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A FEW WORDS
numero 4, fruttidoro/vendemmiaio 2015
speciale Firenze RiVista
EMILIANO GUCCI
PAOLA CALVELLO CORNEJO
MATTHEW LICHT
LAVINIA FERRONE
FERRUCCIO MAZZANTI
LAWRENCE CLEMUERTE
CHIARA AGOSTINI
ETTORE BARGELLINI
DIRETTORE RESPONSABILE
DIRETTORE EDITORIALE
CAPOREDATTORE
PROGETTO GRAFICO
FOTOGRAFIE
GIORGIO BERNARDINI
FILIPPO ROMEI
MICHELANGELO FOCOSI
DUCCIO NARBONE
MIRKO LISELLA, DOMENICO SIMONE,
MARCO CASTELLI
EDITING ELETTRA GALLORINI
afewwordslab.com
facebook.com/afewwordslab
[email protected]
Finito di stampare a Settembre 2015 presso stamperia Colorado
via F.Ferrucci 95/h, Prato - tel. 0574073743
EDITORIALE
INDICE
Il Cocomero
quattro
Emiliano Gucci
So cosa è meglio per te
dieci
Paola Calvello Cornejo
L’essenza
tredici
Matthew Licht
Majakovskij
diciassette
Lavinia Ferrone
Antonin
diciannove
Ferruccio Mazzanti
Ein Volk, ein Reich,
ein Social Network
ventinove
Lawrence Clemuerte
Grembiule Rosa
Chiara Agostini
Forse te l’ho già chiesto
Ettore Bargellini
trentuno
trentacinque
P. scartò con cura il pacchetto di Winston appena
acquistato, ne estrasse la sigaretta d’esordio e, nell’
accenderla, disse:
“Sai, forse potrei scrivere un racconto sulla pigrizia... ”
Davanti a me avevo l’esempio più perfetto della
peggiore razza di autore con la quale si possa avere
a che fare: quello di talento, ma così profondamente
convinto di non averne abbastanza da rispondere
picche ad ogni tipo di lusinga. Ad essi, il solo sentir
nominare la parola “pubblicazione” provoca un
lancinante e continuo dolore addominale. Capirete
che, trovandomi in una tale situazione, non potevo
prescindere da una certa delicatezza di modi, pertanto
decisi di assecondarlo.
“Mi sembra un’ottima idea. Certo, mi hai parlato
anche di altre cose in passato, ad esempio quello
strano caso del volatile... Una storia divertente, com’è
che si chiamava?”
“L’Affaire Canarino”.
“Proprio quella! Sicuro che non sia più appropriata?
Voglio dire, introspezione, umorismo, infanzia...
Tutte cose che hanno un discreto appeal, dovresti
rimetterci mano”.
“No, mi sto muovendo verso qualcosa di più totemico
– fece una lunga boccata, poi proseguì – più, come
dire... proustiano. Voglio scandagliare i peccati
capitali, inserirli in un contesto contemporaneo, e mi
sembra che l’accidia possa essere un’ottima base di
partenza ... è il male del nostro tempo, in fondo”.
Un po’ come promettere un racconto da mesi e poi
sparire, pensai. Tenni questa considerazione per me.
“Quello che vorrei riuscire ad ottenere – gettò la
sigaretta – è qualcosa sullo stile di Oblomov, però
molto più condensato, più... intenso. Lo hai letto
Oblomov? ”
“Si, due anni fa più o meno. La prima parte, quella
nell’appartamento a San Pietroburgo, con il vecchio
servo che...”
“No, aspetta. Lì non ci sono arrivato. Non sono mai
riuscito a finire di leggerlo... “
Sospirai.
“Allora, temo proprio che tu debba scrivere un
racconto che tratti della pigrizia... Anzi, dammi retta:
comincia immediatamente”.
tre
IL COCOMERO
“Se per tanti anni è rimasto inedito, ci sarà un perché”. Forse è vero. Di certo, un possibile perché, è
che questo racconto non l’ho mai proposto a nessuno prima di oggi. Erano gli anni intorno al mio primo
romanzo pubblicato, Donne e topi (Fazi, 2004), avevo il cassetto (l’hard-disk, a dire il vero) pieno di scritti
brevi e le occasioni per farli girare erano poche: qualche rivista, qualche premio letterario, rarissime
antologie collettive. Oggi è bello riesumare questo Cocomero, fresco di quella stagione andata, riaprirlo
e rileggerlo con l’intenzione di riscriverlo, perlomeno sistemarlo, per poi trovare il coraggio di spostare
giusto un paio di virgole, mezza parola stantia; se ha qualcosa di buono, e spero sia così, va rintracciato
anche nella scrittura che fu. Sono felice trovi spazio qui, adesso, tra queste pagine energiche e vitali,
sotto i vostri occhi che chissà cosa leggevano, quando il Cocomero ruzzolava fuori dai miei tasti…
Emiliano Gucci
Avevo deciso di prendere il treno per andare a
Viareggio. L’idea era di passare a trovare un amico
che aveva aperto un negozio di dischi sulla passeggiata
lungomare, per poi pranzare con lui e fare un tuffo nel
pomeriggio.
Il mio rapporto con le ferrovie si era deteriorato durante
la mia vita da pendolare, un periodo di sei anni in cui
avevo preso il treno due volte al giorno, per un tragitto
di soli quindici minuti. Avevo passato più tempo ad
aspettarlo che a viaggiarci sopra, e il matrimonio si
era sfasciato con un logorio lento e inesorabile. Ma
adesso era un sabato di luglio, faceva un caldo cane,
le autostrade erano zeppe e la mia utilitaria scalcinata
non aveva neanche il condizionatore.
Pensai fosse meglio la poltroncina di un vagone fresco,
e un buon libro da leggere.
Mi ero alzato abbastanza presto, avevo fatto la barba
e messo nello zaino un costume, un asciugamano,
le ciabatte di gomma e un libro di Fenoglio, avevo
sbattuto l’uscio di casa con l’afa che già mi appesantiva
il passo. Mi mancavano la crema solare, indispensabile
per la mia tenera pelle mozzarella, e magari un po’ di
frutta da mangiare durante il giorno. Pensai di passare
dal supermercato: pessima idea, considerando il
caos del fine settimana e il caldo che dà alla testa.
Ci misi cinque minuti per trovare parcheggio, che
mi costarono la prima sudata giornaliera, e il colpo
quattro
del condizionatore all’ingresso non fece bene alle
mie artrosi. Impiegai dieci minuti a scegliere la
crema solare, semplicemente perché c’erano troppe
possibilità. Poi, per scegliere due pesche e tre susine,
mi toccò assistere a un violento teatrino. All’inizio vidi
soltanto un gruppo di cinesi, una decina tra uomini e
donne, che si spingevano tra sé. Rapidamente alcune
mani si alzarono e si agitarono, e capii che la vera
contesa si consumava contro una decina di casalinghe
di Prato, scortate da mariti sovrappeso e assai
campanilisti. Volarono diversi ceffoni e una decina di
cazzotti, ognuno urlava nella propria lingua e non si
capiva un cazzo. Un uomo finì sdraiato, una donna
andò a sbattere contro una pila di cassette di mele,
che rotolarono sul pavimento, un italiano minacciò
un cinese ruotando un ananas sopra la testa, il cinese
rispose lanciando una verza. Altra gente si unì alla
ressa, intervennero i ragazzi del supermercato a fare da
pacieri, poi arrivò uno della sicurezza, vestito da brutta
copia di carabiniere. Ero scioccato, impietrito, con il
guanto di nylon che mi si appiccicava alla mano. Mi
sfuggiva il tema della grande contesa, ma poi un ometto
mi spiegò che era tutta una questione di cocomeri: il
volantino delle offerte pubblicizzava una giornata di
angurie sotto costo, solo che all’apertura erano arrivati
i cinesi e avevano svuotato i cassoni e riempito una
decina di carrelli, lasciando a bocca asciutta il resto
Il cocomero
m.l.
della clientela. I commessi dell’ortofrutta si erano
dati da fare, i cocomeri erano stati riforniti, ma per
l’ottanta per cento erano finiti ancora in mano cinese.
Adesso, in attesa del terzo rifornimento, qualcuno
non aveva sopportato che in pole position ci fossero
ancora loro. Cinesi. Cinesi dappertutto. Che se ne
facevano di tutti quei cocomeri? Dove li mettevano?
Che razza di frigoriferi avevano? Che li lasciassero
un po’ anche agli altri, Santo Cielo. Inghiottii amaro,
ringraziai l’informatore, pesai e prezzai le mie pesche,
mi avviai alle casse. Non me ne fregava niente della
contesa italo-cinese, ma soprattutto pensai che non
avrei mai fatto a botte per un cazzo di cocomero.
Alle dieci in punto parcheggiai vicino alla stazione
di Prato. Acquistai il biglietto, poi un quotidiano, e
aspettai il treno sul binario, all’ombra della pensilina.
C’erano due distinte compagnie di ragazzi molto
giovani, più maschi che femmine, che facevano un
gran chiasso. Mi vennero in mente le mie gite al mare
di venti anni prima e sentii un vuoto allo stomaco.
C’erano anche altre persone, un militare in divisa e
due suore con le valigie. Mi domandai quanto caldo
facesse sotto quelle tonache: forse, stavano meglio di
me.
Arrivò il treno, con soli dieci minuti di ritardo, e salii
nella carrozza attaccata alla locomotiva. Era fresco
ma anche pieno zeppo. Tutti i posti a sedere erano
occupati, così cominciai a scorrere i vagoni verso
il fondo. Uno, due, cinque, nove, tutti stracolmi.
Il treno viaggiava forte. Pensai che avrei dovuto
rinunciare ai miei programmi di letture e che mi sarei
dovuto accontentare di un palo cui aggrapparmi. Poi,
arrivando verso il fondo, la gente cominciò a diradarsi.
La chiave era che lì il condizionatore non c’era, però
i finestrini erano spalancati, non sembrava facesse
molto caldo. Pensai di sedermi. Detti un’occhiata in
giro e mi permisi di valutare le facce, in una fobia
tutta mia, per intuire se un compagno di viaggio può
essere migliore di un altro. Per fare cosa? Dovevo
soltanto leggere, io. Poi inquadrai due bambini obesi
che si sbrodolavano con quattro fette di cocomero,
noncuranti dei berci della madre. Pensai che la mia
ricerca fosse più che motivata. Aprii l’ennesimo
sportello, arrivai sull’ultimo vagone, stremato.
cinque
Il cocomero
Era poco gremito, e piuttosto caldo. Nei quattro sedili
in fondo, sulla destra, c’era soltanto una ragazza,
mora e giovane, abbastanza svestita e bella. Parlava al
cellulare, a voce alta. Aveva sparpagliato borsa, riviste,
occhiali da sole sugli altri tre sedili. Le feci cenno per
capire se i posti erano liberi, lei tolse stizzita la roba da
quelli davanti, io buttai lo zaino sul portapacchi e mi
sedetti. Girato verso di lei, ma non proprio di fronte:
lei stava accanto al finestrino, io al corridoio. Cercai
di rilassarmi. Poggiai il giornale ancora piegato sulle
ginocchia e ci buttai un occhio. La ragazza parlava al
telefono. Era incazzata con un uomo. Aveva la gonna
corta, le cosce nude. Le guardai i piedi, molto belli e
curati, animaletti lisci catturati da due zoccoli raffinati
e neri.
“Sei cambiato mille volte nella vita, ma sei sempre il
solito pezzo di merda”, disse. La stavo ad ascoltare,
attentamente, fingendo di leggere. “Stavolta non mi
freghi, e che cazzo!”, rincarava. Poi si sentiva lui, di là,
che blaterava della roba.
“Mi snervi, Daniele, l’hai capito?”, gridò lei.
“Mi snerviii…! Dovresti ringraziare che non ti ho
denunciato, brutto pezzo di merda, invece di farmi la
ramanzina… Sei uno stronzo, col cazzo che mi rivedi!”.
Riattaccò e borbottò tra i denti. La guardai per capire
se mi stava guardando. Macché, mirava fuori. Vidi
il paesaggio spiaccicato sulla sua faccia, che scorreva
veloce, tipico dei posti che scappano dal treno. Vidi
che il viso della ragazza era grassoccio rispetto, tipo,
alle caviglie. Ma aveva belle labbra pronunciate,
asimmetriche, forse troppo truccate, e occhi neri.
Vidi che era abbronzata e che le spalle, nude, erano
rotonde e morbide come le colline dei posti dov’ero
nato.
Tornai al giornale, lo spiegai e girai due pagine. Il suo
telefono squillò ancora. Aveva una di quelle orrende
suonerie polifoniche primordiali, forse era una
canzonetta di moda ma si riconosceva a stento. Lei
bestemmiò la Madonna e lasciò che il telefono finisse
di cantare. Mi sentii in imbarazzo per aver scelto il
vagone sbagliato. Quando la canzonetta ricominciò,
lei rispose.
“Lasciami in pace, Daniele! Vado dai carabinieri, lo
giuro, lasciami in pace!”.
Urlava. Immaginai tutti gli occhi del vagone su di noi.
Prese fiato. Quello di là dal filo brontolava.
“Ma che vuoi? Che vuoiiiii…!?”, gridò lei, isterica.
sei
“Te lo metto anche per scritto, brutto pezzo di merda:
ti ho tradito, certo che ti ho tradito, e non con uno
soltanto!”.
Alzò un po’ le chiappe dal seggiolino, facendo forza
sulle gambe, per pronunciare l’ultima frase.
Sentii una vampata al basso ventre, e poi alle tempie.
Non potetti resistere e la guardai ancora. Gli occhi neri
erano di vipera. Aveva una piega in mezzo alla fronte,
come un colpo d’accetta, e due coltellate ai lati della
bocca. Naso aquilino. Però era bella, strana ma bella.
Aveva i seni grandi che a stento stavano nella canottiera.
Smalto nero. Collanina con ciondolo d’ambra. Fuori
c’era la stazione di Pistoia, immobile sotto l’afa. Un
po’ di gente scendeva, altra saliva, nervosamente. Lei
mandò affanculo e riattaccò. Tornai al giornale. Il
treno ripartì.
Ricominciò la musichetta.
Guardai la ragazza.
Stava per crollare, le tremavano le labbra.
“Cambio scomparto”, le dissi senza neanche pensarci,
e feci per alzarmi.
Lei mi guardò, fece di no con la testa e mi premette
una mano su un ginocchio, per invitarmi a stare seduto.
Aveva le dita fresche, forse sudate, le sentii attraverso
i jeans. Con l’altra mano schiacciò il tasto e rispose.
Certo, tanto anche se mi alzavo io, si sarebbe seduto
qualcun altro: il treno non era un luogo adatto per
certe intime conversazioni telefoniche.
Mentre parlava scoppiò a piangere. Disperata. Disse
che sarebbe scesa a Montecatini, che non voleva
vederlo più. Che se lui si fosse fatto vivo lo avrebbe
fatto arrestare, e altre cose, tipo che di botte ne aveva
già prese troppe, e anche se lo avesse cornificato per
tutta la vita non avrebbe fatto pari.
“Porca miseria”, pensai.
“Non venire, risparmierai tempo e benzina, io non ci
sarò”, disse lei.
“Non ti muovere, brutta puttana, o t’apro il culo!”,
gridò l’orco dall’altra parte.
Riattaccarono. Ripiegai il giornale e mi dedicai
sfacciatamente a lei, tanto era inutile barare, anche
i poggiatesta se n’erano accorti. Piangeva. Rintanò
il cellulare nella borsetta, frugò alla caccia dei
fazzolettini. Pensai che non li avrebbe trovati, che le
avrei prestato uno dei miei. Invece li trovò, si asciugò
la faccia guardando fuori. Ancora il paesaggio piatto
sulla scogliera irregolare del suo viso. Si calmò, ma
Il cocomero
faceva dei singhiozzi che la scuotevano tutta.
“Vuoi dell’acqua?”, domandai. Non volevo provarci,
soltanto essere gentile. E non avevo acqua, sarei
dovuto andare a prenderla nel bagno facendo conca
con le mani.
“No, grazie”, disse.
Restammo in silenzio e passarono altre stazioni,
scesero e salirono altre persone. Nessuno si sedette
tra noi. La polifonica demenziale suonò ancora, da
dentro la borsa. La ragazza recuperò il telefono,
lo spense e lo rimise a posto. Pensai potesse essere
un’occasione per tornare sull’argomento, avevo voglia
di sapere, ma non trovavo le parole giuste.
“Dove scendi?”, mi domandò all’improvviso.
Mi schiarii la voce. Ricollegai che a telefono aveva
detto Montecatini, e Montecatini era già passata.
“A Viareggio, perché?”, dissi.
Mi stava guardando fisso.
“Mi fai un favore?”, disse.
“Se posso, volentieri…”.
“Non ti alzare da questo sedile prima di Viareggio, per
nessun motivo”.
“Non pensavo di farlo, a meno di urgenze corporali”,
dissi tentando un sorriso.
“Me lo prometti?”, disse lei, ancora con gli occhi da
vipera che puntavano i miei. Sarebbe stato difficile
negarmi a qualsiasi richiesta, quella poi non mi
sembrava compromettente.
“D’accordo”, dissi.
A quel punto anche lei sorrise, come rilassata, e
guardò fuori.
