antropologia e civiltà nel pensiero di giordano bruno.

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antropologia e civiltà nel pensiero di giordano bruno.
ANTROPOLOGIA E CIVILTÀ NEL PENSIERO DI
GIORDANO BRUNO.
Carteggio tra Enrico Livraghi e Fulvio Papi
Venerdi, 1 dicembre 2006
Caro Papi,
come d’accordo ti invio un paio di quesiti intorno a Giordano Bruno. Si tratta di questioni che mi frullano
per la testa da un po’ di tempo, e che mi vengono stimolati dalla presentazione del tuo Antropologia e
civiltà nel pensiero di Giordano Bruno. E dal momento che abbiamo deciso di ricorrere alla forma
scritta, mi dilungo un po’ e colgo l’occasione (purtroppo rara) di sottoporre tali “rovelli” a un filosofo del
tuo rango. Mi scuserai se ti parranno non pertinenti, oppure ingenui, o magari capziosi. In tal caso
deciderai se dare corso o meno a questa specie di “colloquio epistolare” (o forse sorta di “dialogo”).
Passo ai quesiti, e cerco di formulare il primo, tuttavia non senza una premessa. Nel quarto dialogo del
“De la Causa, Principio et Uno” si legge: “Perché vuoi tu, o principe di Peripatetici, più tosto che la
materia sia nulla per aver nullo atto, che sia tutto per aver tutti gli atti, o l’abbia confusi o confusissimi,
come ti piace?”. E’ ovvio che qui Bruno si rivolge direttamente ad Aristotele, del quale – come è noto –
accetta la tesi che la materia è potenzialità priva di forma, e in quanto tale capace di assumere tutte le
forme. Però questo è anche uno dei luoghi in cui più nettamente – mi pare – lo stesso Bruno rende
esplicita la sua distanza da Aristotele, dato che per lui la materia-vita è considerata come attiva potenza
infinita da cui si genera la molteplicità del reale, quindi sempre in atto (come una madre è gravida del
figlio, secondo l’esempio di Bruno stesso), mente per il filosofo greco la potenza è, non solo potenza di
essere, ma di anche di non essere, vale a dire di non passare all’atto. Forse qui Bruno annulla quello
scarto temporale nel nesso potenza-atto che in modo forse anche contraddittorio sussiste in Aristotele;
o meglio concepisce la successione del divenire come non suscettibile di alcun arresto temporale. Mi
sembra di aver capito che Bruno sia influenzato dal neoplatonismo umanistico e al tempo stesso
mantenga una qualche tenace radice se non nella filosofia scolastica, certo in quella di Tommaso.
Devo spiegarmi: ciò su cui mi sto scervellando da un po’ di tempo è quel genere di potenza che è
rappresentato dalla capacità produttiva del vivente uomo, e che esce dalle quinte della storia per la
prima volta con l’avvento del modo di produzione del capitale, e si trasforma nella peculiarissima merce
forza-lavoro. Come si sa, i germi di questo processo storico (prime forme del capitalismo mercantile) si
possono già rintracciare nel tempo di Giordano Bruno.
Ora (e qui tengo presente certe tesi recenti, per esempio quelle formulate da Paolo Virno), il tempo
storico della modernità, cioè del nascente capitalismo, sembrerebbe scandito proprio dal passaggio
della generale facoltà produttiva – attributo specificamente antropologico – dallo stato di pura
potenzialità alla messa in atto nel processo produttivo; dalla in-attualità all’attualizzazione, dall’assoluta
indeterminatezza alla capacità di ogni determinazione (come diceva Marx). In una parola, si tratta della
nota riduzione alla condizione di pura merce di una facoltà umana del tutto “immateriale”.
La finisco con la premessa e passo alla domanda.
Se è vero (e qui mi restano i maggiori dubbi) che l’attuazione infinita della materia “nega” quella
interruzione del divenire che è rappresentata dal passaggio all’attualizzazione (cioè alla condizione di
forza-lavoro) della generale potenza produttiva, non si può dire allora che l’ontologia di Bruno appare
oggi più “arretrata” di quella di Aristotele, in quanto incapace di cogliere quella che dovrebbe essere
l’in-attualità costitutiva della potenza, il non-ora della potenza, radicalmente distinto dall’adesso; e
quindi anche inadeguata a cogliere lo snodo cruciale della modernità?
Ed ecco il secondo quesito. Anche qui una premessa. Bruno aveva un grande interesse per la
“mnemotecnica”, la tecnica di conservazione della memoria, molto importante in tutta la cultura del
Rinascimento (il cosiddetto “lullismo”). Se non sbaglio, questa “passione” gli è stata in un qualche modo
fatale, se è vero che la denuncia di eresia all’Inquisizione è stata presentata nel maggio del 1592 da
Giovanni Mocenigo, che lo ospitava a Venezia perché gli insegnasse questa ”arte della memoria” (e
che era rimasto evidentemente non contento dell’insegnamento).
