RASSEGNA STAMPA

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RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
Martedì 21 aprile 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
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IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
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IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
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L’ARCI SUI MEDIA
Da il manifesto del 21/04/15, pag. 3
A Roma sit-in e flash mob a Montecitorio,
dalle 17,00
In una settimana più di mille morti in due stragi annunciate (...) che hanno responsabilità
precise: le scelte politiche e le leggi dei governi dell’Ue (compreso quello italiano) che
consegnano le persone in cerca di protezione nelle mani dei mercanti di morte.
Aumentando controlli e mezzi per pattugliare le frontiere non si fermeranno le stragi, come
dimostra quest’ultima tragedia con più di 900 morti, a poche ore da quella che ha portato a
morire altre 400 persone. Chi scappa per salvare la propria vita e quella dei suoi cari non
si ferma davanti al rischio di morire in mare. Non c’è più tempo da perdere. Si aprano
subito (...) canali umanitari, unico modo per evitare i viaggi della morte. Il governo italiano
(...) riattivi subito un programma di ricerca e salvataggio. Chieda all’Ue di farsi carico di un
programma di ricerca e salvataggio europeo. Si sospenda il regolamento Dublino e si
consenta alle persone tratte in salvo di scegliere il Paese dove andare sostenendo
economicamente con un fondo europeo l’accoglienza in quei Paesi sulla base della
distribuzione dei profughi. Questi morti non consentono più rinvii (...) Erano persone in
carne e ossa. E invece sembrano fantasmi. Oggi mobilitazioni in tutta Italia promosse, tra
gli altri, da Arci, Acli, Medici senza Frontiere, Amnesty, Emergency, Libera, Cgil, FiomCgil, Uil Comunità di Sant’Egidio, Action, Legambiente, Carovane Migranti, Casa dei diritti
Sociali, Nessun Luogo è Lontano... Hanno aderito L’Altra Europa, Sel, Prc. A Roma sit in e
flash mob dalle 17.00 davanti Montecitorio.
Da Redattore sociale del 20/04/2015
Strage migranti, associazioni: Europa
colpevole, smetta di stare a guardare
E' tempo che l'Europa agisca: lo chiedono le organizzazioni di fronte al
nuovo naufragio nel canale di Sicilia. Acli: "Con quelle vite spezzate si
compromette la dignità della comunità internazionale". Oxfam: "Triton è
un'operazione che non serve". Caritas: "L'idea di un'Europa
inespugnabile barcolla sotto i colpi di un'umanità disperata"
ROMA - E' un coro unanime quello delle associazioni dopo la terribile tragedia di ieri, una
tragedia che rischia di essere una delle più gravi del Mediterraneo. E se un filo comune
può essere trovato nelle diverse prese di posizione, la più evidente è certamente la
richiesta di un intervento immediato dell’Europa e una nuova Mare nostrum. Insomma,
l'Europa non può più permettersi di stare a guardare.
Caritas Italiana: l'Europa barcolla sotto i colpi di un'umanità disperata. Unendosi alla
preghiera di papa Francesco per le vittime, don Francesco Soddu, direttore di Caritas
Italiana, dalla Tunisia dove si trova proprio per organizzare il MigraMed, incontro tra le
Caritas del Mediterraneo previsto per giugno, afferma: "L’idea di un’Europa inespugnabile
sta barcollando sotto i colpi di una umanità disperata che in fuga dai propri paesi sta
mostrando il volto peggiore degli effetti della globalizzazione. Iniquità, conflitti, ideologie
sono i fattori che determinano il costante aumento dei flussi di profughi verso il continente
europeo".
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"Ci indigna che si alzi la voce solo quando il numero di chi non sopravvive raggiunge livelli
‘eclatanti’ - afferma Pietro Barbieri, portavoce del Forum terzo settore - . Quasi ogni giorno
c’è qualche migrante che perde la vita in mare e solo dall’inizio di quest’anno sono morte
quasi 1.500 persone. Numeri che non sono accettabili. Vite umane che devono essere
tutelate. Non si può più gridare solamente la propria rabbia. Non si devono voltare le
spalle. Servono fatti concreti. L’Europa, anche se non da sola, deve puntare i riflettori sul
tema dell’immigrazione, sulle sue cause, sul fenomeno della tratta degli esseri umani".
Un minuto di silenzio per il Consiglio nazionale dell’Arci, riunito a Roma il 18 e 19 aprile,
per esprimere il "dolore e cordoglio per l’ennesima strage che si è consumata nel
Mediterraneo". "Una tragedia che ha responsabilità precise – dice l’Arci - nelle scelte
compiute dalle istituzioni italiane ed europee, che continuano a perseguire politiche di
chiusura ed esternalizzazione delle frontiere e che, con Triton, hanno deciso di mettere in
campo un’operazione finalizzata al solo controllo, anziché allargare a tutto il Mediterraneo
un’azione di ricerca e salvataggio, quale è stata Mare nostrum, che ha consentito a tante
persone di essere messe in salvo". Arci chiede al governo "in attesa che si arrivi ad
un’azione congiunta con l’unione Europea, di ripristinare immediatamente Mare Nostrum".
"Il più grande naufragio nella storia delle migrazioni: così rischia di essere ricordata
l'ennesima tragedia avvenuta stanotte nel Canale di Sicilia". Questo anche il commento di
Amref Health Africa, che ribadisce che è un "dovere di tutti, ma innanzitutto della politica,
ricordare che la sofferenza di una parte del mondo è affare di tutti, non solo di chi lo vive in
prima persona”. Per il direttore della sezione italiana, Guglielmo Micucci, “l'Europa,
inerme, non riesce a dare una risposta adeguata”.
Acli: "Con quelle vite spezzate si compromette la dignità della comunità internazionale”. Il
presidente nazionale, Gianni Bottalico: "In particolare insieme a questi nostri circa 700
fratelli e sorelle periti la notte scorsa nelle acque del Canale di Sicilia c'è il naufragio anche
dell'Europa che è doppiamente colpevole: primo per non aver assunto il programma Mare
Nostrum a livello di Unione Europea, come da noi chiesto alla scadenza di questo
programma. E secondo: per non aver agito con fermezza e chiarezza nel combattere la
destabilizzazione di vaste zone dell'Africa”. Le Acli chiedono che “l'Europa avvii
immediatamente un programma europeo di soccorso per i migranti nel Mediterraneo".
Il Centro Astalli esterna “orrore e sgomento” per l’ultima terribile strage di migranti. E
chiede alle istituzioni nazionali ed europee misure immediate. Eccole: “Attivare
immediatamente un’operazione di soccorso e salvataggio ad ampio raggio. Oggi
paghiamo il prezzo altissimo della scelta nefasta di interrompere l’operazione Mare
Nostrum e sostituirla ipocritamente con Triton che ha il solo mandato di controllare le
frontiere e non di salvare vite umane”. Inoltre, “applicare il prima possibile tra gli Stati
europei il mutuo riconoscimento dello status di rifugiato in modo da garantire un’equa
ripartizione dei rifugiati all’interno dell’Unione”. Infine, “fare in modo che tutti gli Stati
dell’Unione accolgano in modo proporzionale i migranti forzati. Al momento solo 6 dei 28
Stati membri accolgono chi riesce a giungere vivo in Europa in fuga da guerre e
persecuzioni”.
Per la Fondazione Migrantes "è vergognoso nascondersi dietro ai supposti costi di
un’operazione per abbandonare a se stessi famiglie, giovani, donne e bambini alla morte”.
Per Migrantes, è importante “alimentare un piano sociale europeo che vada a rafforzare
con risorse non solo l’accoglienza di chi chiede una protezione internazionale nelle sue
diverse forme, ma valutando anche forme nuove di riconoscimento in tempi brevi, che
permettano una circolazione e una tutela dei richiedenti asilo in tutti e 28 i Paesi europei".
Infine, "ripartire da un’azione internazionale congiunta che abbia l’obiettivo della pace e
della sicurezza nel Nord Africa, nel Medio Oriente e nel Corno d’Africa, così che le
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persone, grazie anche a un efficace programma di cooperazione internazionale possano
ricostruire il proprio Paese e avere il diritto di rimanere nel proprio Paese".
"L’Italia, con la sua storia straordinaria di solidarietà già dimostrata, nonostante la crisi che
segna anche i giovani e le famiglie italiane, - conclude - non può rinunciare a condividere
risorse per la tutela di un diritto e dovere fondamentale verso chi oggi disperato si mette in
viaggio”.
Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia ha commentato il naufragio
così: "Se l'Unione europea non attivera' immediatamente un'operazione di ricerca e
soccorso in mare almeno pari all'italiana Mare nostrum la credibilita' delle istituzioni
europee gia' compromessa ne uscira' definitivamente sconfitta.
"Le parole e la costernazione non bastano piu'. Occorre prendere atto che Triton e'
un'operazione che non serve ad affrontare l'enorme flusso migratorio che sta
attraversando il Mediterraneo". E’ il commento di Alessandro Bechini, responsabile
Programmi in Italia di Oxfam.
"E' una ecatombe che pesa e pesera' sulla coscienza di chi non ha cuore, la sensibilita' e
la competenza di trovare soluzioni urgenti". Cosi Amsi (Associazione medici di origine
straniera in Italia) e Co-mai (Comunita' del mondo arabo in Italia) commentano tramite il
presidente Foad Aodi la tragedia a largo della Libia. Le organizzazioni sono unite per
chiedere urgentemente la "convocazione di un vertice europeo con l'Onu per trovare
soluzioni immediate per fermare le continue morti che hanno trasformato in un cimitero il
mare.
La Comunita' di Sant'Egidio "esprime il suo profondo cordoglio a tutte le famiglie colpite
dall'immane tragedia che si e' consumata nel Canale di Sicilia, dalle prime testimonianze
la piu' grave mai registrata, e chiede con forza un intervento immediato: se l'Europa non e'
all'altezza di fermare le inaccettabili stragi del mare e' l'Onu che deve scendere in campo
utilizzando tutti gli strumenti possibili, fino alla convocazione urgente di una riunione del
consiglio di sicurezza. Siamo infatti di fronte ad un numero di vittime che assomiglia a
quello di una guerra".
Lunaria: "Il governo si assuma le proprie responsabilità". L'associazione chiama in causa il
governo italiano e lo invita ad attuare "un piano nazionale che coinvolga tutti i comuni in
attività doverose di accoglienza dignitosa". Un primo passo al quale dovrà far seguito
un'azione più ampia in ambito europeo. "Intanto si faccia un piano nazionale di
accoglienza - sottolinea Lunaria - poi si cerchi di fare pressione sull’Europa convincendola
a varare un piano europeo di ricerca e soccorso in mare, di apertura di corridoi umanitari
che facilitino l’arrivo delle persone in Europa e di riforma del regolamento Dublino III".
"Il rimpallo di responsabilità tra l’Italia e l’Europa, - continua l'associazione- annegato in
fiumi di retorica e parole ipocrite di cordoglio, è vergognoso. 1100 persone morte in sei
giorni che si aggiungono alle migliaia che abbiamo pianto negli ultimi anni sono un crimine
contro l'umanità".
Save the Children, l’Europa non stia più a guardare. Afferma Valerio Neri: “Non possiamo
far finta di niente: il crescente numero dei morti in mare pone, non solo all’Italia, ma a tutta
l’Unione Europea e ai suoi Membri, il dovere di rispondere con un sistema di ricerca e
soccorso in mare capace di far fronte a questa situazione che è destinata a peggiorare
ulteriormente nei prossimi mesi. Chiediamo pertanto un vertice europeo urgente in cui si
prendano decisioni concrete e immediatamente operative.”
Inoltre, per Neri, "sempre peggiori sono le condizioni dei barconi, il loro sovraffollamento e
la violenza dei trafficanti nei confronti dei migranti, costretti spesso a partire a prescindere
dalle condizioni meteorologiche del mare. Alcuni bambini arrivati di recente hanno infatti
raccontato agli operatori di Save the Children che i trafficanti sparavano contro la loro
barca costringendoli a partire. Per quanto riguarda i superstiti del naufragio, è necessario
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garantire loro tutto il sostegno indispensabile a fronte della tragedia che hanno vissuto.
Fondamentale, pertanto, è garantire un sistema di accoglienza in grado di rispondere ai
bisogni essenziali di tutti i migranti in arrivo e, in particolare, dei più vulnerabili, tra i quali i
minori non accompagnati e i nuclei familiari con bambini."
Medici senza frontiere chiede agli stati membri dell'Unione Europea l'avvio urgente di
attivita' di ricerca e soccorso in mare su ampia scala, per evitare altre morti nel
Mediterraneo". Loris De Filippi, presidente di Msf:: "Stiamo scavando una fossa comune
nel Mediterraneo. E la responsabilita' e' delle politiche europee, che di fronte a migliaia di
disperati che cercano protezione sul continente chiudono le frontiere costringendoli a
rischiare la vita in mare. Non c'e' piu' tempo per pensare, dobbiamo salvare queste vite".
Per De Filippi "chiudere Mare Nostrum e' stato un errore".
Per il presidente della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca, "con il passaggio da 'Mare
Nostrum' a 'Triton' "c'è stato un peggioramento. Il momento è tragico, quello che sta
accadendo è un segno dello scadimento morale in occidente rispetto alla mancanza di
attenzione". Rocca ha sottolineato anche come si faccia "finta di nulla, e per iniziare la
discussione si sono dovuti aspettare 700 morti".
“Il volontariato organizzato, sempre in prima fila nel fronteggiare le emergenze umanitarie,
deve continuare a gridare forte la propria indignazione”. Così Emma Cavallaro presidente
della ConVol, che ha sciolto il dubbio dicendo la sua sulla terribile tragedia del Canale di
Sicilia. E aggiunge: “Tacere o far finta di non vedere significa divenire complici di tutti
coloro che sono responsabili di tante terribili morti”.
Le associazioni dei salesiani , Vis (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo) e le
Missioni Don Bosco lanciano, invece, la proposta di un intervento nei paesi di origine
impegnandosi a “realizzare un progetto congiunto con lo scopo di rendere più consapevoli
i migranti sui rischi del viaggio e della tratta". "Arrabbiarsi o indignarsi non serve più sottolineano - occorre intervenire per spiegare i pericoli dei viaggi".
Tra le tante voci che si sono alzate in queste ore, anche il commento del Cospe che punta
il dito contro il “cinismo criminale delle istituzioni europee”. L’organizzazione chiede il
ripristino di Mare nostrum, lo stop alla convenzione di Dublino e una corsia preferenziale
per le persone che sono intrappolate in Libia in attesa di partire. “Non possiamo continuare
con la contabilità dei morti - sottolinea - bisogna agire subito”.
Da Articolo 21 del 20/04/2015
“Fermare la strage. Subito!” Arci: martedì 21
aprile Giornata di mobilitazione nazionale.
A Roma sit-in e flash mob davanti a Montecitorio a partire dalle 14.30
In una settimana più di mille morti in due stragi annunciate. Stragi che hanno
responsabilità precise: le scelte politiche e le leggi dei governi dell’UE (compreso quello
italiano) che consegnano le persone in cerca di protezione nelle mani dei mercanti di
morte.
Aumentando controlli e mezzi per pattugliare le frontiere non si fermeranno le stragi, come
dimostra quest’ultima tragedia con più di 900 morti avvenuta a poche ore da quella che ha
portato a morire altre 400 persone. Chi scappa per salvare la propria vita e quella dei suoi
cari non si ferma davanti al rischio di morire in mare.
Non c’è più tempo da perdere. Si aprano subito vie d’accesso legali, canali umanitari,
unico modo per evitare i viaggi della morte. Il governo italiano, in attesa dell’intervento
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europeo, assuma le sue responsabilità e riattivi subito un programma di ricerca e
salvataggio.
Chieda contemporaneamente all’UE di farsi carico di un programma di ricerca e
salvataggio europeo. Si sospenda il regolamento Dublino e si consenta alle persone tratte
in salvo di scegliere il Paese dove andare sostenendo economicamente con un fondo
europeo ad hoc l’accoglienza in quei Paesi sulla base della distribuzione dei profughi.
