LETTERATURA ITALIANA: PERCORSO

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LETTERATURA ITALIANA: PERCORSO
LETTERATURA ITALIANA: PERCORSO CONTEMPORANEO
PROSA
Cesare Pavese – Pier Paolo Pasolini – Pier Vittorio Tondelli – Susanna Tamaro – Roberto
Saviano
(i brani di Pavese e Pasolini sono antologizzati sul manuale scolastico)
CESARE PAVESE, E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? (La casa in collina, cap. XXIII)
La vicenda si svolge nel 1943 , l'anno della caduta di Mussolini, del governo Badoglio, dell'armistizio con le
Truppe Alleate, dell'occupazione tedesca dell'alta Italia, con l'inizio della Resistenza. I fatti si svolgono in
parte sulle colline attorno a Torino, in parte sulle Langhe.
Corrado è un insegnante di scienze quarantenne che lavora a Torino e che, in questo anno decisivo per la
guerra, sfolla in collina, ospite di una casa dover abitano due donne, madre e figlia. Quest'ultima Elvira è
teneramente innamorata di Corrado ma non è corrisposta. In una vicina osteria Corrado incontra Cate, la
donna che dieci anni prima ha amato e da cui, prima di abbandonarla, ha forse avuto un figlio. Il dubbio che
questo figlio sia proprio Dino, un giovane che frequenta con Cate l'osteria dove si raccolgono dei comunisti,
pronti ad impegnarsi nella lotta resistenziale, rompe l'equilibrio esistenziale di Corrado. Egli si affeziona a
Dino, ma non ha da Cate alcuna decisiva conferma sulla sua paternità. Questo è il primo elemento di
ambiguità nella sua esperienza di vita: il dubbio di non aver accettato fino in fondo le proprie responsabilità
di padre. Intanto gli eventi della guerra evolvono: dopo l'8 settembre l'esercito italiano è allo sbando, nelle
strade di Torino numerosi sono i fuggiaschi che tentano il ritorno alle loro case in abiti borghesi (per non
essere riconosciuti come soldati renitenti). Ci si prepara a fronteggiare l'occupazione tedesca, mentre la città
è sottoposta ai bombardamenti degli Alleati. Corrado non sa decidersi ad un impegno politico più diretto e a
differenza dei suoi amici dell'osteria delle Fontane (Cate, Dino, Fonso, Tono ) non entra nelle bande
partigiane. Mentre quasi tutti questi personaggi vengono catturati dai tedeschi, Corrado si salva. Solo Dino
si unisce alle truppe partigiane (assumendosi quell'impegno che il presunto padre non è capace di assumere).
Corrado fugge prima in un collegio a Chieri e poi al paese d'origine sulle Langhe con la speranza di restare
ai margini del conflitto e di udirne solo gli echi lontani. Ma la guerra non ha risparmiato niente e nessuno e
per chi , come lui, ha voluto restare in disparte c'è una lunga lotta contro il rimorso e gli incubi del
tradimento. Corrado vorrebbe che l'inverno durasse per sempre, non rispuntasse la vita, come un adolescente
vorrebbe entrare in un cespuglio e non uscirne mai più. La storia tuttavia continua e costringe ad assumerci
precise responsabilità. Corrado non può rimanere impassibile di fronte ai corpi dei partigiani uccisi tra le sue
colline.
Il tema fondamentale del libro è il dramma dell'intellettuale, solo ed isolato di fronte alla guerra, incapace di
aderire all'azione resistenziale e di inserirsi attivamente all'interno delle formazioni partigiane. Pavese
affronta dunque il tema dell'impotenza ad agire dell'uomo di cultura nel momento in cui la guerra, la caduta
del fascismo e l'occupazione tedesca mettono a dura prova la stabilità e l'equilibrio di vita tenacemente
ricercato.
