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A FEW WORDS numero 4, fruttidoro/vendemmiaio 2015 speciale Firenze RiVista EMILIANO GUCCI PAOLA CALVELLO CORNEJO MATTHEW LICHT LAVINIA FERRONE FERRUCCIO MAZZANTI LAWRENCE CLEMUERTE CHIARA AGOSTINI ETTORE BARGELLINI DIRETTORE RESPONSABILE DIRETTORE EDITORIALE CAPOREDATTORE PROGETTO GRAFICO FOTOGRAFIE GIORGIO BERNARDINI FILIPPO ROMEI MICHELANGELO FOCOSI DUCCIO NARBONE MIRKO LISELLA, DOMENICO SIMONE, MARCO CASTELLI EDITING ELETTRA GALLORINI afewwordslab.com facebook.com/afewwordslab [email protected] Finito di stampare a Settembre 2015 presso stamperia Colorado via F.Ferrucci 95/h, Prato - tel. 0574073743 EDITORIALE INDICE Il Cocomero quattro Emiliano Gucci So cosa è meglio per te dieci Paola Calvello Cornejo L’essenza tredici Matthew Licht Majakovskij diciassette Lavinia Ferrone Antonin diciannove Ferruccio Mazzanti Ein Volk, ein Reich, ein Social Network ventinove Lawrence Clemuerte Grembiule Rosa Chiara Agostini Forse te l’ho già chiesto Ettore Bargellini trentuno trentacinque P. scartò con cura il pacchetto di Winston appena acquistato, ne estrasse la sigaretta d’esordio e, nell’ accenderla, disse: “Sai, forse potrei scrivere un racconto sulla pigrizia... ” Davanti a me avevo l’esempio più perfetto della peggiore razza di autore con la quale si possa avere a che fare: quello di talento, ma così profondamente convinto di non averne abbastanza da rispondere picche ad ogni tipo di lusinga. Ad essi, il solo sentir nominare la parola “pubblicazione” provoca un lancinante e continuo dolore addominale. Capirete che, trovandomi in una tale situazione, non potevo prescindere da una certa delicatezza di modi, pertanto decisi di assecondarlo. “Mi sembra un’ottima idea. Certo, mi hai parlato anche di altre cose in passato, ad esempio quello strano caso del volatile... Una storia divertente, com’è che si chiamava?” “L’Affaire Canarino”. “Proprio quella! Sicuro che non sia più appropriata? Voglio dire, introspezione, umorismo, infanzia... Tutte cose che hanno un discreto appeal, dovresti rimetterci mano”. “No, mi sto muovendo verso qualcosa di più totemico – fece una lunga boccata, poi proseguì – più, come dire... proustiano. Voglio scandagliare i peccati capitali, inserirli in un contesto contemporaneo, e mi sembra che l’accidia possa essere un’ottima base di partenza ... è il male del nostro tempo, in fondo”. Un po’ come promettere un racconto da mesi e poi sparire, pensai. Tenni questa considerazione per me. “Quello che vorrei riuscire ad ottenere – gettò la sigaretta – è qualcosa sullo stile di Oblomov, però molto più condensato, più... intenso. Lo hai letto Oblomov? ” “Si, due anni fa più o meno. La prima parte, quella nell’appartamento a San Pietroburgo, con il vecchio servo che...” “No, aspetta. Lì non ci sono arrivato. Non sono mai riuscito a finire di leggerlo... “ Sospirai. “Allora, temo proprio che tu debba scrivere un racconto che tratti della pigrizia... Anzi, dammi retta: comincia immediatamente”. tre IL COCOMERO “Se per tanti anni è rimasto inedito, ci sarà un perché”. Forse è vero. Di certo, un possibile perché, è che questo racconto non l’ho mai proposto a nessuno prima di oggi. Erano gli anni intorno al mio primo romanzo pubblicato, Donne e topi (Fazi, 2004), avevo il cassetto (l’hard-disk, a dire il vero) pieno di scritti brevi e le occasioni per farli girare erano poche: qualche rivista, qualche premio letterario, rarissime antologie collettive. Oggi è bello riesumare questo Cocomero, fresco di quella stagione andata, riaprirlo e rileggerlo con l’intenzione di riscriverlo, perlomeno sistemarlo, per poi trovare il coraggio di spostare giusto un paio di virgole, mezza parola stantia; se ha qualcosa di buono, e spero sia così, va rintracciato anche nella scrittura che fu. Sono felice trovi spazio qui, adesso, tra queste pagine energiche e vitali, sotto i vostri occhi che chissà cosa leggevano, quando il Cocomero ruzzolava fuori dai miei tasti… Emiliano Gucci Avevo deciso di prendere il treno per andare a Viareggio. L’idea era di passare a trovare un amico che aveva aperto un negozio di dischi sulla passeggiata lungomare, per poi pranzare con lui e fare un tuffo nel pomeriggio. Il mio rapporto con le ferrovie si era deteriorato durante la mia vita da pendolare, un periodo di sei anni in cui avevo preso il treno due volte al giorno, per un tragitto di soli quindici minuti. Avevo passato più tempo ad aspettarlo che a viaggiarci sopra, e il matrimonio si era sfasciato con un logorio lento e inesorabile. Ma adesso era un sabato di luglio, faceva un caldo cane, le autostrade erano zeppe e la mia utilitaria scalcinata non aveva neanche il condizionatore. Pensai fosse meglio la poltroncina di un vagone fresco, e un buon libro da leggere. Mi ero alzato abbastanza presto, avevo fatto la barba e messo nello zaino un costume, un asciugamano, le ciabatte di gomma e un libro di Fenoglio, avevo sbattuto l’uscio di casa con l’afa che già mi appesantiva il passo. Mi mancavano la crema solare, indispensabile per la mia tenera pelle mozzarella, e magari un po’ di frutta da mangiare durante il giorno. Pensai di passare dal supermercato: pessima idea, considerando il caos del fine settimana e il caldo che dà alla testa. Ci misi cinque minuti per trovare parcheggio, che mi costarono la prima sudata giornaliera, e il colpo quattro del condizionatore all’ingresso non fece bene alle mie artrosi. Impiegai dieci minuti a scegliere la crema solare, semplicemente perché c’erano troppe possibilità. Poi, per scegliere due pesche e tre susine, mi toccò assistere a un violento teatrino. All’inizio vidi soltanto un gruppo di cinesi, una decina tra uomini e donne, che si spingevano tra sé. Rapidamente alcune mani si alzarono e si agitarono, e capii che la vera contesa si consumava contro una decina di casalinghe di Prato, scortate da mariti sovrappeso e assai campanilisti. Volarono diversi ceffoni e una decina di cazzotti, ognuno urlava nella propria lingua e non si capiva un cazzo. Un uomo finì sdraiato, una donna andò a sbattere contro una pila di cassette di mele, che rotolarono sul pavimento, un italiano minacciò un cinese ruotando un ananas sopra la testa, il cinese rispose lanciando una verza. Altra gente si unì alla ressa, intervennero i ragazzi del supermercato a fare da pacieri, poi arrivò uno della sicurezza, vestito da brutta copia di carabiniere. Ero scioccato, impietrito, con il guanto di nylon che mi si appiccicava alla mano. Mi sfuggiva il tema della grande contesa, ma poi un ometto mi spiegò che era tutta una questione di cocomeri: il volantino delle offerte pubblicizzava una giornata di angurie sotto costo, solo che all’apertura erano arrivati i cinesi e avevano svuotato i cassoni e riempito una decina di carrelli, lasciando a bocca asciutta il resto Il cocomero m.l. della clientela. I commessi dell’ortofrutta si erano dati da fare, i cocomeri erano stati riforniti, ma per l’ottanta per cento erano finiti ancora in mano cinese. Adesso, in attesa del terzo rifornimento, qualcuno non aveva sopportato che in pole position ci fossero ancora loro. Cinesi. Cinesi dappertutto. Che se ne facevano di tutti quei cocomeri? Dove li mettevano? Che razza di frigoriferi avevano? Che li lasciassero un po’ anche agli altri, Santo Cielo. Inghiottii amaro, ringraziai l’informatore, pesai e prezzai le mie pesche, mi avviai alle casse. Non me ne fregava niente della contesa italo-cinese, ma soprattutto pensai che non avrei mai fatto a botte per un cazzo di cocomero. Alle dieci in punto parcheggiai vicino alla stazione di Prato. Acquistai il biglietto, poi un quotidiano, e aspettai il treno sul binario, all’ombra della pensilina. C’erano due distinte compagnie di ragazzi molto giovani, più maschi che femmine, che facevano un gran chiasso. Mi vennero in mente le mie gite al mare di venti anni prima e sentii un vuoto allo stomaco. C’erano anche altre persone, un militare in divisa e due suore con le valigie. Mi domandai quanto caldo facesse sotto quelle tonache: forse, stavano meglio di me. Arrivò il treno, con soli dieci minuti di ritardo, e salii nella carrozza attaccata alla locomotiva. Era fresco ma anche pieno zeppo. Tutti i posti a sedere erano occupati, così cominciai a scorrere i vagoni verso il fondo. Uno, due, cinque, nove, tutti stracolmi. Il treno viaggiava forte. Pensai che avrei dovuto rinunciare ai miei programmi di letture e che mi sarei dovuto accontentare di un palo cui aggrapparmi. Poi, arrivando verso il fondo, la gente cominciò a diradarsi. La chiave era che lì il condizionatore non c’era, però i finestrini erano spalancati, non sembrava facesse molto caldo. Pensai di sedermi. Detti un’occhiata in giro e mi permisi di valutare le facce, in una fobia tutta mia, per intuire se un compagno di viaggio può essere migliore di un altro. Per fare cosa? Dovevo soltanto leggere, io. Poi inquadrai due bambini obesi che si sbrodolavano con quattro fette di cocomero, noncuranti dei berci della madre. Pensai che la mia ricerca fosse più che motivata. Aprii l’ennesimo sportello, arrivai sull’ultimo vagone, stremato. cinque Il cocomero Era poco gremito, e piuttosto caldo. Nei quattro sedili in fondo, sulla destra, c’era soltanto una ragazza, mora e giovane, abbastanza svestita e bella. Parlava al cellulare, a voce alta. Aveva sparpagliato borsa, riviste, occhiali da sole sugli altri tre sedili. Le feci cenno per capire se i posti erano liberi, lei tolse stizzita la roba da quelli davanti, io buttai lo zaino sul portapacchi e mi sedetti. Girato verso di lei, ma non proprio di fronte: lei stava accanto al finestrino, io al corridoio. Cercai di rilassarmi. Poggiai il giornale ancora piegato sulle ginocchia e ci buttai un occhio. La ragazza parlava al telefono. Era incazzata con un uomo. Aveva la gonna corta, le cosce nude. Le guardai i piedi, molto belli e curati, animaletti lisci catturati da due zoccoli raffinati e neri. “Sei cambiato mille volte nella vita, ma sei sempre il solito pezzo di merda”, disse. La stavo ad ascoltare, attentamente, fingendo di leggere. “Stavolta non mi freghi, e che cazzo!”, rincarava. Poi si sentiva lui, di là, che blaterava della roba. “Mi snervi, Daniele, l’hai capito?”, gridò lei. “Mi snerviii…! Dovresti ringraziare che non ti ho denunciato, brutto pezzo di merda, invece di farmi la ramanzina… Sei uno stronzo, col cazzo che mi rivedi!”. Riattaccò e borbottò tra i denti. La guardai per capire se mi stava guardando. Macché, mirava fuori. Vidi il paesaggio spiaccicato sulla sua faccia, che scorreva veloce, tipico dei posti che scappano dal treno. Vidi che il viso della ragazza era grassoccio rispetto, tipo, alle caviglie. Ma aveva belle labbra pronunciate, asimmetriche, forse troppo truccate, e occhi neri. Vidi che era abbronzata e che le spalle, nude, erano rotonde e morbide come le colline dei posti dov’ero nato. Tornai al giornale, lo spiegai e girai due pagine. Il suo telefono squillò ancora. Aveva una di quelle orrende suonerie polifoniche primordiali, forse era una canzonetta di moda ma si riconosceva a stento. Lei bestemmiò la Madonna e lasciò che il telefono finisse di cantare. Mi sentii in imbarazzo per aver scelto il vagone sbagliato. Quando la canzonetta ricominciò, lei rispose. “Lasciami in pace, Daniele! Vado dai carabinieri, lo giuro, lasciami in pace!”. Urlava. Immaginai tutti gli occhi del vagone su di noi. Prese fiato. Quello di là dal filo brontolava. “Ma che vuoi? Che vuoiiiii…!?”, gridò lei, isterica. sei “Te lo metto anche per scritto, brutto pezzo di merda: ti ho tradito, certo che ti ho tradito, e non con uno soltanto!”. Alzò un po’ le chiappe dal seggiolino, facendo forza sulle gambe, per pronunciare l’ultima frase. Sentii una vampata al basso ventre, e poi alle tempie. Non potetti resistere e la guardai ancora. Gli occhi neri erano di vipera. Aveva una piega in mezzo alla fronte, come un colpo d’accetta, e due coltellate ai lati della bocca. Naso aquilino. Però era bella, strana ma bella. Aveva i seni grandi che a stento stavano nella canottiera. Smalto nero. Collanina con ciondolo d’ambra. Fuori c’era la stazione di Pistoia, immobile sotto l’afa. Un po’ di gente scendeva, altra saliva, nervosamente. Lei mandò affanculo e riattaccò. Tornai al giornale. Il treno ripartì. Ricominciò la musichetta. Guardai la ragazza. Stava per crollare, le tremavano le labbra. “Cambio scomparto”, le dissi senza neanche pensarci, e feci per alzarmi. Lei mi guardò, fece di no con la testa e mi premette una mano su un ginocchio, per invitarmi a stare seduto. Aveva le dita fresche, forse sudate, le sentii attraverso i jeans. Con l’altra mano schiacciò il tasto e rispose. Certo, tanto anche se mi alzavo io, si sarebbe seduto qualcun altro: il treno non era un luogo adatto per certe intime conversazioni telefoniche. Mentre parlava scoppiò a piangere. Disperata. Disse che sarebbe scesa a Montecatini, che non voleva vederlo più. Che se lui si fosse fatto vivo lo avrebbe fatto arrestare, e altre cose, tipo che di botte ne aveva già prese troppe, e anche se lo avesse cornificato per tutta la vita non avrebbe fatto pari. “Porca miseria”, pensai. “Non venire, risparmierai tempo e benzina, io non ci sarò”, disse lei. “Non ti muovere, brutta puttana, o t’apro il culo!”, gridò l’orco dall’altra parte. Riattaccarono. Ripiegai il giornale e mi dedicai sfacciatamente a lei, tanto era inutile barare, anche i poggiatesta se n’erano accorti. Piangeva. Rintanò il cellulare nella borsetta, frugò alla caccia dei fazzolettini. Pensai che non li avrebbe trovati, che le avrei prestato uno dei miei. Invece li trovò, si asciugò la faccia guardando fuori. Ancora il paesaggio piatto sulla scogliera irregolare del suo viso. Si calmò, ma Il cocomero faceva dei singhiozzi che la scuotevano tutta. “Vuoi dell’acqua?”, domandai. Non volevo provarci, soltanto essere gentile. E non avevo acqua, sarei dovuto andare a prenderla nel bagno facendo conca con le mani. “No, grazie”, disse. Restammo in silenzio e passarono altre stazioni, scesero e salirono altre persone. Nessuno si sedette tra noi. La polifonica demenziale suonò ancora, da dentro la borsa. La ragazza recuperò il telefono, lo spense e lo rimise a posto. Pensai potesse essere un’occasione per tornare sull’argomento, avevo voglia di sapere, ma non trovavo le parole giuste. “Dove scendi?”, mi domandò all’improvviso. Mi schiarii la voce. Ricollegai che a telefono aveva detto Montecatini, e Montecatini era già passata. “A Viareggio, perché?”, dissi. Mi stava guardando fisso. “Mi fai un favore?”, disse. “Se posso, volentieri…”. “Non ti alzare da questo sedile prima di Viareggio, per nessun motivo”. “Non pensavo di farlo, a meno di urgenze corporali”, dissi tentando un sorriso. “Me lo prometti?”, disse lei, ancora con gli occhi da vipera che puntavano i miei. Sarebbe stato difficile negarmi a qualsiasi richiesta, quella poi non mi sembrava compromettente. “D’accordo”, dissi. A quel punto anche lei sorrise, come rilassata, e guardò fuori. “Non dovevi essere già scesa, tu?”, domandai. “No, lo aspetto. A Lucca sale anche lui”. “Ci farai pace?”