“Non dovevi essere già scesa, tu?”, domandai.
“No, lo aspetto. A Lucca sale anche lui”.
“Ci farai pace?”.
“Col cazzo. Se le cose vanno come devono, viene qua
e mi spacca di botte…”.
Inghiottii. Alle mie spalle si aprì il portellone e il
controllore entrò blaterando: “Biglietti, prego”.
Mostrammo ognuno il proprio cartoncino, il tipo li
sforacchiò e se ne andò.
“Non ti capisco”, dissi subito alla ragazza.
“Non devi capire”, disse lei. “Devi soltanto stare lì
seduto, a occhi aperti. Se siamo fortunati riusciamo
a fargli alzare le mani, tu mi fai da testimone e io lo
inchiodo, il bastardo”.
Avevo un po’ di confusione in testa, però capivo dove
andava a parare.
“Senti, io non voglio beghe”, azzardai.
“Me l’hai promesso”.
“Va beh, però…”.
“Non dirmi che ho incontrato un altro maschio
cacasotto, perché ne ho piene le palle”.
Mi chetai trenta secondi.
“Ma scusa…”, dissi dopo.
“Non devi fare niente. Soltanto lasciarlo stare, non
intervenire”.
“Ma se davvero ti mette le mani addosso, interverrà
qualcun altro…”.
“Povero illuso”.
“Va bene, ma di certo non permetterò che un uomo ti
spacchi la faccia davanti a me…”.
Mi squadrò e sorrise. Mi sentii un po’ offeso, ma
poco. Ero abbastanza preoccupato dal resto.
“Quando lo vedrai cambierai idea”, disse lei. Non
aveva più nessun sentimento nella faccia, né odio né
paura, nulla.
Cominciai a pensare e a sudare. A Lucca sarebbe
salito quest’energumeno, avrebbe vomitato la propria
rabbia e l’avrebbe presa a legnate. Che potevo fare?
Scappare subito, adesso, o buttarmi nel mezzo dopo il
primo ceffone. Magari ci avrei guadagnato un paio di
lividi e un dente sul pavimento. Porca miseria. Magari
aveva pure ragione lui, ma non a menarla, ad avercela
con lei. Pieno di corna, l’orco. Magari lei aveva tutti i
motivi per cornificarlo. Che ne sapevo io? Avevo altri
pensieri. Quanto sarà stato grosso? Quanto forte e
cattivo? Da una parte volevo che Lucca non arrivasse
mai, dall’altra che fossimo già lì, e succedesse ciò che
doveva succedere. Avevo voglia di mettere la testa
sotto l’acqua fresca.
“Che dici, faccio in tempo ad andare in bagno?”,
domandai alla ragazza.
“Non ti muovere”, disse lei fissando fuori. “Ci siamo”.
Il treno rallentava. Stazione di Lucca. Fuori, tutto era
giallo e uniforme per via del gran sole. Cominciai a
vedere scorrere le persone che sarebbero salite sul
nostro treno. Cercavo lui, le sembianze del mostro.
Tremavo, avevo una paura bestia. Sentivo che potevo
cacarmi addosso.
“Perdonami, non sono portato per queste cose”, dissi,
e feci per alzarmi.
“Non ci provare, coglione!”, gridò lei.
Con un balzo saltò in piedi, mi ributtò sul seggiolino
e si sedette sulle mie cosce. Pesava più del previsto.
sette
Il cocomero
Feci in tempo a intravedere uno scorcio di perizoma e
un tatuaggio che si perdeva tra le chiappe. Poi mi girò
le braccia intorno al collo. Ridacchiò, avvicinando la
faccia alla mia. Sentii il suo profumo, una cosa poco
femminile, tipo borotalco, che faticava a tenere a bada
un sudore piuttosto acido. Il treno si fermò e aprì le
porte.
“Che fai?”, dissi.
Rise e cominciò a baciarmi intorno alla bocca,
rapidamente, poi scese sul collo. Era pazza. Mi ero
bloccato, inerme. Annusavo. Il suo fiato, i suoi capelli
amari. Dagli angoli delle labbra percepii il sapore
del rossetto. Doveva avermi imbrattato come un
pagliaccio.
“Smettila!”, dissi, scuotendomi e cercando di
togliermela di dosso. Si avvinghiava. Fece una risatina
piuttosto antipatica.
“Così impari a scappare”, disse.
“Ma che diavolo hai combinato?!”.
“Adesso glielo spieghi tu, a Daniele, che non sei il mio
amante”.
Mi aveva sporcato anche il colletto della camicia.
Rosso porpora. Il cuore mi batteva a mille.
Mi sentivo già tra le zampe dell’orco, spacciato.
Certo, avrei potuto spiegare e risolvere tutto...
Dalle scalette alle mie spalle stava salendo qualcuno.
Era lui, sicuramente. Sollevai la ragazza dalle mie cosce
e la scaraventai al suo posto. Sentii ancora i suoi odori.
Vidi ancora mutande e tribale. Fece mezzo strillo. Mi
voltai. Non era lui, erano due zie sui settanta, con il
cappello di paglia. Tornai seduto. Lei si ricomponeva,
mi guardava e ridacchiava, per le macchie di rossetto o
per la mia espressione ebete. Tirai fuori un fazzoletto,
me lo passai sulla faccia: la carta si tingeva di rosso,
ma ero certo che sul mio viso il colore si mischiasse al
sudore facendo un porcaio.
Sentii il fischio dell’addetto, le porte si chiusero e il
treno ripartì. Non voleva dire niente: se l’energumeno
era salito in cima, come avevo fatto io, poteva
comparire tra cinque minuti. Infatti la porta interna
del vagone si aprì. Mi voltai. Altra gentaglia. Niente
orco. Borbottai tra i denti. Lei sembrava rilassata,
quasi divertita. Arrivai a pensare che fosse tutto uno
scherzo, un grande bluff. Ma non poteva esserlo,
perché quelle telefonate, quel pianto, quei baci…
Mi alzai di scatto e la guardai con odio.
Perché avevo scelto quel seggiolino, quel vagone?
otto
m.l.
Perché il treno?
Lei stavolta non si mosse di un millimetro. Girai i
tacchi e feci venti passi frenetici, entrai nel bagno e mi
chiusi dentro. Non cacai, ma qualcuno l’aveva fatto
prima di me, e aveva lasciato solide testimonianze
nella tazza. Tirai l’acqua per far calare lo stronzo
nel tubo, e poter pisciare senza sentirmi osservato,
ma quello non abbassò neanche la testa. Non riuscii
neppure a pisciare. Mi specchiai e mi feci schifo.
Avevo macchie come di una malattia, sulla faccia.
La sciacquai più volte, sfregandomi con forza. Provai
anche a smacchiare il colletto, ma non veniva. Aspettai
due minuti, appoggiato con le mani sul lavandino,
poi uscii. Magari trovavo l’orco con le zampe intorno
al collo della ragazza, e davvero denunciavo tutto e
risolvevo la faccenda. Invece non c’erano, né orco né
ragazza. Sentii la colpa: era venuto e se l’era portata
via, magari la stava sodomizzando nel cesso accanto
al mio. D’istinto buttai l’occhio sul portapacchi: il
mio zaino stava al suo posto, nessuno l’aveva toccato.
Mi abbandonai sul sedile, quello su cui prima stava
seduta lei. Aveva lasciato due riviste sciocche, di
gossip e topless. Buttai la testa indietro e respirai
Il cocomero
profondamente. Ancora odore di borotalco.
Sentii anche pizzicare sul collo, il fastidio di un
capello che si appiccica alla pelle. Ci misi un bel
po’ per afferrarlo tra indice e pollice: nero, lungo,
ribelle, decisamente suo. Lo feci sventolare fuori
dal finestrino, poi sfregai le dita perché si staccasse e
prendesse il volo. Chiusi gli occhi e provai a bloccare
i pensieri. Lasciai che il tempo passasse. Non successe
niente. Mi tranquillizzai.
Arrivammo a Viareggio. Scesi dal treno e la cercai
tra la gente. C’era un bel mescolio, bellimbusti oliati
per la tintarella e impiegati zuppi di sudore. Mi feci
largo e la vidi, in fondo al binario, andava verso l’uscita
della stazione. Era sola, non sembrava assolutamente
abbacchiata, o ferita. Aveva un bel passo, belle gambe.
La raggiunsi, la affiancai e mi voltai per guardarla in
faccia: nessun segno. Lei mi guardò. Mi aspettavo
un’offesa, invece sorrise.
“Non è venuto?”, domandai.
“No”, disse lei. “Speriamo sia la volta buona”.
“Speriamo”.
Anche a me scappava da ridere. Se era stata tutta una
finzione, adesso mi andava bene lo stesso.
“Vai al mare?”, mi domandò. Stavamo uscendo in
strada, il sole era forte che si faticava a tenere gli occhi
aperti. Lei si infilò gli occhiali, grandi e neri.
“Non subito, ma la direzione è quella”, dissi. “Tu?”.
Rimase zitta per venti secondi.
“Sai di cosa ho voglia?”, disse. “Una bella fetta di
cocomero, dolce e ghiacciata. Conosco un posto dove
lo vendono, ti va?”.
Ebbi un conato. Non ci pensai neanche un attimo.
“Macché, sono allergico”, dissi.
“Al cocomero?”.
“Alla frutta in generale”.
“Peccato”, disse. “Peccato davvero”.
Facemmo un altro pezzo di strada insieme. Se
cominciavo a domandarle cose, non finivo più.
Lasciai stare. Accantonai anche l’idea di seguirla:
meglio andare da Gino, perdermi tra i suoi milioni di
CD, mangiare il fritto in quel posto tanto buono che
conosceva lui e poi buttarmi nel mare. Camminavo
accanto a lei, muto. Mi guardavo intorno, stranito
come se Viareggio fosse Los Angeles ed io arrivassi
dal Congo.
“Bene, io giro qua”, disse lei a un certo punto.
“Okay, io proseguo dritto”.
“Dovrei chiederti scusa?”.
“Io no?”.
Fece un’altra di quelle risatine antipatiche. La preferivo
quando piangeva.
“Allora ciao”, disse.
Mi aspettavo mezzo bacio, ma già si allontanava.
“Ciao”, dissi. “Magari ci rivediamo, sul treno del
ritorno…”.
“Peccato, per il cocomero”, disse lei.
Neanche potetti rivederle gli occhi, per colpa di
quei fanali tetri. Si voltò e prese per la sua strada. La
squadrai ancora, dalla testa ai piedi. Bella zampata,
gran culo. Quando mi ricapitava una creatura così?
Strinsi la mano destra in un pugno, la misi in bocca e
la morsi fino a sentire male. La ragazza diventò piccola
e sparì nella seconda strada a sinistra: una vipera tra
tante, innocua e confusa, quasi evanescente nell’afa di
luglio.
Mi levai lo zaino dalle spalle, lo aprii e tirai fuori il
sacchetto della frutta. Ripresi a camminare e la mangiai
così, a morsi, senza neanche lavarla.
EMILIANO GUCCI
Autore di diversi romanzi di successo come
“Donne e topi” (Fazi, 2004), “Un’inquilina
particolare” (Guanda, 2008) e “Nel vento”
(Feltrinelli, 2013). Il suo ultimo lavoro è “Sui
pedali tra i filari” (Laterza, 2015).
nove
SO COSA È MEGLIO PER TE
Sono passati anni, tanti anni. Forse troppi.
Adesso io sono qui, con Marina al mio capezzale.
Lei sempre al mio fianco, sempre la stessa. Indossa
il suo orribile vestito a fiori. Ha sempre detto che
è il suo preferito, non riesce proprio a staccarsene.
È vecchio, sbiadito, insulso, eppure a lei piace da
morire. Secondo me se l’è fatto andare bene e poi
ci s’è affezionata morbosamente. Ha i capelli lunghi
raccolti in una treccia fatta alla buona, le mani grinzose
e quelle unghie distrutte dal troppo morsicchiare. L’ha
sempre fatta questa cosa di mangiarsi le unghie e io
l’ho sempre trovata fastidiosa, per me è solo un brutto
segno d’insicurezza.
Oggi, è qui che mi accudisce come un bambino.
Perché è quello che sono, no? Quando invecchi e sei
malato torni indietro, torni a essere un poppante o
almeno è così che vieni trattato dagli altri. Vali meno
della merda di cane. Sei il moncherino dell’uomo che
eri, adesso, non sei produttivo.
La luce della stanza salta ancora, accidenti. Non riesco
ad aggiustarla in queste condizioni, sono sempre
troppo stanco.
Marina è uscita dalla stanza. Una volta era una gran
bella gnocca, aveva delle tette strepitose. Inutile dire
che gli anni si sono fatti sentire tutti su quel corpo,
lenti ma spietati, come nella più subdola delle
malattie terminali. Non mi rimprovero affatto le mie
scappatelle, erano tutte più che lecite; il desiderio deve
essere soddisfatto e l’unico modo per farlo è avere
sempre fra le mani corpi freschi. Come si può resistere
a quelle bimbe con i seni sodi e i capezzoli piccoli e
tondi. Ti ci vorresti solo aggrappare e strizzarli bene.
Alla fine ho comunque scelto lei per darmi dei figli.
Avessi saputo prima come sarebbero andate le cose,
avrei proprio evitato di mettere al mondo quei due.
Io, in verità, ho sempre voluto solo un figlio maschio,
un piccolo ometto forte come suo padre.
Invece, quasi subito la prima delusione: Sofia.
Ormai sono anni che se n’è andata a vivere da quei
primitivi in Africa. Lo sanno tutti che vogliono solo
dieci
approfittarsi dei soldi della gente che ha voglia di
lavorare. Questo dovrebbero insegnare tutte quelle
Associazioni invece di dargli i nostri soldi, insegnargli
un mestiere.
Sofia è stata molto stupida, oltre a essere stata
maledettamente ingrata nei miei confronti. Doveva
restare qua, con sua madre, con me, ad aiutare in casa.
È così che vanno le cose.
L’altro figlio, il “piccolo ometto” tanto voluto, ha
deciso direttamente di odiarmi. Non ci parliamo da
dieci anni.
Tutta la speranza che avevo riposto in lui, la fiducia, tutti
i soldi che ho investito per la sua formazione, per cosa?
È sempre facile incolpare gli altri, soprattutto i propri
genitori. Mettiamo regole, diamo un’educazione, per
forza non piace. I genitori non piacciono mai ai figli.
Testardamente non capiscono che tutto quello che
facciamo è per il loro bene, per formare le loro ossa.
La società ti mangia vivo e se non sai difenderti finisci
fra i più deboli, fra gli inutili. Allora mi spiegherai,
Andrea, che senso avrà avuto vivere.
A cosa serve vivere per essere deboli? Vivere per
soccombere ogni giorno? Stare in disparte nell’ombra
non serve a nessuno.
Dovrai capire prima o poi, che l’unico modo per
dimostrare chi sei è sgomitando tra la folla, perché
superando tutti troverai il “posto in prima fila” che ti
meriti.
Ho provato a insegnartelo con il mio esempio, ho
provato ogni giorno a mostrarti la crudeltà della
vita. Non è mai stato necessario parlare, dovevi solo
osservare e seguire. Le emozioni sono per le femmine
e per gli inutili strizzacervelli.
La finestra si è aperta di botto, un’altra volta. Non ci
riesce proprio chiuderla a dovere. Una folata di vento
l’ha fatta spalancare violentemente, e quasi si spaccano
i vetri. Certo che quest’aria è davvero strana, soffia
forte ma non rinfresca.
Marina mi ha detto che stanotte dovrebbe arrivare
Andrea.
So cosa è meglio per te
m.l.
Ha saputo che sto male. Avrà deciso di smettere di
odiarmi o semplicemente si sentirà in colpa? Forse ha
solo bisogno di sentirsi apposto con la coscienza.
Mi torna alla mente un ricordo abbastanza anonimo.
Un giorno di molti anni fa, credo in inverno, eravamo
io e lui davanti al camino di casa. Io leggevo il giornale
mentre lui giocava con le costruzioni. A un certo punto
sentii il suo sguardo addosso, e capii quasi subito che
stava cercando la mia attenzione: voleva che giocassi
con lui.
Invece, io decisi di alzarmi e andarmene a letto.
Era importante questa lezione: Andrea doveva
imparare a stare da solo, a bastarsi.
Marina è rientrata in camera e ha cominciato a
spogliarmi. Ecco, odio questo momento, il momento
del “lavaggio”. Mi fa sentire una di quelle auto scassate:
gli si lava solo la carena, per far credere che sia ancora
in buono stato, ma alla fine nemmeno il venditore più
viscido riesce a rifilarla al povero scemo di turno.
Ma chi prendiamo in giro. Non riesco manco a tenermelo per pisciare, deve
aiutarmi lei anche in questo. Tutto perché il mio
cervello s’è rincoglionito e ha deciso di scollegare il
mio corpo dalla vita in giù. I dottori dicono che sono
questi micro-infarti al cervello che mi riducono così.
In verità mi hanno detto, molto onestamente, che
potrei anche lasciarci le penne se ne dovesse arrivare
uno bello grosso. Mi piace la cinica sincerità con cui i
medici ti spiegano il problema. Fanno il loro mestiere
senza perdersi dietro a tante chiacchiere, senza
addolcire quella pillola che tanto fa schifo lo stesso e
che comunque, prima o poi, tutti dobbiamo buttare
giù. Quindi tanto meglio saperle subito le cose.