Egli vanamente si illude che proprio la guerra consenta di "vivere alla giornata" di "chiudersi ancor meglio
nella sua solitudine sperimentata da gran tempo". Proprio la guerra invece lo pone di fronte ad una prova
essenziale. Cate lo rimprovera della sua inerzia ed egli non sa che rispondere "alzando le spalle.." dall'alto
della sua superiorità intellettuale. Anche se alla fine dirà :"Mi accorgo adesso che in tutto quest'anno e che
anche prima...quand'eravamo ancora giovani e la guerra era una nube lontana, mi accorgo che ho vissuto
un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra in un
cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscirne mai più ".
C'è infine il tentativo di ritrovare il perduto equilibrio tra le colline delle Langhe ( simbolo dell'infanzia
innocente ) con un ritorno avventuroso a S.Stefano Belbo. Tale recupero del passato è comunque
impossibile: la guerra sta lasciando tragiche testimonianze della sua presenza anche tra i filari delle vigne
dove giacciono corpi martoriati dai colpi delle armi. La città (Torino ) è in generale simbolo di angoscia e
morte, mentre la collina e la vigna ( colline torinesi e Langhe ) dovrebbero essere simbolo di purezza e
rigenerazione.
M'accorgo adesso che in tutto quest'anno, e anche prima, anche ai tempi delle magre follie,
dell'Anna Maria, di Gallo, di Cate, quand'eravamo ancora giovani e la guerra una nube lontana, mi
accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che
giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e
si dimentica di uscire mai più.
E qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno. Se passeggio nei boschi, se a ogni
sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche
Giorgi c'è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi diceva: « Avremo tempo le sere di neve a
riparlarne»), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui,
che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino e tutti gli altri,
torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti
repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una
cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è
qualcuno, che dopo avesse sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue,
giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si
sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei
corpi, tenga noialtri inchiodati a vedere, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà.
Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto dei morto potremmo
essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo
ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un
nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. Rimpiango che
Belbo sia rimasto a Torino.Parte del giorno la passa in cucina, nell'enorme cucina dal battuto di
terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mio padre va e viene in
cantina, col passo del vecchio Gregorio. A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino
folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che
farebbe mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è «La smettessero un po'», e per loro
la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo
alle feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: - Non è
giusto. Non hanno il diritto. La chiedano piuttosto in regalo. - Chi ha il diritto? - gli faccio. - Lascia
che tutto sia finito e si vedrà, - dice lui.
lo non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se
un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? perché sono morti? - Io non
saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno
unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
PIER PAOLO PASOLINI, Riccetto viene arrestato (Ragazzi di vita, cap. V)
, piano piano,
aspettando che piazzassero le ba
anto, difatti,
ch'era deserta come un campo minato, con migliaia di persiane chiuse sulle facciate che si
ammassavano, scure, sulla scesa, verso il cielo pieno di quei fuochi artificiali canditi. E il venticello,
fresco, che faceva diventare bianchi e cele
'era il mercatino, all'incrocio di via Mon
–
–
, locco
locco. – Mannaccia la m..., – fece incazzandosi improvvisamente, a denti stretti e a voce quasi forte.
– Tanto qqua chi me sente? – disse poi lanciando un'occhiata esplorativa intorno, – e si pure me
sentono, che me frega –. Stava tremando come una foglia.
