un patrizio devoto di santu padri

Transcript

un patrizio devoto di santu padri
Un patrizio devoto di Santu Padri di Trapani
In
tante chiese trapanesi si custodiscono lapidi ed
epigrafi scampate a sicura distruzione e ancora, cenotafi e
cappellanie sopravvissute a rifacimenti o ad incomprensibili
restauri.
Nella chiesa di San Francesco di Paola si conserva il
sepolcro ed epigrafe di Stefano Fardella Mocharta, figlio di
Michele, cavaliere costantiniano, 1 morto a Trapani il 31 agosto
1791. Il patrizio trapanese spese i novantuno anni della sua
intensa vita curando gli affari e i prestiti che concesse ai suoi
pari; coltivando, nello stesso tempo, la propria albagia, gli
interessi nella politica cittadina e la personale elevazione
spirituale. Rampollo d’antica casata (generis nobilitate), il
patrizio sostentò i miseri concittadini (minimorum familiae
parentis) e si adoperò per il restauro della chiesa di San
Francesco di Paola 2 (quod templum hoc aere suo restituendum
curaverit).
1 L’ordine Costantiniano di San Giorgio, istituito dall’imperatore Isacco
Angelo Comneno nell’anno 1190, s’intitolò dai comnesi a Costantino
fondatore dell’impero romano d’Oriente, da cui essi credevano avere
discendenza. Nel 1699 morto Andrea Angelo Comneno, ultimo discendente,
l’onorifico ordine costantiniano passò, in perpetuo, a Francesco Farnese duca
di Parma, suoi successori e ai Borboni delle “Due Sicilie”. Per beneficiare
dell’onorificenza si chiese ai cavalieri la prova della discendenza d’antica
nobiltà, il voto d’ubbidienza e di castità coniugale. L’emblema adottato
dall’Ordine era la croce con San Giorgio a cavallo nell’atto di trafiggere il
drago.
2 Interessante la descrizione sulla chiesa di padre Benigno da Santa Caterina,
al paragrafo 142. I Padri Paolotti vennero in Trapani l’anno 1570, sotto il dì Primo
di Agosto XV indizione. Per allora se gli diede l’Oratorio di San Vito lo Piccolo,
fuori le Mura della Città, con alcune terre attorno e case donate dalla liberalità del
nobile don Francesco Barlotta e di Giovanna Cotillaro. Ma poi per l’aere nocivo si
trasferirono in altro luogo, detto di Biaggio, alle falde del Monte Ericino e venduto
da’ Padri Carmelitani coll’annuenza del vicerè don Carlo di Aragona e del vescovo
di Mazzara Monsignor Lombardo, quale sotto il dì 27 Giugno IV indizione
dell’anno 1576 si diè principio alla edificazione della Chiesa e Convento. 143. Si
La genesi dei Fardella Mokarta è “legata” nelle
impolverate pagine dei “registri della Real Cancellaria e di
Protonotaro” di Palermo, negli scritti resi leggendari dal cavalier
Inveges, cavalier Minutoli, Pietro Ansalone, cavalier Porto, Giuseppe
Fardella di Torrearsa, Filadelfo Mugnos e in diversi manoscritti.
