Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio

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Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio
D.
D. sta andando a lavoro. Mentre cammina lungo lo stesso percorso di ogni giorno non vive momenti
in cui progetta o in cui ricorda, si lascia oltrepassare dalle ore, dai giorni, da ciò che accade intorno,
non trattiene né uno sguardo né una notizia. E' un gruppo organizzato di ossa e muscoli per
muoversi lungo tragitti conosciuti, casa lavoro bar, e a lui va bene così, non sa dove trovare stimoli
per impegnarsi di più e, comunque, se lo sapesse li eviterebbe.
Negli anni che gli rimangono da vivere festeggerà il compleanno e il Natale con una birra in più,
accompagnerà Tatiana dal parrucchiere e nel frattempo si farà una partita a biliardo con M., il suo
migliore amico.
Adesso è serbo, qualche anno prima era jugoslavo, è probabile che tra un decennio sia del tutto
europeo. Qualsiasi cosa faccia di lui la Storia, D. è certo di seguire le masse: hanno sempre ragione
e poi decidono alla svelta. Lui s'impegnerà a seguire la loro scelta tanto, per quel che ne sa, il
mondo non ascolterà certo il parere di D.
“Un giorno – ha gridato un militare l'ultima volta che era a un comizio – Quando vi volterete a
guardare il passato, vi emozionerete a pensare a come, grazie al vostro impegno, la Serbia è arrivata
così in alto! Guardate la persona accanto a voi, fissate i suoi occhi, prendetele la mano e tutti
insieme conquistiamo la Jugoslavia!”.
D. non ha dimenticato una parola di quel messaggio, ricorda ancora i suoi indumenti, il freddo
pungente che faceva e, soprattutto, quanto avesse bisogno di essere indottrinato da chiunque gli
fornisse uno stimolo. L'uomo accanto a lui intanto gli cingeva le spalle come se dovesse fare
attraversare la strada a un bambino; D., senza sforzarsi, aveva trovato la sua guida.
Dal rumore cadenzato di un treno riconosce di essere vicino alla stazione, adesso deve svoltare a
destra e attraversare una rotonda.
Nel momento in cui alza la testa dal marciapiede, riconosce un individuo dall’altra parte della
strada, un commilitone con cui ha fatto la guerra in Bosnia. Ha i capelli castani corti, il viso liscio
senza traccia di barba, come quelli dei manichini, pantaloni scuri e occhi che cercano in ogni modo
di apparire normali, lontani dal passato. Seppure i suoi sensi lo percepiscano come uno sconosciuto,
D. riconosce il suo passo, il suo modo furtivo di guardarsi intorno. Quello sconosciuto gli rende
imprevisto ogni passo lungo lo stesso marciapiede di ogni giorno. Benché la sua vita si interrompa,
D. riesce ancora a camminare perché l’ha imparato da piccolo. Il respiro intanto si fa affannato, non
credeva che i suoi polmoni potessero essere così flessibili, non immaginava neppure che la vista di
quello sconosciuto potesse restituirgli una vita che voleva dimenticare.
Dopo cinque minuti riconosce la porta del suo ufficio, entra. Dice Buongiorno, appena vede i suoi
colleghi poi si mette subito a lavoro. E' finito l'inchiostro nella stampante, esco a comprarlo,
esclama dopo un'ora, in modo da concentrarsi al più presto su qualcosa visto che ha già catalogato
tutte le fatture. Preparo gli ordini per la prossima settimana, propone, appena il suo capo torna dalla
riunione, almeno evita di discutere con lui di qualsiasi argomento. Sa bene che se non si piena di
lavoro, se la sua mente non è occupata, il passato torna a percuoterlo. Ogni mansione che svolge è
un motivo in più per cacciare lontano il commilitone e dimenticare la donna bosniaca che hanno
violentato fino a non farla più alzare dal materasso e essere invece un normale impiegato, uno dei
tanti, che popolano il mondo.
Improvvisamente si sente sporco, di uno sporco impossibile da mandare via, impuro, un uomo che
non si merita nessuna grazia. Vorrebbe passare mesi sotto una doccia, indisturbato; si rammarica per
non aver fatto colazione più lentamente, così avrebbe evitato quello sconosciuto e con lui tutti
questi pensieri. Rimpiange la giornata anonima di ieri.
Ogni scrivania gli sembra una trincea, ogni penna un coltello a serramanico, evita il contatto con i
colleghi, nei momenti in cui non ha niente da fare cerca rifugio in bagno.
Il pomeriggio è una continua battaglia con sé stesso, più si sforza di dimenticare il suo passato
pensando ad altro e più è ostaggio di ciò che ha commesso; è talmente distante dal suo lavoro che
quando gli capita di prendere in mano un documento non ha neppure la forza di lasciarci le
impronte.
Poco prima di indossare il giubbotto per andarsene dall’ufficio, il commilitone ricompare nella sua
testa. “NO!” urlano i pensieri di D., tanto che aggiunge un altro “No” stavolta più basso, di fronte ai
suoi colleghi, allibiti, che non l’hanno mai sentito gridare da quando lavora lì. Poi spegne il
computer e come tutti i giorni li saluta.
Quando è sul marciapiede alza il colletto del giubbotto e prende per il suo bar. A ogni passo non
riesce a ricordare se quella mattina ha lavorato oppure è stato in guerra in Bosnia. Nonostante
ricordi il fax che ha ricevuto, sente chiaramente le grida strozzate di chi ha perso per sempre un
affetto o un braccio.
“Sembri un fantasma” dice il barista sorridendo, poi gli versa un bicchiere di rakja.
Per non essere inghiottito dallo sconosciuto D. risponde subito, “Sarà l’influenza” poi si toglie il
giubbotto. Non riesce a capacitarsi che un semplice istante abbia squarciato irrimediabilmente i suoi
pensieri, quel taglio provocato dallo sconosciuto gli sembra già irreparabile.
Quando entravano nelle case dei musulmani bosniaci si servivano da sé, sia che volessero bere,
mangiare, pisciare o scopare. In questo bar, che frequenta da anni, che ha le luci basse e un juke box
americano, se ha bisogno di qualcosa deve prima chiedere il permesso al gestore.
Dopo un minuto, come ogni sera, arriva M. Si salutano con un cenno del capo e iniziano a bere
insieme.
“Lo vuoi un cane ? - chiede M. - mi farà sette o otto cuccioli, anche di più, quella bastarda!”.
Quando il commilitone torna nei suoi pensieri, D. tira un pugno sul bancone.
M. si scosta poi esclama con un mezzo sorriso, “Esatto! E’ una bastarda. Chi li sfama poi tutti? Ci
fosse un'altra guerra contro quei culi neri di bosniaci ce li manderei…”.
“Un altro!” dice all’improvviso D. al barista.
“Se trovo il cane che me l'ha messa incinta lo sgozzo”.
D. annuisce.
“Stavolta lo marco io il territorio! E chi l'oltrepassa muore in gabbia sotto il sole - M. sorride
compiaciuto poi aggiunge rivolto al barista - un altro anche a me!”.
D. sa bene che anche M. durante la guerra, ha commesso crimini indicibili, quando ne parlavano li
raccontava sempre con un ghigno sulle labbra. Vorrebbe avere la sicurezza del suo amico invece
l'incontro con lo sconosciuto lo sta' stringendo in un angolo. Bevono ancora e parlano di calcio.