Questi morti non consentono più rinvii, basta con le parole che non si traducono in azioni
concrete e immediate. Erano persone in carne e ossa. E invece sembrano fantasmi.
Martedì 21 aprile, mobilitazioni in tutta Italia, organizzate da decine di associazioni,
organizzazioni sindacali e ong. A Roma sit in e flash mob a partire dalle 14.30 davanti a
Montecitorio. Nelle altre città gli appuntamenti saranno articolati secondo quanto deciso
dalle organizzazioni locali.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 21/04/2015, pag. 28
SOCIALE
L’energia diffusa del Terzo Settore nuova
frontiera del welfare privato
Per fortuna che siete fuori moda, siete controcorrente, in un mondo che tende a chiuder la
gente in se stessa». Così il Ministro alle Riforme Costituzionali Maria Elena Boschi ha
salutato i volontari accorsi da tutta Italia lo scorso week-end al Festival di Lucca,
l’appuntamento annuale che per il welfare privato rappresenta il Pitti di settore. Un
ringraziamento ma anche la testimonianza di una promessa mantenuta dal governo Renzi
che, un anno fa, proprio a Lucca annunciò il via al processo di riforma del comparto.
Oggi la legge attende la discussione in Senato. L’approdo previsto per luglio, però, sarà
argomento di discussione a Milano dove, da qualche mese ormai, esiste una vera e
propria casa del volontariato: Cascina Triulza. In Expo 2015, infatti, per la prima volta un
intero padiglione verrà dedicato alla società civile guidato dalla omonima Fondazione che
racchiude al suo interno ben 63 sigle del sociale privato operante in Italia. «Energie per
cambiare il mondo» è lo slogan scelto dal «cartello» del sociale per riassumere un
programma fitto d’incontri ed iniziative che andranno avanti sino ad ottobre inoltrato: con
Cittadinanzattiva, Altro consumo e Lega italiana per la lotta contro i tumori si parlerà di
educazione alimentare e consumo consapevole, con Engim si potrà scoprire come i
contadini della Sierra Leone hanno imparato a produrre il 30% in più di riso grazie ad una
nuova tecnica che esclude i concimi chimici. Con Avis capiremo invece se la nostra
alimentazione è sana grazie ad un questionario che verrà somministrato in Cascina,
perché buoni donatori fanno buon sangue e proprio in Expo il prossimo 14 giugno
festeggeranno la loro giornata mondiale con ben 4000 iscritti.
Ma questo è solo un piccolo assaggio perché nei sei mesi di Expo in Triulza sono previsti
oltre mille eventi (un numero destinato a crescere): con 440 sono già in calendario, 114
dibattiti, 252 laboratori e 74 spettacoli all’aperto. In Cascina Triulza le cose vanno talmente
bene che già si è cominciato a progettare il dopo: «La Cascina continuerà a vivere racconta Sergio Silvotti, presidente di Fondazione Triulza – grazie al sostegno degli enti
filantropici del territorio, su tutti Cariplo. Sarà a disposizione della rete delle organizzazioni
che fanno parte di Fondazione Triulza e non solo, sia come luogo fisico da utilizzare, sia
come cantiere di attività». E anche sulla sostenibilità del progetto i gestori hanno le idee
chiare: «Oltre al sostegno degli enti filantropici che ci hanno assistito sin qui, stiamo
individuando nuove forme di attrazione del reddito che possano restituire una completa
sostenibilità del progetto», prosegue Silvotti.
Insomma, decine di proposte dal basso per Expo e per il dopo Expo che andranno ad
arricchire un programma che cresce di giorno in giorno. Si può dire, con l’accezione
positiva del caso, che Triulza sarà una vetrina perché raccontare in un padiglione la
molteplicità di buone azioni che ogni giorno i volontari italiani svolgono sul campo è
davvero missione impossibile. Secondo l’ultima indagine Istat, effettuata assieme a
CSVnet e Fondazione Volontariato e Partecipazione, sono infatti quasi 7 milioni gli uomini
e le donne che dedicano parte della loro vita agli altri. Un viaggio quotidiano fatto di storie
che attraversa l’Italia. Come quella del magazziniere Michele e della sua rinascita
cominciata il 14 agosto del 2013, quand’erano da poco trascorse le 21 in via Tommaseo a
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Padova. In un’auto diventata la sua casa, a 56 anni tira le somme sulla sua vita. Michele è
finito in strada perché di magazzinieri non ce n’era più bisogno. Una ragazza bussa al suo
vetro e gli lascia un biglietto. Il giorno dopo è alla porta della cooperativa per senza dimora
La Bussola. Una casa, un impiego alla mensa e un affiancamento ai colloqui di lavoro. Poi
a dicembre dello scorso anno un primo contratto a tempo determinato: «Sono felice,
perché mi è stata restituita la dignità», e piange mentre racconta i giorni bui.
Come i palazzoni di Gomorra, dove a farla da padrone è la criminalità. Ma questa è solo
una faccia, fin troppo stereotipata, di un luogo che da sempre non ha avuto aiuto alcuno.
Gli altri volti di Scampia, quelli più veri che fanno meno rumore, sono le facce del Maestro
Maddaloni, che lì manda avanti a fatica una palestra con centinaia di judoki,
rigorosamente gratis come l’associazione sportiva dilettantistica «scuola calcio Arci
Scampia», lo sport per eccellenza degli scugnizzi. Antonio Piccolo, un passato da portiere
sino alla serie D, «il mister» come lo chiamano li nel suo mondo, ha poco più di
sessant’anni e in viale della Resistenza si allena con i suoi «quattrocento figli», scherza
lui. Una storia nata quasi per gioco, era l’epoca di Maradona e con un gruppo di volontari
Piccolo fondò un circolo Arci nella zona delle Vele, i palazzoni diventati simbolo
dell’alienazione nei sobborghi napoletani. Anni di sacrifici tra il proprio lavoro e l’impegno
quotidiano, costante, per tenere lontano quei ragazzi dalla strada e dalla «polvere bianca».
Esempi di solidarietà in terra amica, ma anche di chi da qui ha deciso di tendere un mano
ancora più lontano. In Italia, Fondazioni for Africa porta avanti una mission con ben 27
associazioni di migranti del Burkina Faso. Spesso, la molla per migliorarsi arriva proprio
dopo un momento difficile. É accaduto con l’agricoltura sostenibile a Fanta Tiemtoré, 38
anni, dell’associazione Mirage Burkina, (suo nonno era re, suo padre però ha rinunciato al
trono che ora è occupato da un’altra famiglia e oggi lavora a Lecco in un centro per
anziani e ha due figli). Nel suo Paese ha dato vita all’iniziativa «100 ettari»: un progetto
sperimentale, tutto al femminile, per la produzione del riso. «I nostri avi – dice Fanta – ci
hanno insegnato che tutto quello che esiste in natura è abbastanza per tutti quanti. E
questa è la Terra che vogliamo». E c’è chi promuove anche la cultura della terra d’origine
con la danza. Come Emmilienne: nata in Burkina Faso, oggi a Napoli è mediatrice
culturale. In questi mesi ha condotto un corso di ballo burkinabè scandito dal ritmo dello
djembe. «Lo facciamo – spiega Emmilienne – perché vogliamo insegnare quella danza ai
nostri figli che nascono qui. Chi non conosce il proprio passato non può andare incontro al
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ESTERI
Del 21/04/2015, pag. 16
“Un uomo di Saddam ispirò l’Is”
Haji Bakr era un colonnello dei Servizi segreti iracheni. Fu ucciso l’anno
scorso dai ribelli anti-Assad Nella sua casa trovati appunti e strategie
del Califfato. E la sua decisione: “Il capo sarà Al Baghdadi”
FABIO SCUTO
GERUSALEMME
Il “signore delle ombre” dello Stato islamico, la mente che ha concepito nascita ed
espansione del Califfato islamico in Siria, era un ex colonnello dei servizi segreti
dell’Aviazione di Saddam Hussein. Samir Abd Muhammad Al Khlifawi, meglio noto con il
nome Haji Bakr, è stato ucciso nel gennaio del 2014 da un reparto dell’esercito siriano
libero a Tal Rifaat. Ma nemmeno quelli che lo hanno eliminato sapevano chi fosse. Lo
hanno scoperto dopo, perché ha lasciato dietro di sé qualcosa che doveva rimanere
segreto: il progetto dello Stato islamico. Una cartella piena di documenti, fitta di schemi,
elenchi, programmi che descrivono come un Paese può essere gradualmente soggiogato.
È su queste “carte” che dopo mesi di ricerche che ha messo le mani il settimanale tedesco
Spiegel . Trentuno pagine che rivelano i vari “strati” operativi, le direttive per l’azione del
Califfato, com’è organizzata la leadership e quale ruolo hanno avuto militari e dirigenti
dell’ex dittatore iracheno dopo la sua sconfitta. In pratica è il codice di guerra dell’esercito
terrorista di maggior successo nella Storia recente. La conquista di Raqqa e di gran parte
della Siria, suggeriscono questi documenti, era parte di un meticoloso piano curato da Haji
Bakr utilizzando tecniche, come la sorveglianza, lo spionaggio, l’omicidio e il sequestro di
persona, affinate in passato nei famigerati apparati di sicurezza dell’ex raìs iracheno. Altri
come Izzat Ibrahim al-Douri, il “re di fiori” del celebre mazzo di carte, già braccio destro di
Saddam, ucciso la scorsa settimana in un’operazione delle forze di sicurezza di Bagdad,
avevano invece deciso di combattere in patria alleandosi con l’Is.
Amareggiato dopo la decisiosciati americana di sciogliere l’esercito iracheno nel 2003, Haji
Bakr finisce nelle carceri americane di Camp Bucca e Abu Ghraib, esce nel 2008 con
solide relazioni con altri carcerati. Conosce Abu Musab al Zarkawi, incontra il giovane Abu
Bakr Al Baghdadi e su lui decide di puntare.
Tutto inizia nel 2012 quando Haji Bakr si trasferisce con la famiglia in Siria in una casa
poco appariscente di Tal Rifaat, a nord di Aleppo. Vengono aperti gli uffici della Dawah,
una delle tante charity islamiche attive in Siria. E’ qui che fra i giovani che vengono ad
ascoltare lezioni o seguire corsi venivano selezionate le “spie” che dovevano scoprire
quanto più possibile sulla città, quanti abitanti, chi comandava, le famiglie più ricche e le
fonti di reddito, quante moschee c’erano, chi era l’imam, i nomi dei ribelli anti-Assad. Un
elenco dettagliato di domande per raccogliere informazioni da utilizzare per dividere e
controllare la popolazione. Già alla fine del 2012 c’erano i primi campi di addestramento in
diverse zone della Siria, e nessuno sapeva a quale gruppo appartenevano i volontari che
arrivavano e venivano addestrati per due mesi. Pochissimi dall’Iraq. Moltissimi dalla
Tunisia, poi sauditi, turchi, egiziani, giordani, indonesiani e europei. A ceceni e uzbeki il
ruolo di truppe d’assalto, la prima fila delle khatiba jihadiste. I piani di Haji Bakr includono
anche altri settori come la finanza, scuole, asili, mezzi di comunicazione e trasporto.
La scelta di Abu Bakr Al Baghdadi come leader del nascente Califfato, sarebbe stata fatta
da questo circolo di ex ufficiali iracheni guidati proprio da Haji Bakr, nel 2010. Al Baghdadi,
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un religioso istruito, avrebbe dato al gruppo quella dimensione religiosa necessaria ad
attrarre i delusi. «Era un nazionalista e non un islamista», racconta allo Spiegel chi lo
conosceva bene. Credeva che le convinzione religiose da sole non bastassero a garantire
la vittoria, ma che la fede potesse essere sfruttata. E tra le tante carte ritrovate nella sua
casa di Tal Rifaat non c’era nessun Corano, il libro che ogni buon fedele dovrebbe invece
possedere.
Del 21/04/2015, pag. 17
Arsenij Yatsenjuk
“Stiamo difendendo l’Europa dall’invasione russa - dice il premier Mosca ritirerà i suoi soldati solo se il mondo inasprirà le sanzioni”
“L’Ucraina è al disastro e la guerra non è
finita Putin arma ancora i ribelli l’Occidente
deve fermarlo”
PIETRO DEL RE
«Stiamo pagando il prezzo della nostra scelta», sostiene Arsenij Yatsenjuk, giovane primo
ministro dell’Ucraina nata dalle ceneri di Maidan. «Abbiamo voluto entrare in Europa
contro la volontà di Vladimir Putin e lui, per punirci, ha scatenato l’offensiva nell’est del
Paese », aggiunge il premier che ci riceve alla Rada, il parlamento di Kiev, in una saletta
color pistacchio con alle pareti quadri di tramonti sul fiume Dnepr.
Signor Yatsenjuk, ma quanto vi costa la guerra con i separatisti?
«Da economista le risponderei che costa miliardi di dollari, ma da primo ministro le dirò
che è già costata troppe vite umane, quelle di 1800 soldati ucraini e di 6000 civili. A ciò
vanno aggiunti 15mila feriti e un milione e mezzo di sfollati. L’aggressione russa nel
Donbass è anzitutto un disastro umanitario».
E in termini economici?
«Secondo il ministero del Tesoro l’occupazione di Donetsk e Lugansk ci ha fatto già
perdere 3 miliardi di dollari. Ora, anche se la propaganda di Mosca sostiene il contrario,
noi continuiamo a pagare le pensioni in quelle città, pur non ricevendo un solo centesimo
di tasse. Quest’inverno, per riscaldare la popolazione dei territori in mano ai separatisti,
abbiamo sborsato un miliardo di dollari di gas».
Il cessate-il-fuoco raggiunto durante gli accordi di Minsk viene rispettato?
«Siamo lontani dall’applicazione di quegli accordi, perché ancora si spara e soprattutto
perché la Russia continua a fornire carri armati, armi pesanti e soldi ai ribelli».
Lo scorso anno lei dichiarò che Mosca stava per scatenare la Terza guerra mondiale
e chiese aiuto a Europa e Stati Uniti. E’ arrivato l’aiuto occidentale?
«Vede, noi stiamo difendendo i confini dell’Unione europea dall’invasione russa. L’Ucraina
è solo il primo campo di battaglia della guerra di Mosca contro l’Occidente. Siamo tutti in
pericolo, perché la Russia vuole destabilizzare il pianeta, e lo fa pur essendo uno dei 5
membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il cui compito dovrebbe essere
quello di far rispettare un ordine mondiale. Noi avevamo chiesto armi per difenderci, che
purtroppo non sono mai arrivate».
Ha mai temuto un’imponente invasione delle truppe di Mosca, con raid aerei sulla
capitale?
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«La Russia è imprevedibile. Sa qual è la differenza tra i leader occidentali e il presidente
Putin? Ebbene quando loro rispettano le regole, lui le trasgredisce. Lo scorso anno
secondo i nostri servizi la Russia aveva preventivato l’ipotesi di una vasta azione militare
in Ucraina, usando anche l’aviazione ».
Ma quanto è affidabile il presidente Putin nel corso di un negoziato di pace, come
quello di Minsk?
«Non lo è affatto, perché non è un uomo credibile. Non posso fidarmi in ciò che dice Putin
ma solo in quello che fa. Due anni fa dichiarò che la Crimea era parte integrante
dell’Ucraina. Nel 2014 la Crimea è stata annessa dalla Russia. Ma non devi mai
sottovalutare il tuo nemico, e Putin è senz’altro un osso duro. E l’unico linguaggio che
capisce è lo stesso che parla lui, ossia un linguaggio rude. Il problema è che sopravvaluta
il suo Paese, afflitto da enormi problemi. La Russia è infatti militarmente più debole della
Nato, ha pessime prospettive economiche, una popolazione sempre più anziana, un
governo di cleptocrati con inclinazioni dittatoriali».
Quanto hanno funzionato le sanzioni economiche contro Putin?