. “Col cazzo. Se le cose vanno come devono, viene qua e mi spacca di botte…”. Inghiottii. Alle mie spalle si aprì il portellone e il controllore entrò blaterando: “Biglietti, prego”. Mostrammo ognuno il proprio cartoncino, il tipo li sforacchiò e se ne andò. “Non ti capisco”, dissi subito alla ragazza. “Non devi capire”, disse lei. “Devi soltanto stare lì seduto, a occhi aperti. Se siamo fortunati riusciamo a fargli alzare le mani, tu mi fai da testimone e io lo inchiodo, il bastardo”. Avevo un po’ di confusione in testa, però capivo dove andava a parare. “Senti, io non voglio beghe”, azzardai. “Me l’hai promesso”. “Va beh, però…”. “Non dirmi che ho incontrato un altro maschio cacasotto, perché ne ho piene le palle”. Mi chetai trenta secondi. “Ma scusa…”, dissi dopo. “Non devi fare niente. Soltanto lasciarlo stare, non intervenire”. “Ma se davvero ti mette le mani addosso, interverrà qualcun altro…”. “Povero illuso”. “Va bene, ma di certo non permetterò che un uomo ti spacchi la faccia davanti a me…”. Mi squadrò e sorrise. Mi sentii un po’ offeso, ma poco. Ero abbastanza preoccupato dal resto. “Quando lo vedrai cambierai idea”, disse lei. Non aveva più nessun sentimento nella faccia, né odio né paura, nulla. Cominciai a pensare e a sudare. A Lucca sarebbe salito quest’energumeno, avrebbe vomitato la propria rabbia e l’avrebbe presa a legnate. Che potevo fare? Scappare subito, adesso, o buttarmi nel mezzo dopo il primo ceffone. Magari ci avrei guadagnato un paio di lividi e un dente sul pavimento. Porca miseria. Magari aveva pure ragione lui, ma non a menarla, ad avercela con lei. Pieno di corna, l’orco. Magari lei aveva tutti i motivi per cornificarlo. Che ne sapevo io? Avevo altri pensieri. Quanto sarà stato grosso? Quanto forte e cattivo? Da una parte volevo che Lucca non arrivasse mai, dall’altra che fossimo già lì, e succedesse ciò che doveva succedere. Avevo voglia di mettere la testa sotto l’acqua fresca. “Che dici, faccio in tempo ad andare in bagno?”, domandai alla ragazza. “Non ti muovere”, disse lei fissando fuori. “Ci siamo”. Il treno rallentava. Stazione di Lucca. Fuori, tutto era giallo e uniforme per via del gran sole. Cominciai a vedere scorrere le persone che sarebbero salite sul nostro treno. Cercavo lui, le sembianze del mostro. Tremavo, avevo una paura bestia. Sentivo che potevo cacarmi addosso. “Perdonami, non sono portato per queste cose”, dissi, e feci per alzarmi. “Non ci provare, coglione!”, gridò lei. Con un balzo saltò in piedi, mi ributtò sul seggiolino e si sedette sulle mie cosce. Pesava più del previsto. sette Il cocomero Feci in tempo a intravedere uno scorcio di perizoma e un tatuaggio che si perdeva tra le chiappe. Poi mi girò le braccia intorno al collo. Ridacchiò, avvicinando la faccia alla mia. Sentii il suo profumo, una cosa poco femminile, tipo borotalco, che faticava a tenere a bada un sudore piuttosto acido. Il treno si fermò e aprì le porte. “Che fai?”, dissi. Rise e cominciò a baciarmi intorno alla bocca, rapidamente, poi scese sul collo. Era pazza. Mi ero bloccato, inerme. Annusavo. Il suo fiato, i suoi capelli amari. Dagli angoli delle labbra percepii il sapore del rossetto. Doveva avermi imbrattato come un pagliaccio. “Smettila!”, dissi, scuotendomi e cercando di togliermela di dosso. Si avvinghiava. Fece una risatina piuttosto antipatica. “Così impari a scappare”, disse. “Ma che diavolo hai combinato?!”. “Adesso glielo spieghi tu, a Daniele, che non sei il mio amante”. Mi aveva sporcato anche il colletto della camicia. Rosso porpora. Il cuore mi batteva a mille. Mi sentivo già tra le zampe dell’orco, spacciato. Certo, avrei potuto spiegare e risolvere tutto... Dalle scalette alle mie spalle stava salendo qualcuno. Era lui, sicuramente. Sollevai la ragazza dalle mie cosce e la scaraventai al suo posto. Sentii ancora i suoi odori. Vidi ancora mutande e tribale. Fece mezzo strillo. Mi voltai. Non era lui, erano due zie sui settanta, con il cappello di paglia. Tornai seduto. Lei si ricomponeva, mi guardava e ridacchiava, per le macchie di rossetto o per la mia espressione ebete. Tirai fuori un fazzoletto, me lo passai sulla faccia: la carta si tingeva di rosso, ma ero certo che sul mio viso il colore si mischiasse al sudore facendo un porcaio. Sentii il fischio dell’addetto, le porte si chiusero e il treno ripartì. Non voleva dire niente: se l’energumeno era salito in cima, come avevo fatto io, poteva comparire tra cinque minuti. Infatti la porta interna del vagone si aprì. Mi voltai. Altra gentaglia. Niente orco. Borbottai tra i denti. Lei sembrava rilassata, quasi divertita. Arrivai a pensare che fosse tutto uno scherzo, un grande bluff. Ma non poteva esserlo, perché quelle telefonate, quel pianto, quei baci… Mi alzai di scatto e la guardai con odio. Perché avevo scelto quel seggiolino, quel vagone? otto m.l. Perché il treno? Lei stavolta non si mosse di un millimetro. Girai i tacchi e feci venti passi frenetici, entrai nel bagno e mi chiusi dentro. Non cacai, ma qualcuno l’aveva fatto prima di me, e aveva lasciato solide testimonianze nella tazza. Tirai l’acqua per far calare lo stronzo nel tubo, e poter pisciare senza sentirmi osservato, ma quello non abbassò neanche la testa. Non riuscii neppure a pisciare. Mi specchiai e mi feci schifo. Avevo macchie come di una malattia, sulla faccia. La sciacquai più volte, sfregandomi con forza. Provai anche a smacchiare il colletto, ma non veniva. Aspettai due minuti, appoggiato con le mani sul lavandino, poi uscii. Magari trovavo l’orco con le zampe intorno al collo della ragazza, e davvero denunciavo tutto e risolvevo la faccenda. Invece non c’erano, né orco né ragazza. Sentii la colpa: era venuto e se l’era portata via, magari la stava sodomizzando nel cesso accanto al mio. D’istinto buttai l’occhio sul portapacchi: il mio zaino stava al suo posto, nessuno l’aveva toccato. Mi abbandonai sul sedile, quello su cui prima stava seduta lei. Aveva lasciato due riviste sciocche, di gossip e topless. Buttai la testa indietro e respirai Il cocomero profondamente. Ancora odore di borotalco. Sentii anche pizzicare sul collo, il fastidio di un capello che si appiccica alla pelle. Ci misi un bel po’ per afferrarlo tra indice e pollice: nero, lungo, ribelle, decisamente suo. Lo feci sventolare fuori dal finestrino, poi sfregai le dita perché si staccasse e prendesse il volo. Chiusi gli occhi e provai a bloccare i pensieri. Lasciai che il tempo passasse. Non successe niente. Mi tranquillizzai. Arrivammo a Viareggio. Scesi dal treno e la cercai tra la gente. C’era un bel mescolio, bellimbusti oliati per la tintarella e impiegati zuppi di sudore. Mi feci largo e la vidi, in fondo al binario, andava verso l’uscita della stazione. Era sola, non sembrava assolutamente abbacchiata, o ferita. Aveva un bel passo, belle gambe. La raggiunsi, la affiancai e mi voltai per guardarla in faccia: nessun segno. Lei mi guardò. Mi aspettavo un’offesa, invece sorrise. “Non è venuto?”, domandai. “No”, disse lei. “Speriamo sia la volta buona”. “Speriamo”. Anche a me scappava da ridere. Se era stata tutta una finzione, adesso mi andava bene lo stesso. “Vai al mare?”, mi domandò. Stavamo uscendo in strada, il sole era forte che si faticava a tenere gli occhi aperti. Lei si infilò gli occhiali, grandi e neri. “Non subito, ma la direzione è quella”, dissi. “Tu?”. Rimase zitta per venti secondi. “Sai di cosa ho voglia?”, disse. “Una bella fetta di cocomero, dolce e ghiacciata. Conosco un posto dove lo vendono, ti va?”. Ebbi un conato. Non ci pensai neanche un attimo. “Macché, sono allergico”, dissi. “Al cocomero?”. “Alla frutta in generale”. “Peccato”, disse. “Peccato davvero”. Facemmo un altro pezzo di strada insieme. Se cominciavo a domandarle cose, non finivo più. Lasciai stare. Accantonai anche l’idea di seguirla: meglio andare da Gino, perdermi tra i suoi milioni di CD, mangiare il fritto in quel posto tanto buono che conosceva lui e poi buttarmi nel mare. Camminavo accanto a lei, muto. Mi guardavo intorno, stranito come se Viareggio fosse Los Angeles ed io arrivassi dal Congo. “Bene, io giro qua”, disse lei a un certo punto. “Okay, io proseguo dritto”. “Dovrei chiederti scusa?”. “Io no?”. Fece un’altra di quelle risatine antipatiche. La preferivo quando piangeva. “Allora ciao”, disse. Mi aspettavo mezzo bacio, ma già si allontanava. “Ciao”, dissi. “Magari ci rivediamo, sul treno del ritorno…”. “Peccato, per il cocomero”, disse lei. Neanche potetti rivederle gli occhi, per colpa di quei fanali tetri. Si voltò e prese per la sua strada. La squadrai ancora, dalla testa ai piedi. Bella zampata, gran culo. Quando mi ricapitava una creatura così? Strinsi la mano destra in un pugno, la misi in bocca e la morsi fino a sentire male. La ragazza diventò piccola e sparì nella seconda strada a sinistra: una vipera tra tante, innocua e confusa, quasi evanescente nell’afa di luglio. Mi levai lo zaino dalle spalle, lo aprii e tirai fuori il sacchetto della frutta. Ripresi a camminare e la mangiai così, a morsi, senza neanche lavarla. EMILIANO GUCCI Autore di diversi romanzi di successo come “Donne e topi” (Fazi, 2004), “Un’inquilina particolare” (Guanda, 2008) e “Nel vento” (Feltrinelli, 2013). Il suo ultimo lavoro è “Sui pedali tra i filari” (Laterza, 2015). nove SO COSA È MEGLIO PER TE Sono passati anni, tanti anni. Forse troppi. Adesso io sono qui, con Marina al mio capezzale. Lei sempre al mio fianco, sempre la stessa. Indossa il suo orribile vestito a fiori. Ha sempre detto che è il suo preferito, non riesce proprio a staccarsene. È vecchio, sbiadito, insulso, eppure a lei piace da morire. Secondo me se l’è fatto andare bene e poi ci s’è affezionata morbosamente. Ha i capelli lunghi raccolti in una treccia fatta alla buona, le mani grinzose e quelle unghie distrutte dal troppo morsicchiare. L’ha sempre fatta questa cosa di mangiarsi le unghie e io l’ho sempre trovata fastidiosa, per me è solo un brutto segno d’insicurezza. Oggi, è qui che mi accudisce come un bambino. Perché è quello che sono, no? Quando invecchi e sei malato torni indietro, torni a essere un poppante o almeno è così che vieni trattato dagli altri. Vali meno della merda di cane. Sei il moncherino dell’uomo che eri, adesso, non sei produttivo. La luce della stanza salta ancora, accidenti. Non riesco ad aggiustarla in queste condizioni, sono sempre troppo stanco. Marina è uscita dalla stanza. Una volta era una gran bella gnocca, aveva delle tette strepitose. Inutile dire che gli anni si sono fatti sentire tutti su quel corpo, lenti ma spietati, come nella più subdola delle malattie terminali. Non mi rimprovero affatto le mie scappatelle, erano tutte più che lecite; il desiderio deve essere soddisfatto e l’unico modo per farlo è avere sempre fra le mani corpi freschi. Come si può resistere a quelle bimbe con i seni sodi e i capezzoli piccoli e tondi. Ti ci vorresti solo aggrappare e strizzarli bene. Alla fine ho comunque scelto lei per darmi dei figli. Avessi saputo prima come sarebbero andate le cose, avrei proprio evitato di mettere al mondo quei due. Io, in verità, ho sempre voluto solo un figlio maschio, un piccolo ometto forte come suo padre. Invece, quasi subito la prima delusione: Sofia. Ormai sono anni che se n’è andata a vivere da quei primitivi in Africa. Lo sanno tutti che vogliono solo dieci approfittarsi dei soldi della gente che ha voglia di lavorare. Questo dovrebbero insegnare tutte quelle Associazioni invece di dargli i nostri soldi, insegnargli un mestiere. Sofia è stata molto stupida, oltre a essere stata maledettamente ingrata nei miei confronti. Doveva restare qua, con sua madre, con me, ad aiutare in casa. È così che vanno le cose. L’altro figlio, il “piccolo ometto” tanto voluto, ha deciso direttamente di odiarmi. Non ci parliamo da dieci anni. Tutta la speranza che avevo riposto in lui, la fiducia, tutti i soldi che ho investito per la sua formazione, per cosa? È sempre facile incolpare gli altri, soprattutto i propri genitori. Mettiamo regole, diamo un’educazione, per forza non piace. I genitori non piacciono mai ai figli. Testardamente non capiscono che tutto quello che facciamo è per il loro bene, per formare le loro ossa. La società ti mangia vivo e se non sai difenderti finisci fra i più deboli, fra gli inutili. Allora mi spiegherai, Andrea, che senso avrà avuto vivere. A cosa serve vivere per essere deboli? Vivere per soccombere ogni giorno? Stare in disparte nell’ombra non serve a nessuno. Dovrai capire prima o poi, che l’unico modo per dimostrare chi sei è sgomitando tra la folla, perché superando tutti troverai il “posto in prima fila” che ti meriti. Ho provato a insegnartelo con il mio esempio, ho provato ogni giorno a mostrarti la crudeltà della vita. Non è mai stato necessario parlare, dovevi solo osservare e seguire. Le emozioni sono per le femmine e per gli inutili strizzacervelli. La finestra si è aperta di botto, un’altra volta. Non ci riesce proprio chiuderla a dovere. Una folata di vento l’ha fatta spalancare violentemente, e quasi si spaccano i vetri. Certo che quest’aria è davvero strana, soffia forte ma non rinfresca. Marina mi ha detto che stanotte dovrebbe arrivare Andrea. So cosa è meglio per te m.l. Ha saputo che sto male. Avrà deciso di smettere di odiarmi o semplicemente si sentirà in colpa? Forse ha solo bisogno di sentirsi apposto con la coscienza. Mi torna alla mente un ricordo abbastanza anonimo. Un giorno di molti anni fa, credo in inverno, eravamo io e lui davanti al camino di casa. Io leggevo il giornale mentre lui giocava con le costruzioni. A un certo punto sentii il suo sguardo addosso, e capii quasi subito che stava cercando la mia attenzione: voleva che giocassi con lui. Invece, io decisi di alzarmi e andarmene a letto. Era importante questa lezione: Andrea doveva imparare a stare da solo, a bastarsi. Marina è rientrata in camera e ha cominciato a spogliarmi. Ecco, odio questo momento, il momento del “lavaggio”. Mi fa sentire una di quelle auto scassate: gli si lava solo la carena, per far credere che sia ancora in buono stato, ma alla fine nemmeno il venditore più viscido riesce a rifilarla al povero scemo di turno. Ma chi prendiamo in giro. Non riesco manco a tenermelo per pisciare, deve aiutarmi lei anche in questo. Tutto perché il mio cervello s’è rincoglionito e ha deciso di scollegare il mio corpo dalla vita in giù. I dottori dicono che sono questi micro-infarti al cervello che mi riducono così. In verità mi hanno detto, molto onestamente, che potrei anche lasciarci le penne se ne dovesse arrivare uno bello grosso. Mi piace la cinica sincerità con cui i medici ti spiegano il problema. Fanno il loro mestiere senza perdersi dietro a tante chiacchiere, senza addolcire quella pillola che tanto fa schifo lo stesso e che comunque, prima o poi, tutti dobbiamo buttare giù. Quindi tanto meglio saperle subito le cose. Ora che mi hanno lavato da cima a fondo, eccomi di nuovo sprofondare nella mia nauseante infantilità. Odiosi i piccoli di uomo, tutti impanati nel borotalco dalle loro mamme apprensive, li ho sempre trovati inquietanti. È tutto così sbagliato e innaturale. Quella patina di sporco che ci portiamo addosso è quello che ci caratterizza e ci fa sentire adulti, uomini cresciuti, perché quando puoi badare a te stesso, puoi decidere anche del tuo corpo. Vivevo quelle piccole insurrezioni generazionali quando ero bambino e, senza troppi validi motivi, puntavo i piedi