Storia di una partita in salita

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Storia di una partita in salita
Storia di una partita in salita
I
Avere i genitori divorziati, divorziati giusto in tempo, perché lei
potesse non soffrirci troppo: a volte i grandi sono davvero
stupidi.
II
Solo una volta aveva provato a dirle: “Ma perché il papà non
può tornare a vivere qui?” E sua madre si era messa ad urlare.
Allora aveva capito che di suo padre non si doveva parlare.
Quasi fosse morto.
III
La sera che sua madre, senza troppi giri di parole le disse: “Che
aspetti? Stasera tuo padre non torna!”. Già sentirlo chiamare a
quel modo, tuo padre, con quel tono, le era parso fuori luogo.
Così la guardava con l'espressione di chi non capisce e aspetta
una spiegazione. Ma sua madre aveva proseguito urlando: “Non
torna, non lo capisci? Ci siamo separati! Se-pa-ra-ti!”
E ognuna di quelle sillabe, scandite a voce alta, avevano avuto
l'effetto di un chiodo che spinto dal martello, con quattro
rintocchi fracassa la corteccia, spacca il legno, si fa spazio nella
vena, fino ad invaderla completamente.
IV
E' possibile dimenticare il giorno, l'ora, il momento di quella
tristezza?
L'istante in cui fu graffiata la fronte di Valentina. E il resto,
l'avanzo. Poi che quel graffio andò allargandosi in una linea
capace di farsi crepa, voragine capace di divorare ogni ipotesi
di presente e futuro. Un pozzo talmente profondo, che a volte
piangendo, le parse di cascarci dentro.
V
Poi anche le amiche di sua mamma, ogni volta che venivano a
casa, e le chiedevano ridendo: “Valentina, dicci, ma tu vuoi più
bene alla mamma, o al papà?” E quelle domande: “Ma se la
mamma si risposa? Ti piacerebbe avere un altro papà? E se il
papà si trova la fidanzata?”
VI
Povera Valentina. Se gli altri capissero, se la vedessero bagnare
tutta la federa del cuscino, e sapessero misurare la disperazione,
comprendere quale forza contraria grava sul suo cuore. Ma i
grandi sono distratti, troppo presi dalle loro nullità.
VII
Anche Valentina aveva spesso frignato per ottenere un gelato o
dei giocattoli, ma ora il pianto era diverso. Saliva forte,
improvviso, pensieri di buio, grigio, tutti insieme, d'un tratto la
affollavano. E nella testa suoni, l'eco deformata di parole che si
sovrapponevano come in un nastro rovinato. Un impasto di
sillabe gravi che generava un senso di minaccia. E lei come
imbambolata continuava ad ascoltare perché in mezzo a quel
lamento le pareva di distinguere la parola “papà”. Di sentirla
lontana, e non poterla afferrare nella certezza dell'ascolto. E
quella voce continuava a girare. Tanto da credere di avvertirla
realmente, non nella testa, ma con le orecchie.
VIII
Passarono le settimane, i mesi. La domenica suo padre veniva a
prenderla, ma Valentina si sentiva triste, quasi in colpa, senza
capire. In fondo avrebbe dovuto essere contenta, ma c'era
qualcosa che non andava. Aveva come la sensazione che suo
padre fosse un estraneo.
Con sua madre invece aveva preso le misure. L'istinto l'aveva
portata a vivere in una spazio marginale, senza entusiasmi.
Tutto veniva misurato, le parole, i passi, i lunghi silenzi.
Viveva sotto il prolungato condizionamento dei suoi sbalzi
d'umore, trovandosi spesso a subire rimproveri senza motivo.
Al contrario suo padre pareva più carino, più gentile. Ma lei
non si fidava. Anche perché da tempo il suo cuore covava una
paura, sentiva vicina la possibilità una di quelle domeniche, di
andare incontro a delle brutte sorprese...Soprattutto perché
aveva sentivo sua madre parlare ad alta voce al telefono con
qualche amica, e dire: “Ma lo sai che il mio ex l'hanno visto in
giro con quella o con l'altra?”
IX
Una di quelle domeniche arrivò perfino a desiderare che il
tempo passasse subito, perché voleva tornare a casa, correre in
camera e mettersi a piangere. Ma ci pensò meglio e forse non
voleva neanche quello. E fu allora la prima volta in cui con
forza desiderò morire, sparire, diventare invisibile. Desiderò
essere grande, avere una macchina e scappare. Si promise che
lei mai avrebbe avuto un marito, dei figli. E smise di desiderare
che i suoi genitori tornassero insieme, basta, non le interessava
più. Era arcistufa di subire interrogatori idioti da entrambi: “Ma
la mamma ha un amico? Esce certe volte la sera, e ti lascia dalla
nonna?”. E tornata a casa l'altra dose: “Tuo padre s'è cambiato
la macchina? Dove siete stati a mangiare? La casa era pulita o
disordinata?”
Ma era possibile che nessuno capisse? Capisse che lei soffriva.