“Non è più come una volta - dice M. - adesso allo stadio vengono solo fighetti. Non succedono più
scontri! Tu quando torni?”.
“Non lo so “ taglia corto D.
“Sono tutti froci - commenta M. - Non saprebbero ammazzare un cane e neppure un musulmano”.
“Già” dice D. ricordando che un giorno, vicino a Sarajevo, nel quartiere di Gbravica, sparò a un
cane che aveva in bocca un avambraccio con mezza mano. Era una scena che gli dava fastidio e lui
la cancellò. In quel momento poteva decidere il destino degli animali e delle persone.
“Più che froci sono dei pentiti del cazzo - brontola M. - Si rammaricano se passano una notte al
fresco. Alla prima domanda spifferano tutto! Infami di merda!”.
“Eh lo so...” borbotta D.
“Dobbiamo cancellarli da Belgrado. Ecco cosa dobbiamo fare!”.
“Sì... cancellarli”.
“Fosse per me saprei come fare. Mi basterebbe una notte con il vecchio gruppo. Ricordi? Noi sì che
facevamo giustizia”.
“Ricordo”.
“Oggi non ci sono più ideali, ognuno crede a ciò che vuole, non c'è più un'idea comune, nessuno
s'impegna a fare qualcosa di più. Non credi?”.
Per ogni minuto che passa a bere con M., D. sente che il commilitone lo osserva dal giardino
pubblico dall'altra parte della strada, senza farsi notare. Non riesce ancora a credere che le
sembianze di quell'uomo abbiano cambiato il corso della sua giornata. Si chiede dove cazzo è finita
la sua tranquillità! Possibile che il suo carattere non avesse fondamenta profonde? Possibile che la
semplice vista di un commilitone abbia scardinato la sua giornata?
Quando lui e M. si alzano, D. sa già che quella sera, dovrà fingere a Tatiana di essere quello di ieri,
non ha scampo.
“A domani” gli dice M.
“A domani”.
“Magari domani ci facciamo un biliardo con qualcuno del gruppo per ricordare i vecchi tempi. Che
ne dici?” suggerisce M.
I due si osservano più del solito. Nello sguardo di D. grandina acqua scura, per non bagnarsi M. fa
un passo indietro.
“Cosa hai?” gli chiede M.
“Dice che ha l’influenza” risponde il barista dietro di loro.
Quando frequentavano l'Università Nis di Belgrado, D. e M. si osservavano e in meno di un attimo,
correndo, si passavano la palla precisa sui piedi. Erano i calciatori più forti, il dieci e il nove. Poi ci
fu la guerra che ha spaccato in sette la Jugoslavia e le grida di quella donna bosniaca mentre veniva
violentata.
“Vado” annuncia D. osservando il bicchiere vuoto sul bancone.
“Fatti una doccia calda...” gli dice M. prima che sbatta la porta.
Dopo un attimo D. è sul marciapiede che si trascina. Con gli occhi cerca di anticipare gli angoli
delle strade per non essere sorpreso di nuovo da quello sconosciuto. Inizia a pensare di aver visto un
fantasma; possibile, si chiede ancora, che quell'istante mi abbia rovinato il presente? Possibile che
sia solo una maledizione mandata da quella donna musulmana?
Giunto a casa entrano insieme e chiudono la porta con la stessa mano destra. D. sente che il
commilitone ha preso possesso anche dei suoi piedi e dei suoi occhi. Siamo un corpo solo adesso,
dice D. a se stesso, poi si chiede: riuscirò a non dargli ascolto?
Si getta sul divano e si prende la testa tra le mani, si sente così appassito che può solo sperare nella
medicina, in una pasticca, se mai esistesse, in grado di rimediare al suo passato.
Quando si muovevano in branco, erano l'élite dell’esercito serbo, pronti a prendersi tutta la
Jugoslavia. Allora D. ignorava cosa fosse il pentimento, immaginava che la guerra fosse una
condizione di normalità che l'avrebbe accompagnato ogni giorno della sua vita fino all'ultimo.
C'è solo una Storia: la riscossa del popolo celeste, il popolo serbo, lo ripetevano ogni ora alla
televisione serba e ogni serbo, concludevano, è chiamato a difendere la propria patria. Una litania
che è riuscita a trasformarlo in un soldato. Il vortice della propaganda l'ha sollevato come una foglia
secca e adesso, con tutto il suo peso, sta ricadendo sull'asfalto.
Quando Tatiana entra in casa, D. è dispiaciuto di non essere caduto in un sonno profondissimo, in
un abisso; da solo, sforzandosi in qualche modo, avrebbe sopportato lo sconosciuto ma in due
diventa tutto più complicato. Tatiana, se mai fosse stata arrabbiata con i musulmani bosniaci, non ha
mai tradotto in pratica la sua rivalsa, lui invece sì, per anni, ogni giorno della guerra. Se sotto le
coperte questa differenza non si vede, adesso, in una sera qualsiasi come oggi, D. ha paura
d'incontrare un abbraccio di lei.
Passano i minuti, ognuno fa ciò che è abituato a fare quando è in casa con l’altro: D. guarda la
televisione mentre Tatiana prepara la cena.
Hanno riso fino a piangere, l’altro mese, quando Belgrado si è gelata e loro sono scivolati sul
marciapiede sotto casa insieme a tutta la spesa. Si arrabbiano e vanno in tilt quando il vicino, un
mezzo pazzo reduce di guerra, ascolta ad alto volume musica heavy metal.
Più tardi D. riesce a mettersi a tavola solo perché conosce la strada per la cucina.
“Ho la pelle del viso irritata per via del vento” dice Tatiana cercando conforto.
D. annuisce, tenta un mezzo sorriso ma le sue labbra non rispondono.
“Oggi è stato freddo” prosegue Tatiana.
“Sì” borbotta lui.
“Tu non l'hai sentito?”.
“No. Sì, poco”.
“Ho avuto mal di testa tutto il giorno”.
“Mi dispiace”.
“Potresti consolarmi...”.
La prigione che D. aveva costruito intorno al suo passato è crollata, le macerie non gli permettono
di parlare. La vibrazione continua del vecchio frigorifero è la loro unica compagnia.
La sua compagna smette di masticare, “Sei distante – gli dice – cosa hai?”.
“...io?”.
“Sì, tu. Sei spento. Cosa è successo a lavoro?”.
Oggi, adesso, una settimana prima di compiere quarantacinque anni, D. comprende che la sua vita
scorrerà all'indietro, non più in avanti, capisce che è inutile che s'impegni: è risucchiato, è l'inizio
della sua condanna. L'unica certezza che ha è quella di essere un perdente, altrimenti, come in
guerra, avrebbe impugnato un'arma e cambiato il contesto.
“Insomma – domanda Tatiana – Con chi hai litigato?”.
Devo parlare, riflette D., devo dire le cose come stanno altrimenti mi scoppiano dentro.
“Tesoro, mi ascolti...?”.
“Stamattina ho visto un uomo, insieme abbiamo stuprato una donna musulmana”, con un gesto più
veloce dei suoi pensieri D. si porta una mano sulla bocca, vorrebbe saldare le sue labbra e tornare
indietro nel tempo. In un istante comprende che non potrà mai più rimediare la sua frase, in poche
parole: è stato un fesso.
“Cosa?!” chiede Tatiana.
D. posa il coltello, “Ho stuprato una musulmana” ripete.
“Tu... cosa?”.
“Io Tatiana, l'ho fatto”.
Lei l'osserva immobile mentre la loro storia, nonostante la confessione, prosegue. L’urlo negli occhi
di D. le proibisce di parlare. Dopo un attimo lui si alza e va in camera. Tatiana fa per seguirlo ma
poi rimane a sedere, il messaggio che gli ha scaricato il suo compagno pesa sempre di più, ogni
istante che passa.
Durante la notte lei non dorme, ogni secondo che passa è un pericolo scampato, teme che D.
racconti altre atrocità commesse quando era un soldato.
A pochi centimetri da lei, con gli stessi occhi aperti, D. conclude che nella vita ha sempre fatto
scelte sbagliate. Ha scelto un istituto tecnico quando invece si sentiva più portato per un liceo, ha
scelto il basket quando invece era uno dei più bravi calciatori della scuola, ha scelto la guerra
quando poteva rifiutarla.
Potrebbero essere in due bare invece che nel letto, tanto sono immobili con l'espressione ingessata.
Non avrebbero mai creduto di passare una notte così lenta.
I pensieri di D. sono netti: se ho fatto ciò, se l'ho legata e umiliata, significa che lo volevo fare,
questa è l'unica conclusione a cui riesce a giungere. Preferisce la logica piuttosto che spremersi per
cercare altre soluzioni.
Accanto a lui invece, Tatiana ha mille sfumature nei pensieri: ipotizza che il suo compagno fosse
sotto l'effetto di droghe, immagina che, in parte, la donna fosse stata consenziente.
Quando spunta il primo raggio di sole sono ancora lì, immobili, alle prese con i propri pensieri.
Prima di svegliarsi D. fa un'ultima riflessione: prima della guerra gli piaceva andare al cinema, non
mancava mai durante i fine settimana; perché, si chiede, tornato dalla Bosnia non è più entrato in
una sala? Mentre la domanda rimane sospesa un presentimento lo assale: se non chiudo il cerchio
con quella donna musulmana e con lo sconosciuto non potrò espiare la mia colpa.
La mattina successiva D. non va al lavoro. Si ritrovano in cucina a bere il caffè. Lui non avrebbe
mai creduto di arrivare a questo punto, vorrebbe salvarsi ma non sa come.
“E’ come se avessi vomitato - le dice D. all’improvviso, senza osservarla – Non sono riuscito a
trattenermi, ma non sto meglio”.
“Adesso la guerra è finita, la Jugoslavia è morta” gli dice lei.
“La Jugoslavia è morta” ripete lui dopo un attimo.
“Prima non distinguevi le chiese e le moschee dai castelli – mormora Tatiana - Eri solo una pedina
che è stata spinta da altri”.
“Non dovevo cadere!”.
“Ti hanno spinto!”.
“Hanno spinto tutti Tatiana, ma alcuni si sono rifiutati!”.
“Non potevi farci niente, se aprivamo il rubinetto dell'acqua usciva l'aria, se accendevamo la luce
rimanevamo al buio, lo capisci? Vivevamo in un paese allo sbando, era facile convincere le persone.
Non tolleravamo neppure che i bosniaci respirassero, era colpa loro per tutto quello che succedeva,
anche se pioveva. Dalla televisione gettavano fango su di loro ogni minuto! Quelle palate ci hanno
sommerso”.
“Non hanno sommerso tutti Tatiana. Non posso perdonarmi. Sono un debole, questa è le verità”.
“Senti, stai calmo, tutti gli eventi hanno due punti di vista. Vi sentivate con le spalle coperte,
l'Europa invece di fermarvi se ne fregava”.
D. scuote la testa, sa bene che la guerra ha riempito i suoi giorni lacunosi, “Ho sbagliato - dice,
dopo una pausa ripete – Ho sbagliato! Ho sbagliato!”.
“Tu non ti perdoni mai, non è nella tua natura – Tatiana fa un lungo sospiro - Ormai ti conosco”.
“No, non mi conosci Tatiana, quella donna potevi essere tu”.
Per qualche secondo non parlano poi D. prende la parola, “Eravamo in un villaggio alle porte di
Tuzla. Ogni giorno penetravamo in territorio bosniaco per chilometri. A me e a un altro
commilitone, quello che ho visto ieri per strada, di cui non ricordo neppure il nome, avevano
affidato un condominio da controllare… cioè da setacciare alla ricerca dei nemici, di musulmani.
Quando arrivammo al terzo piano, entrammo in un piccolo appartamento e per caso, dentro un
armadio, trovammo nascosta una donna. La violentammo tutto il giorno, per ore”.
Per lo shock l'espressione e il cuore della sua compagna si contraggono. D. prosegue, “Era
un’usanza, capisci? - alza il tono - Allora non c'era un prima e un dopo lo stupro, era un tutt'uno con
la guerra”.
“E' passato tanto tempo...” improvvisa Tatiana.
“Non c'entra niente il tempo! - esclama D. - Perché vuoi convincermi?”.
“Perché ti amo”.
E’ mattina ma attendono entrambi che il giorno finisca. Vorrebbero essere sommersi dalla pioggia,
chiamano l’apocalisse, ma fuori il cielo di Belgrado è limpido, D. si alza ed esce di casa.
All'improvviso, mentre cammina, una sensazione lo coglie di sorpresa: non percepisce il suo pene.
L'arma che era stato un tempo adesso è un inutile prolungamento del suo corpo.
“Scopala! Avanti! - gridava lo sconosciuto – Sono solo un popolo arretrato! Forza, scateniamoci!”
ogni frase come questa era il vangelo di D. ma nonostante tutto, in fondo al suo cuore, non sa
ancora come abbia potuto convertirsi.
Possibile, si chiede, che fosse così fragile da credere a qualsiasi cosa gli dicessero? Possibile che
non abbia la stoffa del criminale? In tal caso non avrebbe neanche la stoffa dell'uomo normale,
purtroppo lo sa bene, altrimenti avrebbe proseguito a vivere come ha fatto negli ultimi anni dopo la
guerra.
“Ti sei beccato l'influenza?” gli chiede il suo capo quando lo vede comparire dopo pranzo.
“Ecco le mie dimissioni”. D. vorrebbe raccontargli cosa è stato capace di fare a quella musulmana e,
se necessario, ripetergli le grida che udiva, ma il suo capo conosce bene la guerra. Il fatto è che
nessuno è così stupido come lui da riconoscere le proprie colpe.
“Le dimissioni?”.
“Sì, tieni”.
“Ma cosa stai dicendo?”.
D. non riesce a dire una parola, allora scuote la testa. Non saprebbe come spiegare che la sua vita si
è rimpicciolita fino ad avere le sembianze di quella donna musulmana.
“Andiamo dai… sei sempre stato disciplinato… cosa ti è preso? Qualcosa non va con Tatiana? Se è
per quello ti do due giorni di ferie per andarvene a sciare, così fate pace e tutto si risolve”.
D. pensa alle Alpi Dinariche in cui ha sciato durante l’adolescenza, vicino a Prokletije, ci andava
con gli amici per sfuggire ai fine settimana noiosi con i suoi genitori e i parenti. Adesso che ci
pensa, ricorda che allora aveva amici di etnie diverse. Quando si dividevano i letti a castello lo
facevano in base alla squadra di calcio per cui tifavano. Allora passava le giornate con i suoi amici,
dalla mattina alla sera, oggi invece si sente un cane sciolto
“Ho capito, un altro ufficio, stesso orario paga più alta”.
“No, non è quello”.
“E allora cosa? Malumore con qualche collega?”.
D. sa di non poter più sintonizzarsi sulla sua falsa normalità, non riesce a parlare, non avrebbe mai
immaginato un terremoto che avrebbe raso al suolo il suo presente. Non avrebbe mai neppure
pensato che uno sconosciuto, in un istante, come un fulmine giunto dal cielo in una giornata serena,
gli avesse cambiato la vita irrimediabilmente.
“Vuoi cambiare classe sociale? - gli chiede il suo capo - Certo, non è proibito. Se il sabato preferisci
fare i picnic invece di lavorare...”.
“Non ce la faccio più...”.
“Mi vuoi spiegare cosa ti succede? Non sei più lo stesso, sembra che in ventiquattro ore la vita ti
abbia cancellato il sorriso”.
“Addio” dice D.
“Ascolta… - il suo capo si alza in piedi - Posso vedere di migliorarti le cose qua…” ma prima che
finisca D. fugge via, scende le scale di corsa e quando arriva sul marciapiede respira a pieni
polmoni, come se avesse appena finito una maratona. Riprende a camminare soltanto dopo cinque
minuti. Non fa in tempo a chiedersi cosa farà quella donna bosniaca oggi per sopravvivere che urta
una carrozzina sul marciapiede. Il bambino si sveglia e inizia a piangere senza sosta, la madre che
lo spingeva lo osserva come un colpevole. Tutti i passanti li scrutano, decine di sconosciuti
osservano gli occhi persi di D., lui per un secondo abbassa lo sguardo sulle lacrime del bambino, il
tempo di non sopportare le sue grida poi se ne va a passo spedito.
Appena arriva a casa si siede sul letto. Passano i minuti, cerca di stare calmo e di non urlare. Spera
di non scagliare lo stereo grigio ai vetri della finestra davanti a lui. Tenta di mantenere un dolore
preciso, circoscritto alla violenza che ha commesso e non a tutto ciò che lo circonda. Ma non ci
riesce perché è come se avesse violentato anche la sua vita.
Mentre prepara lo zaino per andarsene in cerca di quella donna musulmana D. riflette sul prima e
dopo la guerra. Quando lui era un ragazzo, se capitava di tagliare la strada a qualche bosniaco, o di
non restituire un prestito a un croato, si potevano urlare delle offese, oppure scambiarsi due schiaffi,
lo stesso capitava se era in debito un serbo. Durante la guerra che ha diviso la Jugoslavia, quando
nessuna legge era valida, si sfondava la porta di casa di chi in passato non ci aveva rispettato, si
uccidevano i suoi affetti e poi si torturava il colpevole.
Ecco, conclude D., a cosa serve la guerra: permette agli adulti di tornare bambini, grazie alla guerra
non esiste più legge e quindi tutti i comportamenti sono ammessi. In pratica: è la migliore
scorciatoia per esaudire i propri scopi.
Quando Tatiana torna lo trova in cucina con la testa tra le mani, “Ti ho pensato tutto il giorno” gli
dice.
Si osservano, D. chiede, “Perché mi succede questo?” non vorrebbe rivolgersi a lei, ma se parlasse
alla parete bianca del salotto è certo che Tatiana lo prenderebbe per pazzo.
“Dio aiuta, prega per quella donna” suggerisce Tatiana sussurrando la frase.
“Dio e la guerra sono cose diverse!”.
“Ho paura di perderti”.
“Sono io che ho paura di perdermi! - le urla D. poi aggiunge più calmo - Andava tutto così bene,
non mi ricordavo di niente! Il punto è che non sopporto la mia colpa, lo capisci!?”.
“Ascolta, puoi richiudere le porte dell'inferno se...”.
“Non voglio richiuderle!”.
Il loro condominio tace, tutta Belgrado li ascolta. D. vorrebbe tornare al momento in cui i suoi occhi
hanno messo a fuoco quello sconosciuto, ma pur sforzandosi una nebbia tra i suoi pensieri gli
impedisce di rivivere quel momento. Che sia tutto frutto della sua immaginazione? Si chiede ben
sapendo che, in realtà, ha davvero stuprato quella mussulmana. Possibile, si domanda ancora, che
quello sconosciuto abbia girato in lungo e in largo per anni con il solo scopo di trovarmi e lasciare
che i miei pensieri mi torturino? Anche questa gli pare un ipotesi inverosimile.
“Guarda di risolvere questo periodo e tornare ad essere la persona di sempre – dice Tatiana –
Prenditi tutto il tempo che vuoi ma non morirci. Voglio dire, non l'hai uccisa, gli hai fatto del male,
certo uno dei mali peggiori per una donna ma, se avesse dei figli, può ancora guardarli negli occhi”.
“Se non risolvo la faccenda non vivo più”.
“Non sei un criminale” esclama Tatiana.
“Lo sono! Tu non sei quella donna! - grida D. - Quella donna è distrutta!”.
“Non lo sei - lo interrompe Tatiana - Ti conosco, c’era la guerra”.
“La guerra c’era per tutti gli jugoslavi ma solo alcuni si sono trasformati in criminali. E io sono tra
loro!”.
“Ascolta...”
“Ho ascoltato troppo, fino a quando non mi hanno convinto! Eravamo un branco di pecore o forse
lo ero solo io”.
“Eravamo tutti oppressi, ci convincevano con raffiche di informazioni. Mi dispiace per quella
povera donna, mi chiedo come si può sopportare un'offesa del genere... Ma se condannassimo tutte
le persone influenzabili perché da un momento all'altro possono cadere nella trappola della guerra
allora avremmo le carceri piene!” Tatiana si porta le mani sugli occhi e scuote la testa.
D. respira profondamente, “Non si sono salvati solo i sordi e i bambini, ci sono anche uomini che
non hanno creduto ai proclami, uomini che avevano capito il bluff”.
“Erano pochissimi”.
“Erano abbastanza e io non ero tra loro!”.
È inutile che discuta con Tatiana, dice D. a se stesso, lei non capisce, lei non ha sentito la puzza
della guerra, la puzza delle stanze di tortura e poi, conclude, seppure a distanza di anni quello
sconosciuto mi ha restituito un senso di umanità che avevo dimenticato.
“Cosa vuoi fare adesso?” chiede Tatiana.
“Non lo so. Sarà quella povera donna a dirmelo”.
“Stai scherzando?”.
“Tutt'altro”.
Si osservano perché sono uno davanti all’altro, ma entrambi hanno negli occhi un futuro vuoto.
D. fa qualche telefonata per capire se esiste un centro di recupero per le donne vittime di violenze
durante la guerra, si sente completamente ridicolo mentre pone la domanda.
La voce, dall’altra parte della frontiera, gli fornisce il nome che cerca, “E’ il centro Save the
women, è all’interno dell’ospedale di S. Lei è un giornalista?”.
D. e la voce che gli ha riposto sanno che nessuno cerca l’inferno, ma lui deve andarci, a ogni costo.
“Sì - conferma - sono un giornalista”.
“Lo immaginavo, qui non viene nessun altro, nemmeno i parenti o gli amici”.
“Capisco...”.
“Eh lo so che voi capite, i vostri giornali fanno servizi sulle violenze e chi legge gode del pericolo
scampato, ma si diverte a capire cosa succede quando capita agli altri”.
“Questo non lo so”.
“Mi dica allora perché il suo giornale la manda proprio in questo buco, ci sono milioni di eventi al
mondo di cui parlare e voi scegliete proprio questo girone infernale, perché? L'ultimo mi ha risposto
che era un caso che fosse mandato lì... mi ha fatto ridere”.
“Mi scusi ma adesso devo andare...”.
“Vada, vada”.
Ecco cosa ha combinato in guerra insieme allo sconosciuto: ha creato una donna, o peggio ha
contribuito a creare un gruppo di donne, utili per scrivere articoli che fanno drizzare la pelle a lettori
che cercano emozioni forti. L'indotto che ha prodotto la sua violenza lo sorprende.
D. va in camera, apre l'ultimo cassetto dell'armadio, alza le mutande poi sposta una busta dove tiene
alcune foto di quando era un bambino e prende un quaderno nascosto nell'angolo. Rimette tutto al
suo posto poi si siede sul letto e lo sfoglia. Ci sono rimaste tre pagine, solo tre, le altre sono tutte
strappate, bruciate, lontane. D. lo richiude. Nella copertina c'è il disegno di un cartone animato, è un
quaderno per bambini. Vorrebbe calpestarlo, gettarlo nell'immondizia, strapparlo in cinquanta pezzi,
ma non può, si tratta del cordone ombelicale che lo lega a quella donna, purtroppo sa bene che
quell'inchiostro non mente.
“Non fatemi questo! - gridava – Non fatemi questo! Ammazzatemi! Aiuto... qualcuno mi aiuti!”.
Mentre non sopportava quel tono D. era certo che la donna si sarebbe uccisa entro ventiquattrore, è
probabile che oggi non la trovi nemmeno più in vita, Tatiana sarebbe già nell'altro mondo.
Ciò che D. non capisce è come abbia fatto a vivere tutti questi anni con le grida di quella povera
donna musulmana nascoste da qualche parte dentro il suo corpo. Possibile, si domanda, che solo lo
sconosciuto avesse le chiavi delle sue stanze più segrete?
Non è abituato a porsi domande, calcola approssimativamente che se ne è poste più in questi giorni
che nell'anno trascorso e anche su questo punto, lo sa bene, dovrebbe riflette.
D. prepara uno zaino poi abbandona Belgrado e con la corriera si avvia in direzione della frontiera.
Giunto a Priboj, il primo paese fuori città decide di passare la notte alla stazione, così la mattina
potrà prendere il primo treno diretto verso la Bosnia.
Non è una situazione inedita per lui, anche in guerra dormiva all'aperto, solo che in quel tempo gli
spari laceravano il silenzio mentre adesso è il silenzio che lo strazia.
Il treno attraversa campagne dove non c’è neppure un contadino a lavorare nei campi. Alcune case
hanno ancora il tetto distrutto, i cartelli stradali sono pieni di buchi. Dieci anni prima, quando
indossava una tuta mimetica ed era pieno di rabbia inculcata dalla propaganda, D. puntava il suo
kalashnikov verso qualsiasi cosa si muovesse.
“Non pensi mai di trovare la macchina con la ruota a terra quando la mattina ti alzi dal letto e corri a
lavoro - gli diceva sempre il suo superiore - Con la guerra è diverso, devi essere sempre pronto a
tutto”.
Allora annuivano tutti, ricorda D., è probabile che qualcuno sia ancora d'accordo, probabilmente lo
sconosciuto è proprio uno di questi.
“Se non scaricate la vostra rabbia su quella razza di bosniaci, saranno loro a farlo – dopo una pausa
in cui scrutava ciascun soldato riprendeva – Non mi interessa la qualità del vostro lavoro ma la
quantità!”.
Si chiede: perché ero così aizzato da raggiungere l’erezione mentre terrorizzavo una donna
musulmana? Per mettermi alla prova, è la triste risposta che trova dentro di sé. Per sapere dove sarei
potuto arrivare quando venivo chiamato in causa dagli altri, è un’altra risposta che trova setacciando
le sue stanze buie. Rimpiange l'ignoranza di quando riusciva a gestire i suoi ricordi, fare finta di
niente era l'unica soluzione che potesse adottare; allora era forte, oggi è un debole.
Benché sia solo all'interno dello scompartimento, quando prende in mano il quaderno sente gli
occhi di ogni oggetto posarsi su di lui e giudicarlo. Suda. Per un istante i suoi occhi osservano i suoi
indumenti, è vestito ma si sente nudo.
Vorrebbe non avere due occhi che leggono ciò che è stato capace di fare:
Abbiamo sfondato ogni resistenza a Vukovar. Ci siamo presi anche gli aiuti umanitari, eravamo
molto affamati dopo una battaglia del genere, oltretutto i croati pensavano a fuggire piuttosto che
cercare qualcosa da mangiare. Adesso abbiamo la pancia piena come il giorno di Natale. Un
centinaio di tir sono già entrati in città per traslocare le loro ricchezze in Serbia.
Uno spettacolo! Essere padroni in casa di altri è gratificante come una scopata! Non ci ferma più
nessuno!
Alcuni colleghi hanno catturato un croato, un bambino che avrà sì e no dieci anni, era nascosto
dentro la macchina del padre, una Jugo rossa che ha già preso un paramilitare.
“Chiama tuo padre!” hanno gridato a quel ragazzino.
Osservavo la scena da una panchina insieme ad altri.
“Papà! Papà!” si è messo a gridare l'agnellino.
Che ridere!
“Vedi, non viene nessuno a salvarti - dopo un attimo il soldato che lo teneva per un braccio ha
urlato - Adesso ti uccidiamo” e così è stato, con un colpo alla nuca e il sangue che schizzava come
spumante. In un certo senso l'ha aiutato, come prigioniero avrebbe patito di più.
Considerando ciò a cui ha assistito, oggi lo definirebbe uno dei peggiori giorni della sua vita ma,
grazie alla guerra, allora era un giorno normale.
Quando scende all’ultima stazione prima della frontiera vede di fronte a sé condomini e negozi
addormentati, l’ultima volta che c’è passato da soldato invece c’era solo fumo e odore di morte. Le
persone che camminano hanno scritto in fronte lasciami perdere.
“E' quella laggiù la frontiera?” chiede ad un uomo.
L’uomo gli dà le indicazioni che lui cerca, senza perdere tempo D. ringrazia e si incammina, ma
sente che l’altro non si è mosso, allora si volta.
“Che ci vai a fare? - chiede l'uomo - Non li vuole nessuno quelli, per espatriare ai bosniaci
occorrono quaranta fogli, a noi cinque, loro sono condannati al loro spazio, come maiali e polli”.
“Lo so”.
“Anche per l'Europa sono un avanzo di cui non sanno che farsene”.
“Già”.
“Non ci torno dalla guerra – prosegue l'uomo – Ho insegnato a mio figlio a non guardare nella loro
direzione visto che lì non troverà mai niente di buono”.
“Capisco” quell'uomo inizia a stancarlo, se continua a fissarlo negli occhi e a parlargli con quel tono
saccente gli darà un destro nell'occhio e poi un altro mentre è al tappeto. Mentre immagina le
nocche della sua mano piene di sangue riconosce il soldato che è stato per anni, un ruolo che,
evidentemente, porta ancora dentro di sé.
“Sono pieni di armi e droga, ci galleggiano quei bastardi. Faranno una brutta fine, tre etnie in due
stati sono una bomba a orologeria. Vedrai che divertimento!”.