undici So cosa è meglio per te per non farmi la doccia. Da adulto poi, non si sente più la pressione intrusiva che le madri hanno verso i bambini. Non c’è più bisogno di lavare via quello che ti tieni addosso come vita vissuta, di giorni passati lentamente, accumulati sulla propria pellaccia dura. Chissà cosa penserà Andrea vedendomi così. Sicuramente proverà vergogna. D’altro canto, io gli ho insegnato bene che la compassione e la pena non ti aiutano, non ti rendono Uomo. Penserà che non sia degno nemmeno di me stesso. Sono sempre stato un esempio per tutti: niente mi ha mai scalfito o ferito. La forza e i valori sono tutto quello che un uomo può, e deve, necessariamente avere. Questo è quello che ti viene chiesto ogni giorno nella nostra società. Ed è giusto così. Marina è andata a dormire in salotto. Pensa che lasciandomi solo in camera possa riposarmi meglio. Voglio andare sul balcone. Maledizione se è difficile scendere da un letto quando le gambe non ti seguono. Provo piano piano a trascinarmi con i gomiti, come i marines quando fanno gli addestramenti nel fango, gomito-destro gomito-sinistro, movimenti ampi e decisi. Bene, ora l’ultimo sforzo per trascinarmi a sedere sulla sedia di plastica. La guardo, sono alte le sedie, mica me ne ero mai accorto. Riesco finalmente a sedermi e guardo fuori. È buio. Davanti al balcone si estende a perdita d’occhio un campo, per metà coltivato da quei pensionati che in vecchiaia si riscoprono contadini, e per metà lasciato a se stesso. Il tasto dissonante in questo quadretto campestre è il grosso pezzo di autostrada che passa giusto di lato. Camion e auto sfrecciano indifferenti, a tutte le ore del giorno. Mi lascio andare sulla sedia e attendo. Ed eccolo, lo aspettavo. Sento i formicolii leggeri partire dal centro della testa, si espandono proprio come piccole formichine incazzate che non hanno più un sentiero da seguire e corrono confuse da ogni parte. Scappano e s’infilano dappertutto. Poi sento caldo, ovunque, sempre più caldo, che quasi brucia. Non so più cosa ci faccio là, ma dove sono? Mi trovo completamente perso. E solo. Forse dovrei chiamare qualcuno per fami aiutare. È tutto molto lontano e ovattato, i rumori delle macchine sono sibili sordi, il cielo è scuro quanto il campo sotto. Non distinguo. Le dodici cose si uniscono e si perdono. Una fitta fortissima mi fa tornare un barlume di lucidità. Adesso ho capito, so cosa devo fare: è l’ora di morire, con dignità, finché ancora posso affrontare la cosa con decenza, a casa mia. E soprattutto, Andrea, so cosa è giusto per te. PAOLA CALVELLO CORNEJO Prova sinceramente a capire gli altri, con dubbio successo. Nel frattempo pensa di scriverci su. L’ESSENZA “Cancro”, disse il medico. Cadde il silenzio. Forse mi aspettavo una parola, uno sguardo di empatia, ma il medico dell’assistenza sociale doveva visitare uno sciame di altri fastidiosi pazienti infetti da pesti in confronto alle quali un tumore era la fatina dei denti. “Dov’è, professore?”. “Dov’è cosa?”. Forse volevo sapere dov’era la Verità, il Significato della vita, l’Oro. Anche se lo sapeva, non me l’avrebbe detto. “Il cancro. Dov’è che mi rode?”. “Sarebbe più semplice dirti dove non è presente la malattia. Cioè, nel sistema riproduttivo”. Classi di biologia erano una storia di molti anni fa. “Le dispiacerebbe essere più specifico?”. Dalla sua espressione si capiva: altro cadavere di cretino in arrivo, ma decise di sprecare alito cattivo ancora: “Le gonadi. I genitali. Il cazzo e le palle, capito?”. Non ci potevo credere. Si sbellicava dalle risate a spese di un malato di cancro. “Quelle cellule malvagie non trovano appiglio da quelle parti”, continuò, “perché ce l’hai così piccole. E l’unica ragione per la quale sei ancora vivo è che sei così grasso”. Non è facile trasmettere una dignitosa indignazione mentre esci da una porta basculante impossibile da sbattere. Gli altri perdenti moribondi nella sala d’aspetto dell’assistenza sociale dovevano aver sentito tutta l’umiliante conversazione. Una collettiva ilarità composta da ululati e grugniti mi seguì fino al marciapiede. Ero fottuto. Il cinico segaossa non mi aveva detto quanto tempo mi restasse, ma probabilmente non era molto. Non avevo fatto una vita da salutista, ma nella stampa ero stato descritto un genio. La stampa underground chiaramente, ed era passato molto tempo, ma comunque pensai: “Che spreco”. Lo scopo dell’arte sarebbe di lasciare un segno, qualcosa che rimanga nel tempo, ma la Performance Art è diversa: più simile alla musica, presente e poi non più, anche se è possibile che le onde sonore e di luce riflessa continuino a vagare infinitamente nell’universo. Forse esiste un fenomeno fisico di onde performative. Forse avrei dovuto dipingere un quadro, o scrivere un libro, o saldare insieme disastrate carogne di automobili, ma ormai era troppo tardi. Certe volte, la Vita ti dà un Segno. Questo è il Significato. Questa è la Verità. L’Oro è nascosto qui. L’insegna accanto al Segno diceva: “Compriamo Oro!”, ma non ne avevo da vendere. Entrai invece nella Banca del seme. L’infermiera alla reception non alzò nemmeno la testa. Era grossa. Era nera. Leggeva un rotocalco da supermercato con degli Ufo in copertina. Aveva la bocca spalancata. Vi stava respirando. Dovetti schiarire diverse volte la gola. Non è un bel suono. Avrò pure il cancro del gozzo. L’infermiera guardò su, gli occhi lucenti di stupida meraviglia per l’esistenza di esseri celesti che ogni tanto vengono a visitare la terra nelle loro luccicanti navi spazio dinamiche. Si rese subito conto che non ero uno di quelli. “Che vuoi?”. Mi aveva scambiato per un accattone. L’aspetto esterno suscita tali pregiudizi, e un cattivo odore li favorisce. Ma le apparenze possono ingannare. “Come sarebbe a dire, cosa voglio? Non siamo forse in una Banca del seme?”. Inarcò le sopracciglia. Le uscì di bocca una lingua sorprendentemente rosa. “Voglio donare sperma”. Sicuramente non rideva così da tanto tempo. “Tu?”. “Le farei presente che sono un genio”. Mi frugai le tasche per il ritaglio di giornale che avrei dovuto far plastificare. Niente male, la foto di 10 anni e 50 chili fa. Non fece nemmeno finta di leggere quel frammento. tredici L’essenza “Può portare la sua donazione quando vuole, signore. Grazie”. “Ehm, guarda, ho...”, meglio non dirle del cancro, “ho seri problemi di tempo. Faccio un lavoro impegnativo eccetera. Vorrei donare ora. E accetto solo pagamento in contanti”. Le stavo rallegrando alla grande la giornata. “Ogni tanto diamo soldi ai donatori”, disse, e aprì un cassetto della scrivania. Vi rovistò brevemente, “che dici di 73 centesimi?”. Forse mi prendeva in giro. “Può andare”, dissi lesto, “dai pure qui. Vado a mangiare un hamburger per darmi la carica”. “Paghiamo solo alla consegna, signore”. Dolori atroci mi colpirono come un uragano di rasoi. Un vecchiaccio smunto si affilava la falce nel cielo. Spararmi una sega era l’ultimo dei miei desideri. Non ero nemmeno sicuro di poter fagocitare un hamburger. Un lercio fast-food a pochi isolati offriva due hamburger al prezzo di uno. L’idea dell’immortalità mi diede forza, e mi fece venire appetito. “Ci sto. Dov’è la sala donazioni?”. Indicò col pollice una tenda verde da ospedale alle sue spalle. “Ecco del materiale per stimolarle fantasticherie erotiche”. Banali riviste porno. Feci un rapido calcolo mentale di quanta vita ci avevo sprecato. Ma ero artista, e gli artisti devono accumulare materiale. L’ispirazione si nasconde nei luoghi più inaspettati. L’infermiera della Banca del seme si scaccolò il naso. Credeva che non lo notassi, o più probabilmente se ne fregava. Per lei ero solo un reietto. Aveva l’aria scaltra. Avrebbe appiccicato un’etichetta sulla provetta contenente le mie ultime schizzate con scritto il nome di qualche stella del cinema, o qualche premio Nobel. Avrebbe venduto il mio materiale genetico a qualche disperata coppia benestante sterile per poi intascare il gruzzolo. Era grassa. Era brutta. Ma non puzzava troppo. “Senti”, bisbigliai, “potremmo farlo insieme”. Stava ammirando una succosa caccola fresca come fosse un gioiello cascato di mano a una nobildonna impellicciata davanti a Tiffany. Me lo sparò addosso col dito. Splat! “Eh?”. “Non voglio riviste segaiole. Voglio te”. quattordici “Come?”. “Tu sei infermiera. Hai fatto un voto di aiutare chi soffre. Il prodotto del nostro amore darà agli addolorati pazienti sterili il dono della vita. Non sarebbe quella la tua santa missione?”. Magari si era procurata la divisa da infermiera a qualche negozio della carità. Due hamburger al prezzo di uno svolazzavano via come spettrali farfalle dirette agli inferi. Giocai duro. “Ti porto il pranzo quando avremo finito”. Le brillarono gli occhi. “Affare fatto, mister”. Satana mi sferrò una falciata al colon. La sala, anzi il ripostiglio delle donazioni, puzzava di sudore e fluido per imbalsamare cadaveri. Mi spinse dentro per primo, per impossibilitare la fuga, e accese la lampadina a 15 watt. “Calati le braghe”. Potevo solo obbedire. Sghignazzò: “Qui è pieno di scarafaggi più grandi”. “Poi cresce. Apriti il camice”. “Se provi a mettermi le mani addosso, ti spedisco dritto al fottuto pronto soccorso”. Non era una minaccia a vuoto. Quella lì avrebbe steso Sonny Liston. Mi concentrai sulle sue carni ballonzolanti, e provai a menarmelo. “Girati”, dissi facendo del mio meglio per sembrare padrone anziché disperato, “issa la gonnellina e scuotilo”. Rise, ma poi lo fece. Oddio niente reggiseno, niente mutandine sotto il vestito da finta dottoressa. Forse il bacino amazzonico sfoggia una giungla più densa. Forse il Grand Canyon può vantarsi di spacchi e fessure più enormi. La luce era tenue. Dovetti stringere gli occhi, anche se mi faceva un male boia. Avevo persino il cancro alle palpebre, alle iridi. C’era un bel tepore nella sala donazioni. Mi sbottonai la camicia. “Oh dolce Gesù. Ma ci hai mai nemmeno pensato, a farti una doccia?”. Non potevo dirle che ero un senzatetto. Mi avrebbe negato i quasi tre quarti di dollaro. “Acqua calda e sapone diminuiscono il numero di spermatozoi. Non te l’hanno insegnato, all’Accademia per infermiere?”. Forse si vergognava di non aver frequentato corsi di formazione professionale. L’avevo sgamata. Mi tolsi L’essenza i pantaloni e le stetti davanti nudo, a parte il berretto della marina militare. “Sbrigati, fesso. Potrebbe entrare qualcuno, non si sa mai. A volte c’è il totale bordello, qui”. L’immagine di uomini sciatti e meno sciatti che facevano la coda per donare sperma affinché la vita umana potesse continuare a contaminare il pianeta nonostante la moderna pestilenza dell’infertilità, non mi aiutò a farmi una sega, anzi. Quelle famose blatte della Banca del seme avrebbero potuto pulire per terra col cencio moscio che mi penzolava tra le gambe. Mollai la presa. “Vuoi una cosa rapida? Allora aiutami”. Aveva manacce spropositate. Sonny Liston le avrebbe implorato pietà dopo pochi round. La carta vetrata era velluto, a confronto con i suoi palmi. La milza mi trasmise un’ondata d’agonia. Mugugnai. “Oh Dio Cristo”, disse. Mi afferrò il “coso” come fosse un topone schiumante di bava. Grugnì e fece per drizzarmelo, o strapparmelo. Cancro alla prostata non era nulla in confronto a lei, per quanto riguarda la tortura genitale. “Se fai così non succederà mai, amore. Devi lubrificarmelo”. Avevo in mente una lozione profumata, ma lei tirò su col naso e mi scaracchiò dritto sulla nerchia. Un tredicenne avrebbe ammirato la mira e la quantità di muco, ma non c’era nessuno a dare premi o iniezioni contro la tubercolosi. “Ehi! Non intendevo mica così...”. Invece il suo sputacchio era magia pura. La sega più dolorosa della storia cambiò in un morbido, materno robot mungitore. “O dolce bambina mia”. “Eh lo so, per questo mi hanno assunta”, disse. “Brava”, dissi, “accidenti sei un genio. Magari avremmo potuto...”. “Sta’ zitto e concentrati, imbecille. Ho il polso che si stanca facilmente”. Il dolore si trasformò in un treno che schianta in una galleria di melassa. Dentro il buio del tunnel c’era mia madre, prima che mi mollasse con la zia Belinda. Ecco Maestra Thompson, della prima media, quella che consideravo diabolicamente sexy prima che mi denunciasse al preside per averle scritto una nota m.l. quindici L’essenza sconcia anziché completare un esame di matematica. Il preside mi molestò fortemente, ma non potei denunciarlo, visto che era il fidanzato di zia Belinda. Oddio se il preside ci sapeva fare con le mani. Mi fece scordare Miss Thompson. Quei ricordi stimolarono i lobi Stanislavsky del mio cervellone artistico malato di cancro. La reazione pavloviana era di fare una performance. “Ugah ugah. Buga ugah naba!”. La mia performance di solito include un numero di danza, ma non c’era spazio. “Su forza”, dissi saltellando da un piede impestato all’altro, “stiamo nudi insieme”. “Cazzo pretendi molto per quei miseri spiccioli”. Però si tolse il camice. “Potrei ehm, toccarti una...”. “Se vuoi finire all’obitorio, fai pure”. Cosa mi cambiava, se dovevo passare gli ultimi giorni chiuso in un polmone d’acciaio? Le strizzai un capezzolo color cioccolato al latte. Si avverò un miracolo. Schizzò del latte. Non al cioccolato, ma era comunque un fenomeno maledettamente inaspettato e sacro. “Cristo santo!”. Rise come una strega. “Perché credi che abbia dovuto prendere questo lavoro del tubo? Leroy ce l’ha bello grosso, ma non me lo tira mai fuori, e io non insisto perché mi fa vedere le stelle”. Non era proprio ciò che volevo sentire. “Sbrigati, cretino”, disse la finta infermiera, “non ho mica tutta la fottuta giornata”. Trattenere l’orgasmo non è mai stato il mio forte. “Ugaaaah...”. Me lo strizzò a morte, col pugno da gorilla. Nemmeno un singolo spermatozoo unto di muco poteva scappare dalla sua morsa di massima sicurezza. “Ahia!”. Mi colpì al pene con qualcosa di duro, e mollò la presa. “Bugaaaaaah!”. L’essenza della vita, o la metà di essa, schizzò dal mio corpo moribondo dentro un ricettacolo di plastica privo di vita. Guardò la provetta alla luce, forse per constatare quanto le avevo dato. Non sembrò per nulla impressionata, ma perlomeno non si rimise a ridere. sedici “Fantastico”, sussurrai, “non m’importa che sei sposata. Se vuoi che proviamo a convivere, non ho tanta roba e...”