Ora che mi hanno lavato da cima a fondo, eccomi
di nuovo sprofondare nella mia nauseante infantilità.
Odiosi i piccoli di uomo, tutti impanati nel borotalco
dalle loro mamme apprensive, li ho sempre trovati
inquietanti. È tutto così sbagliato e innaturale.
Quella patina di sporco che ci portiamo addosso
è quello che ci caratterizza e ci fa sentire adulti,
uomini cresciuti, perché quando puoi badare a te
stesso, puoi decidere anche del tuo corpo. Vivevo
quelle piccole insurrezioni generazionali quando ero
bambino e, senza troppi validi motivi, puntavo i piedi
undici
So cosa è meglio per te
per non farmi la doccia. Da adulto poi, non si sente
più la pressione intrusiva che le madri hanno verso
i bambini. Non c’è più bisogno di lavare via quello
che ti tieni addosso come vita vissuta, di giorni passati
lentamente, accumulati sulla propria pellaccia dura.
Chissà cosa penserà Andrea vedendomi così.
Sicuramente proverà vergogna. D’altro canto, io gli ho
insegnato bene che la compassione e la pena non ti
aiutano, non ti rendono Uomo.
Penserà che non sia degno nemmeno di me stesso.
Sono sempre stato un esempio per tutti: niente mi
ha mai scalfito o ferito. La forza e i valori sono tutto
quello che un uomo può, e deve, necessariamente
avere. Questo è quello che ti viene chiesto ogni giorno
nella nostra società. Ed è giusto così.
Marina è andata a dormire in salotto. Pensa che
lasciandomi solo in camera possa riposarmi meglio.
Voglio andare sul balcone.
Maledizione se è difficile scendere da un letto
quando le gambe non ti seguono. Provo piano piano
a trascinarmi con i gomiti, come i marines quando
fanno gli addestramenti nel fango, gomito-destro
gomito-sinistro, movimenti ampi e decisi.
Bene, ora l’ultimo sforzo per trascinarmi a sedere
sulla sedia di plastica.
La guardo, sono alte le sedie, mica me ne ero mai
accorto. Riesco finalmente a sedermi e guardo fuori.
È buio. Davanti al balcone si estende a perdita d’occhio
un campo, per metà coltivato da quei pensionati che in
vecchiaia si riscoprono contadini, e per metà lasciato
a se stesso.
Il tasto dissonante in questo quadretto campestre è
il grosso pezzo di autostrada che passa giusto di lato.
Camion e auto sfrecciano indifferenti, a tutte le ore
del giorno.
Mi lascio andare sulla sedia e attendo.
Ed eccolo, lo aspettavo. Sento i formicolii leggeri
partire dal centro della testa, si espandono proprio
come piccole formichine incazzate che non hanno
più un sentiero da seguire e corrono confuse da ogni
parte. Scappano e s’infilano dappertutto. Poi sento
caldo, ovunque, sempre più caldo, che quasi brucia.
Non so più cosa ci faccio là, ma dove sono? Mi trovo
completamente perso. E solo. Forse dovrei chiamare
qualcuno per fami aiutare. È tutto molto lontano e
ovattato, i rumori delle macchine sono sibili sordi, il
cielo è scuro quanto il campo sotto. Non distinguo. Le
dodici
cose si uniscono e si perdono.
Una fitta fortissima mi fa tornare un barlume di
lucidità.
Adesso ho capito, so cosa devo fare: è l’ora di morire,
con dignità, finché ancora posso affrontare la cosa con
decenza, a casa mia.
E soprattutto, Andrea, so cosa è giusto per te.
PAOLA CALVELLO CORNEJO
Prova sinceramente a capire gli altri, con
dubbio successo. Nel frattempo pensa di
scriverci su.
L’ESSENZA
“Cancro”, disse il medico.
Cadde il silenzio. Forse mi aspettavo una parola,
uno sguardo di empatia, ma il medico dell’assistenza
sociale doveva visitare uno sciame di altri fastidiosi
pazienti infetti da pesti in confronto alle quali un
tumore era la fatina dei denti.
“Dov’è, professore?”.
“Dov’è cosa?”.
Forse volevo sapere dov’era la Verità, il Significato
della vita, l’Oro. Anche se lo sapeva, non me l’avrebbe
detto.
“Il cancro. Dov’è che mi rode?”.
“Sarebbe più semplice dirti dove non è presente la
malattia. Cioè, nel sistema riproduttivo”.
Classi di biologia erano una storia di molti anni fa.
“Le dispiacerebbe essere più specifico?”.
Dalla sua espressione si capiva: altro cadavere di
cretino in arrivo, ma decise di sprecare alito cattivo
ancora: “Le gonadi. I genitali. Il cazzo e le palle,
capito?”.
Non ci potevo credere. Si sbellicava dalle risate a spese
di un malato di cancro.
“Quelle cellule malvagie non trovano appiglio da
quelle parti”, continuò, “perché ce l’hai così piccole.
E l’unica ragione per la quale sei ancora vivo è che sei
così grasso”.
Non è facile trasmettere una dignitosa indignazione
mentre esci da una porta basculante impossibile
da sbattere. Gli altri perdenti moribondi nella sala
d’aspetto dell’assistenza sociale dovevano aver
sentito tutta l’umiliante conversazione. Una collettiva
ilarità composta da ululati e grugniti mi seguì fino al
marciapiede.
Ero fottuto. Il cinico segaossa non mi aveva detto
quanto tempo mi restasse, ma probabilmente non
era molto. Non avevo fatto una vita da salutista, ma
nella stampa ero stato descritto un genio. La stampa
underground chiaramente, ed era passato molto
tempo, ma comunque pensai: “Che spreco”.
Lo scopo dell’arte sarebbe di lasciare un segno,
qualcosa che rimanga nel tempo, ma la Performance
Art è diversa: più simile alla musica, presente e poi
non più, anche se è possibile che le onde sonore e
di luce riflessa continuino a vagare infinitamente
nell’universo. Forse esiste un fenomeno fisico di onde
performative. Forse avrei dovuto dipingere un quadro,
o scrivere un libro, o saldare insieme disastrate carogne
di automobili, ma ormai era troppo tardi.
Certe volte, la Vita ti dà un Segno. Questo è il
Significato. Questa è la Verità. L’Oro è nascosto qui.
L’insegna accanto al Segno diceva: “Compriamo
Oro!”, ma non ne avevo da vendere. Entrai invece
nella Banca del seme.
L’infermiera alla reception non alzò nemmeno la
testa. Era grossa. Era nera. Leggeva un rotocalco da
supermercato con degli Ufo in copertina. Aveva la
bocca spalancata. Vi stava respirando.
Dovetti schiarire diverse volte la gola. Non è un bel
suono. Avrò pure il cancro del gozzo.
L’infermiera guardò su, gli occhi lucenti di stupida
meraviglia per l’esistenza di esseri celesti che ogni
tanto vengono a visitare la terra nelle loro luccicanti
navi spazio dinamiche. Si rese subito conto che non
ero uno di quelli.
“Che vuoi?”.
Mi aveva scambiato per un accattone. L’aspetto
esterno suscita tali pregiudizi, e un cattivo odore li
favorisce. Ma le apparenze possono ingannare.
“Come sarebbe a dire, cosa voglio? Non siamo forse
in una Banca del seme?”.
Inarcò le sopracciglia. Le uscì di bocca una lingua
sorprendentemente rosa.
“Voglio donare sperma”.
Sicuramente non rideva così da tanto tempo.
“Tu?”.
“Le farei presente che sono un genio”.
Mi frugai le tasche per il ritaglio di giornale che avrei
dovuto far plastificare. Niente male, la foto di 10 anni
e 50 chili fa. Non fece nemmeno finta di leggere quel
frammento.
tredici
L’essenza
“Può portare la sua donazione quando vuole, signore.
Grazie”.
“Ehm, guarda, ho...”, meglio non dirle del cancro, “ho
seri problemi di tempo. Faccio un lavoro impegnativo
eccetera. Vorrei donare ora. E accetto solo pagamento
in contanti”.
Le stavo rallegrando alla grande la giornata.
“Ogni tanto diamo soldi ai donatori”, disse, e aprì un
cassetto della scrivania. Vi rovistò brevemente, “che
dici di 73 centesimi?”.
Forse mi prendeva in giro.
“Può andare”, dissi lesto, “dai pure qui. Vado a
mangiare un hamburger per darmi la carica”.
“Paghiamo solo alla consegna, signore”.
Dolori atroci mi colpirono come un uragano di rasoi.
Un vecchiaccio smunto si affilava la falce nel cielo.
Spararmi una sega era l’ultimo dei miei desideri. Non
ero nemmeno sicuro di poter fagocitare un hamburger.
Un lercio fast-food a pochi isolati offriva due
hamburger al prezzo di uno. L’idea dell’immortalità
mi diede forza, e mi fece venire appetito.
“Ci sto. Dov’è la sala donazioni?”.
Indicò col pollice una tenda verde da ospedale alle
sue spalle.
“Ecco del materiale per stimolarle fantasticherie
erotiche”.
Banali riviste porno. Feci un rapido calcolo mentale
di quanta vita ci avevo sprecato. Ma ero artista, e gli
artisti devono accumulare materiale. L’ispirazione si
nasconde nei luoghi più inaspettati.
L’infermiera della Banca del seme si scaccolò il naso.
Credeva che non lo notassi, o più probabilmente se
ne fregava. Per lei ero solo un reietto. Aveva l’aria
scaltra. Avrebbe appiccicato un’etichetta sulla provetta
contenente le mie ultime schizzate con scritto il nome
di qualche stella del cinema, o qualche premio Nobel.
Avrebbe venduto il mio materiale genetico a qualche
disperata coppia benestante sterile per poi intascare
il gruzzolo. Era grassa. Era brutta. Ma non puzzava
troppo.
“Senti”, bisbigliai, “potremmo farlo insieme”.
Stava ammirando una succosa caccola fresca come
fosse un gioiello cascato di mano a una nobildonna
impellicciata davanti a Tiffany. Me lo sparò addosso
col dito. Splat!
“Eh?”.
“Non voglio riviste segaiole. Voglio te”.
quattordici
“Come?”.
“Tu sei infermiera. Hai fatto un voto di aiutare chi
soffre. Il prodotto del nostro amore darà agli addolorati
pazienti sterili il dono della vita. Non sarebbe quella la
tua santa missione?”.
Magari si era procurata la divisa da infermiera a
qualche negozio della carità.
Due hamburger al prezzo di uno svolazzavano via
come spettrali farfalle dirette agli inferi. Giocai duro.
“Ti porto il pranzo quando avremo finito”.
Le brillarono gli occhi.
“Affare fatto, mister”.
Satana mi sferrò una falciata al colon.
La sala, anzi il ripostiglio delle donazioni, puzzava di
sudore e fluido per imbalsamare cadaveri. Mi spinse
dentro per primo, per impossibilitare la fuga, e accese
la lampadina a 15 watt.
“Calati le braghe”.
Potevo solo obbedire. Sghignazzò: “Qui è pieno di
scarafaggi più grandi”.
“Poi cresce. Apriti il camice”.
“Se provi a mettermi le mani addosso, ti spedisco
dritto al fottuto pronto soccorso”.
Non era una minaccia a vuoto. Quella lì avrebbe
steso Sonny Liston. Mi concentrai sulle sue carni
ballonzolanti, e provai a menarmelo.
“Girati”, dissi facendo del mio meglio per sembrare
padrone anziché disperato, “issa la gonnellina e
scuotilo”.
Rise, ma poi lo fece. Oddio niente reggiseno, niente
mutandine sotto il vestito da finta dottoressa. Forse
il bacino amazzonico sfoggia una giungla più densa.
Forse il Grand Canyon può vantarsi di spacchi e fessure
più enormi. La luce era tenue. Dovetti stringere gli
occhi, anche se mi faceva un male boia. Avevo persino
il cancro alle palpebre, alle iridi.
C’era un bel tepore nella sala donazioni. Mi sbottonai
la camicia.
“Oh dolce Gesù. Ma ci hai mai nemmeno pensato, a
farti una doccia?”.
Non potevo dirle che ero un senzatetto. Mi avrebbe
negato i quasi tre quarti di dollaro.
“Acqua calda e sapone diminuiscono il numero di
spermatozoi. Non te l’hanno insegnato, all’Accademia
per infermiere?”.
Forse si vergognava di non aver frequentato corsi di
formazione professionale. L’avevo sgamata. Mi tolsi
L’essenza
i pantaloni e le stetti davanti nudo, a parte il berretto
della marina militare.
“Sbrigati, fesso. Potrebbe entrare qualcuno, non si sa
mai. A volte c’è il totale bordello, qui”.
L’immagine di uomini sciatti e meno sciatti che
facevano la coda per donare sperma affinché la vita
umana potesse continuare a contaminare il pianeta
nonostante la moderna pestilenza dell’infertilità,
non mi aiutò a farmi una sega, anzi. Quelle famose
blatte della Banca del seme avrebbero potuto pulire
per terra col cencio moscio che mi penzolava tra le
gambe. Mollai la presa.
“Vuoi una cosa rapida? Allora aiutami”.
Aveva manacce spropositate. Sonny Liston le avrebbe
implorato pietà dopo pochi round. La carta vetrata
era velluto, a confronto con i suoi palmi. La milza mi
trasmise un’ondata d’agonia. Mugugnai.
“Oh Dio Cristo”, disse. Mi afferrò il “coso” come
fosse un topone schiumante di bava. Grugnì e fece
per drizzarmelo, o strapparmelo. Cancro alla prostata
non era nulla in confronto a lei, per quanto riguarda
la tortura genitale.
“Se fai così non succederà mai, amore. Devi
lubrificarmelo”.
Avevo in mente una lozione profumata, ma lei tirò
su col naso e mi scaracchiò dritto sulla nerchia. Un
tredicenne avrebbe ammirato la mira e la quantità di
muco, ma non c’era nessuno a dare premi o iniezioni
contro la tubercolosi.
“Ehi! Non intendevo mica così...”. Invece il suo
sputacchio era magia pura. La sega più dolorosa
della storia cambiò in un morbido, materno robot
mungitore. “O dolce bambina mia”.
“Eh lo so, per questo mi hanno assunta”, disse.
“Brava”, dissi, “accidenti sei un genio. Magari
avremmo potuto...”.
“Sta’ zitto e concentrati, imbecille. Ho il polso che si
stanca facilmente”.
Il dolore si trasformò in un treno che schianta in una
galleria di melassa. Dentro il buio del tunnel c’era
mia madre, prima che mi mollasse con la zia Belinda.
Ecco Maestra Thompson, della prima media, quella
che consideravo diabolicamente sexy prima che mi
denunciasse al preside per averle scritto una nota
m.l.
quindici
L’essenza
sconcia anziché completare un esame di matematica.
Il preside mi molestò fortemente, ma non potei
denunciarlo, visto che era il fidanzato di zia Belinda.
Oddio se il preside ci sapeva fare con le mani. Mi fece
scordare Miss Thompson.
Quei ricordi stimolarono i lobi Stanislavsky del mio
cervellone artistico malato di cancro. La reazione
pavloviana era di fare una performance.
“Ugah ugah. Buga ugah naba!”.
La mia performance di solito include un numero di
danza, ma non c’era spazio.
“Su forza”, dissi saltellando da un piede impestato
all’altro, “stiamo nudi insieme”.
“Cazzo pretendi molto per quei miseri spiccioli”.
Però si tolse il camice.
“Potrei ehm, toccarti una...”.
“Se vuoi finire all’obitorio, fai pure”.
Cosa mi cambiava, se dovevo passare gli ultimi
giorni chiuso in un polmone d’acciaio? Le strizzai
un capezzolo color cioccolato al latte. Si avverò un
miracolo. Schizzò del latte. Non al cioccolato, ma era
comunque un fenomeno maledettamente inaspettato
e sacro.
“Cristo santo!”.
Rise come una strega.
“Perché credi che abbia dovuto prendere questo
lavoro del tubo? Leroy ce l’ha bello grosso, ma non
me lo tira mai fuori, e io non insisto perché mi fa
vedere le stelle”.
Non era proprio ciò che volevo sentire.
“Sbrigati, cretino”, disse la finta infermiera, “non ho
mica tutta la fottuta giornata”.
Trattenere l’orgasmo non è mai stato il mio forte.
“Ugaaaah...”.
Me lo strizzò a morte, col pugno da gorilla. Nemmeno
un singolo spermatozoo unto di muco poteva scappare
dalla sua morsa di massima sicurezza.
“Ahia!”.
Mi colpì al pene con qualcosa di duro, e mollò la
presa.
“Bugaaaaaah!”.
L’essenza della vita, o la metà di essa, schizzò dal mio
corpo moribondo dentro un ricettacolo di plastica
privo di vita.
Guardò la provetta alla luce, forse per constatare quanto
le avevo dato. Non sembrò per nulla impressionata,
ma perlomeno non si rimise a ridere.
sedici
“Fantastico”, sussurrai, “non m’importa che sei
sposata. Se vuoi che proviamo a convivere, non ho
tanta roba e...”.