In quello di frate Pietro Giustiniani di Salemi (inserito in
un atto notarile d’inizio Settecento) leggiamo che Ernando
Signore di Mindro [Minden] nella Alemagna e di Licinio, terra del
Duca di Slesia, con cui aveva nodo di parente, la diede il cognome à
questa Illustre Famiglia in tempo che, combattendo con li Svizeri circa
il 1055, havendo perduta quasi la battaglia ed atterratasi la bandiera,
egli si sciolse la Banda militare in tela d’argento e fattane tre fascie,
legolle all’asta. Indi subito inalberatela diè colla novità, animo à suoi
combattenti ed ottenne la desiata vittoria. E perché in lingua sleva
tanto vale [per] vittoria de tre fardelle 3 quanto Quenfort, cossì
nell’avvenire fè nominarsi e prese per arme di sua famiglia tre fascie
d’argento in campo rosso, ch’è à punto la mantenuta nella famiglia
Fardella di Candia piantatavi da Caudechino ed Umfrido quando vi
furono mandati da Ottone nel 1110, alla custodia di quest’Isola,
conservava in questo Convento e dentro la Chiesa in una Cappella un mezzo busto
di creta rappresentante San Francesco di Paola troppo al Naturale. Vincenzo Nobile
nel suo “Tesoro Nascosto” riferisce che abbia una volta parlato. Questo mezzo busto
si conserva al presente in Trapani nel Convento di detti Paolini. Manteneva questo
Convento da quattordici Religiosi coll’annua rendita di onze 370. Frattanto venne
poi abolito ed anche la Chiesa restò diroccata e solo restano al presente le Mura e la
forma della Chiesa e Convento. 144. Coll’occasione però di essere questo Convento
due miglia distante dalla Città di Trapani, si pensò fondare una Gancia dentro la
medesima Città per commodità de’ Religiosi Infermi circa l’anno 1630. Questa col
progresso del tempo si andò dilatando ed augumentando di Religiosi. Di sortacchè se
ne fece poi un altro Convento in forma. Questo colla Limosina del Signor don
Stefano Fardella Barone di Mokarta e con quella ancora del barone Don
Benedetto Todaro e di altri benefattori si ristorò dell’intutto e nella Chiesa e
nell’interno del medesimo. E così avendosi abolito il primo alle falde di Erice, restò
impiantato questo secondo, in dove vi dimorano da dodici Religiosi coll’annua
rendita cennata di sopra. 145. La Chiesa frattanto venne costrutta sul gusto greco,
secondo il disegno del già vivente sacerdote Don Giuseppe la Bruna, Ingegniere di
questo Senato. Ella fa comparsa di sette Altari, e pria di tutti l’Altare Maggiore,
dove in una nicchia si vede la Bella Statua di San Francesco di Paola. Il Cappellone
và tutto pittato del pennello del virtuoso Signor Francesco Cutrona, Pittore
Trapanese. Per secondo Altare è la Cappella col Quadro di San Michele Arcangelo,
Protettore dell’Ordine dè Minimi di San Francesco di Paola. Nel terzo Altare vi è il
Quadro rappresentante la Sacra Famiglia. Nel quarto Altare vi è il Quadro di Maria
Santissima di Trapani con Sant’Alberto. Nel quinto Altare a sinistra del Cappellone
vi è il Quadro di San Biaggio Vescovo. Nel sesto Altare vi è il Quadro della Visione
di San Francesco di Paola con diversi Santi dell’Ordine. Nel settimo, finalmente, vi
è il Quadro dè due Santi Martiri Cosma e Damiano. Tutti questi sei Quadri sono
Opera dell’anzidetto Cutrona. (da Trapani Sacra del 1812, Capo V – delle Chiese
e dei Conventi di Trapani – paragrafo 15).
3 Nel dizionario siciliano di A. Traina e in quello di Mortillaro, con fardicedda
è inteso il termine pezzuola o brandelluccio. Con fardiddata si fa riferimento
ad un pezzo lungo e stretto di qualsiasi striscia, da cui deriva il termine farda
d’apparatu, cioè drappellone.
restando à quei di Germania il cognome di Quenfort. 4 Un Umfrido
militò sotto l’imperador Federico 2’, dal quale fù mandato in Sicilia
alla fabrica della Città di Augusta. Nella real patente del 1232
s’esprime la significatione del cognome Alemanno, poiché si legge
«Nobilis Umfridi Quenfort et de Fardellis in Italico sermone
nuncupati nostri Gubernatoris». L’istesso si nota in una lettera del re
Mamfredo al sudetto Umfrido Giustitiero del Val di Noto nel 1263. Di
questo nacquero Lancellotto ed Alberto. Lancellotto fù Cameriere di
Enrico 1’ figlio di Federico 2’ imperadore suo luogo tenente del Regno
di Sicilia e Castellano del Monte Erice. Da Lancellotto nacque
Federico che morì Capitano di Galera in battaglia navale tra i Siciliani
e Francesi e di questo fù figlio Lancellotto Fardella, Cameriere del re
Federico 2’ assieme con Francesco Ventimiglia ed ottenne per li suoi
servitij prestati alla Real Corona onze cento d’oro nel 1299. Lanzone,
figlio di Antonio, nel 1425 dotò la Cappella del Crocifisso nella
Chiesa di San Nicolò, dove erano pittate l’armi loro e degli antecessori.