. Tutti, dai portieri
agli impiegati, dalle donne di servizio ai commendatori, dormivano ancora dietro le imposte
verniciate di via
forte che li avrebbero sentiti fino a San Giovanni; e poi subito dopo dei botti, che rimbombarono in
tutto il quartiere ormai investito dal biancore del giorno. Il Riccetto
. Dietro gli
alberetti sulle aiuole nere e bagnate, con le panchine vuote, era fermo il camion dell'immondezza; e
in fila lungo il marciapiede, una dozzina di bidoni, con intorno i canestrari con le maniche
rimboccate che bestemmiavano. Il conducente era sceso, e coi riccioletti sull'occhio, se li stava a
sentire appioppato a un parafango zozzo del camion, con le mani in saccoccia. Un pischello,
, se ne stava zitto un po' discosto, con
un'asse in mano. – Ma nun lo sei ito a cc
–
–
–
! – fece il conducente rivolto ai due spazzini. – Arrangiateve u
–
: l'altro, con una faccia da schiaffi, e sporco come uno zingaro, ci stava. E
poi, dopo tutto, l'animaccia loro, se alla Borgata Gordiani o al Quadraro non si fossero trovati dei
maschi che, per poi avere diritto d'andare a capare tra l'immondezza, s'alzavano alle tre de
dalle saccocce, e gli occhi che parlavano. Uno sdentato, con la
barba nera come il carbone sulle mascelle bianche per la giannetta, e due occhi da povero cristo, che
luccicavano come quelli d'un cane, da ubbriaco con tutto ch'erano le quattro del mattino,
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–
–
–
pacchia, – senza filarli per niente, prese l'altra asse che sporgeva dal camion e con l'altro suo
collega si mise, di lena, a rotolare dentro il camion i bidoni dell'immondezza e a scaricarli. Una
macchia di vapore grigio e sporco, come inchiostro annacquato, intanto s'andava allargando per le
strisce di cielo che s'intravedevano in cima ai palazzoni, nei vuoti della piazza: e il disastro di
nuvolette, prima scoloriva, poi veniva assorbito da quel sudiciume. Il bel nuvolone bianco, coi
riflessi d'acciaio, s'era
, coi
marciapiedi che parevano fogne, tra grandi cavalcavia scrostati, steccionate,
, per la Strada Bianca, fin sotto le prime abitazioni della Borgata Gordiani, sola
come un campo di concentramento, in mezzo a un piccolo altopiano tra la Casilina e la Prenestina,
battuta dal sole e dal vento. Dove il camion s'era fermato, poco prima d'entrare in borgata, c'erano
da una parte e dall'altra della strada distese di campi che dovevano esser di gran
'erba
, sperdendosi come andava andava su delle cave
abbandonate e ridivenute anch'esse campi, tutti spelacchiati, buoni per i greggi sabini o abruz
. – Namo, spicciateve, – fece il conducente, com'ebbe fatto manovra rivoltando il
muso del camion verso la Strada Bianca e la
forza naturale, i due le fecero tener dietr
. Il Riccetto e l'altro restarono soli nella
tanfa, con sotto il piano della cava e intorno i campicelli slabbrati. Si misero a sedere uno in alto e
uno in basso, e cominciarono a cercare tra i rifiuti. L'altro era pratico, e se ne stava tutto curvo e
attento, con una faccia seria come se stesse a fare un lavoro di precisione: e il Riccetto fece come
carte zozze, i cocci, le scatole di medicinali, gli avanz
solicello ardente
delle strisce verdi e rosse: era sul punto di sturbarsi per la fame –
–
. Percorse sbiellando dalla stanchezza
la
a Taranto: a gironzolare come un cane randagio
pel mercatino, tra le bancarelle, fiutando gli odori che nell'afa dello scirocco fiatavano a migliaia, e
tutti appetitosi, in quel piccolo spiazzo incassato tra i palazzoni.
Allumava le bancarelle dei fruttaro
' di dolce nello stomaco
attratto dall'odore del formaggio che veniva dalla fila delle bancarelle bianche propri
parmigiano, o di pecorino; c
odorosa che toglieva il fiato. Ci
di gruviera e se
–
–
della camicia il Riccetto che se la squagliava facendo il tonto, e con aria p
, tirando alla
disperata dei ganci ai fian
, da fusto e da dritt
. Disse a quelli che lo reggevano: – Lassateme, lassateme, a
moretti, che nun je fo' niente. Che me metto co li regazzini, io? – Il Riccetto invece, tutto pesto e
con un po' di sangue che gli spuntava
–
–
–
–
. Il Riccetto sfi
dalla tasca il pezzo di gruviera, e glielo porse, con una faccia smorta, masticando vaghi pensieri di
vendetta e inghiottendo il rancore con il sangue delle gengive. Poi, mentre che il treppio intorno si
scioglieva, siccome che il fatto era prop
, tutti allegri e contenti. Si dire
, che la porta dell'appartamento vuoto, di solito
chiusa, era aperta e sbatteva di tant
–
–
vide addosso due poliziotti. Per farla breve, durante la notte
–
–
–
, e senza c
–
m'avranno preso, – si chiedeva,
ancora non del tutto sveglio. – Boh. . .! – Lo portarono a Porta Portese, e lo condannarono a quasi
tre anni – ci dovette star dentro fino alla primavera del '50! – per imparargli la morale.