. “Facciamo che ora vai a prendere quegli hamburger di cui si parlava prima. Mi viene talmente appetito tra pranzo e merenda”. Secondo lei ciò che avevamo fatto non costituiva amore, ma la sistemai per bene. Mangiai entrambi gli hamburger. Non ci vedemmo mai più. Il segaossa dell’assistenza sociale non aveva sbagliato la diagnosi. I dolori si fecero grotteschi, surreali. L’unica cosa che mi tiene in vita, qui all’ospizio statale, è la possibilità che i miei geni vengano trasmessi. Può darsi benissimo che la mia donazione sia finita nel cassonetto del vicoletto dietro la Banca del seme, ma cerco di visualizzare una matrona single dei quartieri alti che si irriga l’utero col mio DNA. L’eventuale bimbo biondo crescerà nel lusso sfrenato, diventerà un playboy, oppure un artista come suo papà. Ma un incubo ricorrente mi tormenta. Un mostro scaturisce dalla vagina previamente infertile della povera donna terrorizzata. Afferra un bisturi dal vassoio di acciaio inossidabile dell’ostetrico, si butta contro il pesante vetro della finestra ospedaliera, frantumandolo, e fugge a passo di lupo nella notte. MATTHEW LICHT È considerato un gigante letterario nella zona del tramonto. MAJAKOVSKIJ Le quattro. Così caldo che l’asfalto sembrava liquefarsi in apparenti pozze lontane. Chiuso nell’appartamento. Fissava il muro, ammirando lo spettacolo della luce attraverso le persiane chiuse, dalle quali sembrava generarsi una terza dimensione schiacciata sulla parete. Strisce luminose che si allungavano e si accorciavano col passare delle macchine, si spostavano da sinistra verso destra, lente, come una danza ipnotica, interrotte solamente dalla proiezione dell’ombra della bottiglia sul tavolo, vuota. Uno spettacolo che, fissato ininterrottamente per l’intero pomeriggio, aveva un che di commovente, come assistere a un moto astrale. Si sentivano le discussioni ovattate dei vicini al piano di sopra. I loro passi sul pavimento, come tamburi, gli impedivano di lasciarsi risucchiare dal sonno che gli ronzava intorno insieme a una mosca fastidiosa. Passava solo un filo d’aria generato da moti convettivi che, bassi, roteavano lungo il corridoio che collegava la camera all’ingresso. Il brusìo del frigorifero, che si spacciava per il rumore del vento, ogni tanto decideva arbitrariamente di bloccarsi. Si grattava il naso, quasi in segno di protesta all’inerzia. Non aveva pensato troppo fino a quel momento. Per quanto fosse immobile, completamente mimetizzato tra i soprammobili dell’appartamento, aveva fatto una scelta assolutamente non banale. Aveva deciso di “esistere”, a tutti gli effetti di “essere”, e non altro. Era presente con ogni senso: la vista, il tatto, l’udito, l’olfatto e il gusto, gusto inevitabilmente amaro, quello che si sente quando si tiene la bocca chiusa per un giorno intero. Altro inconfutabile segno di vita era il suo respiro, impercettibile, basso, ma costante come quello di una pianta. Lui esisteva, era. Poi, la decisione. Aveva visto mutare il colore delle strisce luminose sul muro. Da bianco elettrico si erano scaldate tendendo verso un giallo intenso, quasi arancione, trasformando l’osservazione da astronomica a malinconica, nichilista: l’uomo di fronte al tramonto, a un nuovo giorno trascorso. Era passato altro tempo. Adesso doveva uscire. Rotolò letteralmente giù dal letto. Non appena fece per alzarsi in piedi ebbe un mancamento, segnalato da un fischio nelle orecchie, e la visione completamente offuscata, come se ascoltasse un treno che parte. Si vestì. Chiavi in mano. Uscì senza pensarci più di tanto. Il suo varcare la soglia poteva seriamente essere paragonato al salto di un tuffatore dal trampolino: concentrazione, breve ripasso dei movimenti da fare, ampio respiro, occhi chiusi per un istante, deglutizione, scioglimento spalle-collo e, infine, un passo in avanti. La differenza principale era nella caduta, ad aspettarlo non c’era una vasca piena d’acqua, ma una città a porte chiuse. Camminava come chi sa dove andare. Ascoltava lo scrosciare di cicale tra le piante, mentre la fine del giorno, pesante, si appoggiava sopra i tetti. Sembrava che nulla lo emozionasse, ma come dargli torto. Le strade vuote lo trascinavano come un cane al guinzaglio. Dal fondo di una strada arrivava l’eco di musica araba, l’unico negozio aperto nel quartiere era un posto dove vendevano kebab, con i cestini azzurri e bianchi messi fuori, una bandierina con la foto del menhir, l’enorme e sacro rotolo di carne; lì davanti, come fossero animati di vita propria, svolazzavano e roteavano per terra tovaglioli di carta unti, mossi dall’aria bollente ributtata fuori dal condizionatore del negozio. Pareva lo scenario di una festa oramai terminata. Le macchine gli passavano accanto lentamente, come sentinelle. Le persone all’interno lo osservavano con stupore e, gli sembrava, anche con una vaga commiserazione. diciassette Majakovskij Si riposò all’ombra di una fermata dell’autobus, di quelle col tettino. La panchina messa sotto era appiccicosa, si sentiva l’odore del ferro. Prese l’autobus, si mise in fondo e in piedi. In cima stava seduta una vecchia. Lui non fece altro che fissarle la nuca violacea e calva, e a forza di fissarla gli sembrò che il colore dei capelli cambiasse continuamente, a seconda della luce. Vide quella testa girare di centottanta gradi fino a guardarlo negli occhi, immobile, con il busto ancora proteso in avanti. La osservò con attenzione fino a quando quella faccia rugosa aprì la bocca, sussurrandogli: “È passato altro tempo”. Poi svitò il collo, e la faccia gli tornò in avanti. Sapeva bene di aver visto solo lui quella scena, aveva voluto immaginarla per divertimento, per il suo ineguagliabile gusto nei confronti del surreale. Scese dall’autobus e continuò a camminare. La luce si rifletteva sulle finestre dei palazzi che, come specchi, gli mostravano il cielo lassù, visto dall’alto. Il cielo era rosa e immobile. Le ombre degli alberi, liquide, si allungavano sulla strada, come rigagnoli d’acqua nera. Poi si fermò a un semaforo rosso. Le macchine sbucavano da tutte le parti, lenti plotoni che sparivano dietro agli angoli o si confondevano nell’orizzonte grigio e piatto della città. Rumore di saracinesche vibranti, come rulli di tamburi. Lui guardava un palazzo alto, un enorme rettangolo color bianco crema, intervallato da finestroni attraverso cui si vedevano chiaramente le scale del condominio, scale signorili con tanto di ascensore luminoso che ogni giorno trasportava anime; le più fortunate, secondo l’opinione comune, verso l’alto. In cima, un balcone trionfale coronato di garofani. Attraversò il viale mettendo ogni volta un piede precisamente all’interno della striscia pedonale, anche se per farlo aveva dovuto saltellare; si divertiva. Come se non fosse passato altro tempo. Eppure ci aveva pensato, a saltar giù da quel balcone. Librarsi nell’aria, con l’unica forza, il pensiero; continuare ad esistere un ultimo istante. Ancorato alla terra, appeso al cielo. Infine lo schianto, e svanire nel tonfo. diciotto LAVINIA FERRONE Nata il 22/02/1989 atto n. 309 P1SA a Firenze. Cittadinanza italiana. Residenza: Firenze. Statura: 1.72 cm. Capelli: castano scuro. Occhi: marroni. Segni particolari: occhiali da sole. ANTONIN Antonin Antonevich sa come non morire di freddo in Siberia. Capitolo III Poltroncine, dizionari di scorta, sigari in attesa, grida, accessi di spasmi, svenimenti. E comunicati stampa, comunicati stampa nonostante il capogiro, malgrado i vapori di urina agli angoli delle stanze, malgrado il piccante, ubriaco odore di lacrime e latex, comunicati stampa senza un canto, brache larghe abbinate a polacchine e sopra la scrivania, accanto al laptop, tra il barattolo di latta che contiene penne o evidenziatori e la pila di riviste cinematografiche sotto il lampadario, il cono d’ombra di otto faccette. Comunicati stampa, nonostante che anche loro, presto o tardi, siederanno un giorno su poltroncine imbottite per le colpe del tiranno M.C. con i suoi sudici, sudici stracci. Accessi d’asma. Vi sarà un comunicato stampa, senza pausa né fine. L’ergastolo, questa Cosmodemonic! A volte il bagno penale lo si vede come una tentazione. La sciarpa intorno al collo: non rabbrividire! Il pensiero del supplizio è più melmoso di M.C., scivolerò dalla mia poltroncina imbottita, mi impiglierò con la testa tra le parole e i ricordi, scuoterò le mie spalle per evadere e... taffete: un comunicato stampa. Mi allungano, mi voltano sul dorso, mi calciano come fossi un pallone. A mezzogiorno e mezzo Monica grida nel corridoio se qualcuno per caso vuole qualcosa per caso dal supermercato che lei passa per caso da quelle parti e potrebbe comprare il pranzo a tutti. Il suo tono di voce deve essere squillante, giocoso, lavorativo, cordiale e disponibile. Monica, nessuno ha ancoracapito perché, non vuole che le persone credano che lei stia facendo un favore a qualcuno, soprattutto se questo qualcuno è gerarchicamente posizionato sopra di lei. Per cui ogni azione altruistica ha una sottesa logica casuale. Antonin, che sta leggendo senza grande entusiasmo un articolo sul cinema post avanguardistico del ventunesimo secolo, pensa che in serata potrebbe farsi la sogliola alla mugnaia, tanto per rifarsi la bocca, proprio mentre M.C., con le braccia distese lungo i fianchi, detta la linea alimentare. Quarantatré minuti dopo in cucina tutto è avvolto in una nube di vapore, come in una mensa carceraria della Siberia: colpa delle ventate di freddo indotte da M.C. I vari condannati ai lavori forzati siedono intorno al tavolo, mentre Stefania, con una faccia lugubre, e facendosi largo a furia di bestemmie, porta le scodelle di zuppa. Ci sono M.C., Paolo, Giuffrida, Francesca, Monica, Tess McGill, Mario e, ovviamente, Stefania. Non c’è Marco il cassiere, l’eterno assente e padre Saverio, il quale però non mangia mai in compagnia e passa solo a fare un saluto di quando in quando. La broda schizza via in dense gocce tra i gomiti sollevati. Padre Saverio entra in cucina per salutare e, osservando in silenzio la scena, si fa il segno della croce. Questi dormienti non si ricordano neppure con che mano ci si segni. Poi se ne va. E in cucina fa freddo: tutti stanno mangiando col berretto in testa, ma con calma, pescando i resti spappolati di cardo sotto le foglie nere del cavolo e sputacchiando i filamenti amari ai margini del piatto. “Sputare per terra è ritenuto un segno di scarsa educazione anche qui”, pensa qualche volta Monica. Giuffrida alza il suo viso sperduto e piagnucola: “Si è già tutto ghiacciato”. Stefania ha un colpo al cuore e i suoi occhi tremano velocemente da Giuffrida ad M.C. e da M.C. a Giuffrida in silenzio. Si può percepire il rumore dei cucchiai che sbattono sui denti, mentre la brodaglia viene succhiata rumorosamente. “Forse se ci aliti sopra si riscalda”, bisbiglia M.C. senza alzare lo sguardo dalla ciotola. Stefania tira un sospiro di sollievo, come tutti: oggi diciannove Antonin M.C. è di buon umore. Francesca estrae il suo cucchiaio da uno stivale; quel cucchiaio gli è caro, insieme ad esso ha attraversato tutti i campi di lavoro forzato della psiche di M.C. M.C., senza cappello, con un abito a righe, la bocca aperta, le mani sulla ciotola. Antonin rimescola il fondo della minestra per verificare quel che gli è toccato. L’unico piacere che può dare la broda della Cosmodemonic, quando al tavolo si siede M.C., è di esser calda. Ma anche questa volta tutto è freddo. Antonin prende comunque a mangiarla con la solita scrupolosa lentezza. Anche se un piede sta andando in cancrena, qui si deve procedere lentamente, perché ci si può riposare un po’ di più. Se si conta pure il lavarsi le mani, il collaboratore di M.C. ha per sé mediamente solo dieci minuti per rifocillarsi a pranzo. E per giorni e giorni la ovoshchnoy sup non cambia: tutto dipende dal tipo di verdura messo da parte per l’inverno da Stefania e Mario. Lo scorso anno si trattava di barbabietole e l’anno prima ancora di patate. Oggi intorno al cucchiaio si avvoltola cavolo nero. E comunque sia immancabilmente il cardo. Amaro. Fibroso. Senza speranze. La zuppa si è congelata in un blocco e Giuffrida, per mangiarla, la rompe a pezzetti. I cubetti di ghiaccio si sbriciolano sul tavolo in mezzo alle fibre del cardo sputacchiate dai commensali. Dopo aver leccato il cucchiaio ed averlo infilato al solito posto, nello stivale, Francesca si toglie dalla testa il berretto e si avvia in infermeria per farsi dare un po’ di penicillina. M.C. sbuffa senza alzare lo sguardo dalla sua ciotola: “Quella stronzetta non ha chiesto il permesso di alzarsi, quando meno se lo aspetta gliela farò pagare”. Antonin si intristisce ancor di più, queste giovani leve non hanno un briciolo di amor proprio. Dopo pranzo tutti tornano nei loro bureau, al caldo, lontano da quel mudak che rende ogni cosa Siberia. Tic tic tac tac tic, le dita sulle tastiere dei computer: tac tac tec tec tic. Regna un silenzio postprandiale e digestivo. Dopo una mezzora Antonin sente che M.C. sposta rumorosamente la sedia dove è seduto, nella stanza di là, accanto alla sua; una sola parete che li divide, anche se non facesse strusciare la sedia per terra, andrebbe bene lo stesso, mica esiste solo lui. M.C. quando cammina frettolosamente fa tremare tutto il venti pavimento. Antonin sente la temperatura scendere vertiginosamente, è come un’ondata sulla superficie della pelle: Bbbrrrrrrrr! M.C. entra nell’ufficio di Antonevich e, guardando le proprie scarpe color muffin, dice: “Antonin, è possibile parlare in privato?”. A parte loro due non c’è nessun altro. Ventidue mattonelle grigie separano i loro piedi posizionati simmetricamente. “Sei in privato”. “Intendo nel mio ufficio”. Antonin ruota la testa verso sinistra di trentatré gradi esatti. Un raggio di luce proveniente dalla finestra alle sue spalle rimbalza sulla lente interna dei suoi occhiali. “Se preferisci”. Poi si alza dalla propria poltroncina e segue i piccoli e frettolosi passi di M.C. “Ecco siediti pure, Antonin”, concede M.C. con tono cerimonioso indicando la sedia che sta lì da venti anni circa. Antonevich tenta di reprimere una risatina sprezzante e domanda: “Lo senti che freddo che fa?”. “No! Volevo comunicarti le decisioni che abbiamo preso nei tuoi riguardi”. “Nei miei riguardi?”. “Visto che tu occupi una stanza tutta per te, noi riteniamo che sarebbe più corretto se tu pagassi un affitto”. “Quando usi la prima persona plurale, quel ‘noi’, esattamente chi intendi?”. “Noi riteniamo che una cifra accettabile possa essere cinquecento euro al mese”. Antonin si stringe la punta del naso fra l’indice e il pollice della mano destra, poi distende il braccio per intero sulla propria gamba: c’è un che di punto esclamativo nel gesto che compie. “Se vuoi puoi pagarli con il lavoro”. “Cinquecento euro?”. “Cinquecento euro”. “Lo so che non conosci questa parola”, afferma Antonin Antonevich avanzando sulla sedia, “d’altro canto sei solo un povero ignorante che si dà delle arie in modo del tutto immotivato, ma dovresti riconsiderare la possibilità che Dio non ti abbia fatto dono della sinderesi”. “Per favore Antonin, non facciamone un caso Antonin personale”. “Chiamami con nome e patronimico per intero, please!”. “Antonin Antonevich”. “E tu perché non paghi questa stanza?”