Sposò Benvenuta Sieri de Pepoli baronessa di Fontana Salsa, che
generò Giacomo [cavaliere gerosolimitano] e Giacomo Lanzone
ceppo dei baroni della Moxharta e Gibiligalef. 5
Tre giorni dopo il decesso del barone Stefano Fardella, il
suo “esclusivo” notaio, Nicolò Badalucco, pubblicava il
testamento redatto il 5 gennaio 1789 e la schedola testamentaria,
in tutto scritto in oltre ottanta pagine. All’aperitio (apertura) del
testamento erano presenti il giudice Saverio Piombo barone di
Santa Maria, il nipote Michele Martino Fardella 6 e sette testimoni
4 Sembra che la banda (“bandiera”) o benda di Ernando consistesse in quel
drappo avvolto intorno la corazza dei soldati di solito portato in battaglia.
Ernando (o Ermanno a detta di alcuni) strappò la banda in tre fardeddi, cioè
in tre strisce di stoffa, creando in tal modo un’insolita bandiera per incitare i
suoi sul campo di battaglia. È probabile che l’ornamento della fascia sia stato
noto allo scultore Domenico Nolfo, il quale ha modellato una fettuccia rossa
attorno al bustino del soldato, statua del gruppo dei Misteri della
“spogliazione”.
5 Giuseppe Fardella di Torrearsa, cento anni dopo la stesura del manoscritto
del frate Giustiniani, scrisse una simile storia sull’origine dei Fardella. Ciò
c’induce a ritenere che il parroco Fardella conoscesse il manoscritto di
Giustiniani e che entrambi abbiano letto l’atto del notaio Giovanni Nuris del
15 maggio 1425, rogato su istanza di Antonio e Lanzone Fardella, Padre e figlio,
nel quale si attestava: in qua Tribona sunt depicta arma praedictorum de fardella
et sueru praedecissorum ovvero fecero restaurare la Cappella del Santissimo
Crocifisso entro il Venerabile Parrocchiale Chiesa di San Nicolò. Cappella dei loro
Maggiori, nella quale vi erano li Trofei e stemma della casa Fardella sin da tempo
immemorabile.
6 Sappiamo che il 30 ottobre 1787, Michele Martino Fardella (figlio di
Marcello e di Francesca Bianco) sposò Giovanna Ferro ([1756/1824], figlia di
Berardo XXIV [1721/1799] e d’Isabella Riccio), dalla quale ebbe Stefano,
Isabella Francesca e Maria (coniugatasi nel 1806 con Sicomo Pastore barone
delle Terre di Vita). Anche Michele Martino, come lo zio Stefano, impose al
figlio erede il maggiorascato e la custodia della fettuccia nera per attaccare la
Spada (d’oro ereditata dallo zio Stefano) e Bastone in Croce, oggetti
d’ornamento d’abito di cavaliere dell’ordine costantiniano di San Giorgio.
imposti dalla legge testamentaria: don Ignazio Palmeri, don Nicolò
Buscaino, Michele Tolomei, Salvatore Mazarese, don Giuseppe
Vairelli, il sacerdote don Francesco Alù e il ricco raiss 7 Giuseppe
Scichili.
Sebbene infermo di corpo, ma sano di mente, il barone
intercesse Gesù, Maria e Giuseppe, San Gioachino e San Francesco di
Paola, mio speciale Protettore, ad assisterlo al supremo trapasso.
Dettava le sue ultime volontà, conscio d’essere stato fedele
cristiano, cattolico, profondo conoscitore di quanto l’Anima sia
più nobile del corpo e creata ad imagine e somiglianza di sua Divina
Maestà. Dopo aver implorato i Santi, la corte celeste e il Gran Padre
Protettore, dichiarava di voler essere sepolto nella Venerabile
Chiesa di San Francesco di Paola, in loco di porparia, innanzi
all’Altare maggiore, con farvi sopra la lapide di pietra giaca colli
stegmati gentilizie della casa Fardella. Il suo fidecommissario Berardo
XXIV Ferro esaudì e fece seppellire il cadavere del barone, nel
loculo espressato dentro la detta chiesa.