“Facciamo che ora vai a prendere quegli hamburger
di cui si parlava prima. Mi viene talmente appetito tra
pranzo e merenda”.
Secondo lei ciò che avevamo fatto non costituiva
amore, ma la sistemai per bene. Mangiai entrambi gli
hamburger. Non ci vedemmo mai più.
Il segaossa dell’assistenza sociale non aveva sbagliato
la diagnosi. I dolori si fecero grotteschi, surreali.
L’unica cosa che mi tiene in vita, qui all’ospizio statale,
è la possibilità che i miei geni vengano trasmessi. Può
darsi benissimo che la mia donazione sia finita nel
cassonetto del vicoletto dietro la Banca del seme, ma
cerco di visualizzare una matrona single dei quartieri
alti che si irriga l’utero col mio DNA. L’eventuale
bimbo biondo crescerà nel lusso sfrenato, diventerà
un playboy, oppure un artista come suo papà.
Ma un incubo ricorrente mi tormenta. Un mostro
scaturisce dalla vagina previamente infertile della
povera donna terrorizzata. Afferra un bisturi dal
vassoio di acciaio inossidabile dell’ostetrico, si butta
contro il pesante vetro della finestra ospedaliera,
frantumandolo, e fugge a passo di lupo nella notte.
MATTHEW LICHT
È considerato un gigante letterario nella zona
del tramonto.
MAJAKOVSKIJ
Le quattro.
Così caldo che l’asfalto sembrava liquefarsi in
apparenti pozze lontane.
Chiuso nell’appartamento.
Fissava il muro, ammirando lo spettacolo della luce
attraverso le persiane chiuse, dalle quali sembrava
generarsi una terza dimensione schiacciata sulla
parete.
Strisce luminose che si allungavano e si accorciavano
col passare delle macchine, si spostavano da sinistra
verso destra, lente, come una danza ipnotica,
interrotte solamente dalla proiezione dell’ombra della
bottiglia sul tavolo, vuota. Uno spettacolo che, fissato
ininterrottamente per l’intero pomeriggio, aveva un
che di commovente, come assistere a un moto astrale.
Si sentivano le discussioni ovattate dei vicini al piano
di sopra. I loro passi sul pavimento, come tamburi, gli
impedivano di lasciarsi risucchiare dal sonno che gli
ronzava intorno insieme a una mosca fastidiosa.
Passava solo un filo d’aria generato da moti convettivi
che, bassi, roteavano lungo il corridoio che collegava
la camera all’ingresso.
Il brusìo del frigorifero, che si spacciava per il rumore
del vento, ogni tanto decideva arbitrariamente di
bloccarsi.
Si grattava il naso, quasi in segno di protesta all’inerzia.
Non aveva pensato troppo fino a quel momento.
Per quanto fosse immobile, completamente
mimetizzato tra i soprammobili dell’appartamento,
aveva fatto una scelta assolutamente non banale.
Aveva deciso di “esistere”, a tutti gli effetti di “essere”,
e non altro. Era presente con ogni senso: la vista, il
tatto, l’udito, l’olfatto e il gusto, gusto inevitabilmente
amaro, quello che si sente quando si tiene la bocca
chiusa per un giorno intero. Altro inconfutabile segno
di vita era il suo respiro, impercettibile, basso, ma
costante come quello di una pianta.
Lui esisteva, era.
Poi, la decisione.
Aveva visto mutare il colore delle strisce luminose sul
muro. Da bianco elettrico si erano scaldate tendendo
verso un giallo intenso, quasi arancione, trasformando
l’osservazione da astronomica a malinconica,
nichilista: l’uomo di fronte al tramonto, a un nuovo
giorno trascorso.
Era passato altro tempo.
Adesso doveva uscire.
Rotolò letteralmente giù dal letto. Non appena fece
per alzarsi in piedi ebbe un mancamento, segnalato da
un fischio nelle orecchie, e la visione completamente
offuscata, come se ascoltasse un treno che parte.
Si vestì. Chiavi in mano. Uscì senza pensarci più di
tanto.
Il suo varcare la soglia poteva seriamente essere
paragonato al salto di un tuffatore dal trampolino:
concentrazione, breve ripasso dei movimenti da fare,
ampio respiro, occhi chiusi per un istante, deglutizione,
scioglimento spalle-collo e, infine, un passo in avanti.
La differenza principale era nella caduta, ad aspettarlo
non c’era una vasca piena d’acqua, ma una città a
porte chiuse.
Camminava come chi sa dove andare.
Ascoltava lo scrosciare di cicale tra le piante, mentre
la fine del giorno, pesante, si appoggiava sopra i tetti.
Sembrava che nulla lo emozionasse, ma come dargli
torto.
Le strade vuote lo trascinavano come un cane al
guinzaglio.
Dal fondo di una strada arrivava l’eco di musica araba,
l’unico negozio aperto nel quartiere era un posto dove
vendevano kebab, con i cestini azzurri e bianchi messi
fuori, una bandierina con la foto del menhir, l’enorme
e sacro rotolo di carne; lì davanti, come fossero
animati di vita propria, svolazzavano e roteavano per
terra tovaglioli di carta unti, mossi dall’aria bollente
ributtata fuori dal condizionatore del negozio. Pareva
lo scenario di una festa oramai terminata. Le macchine
gli passavano accanto lentamente, come sentinelle. Le
persone all’interno lo osservavano con stupore e, gli
sembrava, anche con una vaga commiserazione.
diciassette
Majakovskij
Si riposò all’ombra di una fermata dell’autobus,
di quelle col tettino. La panchina messa sotto era
appiccicosa, si sentiva l’odore del ferro.
Prese l’autobus, si mise in fondo e in piedi.
In cima stava seduta una vecchia. Lui non fece altro
che fissarle la nuca violacea e calva, e a forza di
fissarla gli sembrò che il colore dei capelli cambiasse
continuamente, a seconda della luce. Vide quella testa
girare di centottanta gradi fino a guardarlo negli occhi,
immobile, con il busto ancora proteso in avanti. La
osservò con attenzione fino a quando quella faccia
rugosa aprì la bocca, sussurrandogli:
“È passato altro tempo”.
Poi svitò il collo, e la faccia gli tornò in avanti. Sapeva
bene di aver visto solo lui quella scena, aveva voluto
immaginarla per divertimento, per il suo ineguagliabile
gusto nei confronti del surreale.
Scese dall’autobus e continuò a camminare. La luce si
rifletteva sulle finestre dei palazzi che, come specchi,
gli mostravano il cielo lassù, visto dall’alto.
Il cielo era rosa e immobile. Le ombre degli alberi,
liquide, si allungavano sulla strada, come rigagnoli
d’acqua nera.
Poi si fermò a un semaforo rosso.
Le macchine sbucavano da tutte le parti, lenti plotoni
che sparivano dietro agli angoli o si confondevano
nell’orizzonte grigio e piatto della città. Rumore di
saracinesche vibranti, come rulli di tamburi.
Lui guardava un palazzo alto, un enorme rettangolo
color bianco crema, intervallato da finestroni
attraverso cui si vedevano chiaramente le scale del
condominio, scale signorili con tanto di ascensore
luminoso che ogni giorno trasportava anime; le più
fortunate, secondo l’opinione comune, verso l’alto.
In cima, un balcone trionfale coronato di garofani.
Attraversò il viale mettendo ogni volta un piede
precisamente all’interno della striscia pedonale, anche
se per farlo aveva dovuto saltellare; si divertiva.
Come se non fosse passato altro tempo.
Eppure ci aveva pensato, a saltar giù da quel balcone.
Librarsi nell’aria, con l’unica forza, il pensiero;
continuare ad esistere un ultimo istante. Ancorato alla
terra, appeso al cielo. Infine lo schianto, e svanire nel
tonfo.
diciotto
LAVINIA FERRONE
Nata il 22/02/1989 atto n. 309 P1SA a Firenze.
Cittadinanza italiana.
Residenza: Firenze.
Statura: 1.72 cm.
Capelli: castano scuro.
Occhi: marroni.
Segni particolari: occhiali da sole.
ANTONIN
Antonin Antonevich sa come non morire di freddo
in Siberia.
Capitolo III
Poltroncine, dizionari di scorta, sigari in attesa, grida,
accessi di spasmi, svenimenti. E comunicati stampa,
comunicati stampa nonostante il capogiro, malgrado
i vapori di urina agli angoli delle stanze, malgrado il
piccante, ubriaco odore di lacrime e latex, comunicati
stampa senza un canto, brache larghe abbinate a
polacchine e sopra la scrivania, accanto al laptop, tra il
barattolo di latta che contiene penne o evidenziatori e
la pila di riviste cinematografiche sotto il lampadario,
il cono d’ombra di otto faccette.
Comunicati stampa, nonostante che anche loro, presto
o tardi, siederanno un giorno su poltroncine imbottite
per le colpe del tiranno M.C. con i suoi sudici, sudici
stracci. Accessi d’asma. Vi sarà un comunicato stampa,
senza pausa né fine.
L’ergastolo, questa Cosmodemonic! A volte il bagno
penale lo si vede come una tentazione. La sciarpa
intorno al collo: non rabbrividire! Il pensiero del
supplizio è più melmoso di M.C., scivolerò dalla mia
poltroncina imbottita, mi impiglierò con la testa tra le
parole e i ricordi, scuoterò le mie spalle per evadere
e... taffete: un comunicato stampa. Mi allungano, mi
voltano sul dorso, mi calciano come fossi un pallone.
A mezzogiorno e mezzo Monica grida nel corridoio
se qualcuno per caso vuole qualcosa per caso dal
supermercato che lei passa per caso da quelle parti e
potrebbe comprare il pranzo a tutti. Il suo tono di voce
deve essere squillante, giocoso, lavorativo, cordiale e
disponibile. Monica, nessuno ha ancoracapito perché,
non vuole che le persone credano che lei stia facendo
un favore a qualcuno, soprattutto se questo qualcuno
è gerarchicamente posizionato sopra di lei.
Per cui ogni azione altruistica ha una sottesa logica
casuale. Antonin, che sta leggendo senza grande
entusiasmo un articolo sul cinema post avanguardistico
del ventunesimo secolo, pensa che in serata potrebbe
farsi la sogliola alla mugnaia, tanto per rifarsi la bocca,
proprio mentre M.C., con le braccia distese lungo i
fianchi, detta la linea alimentare.
Quarantatré minuti dopo in cucina tutto è avvolto in
una nube di vapore, come in una mensa carceraria
della Siberia: colpa delle ventate di freddo indotte da
M.C. I vari condannati ai lavori forzati siedono intorno
al tavolo, mentre Stefania, con una faccia lugubre, e
facendosi largo a furia di bestemmie, porta le scodelle
di zuppa. Ci sono M.C., Paolo, Giuffrida, Francesca,
Monica, Tess McGill, Mario e, ovviamente, Stefania.
Non c’è Marco il cassiere, l’eterno assente e padre
Saverio, il quale però non mangia mai in compagnia e
passa solo a fare un saluto di quando in quando.
La broda schizza via in dense gocce tra i gomiti
sollevati. Padre Saverio entra in cucina per salutare
e, osservando in silenzio la scena, si fa il segno della
croce. Questi dormienti non si ricordano neppure
con che mano ci si segni. Poi se ne va.
E in cucina fa freddo: tutti stanno mangiando col
berretto in testa, ma con calma, pescando i resti
spappolati di cardo sotto le foglie nere del cavolo e
sputacchiando i filamenti amari ai margini del piatto.
“Sputare per terra è ritenuto un segno di scarsa
educazione anche qui”, pensa qualche volta Monica.
Giuffrida alza il suo viso sperduto e piagnucola:
“Si è già tutto ghiacciato”.
Stefania ha un colpo al cuore e i suoi occhi tremano
velocemente da Giuffrida ad M.C. e da M.C. a
Giuffrida in silenzio. Si può percepire il rumore dei
cucchiai che sbattono sui denti, mentre la brodaglia
viene succhiata rumorosamente.
“Forse se ci aliti sopra si riscalda”, bisbiglia M.C. senza
alzare lo sguardo dalla ciotola.
Stefania tira un sospiro di sollievo, come tutti: oggi
diciannove
Antonin
M.C. è di buon umore. Francesca estrae il suo
cucchiaio da uno stivale; quel cucchiaio gli è caro,
insieme ad esso ha attraversato tutti i campi di lavoro
forzato della psiche di M.C.
M.C., senza cappello, con un abito a righe, la bocca
aperta, le mani sulla ciotola.
Antonin rimescola il fondo della minestra per verificare
quel che gli è toccato. L’unico piacere che può dare la
broda della Cosmodemonic, quando al tavolo si siede
M.C., è di esser calda. Ma anche questa volta tutto
è freddo. Antonin prende comunque a mangiarla
con la solita scrupolosa lentezza. Anche se un piede
sta andando in cancrena, qui si deve procedere
lentamente, perché ci si può riposare un po’ di più. Se
si conta pure il lavarsi le mani, il collaboratore di M.C.
ha per sé mediamente solo dieci minuti per rifocillarsi
a pranzo. E per giorni e giorni la ovoshchnoy sup non
cambia: tutto dipende dal tipo di verdura messo da
parte per l’inverno da Stefania e Mario. Lo scorso
anno si trattava di barbabietole e l’anno prima ancora
di patate. Oggi intorno al cucchiaio si avvoltola cavolo
nero. E comunque sia immancabilmente il cardo.
Amaro. Fibroso. Senza speranze.
La zuppa si è congelata in un blocco e Giuffrida, per
mangiarla, la rompe a pezzetti. I cubetti di ghiaccio
si sbriciolano sul tavolo in mezzo alle fibre del cardo
sputacchiate dai commensali. Dopo aver leccato
il cucchiaio ed averlo infilato al solito posto, nello
stivale, Francesca si toglie dalla testa il berretto e si
avvia in infermeria per farsi dare un po’ di penicillina.
M.C. sbuffa senza alzare lo sguardo dalla sua ciotola:
“Quella stronzetta non ha chiesto il permesso di
alzarsi, quando meno se lo aspetta gliela farò pagare”.
Antonin si intristisce ancor di più, queste giovani leve
non hanno un briciolo di amor proprio.
Dopo pranzo tutti tornano nei loro bureau, al caldo,
lontano da quel mudak che rende ogni cosa Siberia.
Tic tic tac tac tic, le dita sulle tastiere dei computer:
tac tac tec tec tic. Regna un silenzio postprandiale e
digestivo.
Dopo una mezzora Antonin sente che M.C. sposta
rumorosamente la sedia dove è seduto, nella stanza
di là, accanto alla sua; una sola parete che li divide,
anche se non facesse strusciare la sedia per terra,
andrebbe bene lo stesso, mica esiste solo lui. M.C.
quando cammina frettolosamente fa tremare tutto il
venti
pavimento. Antonin sente la temperatura scendere
vertiginosamente, è come un’ondata sulla superficie
della pelle: Bbbrrrrrrrr!
M.C. entra nell’ufficio di Antonevich e, guardando le
proprie scarpe color muffin, dice:
“Antonin, è possibile parlare in privato?”.
A parte loro due non c’è nessun altro. Ventidue
mattonelle grigie separano i loro piedi posizionati
simmetricamente.
“Sei in privato”.
“Intendo nel mio ufficio”.
Antonin ruota la testa verso sinistra di trentatré gradi
esatti. Un raggio di luce proveniente dalla finestra alle
sue spalle rimbalza sulla lente interna dei suoi occhiali.
“Se preferisci”.
Poi si alza dalla propria poltroncina e segue i piccoli e
frettolosi passi di M.C.
“Ecco siediti pure, Antonin”, concede M.C. con tono
cerimonioso indicando la sedia che sta lì da venti anni
circa.
Antonevich tenta di reprimere una risatina sprezzante
e domanda:
“Lo senti che freddo che fa?”.
“No! Volevo comunicarti le decisioni che abbiamo
preso nei tuoi riguardi”.
“Nei miei riguardi?”.
“Visto che tu occupi una stanza tutta per te, noi
riteniamo che sarebbe più corretto se tu pagassi un
affitto”.
“Quando usi la prima persona plurale, quel ‘noi’,
esattamente chi intendi?”.
“Noi riteniamo che una cifra accettabile possa essere
cinquecento euro al mese”.
Antonin si stringe la punta del naso fra l’indice e il
pollice della mano destra, poi distende il braccio
per intero sulla propria gamba: c’è un che di punto
esclamativo nel gesto che compie.
“Se vuoi puoi pagarli con il lavoro”.
“Cinquecento euro?”.
“Cinquecento euro”.
“Lo so che non conosci questa parola”, afferma
Antonin Antonevich avanzando sulla sedia, “d’altro
canto sei solo un povero ignorante che si dà delle
arie in modo del tutto immotivato, ma dovresti
riconsiderare la possibilità che Dio non ti abbia fatto
dono della sinderesi”.
“Per favore Antonin, non facciamone un caso
Antonin
personale”.
“Chiamami con nome e patronimico per intero,
please!”.
“Antonin Antonevich”.
“E tu perché non paghi questa stanza?”.
“Ma io la pago”.
“Non è vero, lo sai che stai solo sparando cazzate”.
“Non è una questione personale. Si chiama
professionalità, mio caro Antonin Antonevich”.