«Dopo l’annessione della Crimea, i leader occidentali sono stati costretti a intervenire. Non
l’hanno fatto militarmente perché spaventati dall’idea di impelagarsi in un nuovo conflitto,
ma l’hanno fatto con le sanzioni economiche. Ed è stata la giusta decisione. Adesso il
modo migliore per ottenere che la Russia rispetti gli accordi di Minsk è inasprire le
sanzioni».
Come vede il futuro del Donbass?
«Per normalizzare la situazione, come prima cosa la Russia dovrebbe ritirare le sue forze
e noi dovremmo poter controllare quel tratto di frontiera. Ma ciò non è ancora possibile,
perché Putin non lo vuole. Ci vorrà quindi ancora del tempo prima di reintegrare Donetsk e
Lugansk in Ucraina. Molto più tempo di quello previsto a Minsk ».
Considera la Crimea persa per sempre?
«No, anche perché nessuno riconoscerà mai la sua annessione alla Russia. E prima o poi
il regime di Mosca cadrà. Gli stessi che l’anno scorso gridavano per le strade di
Sebastopoli la loro gioia di diventare russi oggi si pentono amaramente della loro scelta.
Le assicuro che la mia generazione e quelle che verranno faremo di tutto affinché la
Crimea ritorni nostra».
A chi accusa l’esercito ucraino di essere composto da militari in pensione e dagli
ultranazionalista di Pravij Sektor, cosa risponde?
«Siamo in guerra. È difficile fare una distinzione tra chi è più o meno nazionalista. Tutti
vogliono difendere l’Ucraina».
Del 21/04/2015, pag. 22
Obama allarmato per le attenzioni di Putin
adesso cambia tono con la Grecia
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK . Alexis Tsipras sta perdendo l’alleato più potente che aveva: l’America di
Barack Obama. Dopo cinque lunghissimi anni in cui Obama ha tentato di ammorbidire
Angela Merkel, per convincerla che l’austerity è disastrosa, ora il presidente americano
sembra sempre più irritato verso la Grecia. L’ultimo segnale è venuto venerdì durante la
conferenza stampa con Matteo Renzi alla Casa Bianca. Le parole di Obama sul caso
12
greco non sono state amichevoli per Tsipras. Al contrario si possono leggere come un
severo elenco di cose da fare, promesse mancate, delusioni. «La Grecia – ha detto il
presidente – deve avviare le riforme. Deve far pagare le tasse. Deve ridurre la burocrazia.
Deve avere regole più flessibili sul mercato del lavoro». Obama ha colto l’occasione per
riferire urbi et orbi il tenore del suo ultimo colloquio con Tsipras: «Quando è venuto a
trovarmi al premier greco ho detto: riconosco che dovete dare speranza al vostro popolo,
indicare una via di crescita. Vi sosterremo nella ricerca di margini di manovra per investire,
non dovete cavare sangue dalle pietre. Però dovete dimostrare a coloro che vi estendono i
crediti, a quelli che tengono in piedi il vostro sistema finanziario, che state cercando di
aiutare voi stessi. E questo richiede decisioni drastiche».
Obama continua a svolgere un ruolo di mediazione, esorta tutti i protagonisti – il governo
greco da una parte; la ex-troika (Commissione Ue-Bce-Fmi) e il suo referente più forte che
è la Germania, dall’altra – perché trovino un compromesso. Di recente però il linguaggio
del presidente americano è diventato più comprensivo verso Angela Merkel e insofferente
nei confronti dei greci. In parte si spiega con l’irritazione di chi ha ricevuto alla Casa
Bianca quattro premier in pochi anni, e si ritrova sulla scriva- nia il “male greco”
ininterrottamente dal 2010. Lo stile della squadra Tsipras non aiuta. Al meeting del Fondo
monetario a Washington molti hanno accusato il ministro dell’Economia greco, Yanis
Varoufakis, di comportarsi come una “celebrità” attratta dai riflettori e dai dibattiti televisivi,
anziché come il timoniere di una navicella che sta per affondare. Varoufakis ha indispettito
con alcune furbizie di linguaggio; all’arrivo a Washington annunciava che la Grecia intende
onorare i suoi impegni, per poi sottilizzare: «intende» non significa che lo farà. Tra i gesti
di Tsipras che l’Amministrazione Obama giudica incauti, c’è stato l’aumento delle pensioni
ai lavoratori più poveri, non accompagnato da risparmi su altre voci di spesa. Inoltre visto
da Washington è esasperante che l’evasione fiscale di massa stia aumentando in Grecia,
anziché diminuire. Il segretario al Tesoro americano, Jack Lew, ha ricordato agli europei
che un default greco, pur colpendo un’economia molto piccola, potrebbe gelare la ripresa
dell’intera eurozona, rinviando ulteriormente una crescita che già ha perduto sei anni. La
Casa Bianca ha una preoccupazione aggiuntiva rispetto al Tesoro, è il timore più
strategico che Tsipras stia scivolando verso l’orbita di Vladimir Putin, l’unico che sembra
disposto a fargli credito in questa situazione. Che il default sia ormai un’opzione
abbastanza probabile, i mercati lo deducono anche dal fatto che Varoufakis ha voluto
incontrare a Washington un avvocato specializzato nei casi di bancarotta sovrana: Lee
Buchheit, che lavora presso la law firm americana Cleary Gottlieb Steen & Hamilton.
Buchheit aveva già assistito la Grecia nella ristrutturazione del debito avvenuta nel 2012.
All’epoca gli interlocutori furono investitori privati – a maggioranza banche europee – che
detenevano una quota sostanziale del debito pubblico di Atene. Oggi la situazione è
cambiata, ci sono ormai pochi creditori privati, mentre la maggior parte del debito greco è
detenuto da istituzioni come la Bce e il Fondo monetario.
Perfino il premio Nobel dell’economia Paul Krugman, che continua a difendere Tsipras,
nella sua ultima column sul New York Times invita tuttavia i greci a sbarazzarsi delle teorie
del complotto: «Non è vero – scrive Krugman – che dall’altra parte del tavolo negoziale c’è
un blocco solido di creditori implacabili e decisi a far fallire un governo di sinistra, anche a
costo di un default e di un’uscita dall’euro; c’è più buona volontà dall’altro lato del tavolo di
quanto i greci credano».
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Del 21/04/2015, pag. 19
Così Obama ha chiesto all’Italia di restare in
Afghanistan
Nei cablo diplomatici le ragioni del prolungamento della missione
Paolo Mastrolilli
L’Italia ha accettato di prolungare la missione in Afghanistan perché era un suo dovere di
alleato, e per avere più diritto a chiedere aiuto su altri fronti, come la Libia. L’intervento
però potrebbe protrarsi ben oltre la scadenza di fine 2016, e sarà più complicato di quanto
pensavamo, perché il governo in condominio fra il presidente Ghani e «l’amministratore
delegato» Abdullah non funziona come dovrebbe, e l’Isis ne sta approfittando per cercare
spazio anche a Kabul. Queste valutazioni emergono da una serie di incontri e rapporti che
la diplomazia occidentale ha fatto dopo la visita di Ghani a Washington, e poco prima di
quella di Renzi alla Casa Bianca, nella quale appunto il premier ha confermato al
presidente Obama il prolungamento della presenza italiana nella regione di Herat. A
spiegare la situazione può bastare la battuta ripetuta in varie occasioni da Jeff Eggers,
Special Assistant presidenziale sull’Afghanistan, che parlando del Governo di unità
nazionale di Kabul ha detto: «Il problema non è l’unità, ma il Governo».
Accordo in bilico
L’accordo fra Ghani e Abdullah vacilla, non al punto che l’«ad» sia pronto a rinnegare
l’intesa mediata dal segretario di Stato Kerry dopo le contestate elezioni presidenziali, ma
certamente a quello di rendere poco efficace l’azione dell’esecutivo. La sicurezza non
migliora, le vittime civili aumentano, l’economia resta al palo e le elezioni parlamentari
sono state rimandate al 2016. Ghani non sembra neppure intenzionato a completare
davvero la compagine governativa, dopo la contrastata nomina del ministro della Difesa
Ludin, perché tanto governa con i membri del suo circolo ristretto e non ha interesse a
distribuire deleghe. Gli stessi americani lo vedono molto concentrato sui propri progetti di
riforma, e poco sulla gestione dell’esecutivo. Quando è venuto a Washington, il suo
obiettivo principale era ottenere da Obama la promessa di conservare una presenza
militare occidentale in Afghanistan oltre la fine del 2016, perché altrimenti il Paese rischia il
collasso, nonostante i progressi fatti nell’addestramento dell’esercito e delle forze
dell’ordine.
L’offensiva taleban
Il primo banco di prova sarà immediato, perché con la primavera comincia la stagione dei
combattimenti, in cui i taleban tornano all’offensiva. Lo scopo quest’anno sarà proprio
mettere alla prova l’esercito regolare, e vedere se è in grado di resistere da solo.
Anche i colloqui di pace con i taleban procedono a rilento, nonostante fosse girata la voce
di un incontro imminente fra il ministro per la Riconciliazione Masoom Stanakzai e il mullah
Jalil Akhund a Dubai, o in Turchia, sede prescelta per la trattativa. Gli uomini fedeli all’ex
presidente Karzai considerano «folle» l’idea di negoziare, anche perché a favore sono solo
i taleban più moderati e ormai emarginati, come lo stesso Akhund e Agha Jan Motasim, ex
braccio destro del mullah Omar. Questa confusione genera due effetti negativi. Il primo è il
malcontento della popolazione, che ad esempio si è manifestato proprio nella zona di
Herat dove sono schierati i soldati italiani, con la manifestazione organizzata il 15 marzo
scorso da Ismail Khan. Il secondo è il tentativo dell’Isis di trovare spazio. Ne sono prova il
recente attentato di Jalalabad, rivendicato dagli alleati di Daesh, ma anche la scelta dei
militanti del Movimento Islamico dell’Uzbekistan di dichiarare fedeltà al Califfo. Un
ambiente sempre più difficile per la missione occidentale.
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Del 21/04/2015, pag. 9
Vota quasi il 90%, due oppositori bocciati
Cuba. Grande partecipazione alle municipali
Geraldina Colotti
Cba ha votato domenica per le municipali. Hanno partecipato oltre sette milioni di cittadini
maggiori di 16 anni, ovvero più dell’85% degli 8.536.670 aventi diritto, su una popolazione
di 11,1 milioni di abitanti. I giovani che hanno votato per la prima volta sono stati 63.400.
Su un totale di 27.379 candidati, 9.815 erano donne, 5.448 giovani e 11.663 afrodiscendenti e meticci. Gli eventuali ballottaggi si risolveranno al secondo turno del 26 aprile.
A custodire le urne, come di consueto, c’erano i ragazzini delle scuole e gli studenti universitari. I due candidati di opposizione, l’avvocato e giornalista Hildebrando Chaviano, di 65
anni, e l’informatico Yuniel Lopez, di 26, non hanno ottenuto abbastanza preferenze, totalizzando rispettivamente 138 voti e 233, ma entrambi si sono dichiarati «soddisfatti»
dell’esperienza. Il sistema elettorale è entrato in vigore nel 1976, e a Cuba è considerato
un esempio di «trasparenza e democrazia». I candidati vengono proposti nelle assemblee
di quartiere e va alle urne chi ottiene più preferenze, per alzata di mano. Così si sceglie il
50% dei candidati, l’altra metà è proposta dalle organizzazioni sociali, dai comitati delle
donne, dalle organizzazioni degli studenti. Una commissione elettorale cerca poi
l’equilibrio fra le candidature, affinché negli istituti di governo siano rappresentati tutti i segmenti della società. Le elezioni non sono obbligatorie e il Partito comunista non propone
candidati. Le comunali si tengono ogni due anni e mezzo e sono l’anticamera di quelle per
le assemblee provinciali e dell’assemblea nazionale (il Parlamento), previste per il 2018,
e che si svolgono ogni sei anni. Il Parlamento elegge il presidente e il vicepresidente, che
hanno prima dovuto diventare deputati. I membri del parlamento, molti dei quali non sono
iscritti al Partito comunista, non percepiscono compenso, continuano a fare il loro lavoro
e si recano all’Avana quando il parlamento si riunisce. Per diversi giorni, i media hanno
fatto campagna per invitare alla partecipazione e il governo ha definito il risultato
«un’azione di genuina democrazia». Cuba in questi giorni ha ricordato l’assalto alla Baia
dei Porci, compiuto da oltre 2.000 mercenari al soldo della Cia nel 1961, e respinto dalla
popolazione. Si attende anche qualche altro passo concreto da parte del governo Usa nel
processo di disgelo tra i due paesi, iniziato nel dicembre scorso. Al VI vertice delle Americhe, che si è tenuto a Panama, c’è stato un incontro bilaterale tra Raul Castro e Obama,
ma nessun annuncio eclatante: il decreto di sanzioni imposto al Venezuela di Nicolas
Maduro, intorno al quale si sono stretti 33 paesi salvo Canada e Usa, ha creato un irrigidimento. Cuba, sia per voce di Fidel Castro che per quella del fratello Raul, ha ribadito di
non mettere sul piatto la «testa» di Maduro in contropartita per la fine del blocco economico che ha subito, e che Obama ha riconosciuto essere un fallimento.
Dopo il vertice di Panama, Obama ha annunciato che Cuba verrà tolta dalla lista dei paesi
«che finanziano il terrorismo», e ora si attende anche la possibile apertura dell’ambasciata
statunitense all’Avana. Intanto, l’isola si prepara ad accogliere la Fiera del turismo, dove
l’Italia è il paese protagonista e durante la quale verranno annunciate importanti aperture
economiche agli investitori nordamericani ed europei.
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Del 21/04/2015, pag. 19
Pechino “compra” dal Pakistan lo sbocco sul
Mar Arabico
Intesa per la costruzione di una megaferrovia
Ilaria Maria Sala
Il Presidente cinese Xi Jinping è arrivato in Pakistan per una visita di Stato ricca di retorica
e contratti miliardari. L’obiettivo è consolidare una delle relazioni più strette dell’Asia, che
vede la Cina al fianco del Pakistan con investimenti e aiuti tecnologici (inclusi quelli sul
nucleare). Ieri Xi Jinping si è presentato a Islamabad con in tasca 46 miliardi di dollari da
investire in progetti infrastrutturali volti a creare il «China-Pakistan Economic Corridor», o
corridoio economico sino-pachistano. Si tratta di ferrovie e autostrade che collegheranno il
porto pachistano di Gwadar con la regione cinese dello Xinjiang, a 3200 chilometri di
distanza. Ahsan Iqbal, ministro pachistano per la Pianificazione, ha detto che il progetto
«modificherà il destino della nazione» e che «i due Paesi trasformeranno la loro relazione
da geopolitica a geo-economica».
Il porto di Gwadar
L’intesa col Pakistan - che irrita non poco l’India - garantisce a Pechino sostegno alle
politiche nello Xinjiang (la regione confinante col Pakistan dove la Cina ha creato una
situazione di conflitto simile a quella in Tibet), e assicura uno sbocco al mare alternativo
per espandere i mercati. Ad esempio, grazie all’accesso al porto di Gwadar, in Pakistan,
Pechino non sarà costretta a far transitare le merci attraverso lo Stretto di Malacca,
sovraffollato e infestato dai pirati.
Con la visita iniziata ieri Xi Jinping vuole portare avanti il progetto di rivoluzionare le
connessioni internazionali marittime e terrestri, garantendo al Pakistan nuove fonti di
energia e infrastrutture. Tuttavia, il valore geopolitico della visita, e degli investimenti che
porta, non può essere sottovalutato: in un colpo Pechino investe in Pakistan tre volte e
mezzo in più di quanto non abbiano fatto gli Stati Uniti negli ultimi dieci anni, dando prova
dell’efficacia di quel pragmatismo privo di ostacoli morali e basato unicamente sulla
convenienza strategica.