Don Stefano Fardella, Barone della Moarta, è stato il titolare
ed erede dello jus beneficialis 8 degli Isdraeli istituito nel lontano
1439 nella chiesa di San Benedetto 9 dal Magnifico Guglielmo
Stefano, che sposò Maria Giovanna Lazio de Queiros Burgio d’Alcamo,
impose al primogenito Michele di sposarsi con Dorotea Fardella di Torrearsa
Omodei (nata il 21 ottobre 1824, figlia di Antonino Fardella). È la Dorotea
ricordata da Fogalli in bene istruita nei precetti delle belle lettere e della filosofia, si
diede ad apprendere il ricamo e la lingua francese ed indi il ballo e la musica.
Risultata perita in questa specie di belle arti, venne affidata ad un’ottima aja di
nazione francese dalla quale apprese altre virtù.
Antonino Fardella è stato secreto di Trapani. Era il primogenito di Vincenzo
marchese di Torrearsa e di Dorotea Fardella, fratello di Giuseppe (parroco di
San Nicola) e di Giovanni Battista (brigadiere, poi maresciallo e ministro
della Guerra e Marina di Sua Maestà, promotore della scuola lancasteriana,
morto di colera a Napoli, il 6 novembre 1836). Si coniugò con Rosalia Sicomo
Pastore (1772-1801) baronessa di Vita, dalla quale ebbe Teodora morta
ventenne nel 1819. Col secondo matrimonio sposò Maria Teresa Omodei,
figlia di Giovanni Maria barone di Reda e di Francesca Milo baronessa di
Salina (1744-1827, figlia di Benedetto ed Emilia Pepoli). Oltre Dorotea, i due
coniugi ebbero: Giovanni, il senatore Vincenzo, (1808-1889), il sindaco
Giovanni Battista (1818-1881) ed il secondo “eroe dei due mondi”, Enrico
(1821-1892) anch’esso sindaco nel 1874, marito dell’irlandese Giannina
Drucket ([1831-1878], figlia del giudice John e di Maria Mincion).
7 Con il termine rajsi o raiss si designava colui che dirigeva l’organizzazione
della pesca e degli uomini addetti a tonnara. Leonardo Orlandini, in Trapani
succintamente descritta, riferisce che quasi non vi ha tonnara in tutta l’Isola ove i
Trapanesi non sieno capi con istraniero nome, chiamati Raisi.
8 A differenza dei preti missari, i beneficiali celebravano le messe negli altari
di piccole cappelle gentilizie. Le famiglie detentrici di jus o diritto di nomina
di beneficiale conferivano quest’importante incarico o ad un decano o un
alto prelato conosciuto e riservato, il “beneficiava” l’esclusivo congruo
compenso.
9 In questa chiesa dimorò per tanti anni la Venerabile Congregazione del
Santissimo Crocifisso nostro Signore Gesù Cristo, e della Regina de’ Marteri Madre
Santissima Maria Addolorata sotto titolo del Trentatrè, è stata da Divoti Confrati
Crapanzano, 10 con proprio jus patronatus. 11 In merito, lasciava
alla sorella Maria (vedova del patrizio Pietro Mollica Burgio) i
beni ereditari del quondam Giovanni Battista Viali indicati e
trasferiti con testamento da Dorotea Isdraeli. Il mio amatissimo
fratello Pospero, agostiniano, ebbe in eredità soltanto 12 onze.
Il barone, avendo ponderato per tanto tempo
l’istituzione e la tutela in fidecommesso del suo patrimonio, di
beni così stabili che rusticani ed altro, nominava eredi universali
in uguali porzioni i tre nipoti figli di suo fratello Marcello:
Michele Martino, Maria (moglie di Francesco di Blasi di Salemi)
e Vincenzo. Non ci soffermiamo sui cinquanta quattro articoli
dettati dal barone nella sua schedola testamentaria, perché
vertono principalmente su obblighi e disposizioni impartite ai
parenti. Non sappiamo se ebbe propria famiglia; dalle sue
parole si evince che restò celibe e che è stato un profondo
devoto di San Francesco di Paola, ligio alle regole mantenute
nella sua casata. Discendente di Michele Martino Fardella, 12
Don Stefano, cosciente della scarsa sussistenza prestata agli
dell’istessa a maggiore culto di Dio e della Vergine Santissima Madre Maria dei
Dolori, ristavorata e posta col sommo Zelo come s’asserisce da poco tempo, e posta
con Spirituale Esercizio. (Trafiletto di un atto notarile del 1800).