PIER VITTORIO TONDELLI
’
Altri libertini
’
’
“
”
a ha una lunga gestazione: il nucleo originario era infatti una grande quantità di
F
’70
suo suggerimento. Il primo racconto, Postoristoro, è la cronaca in terza persona di una notte in una
stazione ferroviaria, forse di Reggio Emilia. I personaggi sono emarginati di ogni tipo: tossici,
malavitosi, prostitute, omosessuali. Le situazioni sono crude e il linguaggio riproduce il parlato dei
personaggi mischia
’
Mimi e istrioni i protagonisti sono un gruppo di tre
ragazze (Pia, la voce narrante, Sylvia e Nanni) e un ragazzo (Benedetto o Benny, alla ricerca della
)
“
”
o esistenza si svolge tra
scorribande notturne in osterie e discoteche e rapporti sessuali occasionali, corse in bicicletta,
sedute di autocoscienza, esperimenti intellettuali e artistici. Ma al ritorno dalle vacanze estive,
trascorse separatamente, il gru
’
y
riscoprire la sua eterosessualità e ora veste panni maschili, si è fatto crescere la barba e ha una
fidanzata; Nanni tenta il suicidio e quello che provano i tre compagni al suo capezzale non è
nostalgia: piuttosto vengono colti da un senso di nausea.
’
I Maligni noi ci chiamano le Splash, perché a sentir loro saremmo quattro assatanate pidocchiose
che non han voglia di far nulla, menchemeno di lavorare e solo gli tira la passera, insomma non
faremmo altro che sbatterci e pergiunta anche fra noi quando il mercato del cazzo non tira; […]
«Veh, le Splash, i rifiùt de Rèz». È veramente inutile. Perché a noi non ci frega un bel niente della
nostra reputazione, soprattutto in questo merdaio che è Rèz, cioè Reggio Emilia, puttanaio in cui
per malasorte noi si abita e che si vorrebbe veder distrutto e incendiato usando come torce i capelli
di quelli lì, proprio loro, appunto, i Maligni.
Il terzo racconto, Viaggio, è quello più vicino alla forma del romanzo, per estensione e per snodo
narrativo. Il protagonista, insieme al suo amico Gigi, dopo gli esami di maturità compie un viaggio
in treno in alcune città del Nord Europa. A Bruxelles si uniscono a ragazzi di altri paesi e lavorano
come imbianchini. Qui il protagonista (di cui non si dice mai il nome) prende coscienza della
propria omosessualità e ad Amsterdam i due fanno esperien
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ista conosce e si innamora di Dilo, e questo evento segna uno spartiacque
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’
scoppia la crisi e il
rapporto finisce. Il protagonista dopo aver girovagato tra Parigi, Milano e Londra decide di tornare
a Correggio, il suo paese natale. Ma il ritorno alle origini invece di attenuare il senso di frustrazione,
lo accentua, tanto da fargli tentare il suicidio, proprio come la Nanni del racconto precedente. In
“
”
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te connessi
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“
”
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una lunga gestazione: il nucleo originario era infatti una grande quantità di scritti inviati ad Aldo
Tagliaferri della Feltrinelli sul finire de
’70
primo racconto, Postoristoro, è la cronaca in terza persona di una notte in una stazione ferroviaria,
forse di Reggio Emilia. I personaggi sono emarginati di ogni tipo: tossici, malavitosi, prostitute,
omosessuali. Le situazioni sono crude e il linguaggio riproduce il parlato dei personaggi mischiato
’
Mimi e istrioni i protagonisti sono un gruppo di tre ragazze (Pia, la voce
narrante, Sylvia e Nanni) e un ragazzo (Benedetto o Benny, alla ricerca della propria identità
)
“
”
notturne in osterie e discoteche e rapporti sessuali occasionali, corse in bicicletta, sedute di
autocoscienza, esperimenti intellettuali e artistici. Ma al ritorno dalle vacanze estive, trascorse
’
y