Del 21/04/2015, pag. 12
GRECIA, I SOLDI SONO FINITI
TSIPRAS LI PRENDE AI COMUNI
ATENE REQUISISCE ANCHE LA LIQUIDITÀ DI FONDI PENSIONE E COLOSSI
STATALI
PER PAGARE STIPENDI E PENSIONI. SI TRATTA SUL DEFAULT. LA BCE: “NON
SARÀ GREXIT”
Se non è la prova di un default considerato ormai inevitabile, poco ci manca. L’epilogo
della vicenda Greca è nell’esegesi dei segnali arrivati ieri. Questa la sequenza: nel
pomeriggio la Bce rivela di non temere l’uscita del Paese dall’Euro. Lo fa per bocca del
suo vice presidente Vitor Constancio, che all’Europarla - mento illustra il motivo di tanta
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sicurezza: “Un eventuale default della Grecia verso uno dei suoi creditori non implica
automaticamente l’espulsione dall’eurozona”. Passa un minuto e l’agenzia Bloomberg
confer - ma che il governo di Alexis Tsipras ha requisito per decreto la liquidità degli Enti
Locali, obbligando le amministrazioni a trasferire alla Banca centrale le disponibilità di
contante. NON È LA PRIMA volta che accade - era già successo con Samaras - ma
stavolta la misura colpisce tutto il perimetro pubblico, fondi pensione inclusi. Anche i
colossi statali quotati in borsa dovranno contribuire. Il motivo è semplice: servono tutte le
risorse per tirare a campare in vista dell’ennesimo ultimo round di negoziati. L’Eurogrup po deve decidere nella riunione del 24 aprile – un’altra è fissata per l’11 maggio prossimo
– se concedere alla Grecia l’ultima tranche da 7,2 miliardi del vecchio piano di salvataggio.
L’ese - cutivo ellenico aveva provato nelle scorse settimane a convincere regioni, comuni
ed enti previdenziali a contribuire volontariamente. Niente da fare. Poche ore prima, in
mattinata, fonti Bce raccontavano che a Francoforte si studiano ormai gli scenari di un
possibile default tecnico, con ipotesi surreali. L’ultima è questa: la Grecia finisce i soldi e
inizia a onorare stipendi e pensioni con dei crediti, creando una seconda valuta virtuale
all’interno del blocco dell’euro. In sostanza, dei pagherò. L’ipotesi è stata smentita a stretto
giro dal portavoce della Bce e da fonti ufficiali del governo Tsipras. Il punto però è politico,
più che tecnico. Se default dev’essere, ci sono molti modi per farlo, quello politicamente
suicida per l’esecutivo di Syriza è partire dalle pensioni e dagli stipendi degli statali (1,7
miliardi da saldare nelle prossime settimane). Non è detto però che basti a convincere il
fronte interno. Sul quello esterno, ora si registrano aperture. Ieri il “Brussels group” (Bce,
Fmi e Ue, cioè la Troika) - che si riunisce a oltranza da giorni - ha fatto trapelare un
ottimismo gelido: “Ci sono state spinte nei negoziati, ma l’accordo è lontano”. Un segnale
diverso dagli ultimatum degli ultimi giorni. Ad Atene, Bruxelles chiede impegni stringenti su
lotta all’evasione, lavoro (archiviando i contratti nazionali) e pensioni. Misure che Tsipras e
il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis hanno respinto. Anzi, il governo è pronto a
presentare oggi un ddl per alzare il salario minimo che non piace affatto ai creditori, e oggi
il premier incontrerà il numero uno del colosso russo Gazprom per discutere del gasdotto
Turkish Stream, che portarebbe qualche miliardo nelle casse di Atene. QUEL CHE è
emerso finora dalle trattative è che Atene ha legato la lista degli impegni –che serve a
ottenere il prestito ponte fino all’estate – alla ristrutturazione del debito (320 miliardi), ormai
insostenibile. I segnali di ieri vanno in questa direzione. Come rivelato dal New York
Times, a Washington per la sessione primaverile del Fmi, Varoufakis ha incontrato in
sordina Lee Buchheit, massimo esperto mondiale di ristrutturazione dei debiti sovrani. A
grandi linee, l’in - certezza è ormai solo sui dettagli tecnici. Un parziale default pilotato è il
minore dei mali per i creditori: dopo anni di austerità, il debito non è più nelle mani delle
banche private (soprattutto tedesche e francesi) ma in quelle dei Paesi dell’Eurozona
attraverso i Fondi salva stati. Gli Istituti non rischiano più nulla e se ne può discutere. Più
che un taglio, probabile arrivi un’esten - sione ad libitum delle scadenze, come chiesto da
Varoufakis. Il problema sono le misure promesse da Tsipras in campagna elettorale: dopo
le aperture sul debito, i margini saranno più stretti. La risposta arriverà entro il 12 maggio,
quando andranno pagati 800 milioni al Fmi. Ieri era anche il giorno del processo a 69 tra
dirigenti e membri di Alba Dorata per l’omicidio del rapper Pavlos Fyssas: tutto spostato al
7 maggio.
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INTERNI
Del 21/04/2015, pag. 12
LA GIORNATA
Italicum, tensione nel Pd e il premier
sostituisce i ribelli in commissione
E Bersani non viene invitato alla Festa dell’Unità di Bologna
Cinquestelle e Scelta civica minacciano l’Aventino
SILVIO BUZZANCA
I 10 “dissidenti” del Pd sulla legge elettorale sono fuori dalla commissione Affari
costituzionali che oggi pomeriggio inizierà a votare gli emendamenti all’Italicum. Lo ha
deciso l’ufficio di presidenza del gruppo che ha “salvato” Giuseppe Lauricella: il deputato
siciliano ha assicurato che si atterrà alle indicazioni del gruppo. Niente da fare invece per
l’ex segretario del Partito Pierluigi Bersani, per l’ex presidente del partito Rosi Bindi e per
Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi alle primarie. Dovranno lasciare il loro posto a colleghi di
partito che rispetteranno le decisioni del gruppo e della direzione. E intantoda Bologna
arriva anche la notizia che Bersani, Cuperlo e Pippo Civati sono stati invitati alla prossima
festa nazionale dell’Unità. La scelta di sostituire i 10 “dissidenti”non è però condivisa da
Roberto Speranza, il capogruppo dimissionario, infatti, giudica «grave quanto accaduto
nell’ufficio di presidenza. Io non avrei mai potuto sottoscrivere questa decisione». E
Cuperlo aggiunge che si tratta di «un fatto molto serio» che se fosse seguito dalla richiesta
di fiducia darebbe luogo ad uno «strappo che metterebbe a rischio la legislatura». Ma il
partito guarda avanti. E sempre nella stessa riunione, come comunicato dal vice
capogruppo Ettore Rosato, è stato deciso di convocare il gruppo per discutere della
successione a Speranza. E avanti guarda anche Renzi. Il premier ieri mattina, sulla
fiducia, ha detto: «Vedremo. Ma dopo tante discussioni ora siamo a un passo, vediamo il
traguardo dell'ultimo chilometro. Faremo lo sprint finale sui pedali e a testa alta». Il premier
ha detto che non sarà «più consentito ai veti e controveti dei piccoli di bloccare la
democrazia in Italia». L’iter della legge però deve fare i conti con l’annuncio dei grillini,
che, di fronte alla scelta del Pd, hanno deciso di boicottare i lavori della commissione Affari
costituzionali. E Sel e Scelta civica, che fa parte della maggioranza, stanno pensando di
seguire il loro esempio. E la tentazione dell’Aventino potrebbe contagiare anche Forza
Italia.
Del 21/04/2015, pag. 14
La tentazione di Berlusconi “Ricucire con
Renzi per un Patto rinnovato e non dare
spazio a Salvini”
Il pressing degli uomini-azienda, da Confalonieri a Doris Cena ad
Arcore. La svolta dopo la tragedia al largo della Libia
CARMELO LOPAPA
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«Guarda, Silvio, che tu devi riprendere il rapporto con Renzi, devi mettere da parte i toni di
queste settimane, così non si va da nessuna parte». Berlusconi ascolta in silenzio, al
tavolo con lui, ad Arcore, siedono i compagni d’avventura di una vita, due delle pochissime
persone delle quali il leader si fidi per davvero. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset,
Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum.
Ultimo fine settimana, a Villa San Martino non si parla solo di cessione del Milan al
thailandese Mr Bee, non solo dell’operazione Mondadori-Rcs libri, ma anche del futuro
politico dell’ex Cavaliere. Ora che la pena è stata espiata e che Forza Italia dal primo
giugno si prepara ad essere pressoché rasa al suolo e rifondata. Ma secondo i due vecchi
consiglieri del capo, al restyling andrà affiancato un cambio di strategia. Fare
un’immediata inversione a “U” sul patto del Nazareno non è possibile. L’Italicum che andrà
al voto la prossima settimana alla Camera, non sarà ancora un test probante dei dubbi
emersi a Villa San Martino. Certo, a voto segreto qualcuno dei “verdiniani” non mancherà
di lanciare un segnale. Quando invece la riforma del bipolarismo tornerà all’esame del
Senato, allora sì che i giochi potranno riaprirsi. Berlusconi non ne farà cenno di certo nelle
prossime cinque settimane: con le regionali alle porte (il 31 maggio) l’esigenza è marcare
Renzi, criticarlo semmai sull’attività di governo, ed evitare di lasciare lo scettro
dell’opposizione a Salvini. Il quadro tuttavia è destinato a cambiare a urne chiuse. Ne sono
convinti Raffaele Fitto e i suoi trenta parlamentari che, dopo lo strappo in Puglia e
l’imminente battaglia legale sull’uso del simbolo, si preparano allo strappo e alla creazione
di nuovi gruppi parlamentari. Si preparano a fare altrettanto Verdini e i suoi, per opposti
motivi: se la linea non cambierà appunto sulle riforme che pure Fi ha sostenuto finora. Del
resto dopo il brusco faccia a faccia della scorsa settimana, tra Silvio e Denis il gelo è
pressoché totale. La situazione ad ogni modo è fluida. Domenica sera, dopo la tragedia
del Mediterraneo, la mano tesa da Berlusconi a Renzi in nome dell’emergenza. Quel
«basta alle accuse e alle contrapposizioni» e la proposta di un immediato «tavolo tra tutti i
protagonisti dei governi passati e presenti». Sottolineata e apprezzata non poco, ieri
mattina, dal presidente del Consiglio («Ha detto cose più sagge di Salvini »). Prequel di
una svolta da qui a un paio di mesi? Quel che è certo è che i sondaggi commissionati negli
ultimi giorni dall’ex Cavaliere sulle aspettative degli elettori moderati gli hanno confermato
quel che aveva previsto. E così lo ha spiegato in queste ore ai dirigenti di prima fascia di
Forza Italia: «La nostra gente si aspetta da noi buon senso. Dunque, da questo momento
in poi, i toni devono essere più sfumati, moderati, meno urlati e i contenuti più ispirati alla
linea del Ppe». Anche perché — ha continuato — «se copiamo i contenuti e i metodi della
Lega, è chiaro che gli elettori preferiranno Salvini. Da lui invece dobbiamo prendere
sempre più le distanze». Convinto che così potrà recuperare l’elettorato moderato in fuga
da Fi anche perché impaurito dal mood barricadero. Con questa operazione, dai contorni
ancora poco definitivi, Berlusconi innanzitutto punta a riaccreditarsi e a recuperare
centralità sul piano nazionale: unico interlocutore di Renzi in una fase di emergenza,
anche se per il momento non più seduto al tavolo delle riforme. E in secondo luogo, l’ex
premier vuole confermare la sua leadership italiana del Ppe, frontman dei leader popolari
europei. E la dichiarazione di domenica, al di sopra delle parti, è stato un biglietto da visita
in vista dell’appuntamento Ppe di Milano di giovedì e venerdì centrato proprio
sull’immigrazione. Intanto, la rifondazione del partito è iniziata. Ancora prima di sbarcare
oggi a Roma, ieri da Arcore ha nominato Marcello Fiori (già coordinatore dei club Forza
Silvio) responsabile degli Enti locali. Non ha ricevuto investitura ufficiale invece Andrea
Ruggieri, ex avvocato e autore tv, nonché nipote di Bruno Vespa, inserito nello staff
comunicazione con delega alle presenze tv, al fianco di Deborah Bergamini.
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Del 21/04/2015, pag. 15
Berlusconi rinforza il cerchio magico
L’ex premier nomina responsabile degli Enti locali il fedelissimo
Marcello Fiori Estinzione della pena, la Procura generale chiede gli atti
del Ruby ter e valuta un ricorso
ROMA
La sua dichiarazione sulla necessità di «essere uniti» di fronte a tragedie come quella del
Canale di Sicilia ha riportato dopo settimane Silvio Berlusconi al protagonismo sulla scena
politica, ma ha anche fatto sorgere il dubbio che si stia preparando una nuova svolta, una
sorta di ritorno se non al patto, almeno allo spirito che diede vita al Nazareno.
Sensazione sbagliata, assicurano i suoi. Da Arcore, dove ieri ha passato la giornata, l’ex
premier viene descritto come molto impegnato sulle liste per le Regionali ed agguerrito
rispetto a Renzi come è ormai da quando è saltato ogni accordo sul Quirinale. Nessun
cambio di rotta insomma, piuttosto riflessioni sulla scelta — che si impone ormai — su
come giocare la partita delle Regionali. Metterci o no la faccia? Tornare o no sulla scena in
grande stile, magari trattando argomenti alti e non di spicciola campagna elettorale, per
dare una mano ai propri candidati impegnati in una corsa a rischio?
Berlusconi è tentato dal riprendere gradualmente il cammino verso una maggiore
centralità mediatica e di conseguenza politica, ed è probabile che nelle Regioni dove gli
azzurri sono in campo sarà presente magari con visite in luoghi simbolici, non con i
tradizionali comizi. Ci sarà insomma in Liguria per Toti, dove è saltato l’accordo con i
centristi di Ap che correranno da soli (anche se il candidato spera ancora in un appoggio
visto che non è stata siglata un’intesa con la sua rivale Paita); in Campania per Caldoro e
probabilmente in Puglia dove ha voluto a tutti i costi la candidatura della Poli Bortone.
Ma ci sono controindicazioni: la prima è quella di legare il suo ritorno sulla scena ad
elezioni come quelle Regionali mai tradizionalmente favorevoli e stavolta difficilissime,
nonostante la speranza del 4 a 3 (al centrodestra Veneto, Liguria e Campania) ci sia in FI,
tanto che Toti già dà a Renzi l’avviso di sfratto se accadrà.
C’è poi cautela nelle mosse perché tornano a farsi minacciose le vicende giudiziarie che
ancora lo tormentano: ieri infatti la Procura generale di Milano ha chiesto ai pm
dell’inchiesta Ruby ter gli atti dell’indagine per valutare un eventuale ricorso al Tribunale di
Sorveglianza che ha dichiarato estinta la pena per la condanna Mediaset. L’intenzione è di
valutare se il leader azzurro abbia commesso reati nel periodo di affidamento in prova,
visto che la Procura ha segnalato che avrebbe corrotto i testi fino al febbraio scorso.
Tra vecchie e nuove preoccupazioni Berlusconi affronta dunque gli scenari futuri, sapendo
che il suo partito è destinato a lacerazioni, ma preparandosi al contrattacco per il
«rinnovamento» che dovrebbe presto portare al «partito repubblicano» che vorrebbe
costruire per riunire tutto il centrodestra. Ieri infatti ha nominato responsabile degli Enti
locali del partito, incarico di gran peso, uno dei fedelissimi di area cerchio magico, quel
Marcello Fiori che guidava i club Forza Silvio. A lui il compito di «integrare» la vecchia
struttura dei club nel partito, a tutti gli altri un messaggio: chi vuole andarsene si accomodi
fuori, il partito cambierà pelle e facce. Radicalmente.
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Del 21/04/2015, pag. 14
Libro Bianco, ecco come cambierà la Difesa
“Nuovi fenomeni criminali e terrorismo da profondi sconvolgimenti
politici” Da Marina e Aeronautica timori per possibili tagli orizzontali
GIAMPAOLO CADALANU
ROMA . La Guerra Fredda è lontana, il centro dell’attenzione italiana dev’essere il
Mediterraneo, soprattutto per le Forze Armate: è questa una delle idee-guida del Libro
Bianco della Difesa, che oggi verrà presentato al capo dello Stato Sergio Mattarella. Il
documento di pianificazione strategica, fortemente voluto dal ministro Roberta Pinotti,
indica che nel Terzo Millennio il centro di interesse per la sicurezza nazionale si è
spostato: le minacce e le emergenze da affrontare possono arrivare da Est, ma ormai
vengono più spesso da Sud, nell’area euromediterranea, dove «profondi sconvolgimenti
politici hanno generato nuovi fenomeni criminali, guerre civili e il radicamento del
terrorismo transnazionale ». E proprio contro i focolai di terrorismo l’Italia «deve assumere
maggiori responsabilità e un ruolo attivo negli sforzi della comunità internazionale ».