Anche Benigno da Santa Caterina (opera citata) riferisce che nella chiesa
dimorò la Congregazione del 33 e delle 40 Massime di San Filippo Neri. Di certo
sappiamo che la chiesa, prospiciente il carcere, la Vicaria, fu distrutta intorno
al 1820. Per volere di Guglielmo Crapanzano e del presbitere Tumbarello, la
cappella si edificò in questa chiesa, posizionata in frontespizio di queste Carceri
Centrali nel quartiero chiamato del Purgatorio a fianco il caseggiato del Barone di
Sant’Anna. Ulteriori notizie si sono attinte dagli Annali del parroco Giuseppe
Fardella, il quale riferisce che nel 1624 con atto del notaio Ximenes redatto il 15
maggio, la Compagnia di Sant’Anna e Santa Maria de’Custonaci si uniscono, e il 19
Luglio ottengono la Chiesa di San Benedetto con obbligo di ripararla e
consegnarla al Patrono e Beneficiale Paolo Crapanzano, rettore nella stessa
chiesa.
10 Guglielmo Crapanzano è stato senatore nel 1430, 1435 e 1445. Regio
cavaliere e capitano di giustizia nel 1446. (Mugnos, Sicilia Nobile, terza parte
del libro quinto della Cronologia Senatoria di Trapani, dal 1375 al 1759, nel quale
si hanno i Capitani Giustizieri ed i Senatori della Città di Trapani). Ebbe nove
figli: Desiata; Benvenuta; Giovanna; Benedetta; Preziosa; Giovanni; Perna; Palatino
e Blanca.
11 Lo jus patronatus era il diritto concesso ad una persona estranea alla
gerarchia ecclesiastica, la quale sostenute le spese per la costruzione di una
chiesa, di una cappella o di una tomba all’interno di una struttura religiosa,
n’assumeva la cura per la celebrazione dei riti e le spese per la
manutenzione.
12 Significativa l’espressione dell’Orlandini, il quale non fuor di ragione non
discordante dal mio il novo pensiere del S. Baron della Moarta e Ripa Michel
Martino Fardella delle memorie antiche studiosissimo, il qual con efficacissime
ragioni anco afferma che Trapani sia la Città di Camesena: la qual cosa si vede sotto
la celebre fintione poetica della falce di Saturno Egittio cosi cognominato da Beroso,
il quale doppo l’haver al suo padre Celo troncati i genitali la sanguinosa falce gittò
in questo lito naturalmente falcato. Peroche Cameseno nella lingua Fenice suona
quel, che nella nostra, falcato.
ammalati, mosso a compassione, dispose che li frutti di detti miei
beni debbano erogarsi e servire in compra di tela, coperture di letto ed
altro necessario per li letti delli poveri infermi febricitanti in esso
ospedale, col solo obligo dell’infermiero, non scordando che,
terminata sarà la tavola, far dire alli sudetti infermi un requiem
eternam pell’Anima mia. Legava diversi tarì per celebrare
annualmente uno dei Mercoledì detti di Udienza nel convento dei
carmelitani, 17 onze annuali provenienti da libera rendita sulla
baronia della Cuddia, di Mocharta e sull’enfiteusi della Runza
(Salemi) per celebrare uno dei quindici sabbati precedenti alla
sollennità della nostra gran Madre Maria Santissima di Trapani de’
15 Agosto, in memoria del solito sabbato da me sin dalla sua
fondazione celebrata, con sussidio di cera da consumarsi dinanzi il
Santissimo Simulacro. Destinava altri tarì per la sollennità di un
sabbato in ogn’anno nella Venerabile Congregazione di Maria
Santissima Immacolata, ove trovami uno dej confrati di essa Società.