sua eterosessualità e ora veste panni maschili, si è fatto crescere la barba e ha una fidanzata; Nanni
tenta il suicidio e quello che provano i tre compagni al suo capezzale non è nostalgia: piuttosto
vengono colti da un senso di nausea. Il terzo racconto, Viaggio, è quello più vicino alla forma del
romanzo, per estensione e per snodo narrativo. Il protagonista, insieme al suo amico Gigi, dopo gli
esami di maturità compie un viaggio in treno in alcune città del Nord Europa. A Bruxelles si
uniscono a ragazzi di altri paesi e lavorano come imbianchini. Qui il protagonista (di cui non si dice
mai il nome) prende coscienza della propria omosessualità e ad Amsterdam i due fanno esperienza
’
’
narrazionedella loro vita: gli squallidi appartamenti, le esperienze sentimentali e sessuali, i
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’
sua
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vacanze scoppia la crisi e il rapporto finisce. Il protagonista dopo aver girovagato tra Parigi, Milano
e Londra decide di tornare a Correggio, il suo paese natale. Ma il ritorno alle origini invece di
attenuare il senso di frustrazione, lo accentua, tanto da fargli tentare il suicidio, proprio come la
“
aiuterà a vivere.”
SUSANNA TAMARO
Va' dove ti porta il cuore è un romanzo scritto da Susanna Tamaro e pubblicato per Baldini e Castoldi
nel 1994. Questo best seller ha venduto oltre 15 milioni di copie in tutto il mondo, ed è stato inserito fra i
150 «Grandi Libri» che hanno segnato la storia d'Italia in occasione delle celebrazioni del 2011 per l'unità
nazionale al Salone del Libro di Torino. Incentrato sui sentimenti e gli affetti familiari, ha incontrato un
grande successo di pubblico diventando un vero e proprio "caso" letterario: scritto in forma epistolare, ha il
suo cuore nella confessione che una anziana signora fa alla propria nipote, facendo emergere una silenziosa
menzogna che ha travolto la sua famiglia. Dal libro è stato tratto l'omonimo film diretto da Cristina
Comencini.
Nonna e nipote sono vissute insieme per parecchi anni. Diventata oramai maggiorenne, la ragazza decide di
partire per l'America. Tra le due, che si sono separate in seguito ad un periodo di crisi, vige il patto di non
contattarsi per un periodo più o meno lungo. Ormai malata, l'anziana (Olga) ritiene di non avere più
abbastanza da vivere per rivedere sua nipote. D'altro canto, ella sente l'assoluto bisogno di confidare a sua
nipote le sue sensazioni ed alcuni suoi segreti (vedi trama). Si pone dunque il dilemma se rompere il patto e
cercare di contattare la giovane, oppure tacere, rischiando di fare un grave torto a sua nipote (la quale, al suo
ritorno a casa, potrebbe chiedersi come mai nessuno l'abbia mai informata della malattia della nonna). Dato
che entrambe le soluzioni sono assai insoddisfacenti, Olga decide di lasciare alla nipote per iscritto quanto ha
da dire.
Scrive così una lettera-diario indirizzata alla giovane. Anche ritornando dall'America dopo la morte di Olga,
la ragazza sarà senz'altro in grado di trovare il diario e leggere il messaggio. Durante l'esposizione dei fatti
viene tra l'altro descritta in maniera approfondita la figura di Ilaria, figlia di Olga e madre della ragazza.
La via che hai percorso non era dritta ma piena di bivi, ad ogni passo c’era una freccia che
indicava una direzione diversa; da lì si dipartiva un viottolo, da là una stradina erbosa che si
perdeva nei boschi. Qualcuna di queste deviazioni l’hai imboccata senza accorgertene,
qualcun’altra non l’avevi neanche vista; quelle che hai trascurato non sai dove ti avrebbero
condotto, se in un posto migliore o peggiore; non lo sai ma ugualmente provi rimpianto. Potevi fare
una cosa e non l’hai fatta, sei tornata indietro invece di andare avanti. Il gioco dell’oca, te
lo ricordi? La vita procede pressapoco allo stesso modo.