L’impegno degli uomini con le stellette deve cambiare anche attraverso strumenti di
gestione: le risorse umane della Difesa dovranno essere meglio amministrate, e gestite
con più rapidità. Non più un sistema rigido, ma «un’unica forza integrata», capace di
intervenire tempestivamente ed efficacemente nella gestione delle crisi e nell’eliminazione
delle minacce. «Le Forze Armate dovranno comportarsi come un decatleta, magro,
scattante e flessibile», sintetizza un alto ufficiale che ha contribuito alla realizzazione del
documento. Quanto alle caratteristiche della forza, dovrà essere «giovane e ben preparata
professionalmente », con «dirigenza apicale contenuta». In altre parole, meno generali e
più soldati in grado di operare.
Il documento, ampiamente ispirato al “Levene Report” del 2011 che avviava la riforma
della Difesa britannica, è un passo ulteriore nella manovra di tagli che dovrà portare le
Forze Armate a 150 mila uomini, la cui carriera e il cui impegno dovranno essere slegati
da logiche di automatismo e far riferimento alla professionalità. Il Libro Bianco
stabilisabilità sce anche il principio della “stabilizzazione delle risorse”, che deve garantire
un respiro pluriennale agli investimenti della Difesa.
Come documento di indirizzo, il Libro Bianco affida allo Stato Maggiore della Difesa la
realizzazione delle linee guida indicate. Proprio qui si nasconde un dettaglio che ha
suscitato irritazione nella alte sfere militari, già critiche per lo scarso coinvolgimento
nell’elaborazione del documento. Sono soprattutto Marina e Aeronautica che esprimono
timori di un “ridimensionamento” attraverso tagli “orizzontali”.
Del 21/04/2015, pag. 15
Crisafulli vince le primarie, il Pd lo stoppa
L’ex senatore trionfa a Enna, ma Guerini chiama il segretario Raciti: non
sarà il nostro candidato Il partito siciliano però non si allinea: “Sull’uso
del simbolo deve decidere la federazione locale”
EMANUELE LAURIA
Nella città dove si è sempre vantato di vincere «anche a sorteggio» stavolta non ha
maramaldeggiato. Ma lo scontatissimo successo di Vladimiro “Mirello” Crisafulli alle
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primarie di Enna ha comunque riacceso le polveri nel Pd. Perché dal Nazareno,
all’indomani dell’ultima performance dell’ex senatore, è partito un chiaro avvertimento
rivolto ai dirigenti regionali del partito: «Non possiamo sostenerlo».
Una presa di posizione che Lorenzo Guerini, il vice di Renzi, ha espresso ieri mattina al
segretario dei dem siciliani Fausto Raciti. È quest’ultimo a confermarlo: «Sì, su Crisafulli
mi è stata posta una questione di opportunità». Per essere più espliciti, Guerini ha detto a
Raciti che il Pd non può sostenere la corsa al sindaco del dirigente ennese, già escluso
dalle candidature alle Politiche, nel 2013, perché “impresentabile”. Ma il giovane segretario
si è limitato a demandare la scelta ai circoli locali: «Io, a questo punto, non posso fare più
niente. Sarà il territorio a decidere». La speranza (anche una prospettiva concreta?)
consiste in una candidatura di Crisafulli appoggiata solo da liste civiche, senza simboli di
partito. Ma per il Pd le amministrative in Sicilia stanno diventando un incubo. Dopo le
primarie di Agrigento, annullate in seguito alla vittoria di un candida appoggiato da Forza
Italia, ecco esplodere (anzi riesplodere) il caso Enna. Ampiamente prevedibile, in realtà.
«Crisafulli? Spero che decida di non presentarsi», aveva detto la vicesegretaria del Pd
Debora Serracchiani il 26 marzo. Malgrado ciò, il percorso delle primarie del Comune di
Enna è andato avanti regolarmente: l’ex senatore, già coinvolto in diverse inchieste anche
di mafia (tutte concluse in modo favorevole all’indagato), è stato lanciato alle consultazioni
ai gazebo da un voto unanime pronunciato sia dalla direzione comunale che quella
provinciale. Crisafulli, la scorsa settimana, ha archiviato l’ultima grana giudiziaria: è venuto
fuori da un processo per falso in bilancio e truffa aggravata nato nel periodo in cui l’ex
parlamentare diessino guidava l’Ato rifiuti di Enna. Un ulteriore tassello alla sua
candidatura, anche se l’accusa di truffa è caduta solo per prescrizione. In ogni caso,
domenica, il “Barone rosso” ha affrontato il test delle primarie e lo ha superato senza
patemi: ha vinto con il 73,7 per cento del consensi. Il suo rivale Dario Cardaci, esponente
di Ncd, si è fermato al 26,3 per cento. Una vittoria più che annunciata che non ha però
spento le polemiche. Giuseppe Lauricella, deputato siciliano del Pd, ha riproposto il tema
delle alleanze: «Come ad Agrigento, qui si è andati oltre. Non si può estendere il quadro
delle forze politiche partecipanti alle primarie fino all’Ncd. Siamo oltre il centrosinistra».
Mentre Angelo Argento, membro della commissione di garanzia del partito, anche ieri ha
invitato i vertici del Pd a riflettere: «Il problema non è personale, è politico. Crisafulli non
può interpretare il nuovo corso del partito».
L’atteggiamento del Nazareno, d’altronde, è chiaro. Ed è di sostanziale gelo nei confronti
della candidatura dell’ex senatore. Il quale, dal canto suo, non ha alcuna intenzione di
demordere. Già nel 2010 Crisafulli vinse le primarie per il Comune e si ritirò per questioni
di opportunità. Ora vuole andare sino in fondo, in una città dove dal 1991 non ha mai
perso una sfida elettorale. Ed è pronto a confrontarsi con un avvocato, Maurizio Di Pietro,
che è stato capogruppo dei Ds e che poi, entrato fra i dem, è stato espulso per due volte
dalla dirigenza vicina a Crisafulli. Di Pietro fu addirittura querelato e finì davanti a un
magistrato quando, in un documento politico, scrisse che «i vertici del Pd locale hanno
avuto scarsa attenzione ai temi della legalità, consentendo carriere politiche a uomini che
hanno comprovati rapporti con la malavita». Il procedimento venne archiviato. E adesso il
confronto si sposta dal tribunale alle urne.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 21/04/2015, pag. 25
Troppa corruzione, diffusa ovunque: noi
bocciati in etica
La percezione di giovani, dirigenti e imprenditori nella ricerca di Makno
per Miworld.
«Investire in cultura» Se si prova a incasellare gli Stati incrociando corruzione e
partecipazione culturale, il risultato è questo: l’Italia, in compagnia di Grecia, Romania o
Bulgaria, è nel quadrante «peggiore», quello che raggruppa elevata corruzione e scarsa
propensione a valorizzare il proprio patrimonio artistico. All’opposto, nazioni come la
Svezia e Danimarca ma anche Francia e Regno Unito. È una delle fotografie della ricerca
condotta da Makno per Miworld, associazione che si propone non solo di riflettere sulla
società e l’economia ma di proporre soluzioni e azioni concrete, con il cuore a Milano e un
orizzonte più vasto. La ricerca, che sarà presentata il prossimo 24 aprile alla Triennale di
Milano, aveva come obiettivi quelli di «comprendere e verificare le dinamiche che
intervengono tra investimenti in cultura e qualità etica di una governance». I dati sono
impietosi: il 98% del campione intervistato ritiene che la corruzione nel nostro Paese è
diffusa (26%) o molto diffusa (72%); cifra che sale al 99% quando la domanda è sulla
diffusione nella politica. E più di due intervistati su tre (il 70%) ritengono che riguardi sia i
livelli alti che quelli intermedi. A più di vent’anni da Mani pulite, quando anche la fiction
celebra quegli anni di svolta, la ricerca Makno nota e sottolinea la «pervasività» della
corruzione. Tutt’altro che debellata o ridotta, come testimonia la cronaca quotidiana. Anzi,
evidenzia il «crescente livello di accettazione da parte della grande maggioranza della
popolazione». Non solo, «la commistione tra interesse pubblico e interesse privato ha
caratterizzato il panorama politico nazionale a partire dagli Anni 90».
Le conseguenze sono un crescente indebolimento del senso di appartenenza alla
comunità e il «disinnamoramento» per la cosa pubblica a favore del vantaggio personale. I
costi sono non solo economici (ostacoli alla libera concorrenza o alla scelta di operatori
sulla base del merito, sperpero di denaro pubblico) ma anche sociali (aumento delle
disuguaglianze, sfiducia nelle istituzioni) e «reputazionali» (l’immagine dell’Italia a livello
internazionale, la disincentivazione degli investimenti). Il merito della ricerca non è solo
quello di sondare un campione rappresentativo della popolazione, ma di interrogare
opinion maker, e analizzare materiali italiani e internazionali. Le percentuali che segnalano
il malessere sono l’input per indicare linee d’azione, nella convinzione che «le forme
repressive da sole non bastano». Ecco allora l’indicazione del rafforzamento del sistema
etico di valori e i due elementi su cui puntare sono da un lato i media (per la capacità di
costruire una cultura della responsabilità) e i giovani (tocca a loro infrangere le cattive
abitudini). La cesura con il passato (e il presente) e l’avvio di una fase virtuosa non solo
può essere favorita dalla cultura ma deve metterla decisamente al centro (come antidoto
alla corruzione). Per il 92% degli intervistati rappresenta la leva da attivare per risollevarsi
dalla crisi economica, il 66% indica gli investimenti in questo settore come una delle
priorità, e l’88% ritiene le risorse attuali inferiori (o molto inferiori) a quanto sarebbe
necessario.
Il futuro auspicabile e possibile dovrà passare attraverso la formazione di una nuova
classe dirigente ma anche da una consapevolezza più diffusa, una rinnovata etica che
spazzi via frasi del tipo: «Si è sempre fatto così». Per eliminare anche quel paradosso
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evidenziato da quel confronto tra le nazioni, dove proprio l’Italia e la Grecia, che possono
vantare un patrimonio culturale imponente, sono le prime a frustrarne l’accesso e la
fruizione .
Riccardo Bruno
Del 21/04/2015, pag. 28
Il rischio strisciante del malaffare
Non solo Mafia Capitale. E della nuova legge si contesta l’assenza di
un’Authority di controllo
Bisognerà attendere la prossima rilevazione per sapere se davvero «Mafia Capitale» ha
intaccato il buon nome del Terzo Settore. Per il momento, stando a quella dello scorso
anno, pubblicata a febbraio nel «Rapporto Italia» di Eurispes, il volontariato svetta ancora
al primo posto nell’indice della fiducia dei cittadini con un 78,8 per cento di preferenze,
seguito a ruota dall’Arma dei Carabinieri (73,4 per cento). Tuttavia, regole poco chiare
hanno permesso di creare un labirinto dove s’insinua il malaffare. I casi da elencare sono i
più svariati, solo per citare i più recenti, si va da quello della cooperativa di Ischia della
scorsa settimana, alla clamorosa inchiesta di mafia Capitale, sino ai 14 arresti a gennaio
scorso per il «mercato nero» degli abiti usati che venivano sì inviati in Africa ma per
essere rivenduti. Molte anche le inchieste relative all’accoglienza dei rifugiati politici. Lo
stesso Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Anticorruzione, non più tardi di qualche
giorno fa ha rilanciato affermando che «a breve potrebbero partire nuove indagini
riguardanti il sociale». Un’attenzione sempre crescente verso un settore, l’unico in Italia,
che negli anni della crisi secondo l’Istat ha registrato una crescita, rispetto al 2001, del 35
per cento con 681mila addetti, 271mila lavoratori stabili e 5mila temporanei, oltre i 4 milioni
e 700mila volontari. Sul Pil questo mondo pesa per più del 5 per cento.
Numeri da capogiro che per il non-profit, come spiega il sociologo Giovanni Moro, autore
di Contro il no profit»: «Senza un adeguato controllo rischia di andare fuori binario». Lui lo
ha ribattezzato il «dark side» del sociale: c’è chi gonfia a dismisura il numero delle
prestazioni e degli assistiti; chi utilizza la forma giuridica per saltare la gara d’appalto nei
servizi di assistenza; chi usa il servizio civile per dispensare piccoli posti di lavoro da
tramutare in voti al momento opportuno; chi eroga rimborsi forfettari che altro non sono se
non stipendi in nero; onlus che acquistano beni e li riaffittano ai proprio soci a prezzi
stracciati e chi apre un bar senza bisogno di licenza alcuna sfruttando la formula della
somministrazione libera di alcolici ai soci. Frodi perseguibili, certo, ma come? «Purtroppo
oggi in Italia non esiste un’autorità in grado di controllare la coerenza delle attività svolte»
spiega Moro. Authority non prevista nel testo della Legge Delega sulla riforma del Terzo
Settore che dopo l’approvazione avuta alla Camera è attesa al Senato: entro luglio
dovrebbe esserci il via libera definitivo.
Del 21/04/2015, pag. 13
Speculazioni e mafie
In Liguria tutto liscio come l’olio
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DAL PICCOLO BERLUSCONI DI AVEGNO, GIÀ PADRONE DELL’INDUSTRIA DELLE
OLIVE AL SUMMIT DELLE CHITARRE
Con la val di Vara alle spalle ripetiamo la formula slow. Tornanti a ripetizione, discese e
risalite fino ad Avegno. È il paese di un berlusconoide, Ezio Armando Capurro, politico
itinerante ma anche imprenditore itinerante. Con l’olio di sanza, il nocciolo dell’oliva da cui
si spreme l’ultimo e più degradato succo, ha fatto begli affari. In Liguria come in Puglia.
Per anni ha conosciuto il successo detenendo il marchio dell’olio Sasso ed è stato con i
suoi concittadini il promotore del perenne scambio civile: lavoro contro inquinamento. La
gente lo ha accolto come un grande benefattore, acclamandolo poi nelle urne, e se ne è
infischiata se dalle ciminiere usciva fumo puzzolente. Meglio la puzza che la
disoccupazione. Meglio deviare il corso del torrente, come è stato necessario per far posto
alla fabbrica, che rinunciare alla fabbrica. Quando il business è finito, l’impianto ha cessato
la produzione e si è trasformato in una discarica illecita fino a che nel 2004 l’area è stata
posta sotto sequestro dall’Autorità Giudiziaria. Il 2004 è anche l’anno in cui, grazie
all’adozione del nuovo piano urbanistico comunale, il terreno trova una nuova destinazione
e da zona industriale diviene zona residenziale e commerciale (previsti circa 17.000 mq di
nuove costruzioni). Un bel regalo per il politico imprenditore, già sindaco di Rapallo e oggi
consigliere regionale del Pd. Ma la crisi del mercato immobiliare ha gelato l’entusiasmo del
grande benefattore e ora si dovrebbe pensare a qualcosa di più profittevole. Con una perla
si chiude questo piccolo viaggio dentro il magico mondo dei berlusconi di provincia:
nonostante esista una valutazione risalente all’anno 2008 dell’Agen - zia delle entrate che
stima il valore dell’area in una somma superiore ai 6 milioni di euro, l’am - ministrazione
comunale non ha mai ritenuto di riscuotere l’ICI prima e l’IMU successivamente sul valore
dei terreni resi fabbricabili, in forza di un parere legale richiesto e pagato dalla stessa
amministrazione che sostiene la non legittimità del tributo. Quanta solerzia, e quanta
generosità, vero? Un bell’esempio di come la politica, quando è sovvenzionata dagli
interessi, prosegua a zig zag e adatti il territorio e perfino la legislazione agli interessi del
dominus. Si faceva l’olio ed era zona industriale, è finito l’olio e quella è divenuta area
residenziale. È crollato il mondo del mattone e si cambia ancora. Uscio, l’orologio d’Italia È
ora di andare a Uscio, nell’altro versante della vallata. Qua costruiscono orologi per
campanili di ogni ordine e grado. Servono, su richiesta, anche splendide campane, piombo
fuso di prima qualità. È una fabbrica che non ha età e, a dispetto del settore, non ha
tempo. Felicemente antimoderna, la comunità non soffre la crisi delle lancette. Non esiste
campanile senza orologio, e non c’è orologio che non si fermi, che non abbia bisogno di
una riparazione o di una sua riedizione. Uscio merita una capatina, senza fretta però.