Ma il legato che considerava di grande importanza era quello
per sollenizzarsi uno de’ tredici venerdì precedenti alla festività del
mio Gran Padre San Francesco di Pavola, solito da tanti anni da me
Testatore aversi celebrato. Pertanto, priego il fidecommissario di
dover comprare per il dì festivo del mio Gran Santo Patriarca San
Francesco di Paola quattro torcie di mezzo rotolo per ciascuna, le
quali, la vigilia dopo pranzo e giorno della Sollennità si devono
consumare ogn’anno innanzi la Statua di detto mio Santo Padre,
conforme Io per divozione ho pratticato e non altrimenti. Destinava
17 tarì annuali per compra di tanta cera, consistente in torcie a
quattro mecci da consumarsi nella vigilia e giorno di esso Santo
Padre, secondo jo testatore in vita hà pratticato. E legava altra onza
una annualmente sovra la somma delle onze 12,7,7,3 annuali di
libero, quali inservir debba per celebrazione di un anniversario da farsi
nella Venerabile Chiesa di S. Francesco di Paola, dovendosi dal Padre
Correttore di Esso Convento cantar la Messa Cantata co’ Ministri e
suonare a mortorio la Campana. Siccome doversi mettere dal detto
Padre Correttore sei candele sovra l’Altare e quattro torcie a quattro
mecci nel mezzo della Chiesa.
Lasciava 150 onze per messe da celebrarsi dai Reverendi
Padri Sacerdotali di San Francesco di Paola. Ordinava al
fidecommesso Ferro di far celebrare al sacerdote Ignazio
Bonomo tre messe cottidiane nella chiesa di San Francesco di Paola,
dinanzi l’Altare del glorioso Santo, in suffragio dell’Anima mia e
remissione de’ miei peccati. Nel caso di premorienza di Bonomo,
cappellano missaro, la competenza passava all’arciprete e diacono
don Salvadore Ferro 13 o al pronipote don Giuseppe Fardella Tipa.
13 Salvatore di Ferro è ricordato dal fratello Giuseppe Maria XXVI nella
Guida per gli stranieri in Trapani. È stato tra i fondatori dell’Accademia del
Discernimento, ciantro della cattedrale di Mazara, vicario generale e
capitolare della diocesi di Lipari e vescovo di Catania, con nomina del 16
Con quest’istituzione, concedeva al cappellano Bonomo 30 onze
ad effetto di dispensarle per elemosina à Poveri e particolarmente
all’Infermi alletticati inabili a potersi procacciare il pane. Inoltre,
desiderava si spendesse un’onza annuale per celebrare
l’anniversario della sua morte nella chiesa di San Francesco ed altra,
da pagarsi alla Congregazione di Maria Santissima dei Setti Dolori
(Addolorata) della quale mi ritrovo uno de’ confrati, in sussidio della
sua sollennità in perpetuum per mia devozione, al pari dei suoi
progenitori.
Avvertiva gli eredi a non pasticciare alcuna cosa,
perché, credendosi dalla maggior parte delle Persone della Città, che
forse io tenessi ingentissima somma di denaro, quantunque, assicuro
non essere vero in quanto da loro erroneamente si va a pensare, su
questa falsa supposizione mi considero manifestare la pura verità e
all’objetto di non far patire ingiustamente le Persone e Servi di Casa
che mi assistono, più fiate è accaduto, considerando gran somma di
denaro e non trovandola, fanno senza veruna raggione patire
ingiustamente molestia e costritioni nelle Carceri alla gente predetta.
Quindi, li esortava a non cadere nell’errore, ma si dovrà prestare
fede a quanto si rinvenirà, perché le chiavi non l’ho giammai fidato ne
fiderò a qualsisia Persona.
Don Stefano conservava il gruzzolo in contanti di 2.969
onze in due Cassettini firmati e suggellati, custoditi dalla
pronipote Maria Costanza e Maria Ferdinanda Ferro, moniali nel
monastero del Soccorso, conforme a quanto dallo stesso dichiarato in
un alberano (scrittura privata) custodito da Benedetto Todaro,
barone della Galia, insieme alla lista dei suoi crediti raccolti nel
libro colla coperta di panchimino. 14
Amante della buona cucina, il barone desinava con i
migliori cibi ed assaporava, oltre il tabacco e i vini novelli delle
sue campagne, anche il caffé (bevanda nobile quanto la
cioccolata) servendosi quotidianamente della sua pregiata
argenteria. Nell’inventario dei giogali e argenteria stimati
dall’orefice Nicola Campaniolo troviamo preziosi oggetti. Tra
marzo 1818. Singolare la sua disposizione testamentaria riguardo le messe
officiate nella sua personale cappellania. Il prelato morì nel 1824.