“Prima che io paghi cinquecento euro al mese, dovrai
avere una Madonna che piange sangue alle tue spalle”.
Antonin si alzò in piedi e puntò l’indice sulla
superficie nera della scrivania, non stava gridando,
anzi propriamente parlava a bassa voce.
“Non ti rendi neppure conto del casino che stai
combinando qui dentro”.
Poi si voltò e se ne andò.
M.C. ripeteva quasi a se stesso:
“Non è una questione personale. Si chiama lavoro.
Si chiama professionalità. Non c’entrano niente i
sentimenti o l’amicizia”.
Passano altri trenta minuti e M.C. sgambetta in
corridoio ed entra nell’ufficio dove lavorano Francesca,
Monica e Giuffrida, una grossa stanza con cinque
caloriferi. I tre alzano lo sguardo rabbrividendo,
nella stanza ristagna una nebbia bianca e fitta. M.C.
non mostra mai il termometro ai suoi collaboratori
e poi, in definitiva, non cambierebbe molto, perché
M.C. pretende professionalità a qualsiasi temperatura.
Inoltre Monica, che conosce intimamente M.C. per
aver fatto sesso orale, anale e le cose rimanenti con
lui per ben tre anni, ha sviluppato l’abilità quasi
assoluta di determinare con precisione i gradi a cui
M.C. fa scendere il termometro: se il vapore acqueo
naturalmente presente nell’aria sembra una gelatina
opalescente, siamo intorno ai meno quaranta; se il
naso per espirare fa un suono tipo quando si russa la
notte dopo essersi sbronzati di brutto, ma i polmoni
riescono ancora a mantenere la giusta pressione
interna per garantire una corretta inspirazione, vuol
dire che M.C. è sui meno quarantacinque; se invece
la respirazione è rumorosa e si avvertono fremiti di
panico o pseudo asma, allora meno cinquanta. Sotto i
meno cinquantacinque lo sputo congela in volo.
Antonin guardò il soffitto e gli fece: “Spuuuut”. Osservò
la saliva eseguire una parabola che improvvisamente
precipitò verso il basso. Quanto toccò il pavimento si
sentì un rumore squillante simile ad un bicchiere che
si infrange, ed era a due stanze da M.C.: “Ohi, ohi,
ohi! Poverini”.
Ogni mattina Antonevich si svegliava con una speranza:
“Sarà diventato un po’ meno Direzione generale dei
Lager?”. Sarebbe bastato un meno trenta Celsius
per far avvertire a tutte le persone che lavorano alla
Cosmodemonic una piacevole sensazione di calore.
Ma M.C. non si attenuava e Giuffrida e Francesca, i
più martoriati, erano consapevoli che presto avrebbero
perso tutte le speranze. Giuffrida sentiva le sue forze
diminuire di giorno in giorno, lui, un uomo che studia
filosofia e guarda in faccia la morte come consigliano
Hegel o Bataille o Kojeve, doveva spremersi le meningi
per accucciarsi qualche ora accanto ad una fonte di
calore, altrimenti morire. E Giuffrida non voleva
morire. Tutto l’uso di MDMA che faceva appena
fuori da lì testimoniava in presa diretta un certo orrore
per la fine, il tramonto, il negativo assoluto.
Antonin sentì che M.C. si stava schiarendo la voce due
stanze più in là, tuttavia si perdeva qualche parola:
“Ehi ragazzi ...ttenzio... ...ervono dei volon... ...are i
nuovi ...ogramm... per even...o d... ...omani”.
Poi percepì la voce di Giuffrida che diceva:
“Agli ordini”.
“Allor... guar... vai da Anto... e fat... ...egare ...ome si
f...”.
“Uff!”, borbottò tra sé e sé Antonin.
Ed ecco che arriva Giuffrida, verde in volto, tremante,
smagrito, le gengive sanguinanti, un tozzo di pane
secco nascosto nella tasca destra del giaccone, le scarpe
di cartone pressato che si consumano facilmente
nella neve e nel ghiaccio, rattoppate con buste gialle
biodegradabili di mais dell’Esselunga lì accanto.
Antonin lo osserva innervosendosi, ha un sacco di
lavoro da portare a termine. Probabilmente Giuffrida
gli farà mancare la misura giornaliera prestabilita da
M.C. Se tale misura non viene raggiunta per più giorni,
il collaboratore di M.C. viene accusato pubblicamente
di nullafacenza. Un colpo di Kalashnikov alla nuca si
può ancora considerare un atto di misericordia.
“Cosa devi fare?”, chiede simbolicamente Antonevich
grattandosi il mento, mentre Giuffrida rimane in piedi
sulla soglia della stanza.
“Campagna pubblicitaria per il film della prossima
ventuno
Antonin
m.c.
settimana, compagno Antonevich”, risponde battendo
i denti per il freddo.
“Hai già in mente qualcosa?”.
Giuffrida gira la testa a destra e a sinistra come in cerca
di un’idea. Sembra un cane affamato e triste.
“No”.
“Lo hai mai fatto?”.
“Certo”, risponde Giuffrida quasi offeso.
“Fammi vedere come si scrive un comunicato stampa”.
Giuffrida estrae dal guanto di cotone mangiato dalle
tarme un lapis senza punta, si siede per terra nel
modo più compatto possibile, una pallina deforme
per non far scappare via il calore del suo corpo, e fa
sgusciare fuori dal cappotto un rotolo di carta igienica
su cui comincia a scrivere: L’evento cinematografico
dell’anno si terrà alla Cosmodemonic, in data...
Antonin si alza in piedi e si avvicina a Giuffrida. Gli
cammina intorno, un cerchio di curiosità e stupore:
“Ma cosa... cosa stai facendo?”.
“Il comunicato stampa”, risponde Giuffrida con due
occhi larghi e candidi da bambino.
“Allora guarda”, torna alla sua scrivania, “te ne passo
ventidue
io uno già pronto”, cerca nelle cartelle virtuali dei suoi
vecchi comunicati stampa sul suo computer, “e tu gli
cambi solo il nome dell’evento e la data, ok?”.
“Ok”.
“Per il resto puoi passare qualche ora qui a riscaldarti,
vicino alla stufa, tanto per non assiderare. Dopo, però,
te ne torni di là, ok?”.
“Grazie mille, Antonin Antonevich”, dice Giuffrida
asciugandosi una lacrima, “grazie mille”.
“Quante volte te lo devo dire, chiamami solo Antonin”.
Alle diciotto e trenta precise precise, Antonin spegne
il suo laptop e si accorge che Giuffrida se ne sta
ancora rannicchiato nell’angolo della stanza accanto
al termosifone.
“Sei ancora qua?”.
“Sì, compagno Antonin Antonevich”.
“Hai finito il comunicato stampa?”.
“Forse devo ricontrollare le virgole, compagno
Antonin Antonevich”.
“Va bene, fai con calma, controllale per tutto il tempo
necessario, ma quando hai finito non lasciare il
Antonin
termosifone acceso”.
“Sì, compagno Antonin Antonevich”.
“E domani te ne torni nel tuo ufficio”.
“Certa... certa… …mente compagno Antonin
Antonevich, anzi, colgo ancora l’occasione per...”.
“Sì, sì, non importa, goditi queste ultime ore di stufa,
e chiamami solo Antonin”.
Capitolo IV
Antonin cammina per il lungo corridoio al primo
piano della Cosmodemonic e passa in rassegna tutti
gli uffici, collocati alla sua destra, salutando i vari
personaggi. Quel che potremmo vedere coi suoi
occhi in forma sintetica è: Giuffrida (“Ciao a domani”)
muro - M.C. (“Mi raccomando trattali come tratteresti
te stesso”) muro - Paolo (“Ptù Ptè Taaaaa”) muro Monica & Francesca (“Ciao belle”) muro - Padre
Francesco Saverio (“A domattina direttore”) muro –
pavimento – muro - Stefania (“Ma quanto sei bella, mi
vuoi sposare?” [risate]) muro - prima rampa di scale seconda rampa di scale - piano terra - Mario (“Un’altra
lampadina fulminata?”) libreria vuota - Marco (“Sei
qui per fare la cassa?”) porta a vetri - marciapiede motorino - alberi – macchina – macchina – macchina
– alberi – parcheggio – marciapiede – portone di casa
– ascensore – letto – soffitto.
Il soffitto è il coinquilino preferito di Antonin da
quando è venuto a vivere in questa casa, dove le
pareti grondano umidità e ormai non ci si preoccupa
neppure più di riverniciarle. È quasi il sostituto di un
cane, nel senso che lo si potrebbe considerare come un
migliore amico. Oltre al soffitto, Antonevich convive
con una sua “angelo custode” e il suo fidanzato:
una coppia piacevole, intelligente e di sinistra che
lavora principalmente nel ramo dell’immigrazione,
per cui spesso non sono in casa. Era solo tre anni fa
che Antonin ancora condivideva il proprio cuscino
matrimoniale con Lei, la donna della sua vita. Lei,
dalle gambe di gazzella e la schiena zebrata. Il soffitto
sta in ascolto.
C’erano giorni in cui Lei era vestita tutta di grigio.
La guardava dalla finestra. Non stava sorridendo.
Non stava facendo niente. La mattina si studiava
nello specchio del cielo e sbuffava. Cominciava a
farsi domande inutili: le tegole sui tetti, i marciapiedi,
l’inclinazione del sole. Sono deliri cosmici, come
quando grigia e triste Lei decideva di comportarsi
come una bambina viziata: non sbattere le porte,
non essere maleducata, prenditi cura di me. In questi
giorni esiste solo Lei, Lei coi suoi complicati silenzi
carichi di significato a cui Antonin non può accedere
se non litigando.
Ci sono giorni in cui Lei, invece, indossa un abitino
azzurro e sorride. Ti prende per mano e ti obbliga
ad andare a distenderti su un prato. Saltella a destra
e a sinistra. Ti chiede continuamente come stai,
mettendoti esattamente al centro dei suoi progetti.
Che sia lunatica? E tu le baci le labbra mentre corri
in qualche piazza. Lei è così propriamente felice che
l’orlo della sua gonna traccia l’intera circonferenza dei
tuoi sorrisi. Ti gira la testa. Lei ti mostra piccoli angoli
sconosciuti e si prende gioco di te mentre confessi di
non conoscere un locale. Vorresti tapparle la bocca.
Vorresti che fosse più carina e gentile ed educata, ma
nonostante tutto ti fa ridere. La sua mano si libera
fluidamente dalla tua presa.
Io l’ho conosciuta una sera d’inverno, sta raccontando
Antonin al soffitto, Lei aveva un maglione di lana
bianca e fumava una sigaretta davanti ad una sala
cinematografica. Abbiamo parlato ininterrottamente
davanti ai fotogrammi privi di senso, abbiamo scoperto
di avere un sacco di cose in comune. Ad entrambi
piace il gelato. Adoriamo il giardino di Boboli. Sì è
vero, ci sono troppi turisti. Le occasioni mancate
per diventare adulti sono innumerevoli, basterebbe
costruire dei servizi pubblici che ci portino fuori dai
soliti posti. Non bisogna accontentarsi. La bellezza
non è un valore di per sé.
Quella sera Lei baciò in parte l’angolo della mia
bocca, ma principalmente la mia guancia. Se devo
essere sincero se la tira un po’, adora essere idolatrata.
Mi sarebbe piaciuto sentirla bisbigliare nel mio
orecchio qualche parola sconcia, un solletico che ti
spinge a farti avanti, ma come ho scoperto più tardi,
Lei diventa volgare solo quando si fa male: un dito
sbattuto contro un armadio, un licenziamento in
tronco, un tamponamento sui viali.
Ci sono giorni in cui Lei parla senza sosta. Blatera
strane concezioni affini alla cabala sulle vite segrete
dei suoi amici. Sono giorni dove ti gratti la testa
e osservi il soffitto, sarebbe inutile provare a farle
ventitre
Antonin
cambiare idea, testarda e arrogante, complottista,
piena di veleno e rabbia. Se ne sta seduta da qualche
parte a blaterare, mentre tu la osservi dalla finestrella
del bagno. Le piacciono le corti interne. Decine di
finestre spalancate sulle sue psicosi. C’è un tombino
aperto davanti a lei. Sotto un mondo a sé stante,
che non vogliamo incontrare, di cavi e tubi e scarti,
fluidi che vengono e fluidi che vanno via. Lei osserva
e blatera. Sostiene, come fosse una filosofa barocca,
che in queste giornate c’è sempre un mondo dentro
al mondo, fatto di accordi segreti, di legami di sangue,
cupole, potere, ombra, feudalismo politico, messaggi
criptati, controspionaggio, gesti apotropaici, enigmi
alieni. Non ne vuol sapere di ascoltarmi. Le metto
una coperta sulle spalle. Le pettino i capelli neri con
la mia mano. Le dico di stare calma: “Stai calma,
amore mio, stai calma”. Le faccio bere qualcosa
di caldo. Lei scuote la testa. Le sue labbra tremano
nell’emissione vocale. La sua carnagione è pallida.
Non sta mangiando da qualche giorno. Faccio la
voce grossa: “Mi vuoi ascoltare?”. Mi guarda con due
pupille vitree e preoccupate. Mi accorgo solo allora
che sta piangendo.
Ci sono giorni in cui Lei si distende accanto a me sul
letto e si limita a sorridermi. C’è sempre un’aria fresca
di primavera. La luce calda del tardo pomeriggio.
Appoggia la sua testa sul mio petto e intreccia le sue
dita ai miei peli. Sbatte pure le palpebre mentre le
dico che sono contento. Poi mi interrompe, vuole
giocare con me a qualcosa, qualsiasi cosa. Le va bene
tutto, purché sia io a decidere. Allora le propongo una
noiosa partita a scacchi. Lei mi sorride piena d’amore
e mi dice: “Quello che vuoi te”.
Capitolo V
Il Festival di Cannes si svolge tutti gli anni a maggio
dal 1946 in poi. Per un addetto stampa che lavora
nel settore cinematografico è fondamentale avere i
giusti contatti all’interno dei festival internazionali.
Anzi, a ben guardare il suo lavoro consiste proprio
nell’intrattenere i giusti rapporti nel settore. Andare
a Cannes, quindi, non rappresenta una gita di
piacere, ma un cardine intorno a cui ruota la propria
professionalità. Lei sapeva tutto questo, ma quell’anno
chiese ad Antonin a più riprese di non andarci. Non
ventiquattro
l’aveva mai fatto. Antonin le chiese delle spiegazioni.
Lei si accese una sigaretta. Antonin schiacciò dentro
la valigia alcune camice di ricambio e un paio di
giacchette in tweed. Lei si mise in piedi a guardare
fuori dalla finestra. Antonin le chiese comprensione,
questo era l’anno buono in cui avrebbe intervistato
David Lynch e Lars Von Trier. Una volta tornato
a Firenze l’avrebbe portata a cena fuori tutte le sere
per una settimana in ristoranti di ottimo livello e le
avrebbe fatto quel giochino che a Lei piaceva tanto.
Lei rispose di sì senza voltarsi ed espirò una densa
nuvoletta di fumo, poi sospirò che a Lei bastava che
lui non andasse questa volta, solo questa volta.
“Non posso, devo andare, è il mio lavoro”.
“Allora ciao”.
“Non me lo dai un bacio?”.
“Ecco il tuo bacio”.
La macchina di M.C. lo aspettava giù da diversi minuti.
Marco il cassiere continuava a suonare il clacson
sporgendosi dal sedile posteriore, ma Antonin ancora
non era sceso. Quando chiuse lo sportello anteriore e
si allacciò la cintura di sicurezza accanto al guidatore,
M.C. accese la radio e sgommò verso nord.
Lei osservava dalla finestra l’automobile che si
allontanava, chiudendo lentamente le palpebre.
Eppure, nonostante tutto, sebbene Lei gli avesse
chiesto di non farlo, Antonin Antonevich era partito
per Cannes. Il più di un festival cinematografico
consiste in ristoranti di pesce molto costosi, buffet con
tartine al caviale, lunghi calici di polimetilmetacrilato
dove scoppiettano bollicine alcoliche, strisce di
cocaina e donne fuori controllo. Antonevich però era
talmente innamorato di Lei, che quando gli veniva
offerta una sveltina in bagno rispondeva sorridendo:
“No grazie, ho smesso”. Le ragazze gli sorridevano
troncando la conversazione e si mettevano a sedere
su una poltroncina di velluto in attesa che giungesse
qualche altro ospite.
M.C. si limitava a girare a trecentosessanta gradi su
se stesso con una strana espressione di gioia, mentre
infilava nelle mani di distributori cinematografici
biglietti da visita e umide strette di mano.
Le pareti disgustosamente bianche sostenevano il
peso di un Antonin Antonevich annoiato in tweed.
Vedeva persone che reputava stupide. Ciarlavano
di film masticando gamberetti, si portavano la mano
Antonin
davanti alla bocca se gli capitava di ridere, il decolleté
mostrava graziosi piedi con le unghie laccate di rosa, il
mascara e il blush, una pipa accesa nella bocca di un
barboso.
Sorridi anche se ti annoi. Stringi le mani. Quando
capiti a Firenze, passami a trovare.