L’orologio lasciatelo a casa. Rapallo, Lavagna e i fiori Non c’è niente da fare: chi è bello ha
sempre il sole in tasca. Il panorama che l’Aurelia offre nei pressi di Rapallo è incantevole.
Nelle curve a gomito, nelle sporgenze avanzate, con i balconi fioriti dei palazzi a picco sul
mare, il Levante ligure si piglia e si assomiglia con la costiera amalfitana. Più della luce del
mare è l’armonia apparente tra il costruito e la natura, e la misura con la quale l’uomo ha
edificato e rimarchevole anche la riservatezza che ha impiegato per nascondere le
schifezze alla vista. Gli abusi ci sono, ma non si vedono. Anche questo è talento. Il sole
però inizia a declinare e all’altezza di Lavagna troviamo una nebbiolina inglese, quella
pioggia insistente ma dolce che trasforma il porticciolo in un hangar per gabbiani colpiti da
un maestrale improvviso e freddo. La discarica sul golfo dei poeti C’è invece sempre un
luogo dove la ragione, la banale considerazione che il bene comune non può essere
tragicamente offeso, debba trovare un’ostruzione invincibile. A La Spezia menti
particolarmente crudeli hanno deciso di realizzare in cima a uno spuntone di roccia che
s’affaccia sul golfo dei poeti una discarica. In città è conosciuta come la discarica dei
veleni, ed è la dimostrazione che al peggio non c’è mai fine. Stefano Sarti, vicepresidente
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di Legambiente e Marco Grondacci, consulente di diritto ambientale, fanno strada verso
questa vergogna. Sono uomini di mezza età, abituati alla sconfitta, a perorare cause
perse. E infatti la loro battaglia per vedere cessato questo misfatto ha da poco raggiunto il
traguardo. La discarica è stata chiusa quando però tutto il peggio era già stato infilato nel
terreno. “Ora vediamo i bulldozer che stanno spianando l’area, bonificando con la
seppellitura”. La discarica è appena sotto il cimitero. Sembra che la morte abbia preso
prima gli uomini e poi la natura. Stanno seppellendo la montagna che guarda il golfo, e la
sua memoria. Fu il commediografo Sem Benelli a coniare il termine durante l’orazione
funebre per Paolo Mantegazza: “Beato te, o poeta della scienza, che riposi nel golfo dei
poeti”. Lord Byron, David Herbert Lawrence, George Sand, Gabriele D’Annunzio, Mario
Soldati amarono questa terra. Anche Indro Montanelli era innamorato delle sue vedute.
Avesse saputo che qui avrebbero eretto una discarica... Sarzana, che Botta! Sarzana non
è più Liguria e non è ancora Toscana. Piega verso le Apuane, traffica con l’Emilia e sbuffa.
Città rossa per eccellenza, comunisti instancabili e devoti. Sarzana oggi è divenuta un
crocevia pericoloso per i conflitti tra alcune famiglie ’ndranghetiste. “Giuro che in
cinquant’anni di vita non ho mai sentito parlare di malaffare. È una scoperta degli ultimi
tempi, per noi è stato davvero uno choc”, dice Gianna al bar dove lei e i suoi amici si
ritrovano per spiegare le ragioni della loro associazione che ha un bel nome. Si chiama
“Oltre il mugugno”. “Abbiamo scelto di aprire gli occhi e di dar fiato alla bocca. Di
denunciare tutto quel che non va, questa deriva morale che sta corrompendo una città
ricca di storia e piena di orgoglio. Noi ci siamo spaventati il giorno in cui, riuniti per una
manifestazione della casa della legalità, abbiamo visto due signore, sedute proprio al mio
fianco, inveire contro il relatore che ci spiegava la dislocazione delle famiglie della
’ndrangheta a Sarzana. Erano le mogli di due di loro, che magari avrò salutato tante volte.
È stato uno choc, mi creda”. Le inchieste e gli arresti hanno riempito le pagine delle
cronache locali. Gli investigatori da tempo avevano raccolto elementi a carico della
famiglia dei Romeo. A cui si sono aggiunti i Siviglia, gli Iemma. Nomi che per anni sono
rimasti confinati dentro le mura del palazzo di Giustizia di La Spezia, confusi, diluiti o
annegati dalla colpevole distrazione della politica. “Siamo alle Mani sulla città di Francesco
Rosi. Le dimensioni sono più contenute ma gli effetti devastanti dell’illegalità sono esplosi
tutti insieme”, dice Luca Manfredini. Gianna: “Per dire la mia confusione: mio figlio è amico
di un ragazzo di quelle famiglie, frequenta le loro case. Il ragazzo è perbene ma dei
genitori posso dire altrettanto? Questo mi disturba, mi mette in tensione”. Gandolfo,
siciliano, muratore in pensione: “La città è sporca dentro”. Paola Settimi, editore di La
Spezia Oggi: “La ‘ndrangheta che non vedi è negli appalti”. Sarzana naturalmente è una
città con una ossatura civile che le permette di fronteggiare anche questa emergenza,
questa delusione. Ospita il festival della mente, conosciuto in Italia, e qui c’è una rassegna
straordinaria, il summit annuale delle migliori chitarre acustiche. Andrea Giannoni è un
musicista blues, stasera suona al Kirkur, un pub in piazza: “Il blues riempie le notti ma ci
obbliga a lavorare di giorno. Io faccio il cuoco in una scuola elementare di Aulla, una città
che dopo l’alluvione sta poco a poco morendo. Sarzana è robusta, secondo me sa come
cavarsela”. “Secondo me invece dobbiamo stare attenti, venga che le mostro un’altra
cosa”, dice Luca. Andiamo verso un quadrato di palazzi costruiti a metà, residenze per
famiglie non abbienti. Dovevano essere case popolari disegnate dalla matita dell’archistar
Mario Botta. Finanziamento incompleto, costruzioni bloccate, rovine in città. “Ecco la
speculazione, il magna magna non è solo romano. Qui la politica ha dilapidato un
patrimonio”. “Sarzana che Botta!”è il nome dell’associazione che monitora il cemento
mancante, i giorni persi nell’attesa, e questo scheletro urbano extralusso. Si vota in Liguria
e all’agriturismo L’Antico Casale Forza Italia tenta di organizzare una difesa per Giovanni
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Toti, il candidato governatore. C’è una riunione con tutti i maggiorenti. Benché il Pd non
sia messo bene, l’umore non è dei migliori stasera.
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 21/04/2015, pag. 5
CGIL E ASSOCIAZIONI IN PIAZZA
MANIFESTAZIONI OGGI IN TUTTA ITALIA
Oggi mobilitazione nazionale a Roma e in tutta Italia, per chiedere di fermare la strage nel
Mediterraneo: a organizzarla sono Cgil, altri sindacati, associazioni e ong. A Roma
appuntamento a partire dalle 14.30 davanti a Montecitorio. Appuntamenti in tutte le
principali città italiane.
Da il manifesto del 21/04/15, pag. 2
Sommersi e abbandonati
Federico Scarcella
CATANIA
La strage del canale di Sicilia. Su 20mila persone giunte in Italia, il 10%
sono morte. Il procuratore Salvi «Triton crea problemi anche sul piano
delle indagini»
Quel barcone era un sepolcro per vivi, con i due livelli inferiori adibiti alla «terza classe»
dei migranti, quella riservata a chi ha i soldi per imbarcarsi ma non per garantirsi l’aria da
respirare e l’acqua, privilegio degli occupanti dell’unico piano alto.
Giù, negli inferi, la poca acqua fornita agli assetati veniva miscelata con un po’ di gasolio,
in modo da farsi passare la voglia di bere. Giù, dice il procuratore di Catania Giovanni
Salvi, prima della partenza le porte sono state sprangate, perché nessuno doveva uscire,
perché ogni movimento può mettere a rischio l’equilibrio dell’imbarcazione, che infatti è
colata a picco all’alba di sabato scorso, quando i migranti in coperta si sono spostati tutti
su una fiancata alla vista del container portoghese «King Jacob» giunto in loro soccorso
dopo un sos lanciato con un telefono satellitare.
L’invito a mantenere la cautela sul numero dei morti, fatto ieri dal procuratore Salvi, non
cambia le dimensioni della tragedia: 700 — come detto nell’immediatezza dei fatti — o 900
come ha riferito un superstite domenica sera, si tratta comunque di un’ecatombe.
Se quest’anno su 20 mila persone giunte in Italia, quasi 2mila (il 10%) sono morte,
vengono i brividi a pensare cosa ancora potrà accadere. Lo scorso anno ne sono arrivate
170 mila in 12 mesi; nel 2015 le previsioni più ottimistiche ne stimano 250 mila.
Stavolta lo «spread» tra i vivi e i morti è impressionante: soltanto 28 sopravvissuti e tra
loro anche due migranti che hanno raccontato di essersi «aggrappati ai morti per non finire
in fondo»; mentre gridavano, aggiungono i soccorritori, «per attirare la nostra attenzione».
I 28 superstiti sono arrivati a Catania nella tarda serata di ieri sulla nave Gregoretti della
Guardia costiera, che in mattinata aveva fatto tappa a Malta per lasciare i 24 cadaveri che
troveranno sepoltura a La Valletta.
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Da noi non c’è più neanche posto per i morti, e mentre sono tante le parole in libertà,
scarsissima è la libertà di parola, quella che dovrebbe inchiodare alle proprie
responsabilità la ricca Europa, che facendo i conti della serva ha fatto in modo che la
«costosa» e ben più efficace operazione Mare Nostrum (9 milioni al mese) fosse sostituita
dalla più economica Triton (3 milioni al mese). È ancora il procuratore Salvi a parlare:
«Triton — spiega — crea problemi anche sul piano delle indagini, rispetto alla precedente
operazione, e si basa fondamentalmente sulle navi mercantili», cioè sui natanti in
navigazione nel Mediterraneo, precettati e dirottati sui «target» man mano individuati nelle
varie aree. Non solo mercantili, ma anche pescherecci, come è accaduto alle cinque
motonavi di Mazara del Vallo — marineria allo stremo per i sequestri e per la crisi che ha
corroso l’economia locale — inviati sul luogo del naufragio.
Vincenzo Bonanno, comandante dell’«Antonino Sirrato», ha provato una grande delusione
quando è giunto sul posto, alle quattro del mattino di sabato scorso, e ha trovato «solo
giubbotti di salvataggio, vestiti, detriti d’ogni genere, una grande chiazza di gasolio e…
morti. Nessuno da salvare, il mare ha inghiottito in fretta 900 persone, la popolazione di un
paese». A questa gente, pronta a sacrificare il proprio pane e la propria vita per salvare i
naufraghi, lo Stato non ha mai detto grazie: «Se salvi qualche migrante, dopo un paio
d’anni qualcuno organizza una cerimonia e ti appuntano una medaglia sul petto. Mai un
rimborso», dice l’armatore del «Sirrato» Piero Asaro.
Si fa economia e si fanno grandi proclami: «Arrestare gli scafisti è una priorità», dice
ancora Renzi, dopo che all’alba di ieri la Dda di Palermo aveva fermato un gruppo di
eritrei, etiopi, ivoriani e Ghanesi.
E in Calabria è finito in manette uno scafista — riconosciuto perché privo di una gamba —
che lo scorso 12 aprile, per una manovra sbagliata, aveva provocato davanti alle coste
libiche un naufragio costato la vita a 350 persone (150 i sopravvissuti). La notizia dei 350
morti era stata data dai media senza troppa enfasi, a sottolineare che anche l’informazione
sta facendo il callo ai morti e rivedendo i propri parametri.
A Palermo la Dda ritiene di aver fatto un colpo grosso. Tra le 24 persone coinvolte
nell’indagine (10 sfuggiti alla cattura) ci sono anche l’etiope Ermias Ghermay (latitante dal
luglio scorso) e l’eritreo Medhane Yehdego Redae, ritenuti tra i più importanti trafficanti di
migranti che operano su quella che viene chiamata la «rotta libica». L’organizzazione, con
un cospicuo supplemento in denaro, gestisce le fughe dei migranti dai centri di
accoglienza italiani verso altri paesi Ue, soprattutto Norvegia, Germania e Svezia. Si stima
che 5mila persone si sono rivolte nel solo 2014 al gruppo criminale e alcuni hanno pagato
con un metodo fiduciario usato nel mondo arabo, che si chiama «Hawala» e che non
lascia tracce, messo a punto parecchi secoli fa per raggirare il diritto romano.
Ghermay è accusato del naufragio avvenuto il 3 ottobre 2013 davanti a Lampedusa, in cui
persero la vita 366 migranti e per il quale è stato condannato a 20 anni uno scafista.
Quella strage di un anno e mezzo fa impressionò il mondo intero, tanto che la data del 3
ottobre è stata scelta come Giornata per commemorare i migranti vittime di naufragi. 366
era una sorta di Linea Maginot, una cifra non superabile per la devastante dimensione
della tragedia. Oggi i morti sono quasi il triplo e le parole di chi ha il compito di decidere le
misure per arrestare questo genocidio restano le stesse e suonano sempre più beffarde:
mai più.
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Del 21/04/2015, pag. 2
Migranti, a Rodi un’altra tragedia si ribalta il
barcone, 200 a bordo “Un milione di profughi
in arrivo”
Drammatico naufragio in Grecia: 80 salvati, tra i cadaveri anche un
bimbo Allarme sui nuovi sbarchi. Ieri soccorsi sei gommoni con 600
persone
Un puntino in mezzo al mare. Lo si vede da lontano, in balia delle onde, mentre si
avvicina. Se ne distingue appena la sagoma. L’unica cosa che si scorge, nitidamente, è
che là sopra sono tanti, tanti davvero (200 circa diranno qualche ora più tardi i testimoni
alle autorità greche). Così tanti da rendere assai precario l’equilibrio del barcone che,
infatti, in un istante, si capovolge: troppo pesante, lo scafo urta contro gli scogli. Gettando i
corpi a mare. E la tragedia è in diretta, filmata con il cellulare da turisti e residenti. Lì, a
poche bracciate dalla costa di Rodi, hanno perso la vita un bambino, un uomo e una
donna, mentre 80 sono stati tratti in salvo e gli uomini dei soccorsi sono ancora al lavoro
per cercare i dispersi. Decine e decine di persone in mare, disperate, hanno cercato di
trovare un appiglio che permettesse loro di galleggiare e di raggiungere la riva. È scattata
subito una catena umana e diversi uomini si sono tuffati nell’acqua gelida per andare
incontro ai superstiti e trascinarli a fatica verso la riva non sabbiosa ma irta di scogli
taglienti. Secondo la Guardia costiera, il barcone era partito dalle coste della vicina
Turchia ma gli scafisti lo hanno abbandonato quando ancora si trovava al largo dell’isola di
Rodi, lasciandolo a destino che, con quel peso e quella costa, era scritto. Molti dei migranti
a bordo, che secondo le autorità sarebbero per lo più di origine siriana, potrebbero aver
raggiunto terra incolumi ed essersi poi nascosti. Immagini di una tragedia che ogni giorno
si fa più cruenta e di un bollettino che fa rabbrividire. Ieri, 638 migranti sono stati soccorsi,
da imbarcazioni italiane, mentre navigavano nel Canale di Sicilia. Erano a bordo di sei
gommoni in difficoltà che hanno lanciato l’sos all’Organizzazione Mondiale per le
Migrazioni, Oim. Un’emergenza che non accenna a diminuire. Ieri il procuratore aggiunto
di Palermo Maurizio Scalia, nel corso della conferenza stampa di presentazione di
un’operazione contro la tratta di immigrati, ha detto che in Libia «ci sono tra 500 mila e un
milione di persone pronte a partire per l’Italia: sono siriani, eritrei, etiopi pronti a pagare,
come hanno fatto tutti gli altri prima di loro, complessivamente seimila o
seimilacinquecento dollari a testa per abbandonare i loro Paesi». Numeri che non lasciano
molti dubbi: è solo all’inizio.