. “Ma io la pago”. “Non è vero, lo sai che stai solo sparando cazzate”. “Non è una questione personale. Si chiama professionalità, mio caro Antonin Antonevich”. “Prima che io paghi cinquecento euro al mese, dovrai avere una Madonna che piange sangue alle tue spalle”. Antonin si alzò in piedi e puntò l’indice sulla superficie nera della scrivania, non stava gridando, anzi propriamente parlava a bassa voce. “Non ti rendi neppure conto del casino che stai combinando qui dentro”. Poi si voltò e se ne andò. M.C. ripeteva quasi a se stesso: “Non è una questione personale. Si chiama lavoro. Si chiama professionalità. Non c’entrano niente i sentimenti o l’amicizia”. Passano altri trenta minuti e M.C. sgambetta in corridoio ed entra nell’ufficio dove lavorano Francesca, Monica e Giuffrida, una grossa stanza con cinque caloriferi. I tre alzano lo sguardo rabbrividendo, nella stanza ristagna una nebbia bianca e fitta. M.C. non mostra mai il termometro ai suoi collaboratori e poi, in definitiva, non cambierebbe molto, perché M.C. pretende professionalità a qualsiasi temperatura. Inoltre Monica, che conosce intimamente M.C. per aver fatto sesso orale, anale e le cose rimanenti con lui per ben tre anni, ha sviluppato l’abilità quasi assoluta di determinare con precisione i gradi a cui M.C. fa scendere il termometro: se il vapore acqueo naturalmente presente nell’aria sembra una gelatina opalescente, siamo intorno ai meno quaranta; se il naso per espirare fa un suono tipo quando si russa la notte dopo essersi sbronzati di brutto, ma i polmoni riescono ancora a mantenere la giusta pressione interna per garantire una corretta inspirazione, vuol dire che M.C. è sui meno quarantacinque; se invece la respirazione è rumorosa e si avvertono fremiti di panico o pseudo asma, allora meno cinquanta. Sotto i meno cinquantacinque lo sputo congela in volo. Antonin guardò il soffitto e gli fece: “Spuuuut”. Osservò la saliva eseguire una parabola che improvvisamente precipitò verso il basso. Quanto toccò il pavimento si sentì un rumore squillante simile ad un bicchiere che si infrange, ed era a due stanze da M.C.: “Ohi, ohi, ohi! Poverini”. Ogni mattina Antonevich si svegliava con una speranza: “Sarà diventato un po’ meno Direzione generale dei Lager?”. Sarebbe bastato un meno trenta Celsius per far avvertire a tutte le persone che lavorano alla Cosmodemonic una piacevole sensazione di calore. Ma M.C. non si attenuava e Giuffrida e Francesca, i più martoriati, erano consapevoli che presto avrebbero perso tutte le speranze. Giuffrida sentiva le sue forze diminuire di giorno in giorno, lui, un uomo che studia filosofia e guarda in faccia la morte come consigliano Hegel o Bataille o Kojeve, doveva spremersi le meningi per accucciarsi qualche ora accanto ad una fonte di calore, altrimenti morire. E Giuffrida non voleva morire. Tutto l’uso di MDMA che faceva appena fuori da lì testimoniava in presa diretta un certo orrore per la fine, il tramonto, il negativo assoluto. Antonin sentì che M.C. si stava schiarendo la voce due stanze più in là, tuttavia si perdeva qualche parola: “Ehi ragazzi ...ttenzio... ...ervono dei volon... ...are i nuovi ...ogramm... per even...o d... ...omani”. Poi percepì la voce di Giuffrida che diceva: “Agli ordini”. “Allor... guar... vai da Anto... e fat... ...egare ...ome si f...”. “Uff!”, borbottò tra sé e sé Antonin. Ed ecco che arriva Giuffrida, verde in volto, tremante, smagrito, le gengive sanguinanti, un tozzo di pane secco nascosto nella tasca destra del giaccone, le scarpe di cartone pressato che si consumano facilmente nella neve e nel ghiaccio, rattoppate con buste gialle biodegradabili di mais dell’Esselunga lì accanto. Antonin lo osserva innervosendosi, ha un sacco di lavoro da portare a termine. Probabilmente Giuffrida gli farà mancare la misura giornaliera prestabilita da M.C. Se tale misura non viene raggiunta per più giorni, il collaboratore di M.C. viene accusato pubblicamente di nullafacenza. Un colpo di Kalashnikov alla nuca si può ancora considerare un atto di misericordia. “Cosa devi fare?”, chiede simbolicamente Antonevich grattandosi il mento, mentre Giuffrida rimane in piedi sulla soglia della stanza. “Campagna pubblicitaria per il film della prossima ventuno Antonin m.c. settimana, compagno Antonevich”, risponde battendo i denti per il freddo. “Hai già in mente qualcosa?”. Giuffrida gira la testa a destra e a sinistra come in cerca di un’idea. Sembra un cane affamato e triste. “No”. “Lo hai mai fatto?”. “Certo”, risponde Giuffrida quasi offeso. “Fammi vedere come si scrive un comunicato stampa”. Giuffrida estrae dal guanto di cotone mangiato dalle tarme un lapis senza punta, si siede per terra nel modo più compatto possibile, una pallina deforme per non far scappare via il calore del suo corpo, e fa sgusciare fuori dal cappotto un rotolo di carta igienica su cui comincia a scrivere: L’evento cinematografico dell’anno si terrà alla Cosmodemonic, in data... Antonin si alza in piedi e si avvicina a Giuffrida. Gli cammina intorno, un cerchio di curiosità e stupore: “Ma cosa... cosa stai facendo?”. “Il comunicato stampa”, risponde Giuffrida con due occhi larghi e candidi da bambino. “Allora guarda”, torna alla sua scrivania, “te ne passo ventidue io uno già pronto”, cerca nelle cartelle virtuali dei suoi vecchi comunicati stampa sul suo computer, “e tu gli cambi solo il nome dell’evento e la data, ok?”. “Ok”. “Per il resto puoi passare qualche ora qui a riscaldarti, vicino alla stufa, tanto per non assiderare. Dopo, però, te ne torni di là, ok?”. “Grazie mille, Antonin Antonevich”, dice Giuffrida asciugandosi una lacrima, “grazie mille”. “Quante volte te lo devo dire, chiamami solo Antonin”. Alle diciotto e trenta precise precise, Antonin spegne il suo laptop e si accorge che Giuffrida se ne sta ancora rannicchiato nell’angolo della stanza accanto al termosifone. “Sei ancora qua?”. “Sì, compagno Antonin Antonevich”. “Hai finito il comunicato stampa?”. “Forse devo ricontrollare le virgole, compagno Antonin Antonevich”. “Va bene, fai con calma, controllale per tutto il tempo necessario, ma quando hai finito non lasciare il Antonin termosifone acceso”. “Sì, compagno Antonin Antonevich”. “E domani te ne torni nel tuo ufficio”. “Certa... certa… …mente compagno Antonin Antonevich, anzi, colgo ancora l’occasione per...”. “Sì, sì, non importa, goditi queste ultime ore di stufa, e chiamami solo Antonin”. Capitolo IV Antonin cammina per il lungo corridoio al primo piano della Cosmodemonic e passa in rassegna tutti gli uffici, collocati alla sua destra, salutando i vari personaggi. Quel che potremmo vedere coi suoi occhi in forma sintetica è: Giuffrida (“Ciao a domani”) muro - M.C. (“Mi raccomando trattali come tratteresti te stesso”) muro - Paolo (“Ptù Ptè Taaaaa”) muro Monica & Francesca (“Ciao belle”) muro - Padre Francesco Saverio (“A domattina direttore”) muro – pavimento – muro - Stefania (“Ma quanto sei bella, mi vuoi sposare?” [risate]) muro - prima rampa di scale seconda rampa di scale - piano terra - Mario (“Un’altra lampadina fulminata?”) libreria vuota - Marco (“Sei qui per fare la cassa?”) porta a vetri - marciapiede motorino - alberi – macchina – macchina – macchina – alberi – parcheggio – marciapiede – portone di casa – ascensore – letto – soffitto. Il soffitto è il coinquilino preferito di Antonin da quando è venuto a vivere in questa casa, dove le pareti grondano umidità e ormai non ci si preoccupa neppure più di riverniciarle. È quasi il sostituto di un cane, nel senso che lo si potrebbe considerare come un migliore amico. Oltre al soffitto, Antonevich convive con una sua “angelo custode” e il suo fidanzato: una coppia piacevole, intelligente e di sinistra che lavora principalmente nel ramo dell’immigrazione, per cui spesso non sono in casa. Era solo tre anni fa che Antonin ancora condivideva il proprio cuscino matrimoniale con Lei, la donna della sua vita. Lei, dalle gambe di gazzella e la schiena zebrata. Il soffitto sta in ascolto. C’erano giorni in cui Lei era vestita tutta di grigio. La guardava dalla finestra. Non stava sorridendo. Non stava facendo niente. La mattina si studiava nello specchio del cielo e sbuffava. Cominciava a farsi domande inutili: le tegole sui tetti, i marciapiedi, l’inclinazione del sole. Sono deliri cosmici, come quando grigia e triste Lei decideva di comportarsi come una bambina viziata: non sbattere le porte, non essere maleducata, prenditi cura di me. In questi giorni esiste solo Lei, Lei coi suoi complicati silenzi carichi di significato a cui Antonin non può accedere se non litigando. Ci sono giorni in cui Lei, invece, indossa un abitino azzurro e sorride. Ti prende per mano e ti obbliga ad andare a distenderti su un prato. Saltella a destra e a sinistra. Ti chiede continuamente come stai, mettendoti esattamente al centro dei suoi progetti. Che sia lunatica? E tu le baci le labbra mentre corri in qualche piazza. Lei è così propriamente felice che l’orlo della sua gonna traccia l’intera circonferenza dei tuoi sorrisi. Ti gira la testa. Lei ti mostra piccoli angoli sconosciuti e si prende gioco di te mentre confessi di non conoscere un locale. Vorresti tapparle la bocca. Vorresti che fosse più carina e gentile ed educata, ma nonostante tutto ti fa ridere. La sua mano si libera fluidamente dalla tua presa. Io l’ho conosciuta una sera d’inverno, sta raccontando Antonin al soffitto, Lei aveva un maglione di lana bianca e fumava una sigaretta davanti ad una sala cinematografica. Abbiamo parlato ininterrottamente davanti ai fotogrammi privi di senso, abbiamo scoperto di avere un sacco di cose in comune. Ad entrambi piace il gelato. Adoriamo il giardino di Boboli. Sì è vero, ci sono troppi turisti. Le occasioni mancate per diventare adulti sono innumerevoli, basterebbe costruire dei servizi pubblici che ci portino fuori dai soliti posti. Non bisogna accontentarsi. La bellezza non è un valore di per sé. Quella sera Lei baciò in parte l’angolo della mia bocca, ma principalmente la mia guancia. Se devo essere sincero se la tira un po’, adora essere idolatrata. Mi sarebbe piaciuto sentirla bisbigliare nel mio orecchio qualche parola sconcia, un solletico che ti spinge a farti avanti, ma come ho scoperto più tardi, Lei diventa volgare solo quando si fa male: un dito sbattuto contro un armadio, un licenziamento in tronco, un tamponamento sui viali. Ci sono giorni in cui Lei parla senza sosta. Blatera strane concezioni affini alla cabala sulle vite segrete dei suoi amici. Sono giorni dove ti gratti la testa e osservi il soffitto, sarebbe inutile provare a farle ventitre Antonin cambiare idea, testarda e arrogante, complottista, piena di veleno e rabbia. Se ne sta seduta da qualche parte a blaterare, mentre tu la osservi dalla finestrella del bagno. Le piacciono le corti interne. Decine di finestre spalancate sulle sue psicosi. C’è un tombino aperto davanti a lei. Sotto un mondo a sé stante, che non vogliamo incontrare, di cavi e tubi e scarti, fluidi che vengono e fluidi che vanno via. Lei osserva e blatera. Sostiene, come fosse una filosofa barocca, che in queste giornate c’è sempre un mondo dentro al mondo, fatto di accordi segreti, di legami di sangue, cupole, potere, ombra, feudalismo politico, messaggi criptati, controspionaggio, gesti apotropaici, enigmi alieni. Non ne vuol sapere di ascoltarmi. Le metto una coperta sulle spalle. Le pettino i capelli neri con la mia mano. Le dico di stare calma: “Stai calma, amore mio, stai calma”. Le faccio bere qualcosa di caldo. Lei scuote la testa. Le sue labbra tremano nell’emissione vocale. La sua carnagione è pallida. Non sta mangiando da qualche giorno. Faccio la voce grossa: “Mi vuoi ascoltare?”. Mi guarda con due pupille vitree e preoccupate. Mi accorgo solo allora che sta piangendo. Ci sono giorni in cui Lei si distende accanto a me sul letto e si limita a sorridermi. C’è sempre un’aria fresca di primavera. La luce calda del tardo pomeriggio. Appoggia la sua testa sul mio petto e intreccia le sue dita ai miei peli. Sbatte pure le palpebre mentre le dico che sono contento. Poi mi interrompe, vuole giocare con me a qualcosa, qualsiasi cosa. Le va bene tutto, purché sia io a decidere. Allora le propongo una noiosa partita a scacchi. Lei mi sorride piena d’amore e mi dice: “Quello che vuoi te”. Capitolo V Il Festival di Cannes si svolge tutti gli anni a maggio dal 1946 in poi. Per un addetto stampa che lavora nel settore cinematografico è fondamentale avere i giusti contatti all’interno dei festival internazionali. Anzi, a ben guardare il suo lavoro consiste proprio nell’intrattenere i giusti rapporti nel settore. Andare a Cannes, quindi, non rappresenta una gita di piacere, ma un cardine intorno a cui ruota la propria professionalità. Lei sapeva tutto questo, ma quell’anno chiese ad Antonin a più riprese di non andarci. Non ventiquattro l’aveva mai fatto. Antonin le chiese delle spiegazioni. Lei si accese una sigaretta. Antonin schiacciò dentro la valigia alcune camice di ricambio e un paio di giacchette in tweed. Lei si mise in piedi a guardare fuori dalla finestra. Antonin le chiese comprensione, questo era l’anno buono in cui avrebbe intervistato David Lynch e Lars Von Trier. Una volta tornato a Firenze l’avrebbe portata a cena fuori tutte le sere per una settimana in ristoranti di ottimo livello e le avrebbe fatto quel giochino che a Lei piaceva tanto. Lei rispose di sì senza voltarsi ed espirò una densa nuvoletta di fumo, poi sospirò che a Lei bastava che lui non andasse questa volta, solo questa volta. “Non posso, devo andare, è il mio lavoro”. “Allora ciao”. “Non me lo dai un bacio?”. “Ecco il tuo bacio”. La macchina di M.C. lo aspettava giù da diversi minuti. Marco il cassiere continuava a suonare il clacson sporgendosi dal sedile posteriore, ma Antonin ancora non era sceso. Quando chiuse lo sportello anteriore e si allacciò la cintura di sicurezza accanto al guidatore, M.C. accese la radio e sgommò verso nord. Lei osservava dalla finestra l’automobile che si allontanava, chiudendo lentamente le palpebre. Eppure, nonostante tutto, sebbene Lei gli avesse chiesto di non farlo, Antonin Antonevich era partito per Cannes. Il più di un festival cinematografico consiste in ristoranti di pesce molto costosi, buffet con tartine al caviale, lunghi calici di polimetilmetacrilato dove scoppiettano bollicine alcoliche, strisce di cocaina e donne fuori controllo. Antonevich però era talmente innamorato di Lei, che quando gli veniva offerta una sveltina in bagno rispondeva sorridendo: “No grazie, ho smesso”. Le ragazze gli sorridevano troncando la conversazione e si mettevano a sedere su una poltroncina di velluto in attesa che giungesse qualche altro ospite. M.C. si limitava a girare a trecentosessanta gradi su se stesso con una strana espressione di gioia, mentre infilava nelle mani di distributori cinematografici biglietti da visita e umide strette di mano. Le pareti disgustosamente bianche sostenevano il peso di un Antonin Antonevich annoiato in tweed. Vedeva persone che reputava stupide. Ciarlavano di film masticando gamberetti, si portavano la mano Antonin davanti alla bocca se gli capitava di ridere, il decolleté mostrava graziosi piedi con le unghie laccate di rosa, il mascara e il blush, una pipa accesa nella bocca di un barboso. Sorridi anche se ti annoi. Stringi le mani. Quando capiti a Firenze, passami a trovare. Il lavoro dell’addetto stampa a volte non può essere facilmente distinto da quello di PR. È così per tutti, più o meno. Ogni nostro enunciato ha questo duplice destino. A volte Antonin si domandava cosa stesse sostenendo effettivamente quella vocina che gli parlava nella testa. Gli succede soprattutto quando lo champagne comincia a rendergli la scatola cranica pesante. Sì, proprio le placche etmoidali e basali acquistano un peso specifico simile a quello del mercurio. Ha come un nucleo di metallo dentro alle ossa. Le sue pupille precipitano sullo scollo di tutte le ragazze. “No grazie, ho smesso”, ripete con un ghigno che gli deforma il volto. Queste feste sono una massa di ciarlatani. Indistinti ciarlatani. Non c’è nessuno che si salvi. Poi alle cinque, quando rientravano nella loro stanza d’albergo tutti e tre (Antonin Antonevich, M.C. e Marco il cassiere) abbracciati perché si sentivano l’un verso l’altro felici, amici uniti fino alla fine, schiamazzavano fino al letto, dove sprofondavano tra un cuscino bianco troppo morbido e una luce soffusa. La moquette marrone si riempiva di pantaloni e calzini. C’è sempre un sospiro di paura e tristezza quando ci si addormenta in un albergo: la televisione illumina la stanza con immagini di un film di zombie. Antonevich sentì qualcosa di duro a contrasto tra il materasso e la sua schiena, portò la mano dietro di essa e sfilò il telecomando, mentre Marco il cassiere trascinava un cuscino dietro alla propria nuca ansimando per la stanchezza. E cominciò a spiegare che gli zombi non sono solo una facile metafora del capitalismo avanzato e della reificazione dell’uomo nella società di massa, bensì… Oh quanto adorava questa congiunzione composta, coordinante, avversativa che è “bensì” e che va detta ponendo tutto il peso dell’emissione vocale e retorica proprio su quella “ì” finale, quasi alzando l’indice della mano destra verso l’alto come un direttore d’orchestra consapevole del valore intrinseco dei fonemi, solo lui, come se fossero dei colori e le parole dei dipinti e “bensì” fosse un quadro di Mirò. Deve essere tutto merito dell’accento, sì è l’accento che va verso l’alto, il genio non è mai del tutto atono. “Bensì” un vero e proprio stile di vita. M.C. e Antonin Antonevich scoppiarono a ridere. E lo stile di vita non è una cosa da prendere sottobanco: bisogna considerare il fatto che se ti piace la zombata allora ti meriti la zombata. Ancora risate. Questi apocalittici e integrati che fanno questi film sono come degli psicologi; sono introflessi e malati, umidi e supponenti, sembrano olive sottolio; sono capre che ripetono sempre le solite tre stronzate una volta in agrodolce, quella dopo in umido, poi in macedonia; sono bipolari segaioli, si masturbano sulle foto nude delle nostre paure; sono contadini sardi che violentano la povera Dolly, a me fanno solo tristezza dentro perché o sei un rompicazzo di sinistra o sei un adolescente cacasotto. Ma se sei un uomo, se solo tu fossi un uomo, Antonin Antonevich, cambieresti canale. “Ma a me piacciono”, rispose Antonin guardando il soffitto, “mi rilassa vedere come sta male la gente. Mi fa sentire fortunato”. Nel viaggio in automobile di ritorno venne fuori che i tre avevano stretto un patto: la Cosmodemonic sarebbe diventata un luogo di cultura. E visto che erano tre si sarebbero chiamati: I Tre Leoni. “No, no, no”, interruppe M.C. mentre rallentava per entrare dentro ad un autogrill, “I Tre Spregiudicati”. Ma lo spregiudicato numero due, ovvero Antonevich, si sentì semplicemente infelice quando rientrò in casa e trovò tutte le luci spente. Lei non c’era. E non rispondeva al cellulare. Quando la chiave cominciò a ruotare dentro la porta, Antonin prese un albo di Nathan Never dal tavolino accanto al divano del salotto e cominciò a far finta di leggere. Ci sono delle notti in cui la luce della stanza ci deride. Sono notti in cui le nostre occhiaie vengono sottolineate e le piccole scaglie di pelle morta riverberano tutta la nostra apprensione disvelando paure che non sapevamo neppure di avere. Le pareti della stanza sono sempre un po’ più bluastre, come iceberg sperduti nell’oceano. E tu sai che ti comporterai esattamente nell’unico modo in cui non venticinque Antonin dovresti comportarti. Dovresti mantenere la calma, rimanere lucido, ma non ne sei capace e in fin dei conti desideri con tutto il tuo cuore di sbagliare. Le ore si erano fatte piccole e nere sull’orologio del suo polso. Lei entrò barcollando e barcollando si diresse in cucina senza dire una parola. Aprì il frigorifero. Estrasse una bottiglia d’acqua. Bevve con fastidiosi rumori gutturali. Al minuto trentacinque caracollò verso il salotto. La pazienza di Antonin era giunta al limite, ma cedette completamente quando vide che lei aveva cambiato non solo il taglio, ma anche il colore dei capelli. Era sconvolto. Lei sorrise gettandosi sulla poltrona. Quell’arancione color mandarino la rendeva, se possibile, ancora più irresistibile e questo rappresentava la goccia che fa traboccare Antonin Antonevich. “Dove sei stata?”. “Oh Dio quanto ho bevuto”. “Con chi eri?”. “Antonin, mi gira la testa”. “Dove cazzo sei stata?”. “Te l’ho già detto”. “No, non mi hai detto niente”. “Ma sì dai, se solo tu mi ascoltassi”. “Con chi cazzo eri?”. “Ehi, non parlarmi in questo modo”. “Ti faccio delle domande e tu almeno dammi delle risposte”. “Allora ascolta bene: te l’ho già detto”. “Sei andata a farti scopare in una bettola di terz’ordine”. “Cosa?”. “Che cazzo hai fatto ai capelli?”. “Ripeti un po’ quello che hai detto”. “Che cazzo hai fatto ai capelli?”. “No, quello che hai detto prima”. “Che ti sei fatta scopare in qualche bar del cazzo”. “…”. “In definitiva è il tuo modo per sentirti normale”. La faccia di Lei osservava Antonin in modo eccessivamente continuo. Lei si alzò in piedi e corse in camera da letto. Antonin gettò Nathan Never verso il soffitto e la inseguì, ma cominciò ad inciampare su tutto: prima la coperta che teneva sulle gambe, poi una scarpa, poi il tappetto, poi una busta di carta che era caduta chi sa quando e intanto Lei aveva già infilato lo spazzolino da denti dentro alla borsetta. “Ok, dai, ok, scusami”. ventisei Ma Lei andava avanti come un rullo compressore, afferrando cose a destra e manca e infilandosele in tasca o sotto l’ascella. “Dai, non lo penso davvero”. Lei si fermò. Era più alta di lui di almeno dieci centimetri. Respirava affannosamente. La maglietta nera attillata era molto sensuale sotto la finta pelliccia di ghepardo. Antonin desiderava con tutto se stesso sbirciarle le mutandine bianche a righe rosa. Lei disse: “Ho passato gli ultimi quattro giorni a farmi scopare sul letto di questa casa da quattro uomini diversi, uno al giorno”. “Perché mi stai dicendo questa cosa?”. “Perché è vera”. “Mi vuoi solo ferire”. “No, no, vai pure a controllare, ci dovrebbe essere ancora un profilattico usato sotto il nostro letto, l’ho tenuto in serbo per te”. Antonin corse in camera da letto, si piegò sulle ginocchia e osservò nell’oscurità. “Te l’avevo detto di non andare a Cannes”. Due ore dopo Antonevich aveva le valige in mano e stava camminando per strada. Le quattro del mattino a volte sanno essere un orario discreto. Non sarebbe potuto rimanere lui in quella casa, in quel letto. Era diventato tutto nero. Ma alle quattro del mattino sono poche le persone per strada disposte a giudicarti. È come un’assicurazione sulla propria dignità. Eppure ogni cosa appare un po’ più triste e pericolosa: ci sono scarafaggi che escono dai propri nascondigli e sacchetti di plastica che svolazzano nella notte. Ci sono netturbini che cantano e automobili che sfrecciano sui viali. C’è tutto un rumore nero di sottofondo che riecheggia tra un generatore di elettricità e l’altro. C’è la solitudine di un Antonin Antonevich che piange a testa bassa con le proprie valige in mano, mentre si domanda dove andare. E i cellulari sono spenti. “Mi vergogno a suonare a quest’ora al campanello di un amico. Forse, forse M.C. potrebbe aprirmi”. Quando giunse di fronte a casa di M.C. erano le quattro e trentasette. Antonin premette il pulsante del campanello. Lo premette una volta. Poi due. Poi tre. La finestra era buia, buia come se dentro fosse tutto a dormire, ma ad Antonin osservando attentamente, certo poteva anche essere un riflesso sul vetro, sembrava che, sì, ci fosse una testa tutta acquattata verso il basso Antonin come per non far vedere che studiava di nascosto dal secondo piano quel che stava accadendo sulla strada. Antonin pensò che forse non l’aveva riconosciuto e gridò che era lui, Antonin Antonevich. Il riflesso, che forse era il volto di M.C., scomparve definitivamente nel buio. Così andò da questa sua amica che aveva le pareti umide e camminò fino a viale Fanti due ore e un quarto, il tempo necessario per trovare la forze di non piangere e far scattare sul suo orologio da polso le nere sette del mattino. Il soffitto è il miglior amico dell’uomo. Ci permette di proiettare la nostra coscienza sulla sua pelle immobile direttamente dal nostro letto e nonostante questo non si fa carico di nessun tipo di transfert. È il miglior psicoanalista di tutti i tempi. Per il semplice fatto che osserviamo il soffitto e non ci sentiamo giustificati nello stare male, cosa che invece a volte accade se a farsi carico delle nostre pene è un essere umano in carne e ossa. In camera di Antonin Antonevich il soffitto è orizzontale. È un piano senza buchi. È una liscia estensione cerebrale. Chi ha detto che la profondità sia più intensa della superficie? La tristezza è una nostra responsabilità, questo ci ripete il soffitto. E quando siamo felici non abbiamo bisogno della sua lattiginosa presenza, ci basta uscir di casa e vivere nello striato. Il soffitto è il miglior amico dell’uomo perché nei momenti di bisogno è lì, sopra di noi, come il ventre gelido da cui siamo usciti. Non ci giudica, non ha una grande memoria, non ipotizza consigli per una corretta grammatica comportamentale; ci ripara dalla pioggia. Quando la sua crosta bianca non è più capace di farci da schermo psichico, chiamiamo gli imbianchini affinché ce lo ridipingano a dovere. E lui ci ringrazia nella misura in cui noi ci sentiamo più a nostro agio: il soffitto è altruista. Fa sì che gli inquilini del piano di sopra non ci precipitino addosso. E non chiede niente in cambio. Antonin Antonevich sapeva tutto questo nel momento in cui prese il cellulare per chiamare Lucianita. Capitolo VI Nella luce rossa della sua stanza sembrava avere un corpo di bronzo. Tutto merito di quella pelle di corallo scuro e dita delle mani affusolate. Le sue labbra erano marroncine come un tronco di legno, morbide come l’acqua. A Lucianita piaceva esser contemplata. Si spogliò come se fosse a suo agio. Lo sfilarsi le mutande color lillà sembrava un atto pubblico, una confessione gridata in mezzo ad una piazza. Per fare sesso indossò un baby doll di nylon nero appena visibile sui suoi seni. Era un desiderio di Antonin, il quale sosteneva che un lieve strato di plastica interposto tra loro due era più coerente con le precauzioni che Lucinata esigeva. Finsero di amarsi per qualche minuto. Lui la mordicchiò qua e là, lasciandole l’impronta dei suoi denti sull’epidermide. Sotto la pelle un intricato mondo di muscoli. Probabilmente molto di quel che guadagnava lo spendeva in palestre e fitness. Nonostante questo, nonostante tutto, lei era calda. Le estremità del suo corpo erano calde. I suoi denti, i suoi capelli, le sue unghie erano caldi e umidi come una vasca da bagno fumante. Aveva tutta una tinta color noce moscata o rame o ruggine intorno ai suoi bulbi piliferi straziati e quando si ritrovava da sola, nelle lunghe e monotone giornate da prostituta, continuava a lottare contro la sensazione di sentirsi una persona comune, a pranzo davanti ad un hamburger da 12 euro con insalata iceberg. Ma lei aveva il dono di riscaldarti. Bastava un suo sguardo o la punta di un dito irrigidito che struscia sulla tua camicia, dall’alto verso il basso, da destra verso sinistra. I vestiti di Antonin erano abbandonati sulla sedia in fondo alla stanza, poco oltre la porta del bagno aperta con la sua bianca luce al neon. Lei era adesso distesa con le gambe chiuse su di lui: i seni schiacciati sul collo, le ginocchia sugli stinchi; era alta almeno dieci centimetri di più. Si stavano alitando in faccia affannosamente, qualche goccia di sudore sulla sua schiena. C’era un’aria umida da tropico. Lei prese il bicchiere pieno di rum caraibico dal comodino accanto alla Bibbia. Infilò l’indice affusolato della mano destra dentro al liquido in attesa e poi fece gocciolare l’alcolico sui suoi genitali, i genitali di lui. Pizzicava e bruciava. Lei guardò il soffitto spalancando la bocca per il divertimento e lui le chiese di rifarlo, ancora qualche goccia. Di certo Lucianita non avrebbe disubbidito agli ordini di un cliente che paga sempre in anticipo da diversi mesi e poi Antonin Antonevich era proprio simpatico e gentile e non la trattava mai male. ventisette Antonin I due si guardarono negli occhi e lei capì subito cosa lui desiderasse. Appoggiò il bicchiere sul palmo della mano di Antonevich e scese giù a bere ciò che aveva versato, poi si mise a cavalcioni su di lui riprendendosi il bicchiere e sorseggiò il rum senza versarlo fuori dalla propria bocca scarlatta tra i vari sobbalzi dei fianchi di Antonin. Mentre Antonin si faceva la doccia, lei si riempì nuovamente il bicchiere e spiò nel portafogli di pelle marrone del suo cliente. Non rubò nulla, voleva solo togliersi la curiosità. Controllava attraverso il riflesso nello specchio del bagno la schiena maschile che si grattava con le mani insaponate. Il tesserino di giornalista, il tesserino della federazione calcio, il tesserino di una famosa azienda di scommesse, il tesserino di un club privato. Era tutto una tessera lì dentro. E grossi fogli da cinquanta. E biglietti da visita di centinaia di persone ordinati su internet e stampati in Polonia. Lucianita tornò ad osservare l’immagine riflessa di Antonevich sotto la doccia e comprese che in definitiva lui non sarebbe mai stato del tutto nudo: aveva abiti plastificati, alcuni con banda magnetica, altri con ologrammi. Aveva paura. Doveva proteggersi dal freddo siberiano. Lucianita trovò tutto questo molto umano. Dopo aver rimesso il portafogli nella tasca interna della sua giacca, rimase in piedi davanti al comodino. La Bibbia serviva per un suo cliente, un altro, che spesso voleva scopare mentre lei leggeva passi a caso dei Vangeli. Lui uscì dal bagno tutto avvolto in un asciugamano e cominciò a rivestirsi. Non si dissero neppure ciao, non era necessario, ma quando Antonin Antonevich si ritrovò nuovamente sulla strada, provò il desiderio di tornare indietro e semplicemente salutarla. Magari con un bacio. ventotto FERRUCCIO MAZZANTI Una notte eravamo a casa di amici e, ragazzi, lei disse qualcosa di me ed io: BAM!. È stato il più bel pugno della mia vita. Voleva chiamare la polizia dal mio stesso telefono per dire chi fossi, ma al secondo pugno rinunciò all’idea. EIN VOLK, EIN REICH, EIN SOCIAL NETWORK Tratto da una storia digitale. Sinossi: Siamo nel ventunesimo secolo. Il mondo intero è connesso sui social network. Sulla faccia della terra, la vita sociale è scomparsa, e le piazze hanno l’aspetto dei negozi di sigarette elettroniche*. Tuttavia, la razza umana è ancora in contatto. *desolati deserti. Berlino. É una tiepida giornata d’estate quando il secco rumore di tacchi militari riecheggia all’interno del Reichstag. Un gruppo di quattro soldati si fa strada attraverso la passerella del Parlamento. Quello che sembra essere il comandante supremo cammina ritto e impettito mantenendo un equivoco sculettamento, come se il suo ano fosse estremamente estroverso. Il quartetto si ferma in mezzo alla sala. Indossano tutti un berretto che sfoggia un pacioccoso uccellino azzurro al posto della classica aquila di ferro e sul colletto riportano due lettere in caratteri nazi: “FF”. Essi sono infatti membri onorari delle “Falsch Fratzen” (“Finte Facce”), un’organizzazione paramilitare dei social network. Il comandante si volta verso una gigantografia dell’uccellino azzurro, il quale sorregge una corona d’alloro che riporta una grande “f” al suo interno. All’improvviso tende il braccio destro ponendo la mano in posizione di “mi piace”, e rivolge così il suo saluto: “Heil Zucker!”