Oggi, da un lato la mnemotecnica è completamente obsoleta, dall’altro lato il Database del computer
sta risucchiando non solo la memoria storica, ma anche quella individuale. Già qualche tempo fa
James Ballard – impropriamente considerato uno scrittore di fantascienza – formulava queste
definizioni della fantascienza e del computer: “Fantascienza –Il sogno del corpo di diventare una
macchina. Computer – Non molto saggiamente, forse, il cervello sta subappaltando molte delle sue
funzioni fondamentali, creando un sistema di filiali che un giorno potranno forse unirsi e prendere il
controllo dell’azienda”.
Allora l’interrogativo che possiamo forse porci è questo: non è che un tale auto-esonero generalizzato
della memoria a favore del computer finirà per rendere di nuovo necessaria una qualche forma di
mnemotecnica, facendoci regredire, anziché progredire?
Un caro saluto.
Enrico Livraghi
Lunedì, 4 dicembre 2006
Caro Livraghi, rispondo alle domande-problemi che mi poni con molta arguzia intellettuale e “vis
interpretativa”.
Bruno, nel “De la Causa, Principio et Uno” compie un’operazione teoretica straordinaria, crea una
nuova forma di pensiero lavorando su categorie aristoteliche, plotiniche, lucreziane, della teologia
negativa. Il risultato, in brevissimo, è questo: materia e forma sono “dei geni di sostanza”. Che non vuol
dire che da una parte c’è la forma e dall’altra la materia (la discesa neoplatonica), ma che la sostanza,
l’Uno, è costituito da materia e forma contemporaneamente, le forme le “butta fuori” la materia come
eternità dell’universo infinito. Non credo che dal punto di vista della metafora filosofica della natura si
possa porre una interrogazione sul tempo indipendentemente dal modo d’essere della natura
medesima che è produzione continua, ripetizione di se stessa nel medesimo, immanenza dell’anima
nel vivente (se escludi il racconto metafisico, la cosa è uguale al capitolo sul tempo delle “Enneadi” di
Plotino).
Se tu trasporti la forma del ragionamento nella direzione della modernità e della forza lavoro, la prima
cosa da fare è lasciar perdere le categorie metafisiche e interrogarci sul senso che hanno le nuove
categorie in relazione ai referenti storici stessi. Nel 500 il lavoro, avrebbe detto Marx, è ancora un
rapporto diretto tra gli uomini e la natura (come nel modo di produzione asiatico, classico, ecc.). Quella
figura di lavoro vivente che diventa lavoro astratto-merce quando diventa generica possibilità di lavoro
sotto la forma capitalistica di produzione, e quindi merce che, nello scambio, appare sotto la forma del
salario. Marx stesso, probabilmente sotto l’influenza di Schelling (dice Habermas) pensava all’energia
vitale dell’uomo come una forza potenziale che può realizzarsi in diverse modalità attuali. Ma per
essere precisi l’antinomia di Marx era tra lavoro naturale e lavoro artificiale (coatto). Tuttavia pensare al
lavoro come pura potenzialità è un’astrazione, il lavoro se mai è una potenzialità collettiva propria di
ogni formazione sociale comprese le più elementari. In ogni forma di produzione il lavoro non può che
essere una potenzialità in atto. Ci sono altre potenzialità umane che in ogni formazione sociale restano
pressoché identiche: gli uomini per esempio non possono volare, possono guardare fino a un certo
punto, odorare secondo i limiti di una sensibilità, ecc.
Quanto alla mnemotecnica, Bruno la trasforma completamente in una mnemotecnica metafisica. La
figura corrisponde a potenze naturali e alle loro relazioni, cioè è un sapere naturalistico. Mocenigo nel
denunciare Bruno probabilmente era desideroso di colpire gli amici veneziani potenti di Bruno (il
“ridotto” Morosini) che aveva in odore di eresia (probabilmente padovana-averroista). Ma Bruno,
ovviamente, fu lasciato solo.
La memoria artificiale contemporanea è in senso lato uno strumento di produzione e una forma di
relazione sociale. Dal punto di vista del ricordare, ricorda solo segmenti di operatività. Dal punto di vista
del ricordare storico-personale, o di gruppo, penso che la memoria non sarà più un elemento
fondamentale di identificazione (atto-potenza). Il che mostra che la memoria non artificiale è un
attributo antropologico variabile e deperibile del vivere sociale. Noi ne siamo in mezzo. Con i più
cordiali saluti.
Fulvio Papi