Così trascorsero tante, troppe domeniche di Valentina, finché
arrivò a domandarsi chi mai avesse inventato quel giorno. E
confidò alla sua migliore amica delle elementari di voler
chiedere alle insegnanti se lei poteva andare a scuola anche la
domenica. Avrebbe fatto di tutto per liberarsi da quella
tristezza . E anche da quella di dover ascoltare il lunedì tutti i
racconti felici dei suoi compagni.
X
Quanto vale una vacanza d'estate, al mare, assieme al proprio
papà e alla propria mamma, stando seduti sul sedile posteriore
dell'auto, osservando tutto e tempestandoli di domande su ogni
cosa? Sono cose a cui si può rinunciare? In cambio di cosa?
Dietro quale promessa qualcuno potrebbe chiederle di smettere,
di non piangere. Potrebbe capire? Razionalizzare quello che le
sta accadendo? Si potrà mai chiedere ad un bambino di
accettare e comprendere che i grandi sono vigliacchi? Chi si
prende la responsabilità di dirglielo? Qua non è in gioco la
veridicità di Babbo Natale, ma dell'essere umano, degli adulti,
dei genitori che ogni giorno non fanno altro che produrre paure,
debolezze, errori. Si può pretendere che Valentina capisca che
l'amore non esiste, o finisce?
XI
Povera. Provate a guardarla lì seduta, inchiodata al suo banco di
scuola. Osservartela mentre il suo sguardo s'incanta come il
rullo di uno stonato carillon che ripete sempre la solita triste
manciata di note.
XII
Troppo era cambiato. Si era perfino resa conto che mentre lei
raccontava della scuola, sua madre, pareva distratta, quasi
scocciata. Che non le importasse nulla. Ormai era alle medie, e
di cose, in classe ne succedevano parecchie. Anche cose nuove,
strane, che avrebbero richiesto qualche spiegazione. E anche lei
stava cambiando, il suo corpo cresceva a vista d'occhio, il
mestruo, i peli pubici e tutto il resto. Ma neanche questo servì a
ridurre la distrazione dei suoi genitori. Al contrario, giorno
dopo giorno si sollevò un invalicabile muro d'imbarazzo.
Pomeriggi da sola, chiusa in casa ad ascoltare la musica. Con
l'anima che cavalcava grosse onde di rabbia e frustrazione. Tra
l'odio verso sé stessa, il non piacersi, e la mal sopportazione di
tutto il resto. Con lo spirito segnato da un profondo disfattismo
che non le permetteva di porre entusiasmo in alcunché. Solo
rabbia e schifo. Tutto le faceva schifo, soprattutto la felicità
altrui. La trovava odiosa, melensa, non capiva che razza di
motivo avessero per essere felici. Quando tutto era un gran
merdaio, fatto di gente stupida, falsa e ignorante. Per fortuna
c'erano i libri, la musica metal ed un paio di amiche. Tanto
quella scema di sua madre, inspiegabilmente, così dal nulla, si
era messa a fare corsi di ballo, andava al cinema, e a volte le
stressava pure l'anima per mandarla a dormire dalla nonna.
XIII
Immaginiamoci una stanza in assenza di qualsiasi attrito,
lanciamoci dentro una palla di gomma che rimbalza, e
chiudiamo ermeticamente la porta. Ecco, questa è la metafora di
quel che fu l'adolescenza di Valentina. Anni di capriole,
insicurezze, difficoltà di capire da che parte fosse il giusto e da
quale altra il suo contrario. Le sigarette, le feste, il primo sesso
senza capire, le litigate con i professori, con le compagne di
scuola, gli affanni di chi non ha sogni e quella palla, emblema
della sua incurabile rabbia, che continua a girare, rimbalzando
all'impazzata.
XIV
Dopo qualche anno il Liceo, dove manteneva un costante
atteggiamento di scetticismo e strafottenza verso tutto e tutti,
docenti compresi. Era la sua rivincita verso gli adulti. Si
comportava in maniera insolente sapendo che a casa, sua
madre, l'aveva posta in un sistema di ricatti. Così si esercitava
costruendo per ogni insegnante corollari di sfottimenti. Diceva
che i professori erano solo una massa di falliti, repressi ed
insoddisfatti. Che la maggior parte degli adulti lo sono. Perché
al Sistema fa comodo così. E s'infilava in ogni polemica. Le sue
vittime preferite erano i compagni maschi. Adorava attaccarli
per come si vestivano, distruggendo tutta la sottile sicurezza di
cui andavano fieri. Senza nessun imbarazzo parlava liberamente
di sesso, facendo battute, allusioni. Internet le veniva in aiuto, a
casa scaricava di continuo film porno. E poi andava dai suoi
compagni dicendo di smetterla, che erano solo degli impotenti
incapaci. Era tanto esagerata da risultare finta. Finta come un
cane che abbaia a chiunque passi, così indistintamente, sapendo
di essere protetto dalle sbarre di quel cancello che vorrebbe far
credere essere l'impedimento alla sua violenza.