. Tutti i presenti imitano il gesto del comandante. “Heil Himmler 2.0!”, risponde netto Zucker, il sommo Führer dei social. Poi riprende scocciato: “Cosa c’è che non va stavolta?”. “Niente, assolutamente niente mein Führer”. “Perché ti sei presentato allora? Mi basta già vedere il tuo avatar in chat per irritarmi!”. “Scusi mein Führer, è che... ha presente l’operazione #soluzionefinale?”. “Quella di identificazione totale di ogni utente iscritto ai nostri social? Certo, l’ho inventata io, idiota! Se ti è ancora sfuggita di mano, giuro che ti faccio regredire al ruolo di spammer per agenzie di viaggio!”. “Non è colpa mia. Giuro! C’è un utente iscritto ai nostri social, un certo Lawrence...”. “Lawrence? Lawrence come, d’Arabia?”. “Signor no, Signore!”. “Qual è il suo nome completo?”. ventinove Ein Volk, ein Reich, ein Social Network “Lawrence Clemuerte”. “Eh... dunque?”. “Il nome non è realmente esistente”. “Lei è una faina Himmler 2.0, se lo lasci dire. Avete fatto richiesta del vero nome e cognome?”. “Affermativo”. “La foto della carta d’identità l’avete chiesta?”. “Affermativo”. “E dov’è il problema allora?”. “É che le foto ce le ha spedite, ma erano... ecco... foto di feci che sguazzavano nel water. Credo siano sue”. Zucker stringe lentamente i pugni. “Come scusa?”. “Sì, ecco... al posto della carta d’identità ci ha inviato immagini della sua merda... Sono desolato mein Führer”. “CANCELLATE IMMEDIATAMENTE IL SUO CONTATTO! BANNATELO! Non posso tollerare tutta questa arroganza! E tu, mio caro Himmler 2.0, per punizione dovrai chiedere l’amicizia a cinquanta complottisti e riprendere tutto con Periscope, così che il mondo intero possa ammirare il tuo fallimento!”. “No! La prego, non i complottisti... Mi iscrivo alla pagina di Salvini, ma non loro, per favore”. “Il tuo Führer Zucker ha parlato”. Due guardie artigliano il comandante Himmler 2.0 e lo trascinano via verso un centro Wi-Fi. Giunge la sera. Zucker entra nella sua Mercedes 770 e mette in moto. Percorsi pochi metri si imbatte in un posto di blocco. Un poliziotto gli intima di fermarsi e si avvicina guardingo verso il finestrino. “Lei sarebbe?”. “Come chi sono? Sono il tuo Führer!”. “Si, certo. Mi dia nome e cognome”. “Non le interessa la carta d’identità?”. “Che me ne faccio della sua carta d’identità quando dal suo profilo Facebook posso conoscere anche il suo gruppo sanguigno?”. “Farò rapporto per questo. Comunque il mio nome è Markolf Zucker”. Il poliziotto estrae l’iPad dalla fondina iniziando a sgrillettare sullo schermo. “Allora... Markolf Zucker, gruppo sanguigno 0 positivo, altezza 1,76... Sembra corrispondere... Due colonscopie alle spalle... Vedo che ha anche una discreta passione per le minorenni, aspetti che la inserisco nella cartella ‘Pederasta birbone’”. trenta “Come si permette?”. “Si calmi e mi faccia leggere. Sembra vada tutto bene. Per me può andare”. “La ringrazio...”. Zucker si accinge a ripartire, quando di repente il poliziotto lo frena di nuovo. “Ah! Ho notato con piacere che tra i suoi libri preferiti annovera ‘1984’ di Orwell, io lo adoro. Le piacciono le fiction per caso?”. “Ma quali fiction e fiction! A me piacciono solo storie realistiche”. LAWRENCE CLEMUERTE Misantropo. Odia anche tu che stai leggendo. GREMBIULE ROSA La bambina dai riccioli biondi stava piangendo, seduta in disparte rispetto a tutti gli altri bambini. Ricordo che rimasi folgorata dal suo zainetto rosa, decorato con applicazioni fluorescenti ed elaborate. Mi avvicinai lentamente, cercando di non far rumore, mentre poco più avanti la maestra stava cercando con fatica di posizionarci in fila indiana. Frugai nella tasca del grembiule, e la mia mano sudaticcia trovò una caramella. Il rumore della carta sgualcita, afferrata con decisione dalla mia mano, fece sobbalzare la bambina di fronte a me, che alzò gli occhi umidi verso i miei. “Ciao”, mi disse, tirando su col naso. “Ciao”, risposi. Tesi la mano in avanti, porgendole la caramella. Lei esitò, guardando un po’ me, un po’ il dono che le avevo offerto, come indecisa su cosa scegliere. “Tieni”, la incoraggiai. La sua mano paffutella sfiorò la mia, prese la caramella e la mise in tasca. “Non la mangi? Guarda che è buona”, la esortai. “Non ho fame”, mi disse. Il suo naso colava da entrambe le narici, ma finsi di non notarlo e mi guardai intorno. Gli altri bambini si erano ormai allontanati, diretti in cortile. Io e la bambina eravamo rimaste sole, circondate da giocattoli abbandonati sul pavimento e pennarelli senza tappo sparsi ovunque. “Hai un fazzoletto?”, mi chiese a un tratto. Scossi la testa, dispiaciuta. “Fa niente”, disse, asciugandosi il naso con la manica del grembiule. Abbassò la testa e riprese a mugolare come un gatto. Misi le mani in tasca e iniziai a dondolarmi, pensando a qualcosa da dire che la potesse far sorridere. Mi venne in mente: “Andiamo fuori a giocare?” “Io voglio andare dalla mia mamma”, sbottò, coprendosi il viso con le mani e ricominciando a singhiozzare. Mi sedetti accanto a lei, ancora indecisa sul da farsi. Goccioloni di lacrime le cadevano sulle cosce, dipingendo pois scuri sui pantaloni celesti della tuta. “Non piangere… non piangere…”, le dissi dolcemente, prendendole una mano. Si liberò dalla mia presa e gridò: “Voglio la mia mamma! Voglio la mia mamma, dov’è andata la mia mamma?”. “Tra poco viene, ma adesso andiamo a giocare!”. Invano, cercai di alzarla dalla sedia tirandola per una mano. Fu tutto inutile. La bambina continuò a piangere. Quel giorno, rassegnata, raggiunsi gli altri in giardino. Le lacrime della bambina senza nome continuarono a inondare l’asilo per diverse settimane. Come marinai a bordo di piccole barche, sfidavamo il mare che ogni giorno saliva pericolosamente di livello. Ondate di pianto ci sorprendevano appena varcata la soglia della nostra scuola. La bambina, come una divinità marina in vetta a uno scoglio appuntito, dirigeva l’orchestra di quel mare salatissimo, coordinando il movimento delle onde e facendo di tutto per farci cadere in acqua. Sballottata qua e là dalle maestre, la bambina piangeva appena arrivata, piangeva in giardino, piangeva sul piatto di pastasciutta, in bagno, agli armadietti. Una volta la vidi singhiozzare mentre schiacciava dei pinoli in cortile. Pensai che si fosse schiacciata le dita con un sasso, ma dentro di me sapevo che non era quello il motivo. La vidi piangere mentre si metteva le dita nel naso. Si strappava i capelli, puntando e battendo i piedi per terra. Mi dispiaceva che stesse così male, ma non potevo farci niente, se non continuare il mio giro in barca sperando di non rovesciarmi ad ogni ondata. Avevo provato più volte ad avvicinarmi a lei, ma ogni passo che facevo sembrava incidere sull’intensità di quei singhiozzi. Mi ricordo il suo viso contratto in una smorfia di dolore costante, con la bocca all’ingiù e gli occhi strizzati, gonfi e grinzosi. Aveva sempre la faccia bagnata e appiccicosa, e il grembiule madreperlato trentuno Grembiule rosa di moccio. Ormai, all’asilo, nessuno faceva più caso al suo aspetto sempre abbacchiato. La bambina non aveva neanche un nome per noi, era solo “quella femmina che piange sempre”. Le avevo chiesto come si chiamasse, ma lei non faceva altro che sussultare, scossa dai continui singhiozzi. Con il passare dei giorni, ci avevo rinunciato. Passai il primo mese giocando con chi c’era, facendo disegni incomprensibili e mangiando poco di quello che le maestre mi mettevano nel piatto. Tra una cucchiaiata e l’altra, sbirciavo due tavoli più in là, cercando la bambina, sperando dentro di me che ci fosse. Lei intercettava il mio sguardo, e si asciugava naso e bocca insieme. Mi rimettevo a mangiare, ma ogni volta che la spiavo, così triste e sola, mi si annodava lo stomaco, e lasciavo il cibo nel piatto. Quando la sera mi mettevano a letto, non riuscivo mai a prendere sonno. Con gli occhi sgranati fissavo il soffitto e immaginavo la bambina cullata tra le braccia della sua mamma. In quell’immagine non c’erano lacrime, né grida, ma solo un velo trasparente sotto cui si celava una bianca serenità, nel quale, mi promettevo, avrei avvolto tutto l’asilo. Mi addormentavo stordita e annebbiata in quel pensiero confortante, e quando la mattina poggiavo i piedi scalzi sul pavimento freddo, mi sentivo protetta da una forza inattesa, come un’eroina determinata a portare a termine la propria missione. Così, un giorno di dicembre, decisi che non c’era più tempo da perdere. Se la bambina non si decideva a smettere di piangere, l’avrei deciso io per lei. Come, non ne avevo idea. Ma sentii che quello sarebbe stato il giorno giusto, il giorno della svolta. Vissi quella mattinata come sdoppiata da me stessa, guardando da fuori ogni mia azione, come fossi un’altra persona. Io che salivo in macchina guardando la neve ammucchiarsi sui tergicristalli, io che arrivavo a scuola, mi toglievo il giubbotto e lo appendevo nell’armadietto insieme allo zaino, io che mi spostavo al banco a disegnare, io che sbirciavo la bambina. Burattinaia di me stessa, muovevo il mio corpo con dei fili invisibili, facendo ciò che avevo sempre fatto, ma con una diversa consapevolezza. “Forse è così che si comportano gli adulti”, pensai. Maturava dentro il m.l. trentadue Grembiule rosa mio cuore la sincera convinzione di avere il potere per cambiare le cose, ma di non sapere come fare a usare quel potenziale. Così, ripetei le azioni di sempre incoraggiata da qualcuno che dietro di me mi dava una spintarella, e comandava i miei gesti. “Fa’ così. Adesso vai lì”, sussurrava nella mia testa. “Vedrai che la bambina smetterà di piangere”. Quando arrivò l’ora di pranzo, l’altra me decise di spolverare tutto. Mangiai le penne scotte al pomodoro, un po’ di spinaci e qualche carota. “Brava, così si fa”, disse la vocina. Una volta sparecchiato, le maestre ci portarono a riposare, come al solito. Non avevo mai dormito in quei lettini scomodi e cigolanti, ma, fedele alla promessa nata solo da qualche ora, decisi di provare a schiacciare un sonnellino. Mi tolsi le scarpe, e mi calai sotto le coperte. Guardai nel buio vicino alla porta, di fianco al termosifone, e vidi l’altra me sussurrare: “Adesso dormi. Se lo farai, la bambina smetterà di piangere. Da brava”. Mi girai su me stessa svariate volte, ma quel giorno il sonno non volle posarsi su di me. Allora mi misi su un fianco, a pensare a quale azione miracolosa avrebbe portato a compimento il mio grande progetto. “Forse non ti sei comportata bene con i tuoi genitori”, propose la vocina. Scartai l’ipotesi. La sorte futura dei pianti della bambina non sarebbe potuta dipendere da qualcosa di così difficile da cambiare in breve tempo. Doveva essere un’azione immediata, semplice come la risposta a uno stimolo. Stavo pensando a decine di possibilità, nel momento in cui percepii un rumore a me noto, proveniente dal lettino di fianco al mio. Era un respiro disturbato, simile a una serie di sussulti. “È lei!”, pensai emozionata, ma non mi mossi di un millimetro. La curiosità era pungente. “È lei, sì, è lei!”, confermò l’altra me, sempre seduta, appoggiata con la schiena alla parete. Scivolai senza far rumore sull’altro fianco, e la riconobbi. Esausta, la bambina si era appisolata con il dito in bocca. Un filo di bava sfiorava il cuscino già fradicio di lacrime, la faccia era arrossata e gonfia. La guardai in silenzio, seguendo il rapido movimento del suo petto, su e giù, su e giù. La vera bambina che dormiva non somigliava affatto all’idea che mi ero fatta di lei: il pianto rabbioso aveva scavato segni indelebili sulla sua faccia, che anche al buio riuscivo a riconoscere. “Perché non sorride mai? Perché non fa altro che piangere?”, mi domandai. La bambina sembrava lacrimare anche in quel lettino immacolato, nel sonno. Eppure non c’era nessuna goccia sul suo viso. Solo un turbamento evidente che non potevo non sentire, come un peso che di lì a poco si sarebbe nuovamente impossessato di lei, affogandola nell’oceano delle sue stesse lacrime. In quel momento, pregai solo che dormisse più a lungo possibile. Poi, a un tratto, la bambina aprì gli occhi, e io capii troppo tardi di aver pensato ad alta voce, svegliandola. Mi preparai a sentirla gridare, scalciare per liberarsi delle coperte, mettersi a urlare svegliando tutti gli altri. Le maestre si sarebbero arrabbiate e avrebbero dato la colpa a me. I miei occhi la guardarono chiedendole scusa e, in silenzio, la pregai di non iniziare nuovamente a piangere. Con mia sorpresa, il suo sguardo mi rispose annuendo, con dolcezza. La bambina si tolse il pollice destro dalla bocca, e ci mise il sinistro, iniziando a succhiarlo. Allora allungò la mano, ancora bagnata, verso di me. Io le porsi la mia, incurante della saliva che avrei toccato, e lei la strinse. Un calore improvviso salì dal polso alla spalla, passando per la curva del collo e arrivando alla radice dei capelli. Per l’emozione, la mia mano iniziò a sudare, appiccicandosi come una ventosa a quella di lei, che mi guardava senza sbattere gli occhi dal suo lettino, sdraiata a pancia in giù. “M-m-mi… mi ch-chiamo…”, sussurrò la sua bocca ancora impiastricciata. L’odore del suo fiato arrivò fino al mio naso. Poi si zittì, continuando a ciucciarsi il dito. Ci addormentammo dopo pochi minuti, le nostre piccole braccia penzolanti tra letto e letto, come un ponte tra due montagne lontane. Ricordo poi l’ultimo giorno di asilo, una mattina afosa di fine giugno, io e lei sedute sul muretto nel cortile della scuola, con i piedi che dondolavano sospesi. Una zanzara si posò sul mio ginocchio scoperto, appena sotto la fine dei pantaloncini blu di cotone. “Presa!”, gridò soddisfatta la mia amica, schiacciando l’insetto sotto il palmo della sua mano. “Oh, grazie. Ma che schifo…”, dissi, prendendo la zanzara ormai morta e facendola cadere il più possibile lontano da me. Un brivido mi percorse la schiena, trentatre Grembiule rosa facendomi tremare. Mi leccai le dita e, strofinandole contro il ginocchio, dissolsi la macchia di sangue che mi era rimasta in seguito alla puntura. “Ti ha fatto male?”. “Un po’. Ma tanto passa”, le risposi guardandola. Una voce richiamò la mia attenzione. “Dobbiamo andare, credo”. La maestra, in lontananza, iniziava a chiamarci, indicando l’orologio e facendoci segno di sbrigarci. Doveva essere l’ora di pranzo, probabilmente le nostre mamme ci stavano aspettando all’uscita. “Restiamo altri cinque minuti?”, propose, prendendomi la mano. Strinsi la sua di risposta. La maestra si era allontanata, andando a radunare gli altri bambini e scordandosi per un po’ di noi. Ne fui felice. “Sì, dai. Altri cinque minuti”. “Che farai da domani?”, chiese la mia amica guardando davanti a sé. Mi asciugai la fronte appiccicosa di sudore. “Non lo so… e tu?”. “Ah, non ne ho idea… ci conviene giocare questa estate, perché dal prossimo anno non avremo più tanto tempo per farlo”, mi rispose un po’ preoccupata, abbassando gli occhi. “Lo sai che avremo il grembiule nero?”