Il lavoro dell’addetto stampa a volte non può essere
facilmente distinto da quello di PR. È così per tutti,
più o meno. Ogni nostro enunciato ha questo duplice
destino. A volte Antonin si domandava cosa stesse
sostenendo effettivamente quella vocina che gli
parlava nella testa. Gli succede soprattutto quando
lo champagne comincia a rendergli la scatola cranica
pesante. Sì, proprio le placche etmoidali e basali
acquistano un peso specifico simile a quello del
mercurio. Ha come un nucleo di metallo dentro alle
ossa. Le sue pupille precipitano sullo scollo di tutte le
ragazze. “No grazie, ho smesso”, ripete con un ghigno
che gli deforma il volto. Queste feste sono una massa
di ciarlatani. Indistinti ciarlatani. Non c’è nessuno che
si salvi.
Poi alle cinque, quando rientravano nella loro stanza
d’albergo tutti e tre (Antonin Antonevich, M.C. e
Marco il cassiere) abbracciati perché si sentivano
l’un verso l’altro felici, amici uniti fino alla fine,
schiamazzavano fino al letto, dove sprofondavano tra
un cuscino bianco troppo morbido e una luce soffusa.
La moquette marrone si riempiva di pantaloni e calzini.
C’è sempre un sospiro di paura e tristezza quando ci
si addormenta in un albergo: la televisione illumina la
stanza con immagini di un film di zombie. Antonevich
sentì qualcosa di duro a contrasto tra il materasso e
la sua schiena, portò la mano dietro di essa e sfilò il
telecomando, mentre Marco il cassiere trascinava un
cuscino dietro alla propria nuca ansimando per la
stanchezza. E cominciò a spiegare che gli zombi non
sono solo una facile metafora del capitalismo avanzato
e della reificazione dell’uomo nella società di massa,
bensì…
Oh quanto adorava questa congiunzione composta,
coordinante, avversativa che è “bensì” e che va detta
ponendo tutto il peso dell’emissione vocale e retorica
proprio su quella “ì” finale, quasi alzando l’indice della
mano destra verso l’alto come un direttore d’orchestra
consapevole del valore intrinseco dei fonemi, solo lui,
come se fossero dei colori e le parole dei dipinti e
“bensì” fosse un quadro di Mirò. Deve essere tutto
merito dell’accento, sì è l’accento che va verso l’alto, il
genio non è mai del tutto atono.
“Bensì” un vero e proprio stile di vita.
M.C. e Antonin Antonevich scoppiarono a ridere.
E lo stile di vita non è una cosa da prendere sottobanco:
bisogna considerare il fatto che se ti piace la zombata
allora ti meriti la zombata.
Ancora risate.
Questi apocalittici e integrati che fanno questi film
sono come degli psicologi; sono introflessi e malati,
umidi e supponenti, sembrano olive sottolio; sono
capre che ripetono sempre le solite tre stronzate
una volta in agrodolce, quella dopo in umido, poi in
macedonia; sono bipolari segaioli, si masturbano sulle
foto nude delle nostre paure; sono contadini sardi che
violentano la povera Dolly, a me fanno solo tristezza
dentro perché o sei un rompicazzo di sinistra o sei
un adolescente cacasotto. Ma se sei un uomo, se solo
tu fossi un uomo, Antonin Antonevich, cambieresti
canale.
“Ma a me piacciono”, rispose Antonin guardando il
soffitto, “mi rilassa vedere come sta male la gente. Mi
fa sentire fortunato”.
Nel viaggio in automobile di ritorno venne fuori che
i tre avevano stretto un patto: la Cosmodemonic
sarebbe diventata un luogo di cultura. E visto che
erano tre si sarebbero chiamati: I Tre Leoni. “No, no,
no”, interruppe M.C. mentre rallentava per entrare
dentro ad un autogrill, “I Tre Spregiudicati”.
Ma lo spregiudicato numero due, ovvero Antonevich,
si sentì semplicemente infelice quando rientrò in
casa e trovò tutte le luci spente. Lei non c’era. E non
rispondeva al cellulare.
Quando la chiave cominciò a ruotare dentro la porta,
Antonin prese un albo di Nathan Never dal tavolino
accanto al divano del salotto e cominciò a far finta
di leggere. Ci sono delle notti in cui la luce della
stanza ci deride. Sono notti in cui le nostre occhiaie
vengono sottolineate e le piccole scaglie di pelle morta
riverberano tutta la nostra apprensione disvelando
paure che non sapevamo neppure di avere. Le
pareti della stanza sono sempre un po’ più bluastre,
come iceberg sperduti nell’oceano. E tu sai che ti
comporterai esattamente nell’unico modo in cui non
venticinque
Antonin
dovresti comportarti. Dovresti mantenere la calma,
rimanere lucido, ma non ne sei capace e in fin dei
conti desideri con tutto il tuo cuore di sbagliare.
Le ore si erano fatte piccole e nere sull’orologio del suo
polso. Lei entrò barcollando e barcollando si diresse
in cucina senza dire una parola. Aprì il frigorifero.
Estrasse una bottiglia d’acqua. Bevve con fastidiosi
rumori gutturali. Al minuto trentacinque caracollò
verso il salotto. La pazienza di Antonin era giunta al
limite, ma cedette completamente quando vide che lei
aveva cambiato non solo il taglio, ma anche il colore
dei capelli. Era sconvolto. Lei sorrise gettandosi
sulla poltrona. Quell’arancione color mandarino la
rendeva, se possibile, ancora più irresistibile e questo
rappresentava la goccia che fa traboccare Antonin
Antonevich.
“Dove sei stata?”.
“Oh Dio quanto ho bevuto”.
“Con chi eri?”.
“Antonin, mi gira la testa”.
“Dove cazzo sei stata?”.
“Te l’ho già detto”.
“No, non mi hai detto niente”.
“Ma sì dai, se solo tu mi ascoltassi”.
“Con chi cazzo eri?”.
“Ehi, non parlarmi in questo modo”.
“Ti faccio delle domande e tu almeno dammi delle
risposte”.
“Allora ascolta bene: te l’ho già detto”.
“Sei andata a farti scopare in una bettola di terz’ordine”.
“Cosa?”.
“Che cazzo hai fatto ai capelli?”.
“Ripeti un po’ quello che hai detto”.
“Che cazzo hai fatto ai capelli?”.
“No, quello che hai detto prima”.
“Che ti sei fatta scopare in qualche bar del cazzo”.
“…”.
“In definitiva è il tuo modo per sentirti normale”.
La faccia di Lei osservava Antonin in modo
eccessivamente continuo. Lei si alzò in piedi e corse
in camera da letto. Antonin gettò Nathan Never verso
il soffitto e la inseguì, ma cominciò ad inciampare su
tutto: prima la coperta che teneva sulle gambe, poi una
scarpa, poi il tappetto, poi una busta di carta che era
caduta chi sa quando e intanto Lei aveva già infilato lo
spazzolino da denti dentro alla borsetta.
“Ok, dai, ok, scusami”.
ventisei
Ma Lei andava avanti come un rullo compressore,
afferrando cose a destra e manca e infilandosele in
tasca o sotto l’ascella.
“Dai, non lo penso davvero”.
Lei si fermò. Era più alta di lui di almeno dieci
centimetri. Respirava affannosamente. La maglietta
nera attillata era molto sensuale sotto la finta pelliccia
di ghepardo. Antonin desiderava con tutto se stesso
sbirciarle le mutandine bianche a righe rosa.
Lei disse: “Ho passato gli ultimi quattro giorni a farmi
scopare sul letto di questa casa da quattro uomini
diversi, uno al giorno”.
“Perché mi stai dicendo questa cosa?”.
“Perché è vera”.
“Mi vuoi solo ferire”.
“No, no, vai pure a controllare, ci dovrebbe essere
ancora un profilattico usato sotto il nostro letto, l’ho
tenuto in serbo per te”.
Antonin corse in camera da letto, si piegò sulle
ginocchia e osservò nell’oscurità.
“Te l’avevo detto di non andare a Cannes”.
Due ore dopo Antonevich aveva le valige in mano e
stava camminando per strada. Le quattro del mattino
a volte sanno essere un orario discreto. Non sarebbe
potuto rimanere lui in quella casa, in quel letto. Era
diventato tutto nero. Ma alle quattro del mattino sono
poche le persone per strada disposte a giudicarti. È
come un’assicurazione sulla propria dignità. Eppure
ogni cosa appare un po’ più triste e pericolosa: ci
sono scarafaggi che escono dai propri nascondigli e
sacchetti di plastica che svolazzano nella notte. Ci sono
netturbini che cantano e automobili che sfrecciano
sui viali. C’è tutto un rumore nero di sottofondo che
riecheggia tra un generatore di elettricità e l’altro. C’è
la solitudine di un Antonin Antonevich che piange a
testa bassa con le proprie valige in mano, mentre si
domanda dove andare. E i cellulari sono spenti.
“Mi vergogno a suonare a quest’ora al campanello di
un amico. Forse, forse M.C. potrebbe aprirmi”.
Quando giunse di fronte a casa di M.C. erano le
quattro e trentasette. Antonin premette il pulsante del
campanello. Lo premette una volta. Poi due. Poi tre.
La finestra era buia, buia come se dentro fosse tutto
a dormire, ma ad Antonin osservando attentamente,
certo poteva anche essere un riflesso sul vetro, sembrava
che, sì, ci fosse una testa tutta acquattata verso il basso
Antonin
come per non far vedere che studiava di nascosto dal
secondo piano quel che stava accadendo sulla strada.
Antonin pensò che forse non l’aveva riconosciuto e
gridò che era lui, Antonin Antonevich. Il riflesso, che
forse era il volto di M.C., scomparve definitivamente
nel buio. Così andò da questa sua amica che aveva le
pareti umide e camminò fino a viale Fanti due ore e
un quarto, il tempo necessario per trovare la forze di
non piangere e far scattare sul suo orologio da polso le
nere sette del mattino.
Il soffitto è il miglior amico dell’uomo. Ci permette di
proiettare la nostra coscienza sulla sua pelle immobile
direttamente dal nostro letto e nonostante questo non
si fa carico di nessun tipo di transfert. È il miglior
psicoanalista di tutti i tempi. Per il semplice fatto che
osserviamo il soffitto e non ci sentiamo giustificati
nello stare male, cosa che invece a volte accade se a
farsi carico delle nostre pene è un essere umano in
carne e ossa.
In camera di Antonin Antonevich il soffitto è
orizzontale. È un piano senza buchi. È una liscia
estensione cerebrale. Chi ha detto che la profondità sia
più intensa della superficie? La tristezza è una nostra
responsabilità, questo ci ripete il soffitto. E quando
siamo felici non abbiamo bisogno della sua lattiginosa
presenza, ci basta uscir di casa e vivere nello striato.
Il soffitto è il miglior amico dell’uomo perché nei
momenti di bisogno è lì, sopra di noi, come il ventre
gelido da cui siamo usciti. Non ci giudica, non ha una
grande memoria, non ipotizza consigli per una corretta
grammatica comportamentale; ci ripara dalla pioggia.
Quando la sua crosta bianca non è più capace di farci
da schermo psichico, chiamiamo gli imbianchini
affinché ce lo ridipingano a dovere. E lui ci ringrazia
nella misura in cui noi ci sentiamo più a nostro agio:
il soffitto è altruista. Fa sì che gli inquilini del piano di
sopra non ci precipitino addosso. E non chiede niente
in cambio.
Antonin Antonevich sapeva tutto questo nel momento
in cui prese il cellulare per chiamare Lucianita.
Capitolo VI
Nella luce rossa della sua stanza sembrava avere un
corpo di bronzo. Tutto merito di quella pelle di corallo
scuro e dita delle mani affusolate. Le sue labbra erano
marroncine come un tronco di legno, morbide come
l’acqua. A Lucianita piaceva esser contemplata. Si
spogliò come se fosse a suo agio. Lo sfilarsi le mutande
color lillà sembrava un atto pubblico, una confessione
gridata in mezzo ad una piazza.
Per fare sesso indossò un baby doll di nylon nero
appena visibile sui suoi seni. Era un desiderio di
Antonin, il quale sosteneva che un lieve strato di
plastica interposto tra loro due era più coerente con le
precauzioni che Lucinata esigeva.
Finsero di amarsi per qualche minuto. Lui la
mordicchiò qua e là, lasciandole l’impronta dei suoi
denti sull’epidermide. Sotto la pelle un intricato
mondo di muscoli. Probabilmente molto di quel
che guadagnava lo spendeva in palestre e fitness.
Nonostante questo, nonostante tutto, lei era calda. Le
estremità del suo corpo erano calde. I suoi denti, i
suoi capelli, le sue unghie erano caldi e umidi come
una vasca da bagno fumante.
Aveva tutta una tinta color noce moscata o rame o
ruggine intorno ai suoi bulbi piliferi straziati e quando
si ritrovava da sola, nelle lunghe e monotone giornate
da prostituta, continuava a lottare contro la sensazione
di sentirsi una persona comune, a pranzo davanti ad
un hamburger da 12 euro con insalata iceberg. Ma lei
aveva il dono di riscaldarti. Bastava un suo sguardo
o la punta di un dito irrigidito che struscia sulla tua
camicia, dall’alto verso il basso, da destra verso sinistra.
I vestiti di Antonin erano abbandonati sulla sedia in
fondo alla stanza, poco oltre la porta del bagno aperta
con la sua bianca luce al neon.
Lei era adesso distesa con le gambe chiuse su di lui: i
seni schiacciati sul collo, le ginocchia sugli stinchi; era
alta almeno dieci centimetri di più. Si stavano alitando
in faccia affannosamente, qualche goccia di sudore
sulla sua schiena. C’era un’aria umida da tropico. Lei
prese il bicchiere pieno di rum caraibico dal comodino
accanto alla Bibbia. Infilò l’indice affusolato della
mano destra dentro al liquido in attesa e poi fece
gocciolare l’alcolico sui suoi genitali, i genitali di lui.
Pizzicava e bruciava. Lei guardò il soffitto spalancando
la bocca per il divertimento e lui le chiese di rifarlo,
ancora qualche goccia. Di certo Lucianita non avrebbe
disubbidito agli ordini di un cliente che paga sempre in
anticipo da diversi mesi e poi Antonin Antonevich era
proprio simpatico e gentile e non la trattava mai male.
ventisette
Antonin
I due si guardarono negli occhi e lei capì subito cosa
lui desiderasse. Appoggiò il bicchiere sul palmo della
mano di Antonevich e scese giù a bere ciò che aveva
versato, poi si mise a cavalcioni su di lui riprendendosi
il bicchiere e sorseggiò il rum senza versarlo fuori dalla
propria bocca scarlatta tra i vari sobbalzi dei fianchi di
Antonin.
Mentre Antonin si faceva la doccia, lei si riempì
nuovamente il bicchiere e spiò nel portafogli di pelle
marrone del suo cliente. Non rubò nulla, voleva
solo togliersi la curiosità. Controllava attraverso il
riflesso nello specchio del bagno la schiena maschile
che si grattava con le mani insaponate. Il tesserino
di giornalista, il tesserino della federazione calcio,
il tesserino di una famosa azienda di scommesse, il
tesserino di un club privato. Era tutto una tessera lì
dentro. E grossi fogli da cinquanta. E biglietti da visita
di centinaia di persone ordinati su internet e stampati
in Polonia. Lucianita tornò ad osservare l’immagine
riflessa di Antonevich sotto la doccia e comprese che
in definitiva lui non sarebbe mai stato del tutto nudo:
aveva abiti plastificati, alcuni con banda magnetica,
altri con ologrammi. Aveva paura. Doveva proteggersi
dal freddo siberiano. Lucianita trovò tutto questo
molto umano.
Dopo aver rimesso il portafogli nella tasca interna
della sua giacca, rimase in piedi davanti al comodino.
La Bibbia serviva per un suo cliente, un altro, che
spesso voleva scopare mentre lei leggeva passi a caso
dei Vangeli. Lui uscì dal bagno tutto avvolto in un
asciugamano e cominciò a rivestirsi. Non si dissero
neppure ciao, non era necessario, ma quando Antonin
Antonevich si ritrovò nuovamente sulla strada, provò
il desiderio di tornare indietro e semplicemente
salutarla. Magari con un bacio.
ventotto
FERRUCCIO MAZZANTI
Una notte eravamo a casa di amici e, ragazzi,
lei disse qualcosa di me ed io: BAM!.
È stato il più bel pugno della mia vita.
Voleva chiamare la polizia dal mio stesso
telefono per dire chi fossi, ma al secondo
pugno rinunciò all’idea.
EIN VOLK, EIN REICH,
EIN SOCIAL NETWORK
Tratto da una storia digitale.
Sinossi:
Siamo nel ventunesimo secolo. Il mondo intero è
connesso sui social network.
Sulla faccia della terra, la vita sociale è scomparsa,
e le piazze hanno l’aspetto dei negozi di sigarette
elettroniche*. Tuttavia, la razza umana è ancora in
contatto.
*desolati deserti.
Berlino. É una tiepida giornata d’estate quando il
secco rumore di tacchi militari riecheggia all’interno
del Reichstag. Un gruppo di quattro soldati si fa strada
attraverso la passerella del Parlamento. Quello che
sembra essere il comandante supremo cammina ritto
e impettito mantenendo un equivoco sculettamento,
come se il suo ano fosse estremamente estroverso. Il
quartetto si ferma in mezzo alla sala.