14 Il 12 settembre 1791 si fece l’inventario dei suoi crediti ammontanti a
5.338 onze. Spicca tra i tanti, Benedetto Todaro debitore per un prestito di
3.000 onze, a seguire Pietro, Francesco e Giuseppe Mollica per 250 onze, il
duca Saura per 244 onze, Ignazio Lamia barone di Pampioppo per 114 onze,
Vincenzo Fardella e sorelle e Martino Sieri Pepoli ciascuno con 100 onze. E
poi: Nicolò Tesoro, padre Giovanni e Giacomo Salafia, Antonio Salafia, Giacomo
Lipari, il barone Morano, Giuseppe Ximenes, Giuseppa Greco, Giuseppe e Antonio
Paladino di Santa Ninfa, Giuseppe Cangemi di Calatafimi, Paola Corso, Giuseppe
Greco, Antonio Oliveri, il barone Collaccio di Palermo, Francesco d’Angelo, Rosaria
Ancona, Michele Grignano, la marchesa Fardella, Leonardo Barbera, Maria di
Martino, un cocchiero, Isabella Mollica e il convento del Carmine. I crediti di 5.338
onze risultano minori rispetto le 16.356 onze vantate dagli eredi del citato
raiss Giuseppe Scichili (morto il primo marzo 1815).
l’argenteria valutata 293 onze: una palangana, un boccale, quattro
candileri, una cafittiera, due sottocoppe, una inguantiera, una
brudera, una zuccariera, un cucchiarone, un forchettone, due piatti
grandi, due piatti mezzalini, due salere, otto forchette, otto maniche di
coltelli, due sotto coppine senza chichere, due cabarè, una sputera,
dodici piatti tondi, quattro piatti piccoli, cocchiarine di cafè, otto
cocchiare, due piedi con due forbici. 15
Non solo moda, ma anche raffinatezza. Incredibile
l’inventario del suo guardaroba. Sedici giamberghe 16 di panno
color cafè con bottoni d’oro, di panno color cenericcio gallonata, 17 di
panno nero usata, di terzanello color cannella, di panno blu, di lama
d’argento, di panno color cafè con galloni d’oro, di raso cremisi con
gallone d’oro, color cafè di stamina vecchia, color cafè con galloni d’oro
e bottoni, color milingiana, color d’erba bianca, color cafè, color cafè e
bottoni d’oro, color cenericcio foderata cremisi, color d’oglio con
chioppi d’oro. Diciassette giamberghini 18 due di panno color cafè,
due di tela bianchi, di panno nero usato, di panno blù usato, di lama
d’argento, di terzanello color cannella, di seta color papparina
servaggia, di stamina nera vecchia, di stamina nera, riccamato, di
barracano blù con galloni d’oro, di camera, color di milingiana, con
occhetti di galloni, rosso con occhetti e galloncino. Ventisei calzoni,
di cui sette ordinari, dodici di tela, di panno color cafè, color verde, di
barracano color concezione, di terzanello color cannella, nero vecchio,
di spicchettone, di ferbanè. Un cappello con bottone d’oro, altro nuovo
e dieci berrette bianche antiche. Una sottoveste 19 riccamata d’oro
color celeste, di barracano verde, color cenericcia, di panno verde con
galloni di seta per servidori, una veste di camera imbottita. Due
fazzoletti bianchi usati, un pajo di stivaletti bianche di rianello, tre
paja di stivalone, un corpetto vecchio con fondo bianco riccamato di
Francia, quattro cilecche di tela usati, due cilecche [gilet] bianchi, un
giacchettone di panno verde usato, un giacchettone rosso usato. Due
coccanè 20 con drappini color verde con galloni di seta per li
servidori, altri due coccanè. Inoltre, 78 camicie da uomo, 14
salviette damascate, due covaltre per il collo, 11 covartini, 11 paja di
calzette usate di cottone e filo, un pajo di panno nero, tre paja di
inguanti, quattro paja di calzette di seta: due bianche, una gricia e
15 Tra i gioielli apprezzati in 101,5,12 onze, s’annotava una spata d’oro del
valore di 60 onze, un anello di diamanti con 17 brillanti stimato 21 onze, un
pomo d’oro di bastone per 9,20, una pioggia 1,15, un orologio d’oro calcolato
in 9 onze.
