice Nicola Campaniolo troviamo preziosi oggetti. Tra marzo 1818. Singolare la sua disposizione testamentaria riguardo le messe officiate nella sua personale cappellania. Il prelato morì nel 1824. 14 Il 12 settembre 1791 si fece l’inventario dei suoi crediti ammontanti a 5.338 onze. Spicca tra i tanti, Benedetto Todaro debitore per un prestito di 3.000 onze, a seguire Pietro, Francesco e Giuseppe Mollica per 250 onze, il duca Saura per 244 onze, Ignazio Lamia barone di Pampioppo per 114 onze, Vincenzo Fardella e sorelle e Martino Sieri Pepoli ciascuno con 100 onze. E poi: Nicolò Tesoro, padre Giovanni e Giacomo Salafia, Antonio Salafia, Giacomo Lipari, il barone Morano, Giuseppe Ximenes, Giuseppa Greco, Giuseppe e Antonio Paladino di Santa Ninfa, Giuseppe Cangemi di Calatafimi, Paola Corso, Giuseppe Greco, Antonio Oliveri, il barone Collaccio di Palermo, Francesco d’Angelo, Rosaria Ancona, Michele Grignano, la marchesa Fardella, Leonardo Barbera, Maria di Martino, un cocchiero, Isabella Mollica e il convento del Carmine. I crediti di 5.338 onze risultano minori rispetto le 16.356 onze vantate dagli eredi del citato raiss Giuseppe Scichili (morto il primo marzo 1815). l’argenteria valutata 293 onze: una palangana, un boccale, quattro candileri, una cafittiera, due sottocoppe, una inguantiera, una brudera, una zuccariera, un cucchiarone, un forchettone, due piatti grandi, due piatti mezzalini, due salere, otto forchette, otto maniche di coltelli, due sotto coppine senza chichere, due cabarè, una sputera, dodici piatti tondi, quattro piatti piccoli, cocchiarine di cafè, otto cocchiare, due piedi con due forbici. 15 Non solo moda, ma anche raffinatezza. Incredibile l’inventario del suo guardaroba. Sedici giamberghe 16 di panno color cafè con bottoni d’oro, di panno color cenericcio gallonata, 17 di panno nero usata, di terzanello color cannella, di panno blu, di lama d’argento, di panno color cafè con galloni d’oro, di raso cremisi con gallone d’oro, color cafè di stamina vecchia, color cafè con galloni d’oro e bottoni, color milingiana, color d’erba bianca, color cafè, color cafè e bottoni d’oro, color cenericcio foderata cremisi, color d’oglio con chioppi d’oro. Diciassette giamberghini 18 due di panno color cafè, due di tela bianchi, di panno nero usato, di panno blù usato, di lama d’argento, di terzanello color cannella, di seta color papparina servaggia, di stamina nera vecchia, di stamina nera, riccamato, di barracano blù con galloni d’oro, di camera, color di milingiana, con occhetti di galloni, rosso con occhetti e galloncino. Ventisei calzoni, di cui sette ordinari, dodici di tela, di panno color cafè, color verde, di barracano color concezione, di terzanello color cannella, nero vecchio, di spicchettone, di ferbanè. Un cappello con bottone d’oro, altro nuovo e dieci berrette bianche antiche. Una sottoveste 19 riccamata d’oro color celeste, di barracano verde, color cenericcia, di panno verde con galloni di seta per servidori, una veste di camera imbottita. Due fazzoletti bianchi usati, un pajo di stivaletti bianche di rianello, tre paja di stivalone, un corpetto vecchio con fondo bianco riccamato di Francia, quattro cilecche di tela usati, due cilecche [gilet] bianchi, un giacchettone di panno verde usato, un giacchettone rosso usato. Due coccanè 20 con drappini color verde con galloni di seta per li servidori, altri due coccanè. Inoltre, 78 camicie da uomo, 14 salviette damascate, due covaltre per il collo, 11 covartini, 11 paja di calzette usate di cottone e filo, un pajo di panno nero, tre paja di inguanti, quattro paja di calzette di seta: due bianche, una gricia e 15 Tra i gioielli apprezzati in 101,5,12 onze, s’annotava una spata d’oro del valore di 60 onze, un anello di diamanti con 17 brillanti stimato 21 onze, un pomo d’oro di bastone per 9,20, una pioggia 1,15, un orologio d’oro calcolato in 9 onze. 16 Giamberga – abito di gala del ceto borghese e dei funzionari, simile ad un cappotto, che dalla vita si allungava a forma di gonna fino al ginocchio. 