ROBERTO SAVIANO, Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della
camorra
E’ il primo romanzo non-fiction di Roberto Saviano, pubblicato nel 2006 dalla casa editrice Mondadori. Il
romanzo ha venduto oltre 2 milioni e 250 000 copie nella sola Italia e 10 milioni nel mondo, essendo stato
tradotto in 52 paesi. È presente nelle classifiche di best seller in Germania, dove l'opera è saltata subito in
cima alla classifica del settimanale Der, Olanda, Belgio,Spagna, Francia, Svezia, Finlandia e Lituania.
Da Gomorra è stato tratto un film diretto da Matteo Garrone dal titolo omonimo, uscito nelle sale italiane il
16 maggio 2008 e nel 2012 viene tratta anche una serie televisiva in sei episodi prodotta da Sky Italia che
sarà trasmessa nel 2013. Il quotidiano statunitense New York Times lo ha inserito nella classifica dei 100 libri
più importanti del 2007.
II container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse galleggiando nell'aria,
lo sprider, il meccanismo che aggancia il container alla gru, non riusciva a domare il movimento. I
portelloni mal chiusi si aprirono di scatto e iniziarono a piovere decine di corpi. Sembravano
manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal
container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l'uno sull'altro.
In fila, stipati come aringhe in scatola. Erano i cinesi che non muoiono mai. Gli eterni che si
passano i documenti l'uno con l'altro. Ecco dove erano finiti. I corpi che le fantasie più spinte
immaginavano cucinati nei ristoranti, sotterrati negli orti d'intorno alle fabbriche, gettati nella
bocca del Vesuvio. Erano lì. Ne cadevano a decine dal container, con il nome appuntato su un
cartellino annodato a un laccetto intorno al collo. Avevano tutti messo da parte i soldi per farsi
seppellire nelle loro città in Cina. Si facevano trattenere una percentuale dal salario, in cambio
avevano garantito un viaggio di ritorno, una volta morti. Uno spazio in un container e un buco in
qualche pezzo di terra cinese. Quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in
faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita. Come se quella maschera di mani
gli concedesse più coraggio per raccontare. Aveva visto cadere corpi e non aveva avuto bisogno
neanche di lanciare l'allarme, di avvertire qualcuno. Aveva soltanto fatto toccare terra al
container, e decine di persone comparse dal nulla avevano rimesso dentro tutti e con una pompa
ripulito i resti. Era così che andavano le cose. Non riusciva ancora a crederci, sperava fosse
un'allucinazione dovuta agli eccessivi straordinari. Chiuse le dita coprendosi completamente il
volto e continuò a parlare piagnucolando, ma non riuscivo più a capirlo.
Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli. Non v'è manufatto, stoffa, pezzo di
plastica, giocattolo, martello, scarpa, cacciavite, bullone, videogioco, giacca, pantalone, trapano,
orologio che non passi per il porto. Il porto di Napoli è una ferita. Larga. Punto finale dei viaggi
interminabili delle merci. Le navi arrivano, si immettono nel golfo avvicinandosi alla darsena come
cuccioli a mammelle, solo che loro non devono succhiare, ma al contrario essere munte.
Il porto di Napoli è il buco nel mappamondo da dove esce quello che si produce in Cina, Estremo
Oriente come ancora i cronisti si divertono a definirlo. Estremo. Lontanissimo. Quasi
inimmaginabile. Chiudendo gli occhi appaiono kimo-no, la barba di Marco Polo e un calcio a
mezz'aria di Bruce Lee. In realtà quest'Oriente è allacciato al porto di Napoli come nessun altro
luogo. Qui l'Oriente non ha nulla di estremo. Il vicinissimo Oriente, il minimo Oriente dovrebbe
esser definito. Tutto quello che si produce in Cina viene sversato qui. Come un secchiello pieno
d'acqua girato in una buca di sabbia che con il solo suo rovesciarsi erode ancor di più, allarga,
scende in profondità. Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell'import tessile
dalla Cina, ma oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui..