La casa di riposo che vorrei Progetti ELSA e LeNeMi

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La casa di riposo che vorrei Progetti ELSA e LeNeMi
"La casa di riposo che vorrei" di Rita Bencivenga, Alessandra Tinti. Licia Nigro è distribuito con Licenza Creative Commons
Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
Based on a work at http://www.studiotaf.it/archivio/3-blog/125-la-casa-di-riposo-che-vorreste.html.
La casa di riposo che vorrei
Progetti ELSA e LeNeMi
Rita Bencivenga, Alessandra Tinti, Licia Nigro
Studio Taf, Genova
Regards croisés sur des pratiques professionnelles infirmières en Europe
Journées internationales
Institut de Formation Interhospitalier Théodore Simon
3, Avenue Jean Jaurès
Neuilly-sur-Marne
3 Febbraio 2012
www.studiotaf.it
“Durante le ore passate nelle residenze sanitarie assistite, nei nuclei Alzheimer, guardando cosa
succede intorno a me, “parlando” in un nuovo linguaggio che usa le parole o parti di esse non per
il loro senso comune, osservando i mille piccoli gesti e movimenti e anche la staticità, la lentezza,
la fissità... sono in una condizione in cui il mio stesso io, la mia stessa identità dopo un po’
cominciano a sfumare.”
Una testimone del progetto Elsa
Pochi mesi fa si è concluso il progetto Europeo intitolato ELSA, Empowering Lives, Supporting
Affectivity[1] che ha realizzato una serie di video, testi, sequenze di diapositive, rivolti a chi si
occupa, a titolo professionale o personale, di assistere nelle attività della vita quotidiana persone
anziane fragili, in particolare coloro che vivono con una qualche forma di demenza.
L’incontro finale del progetto si è tenuto a Genova, in Italia, sabato 26 Novembre,in una sede
prestigiosa, Palazzo Ducale, punto di ritrovo e di passaggio in quanto sede di mostre, convegni, bar, ristoranti , negozi e punti di informazione.
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I partner hanno scelto di organizzare, invece del solito convegno, una giornata aperta in modo da
poter “raccontare” il progetto alla cittadinanza, anche tramite la proiezione dei video realizzati e la
distribuzione di DVD e libretti inoformativi.
Dalle dieci del mattino alle cinque del pomeriggio i cittadini genovesi che passavano in quello che è
uno dei punti più centrali della città hanno avuto la possibilità di discutere con i partner, anche
grazie alla presenza di interpreti che facilitavano lo scambio di informazioni con i partner Scozzesi,
Austriaci e Lituani.
L’iniziativa: La casa di riposo che vorrei
Abbiamo deciso, in occasione di questa giornata, di lanciare una raccolta di pareri, intitolata “La
casa di riposo che vorrei”
Ecco la descrizione dell’iniziativa diffusa su Internet, con volantini e cartoline sparsi in vari punti
della città nei giorni precedenti all’evento:
“La casa di riposo che vorrei. Per i miei cari, per me, per chiunque sia nella situazione di dover
passare una parte della vita in una casa di riposo, o residenza protetta, o una qualsiasi altra
soluzione che preveda di vivere in comunità. Aiutaci comunicandoci i tuoi “desiderata” che
saranno raccolti e condivisi sul sito del progetto: http://www.elsacare.eu . Li diffonderemo a coloro
che possono influenzare l’organizzazione e la gestione di centri residenziali per anziani fragili.
Manda i tuoi desideri all’indirizzo '; document.write( '' ); document.write( addy_text55692 );
document.write( '<\/a>' ); //--> e condividi questa nota con chi pensi possa essere interessato a
questo tema.”
“Casa di riposo” in italiano è un termine abbastanza generico, il progetto si rivolgeva in realtà
soprattutto a chi si confronta con situazioni di fragilità e di complessità molto maggiori rispetto al
target cui si rivolge una casa di riposo. Per mirare direttamente al bersaglio che ci interessava
avremmo dovuto parlare di “residenze sanitarie protette” o residenze sanitarie assistite” ma
abbiamo pensato che avremmo limitato moltissimo la partecipazione se ci fossimo concentrati su
situazioni di compromissione fisica e cognitiva maggiori. Il nostro scopo era soprattutto quello di
“agganciare” le persone per parlare del progetto, e possiamo ora confermare che è stato abbastanza
facile passare a discutere con le singole persone da un argomento più lieve (la casa di riposo) a temi
più complessi (i bisogni di assistenza quando l’autonomia non è più possibile).
Anche così, abbiamo verificato che il tabellone e le cartoline che distribuivamo allontanavano
molte persone che non desideravano parlare di temi collegati alla tarda età, soprattutto se
problematica (e ciò indipendetemente dall’età delle persone che passavano davanti allo stand).
L’anziano fragile: un tema rilevante per la città di Genova
Dagli indicatori ISTAT (ISTAT, 2010[2]) emerge che l’Italia è il secondo paese più vecchio d’Europa
dopo la Germania, con una percentuale di anziani che supera quella dei giovani del 43 per cento.
Gli over 65enni residenti a Genova nel 2009 erano 164.264 , secondo i dati forniti dal Comune di
Genova, e costituivano il 27% della popolazione (contro una media nazionale del 20%). Oggi, a
distanza di due anni, il numero è più alto. I dati statistici rilevano inoltre che il 31% degli anziani a
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quella data viveva solo, e infatti a Genova esiste un mercato del lavoro che offre molte possibilità di
lavorare a domicilio con il ruolo di assistente familiare, a tempo parziale o vivendo
nell’appartamento con la persona.
Le proiezioni demografiche nazionali, elaborate dall'Istat, indicano ad esempio che la struttura della
popolazione italiana raggiungerà la percentuale attuale di anziani esistente a Genova soltanto nel
2030.
Genova è una città che quindi anticipa le previsioni demografiche dei prossimi decenni, ed è una
specie di laboratorio naturale in cui si potrebbero sperimentare nuove soluzioni alle sfide
dell'invecchiamento.
L’assistenza a persone anziane fragili, in istituto o a domicilio, rappresenta quindi già oggi una sfida
importante per il territorio e i servizi.
Le risposte delle cittadine e dei cittadini genovesi
Vedremo ora alcuni esempi delle risposte, circa ottanta, che abbiamo raccolto, e alcuni commenti
che noi, in quanto “esperti” possiamo fare, poi passeremo a leggere ciò che dicono e si auspicano
alcune persone[3] che vivono nel quotidiano la realtà della demenza o della compromissione fisica
medio grave e grave, per alla fine concentrarci sul concetto di “sé incorporato”.
Dei 76 messaggi raccolti 7 non portavano alcuna firma, 44 sono firmati da donne (di cui due in
doppia firma con un nome maschile e uno in doppia firma femminile) 28 sono firmati da uomini
(inclusi i due in doppia firma con un nome di donna).
Li abbiamo suddivisi in base al “tema” principale contenuto nel messaggio, anche se ovviamente
altri potrebbero raggruppare gli stessi messaggi secondo criteri diversi:
- Emozioni
- Rapporti con il personale
- Attività
- Spazi
- Spazi/Personale (risposte che affrontano più temi)
- Spazi/Relazioni (risposte che affrontano più temi)
- Personhood
- Costi
- Servizi di supporto
Esempi di risposte per i vari temi:
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- Emozioni: “che ognuno potesse ritrovare la gioia del sorriso”, “che la casa di riposo fosse un
luogo che offre dolcezza e sorrisi”
- Rapporti con il personale: “preparazione adeguata delle persone che vi lavorano”, “con personale
competente e affettuoso”
- Attività: “un ambiente accogliente, ricevere visite di animali, ascoltare musica e leggere libri
insieme” , “libri, musica anni '60 e poter fare tutto quello che faccio adesso”
- Spazi: “condomini con servizi in comune” , “vorrei che per gli anziani ci fosse la possibilità di
risiedere a casa propria e, qualora ciò non fosse più praticabile, ci fossero case piccole dove vivere
insieme in una dimensione familiare e più umana. Questo vorrei per me e per tutti” , “una casa dove
posso avere privacy e compagnia”
- Spazi/Personale: “una rsa con pochi scalini, circondata dal verde, dei giardini. E il minimo
servizio sanitario necessario”
- Spazi/Relazioni: “una casa famiglia, dove la vita sia il più possibile simile alla vita in casa
propria, con condivisione, aiuto reciproco, amicizia”
- Personhood: tre persone hanno fatto riferimento a ciò che possiamo identificare con l’espressione
“persohood”: “una casa in cui non si viene uniformati a un modello funzionale alla struttura, ma
dove le persone possono mantenere la loro individualità, comunque essa si manifesti”, “che fosse
possibile avere il tempo non solo di accudire ma poter prendersi cura dei ricordi delle esperienze dei
nostri ‘vecchi’ ”, “una casa di riposo dove le persone trovino conforto, dove vengano ascoltate e
soprattutto che ponga il benessere degli ospiti prima di qualsiasi altro problema”
- Costi: una sola persona ha parlato di costi “una casa di riposo economica! Che non lucri sugli
anziani ma rispetti la loro dignità”
- Servizi di supporto: una sola persona ha parlato di servizi di supporto: “uno sportello unico più
vicino ai bisogni, alle necessità... che eviti giri...di qua e di là”
Dalla lettura dell’insieme delle risposte emerge una visione della terza età e delle tipologie di strutture di ricovero disponibili generalmente poco aderente alla realtà odierna Genovese. Le
persone che hanno risposto hanno quasi tutte scotomizzato l’idea dell’infermità, della malattia,
degli aspetti di compromissione fisica e mentale che in genere costringono ad abbandonare la
propria abitazione. Soprattutto per quanto riguarda le proposte per gli spazi e per le attività,
l’immagine che emerge dalle risposte ricorda la classica casa di riposo che era abbastanza comune
fino a qualche anno fa, dove si andava anche quando si era ancora in condizioni fisiche e mentali
abbastanza buone, per, appunto, godere di un meritato riposo una volta superata da un po’ l’età della
pensione.
Oggi l’età di entrata in strutture di ricovero si è spostata molto in avanti, l’età media dei residenti è
di circa 80 anni, ed anche la salute fisica e mentale delle persone che vengono accolte è molto più
compromessa rispetto ad un tempo. Per dirlo in modo molto esplicito, chi è in grado di essere
autonomo nelle attività della vita quotidiana, e potrebbe passare il tempo giocando a carte,
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ascoltando conferenze e usufruendo liberamente di spazi comuni, in genere vive a casa propria,
magari con il sostegno di un’assistente personale (badante è il termine comunemente usato)
Riteniamo che sarebbe interessante svolgere una indagine più approfondita, per comprendere
quanto i cittadini abbiano una visione chiara della realtà odierna dei residenti in strutture quali RSA
o residenze protette. Ciò potrebbe aiutare a trovare strategie di comunicazione del problema alla
cittadinanza che potrebbero facilitare l’ottenimento di un maggior sostegno ad una serie di iniziative
che enti pubblici o privati potrebbero proporre sul territorio.
Ciò potrebbe aiutare ad affrontare i problemi che la città vive per la scarsità di posti letto in
residenze assistite e anche per gestire al meglio la formazione e l’aggiornamento delle assistenti
personali, che si trovano spesso a gestire situazioni dove forme di demenza o altre disabilità gravi
richiedono un carico di assitenza non compatibile con un rapporto di assistenza uno a uno.
Le richieste di chi ha esperienza diretta, professionale o personale
Vediamo ora qualche esempio dei pensieri che passano nella mente di chi vive un’esperienza di
contatto diretto con persone anziane che hanno un livello di compromissione fisico e mentale
elevato.
“Le avevamo promesso che non l’avremmo mai messa in un Istituto”
“Sento che non ce la faccio più, devo poter dormire per qualche notte altrimenti perdo la testa”
“Sarà, ma certe volte anche se non ci capiamo ci facciamo tanto di quel ridere, non era mai stata
una donna allegra, ma ora è tutto diverso”
“Anche se sono stanca e preoccupata, andarlo a trovare mi dà un senso di quiete”
“La nuova arrivata mi ricorda mia nonna, mi viene voglia di abbracciarla ma la direttrice dice che
dobbiamo mantenere le distanze dagli ospiti”[4]
Occuparsi (o preoccuparsi) di una persona che vive con una qualche forma di demenza, incluso
l’Alzheimer, significa confrontarsi con una serie di situazioni collegate ad ogni ambito della vita,
non solo ad aspetti emozionali e relazionali o sanitari.
Sfortunatamente lo stile di vita tipico di molte residenze sanitarie assistite e anche di molte case di
riposo è ancora basato sulla giornata tipica di un ospedale o di un centro di riabilitazione.
Chi vive in una casa di riposo, e non dobbiamo dimenticare che per gli ospiti si tratta della loro
abitazione e non di un posto dove si passano alcuni giorni o settimane, spesso non ha più alcun
controllo su piaceri e diritti basilari: quando alzarsi al mattino, cosa mangiare, come passare la
giornata e quando andare a letto.
Spesso, quando gli anziani perdono la capacità di prendersi cura di se stessi, i caregiver si
concentrano solo sul comfort fisico, sulla sicurezza sull’igiene degli spazi e degli arredi. Si tratta di
aspetti importanti, ma non certo gli unici.
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Soprattutto, si tratta di un modello molto lontano dall’approccio individualizzato che vede ogni
persona come un individuo.
Se spesso le persone attorno a un tavolo di una casa di riposo ci sembrano tutte uguali non è perché
di fatto il progredire degli anni e in molti casi della malattia li ha resi così, ma perché anche in
strutture animate dalle migliori intenzioni si verifica spesso un lento ma inesorabile appiattimento
che uniforma le persone:
•
•
•
•
•
alzarsi alla stessa ora tutti i giorni;
mangiare le stesse cose, alla stessa ora e tutti nello stesso ambiente;
andare in bagno ad orari quasi fissi;
portare i capelli corti perché sono più facili da lavare e tenere in ordine;
preferire i pantaloni alle gonne perché rendono più facili i trasferimenti agli operatori, o
addirittura vivere con tute di pile, evitando materiali, come la lana, difficili da lavare e
gestire in una struttura;
•
guardare sempre gli stessi programmi alla tv, ascoltare la stessa musica di sottofondo, stare
tutti nello stesso silenzio...
in nessuna di queste situazioni ci sono elementi di aggressività o violenza dirette alla persona, ma
come si conciliano con il rispetto dell’individualità? E cosa significa, poi, individualità?
Siamo tutti diversi, abbiamo gusti, preferenze, idiosincrasie, timori molto variabili. Ma come
conoscerli, come immaginarli quando non possono essere detti, quando il corpo non risponde più
abbastanza bene da riuscire ad allontanare oggetti, rifiutare contatti, far capire “preferisco di no”.
Quando nove volte su dieci quello che si dice suona privo di senso alle orecchie di chi ascolta, o
parla di realtà che sono solo nella mente di che parla, come si può essere sicuri che quella decima
cosa, che invece è un messaggio che sarebbe condivisibile con chi ascolta, sia compreso per quello
che è ?
Cosa vuol dire in pratica essere tutti diversi? Vediamo una serie di situazioni abbastanza comuni per
capire come, per ognuna di esse, ci possono essere moltissime alternative e modi di versi di vivere
le stesse esperienze:
- Non mi piacciono le cose troppo calde, aspetto sempre che diventino tiepide prima di mangiarle
- Le iniezioni non mi fanno paura, ma ingoiare pillole mi mette sempre un po’ di ansia
- Mi da fastidio che mi tocchino i capelli
- Mi sono sempre lavata i capelli con l’acqua fredda, mi schiarisce le idee.
- Per rilassarmi preferisco il silenzio. La musica, a seconda dei casi, o mi fa piangere o mi agita.
- Se non mi lavo i denti prima di fare colazione non riesco neanche a bere un caffè.
Poi c’è chi senza un caffè forte non riesce a scendere dal letto, chi vuole mangiare le cose quando
sono ancora molto calde, chi ha paura delle iniezioni, chi non si metterebbe mai una supposta, chi
appena arriva in casa accende la radio per non sentire il silenzio....
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Come far conoscere tutto ciò se non si parla, se non si è liberi di muoversi come si vorrebbe, se non
si viene ascoltati perché, tanto, si ha una diagnosi di Alzheimer che copre come una coltre qualsiasi
atteggiamento, reazione, comportamento?
Le aspettative si abbassano, su certe cose si può scendere a compromessi, il caffè latte al posto del
te al mattino si può accettare, farsi lavare la faccia con la manopola anche se non la si è mai amata
si può accettare, mangiare primo e secondo a tutti i pasti perché no, mettere sempre pantaloni e non
più le gonne che sarà mai....
E così, piano piano, la cappa dell’uniformità scende sulle giornate delle persone ed entra nelle loro
vite.
Restano le cose che fanno paura, che fanno male, che disgustano. Reagire? Tirarsi indietro?
Allontanare la mano che si avvicina? Gesti deboli sembrano rinforzare l’intenzione di chi ci vuole
lavare, vestire, tagliare i capelli. Bisogna collaborare, nessuno fa niente di male, bisogna fare la
doccia, non si può restare sporchi!
Gesti più decisi, sguardi spaventati, il tentativo di sfuggire rinforzano l’idea che evidentemente la
malattia sta facendo rivivere momenti del passato negativi, e o si è temporaneamente graziati o
l’attacco si fa a sua volta più deciso, per il bene di tutti.
Sarebbe immaginabile compilare liste di preferenze, paure, timori, da consegnare al momento del
ricovero o alla persona che si prenderà cura della persona a domicilio? Ma quando? Con il passare
degli anni si cambia, cose che a cinquant’anni non davano fastidio a settanta non si accettano più o,
al contrario, il pesce che non si è mai mangiato comincia a piacere.
Ha senso compilare liste e aspettarsi che il personale, che si avvicenda nei turni, cambia lavoro con
molta frequenza, deve occuparsi di qualche decina di ospiti e non solo di due o tre, conosca in
dettaglio ognuno di essi?
Chi può compilare la lista? La persona stessa, i familiari, le persone intime, gli operatori
professionali che hanno già scoperto una serie di cose?
Ma è davvero impossibile comprendere qualcuno che non parla chiaramente, che non ragiona
seguendo il filo dei nostri pensieri?
Approcci centrati sulla persona
Il progetto ELSA si è ispirato all’approccio centrato sulla persona. In questo approccio, che ha
avuto origine dalle osservazioni di Tom Kitwood, vi è un’enfasi sulla persona considerata come un
individuo, la cui storia di vita, le cui esperienze, le cose che ama o che non ama sono gli aspetti che
la definiscono.
Chi ha difficoltà a seguire i contenuti verbali, come ad esempio persone che vivono con la demenza,
elabora i messaggi a livello non verbale ed è a livello non verbale che deve tentare di esprimere i
propri desideri, le proprie preferenze, timori, intenzioni...
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La vita in comunità impone inevitabilmente una certa ritmicità, uno standard confortevole, certo,
ma pur sempre uno standard che è molto lontano dall’approccio individualizzato che vede ogni
persona come un individuo.
La cura centrata sulla persona è focalizzata sulla indipendenza, sul benessere e sull’empowerment
di individui e famiglie, e permette alle persone di sentirsi supportate, valorizzate e di sentirsi
socialmente competenti.
Ma, per passare a questo modello, dobbiamo tutti convincerci del fatto che un individuo rimane
tale anche in presenza di un decadimento delle capacità mentali.
Dobbiamo riconoscere la centralità della relazione, l’unicità della persona, e il fatto che il nostro
“essere persona” si può manifestare anche se non possiamo più comunicare verbalmente.
Il concetto di “sé in azione”
In un altro progetto[5] che ha avuto inizio nel mese di agosto 2011 ci stiamo occupando di esaminare
i bisogni formativi di persone (migranti) che si preparano a lavorare con anziani fragili, per arrivare
a fare proposte di integrazione dei percorsi formativi con moduli formativi che stimolino
l’attenzione degli operatori al “sé in azione”.
Formare gli operatori professionali a riconoscere ciò che prova una persona non più in grado di
esprimersi secondo i consueti canali permette di trovare una soluzione a molte situazioni altrimenti
difficilmente gestibili. L’assunto di base è che ”l’essere una persona” si mantiene anche in caso di
demenza marcata e quando la persona non è più in grado di comunicare attraverso il linguaggio
verbale, conserva una sua “espressività” di tipo non verbale che, attentamente osservata, rivela un
Sé in azione. “Le persone con problemi cognitivi sono capaci di usare il proprio corpo per
esprimersi, fornendo indizi su chi sono e quali sono i loro bisogni” afferma Pia Kontos[6].
Alcuni caregiver, come è stato dimostrato dalle ricerche di Kontos, riconoscono intuitivamente e
rispondono a espressioni di incorporazione[7], cioè al fatto che la persona, anche in fasi avanzate
della demenza, mostra il proprio essere, i proprio desideri, le cose che piacciono o non piacciono
attraverso il corpo, per come può e che, quando gli operatori sono capaci di prestare questo tipo di
attenzione, ci sono meno episodi di resistenza da parte degli anziani e un miglioramento
dell’interazione fra anziani e caregiver.
Programmi formativi che allenano la capacità degli operatori a riconoscere e rispondere
positivamente alle espressioni di incorporazione hanno ricadute positive, in quanto in quanto
diminuiscono la necessità di ricorrere a “contenzionamenti” rispetto a comportamenti che sono
fonte di problema.