“Peggio per loro” mormora D. riprendendo a camminare.
“Ehi, ti va una birra?”.
“No, bevo da solo” brontola D. senza voltarsi.
“Ho detto qualcosa che non va amico?”.
Ma la domanda dell'uomo non raggiunge neppure gli orecchi di D.
Dopo un centinaio di metri si ricorda che nella zona in cui si trova adesso, insieme ad altri
commilitoni, circondarono un’abitazione. Fecero cinque ostaggi, due genitori, due nonni e un
bambino, tutti bosniaci in territorio serbo. Allora erano cinque nemici pericolosi. Nei loro occhi
vuoti, spenti, intuivano già la fine che avrebbero fatto. Non sono scappati prima perché, è convinto
D., non fiutavano il male, non immaginavano che gli amici o i vicini di casa o i colleghi, si
spingessero fino a questo punto. E i suoi genitori, si chiede D., immagineranno fino a che punto è
arrivato? Chi compie reati in tempo di pace quali atrocità commetterà durante la guerra? Un angelo,
all'interno di un caos in cui regna la violenza, può diventare un diavolo? Preferisce non concentrarsi
sulle risposte, solo porsi le domande gli dà un certo sollievo, come se avesse spinto la sua mente
verso nuove frontiere.
Quel giorno con lui c’era anche un infermiere e un macellaio. L’infermiere prese il vecchio cane
lupo della famiglia e davanti a loro lo sgozzò, poi disse “I vostri violentano le nostre donne… anche
con i cani”.
Sparò in faccia ai due nonni poi conficcò il pugnale nel petto del padre del bambino. Tutto non durò
più di cinque minuti, il tempo di una missione.
Mentre se ne andavano non udirono né i pianti della madre né quelli del bambino.
“Tra qualche anno si impiccherà, avremo un bosniaco in meno - disse il macellaio indicando il
bambino muto e fermo come una pietra - Non potrà sopportare ciò che ha visto”.
Tutti annuirono poi iniziarono una discussione.
“Ne avete visti film di guerra?”.
“Apocalypse now”.
“Io Platoon”.
“Anche di questa faranno un film?”.
“Io sarò… cioè Sean Penn sarà me”.
“Ma se assomigli a un maiale…!!”.
Le risate dopo questa battuta le ricorda ancora, non finivano più.
D. cammina su un sentiero parallelo a una strada asfaltata. Al suo fianco, in lontananza, vede i
riflettori di uno stadio che lui e i suoi colleghi usavano come prigione a cielo aperto. Sotto il sole e
la pioggia, uomini, donne, bambini e anziani si bagnavano e si seccavano, settimana dopo
settimana, e lui li osservava per un turno di guardia, sei ore.
Quando faceva il capo tecnico in una ditta che produceva condizionatori il turno era di otto ore, otto
sedici oppure sedici ventiquattro. Come ciascun dipendente, in guerra o in fabbrica, lui rispettava le
disposizioni. Fin da bambino, che ricordi, è sempre stato uno che segue le regole, senza fare tante
domande.
Da piccolo D. passava i pomeriggi a chiedersi dove lo avrebbero portato le strade che non
conosceva. Ogni volta, con i suoi amici serbi, musulmani e croati, salivano sulla bici e percorrevano
una strada diversa del quartiere. Allora, ricorda, non si veniva discriminati per l’etnia, ma piuttosto
per la bicicletta: se aveva le marce oppure no.
D. riconosce una collinetta dov'era stato mandato in missione. C'era un enclave di musulmani che
non voleva saperne di abbandonare le proprie abitazioni sulla terra serba. Stava spiando un gruppo
di bosniaci, sette ragazzi della sua età. Se si fossero accorti gli uni degli altri sarebbe iniziata una
sparatoria e a quel punto sarebbe stato molto meglio non finire prigionieri.
D. ricorda che i nemici stavano bevendo un liquore direttamente dalla bottiglia, passandosela di
mano in mano. Quando finirono si alzarono tutti e si spostarono in un condominio abbandonato,
diventarono cecchini. D. comunicò via radio la loro postazione.
Solo adesso si sente veramente colpevole della morte di quei ragazzi. Il fatto che anche loro
avrebbero fatto lo stesso con lui non lo consola. Sono uno scheletro, dice a se stesso immaginandosi
come quei resti che ogni tanto, dicono alla televisione, trovano nelle fosse comuni. L’elicottero
spuntò sotto una nuvola come un raggio di sole improvviso, mentre D. lo osservava con stupore il
condominio esplose.
Sette corpi dilaniati sulla coscienza, braccia e materia cerebrale sparsa nel raggio di metri grazie a
un suo comando; eppure, rispetto ai patimenti della donna bosniaca che ha violentato, gli pare che
quei ragazzi siano stati più fortunati. Dopo un secondo si rimangia il pensiero, accorgersi dell'ultimo
istante di vita, immagina, deve essere la tortura peggiore che ogni uomo può sopportare.
D. si siede su un sasso, a ore dodici vede la frontiera, oltre ci sono le colline della Bosnia. Intorno a
lui invece, le foglie e l'erba seguono un vento che soffia dalla Serbia. Come faceva in guerra, D. si
lecca l'indice della mano destra poi l'alza oltre la testa per valutare la forza del vento: leggero.
Qualche anno prima era un vento slavo, adesso è prima serbo poi bosniaco, e lui si trova nel mezzo.
Anche nel microcosmo che conosce meglio, quello dei suoi genitori, si è sempre trovato nel mezzo.
Sua madre ha sempre umiliato suo padre, per tutta la vita, accusandolo di non saper prendere
decisioni, di essere un buono a nulla, di averla presa in giro, vendendosi come uno tutto d'un pezzo,
quando non erano ancora sposati. Salvo poi scoprire che era un muratore avvinazzato incapace di
fare un discorso compiuto durante la cena.
Il sottile legame che lega la sua famiglia alla guerra è chiaro, nitido, sono due drammi che hanno
fatto di lui una vittima. Sia nelle mura domestiche che per strada non ha mai sviluppato un antidoto
al veleno che gli è stato offerto, ne è drammaticamente certo, tanto che ritiene di aver fatto la
scoperta più importante da quando vive: sono nella merda.
Per non pensare ancora si alza e va a mangiare un panino all’ultimo bar prima del check point.
Mentre mastica pensa alle parole con le quali si rivolgerà a quella donna non appena la rivedrà: Ti
ho distrutto la vita, lo so, provo qualcosa di simile, oppure, Sto male, mi faccio schifo, forse tu puoi
aiutarmi. Sa di essere così bravo da costruire altre cinquanta frasi del genere, ma non è ancora
capace di chiederle perdono.
Che cosa mi ricordo di quella donna musulmana? si domanda D. cercando di ricostruirne il volto
nei suoi pensieri. Che aveva, forse ha, i capelli scuri ricci e che urlava come tre neonati quando
invocava Dio. Anche sua nonna, quando i suoi genitori ce lo lasciavano da piccolo perché andavano
a lavorare, chiedeva spesso aiuto a Dio per i suoi dolori alla schiena. Alla bosniaca che violentava
invece, oltre a Dio, le andava bene qualsiasi aiuto potesse ricevere, ma né l’ONU, né la Croce
Rossa, né un angelo bianco l’hanno soccorsa.