Indossano tutti un berretto che sfoggia un pacioccoso
uccellino azzurro al posto della classica aquila di ferro
e sul colletto riportano due lettere in caratteri nazi:
“FF”.
Essi sono infatti membri onorari delle “Falsch Fratzen”
(“Finte Facce”), un’organizzazione paramilitare dei
social network.
Il comandante si volta verso una gigantografia
dell’uccellino azzurro, il quale sorregge una corona
d’alloro che riporta una grande “f” al suo interno.
All’improvviso tende il braccio destro ponendo la
mano in posizione di “mi piace”, e rivolge così il suo
saluto: “Heil Zucker!”. Tutti i presenti imitano il gesto
del comandante.
“Heil Himmler 2.0!”, risponde netto Zucker, il
sommo Führer dei social. Poi riprende scocciato:
“Cosa c’è che non va stavolta?”.
“Niente, assolutamente niente mein Führer”.
“Perché ti sei presentato allora? Mi basta già vedere il
tuo avatar in chat per irritarmi!”.
“Scusi mein Führer, è che... ha presente l’operazione
#soluzionefinale?”.
“Quella di identificazione totale di ogni utente iscritto
ai nostri social? Certo, l’ho inventata io, idiota! Se ti è
ancora sfuggita di mano, giuro che ti faccio regredire al
ruolo di spammer per agenzie di viaggio!”.
“Non è colpa mia. Giuro! C’è un utente iscritto ai
nostri social, un certo Lawrence...”.
“Lawrence? Lawrence come, d’Arabia?”.
“Signor no, Signore!”.
“Qual è il suo nome completo?”.
ventinove
Ein Volk, ein Reich, ein Social Network
“Lawrence Clemuerte”.
“Eh... dunque?”.
“Il nome non è realmente esistente”.
“Lei è una faina Himmler 2.0, se lo lasci dire. Avete
fatto richiesta del vero nome e cognome?”.
“Affermativo”.
“La foto della carta d’identità l’avete chiesta?”.
“Affermativo”.
“E dov’è il problema allora?”.
“É che le foto ce le ha spedite, ma erano... ecco... foto
di feci che sguazzavano nel water. Credo siano sue”.
Zucker stringe lentamente i pugni.
“Come scusa?”.
“Sì, ecco... al posto della carta d’identità ci ha inviato
immagini della sua merda... Sono desolato mein
Führer”.
“CANCELLATE IMMEDIATAMENTE IL SUO
CONTATTO! BANNATELO! Non posso tollerare
tutta questa arroganza! E tu, mio caro Himmler 2.0,
per punizione dovrai chiedere l’amicizia a cinquanta
complottisti e riprendere tutto con Periscope, così che
il mondo intero possa ammirare il tuo fallimento!”.
“No! La prego, non i complottisti... Mi iscrivo alla
pagina di Salvini, ma non loro, per favore”.
“Il tuo Führer Zucker ha parlato”.
Due guardie artigliano il comandante Himmler 2.0 e
lo trascinano via verso un centro Wi-Fi.
Giunge la sera. Zucker entra nella sua Mercedes 770
e mette in moto. Percorsi pochi metri si imbatte in un
posto di blocco. Un poliziotto gli intima di fermarsi e
si avvicina guardingo verso il finestrino.
“Lei sarebbe?”.
“Come chi sono? Sono il tuo Führer!”.
“Si, certo. Mi dia nome e cognome”.
“Non le interessa la carta d’identità?”.
“Che me ne faccio della sua carta d’identità quando
dal suo profilo Facebook posso conoscere anche il
suo gruppo sanguigno?”.
“Farò rapporto per questo. Comunque il mio nome è
Markolf Zucker”.
Il poliziotto estrae l’iPad dalla fondina iniziando a
sgrillettare sullo schermo.
“Allora... Markolf Zucker, gruppo sanguigno 0
positivo, altezza 1,76... Sembra corrispondere... Due
colonscopie alle spalle... Vedo che ha anche una
discreta passione per le minorenni, aspetti che la
inserisco nella cartella ‘Pederasta birbone’”.
trenta
“Come si permette?”.
“Si calmi e mi faccia leggere. Sembra vada tutto bene.
Per me può andare”.
“La ringrazio...”.
Zucker si accinge a ripartire, quando di repente il
poliziotto lo frena di nuovo.
“Ah! Ho notato con piacere che tra i suoi libri preferiti
annovera ‘1984’ di Orwell, io lo adoro. Le piacciono
le fiction per caso?”.
“Ma quali fiction e fiction! A me piacciono solo storie
realistiche”.
LAWRENCE CLEMUERTE
Misantropo.
Odia anche tu che stai leggendo.
GREMBIULE ROSA
La bambina dai riccioli biondi stava piangendo, seduta
in disparte rispetto a tutti gli altri bambini. Ricordo che
rimasi folgorata dal suo zainetto rosa, decorato con
applicazioni fluorescenti ed elaborate. Mi avvicinai
lentamente, cercando di non far rumore, mentre
poco più avanti la maestra stava cercando con fatica di
posizionarci in fila indiana.
Frugai nella tasca del grembiule, e la mia mano
sudaticcia trovò una caramella. Il rumore della carta
sgualcita, afferrata con decisione dalla mia mano, fece
sobbalzare la bambina di fronte a me, che alzò gli
occhi umidi verso i miei.
“Ciao”, mi disse, tirando su col naso.
“Ciao”, risposi.
Tesi la mano in avanti, porgendole la caramella. Lei
esitò, guardando un po’ me, un po’ il dono che le
avevo offerto, come indecisa su cosa scegliere.
“Tieni”, la incoraggiai.
La sua mano paffutella sfiorò la mia, prese la caramella
e la mise in tasca.
“Non la mangi? Guarda che è buona”, la esortai.
“Non ho fame”, mi disse.
Il suo naso colava da entrambe le narici, ma finsi di
non notarlo e mi guardai intorno. Gli altri bambini
si erano ormai allontanati, diretti in cortile. Io e la
bambina eravamo rimaste sole, circondate da giocattoli
abbandonati sul pavimento e pennarelli senza tappo
sparsi ovunque.
“Hai un fazzoletto?”, mi chiese a un tratto.
Scossi la testa, dispiaciuta.
“Fa niente”, disse, asciugandosi il naso con la manica
del grembiule. Abbassò la testa e riprese a mugolare
come un gatto. Misi le mani in tasca e iniziai a
dondolarmi, pensando a qualcosa da dire che la
potesse far sorridere.
Mi venne in mente: “Andiamo fuori a giocare?”
“Io voglio andare dalla mia mamma”, sbottò,
coprendosi il viso con le mani e ricominciando a
singhiozzare. Mi sedetti accanto a lei, ancora indecisa
sul da farsi. Goccioloni di lacrime le cadevano sulle
cosce, dipingendo pois scuri sui pantaloni celesti della
tuta.
“Non piangere… non piangere…”, le dissi dolcemente,
prendendole una mano.
Si liberò dalla mia presa e gridò: “Voglio la mia
mamma! Voglio la mia mamma, dov’è andata la mia
mamma?”.
“Tra poco viene, ma adesso andiamo a giocare!”.
Invano, cercai di alzarla dalla sedia tirandola per
una mano. Fu tutto inutile. La bambina continuò a
piangere.
Quel giorno, rassegnata, raggiunsi gli altri in giardino.
Le lacrime della bambina senza nome continuarono a
inondare l’asilo per diverse settimane. Come marinai
a bordo di piccole barche, sfidavamo il mare che ogni
giorno saliva pericolosamente di livello. Ondate di
pianto ci sorprendevano appena varcata la soglia della
nostra scuola. La bambina, come una divinità marina
in vetta a uno scoglio appuntito, dirigeva l’orchestra
di quel mare salatissimo, coordinando il movimento
delle onde e facendo di tutto per farci cadere in acqua.
Sballottata qua e là dalle maestre, la bambina piangeva
appena arrivata, piangeva in giardino, piangeva sul
piatto di pastasciutta, in bagno, agli armadietti. Una
volta la vidi singhiozzare mentre schiacciava dei pinoli
in cortile. Pensai che si fosse schiacciata le dita con
un sasso, ma dentro di me sapevo che non era quello
il motivo. La vidi piangere mentre si metteva le dita
nel naso. Si strappava i capelli, puntando e battendo i
piedi per terra. Mi dispiaceva che stesse così male, ma
non potevo farci niente, se non continuare il mio giro
in barca sperando di non rovesciarmi ad ogni ondata.
Avevo provato più volte ad avvicinarmi a lei, ma ogni
passo che facevo sembrava incidere sull’intensità di
quei singhiozzi. Mi ricordo il suo viso contratto in una
smorfia di dolore costante, con la bocca all’ingiù e gli
occhi strizzati, gonfi e grinzosi. Aveva sempre la faccia
bagnata e appiccicosa, e il grembiule madreperlato
trentuno
Grembiule rosa
di moccio. Ormai, all’asilo, nessuno faceva più caso
al suo aspetto sempre abbacchiato. La bambina non
aveva neanche un nome per noi, era solo “quella
femmina che piange sempre”. Le avevo chiesto come
si chiamasse, ma lei non faceva altro che sussultare,
scossa dai continui singhiozzi. Con il passare dei
giorni, ci avevo rinunciato.
Passai il primo mese giocando con chi c’era, facendo
disegni incomprensibili e mangiando poco di quello
che le maestre mi mettevano nel piatto. Tra una
cucchiaiata e l’altra, sbirciavo due tavoli più in là,
cercando la bambina, sperando dentro di me che ci
fosse. Lei intercettava il mio sguardo, e si asciugava
naso e bocca insieme. Mi rimettevo a mangiare,
ma ogni volta che la spiavo, così triste e sola, mi si
annodava lo stomaco, e lasciavo il cibo nel piatto.
Quando la sera mi mettevano a letto, non riuscivo
mai a prendere sonno. Con gli occhi sgranati fissavo il
soffitto e immaginavo la bambina cullata tra le braccia
della sua mamma. In quell’immagine non c’erano
lacrime, né grida, ma solo un velo trasparente sotto cui
si celava una bianca serenità, nel quale, mi promettevo,
avrei avvolto tutto l’asilo. Mi addormentavo stordita e
annebbiata in quel pensiero confortante, e quando la
mattina poggiavo i piedi scalzi sul pavimento freddo,
mi sentivo protetta da una forza inattesa, come
un’eroina determinata a portare a termine la propria
missione.
Così, un giorno di dicembre, decisi che non c’era più
tempo da perdere. Se la bambina non si decideva a
smettere di piangere, l’avrei deciso io per lei. Come,
non ne avevo idea. Ma sentii che quello sarebbe stato
il giorno giusto, il giorno della svolta. Vissi quella
mattinata come sdoppiata da me stessa, guardando
da fuori ogni mia azione, come fossi un’altra
persona. Io che salivo in macchina guardando la
neve ammucchiarsi sui tergicristalli, io che arrivavo
a scuola, mi toglievo il giubbotto e lo appendevo
nell’armadietto insieme allo zaino, io che mi spostavo
al banco a disegnare, io che sbirciavo la bambina.
Burattinaia di me stessa, muovevo il mio corpo con
dei fili invisibili, facendo ciò che avevo sempre fatto,
ma con una diversa consapevolezza. “Forse è così che
si comportano gli adulti”, pensai. Maturava dentro il
m.l.
trentadue
Grembiule rosa
mio cuore la sincera convinzione di avere il potere per
cambiare le cose, ma di non sapere come fare a usare
quel potenziale.
Così, ripetei le azioni di sempre incoraggiata da
qualcuno che dietro di me mi dava una spintarella, e
comandava i miei gesti.
“Fa’ così. Adesso vai lì”, sussurrava nella mia testa.
“Vedrai che la bambina smetterà di piangere”.
Quando arrivò l’ora di pranzo, l’altra me decise di
spolverare tutto. Mangiai le penne scotte al pomodoro,
un po’ di spinaci e qualche carota.
“Brava, così si fa”, disse la vocina.
Una volta sparecchiato, le maestre ci portarono a
riposare, come al solito. Non avevo mai dormito
in quei lettini scomodi e cigolanti, ma, fedele alla
promessa nata solo da qualche ora, decisi di provare a
schiacciare un sonnellino. Mi tolsi le scarpe, e mi calai
sotto le coperte. Guardai nel buio vicino alla porta,
di fianco al termosifone, e vidi l’altra me sussurrare:
“Adesso dormi. Se lo farai, la bambina smetterà di
piangere. Da brava”.
Mi girai su me stessa svariate volte, ma quel giorno
il sonno non volle posarsi su di me. Allora mi misi
su un fianco, a pensare a quale azione miracolosa
avrebbe portato a compimento il mio grande progetto.
“Forse non ti sei comportata bene con i tuoi genitori”,
propose la vocina. Scartai l’ipotesi. La sorte futura dei
pianti della bambina non sarebbe potuta dipendere da
qualcosa di così difficile da cambiare in breve tempo.
Doveva essere un’azione immediata, semplice come
la risposta a uno stimolo.
Stavo pensando a decine di possibilità, nel momento
in cui percepii un rumore a me noto, proveniente dal
lettino di fianco al mio. Era un respiro disturbato, simile
a una serie di sussulti. “È lei!”, pensai emozionata, ma
non mi mossi di un millimetro.
La curiosità era pungente. “È lei, sì, è lei!”, confermò
l’altra me, sempre seduta, appoggiata con la schiena
alla parete. Scivolai senza far rumore sull’altro fianco,
e la riconobbi.
Esausta, la bambina si era appisolata con il dito in
bocca. Un filo di bava sfiorava il cuscino già fradicio
di lacrime, la faccia era arrossata e gonfia. La guardai
in silenzio, seguendo il rapido movimento del suo
petto, su e giù, su e giù. La vera bambina che dormiva
non somigliava affatto all’idea che mi ero fatta di lei:
il pianto rabbioso aveva scavato segni indelebili sulla
sua faccia, che anche al buio riuscivo a riconoscere.
“Perché non sorride mai? Perché non fa altro che
piangere?”, mi domandai. La bambina sembrava
lacrimare anche in quel lettino immacolato, nel sonno.
Eppure non c’era nessuna goccia sul suo viso. Solo
un turbamento evidente che non potevo non sentire,
come un peso che di lì a poco si sarebbe nuovamente
impossessato di lei, affogandola nell’oceano delle
sue stesse lacrime. In quel momento, pregai solo che
dormisse più a lungo possibile.
Poi, a un tratto, la bambina aprì gli occhi, e io capii
troppo tardi di aver pensato ad alta voce, svegliandola.
Mi preparai a sentirla gridare, scalciare per liberarsi
delle coperte, mettersi a urlare svegliando tutti gli
altri. Le maestre si sarebbero arrabbiate e avrebbero
dato la colpa a me. I miei occhi la guardarono
chiedendole scusa e, in silenzio, la pregai di non
iniziare nuovamente a piangere. Con mia sorpresa,
il suo sguardo mi rispose annuendo, con dolcezza.
La bambina si tolse il pollice destro dalla bocca, e ci
mise il sinistro, iniziando a succhiarlo. Allora allungò
la mano, ancora bagnata, verso di me. Io le porsi la
mia, incurante della saliva che avrei toccato, e lei la
strinse. Un calore improvviso salì dal polso alla spalla,
passando per la curva del collo e arrivando alla radice
dei capelli. Per l’emozione, la mia mano iniziò a
sudare, appiccicandosi come una ventosa a quella di
lei, che mi guardava senza sbattere gli occhi dal suo
lettino, sdraiata a pancia in giù.
“M-m-mi… mi ch-chiamo…”, sussurrò la sua bocca
ancora impiastricciata. L’odore del suo fiato arrivò
fino al mio naso. Poi si zittì, continuando a ciucciarsi
il dito.
Ci addormentammo dopo pochi minuti, le nostre
piccole braccia penzolanti tra letto e letto, come un
ponte tra due montagne lontane.
Ricordo poi l’ultimo giorno di asilo, una mattina afosa
di fine giugno, io e lei sedute sul muretto nel cortile
della scuola, con i piedi che dondolavano sospesi. Una
zanzara si posò sul mio ginocchio scoperto, appena
sotto la fine dei pantaloncini blu di cotone.
“Presa!”, gridò soddisfatta la mia amica, schiacciando
l’insetto sotto il palmo della sua mano.
“Oh, grazie. Ma che schifo…”, dissi, prendendo la
zanzara ormai morta e facendola cadere il più possibile
lontano da me. Un brivido mi percorse la schiena,
trentatre
Grembiule rosa
facendomi tremare. Mi leccai le dita e, strofinandole
contro il ginocchio, dissolsi la macchia di sangue che
mi era rimasta in seguito alla puntura.
“Ti ha fatto male?”.
“Un po’. Ma tanto passa”, le risposi guardandola. Una
voce richiamò la mia attenzione.
“Dobbiamo andare, credo”. La maestra, in
lontananza, iniziava a chiamarci, indicando l’orologio
e facendoci segno di sbrigarci. Doveva essere l’ora di
pranzo, probabilmente le nostre mamme ci stavano
aspettando all’uscita.
“Restiamo altri cinque minuti?”, propose,
prendendomi la mano.