Tutto ciò contribuisce ad una umanizzazione dei sistema di cura, affrontando direttamente quello
che è uno degli assunti che maggiormente contribuiscono alla disumanizzazione, quello secondo cui
la personalità si estingue con il progredire del danno cognitivo.
“Se non crediamo che ci sia una “persona”, non c’è affronto alla dignità umana…. Quando le
persone perdono la capacità di esprimersi verbalmente, la loro espressione di sé spesso viene
equiparata a un comportamento demente, imprevedibile" Afferma Kontos.[8]
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Bisogna apprendere a facilitare il passaggio dal vedere il comportamento come un problema che
deve essere tenuto sotto controllo al capire l’ampiezza dei significati che sottostanno all’espressione
di sé nella demenza.
E’ importante coltivare una nuova etica, che rispetti le persone che vivono con una qualsiasi forma
di demenza, apprendendo a considerarle “esseri incorporati” che meritano dignità e riconoscimento
del loro valore e che sono ancora in grado di esprimere il proprio sé.
Questo percorso può e deve essere compiuto da i familiari, gli assistenti personali, gli infermieri,
dai geriatri, dai direttori delle case di riposo, persino da chi lavora nelle cucine, nelle lavanderie o
svolge compiti di pulizia.
Questo percorso può e deve essere compiuto da i familiari, gli assistenti personali, gli infermieri,
dai geriatri, dai direttori delle case di riposo, persino da chi lavora nelle cucine, nelle lavanderie o
svolge compiti di pulizia.
Noi siamo agli inizi di un percorso, ma pensiamo che i miglioramenti nella gestione della vita
quotidiana delle persone che si affidano a noi e i cambiamenti nell’atmosfera e nelle relazioni fra le
persone possano contribuire a contrastare fenomeni di burnout sia fra gli operatori professionali che
fra i familiari.
tutte le informazioni sul progetto sul sito web, che ha anche una sezione in francese:
www.elsacare.eu
[1]
http://noi-italia.istat.it/ “Rapporto Noi Italia, 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo” A
cura di ISTAT
[2]
queste persone sono state vicine al progetto a titolo di consulenti esterni e hanno contribuito con
suggerimenti vari alla realizzazione dei prodotti creati da Studio Taf. Si tratta di professionisti del
settore socio sanitario e di familiari di anziani fragili che vivono con la demenza, in alcuni casi la
stessa persona vive o ha vissuto le due condizioni. A loro va uno speciale ringraziamento.
[3]
testimonianze citate nell’articolo "Progetto ELSA: L’utilizzo del web 2.0 e approcci non
farmacologici all’Alzheimer" pubblicato nella Newsletter n 4 del progetto ELSA, disponibile sul
sito web www.elsacare.eu
[4]
LeNeMi Learning Needs of Migrants working as caregivers. http://lenemi.wordpress.com/
[6] http://www.torontorehab.com/Research/Researchers/Research-Profiles/Pia-Kontos.aspx
[7] “Il termine “incorporazione” in inglese, embodiment, si riferisce a quell’insiemee di abitudini
apprese e di tecniche somatiche culturalmente forgiate grazie alle quail gli essere umani sono nel
corpo e nel mondo. Diversamente da “corpo”, “incorporazione” è un termine processuale e fa
riferimento sia alla somatizzazione della cultura, sia all’impegno del corpo nella produzione delle
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forme culturali e storiche. Dal punto di vista dell’incorporazione, il corpo non è una identità
soltanto biologica, ma è anche un fenomeno storico e culturale. Reciprocamente, la cultura e la
storia non sono soltanto il prodotto di idée, rappresentazioni e condizioni materiali, ma sono anche
fenomeni corporei.” Testo tratto da: Claudia Mattalucci – Yilmaz, Introduzione, in “Corpi”.
Annuario di Antropologia diretto da Ugo Fabietti, n. 3, 2003. Per approfondire il concetto di
“incorporazione”, si consigliano i seguenti autori e testi: Thomas Csordas: "Embodiment and
Experience"; Pierre Bourdieu: "The Logic of Practice" e "Outline of a Theory of Practice";
Merleau-Ponty: "Phenomenology of Perception".
[8]
http://www.cihr-irsc.gc.ca/e/43510.html consultato l’ultima volta il 15 maggio 2011
This project is funded with support from the European Commission.
This communication reflects the views only of the author, and the Commission cannot be held responsible for any use which
may be made of the information contained therein.
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