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Del 21/04/2015, pag. 8
“Subito il sì dell’Onu e blocchiamo i barconi”
La road map di Renzi per un’ipotesi di intervento di polizia
internazionale contro gli scafisti. No a operazioni di terra Nuova
stoccata all’Europa di Mattarella: “Fino ad ora risposte inadeguate, non
può più volgere lo sguardo altrove”
GOFFREDO DE MARCHIS
Come al solito, è “timido” l’impegno finanziario dell’Unione europea per fronteggiare gli
sbarchi dei profughi dalla Libia. Qualche promessa, ma niente di più. Va molto meglio sul
fronte della «guerra agli scafisti» che Matteo Renzi ha dichiarato dopo la tragedia di
domenica. Il governo italiano incassa il consiglio straordinario della Ue fissato per giovedì.
All’ordine del giorno non ci saranno solo le operazioni umanitarie necessarie per salvare
delle vite, ma «un’iniziativa diretta contro i trafficanti di essere umani», dicono a Palazzo
Chigi. Significa intervento militare o comunque di polizia internazionale. Non operazioni di
terra ma contro gli scafisti da condurre nei porti libici. Per distruggere i barconi ed
eliminare i negrieri equiparandoli a terroristi.
L’Italia gioca la partita in prima linea e lo fa su due tavoli. Quello di Bruxelles e quello,
ancora più delicato, di New York. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, riunito ieri in
Lussemburgo con i colleghi europei, tiene i contatti con la presidenza di turno del
Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Giordania, già impegnata negli attacchi alle basi dell’Isis
tra la Siria e l’Iraq. Dalle Nazioni unite, nelle prossime ore, dovrebbe arrivare una
dichiarazione ufficiale sulla vicenda libica e sulla tratta degli esseri umani nel Canale di
Sicilia. Una dichiarazione del consiglio di sicurezza va oltre le parole di cordoglio del
segretario generale Ban Ki Moon. Può avere effetti operativi o prepararli.
Il pronunciamento dell’organo esecutivo dell’Onu non è una risoluzione, non offre poteri di
azione immediati alla comunità internazionale. Per la risoluzione i tempi sono
naturalmente più lunghi. Va studiata sul piano tecnico e giuridico. Ma può essere il
segnale decisivo, anche perché dimostrerebbe l’attenzione della Casa Bianca e del
Cremlino, ovvero delle potenze mondiali.
Una dichiarazione dell’Onu può scuotere ancora di più i Paesi europei. Tra i quali,
comunque, secondo la versione che esce dal vertice del Lussemburgo, si è fatta largo «la
consapevolezza» del problema grazie anche alle nette prese di posizione dell’alto
rappresentante Federica Mogherini e del commissario all’immigrazione Dimitris
Avramopoulos. Il giro di telefonate di Renzi ha fatto compiere qualche passo avanti. Da
ratificare però giovedì a Bruxelles. L’Europa dimostra la sua tradizionale ritrosia a tirare
fuori del denaro per un problema continentale. Gentiloni ed Alfano (presente in
Lussemburgo) hanno ascoltato le garanzie per il raddoppio dei fondi di Triton, la missione
di contrasto agli sbarchi che oggi costa 2,9 milioni di euro al mese. E la generica
promessa di «moltiplicare» gli investimenti per l’accoglienza ai migranti. Ma non hanno
avuto la sensazione che si faccia sul serio. La controprova la daranno i leader. La spinta di
Barack Obama invece costringe i paesi della Ue ad affrontare di petto il problema degli
scafisti. E per un intervento militare, ovviamente non di terra, ma via mare o dal cielo,
conta soprattutto l’Onu. Un’eventuale risoluzione ha bisogno di un governo stabile in Libia.
Bernardino Leon, lo spagnolo a capo della missione libica, ha fatto sapere alla Farnesina
che «l’80 per cento del programma per un governo di unità nazionale viene condiviso dalle
tribù locali». Manca quindi un passo non troppo lungo per dare un’autorità al Paese. Nel
frattempo però l’Europa deve dare un segnale.
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Una strigliata alla Ue arriva da Sergio Mattarella. «Non può sottrarsi alla prova di centinaia
di migliaia di profughi in movimento che abbandonano le proprie case per sfuggire alla
morte, alle persecuzioni, alla fame». Il capo dello Stato ha colto l’occasione dell’udienza
concessa ai presidenti dei Parlamenti dell’Unione per scandire quello che è più di un
semplice invito a fare presto. Non voltare la testa, dice, «è la ragione fondante della nostra
Unione». Se esiste una comunità europea questo è il momento in cui è chiamata a farsi
sentire. «I valori di pace, libertà, democrazia, rispetto dei diritti della persona ci
impediscono di rimanere indifferenti di fronte all’immane tragedia che si svolge
quotidianamente a poche miglia dal confine meridionale dell’Europa», avverte il presidente
della Repubblica. «Oggi essere europei significa anche saper dare risposta efficace a
questa crisi».
Del 21/04/2015, pag. 9
Il vertice
Programma in dieci punti. Ma niente intesa sulla ridistribuzione dei
richiedenti asilo La Casa Bianca: “In Libia situazione insostenibile”.
Giovedì summit straordinario
“Distruggere le barche dei trafficanti e più
soccorsi in mare” Ecco il piano della Ue
ANDREA BONANNI
Sembra che la catastrofe dell’altro ieri al largo delle coste libiche abbia finalmente smosso
le coscienze anche dei governi che fino ad ora si erano dimostrati più ostili ad un
sostanzioso intervento di solidarietà per aiutare i Paesi sommersi dalla marea di profughi.
Ma si tratta pure sempre di una solidarietà limitata. Su uno dei punti cruciali della
questione migranti, e cioè la ridistribuzione tra gli Stati membri dei richiedenti asilo, la Ue
infatti si dice pronta solo a «considerare le opzioni» per un «meccanismo di ricollocazione
di emergenza». Tradotto dal linguaggio diplomatico, vuol dire che su questo punto si
continuano a registrare veti e indisponibilità.
Il piano in dieci punti prevede un rafforzamento immediato delle operazioni di ricerca e
soccorso in mare denominate “Triton” e “Poseidon”. Anche il raggio di azione dei
pattugliamenti dovrebbe essere sostanzialmente ampliato. Dopo che l’Europa aveva
criticato l’operazione italiana Mare Nostrum perchè troppo estesa e suscettibile di
incrementare il flusso dei profughi, ora evidentemente fa marcia indietro. La Germania ha
proposto di raddoppiare i fondi comunitari messi a disposizione delle due operazioni. Molti
Paesi, tra cui la Svezia, si sono detti disponibili ad aumentare il numero di navi, aerei e
motovedette da inviare nel Mediterraneo. Altro punto qualificante del programma proposto
da Bruxelles, che si concentra particolarmente sulla lotta ai trafficanti, è l’impegno a
rafforzare le operazioni di cattura e distruzione delle carrette del mare usate per il
trasporto dei profughi. Per questo i ministri suggeriscono di utilizzare i metodi sperimentati
nell’operazione Atalanta per la lotta contro i pirati che infestano l’oceano Indiano al largo
delle coste somale. Ma per una effettiva azione di ricerca e distruzione delle imbarcazioni,
ha avvertito ieri Federica Mogherini, sarà necessario un mandato delle Nazioni Unite, «e
l’Europa si sta muovendo per ottenerlo». Il piano prevede inoltre che l’ufficio europeo per
l’asilo invii funzionari in Italia e Grecia per aiutare i due Paesi ad esaminare le richieste di
protezione dei rifugiati. A tutti i migranti verranno prese le impronte digitali (cosa che si
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dovrebbe già fare ora, ma che spesso non si fa). Le agenzie europee per la lotta alla
criminalità e la sorveglianza delle frontiere dovranno coordinarsi per rafforzare la guerra
contro i racket del traffico di esseri umani e inviare agenti nei Paesi limitrofi alla Libia per
individuare le filiere del traffico. La Ue varerà un nuovo piano coordinato dall’agenzia
Frontex per il rimpatrio degli irregolari che non abbiano diritto di asilo. Inoltre si
rafforzeranno i rapporti con gli Stati attorno alla Libia per cercare di potenziare il controllo
alle frontiere meridionali del Paese e ridurre il numero di migranti che raggiungono le coste
della Cirenaica e della Tripolitania. Come sempre, in questi casi, ad alcuni fatti concreti si
aggiunge un catalogo di buone intenzioni. Ma la sensazione è che questa volta anche i
governi europei più refrattari comincino davvero a sentire la pressione delle rispettive
opinioni pubbliche e anche delle organizzazioni internazionali. Il segretario generale delle
Nazioni Unite, Ban Ki-moon ha parlato di una «tragedia titanica », e il suo portavoce ha
invitato l’Ue a dimostrare solidarietà ai Paesi più colpiti dall’ondata migratoria, come l’Italia,
la Grecia e Malta. Anche la gli Stati Uniti intervengono sulla questione: la portavoce del
Dipartimento di Stato offre la disponibilità di Washington a «collaborare» con le autorità
europee, mentre la Casa Bianca definisce la «situazione in Libia sempre più insostenibile»
e «con gravi riflessi umanitari». Ieri perfino il premier britannico David Cameron, che da
tempo si batte per porre limiti all’immigrazione nel suo Paese, dopo una telefonata con
Renzi si è unito all’Italia, a Malta e alla Grecia per sollecitare la convocazione del vertice
europeo straordinario.
Del 21/04/2015, pag. 6
Il boss dei trafficanti nel centro per rifugiati
“Ne carico troppi? Loro hanno fretta...”
ALESSANDRA ZINITI
PALERMO
Chissà che non siano proprio loro i trafficanti che hanno organizzato il viaggio poi
trasformatosi nel più grave naufragio della storia dell’immigrazione. «Non abbiamo alcun
elemento ma non possiamo neanche escluderlo, visto che abbiamo la certezza che i capi
di questa organizzazione siano ancora attivi in Libia e sono i responsabili di molti recenti
viaggi», dice il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. D’altronde l’eritreo Merede
Medhanie, uno dei due “boss” che, sull’altra sponda del Canale di Sicilia, guida questa
sorta di network transnazionale che negli ultimi due anni avrebbe “fatturato” più di 100
milioni di euro, non è uno che ci pensa due volte a stipare fino all’inverosimile sui barconi
uomini, donne, bambini, a costringere i suoi “clienti” a partire con le gambe spezzate e
chiusi nella stiva o nel vano motore. Gli investigatori dello Servizio centrale operativo della
Polizia lo sentono al telefono mentre ride e dice: «Il mio unico problema è che ho troppi
migranti, quindi ne imbarco sempre più di 500, posso solo sperare che arrivino sani e
salvi. Hanno fretta...Quando non partono si lamentano e io sono stressato...».
Lui e Ermias Ghermay “lavorano” tranquillamente in Libia, pronti a far partire quel milione
di profughi in attesa (questa la stima dei pm di Palermo), ma i loro complici in Italia sono
finiti in manette in una operazione condotta dallo Sco e dalle squadre mobili di Palermo ed
Agrigento che hanno disarticolato le “cellule” siciliana, romana, e milanese che si
occupavano di “recuperare” i loro clienti smistati dopo i soccorsi in mare nei vari centri di
accoglienza in Sicilia per portarli fino alla loro destinazione finale (quasi sempre Svezia,
Olanda, Germania, Regno Unito) dopo il pagamento di una ulteriore tranche di denaro.
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Sono cifre considerevolissime quelle fatte dagli investigatori che calcolano mediamente il
costo dell’intero viaggio (dalla prima tratta in Africa all’attraversamento del Canale di Sicilia
fino al trasporto a destinazione) in cinquemila euro. Un business da almeno cento milioni
di euro negli ultimi due anni che, secondo Renato Cortese, al suo esordio alla guida dello
Sco, lascia intravedere scenari sorprendenti. «Dalle intercettazioni emerge una
sconcertante facilità di questi trafficanti nell’aprire conti correnti in Svezia, Olanda, Emirati
Arabi, nell’investire ingenti somme, c’è una movimentazione di denaro che proveremo a
seguire». Dei 24 destinatari degli ordini di custodia cautelare ottenuti dai pm Claudio
Camilleri e Geri Ferrara, coordinati dall’aggiunto Maurizio Scalia, in 15 sono finiti in
manette. E la metà di loro, tutti eritrei, erano ospiti del Cara di Mineo, il più grande centro
di richiedenti asilo d’Europa, finito nell’inchiesta su Mafia Capitale. Ed è lì, tra i 5.000 ospiti
del centro, che i trafficanti recuperavano i loro “clienti”, ne organizzavano la fuga,
trovavano il modo per non farli identificare, riuscivano persino a fare entrare
clandestinamente altri migranti (prelevati da ogni parte della Sicilia) e ad “ospitarli” a spese
dello Stato in attesa di organizzare l’ultima tappa del loro viaggio.
Un’organizzazione collaudatissima quella di Medhanie il “generale” intercettato mentre si
paragona a Gheddafi: «Io ho lo stile di Gheddafi, sono forte e non potrà mai esserci
nessuno più forte di me nell’organizzazione». Ha anche progetti precisi per il futuro:
«Quest’anno ho lavorato bene, ho fatto partire 7-8.000 persone, lavorerò ancora per un
anno e poi quando lascerò, creerò dei problemi tra quelli che restano facendo in modo che
tutto finisca». Medhanie ed Ermias (l’organizzatore del drammatico viaggio poi finito nel
naufragio del 3 ottobre 2012 a Lampedusa) sono l’emblema dei trafficanti senza scrupoli
che contendono ad altri criminali il primato nell’organizzazione dei viaggi. Quando
affondano barconi si chiedono immediatamente. «Di chi era quello? Non era nostro...
benissimo allora ». D’altronde, a loro che i migranti arrivino vivi o morti importa poco.
L’importante è che partano, così da chiedere alle famiglie altri soldi (1.500 euro) per il
passaggio in mare. Per questo arriva- no ad “acquistare” pacchetti di migranti nelle carceri
libiche corrompendo funzionari e guardie penitenziarie e costringendoli poi a partire con la
forza in qualsiasi condizione. Di soldi ne fanno a palate e si occupano direttamente degli
investimenti: «È meglio investire in America o in Canada — dice al telefono — lì non ti
chiedono la provenienza dei soldi». Il denaro lo incassano in tanti modi: contanti
naturalmente, ma anche Postepay, i classici Money transfer e con il cosiddetto metodo
“Hawala” che consente di eludere ogni passaggio bancario grazie a fiduciari, di solito
commercianti che, grazie alle loro attività, possono giustificare rimesse dall’estero all’Italia
o viceversa in cambio di una commissione. Ognuno dei migranti ha un suo numero
identificativo e ad ogni numero corrisponde una somma ma anche la possibilità di
“tracciare” per le famiglie il percorso dei migranti. Solo che quando qualcuno non si trova e
i familiari lo tempestano di chiamate Ermias infastidito dice: «Noi facciamo il lavoro di ladri,
sporco, non siamo il governo che può ascoltare e aiutare tutti».