Strinsi la sua di risposta. La maestra si era allontanata,
andando a radunare gli altri bambini e scordandosi
per un po’ di noi. Ne fui felice. “Sì, dai. Altri cinque
minuti”.
“Che farai da domani?”, chiese la mia amica guardando
davanti a sé.
Mi asciugai la fronte appiccicosa di sudore. “Non lo
so… e tu?”.
“Ah, non ne ho idea… ci conviene giocare questa
estate, perché dal prossimo anno non avremo più
tanto tempo per farlo”, mi rispose un po’ preoccupata,
abbassando gli occhi. “Lo sai che avremo il grembiule
nero?”.
La prima elementare mi sembrava un traguardo, la
fine di una corsa. All’improvviso un vuoto mi colpì
allo stomaco.
“Quindi… Diventiamo grandi?”, azzardai, indecisa fino
alla fine se usare un tono affermativo o interrogativo.
“No… non ancora”.
Tirai un sospiro di sollievo e deglutii.
“Si diventa grandi quando si sono viste tante cose.
Noi siamo ancora piccole. Ci sono tante cose che non
abbiamo ancora visto”, mi spiegò gesticolando. Il sole
di mezzogiorno stava scaldando le nostre teste. Era
difficile immaginare il futuro, cosa sarebbe successo
nel giro di qualche mese, passata l’estate.
“Tu cosa vorresti vedere?”, le domandai, cercando di
allontanare il caldo, sventolandomi con la mano.
“Vorrei… vorrei andare nei posti lontanissimi e vedere
cosa succede laggiù”, disse con un tono serio. “Tu?”.
“Io vorrei essere già grande come i miei genitori e
avere già visto tutte le cose del mondo, tutte quelle che
non ho mai visto. Centinaia, migliaia, milioni, miliardi
trentaquattro
di cose. Sai quanti sono i miliardi?”. Sorrisi e pensai ai
numeri, che allora ancora non conoscevo bene.
“Non è possibile saperlo… tu sai contare?”, mi chiese.
“Fino all’infinito”, mentii con decisione. E iniziai:
“Uno, due, tre, quattro, cin…”.
“Non è vero! Nessuno sa contare fino all’infinito.
Bugiarda!”, mi punzecchiò facendomi il solletico sulla
pancia. Mi misi a ridere cercando di divincolarmi
dalle sue mani e spingendola indietro.
“Basta. Adesso fa proprio troppo caldo”, le dissi
appena riuscii a riprendere fiato dalle risate.
Lei annuì, tirando su le gambe e incrociandole come
una piccola indiana.
“Credo proprio che dovremmo andare, adesso…”,
disse, indicando la maestra che, un po’ arrabbiata,
stava tornando verso di noi. “Ma prima promettimi
una cosa!”, mi strizzò le mani dentro le sue, si avvicinò
al mio orecchio e sussurrando mi chiese: “Rimarremo
amiche anche quando avremo il grembiule nero, non
è vero?”.
I suoi occhi celesti si dilatarono, e cercarono i miei in
attesa di una risposta affermativa.
“Certo”, la rassicurai abbracciandola forte. L’odore
tenue del suo sudore raggiunse le mie narici, mescolato
a quello dell’erba seccata dal sole, poco più in là.
“È ora di andare”.
La presi per mano e insieme, con un salto, atterrammo
sulla ghiaia sotto di noi, che accolse il nostro peso
con un rumore di ramoscelli spezzati. Ci avviammo
trotterellando verso l’uscita della scuola, sistemandoci
i pantaloncini umidi che per il caldo torrido si erano
attaccati ai nostri sederi.
Non la rividi mai più.
CHIARA AGOSTINI
Scrittrice mancata (per ora).
FORSE TE L’HO GIÀ CHIESTO
4. Il principe, ovvero: una breve teoria su quasi tutto
Francesco, meglio noto come “il Principe”, avrebbe
avuto le capacità per diventare un professionista.
Steccata pulita, sensibilità, impostazione raffinata,
quella confidenza simbiotica col biliardo che porta il
giocatore a sapere esattamente cosa è meglio fare e
come eseguirlo.
“Il Principe” era difatti un soggetto dalla tracimante
sicurezza in se stesso e, una volta detto questo, arriviamo
all’essenza della sua monumentale personalità e dei
suoi non trascurabili limiti.
Ogni volta che pronunciava una parola o giocava
un tiro, sembrava nell’atto di incidere la sua verità
eterna sulla pietra. La versione ufficiale lo voleva
rappresentate di tessuti, professione che un tempo gli
aveva permesso di togliersi molte golose soddisfazioni
nel distretto pratese. Dando per scontato che quello
fosse ancora il suo mestiere, la sala biliardi doveva
essersi trasformata nel suo ufficio.
Animato da una certezza senza confini nei suoi mezzi
sportivi e intellettuali era refrattario a qualsiasi tipo
di suggerimento, consiglio o cambiamento. Questo
probabilmente spiega la maggior parte delle sue
sconfitte e fallimenti. Lui però non se ne curava e
affrontava la vita come se corresse su un binario
invisibile.
Commetteremmo un errore banale se ci limitassimo
a descriverlo come un caso di disturbo narcisistico
perché “il Principe”, e a lui farebbe piacere sentirselo
dire, era molto di più.
A meno che non stesse sopra un tavolo da biliardo
era invariabilmente posseduto da una tensione
impaziente, dall’uggia mal repressa tipica di chi, in
qualunque posto si possa trovare, vorrebbe essere
da un’altra parte. Un’altra parte fatta tutta di piaceri
e libidine, paradisi artificiali a noi proibiti, ma per lui,
“il Principe”, sacrosante ricompense da tributare alla
sua figura.
4. Il principe - 5. A lettere cubitali
Lo smacco di trovarsi ancora lì, in quella sala affogata
nel buio, era solo l’inganno di un destino ingrato e
malevolo sul quale, presto o tardi, avrebbe avuto
ragione. Guardarlo giocare però restituiva un senso
a quella presenza insofferente e turbata, perché
Francesco, il biliardo, e forse solo quello, lo amava
davvero.
Anche se le capacità di conversazione erano sotto
il costante assedio di un umore fluttuante e di
un’attenzione indecentemente breve, quell’uomo
aveva dentro un bagliore accecante.
Senza alcuno sforzo l’ho sentito emettere sentenze
su qualsiasi tema l’essere umano avesse commesso
l’errore di fermarsi a riflettere: l’origine della vita, i
flussi migratori, il conteggio per i rinquarti di calcio,
la cocaina, la cleptomania, le prostitute ungare,
l’educazione dei figli, l’origine della crisi e sua rapida
risoluzione, la pace in medio oriente, la ricetta per
l’anfetamina, l’antimateria, l’esistenza del punto
“g”, Coppi o Bartali, la vera identità di Gesù Cristo.
Pareva immune dal dubbio come dalla necessità di
dover spendere più di qualche secondo per ascoltarti
e illuminarti col suo verbo. Nonostante questo non
riuscivo a detestarlo fino in fondo, anzi, vittima di quel
bagliore, gli perdonavo ogni sua piacevole prepotenza.
Insomma, “il Principe” riusciva a indossare con
eleganza il declino che appesantiva molti dei giocatori
e rilanciava con convincimento universale la sua breve
teoria su quasi tutto.
Era la maestosità inscalfibile del suo carattere ad
assolverlo dalla maggior parte delle regole che limitano
noi altri. Questo, come è facile immaginare, non lo
aveva risparmiato dai danni collaterali che corredano
inevitabilmente l’avventore tipico della nostra amata
sala. In particolare l’abitudine al gioco d’azzardo si
era ben presto convertita in una schietta dipendenza
che, assieme al fumo, al sesso ed altri illegali segreti,
alimentavano il giro delle cose che non riusciva a
smettere di fare.
trentacinque
Forse te l’ho già chiesto
d.s.
Fumava Marlboro rosse in proporzioni difficili da
quantificare. Persino una partita al biliardo poteva
essere troppo lunga da affrontare senza un po’ di
catrame.
Così, quando era il turno di gioco del suo avversario,
non era raro vederlo allontanarsi con furia dal tavolo,
aprire la porta della sala fumatori e respirare a pieni
polmoni. Era la sua versione di aerosol alla nicotina.
Lo conobbi in una di queste circostanze, mentre
tentava di scardinare quella porta in preda a un attacco
astinente. La sfortuna quella sera decise di fargliela
trovare chiusa.
Dopo qualche giro violento di maniglia tentò con
un calcio poco convinto passando poi a delle decise
spallate.
“Francesco, siamo ad aspettare te! Tu fumi dopo dai”.
Il suo avversario cominciava a spazientirsi, solo a quel
punto “il Principe” provò a rimandare il suo bisogno.
Mosse qualche passo verso il tavolo poi, di colpo, si
fermò.
“Scusami un secondo”.
Qualcuno aveva già cominciato a scuotere la testa
trentasei
gettando lo sguardo al cielo, altri sghignazzavano, il
suo avversario era semplicemente esterrefatto.
“Il Principe”, con il naso a pochi millimetri dalla
superficie della porta, stava battezzando l’intera
nomenclatura cattolico cristiana, sbraitando le
bestemmie più articolate e veementi che avessi mai
udito pronunciare.
Concluse la sua orgia salmodiante con una
imprecazione dedicata al sacro rito del presepe.
“Accidenti a lui e tutte le statue che ci sono dentro,
voglio fumare!”.
La sala si era congelata, e lui, che in tutti quegli anni
non mi aveva neppure concesso la parola, sembrò
improvvisamente rendersi conto che esistevo, che in
quel momento ero proprio lì, divertito e attonito da
una scena ai confini della realtà.
Mi fissava.
“Dico bene topino?”.
Topino: nomignolo affettuoso ed insieme canzonatorio
che di solito i veterani rivolgono ai novizi.
“Dici per il presepe?”.
“Ovviamente”.
Forse te l’ho già chiesto
“Credo di sì, infatti da noi si fa l’albero a Natale”.
Accennò
un’espressione
divertita,
l’incrocio
ammaliante tra un sorriso e una tagliola rugginosa.
Dall’altra parte del biliardo il tizio si stava riavendo
dallo shock.
“Francesco! Quando sei in comodo vorrei finire la
partita”.
“Ma senti quanta fretta di perdere soldi c’ha il ragazzo.
Ora arrivo, così t’accontento”.
In effetti la partita non si stava mettendo bene per il
suo avversario. “Il Principe”, a ogni modo, sembrava
non avere intenzione di tornare al tavolo. Decise
piuttosto, con ostentata gestualità, di accendersi una
bella sigaretta: affronto intollerabile ed espressamente
proibito nelle sale. Il divieto a fumare, sebbene
osteggiato dall’intera comunità di giocatori, veniva
imposto con spietata intransigenza dal gestore che,
dopo tenaci proteste, era riuscito a piegare tutti al suo
volere. Tutti tranne lui. Aspirò la sua dose con gusto
e cattiveria, lasciando la scia biancastra sollevarsi e
sparire nel buio.
Prima di tornare al gioco mi porse la sigaretta accesa
come fosse una reliquia.
“Reggimela un secondo”.
Rapito da tanto fascino irriverente, avevo fatto spazio
per un altro eroe dannato nella mia collezione:
tra Slash dei Guns N’ Roses e Franco Califano, “il
Principe” trovava adesso il suo posto d’onore.
Restai immobile, con quel mozzicone tra l’indice e il
pollice per il resto dello scontro.
Francesco, non era soltanto bravo, era bello da vedere.
Ogni tanto il biliardo sembrava persino esercitare su
di lui un potere catartico, al limite del terapeutico.
Allo sproloquio presuntuoso sostituiva un silenzio
predatorio e feroce, i movimenti, di solito nervosi e
imprevedibili, diventavano lenti, misurati, felini.
Quella era una di quella volte. Un’altra magia del
basilisco.
Non sbagliò una palla e tutto si bruciò nel tempo di
una sigaretta.
Mentre il pubblico batteva le mani, Francesco mi si
avvicinò, staccò il mozzicone dalle dita e fece l’ultimo,
potentissimo, tiro.
“Bravo topino”.
Ora “il Principe” aveva l’aspetto di un gatto dal sorriso
beffardo, ammiccante e pericoloso come una tagliola.
5. A lettere cubitali
La mitologia di Montecatini narrava di una perduta
ed elegante cittadina in stile liberty, luogo di culto
per villeggianti facoltosi, puttanieri e vecchi artritici.
Le prodigiose acque termali, assieme al lusso di
alberghi e meretrici a cinque stelle, avevano attratto
per decenni le sfere più dignitose di una società ormai
scomparsa. In piccola parte la nostalgia di quel periodo
rigoglioso sopravviveva ancora tra i brandelli di un
turismo impoverito, ma comunque dedito agli stessi
passatempi. Così Montecatini sopravviveva, perché in
fondo scommettere e scopare piace un po’ a chiunque
e, nonostante tutto, trovare il riflesso di quel mondo
dorato non era difficile. In particolare le decine di
alberghi abbandonati o semivuoti testimoniavano con
fierezza il tramonto di un’epoca, e giacevano come
tanti Titanic sul fondo di un abisso buono soltanto per
il sesso a pagamento, le scommesse e tutta una fioritura
di locali notturni dove ci si dedicava candidamente a
entrambe le attività. Si poteva apprezzare un piacevole
retrogusto gentilizio nel consumare quelli che un
tempo furono peccati riservati ai soli miliardari e che
adesso venivano svenduti a ogni disperato con un
portafogli in mano.
Nonostante la sua reputazione, avevo sempre avvertito
per quel luogo un affetto sincero e, solo in parte,
guastato da un pizzico di sdegno. In effetti con me
Montecatini si era sempre mostrata con le lusinghe
corrotte di una donna un po’ avanti con gli anni, ma
ancora capace di farti divertire se la pagavi bene. Con
lei, o su di lei, si erano celebrati molti dei miei riti
di iniziazione verso un’adolescenza svergognata e
clamorosa.
Così, spinto da un vento sabbioso e torrido, avevo
perlustrato tutte le sale giochi che conoscevo,
autentiche icone della nostra dissoluta primavera
giovanile: la “Steccaccia”, il “Marameo”, lo “Spaccone”,
persino il “Perdigiorno” realtà eternamente sospesa
sull’impalpabile confine della legalità. Il proprietario,
soggetto che per la consistenza vaga dei suoi progetti di
vita si era guadagnato il nome di “Affondasugheri”, era
considerato una delle personalità più autorevoli nel
settore delle bische così come delle case circondariali.
Fu quel pomeriggio che appresi la definitiva chiusura
di quel santuario del vizio. Il “Perdigiorno” non
esisteva più, al suo posto un più redditizio e al passo
trentasette
Forse te l’ho già chiesto
coi tempi “Compro Oro”.
“Peccato”, pensai.
Era lì che avevo ammirato per la prima volta un
professionista del biliardo, un uomo tanto abile con la
stecca quanto improbabile come persona. All’epoca lo
chiamavano semplicemente “il Tommo”, poi, per via
della sua mole e dei suoi modi non sempre discreti, si
preferì rivolgersi a lui come “il Tatanka”.
È stato davanti a una scritta menzognera sul valore
dell’oro che cominciai a interrogarmi seriamente
sulla preoccupante piega che stava assumendo quella
vicenda. Dove era mio padre? Dove cazzo andava un
amnesico assieme a “il Principe”?
E soprattutto, perché sembravo più dispiaciuto per la
morte di quel locale che per la scomparsa di R.?
Allo sgomento per l’ennesimo fallimento riportato
nel gioco della caccia al padre, si aggiungeva un
sincero e romantico dolore per la fine di quel posto
e delle sue creature. In fondo me lo aspettavo di non
trovarci nessuno, né “il Principe” né il suo ostaggio,
però mi avrebbe fatto piacere farci un giro e tra quei
tavoli scoprire l’immarcescibile “Affondasugheri”.
Trovarlo ancora lì, come un vecchio pugile tumefatto
ma ancora in piedi, a schivare i colpi bassi della legge
e degli usurai. Mi meravigliava sentirmi addosso quel
languore malinconico. Nonostante i buoni propositi
e tutte le ricette per rigare dritto, come Pinocchio
riconoscevo il richiamo ammaliante del paese dei
balocchi. Avevo persino voglia di giocare.
Continuai a camminare senza meta, fino all’ingresso
di una enorme struttura circolare, il monumento
più antico e fedele alla natura di quella città. Le luci
illuminavano ancora la pista bruna e gli spalti ormai
deserti. Un tabellone mi rammentava che Katiuscia,
si era imposta su “Stella della sera” e “Confettino
nero”. Ultimo classificato, con ritardo indecente, lo
scandaloso “Second son”.
Faceva un certo effetto pensare che tutto quel silenzio
era il guscio vuoto di una folla ansimante, la stessa che
ogni giorno tenta di scrutare il disegno del destino
negli esiti incerti di una gara.
Un refolo caldo alzò da terra una nuvola di cartacce.
Tante quante potevano essere le scommesse perse
e subito dimenticate. In alto, enormi lettere rosse si
imponevano dentro e fuori di me.
La scritta diceva: Benvenuti all’ippodromo.
trentotto
ETTORE BARGELLINI
“Cercherò, mi hanno sempre detto cercherò,
Troverai, mi hanno sempre detto troverai.”
G. Nannini, “America”, 1979.
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