. La prima elementare mi sembrava un traguardo, la fine di una corsa. All’improvviso un vuoto mi colpì allo stomaco. “Quindi… Diventiamo grandi?”, azzardai, indecisa fino alla fine se usare un tono affermativo o interrogativo. “No… non ancora”. Tirai un sospiro di sollievo e deglutii. “Si diventa grandi quando si sono viste tante cose. Noi siamo ancora piccole. Ci sono tante cose che non abbiamo ancora visto”, mi spiegò gesticolando. Il sole di mezzogiorno stava scaldando le nostre teste. Era difficile immaginare il futuro, cosa sarebbe successo nel giro di qualche mese, passata l’estate. “Tu cosa vorresti vedere?”, le domandai, cercando di allontanare il caldo, sventolandomi con la mano. “Vorrei… vorrei andare nei posti lontanissimi e vedere cosa succede laggiù”, disse con un tono serio. “Tu?”. “Io vorrei essere già grande come i miei genitori e avere già visto tutte le cose del mondo, tutte quelle che non ho mai visto. Centinaia, migliaia, milioni, miliardi trentaquattro di cose. Sai quanti sono i miliardi?”. Sorrisi e pensai ai numeri, che allora ancora non conoscevo bene. “Non è possibile saperlo… tu sai contare?”, mi chiese. “Fino all’infinito”, mentii con decisione. E iniziai: “Uno, due, tre, quattro, cin…”. “Non è vero! Nessuno sa contare fino all’infinito. Bugiarda!”, mi punzecchiò facendomi il solletico sulla pancia. Mi misi a ridere cercando di divincolarmi dalle sue mani e spingendola indietro. “Basta. Adesso fa proprio troppo caldo”, le dissi appena riuscii a riprendere fiato dalle risate. Lei annuì, tirando su le gambe e incrociandole come una piccola indiana. “Credo proprio che dovremmo andare, adesso…”, disse, indicando la maestra che, un po’ arrabbiata, stava tornando verso di noi. “Ma prima promettimi una cosa!”, mi strizzò le mani dentro le sue, si avvicinò al mio orecchio e sussurrando mi chiese: “Rimarremo amiche anche quando avremo il grembiule nero, non è vero?”. I suoi occhi celesti si dilatarono, e cercarono i miei in attesa di una risposta affermativa. “Certo”, la rassicurai abbracciandola forte. L’odore tenue del suo sudore raggiunse le mie narici, mescolato a quello dell’erba seccata dal sole, poco più in là. “È ora di andare”. La presi per mano e insieme, con un salto, atterrammo sulla ghiaia sotto di noi, che accolse il nostro peso con un rumore di ramoscelli spezzati. Ci avviammo trotterellando verso l’uscita della scuola, sistemandoci i pantaloncini umidi che per il caldo torrido si erano attaccati ai nostri sederi. Non la rividi mai più. CHIARA AGOSTINI Scrittrice mancata (per ora). FORSE TE L’HO GIÀ CHIESTO 4. Il principe, ovvero: una breve teoria su quasi tutto Francesco, meglio noto come “il Principe”, avrebbe avuto le capacità per diventare un professionista. Steccata pulita, sensibilità, impostazione raffinata, quella confidenza simbiotica col biliardo che porta il giocatore a sapere esattamente cosa è meglio fare e come eseguirlo. “Il Principe” era difatti un soggetto dalla tracimante sicurezza in se stesso e, una volta detto questo, arriviamo all’essenza della sua monumentale personalità e dei suoi non trascurabili limiti. Ogni volta che pronunciava una parola o giocava un tiro, sembrava nell’atto di incidere la sua verità eterna sulla pietra. La versione ufficiale lo voleva rappresentate di tessuti, professione che un tempo gli aveva permesso di togliersi molte golose soddisfazioni nel distretto pratese. Dando per scontato che quello fosse ancora il suo mestiere, la sala biliardi doveva essersi trasformata nel suo ufficio. Animato da una certezza senza confini nei suoi mezzi sportivi e intellettuali era refrattario a qualsiasi tipo di suggerimento, consiglio o cambiamento. Questo probabilmente spiega la maggior parte delle sue sconfitte e fallimenti. Lui però non se ne curava e affrontava la vita come se corresse su un binario invisibile. Commetteremmo un errore banale se ci limitassimo a descriverlo come un caso di disturbo narcisistico perché “il Principe”, e a lui farebbe piacere sentirselo dire, era molto di più. A meno che non stesse sopra un tavolo da biliardo era invariabilmente posseduto da una tensione impaziente, dall’uggia mal repressa tipica di chi, in qualunque posto si possa trovare, vorrebbe essere da un’altra parte. Un’altra parte fatta tutta di piaceri e libidine, paradisi artificiali a noi proibiti, ma per lui, “il Principe”, sacrosante ricompense da tributare alla sua figura. 4. Il principe - 5. A lettere cubitali Lo smacco di trovarsi ancora lì, in quella sala affogata nel buio, era solo l’inganno di un destino ingrato e malevolo sul quale, presto o tardi, avrebbe avuto ragione. Guardarlo giocare però restituiva un senso a quella presenza insofferente e turbata, perché Francesco, il biliardo, e forse solo quello, lo amava davvero. Anche se le capacità di conversazione erano sotto il costante assedio di un umore fluttuante e di un’attenzione indecentemente breve, quell’uomo aveva dentro un bagliore accecante. Senza alcuno sforzo l’ho sentito emettere sentenze su qualsiasi tema l’essere umano avesse commesso l’errore di fermarsi a riflettere: l’origine della vita, i flussi migratori, il conteggio per i rinquarti di calcio, la cocaina, la cleptomania, le prostitute ungare, l’educazione dei figli, l’origine della crisi e sua rapida risoluzione, la pace in medio oriente, la ricetta per l’anfetamina, l’antimateria, l’esistenza del punto “g”, Coppi o Bartali, la vera identità di Gesù Cristo. Pareva immune dal dubbio come dalla necessità di dover spendere più di qualche secondo per ascoltarti e illuminarti col suo verbo. Nonostante questo non riuscivo a detestarlo fino in fondo, anzi, vittima di quel bagliore, gli perdonavo ogni sua piacevole prepotenza. Insomma, “il Principe” riusciva a indossare con eleganza il declino che appesantiva molti dei giocatori e rilanciava con convincimento universale la sua breve teoria su quasi tutto. Era la maestosità inscalfibile del suo carattere ad assolverlo dalla maggior parte delle regole che limitano noi altri. Questo, come è facile immaginare, non lo aveva risparmiato dai danni collaterali che corredano inevitabilmente l’avventore tipico della nostra amata sala. In particolare l’abitudine al gioco d’azzardo si era ben presto convertita in una schietta dipendenza che, assieme al fumo, al sesso ed altri illegali segreti, alimentavano il giro delle cose che non riusciva a smettere di fare. trentacinque Forse te l’ho già chiesto d.s. Fumava Marlboro rosse in proporzioni difficili da quantificare. Persino una partita al biliardo poteva essere troppo lunga da affrontare senza un po’ di catrame. Così, quando era il turno di gioco del suo avversario, non era raro vederlo allontanarsi con furia dal tavolo, aprire la porta della sala fumatori e respirare a pieni polmoni. Era la sua versione di aerosol alla nicotina. Lo conobbi in una di queste circostanze, mentre tentava di scardinare quella porta in preda a un attacco astinente. La sfortuna quella sera decise di fargliela trovare chiusa. Dopo qualche giro violento di maniglia tentò con un calcio poco convinto passando poi a delle decise spallate. “Francesco, siamo ad aspettare te! Tu fumi dopo dai”. Il suo avversario cominciava a spazientirsi, solo a quel punto “il Principe” provò a rimandare il suo bisogno. Mosse qualche passo verso il tavolo poi, di colpo, si fermò. “Scusami un secondo”. Qualcuno aveva già cominciato a scuotere la testa trentasei gettando lo sguardo al cielo, altri sghignazzavano, il suo avversario era semplicemente esterrefatto. “Il Principe”, con il naso a pochi millimetri dalla superficie della porta, stava battezzando l’intera nomenclatura cattolico cristiana, sbraitando le bestemmie più articolate e veementi che avessi mai udito pronunciare. Concluse la sua orgia salmodiante con una imprecazione dedicata al sacro rito del presepe. “Accidenti a lui e tutte le statue che ci sono dentro, voglio fumare!”. La sala si era congelata, e lui, che in tutti quegli anni non mi aveva neppure concesso la parola, sembrò improvvisamente rendersi conto che esistevo, che in quel momento ero proprio lì, divertito e attonito da una scena ai confini della realtà. Mi fissava. “Dico bene topino?”. Topino: nomignolo affettuoso ed insieme canzonatorio che di solito i veterani rivolgono ai novizi. “Dici per il presepe?”. “Ovviamente”. Forse te l’ho già chiesto “Credo di sì, infatti da noi si fa l’albero a Natale”. Accennò un’espressione divertita, l’incrocio ammaliante tra un sorriso e una tagliola rugginosa. Dall’altra parte del biliardo il tizio si stava riavendo dallo shock. “Francesco! Quando sei in comodo vorrei finire la partita”. “Ma senti quanta fretta di perdere soldi c’ha il ragazzo. Ora arrivo, così t’accontento”. In effetti la partita non si stava mettendo bene per il suo avversario. “Il Principe”, a ogni modo, sembrava non avere intenzione di tornare al tavolo. Decise piuttosto, con ostentata gestualità, di accendersi una bella sigaretta: affronto intollerabile ed espressamente proibito nelle sale. Il divieto a fumare, sebbene osteggiato dall’intera comunità di giocatori, veniva imposto con spietata intransigenza dal gestore che, dopo tenaci proteste, era riuscito a piegare tutti al suo volere. Tutti tranne lui. Aspirò la sua dose con gusto e cattiveria, lasciando la scia biancastra sollevarsi e sparire nel buio. Prima di tornare al gioco mi porse la sigaretta accesa come fosse una reliquia. “Reggimela un secondo”. Rapito da tanto fascino irriverente, avevo fatto spazio per un altro eroe dannato nella mia collezione: tra Slash dei Guns N’ Roses e Franco Califano, “il Principe” trovava adesso il suo posto d’onore. Restai immobile, con quel mozzicone tra l’indice e il pollice per il resto dello scontro. Francesco, non era soltanto bravo, era bello da vedere. Ogni tanto il biliardo sembrava persino esercitare su di lui un potere catartico, al limite del terapeutico. Allo sproloquio presuntuoso sostituiva un silenzio predatorio e feroce, i movimenti, di solito nervosi e imprevedibili, diventavano lenti, misurati, felini. Quella era una di quella volte. Un’altra magia del basilisco. Non sbagliò una palla e tutto si bruciò nel tempo di una sigaretta. Mentre il pubblico batteva le mani, Francesco mi si avvicinò, staccò il mozzicone dalle dita e fece l’ultimo, potentissimo, tiro. “Bravo topino”. Ora “il Principe” aveva l’aspetto di un gatto dal sorriso beffardo, ammiccante e pericoloso come una tagliola. 5. A lettere cubitali La mitologia di Montecatini narrava di una perduta ed elegante cittadina in stile liberty, luogo di culto per villeggianti facoltosi, puttanieri e vecchi artritici. Le prodigiose acque termali, assieme al lusso di alberghi e meretrici a cinque stelle, avevano attratto per decenni le sfere più dignitose di una società ormai scomparsa. In piccola parte la nostalgia di quel periodo rigoglioso sopravviveva ancora tra i brandelli di un turismo impoverito, ma comunque dedito agli stessi passatempi. Così Montecatini sopravviveva, perché in fondo scommettere e scopare piace un po’ a chiunque e, nonostante tutto, trovare il riflesso di quel mondo dorato non era difficile. In particolare le decine di alberghi abbandonati o semivuoti testimoniavano con fierezza il tramonto di un’epoca, e giacevano come tanti Titanic sul fondo di un abisso buono soltanto per il sesso a pagamento, le scommesse e tutta una fioritura di locali notturni dove ci si dedicava candidamente a entrambe le attività. Si poteva apprezzare un piacevole retrogusto gentilizio nel consumare quelli che un tempo furono peccati riservati ai soli miliardari e che adesso venivano svenduti a ogni disperato con un portafogli in mano. Nonostante la sua reputazione, avevo sempre avvertito per quel luogo un affetto sincero e, solo in parte, guastato da un pizzico di sdegno. In effetti con me Montecatini si era sempre mostrata con le lusinghe corrotte di una donna un po’ avanti con gli anni, ma ancora capace di farti divertire se la pagavi bene. Con lei, o su di lei, si erano celebrati molti dei miei riti di iniziazione verso un’adolescenza svergognata e clamorosa. Così, spinto da un vento sabbioso e torrido, avevo perlustrato tutte le sale giochi che conoscevo, autentiche icone della nostra dissoluta primavera giovanile: la “Steccaccia”, il “Marameo”, lo “Spaccone”, persino il “Perdigiorno” realtà eternamente sospesa sull’impalpabile confine della legalità. Il proprietario, soggetto che per la consistenza vaga dei suoi progetti di vita si era guadagnato il nome di “Affondasugheri”, era considerato una delle personalità più autorevoli nel settore delle bische così come delle case circondariali. Fu quel pomeriggio che appresi la definitiva chiusura di quel santuario del vizio. Il “Perdigiorno” non esisteva più, al suo posto un più redditizio e al passo trentasette Forse te l’ho già chiesto coi tempi “Compro Oro”. “Peccato”, pensai. Era lì che avevo ammirato per la prima volta un professionista del biliardo, un uomo tanto abile con la stecca quanto improbabile come persona. All’epoca lo chiamavano semplicemente “il Tommo”, poi, per via della sua mole e dei suoi modi non sempre discreti, si preferì rivolgersi a lui come “il Tatanka”. È stato davanti a una scritta menzognera sul valore dell’oro che cominciai a interrogarmi seriamente sulla preoccupante piega che stava assumendo quella vicenda. Dove era mio padre? Dove cazzo andava un amnesico assieme a “il Principe”? E soprattutto, perché sembravo più dispiaciuto per la morte di quel locale che per la scomparsa di R.? Allo sgomento per l’ennesimo fallimento riportato nel gioco della caccia al padre, si aggiungeva un sincero e romantico dolore per la fine di quel posto e delle sue creature. In fondo me lo aspettavo di non trovarci nessuno, né “il Principe” né il suo ostaggio, però mi avrebbe fatto piacere farci un giro e tra quei tavoli scoprire l’immarcescibile “Affondasugheri”. Trovarlo ancora lì, come un vecchio pugile tumefatto ma ancora in piedi, a schivare i colpi bassi della legge e degli usurai. Mi meravigliava sentirmi addosso quel languore malinconico. Nonostante i buoni propositi e tutte le ricette per rigare dritto, come Pinocchio riconoscevo il richiamo ammaliante del paese dei balocchi. Avevo persino voglia di giocare. Continuai a camminare senza meta, fino all’ingresso di una enorme struttura circolare, il monumento più antico e fedele alla natura di quella città. Le luci illuminavano ancora la pista bruna e gli spalti ormai deserti. Un tabellone mi rammentava che Katiuscia, si era imposta su “Stella della sera” e “Confettino nero”. Ultimo classificato, con ritardo indecente, lo scandaloso “Second son”. Faceva un certo effetto pensare che tutto quel silenzio era il guscio vuoto di una folla ansimante, la stessa che ogni giorno tenta di scrutare il disegno del destino negli esiti incerti di una gara. Un refolo caldo alzò da terra una nuvola di cartacce. Tante quante potevano essere le scommesse perse e subito dimenticate. In alto, enormi lettere rosse si imponevano dentro e fuori di me. La scritta diceva: Benvenuti all’ippodromo. trentotto ETTORE BARGELLINI “Cercherò, mi hanno sempre detto cercherò, Troverai, mi hanno sempre detto troverai.” G. Nannini, “America”, 1979. Tutti i diritti dei brani sono di esclusiva proprietà degli autori.