17 Gallonata, cioè con cordoncino intrecciato di seta dorato, usato per guarnizioni di abiti o di uniformi militari. 18 Giamberghino, sottoabito della giamberga simile al panciotto. 19 Con sottana s’intendeva l’indumento maschile senza maniche che copriva il torso, abbottonato sul davanti, indossato al posto del giammerghino. 20 Coccanè, particolare e colorata divisa indossata dai servitori di famiglie signorili. altro nero, un pajo di color cafè usate, calze color milingiana, altri tre paja. E 13 torcie a vento, un sciabolotto con due spadi una de’ quali è di lutto. Gli sono stati ereditati dal nipote Michele Martino, tranne l’abito a lutto di processionante della processione dell’Addolorata nel Venerdì Santo: una giamberga di panno nero usata, un giamberghino di stamina nera, un calzone nero vecchio, un paio di calzette di seta nero, una spada a lutto e torcie a vento. Proprio di quest’abito, voglio, ordino e comando che li galloni del mio abito di gala di panno scuro color mosco e quello di lama si dovranno tutti e due far scucire e vendersi per ottenere quel drappo abbisognevole alfine di farsi un intiero vestimento di messa, quale si dovrà gallonare con galloni d’oro oppure un palio corrispondente nell’altare del mio Santo Padre San Francesco di Paola. Alla stessa maniera, comandava di vendere il Bastone con il pomo d’oro. Il mobilio fu spartito tra i nipoti e la casa o Palazzo grande in contrada di San Lorenzo, proprio nel piano di Mocarta, fu ereditata dal nipote Michele Martino Fardella. L’altro nipote, Vincenzo Fardella ebbe il quarto piccolo della casa attaccato al Palazzo Grande. Non solo Stefano Fardella di Mocharta, ma anche altri baroni, “gente in affari” erano profondamente devoti ed aggregati in diverse confraternite e congregazioni, come Francesco Adragna d’Altavilla, membro e promotore della congregazione delle Anime del Purgatorio. Ma questa è un’altra storia. © Salvatore Accardi, Aprile 2009 – vietato l’utilizzo anche parziale del presente testo © www.trapaniinvittissima.it Stefano Fardella, barone di Mocharta, elegantemente vestito con giammerga gallonata con bottoni d’oro, giammerghino con occhetti, colvatra al collo e parrucca autografo del barone Stefano Fardella di Mocharta Epigrafe STEFANO FARDELLA DYNASTAE GENERIS NOBILITATE PRAECLARO IVSTITIA RELLIGIONE CARITATE PRAECLARISSIMO MINIMORUM FAMILIAE PARENTIS OPTIMI CVLTORI EXIMIO QUOD TEMPLVM HOC AERE SUO RESTITVENDVM CVRAVERIT HVIVS COENOBII SODALES PBM PP OB. AN. MDCCXCI PR. KAL.S ANNOS NATVS XCI autografi degli eredi e dei testimoni all’apertura del testamento Atto dello jus beneficialis di Guglielmo Crapanzano del sei giugno 1439 in notaio Francesco Milo. … in qua Tribona sunt depicta arma praedictorum de fardella et sueru praedecissorum … Atto del notaio Giacomo de Nuris del 1425 Sigillo dei Fardella posto sul testamento Balcone del quarto nobile del palazzo di Stefano Fardella di Mocarta, un tempo sul piano di Mocharta, poi via Gallo, ora piazzetta di Via Libertà.