16 Giamberga – abito di gala del ceto borghese e dei funzionari, simile ad un
cappotto, che dalla vita si allungava a forma di gonna fino al ginocchio.
17 Gallonata, cioè con cordoncino intrecciato di seta dorato, usato per
guarnizioni di abiti o di uniformi militari.
18 Giamberghino, sottoabito della giamberga simile al panciotto.
19 Con sottana s’intendeva l’indumento maschile senza maniche che copriva
il torso, abbottonato sul davanti, indossato al posto del giammerghino.
20 Coccanè, particolare e colorata divisa indossata dai servitori di famiglie
signorili.
altro nero, un pajo di color cafè usate, calze color milingiana, altri tre
paja. E 13 torcie a vento, un sciabolotto con due spadi una de’ quali è
di lutto. Gli sono stati ereditati dal nipote Michele Martino,
tranne l’abito a lutto di processionante della processione
dell’Addolorata nel Venerdì Santo: una giamberga di panno nero
usata, un giamberghino di stamina nera, un calzone nero vecchio, un
paio di calzette di seta nero, una spada a lutto e torcie a vento.
Proprio di quest’abito, voglio, ordino e comando che li galloni del
mio abito di gala di panno scuro color mosco e quello di lama si
dovranno tutti e due far scucire e vendersi per ottenere quel drappo
abbisognevole alfine di farsi un intiero vestimento di messa, quale si
dovrà gallonare con galloni d’oro oppure un palio corrispondente
nell’altare del mio Santo Padre San Francesco di Paola. Alla stessa
maniera, comandava di vendere il Bastone con il pomo d’oro. Il
mobilio fu spartito tra i nipoti e la casa o Palazzo grande in
contrada di San Lorenzo, proprio nel piano di Mocarta, fu ereditata
dal nipote Michele Martino Fardella. L’altro nipote, Vincenzo
Fardella ebbe il quarto piccolo della casa attaccato al Palazzo
Grande.
Non solo Stefano Fardella di Mocharta, ma anche altri
baroni, “gente in affari” erano profondamente devoti ed
aggregati in diverse confraternite e congregazioni, come
Francesco Adragna d’Altavilla, membro e promotore della
congregazione delle Anime del Purgatorio. Ma questa è un’altra
storia.
© Salvatore Accardi, Aprile 2009 – vietato
l’utilizzo anche parziale del presente testo
© www.trapaniinvittissima.it
Stefano Fardella, barone di Mocharta, elegantemente vestito
con giammerga gallonata con bottoni d’oro, giammerghino con
occhetti, colvatra al collo e parrucca
autografo del barone Stefano Fardella di Mocharta
Epigrafe
STEFANO FARDELLA DYNASTAE GENERIS NOBILITATE
PRAECLARO
IVSTITIA RELLIGIONE CARITATE PRAECLARISSIMO
MINIMORUM FAMILIAE PARENTIS OPTIMI
CVLTORI EXIMIO
QUOD TEMPLVM HOC AERE SUO RESTITVENDVM CVRAVERIT
HVIVS COENOBII SODALES PBM PP
OB. AN. MDCCXCI PR. KAL.S
ANNOS NATVS XCI
autografi degli eredi e dei testimoni all’apertura del testamento
Atto dello jus beneficialis di Guglielmo Crapanzano del sei giugno 1439 in notaio Francesco Milo.
… in qua Tribona sunt depicta arma praedictorum de fardella et sueru praedecissorum …
Atto del notaio Giacomo de Nuris del 1425
Sigillo dei Fardella posto sul testamento
Balcone del quarto nobile del palazzo di Stefano Fardella di
Mocarta, un tempo sul piano di Mocharta, poi via Gallo, ora
piazzetta di Via Libertà.