D. prende in mano il quaderno. Il giorno dopo gli accordi di Dayton, che sancirono la fine della
Jugoslavia, D. strappò quasi tutte le pagine. Senza la guerra, allora, non sapeva che cosa avrebbe
fatto. Temeva il traffico di auto, i saluti per strada, senza il suo cappello da cetnico si sentiva nudo.
Oggi dalla trincea ho assistito al bombardamento di Visegrad, sembrava una pioggia, mezz'ora di
granate che hanno zittito la città, per sempre. Il giorno prima doveva essere una bella città, piena
di gente, dal parrucchiere o a fare la spesa, ma io ho visto solo le rovine, alcuni piccoli incendi,
qualche cadavere e cani impazziti. Vaffanculo Visegrad, sei nostra!
I paramilitari con asce, motoseghe e cavi elettrici sono partiti in avanscoperta. Dopo dieci minuti
abbiamo sentito le urla delle prime persone sopravvissute. Un concerto. Allora siamo usciti dalla
trincea per sentirli meglio.
Domani non scrivo, avrò qualche ora di riposo, entrerò in un bar e lo svuoterò, già non vedo l'ora.
Se avrò tempo prenderò qualcosa da un museo, dicono ce ne fosse uno di oggetti molto antichi. La
sera se non sono ubriaco prenderò una donna.
Adesso ricorda che aveva un amico croato a Visegrad, si chiamava Zvonimir, figlio di colleghi di
sua madre. Quando lo invitò all'ultimo compleanno gli presentò la sua fidanzata, Sultana, una
musulmana di Tuzla. Lei aveva occhi neri grandi e labbra carnose che rimanevano ovali anche
quando stava in silenzio. Ogni volta che la ricorda D. sente il cuore sobbalzargli. Se lei avesse
lasciato il suo amico lui le avrebbe fatto una corte insistente fino a quando non avrebbe ceduto. Poi
le avrebbe chiesto di sposarlo. In tal caso avrebbe avuto il coraggio di stuprare una musulmana?
Avrebbe avuto una mente così flessibile, ignobile, da giustificare il gesto?
Intorno a lui non c'è un giardino con l'erba curata e neppure traccia di individui seduti su una
panchina a discutere. Non si meraviglia, lui e gli altri soldati hanno svuotato la Bosnia. Il suo capo
prendeva sempre i televisori, X invece aveva la fissa dei telefoni, Z annusava la biancheria intima
delle donne poi le metteva in tasca e Y si prendeva tutte le camicie da uomo. I paramilitari invece le
macchine, gli elettrodomestici e le donne più belle. I comandi che ricevevano erano chiari, nei
luoghi in cui passavano e con i prigionieri con cui avevano a che fare, dovevano lasciarsi alle spalle
più dolore possibile: distruggere tutte le foto incorniciate, defecare sui letti, appiccare incendi,
spogliare i bosniaci e farli sopravvivere in condizioni di nudità e soprattutto rendere la loro nuova
condizione irreversibile.
“Perché è successo a me? Perché sono qui?”, chiese D. al commilitone in un momento di
stanchezza, quando ormai percepiva che la guerra volgeva al termine.
“Perché sei senza carattere!” la risposta si ripeté come un eco nella sua testa. Senza carattere! Per
non mostrare la ferita provocata da quell’affermazione, D. chiese, “E te?”.
“Io sono tra quelli che decidono, tu fra quelli che eseguono”.
Quella risposta lo lasciò senza parole, se avesse potuto avrebbe tagliato, asportato, quella parte di sé
così in balia degli altri.
“Io voglio decidere...”.
“Tu sei sostituibile, ecco cosa sei. I tuoi sogni da realizzare ti vengono suggeriti da altre persone”.
“Non è vero!”.
“E' vero. Io guardo negli occhi i prigionieri, tu no! Io gli dico che moriranno e tu no! A te i
prigionieri dicono di smettere di essere picchiati, a me dicono di fare più piano perché sanno che
non smetterò mai!”.
Nonostante si ricordi il dialogo fa ancora fatica a disegnare i lineamenti dello sconosciuto, i tratti
sono così vaghi che non ha neppure una faccia, un'espressione, con cui prendersela per maledire il
momento che sta vivendo.
Oltrepassa la frontiera in cinque minuti, giusto il tempo di mostrare i documenti. In Bosnia il sole è
coperto dalle nuvole, ma c'è poco da illuminare, ci sono solo tre camion della Croce Rossa che
portano aiuti alimentari.
D. si accorge che ci sono molte moschee sparse per il panorama, tutte uguali, bianche e piccole. In
Serbia, di simile ci sono le chiese. Maledetta religione, pensa. Capelli scuri, capelli biondi, i
bambini corrono, i pochi adulti no, come in Serbia, identico.
Un tempo, ricorda, su queste persone l'artiglieria lanciava un razzo ogni sei minuti, i musulmani ne
intercettavano uno ogni quaranta minuti, lui doveva assaltare proprio quelle postazioni antimissile.
C'è ancora del filo spinato attaccato a un albero, sul lato destro della strada, sarà lungo dieci metri,
arriva fino a un cespuglio. Chi toglierà quella traccia di guerra? Forse il tempo con le sue
intemperie? Oppure un uomo di buona volontà?
Entra in una piazza alle prese con un piccolo mercato improvvisato. Ci sono sette o otto bancarelle
la cui merce, tutta insieme, non riempirebbe il tavolo della sua cucina. D. è circondato da
musulmani che sembrano a disagio tra quella poca frutta e da cani randagi che spiano l'unico pezzo
di carne esposto.
Si mette una mano in tasca e impugna quel che è rimasto del suo diario di guerra. Per fortuna c'è
l'ultima pagina poi i musulmani e i serbi spariranno anche da quel quaderno.
Stanotte tra le prigioniere musulmane ne abbiamo scelte due per i caschi blu. Abbiamo preso le
migliori, quelle più alte con i capelli lunghi poi abbiamo ordinato loro di lavarsi. Adesso abbiamo
due kalashnikov e trecento dollari. In culo all'ONU.
Alcuni giornalisti olandesi, cercavano bambini messi male, ci hanno detto che i bambini
commuovono, volevano fotografarli per i loro giornali. Gli abbiamo portato un musulmano orfano
senza le braccia dai gomiti in giù e con un occhio tumefatto. Altri cinquecento dollari. Uno
scambio alla pari.
Domani partiamo alla conquista di Sarajevo. Godo!
Senza pensarci tanto getta il quaderno in uno scolo d'acqua al suo fianco, dopo un istante viene
inghiottito dalla melma.
Davanti a sé vede un contadino che brucia delle foglie, un altro lo osserva, sembrano lì da anni.
“Scusate - chiede - Sapete qual è l’ospedale di S.?”.
“Prosegui diritto” risponde il primo.
“Prima di arrivare in città lo trovi sulla destra” aggiunge l'altro.
“Grazie”.
“Si figuri”.
Ecco, pensa D., un dialogo normale tra persone di diversa etnia, un’ipotesi impossibile soltanto
qualche anno fa, adesso invece è di nuovo normale. Forse, immagina, sono tornati anche i
matrimoni misti.
“Non passano corriere?” chiede D.
“Sparite con la guerra” risponde il primo.
“Abbiamo fatto richiesta di quelle e di un medico per il nostro paese” aggiunge l'altro.
“Non arriverà niente di ciò?” chiede D.
“Il concetto è chiaro – risponde il primo – L'Europa ci ha detto di fare con quello che abbiamo”.
