L` Hospice del Trivulzio

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L` Hospice del Trivulzio
L’ Hospice del Trivulzio
L’esperienza del volontariato domiciliare che lascio alle
spalle mi ha creato qualche problema nell’accettare ciò che
l’Hospice offre a un volontario; il pensiero e l’affetto sono fissi
all’intensità e all’unicità del rapporto che intercorreva col malato,
con la famiglia, quando li incontravo nella loro casa. Il consiglio di
molti, nei momenti di forte perplessità, è stato di prolungare la mia
permanenza in Hospice prima di deciderne l’adesione o
l’abbandono e così ho fatto.
Durante il turno dei miei primi servizi chiedo a Giusi,
volontaria giovane ed esperta che mi accompagna “In modo
sintetico, che cos’è per te l’Hospice?”. La domanda è inattesa,
qualche attimo di concentrazione, poi sicura “È accoglienza”. Ho
provato un senso di smarrimento, “un po’ poco” mi dicevo, con
tutti i dubbi che mi portavo appresso, e tuttavia sono “rimasto” con
la curiosità di scoprire ciò che non conoscevo e che gli altri
avevano già trovato. “L’Hospice del volontario” lo capisci poco
alla volta.
Ora, con più quiete e con gratitudine, la mente torna alla
risposta di Giusi: concisa, essenziale, più semplice e più bella non
la so pensare, in una parola la ricchezza che molte insieme forse
non sanno dire.
Spaziose le stanze, gli spazi comuni, terrazzi ampi, vetrate;
l’interno tinteggiato a colori pastello chiaro, bianchi i soffitti e le
porte. La leggerezza e la luminosità dell’ambiente aprono alla
serenità familiare che il personale e i volontari comunicano sin
dalla prima accoglienza. Con semplicità non casuale, tutto é
predisposto ad ospitare il malato terminale e la persona che lo
accompagna: qui la malattia viene accolta sino al suo epilogo.
Hospice è accogliere, prendersi cura, accompagnare, condivisione
discreta e affettuosa di fronte ai mutamenti che avvengono nel tempo
residuo della vita. L’ospite sa che tutti lo guardano con simpatia, nessuno
stupore per i suoi limiti, tutti in sincerità lo stimano per l’uomo che è,
disponibili a condividere con lui la condizione umiliante del proprio corpo
malato. Per il volontario è invito a rimanere al proprio posto: nell’umiltà
dell’accompagnamento, la speranza di scorgere, ascoltare nello sguardo
dell’altro l’eco di un bene scambiato, di un sorriso che non ha ferito.
In ogni stanza un uomo, una donna sono in attesa, ognuno di ciò
che spera o non sa, o a volte già conosce. Non importa il censo, l’età, la
mediocrità o l’eccellenza; non c’è distinzione. Ogni malato restituisce alla
vita un poco di sé: un po’ del suo camminare, della sua voce, dell’aspetto
bello di quando era sano, un po’ della sua memoria o della sua
consapevolezza; ogni giorno un poco di sé. La patologia si aggrava, si
aggrava ancora. Senza rumore, i volti di una umanità sofferente che passa.
Dalle vetrate vedo la mia città, operosa, che non si ferma, ma chi è nel
lutto, se vuole, può accogliere la vicinanza discreta, il calore umano,
solidale dei volontari come segno forte, positivo in un momento difficile
della vita, forse di una vita che cambia.
Qualcuno prega, non soltanto per sé. “Ti credo Signore, Dio della vita”.
Oggi una malata parla con la volontaria e a sorpresa abbandona il
filo del discorso, “vede le rondini entrare nella stanza” e le chiede di
chiudere la finestra. La finestra è stata chiusa, ora il colloquio può
riprendere. Allucinazioni, immagini attinte forse da ricordi o dal proprio
mondo interiore. “I muli neri cattivi della Calabria”, “L’auto parcheggiata
sul tetto della casa di fronte”… a posteriori possono suscitare ilarità, ma
nel loro accadere procurano pena, anche in chi assiste, a volte turbamento:
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resta lo stupore, il significato nascosto di ciò che è accaduto. Una
persona parla con te affabilmente e d’improvviso si isola in una
realtà “altrove”, che lei sola conosce e vede, assenza di qualche
attimo, poi “rientra”; ma in questo breve stacco di tempo puoi
scorgere in quegli occhi illusi, nell’espressione del volto un filo
della sua morte. È annuncio di scadenza, nessuna data certa. Forse
qualcosa ti riguarda, puoi sentirti scosso: il “tuo” malato sa parlarti
di te.
Scegliere di stare a fianco di chi è “terminale” e di chi a lui
è legato, significa essere disponibile a mettersi in discussione ogni
volta e ogni volta nell’immediatezza a “dimenticarsi di sé”; è
anelito ad ascoltare l’altro nella sua stessa presenza, a comunicargli
con le parole o forse soltanto con lo sguardo la quiete e la speranza
che hai dentro.
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