“C'è una grana ogni giorno qui. I serbi hanno minato ogni metro quadro quando si sono ritirati –
rincara il secondo – Non gli è bastato distruggere tutte le famiglie. Perché cerchi quell'ospedale
giovanotto?”.
D. cerca una risposta su misura, ma tra i suoi pensieri sente solo le urla della donna musulmana. Il
ricordo di quei momenti lo perfora fino a inchiodarlo al momento, solo il grido di un corvo posato
su un ramo vicino a loro gli suggerisce che il suo tempo è scaduto.
“Hai qualche parente?” insiste l'altro.
D. non sopporta il terzo grado, saluta i due anziani con uno sguardo riconoscente e riprende il suo
cammino.
D. ricorda che quando viaggiavano da un paese all'altro della Bosnia non avevano neppure il tempo
di guardarsi intorno, l'unico panorama che concepivano era il fumo che si alzava dai tetti degli
appartamenti dopo i bombardamenti. Ogni volta che i loro anfibi calpestavano il suolo nemico D. si
gonfiava di euforia, era sempre più felice di aver abbandonato la sua vita piatta, insignificante, per
essere diventato un soldato.
“Questa libertà mi dà le vertigini” confidò per telefono un giorno a Tatiana.
“Non esagerare adesso”.
“Non esagero Tatiana, non avevo mai scelto così tanto in vita mia. Non mi sento più io, finalmente
sono io!” D. vedeva l'energia scorrere sui suoi muscoli.
“Contento te” mormorò lei.
“Perché hai codesto tono basso?” chiese a Tatiana.
“Stanchezza, solo questo”.
“Qui non ci stanchiamo mai. Abbiamo preso l'abitudine di dormire tre ore per notte”.
“Dicono che tra poco la guerra finirà”.
D. rifiutò la frase e proseguì a descrivere le sue giornate, “I bosniaci hanno pochi mezzi corazzati,
però sono tosti, non lo diresti. I compagni che avevo a scuola erano tutti pappe molli... mi senti?”.
“Sì, ti ascolto. Parli sempre di te però, a me non chiedi mai niente. Se tu fossi qua a casa con un
atteggiamento del genere avrei detto che mi tradisci”.
”Qui non c'è pericolo... siamo tutti uomini... ha ha”.
“Non mi fido, né di te né degli uomini in generale”.
“Addirittura”.
“Quando un uomo si sente libero può fare ciò che vuole”.
“Dai Tatiana adesso non arrabbiarti”.
Rimasero un istante in silenzio, giusto il tempo di udire le grida di una donna strattonata allora D. la
salutò velocemente per andare a unirsi ai commilitoni.
La città di S. è di fronte a lui. Da ciò che vede, traffico e luci di negozi, sembra che non ci sia mai
passata la guerra. Ci fosse la confusione delle armi sarebbe più semplice, ne è certo, allora potrebbe
camuffarsi di nuovo in un soldato e concludere la sua missione senza dover dare tante spiegazioni a
nessuno, tanto meno a lui.
Sente improvvisamente di non avere coraggio, ha il fiato corto. In realtà non ha la più pallida idea di
cosa le dirà quando saranno di fronte. Ha un solo pensiero: nella vita ho sbagliato tutto.
Il suo passo blando lo innervosisce, D. vorrebbe avere più coraggio ma non sa dove cercarlo, il suo
corpo è vuoto. Ci fosse stato lo sconosciuto avrebbe avuto le idee più chiare, quando c'era da
sfondare una porta oppure da lanciare una granata era sempre lui che lo incitava a muoversi, a non
perdere tanto tempo.
Appena mette piede nell'ospedale un infermiere gli si avvicina, “Desidera?”.
E adesso, si chiede D., che cosa rispondo? Ha dimenticato ogni frase all’inizio del suo viaggio, dice
soltanto, “Posso sedermi?”.
“Non si sente bene?”.
D. insiste, “Posso sedermi?!”.
“Prego”.
Si siede, passa mezzo minuto in cui non succede niente. Non ha scelta, D. si alza, “Cerco una donna
che ha subito violenza durante la guerra” dice tutto d'un fiato all’infermiere.
“Lei chi è?”.
“... un amico”.
“Dopo quella vetrata, la prima porta sulla destra - l’infermiere gliela indica, poi lo osserva - E’ là
che deve andare”.
Per un istante abbassa gli occhi sui suoi indumenti: maglia grigia con cappuccio e pantaloni
marroni, almeno stavolta non ha un coltello in tasca. Le sue gambe non si muovono di un passo, per
convincersi D. ripete a se stesso che è arrivata l'occasione decisiva per purificarsi, per poter
riprendere a vivere. Nonostante ciò ai suoi muscoli non accade niente, è come se le sue gambe
fossero di fronte a un dirupo, un passo ed è la fine.
Il pianto straziante di un bambino oltre la parete lo mette in moto; le urla sono così profonde, acute,
vere, che scendono dentro D. provocando terrore. Vorrebbe ignorarle ma non ci riesce, si sente
pienamente colpevole di aver commesso una violenza inaudita. Se potesse sparirebbe dalla
circolazione per sempre eppure. Benché non si senta ancora pronto per incontrarla, adesso sono i
suoi passi che lo procedono senza dargli ascolto.
D. è davanti alla porta, una normale porta di legno con la maniglia in alluminio. Riflette: l'ultima
frontiera prima dell'incontro. Decide di pensare al peggio: troverà una donna che attende da anni di
vendicarsi, “Mi hai umiliato tutta la vita! Adesso mi vendico, serbo di merda!” oppure, con ogni
probabilità, troverà una donna sedata dai farmaci, immobile, gonfia. Ma la sua mano non lo ascolta
più, è già sulla maniglia. Apre. Fa un passo avanti, soltanto uno. Saranno trenta, forse quaranta!
Tutte in uno stanzone con pareti bianche e poche finestre con le sbarre. In sottofondo c'è un lamento
costante, una vibrazione che mette ansia, paura. Due smettono di parlare e lo osservano, altre
proseguono a fissare fuori dalla finestra, alcune sono sedute con le braccia incrociate, hanno tutte
gli occhi seri, seri e spenti, fermi a una violenza passata. Una di loro è la donna che cerca, tutte le
altre sono come lei.
“Adesso stai meglio?” gli chiede una voce alle sue spalle. D si volta lentamente fino a quando non
incontra lo sconosciuto.
“Quando i cavalli si rompono un osso - gli dice sottovoce - non li ingessano, ma li uccidono - ha un
tono tranquillo, sembra leggere, fa una breve pausa - Gli uomini che hanno cicatrici profonde non
sopravvivono, anche loro dovrebbero essere uccisi” conclude.
D. si accorge che gli occhi dello sconosciuto sono identici ai suoi, stesso colore e stesso taglio. Non
solo, anche i capelli castani corti e il viso affilato sono uno specchio in cui D. riflette sé stesso.
Scoprirsi uguale gli fa saltare il cuore in gola, lo sdoppiamento che ha sopportato in questi ultimi
giorni adesso esce allo scoperto con tutta la sua durezza. Si osservano senza poter credere di aver
vissuto nello stesso corpo per anni, sanno bene che uno dei due deve soccombere, a meno che non
vogliano essere ricoverati anche loro. Prima che sia troppo tardi D. si decide, diventa spietato come
il suo avversario, afferra per mano il suo passato e lo guida di fronte a quella donna musulmana.