Del 21/04/2015, pag. 8
Il modello Somalia contro gli scafisti
I droni per distruggere le barche
ROMA Scafisti libici come i pirati somali. L’Unione Europea si mostra disponibile ad
accogliere le richieste presentate dall’Italia e contro i trafficanti di uomini decide di colpire
le postazioni e distruggere le barche utilizzate per trasportare i migranti. Il modello è quello
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dell’operazione «Atalanta» varata nel 2008 e rifinanziata nel novembre scorso. In attesa di
un via libera dell’Onu all’intervento che consenta di svolgere operazioni di polizia sul suolo
libico, i ministri degli Esteri e dell’Interno scelgono comunque di intervenire. La «linea
dura» dovrà essere confermata durante il vertice straordinario di giovedì, ma l’intesa
appare raggiunta e l’assenso da parte di alcuni Paesi ad accogliere una parte dei profughi,
sia pur minima, dimostra che qualcosa effettivamente potrebbe cambiare nella politica
comunitaria. Anche perché per il governo di Roma sono proprio queste le condizioni non
negoziabili per tentare di governare il flusso di stranieri che certamente continueranno ad
arrivare sulle nostre coste.
Modello Somalia
Lo schema dovrà essere messo a punto dai vertici militari, l’ipotesi rimanda a quello già
sperimentato in Somalia, anche se dovranno essere rimodulati gli interventi. La missione
avviata sette anni fa e tuttora attiva nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, si svolge
infatti in sintonia con il governo di Mogadiscio, mentre al momento appare impossibile
trovare interlocutori in Libia. Dunque si procederà utilizzando soprattutto i mezzi aerei, in
particolare i droni, in modo da poter compiere azioni mirate e annientare la flotta dei
trafficanti. L’operazione coinvolgerà gli Stati membri e potrebbe richiedere anche la
collaborazione di alcuni Paesi africani disponibili a cooperare con l’Europa.
Triton e Poseidon L’attività compiuta dall’alto sarà naturalmente affiancata dai
pattugliamenti marittimi. Da qui la scelta di potenziare «Triton» con ulteriori finanziamenti e
soprattutto prevedendo l’impiego di un numero maggiore di mezzi navali rispetto a quelli
attualmente schierati a 30 miglia dalle coste siciliane. La «copertura» dell’area di
intervento sarà ampliata prevedendo anche una sinergia tra «Triton» e «Poseidon»,
l’operazione svolta nel tratto di mare di fronte alla Grecia, una delle nuove rotte battute
dagli scafisti, come dimostra la tragedia di ieri di fronte a Rodi. Il timore, in vista dell’estate,
è che il massiccio afflusso di profughi provenienti dall’Africa, ma anche dal Medio Oriente
possa infatti convincere i trafficanti ad aprire nuove piste. Già nei mesi scorsi la
Capitaneria di Porto e il Servizio Immigrazione del ministero dell’Interno avevano
segnalato la presenza di numerosi mercantili nei porti della Turchia pronti a salpare e
l’arrivo dei siriani nelle scorse settimane aveva confermato la necessità di avviare subito
una trattativa con il governo di Ankara. Il negoziato ha dato al momento buoni risultati, ma
non è possibile escludere che la pressione migratoria torni a farsi sentire e dunque appare
necessario un pattugliamento più esteso.
Il trattato di Dublino
Molto importante viene giudicata dal governo italiano anche la disponibilità degli Stati
membri ad accogliere 5.000 profughi sbarcati in Italia. Si tratta di un numero irrisorio
rispetto alle 70.000 persone attualmente assistite e a quelle che presumibilmente saranno
accolte entro breve, ma il risultato politico appare evidente perché per la prima volta viene
superato — almeno nei fatti — il regolamento di Dublino secondo il quale il richiedente
asilo deve rimanere nello Stato dove ha presentato istanza fino al completamente della
procedura. Più volte era stata sollecitata, e sempre negata, una revisione dell’accordo per
consentire una circolazione più libera tra i Paesi dell’Unione. Adesso uno spiraglio sembra
aprirsi, già la prossima settimana potrebbero essere stabilite le «quote». Sempre che non
si tratti delle promesse fatte sull’onda dell’emozione che, come in passato, tali rimangono.
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Del 21/04/2015, pag. 2
Tutti i dubbi di un naufragio: in quanti sul
barcone?
I RACCONTI DEI PESCATORI: “TROPPE 900 PERSONE SU UN NATANTE DI 23
METRI”. INDAGINI SULLA KING JACOB PER SAPERE SE HA URTATO IL BATTELLO
Il capitano Vincenzo Bonomo di Mazara del Vallo ieri sera è tornato a calare le sue reti. Ci
ha provato, due notti fa, a salvare qualcuno dal mare. Ma non ci è riuscito. Ora – oltre il
profondo dispiacere – emergono anche i suoi dubbi. “Non riesco a farmene una ragione –
dice – avrei voluto salvare qualcuno”. Sono state salvate soltanto 28 persone su un totale
– secondo le cifre ufficiali, ricostruite in base alle testimonianze, sin dalle prime ore – di
circa 900 viaggiatori. “Ho molti dubbi su queste cifre”, dice il capitano, “certo tutto può
essere, ma ottocento, novecento persone, su una barca di 23 metri? Mentre viaggiavo
immaginavo tutto un altro scenario. Ma è mai possibile che su 900 persone ne abbiamo
salvate così poche? È mai possibile che il resto dei migranti fosse tutto stipato sotto? Lo
sa soltanto il cielo”. E non è l’unico dubbio nella ricostruzione dei fatti. Se davvero, come
raccontano, la barca si è ribaltata perché i migranti si sono riversati tutti sul lato più vicino
al mercantile King Jacob, il primo a prestare soccorso, dobbiamo immaginare che in
coperta il numero dei passeggeri dovesse essere piuttosto alto. La tesi investigativa,
finora, è però che tra le 700 e le 900 persone siano annegate e scomparse perché
trascinate a fondo dall’imbarcazio - ne, in quanto recluse nei “piani” infe - riori del
peschereccio. Ma se i soccorritori hanno trovato solo 28 superstiti e 24 vittime, per di più
con il mare calmo che tutti descrivono, quanta gente c’era sul ponte? E davvero in quella
stiva erano così tanti, il 90 per cento dei passeggeri? GLI ORARI.Abbiamo chiesto a che
ora è partito l’allarme per dare soccorso all’imbarcazione. Il capitano di Vascello Rosario
Capodicasa riferisce che l’al - larme è stato diramato intorno alle 23.50. La circostanza è
confermata dal capitano Bonomo: “Alle 23.50 del 18 aprile abbiamo ricevuto il messaggio,
abbiamo salpato le reti e ci siamo diretti sul posto, che dista circa 40 miglia e abbiamo
raggiunto alle 04.19, con altri cinque pescherecci e, in totale, 15 unità di soccorso, incluso
il mercantile King Jacob e la Marina Militare. Come le ho detto, però, immaginavo di
trovare uno scenario diverso. Siamo rimasti lì per ore e ore ma abbiamo trovato soltanto
giubbotti, zaini, cappellini e una grande chiazza d’olio. Il peschereccio Antonino Serrato
intorno alle 6 del mattino ha rinvenuto due cadaveri, poi altri due, è stato raccapricciante”.
E qui sorge un ulteriore interrogativo relativo alle salme. “VERSO MALTA”. Alle sei del
pomeriggio, di questo tragico 18 aprile, l’Ansa batte un lancio d’agenzia che fa il giro
d’Europa: “Una motovedetta con i corpi delle vittime del naufragio è in rotta verso Malta
dove arriverà nelle prossime ore”. È l’annuncio del premier Matteo Renzi nel corso di una
conferenza stampa a Palazzo Chigi. Il punto, però, è che il premier non ha alcuna
competenza giudiziaria e non può prendere una decisione del genere. Infatti la Guardia
costiera, che risponde al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti guidato ora da
Graziano Delrio, ha chiesto l’autorizzazione alla Procura che, come spiega il procuratore
capo Giovanni Salvi, ha dato il nullaosta. L’impressione, purtroppo, è che abbia
inconsapevolmente fornito il “nullao - sta” a una scelta politica e di immagine. Da un lato
ha evitato agli italiani le scene dell’ennesimo “funerale” sulle banchine, che avrebbe
monopolizzato i tg per giorni, dall’altro ha internazionalizzato la vicenda che –considerate
per di più la presunta cifra delle vittime –si sta imponendo nell’agenda dell’Ue anche in
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considerazione della gravità di un bilancio che oscilla tra le 700 e le 900 vittime. IL CASO
DEL 2012. Quando nel 2012 si contarono 17 cadaveri a quaranta miglia dalla costa libica,
la nave militare Grecale, dopo aver soccorso i 206 superstiti, approdò al porto di Catania.
La Procura guidata da Salvi aprì un fascicolo d’indagine e furono necessarie le autopsie
sui cadaveri. La nave Gregoretti della Marina Militare ha lasciato le 24 salme a Malta ed è
ripartita per Catania con i 28 superstiti a bordo. Ormeggia in Sicilia nella tarda serata, gli
investigatori dello Sco e della squadra mobile l'hanno raggiunta in elicottero, per
interrogare i sopravvissuti e avviare le indagini. Il medico legale dovrà invece svolgere il
suo lavoro nell’isola maltese. E non si tratta di un dettaglio: saranno necessarie le
autopsie, le relazioni alla Procura sulle cause di morte e, se possibile, indagini sull’identità
delle vittime attraverso eventuali segni di riconoscimento, documenti o altro per offrire –per
quanto sia remota –la possibilità a un familiare di riconoscerle. Un compito che, su
richiesta del governo, in questo caso sarà svolto a Malta. La King Jacob, che ora è oggetto
d'indagine perché potrebbe aver causato il rovesciamento del barcone, mentre scriviamo è
invece già ormeggiata in Libia.
Del 21/04/2015, pag. 10
Libia. Uno Stato al collasso, due governi la guerra tra le milizie: tutto
questo sta favorendo i trafficanti di uomini e donne provenienti
dall’Africa subsahariana “Senza aiuti, non possiamo far nulla per
fermare i barconi”
Misurata, tra i migranti pronti alla traversata
“Preferiamo morire che tornare in patria”
FRÉDÉRIC BOBIN
MISURATA
«PREFERISCO morire che tornare in patria». Mohammed Abdi è serissimo. Questo
giovane somalo ha sfiorato la morte e sa che peso hanno le parole. Un viso sottile
incorniciato da un cappuccio arancione, qualche ciuffo di peli sul mento, è seduto sotto il
sole ancora clemente di Misurata e si ricorda della paura che gli ha stretto la gola quando
il gommone Zodiac su cui era imbarcato ha cominciato ad andare alla deriva al largo delle
coste libiche, con il motore che non funzionava più. Era domenica 12 aprile, un mare
senza nuvole e la Sicilia così vicina: il futuro lì davanti, in fondo allo sguardo. Ma quel
gommone ormai seguiva correnti imprevedibili.
Centodieci migranti erano ammassati su quella barca, concepita per contenerne appena
un quarto. Erano tutti somali e avevano pagato 600 dollari per la traversata. «Noi somali
preferiamo restare fra di noi, per evitare risse con migranti di altri Paesi», confessa
Mohammed Abdi. Quella domenica, Abdi ci ha messo poco a capire che, con il motore
rotto, il suo sogno di raggiungere la Norvegia si era infranto. La vedetta della guardia
costiera libica è arrivata e lui ha tirato un sospiro di sollievo. Era solo il primo tentativo. Ora
eccolo qui, dentro una scuola con la facciata verde mela riconvertita in centro di
detenzione per migranti, al margine orientale di Misurata, nel cuore di questa Libia
lacerata dove si affrontano le milizie.
Mohammed Abdi non si scoraggia di fronte alle avversità, tenterà di nuovo la fortuna: «Per
me ritornare in Somalia, con la sua insicurezza e la sua povertà, non è concepibile.
Proverò di nuovo a partire per l’Europa. Preferisco morire che rinunciare…». Allora sì, se
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lo rimandano a casa, è pronto a ricominciare il suo periplo di tre mesi, «sempre nascosto»,
«imbarcato su grosse auto», senza nemmeno accorgersi dei «trafficanti che cambiano a
ogni tappa». È una corrente inarrestabile? Nella sola giornata di domenica 13 aprile i
guardiacoste di Misurata hanno intercettato 250 aspiranti emigranti diretti verso l’Europa,
in stragrande maggioranza provenienti dall’Africa subsahariana.
Con il ritorno del bel tempo nel Mediterraneo, le partenze si intensificano e le tragedie in
mare si moltiplicano. Il caos che regna lungo la costa della Tripolitania, dove si concentra il
grosso delle partenze dal Nordafrica, espone con crudezza la sfida migratoria che
rappresenta ormai per l’Europa il collasso dello Stato libico. Dopo le cifre record del 2014,
con circa 170mila migranti sbarcati in Italia, dall’inizio dell’anno la curva delle partenze è
salita vertiginosamente. «Con l’arrivo del bel tempo, in questo momento si calcola che
siano fra i 300 e i 700 i migranti che lasciano la Libia ogni giorno», dice un ufficiale di
intelligence della coalizione di milizie che controlla Misurata.
I luoghi della Tripolitania da cui salpano queste malferme imbarcazioni sono noti: Zuara,
Sabrata, Zauia, Garabulli, Homs, Zliten, punti di arrivo delle rotte meridionali che
attraversano il Sahara. E per controllarli, l’amministrazione fantasma di un Paese in guerra
oppone uno sbarramento ormai soltanto fittizio. Il tenente colonnello Tawfiq Alskir sospira.
Percorre a grandi passi i moli del porto di Misurata, di fronte a un mare liscio come l’olio.
Sul cemento sbrecciato sta steso, sgonfio, il gommone Zodiac sequestrato domenica. Si fa
fatica a immaginare che potessero starci sopra un centinaio di persone. Tre sono cadute
in acqua e sono annegate in preda all’agitazione nel momento in cui la vedetta del tenente
colonnello Alskir ha fermato l’imbarcazione.
Il vicecapo della guardia costiera sospira con la sua barba brizzolata, perché non sa più
che fare. «Non ho alcun sostegno dal governo», si lamenta. «Senza aiuti, non posso fare
nulla per lottare contro l’emigrazione illegale». Il suo arsenale si riassume in due vedette
— una a Misurata e l’altra a Homs — per i 600 chilometri di coste di sua competenza
territoriale. E la manutenzione delle imbarcazioni, a quello che ci dice, è diventata un vero
e proprio incubo da quando è scoppiata la guerra, nel 2014, e il Paese si è diviso in due
governi rivali, uno con base a Tripoli, nell’Ovest, e l’altro a Beida, nell’Est. Avevano firmato
un contratto con l’Italia per far riparare quattro vedette, ma Roma non ha ancora restituito
le imbarcazioni a causa della confusione politica che regna in Libia. Per sottolineare la sua
impotenza, il tenente colonnello Alskir si lascia sfuggire questa confidenza: «Se adesso
esco in mare, sono sicuro di incrociare una o due navi di migranti». Ma non esce così
spesso in mare, con due misere vedette per coprire 600 chilometri di costa. La cifra di 1015 imbarcazioni di migranti che lasciano la Tripolitania ogni settimana non gli sembra
«impossibile». La Libia, bomba migratoria dell’Europa? A Tripoli, dove ha sede il governo
dell’Ovest, a cui è affiliata Misurata, i funzionari invocano aiuto: «L’Europa deve farsi
carico della sua parte, la Libia non può sostenere questo fardello da sola», ha implorato il
14 aprile in una conferenza stampa a Tripoli Mohammed Abu al-Khair, il ministro del
Lavoro. Da quando le ambasciate hanno lasciato la capitale, nel 2014, per trasferirsi nella
vicina Tunisia in attesa che la crisi di legittimità fra due poteri rivali trovi una soluzione,
tutta la cooperazione internazionale sulla questione migratoria in Libia si è bloccata.
La rete diplomatica che consentiva il rimpatrio dei migranti intercettati verso i loro Paesi di
origine funziona solo al rallentatore. Le richieste ormai devono essere indirizzate da Tripoli
alle ambasciate africane rifugiate a Tunisi, e questo allunga notevolmente i tempi.
«L’ambasciata del Senegal collabora », riferisce Salah Abudabus, il direttore del centro di
detenzione di Misurata. «Ma quelle con cui è più difficile avere rapporti sono le ambasciate
di Somalia ed Eritrea». Nell’attesa, i centri di detenzione in Libia si riempiono, in condizioni
di estrema precarietà. Nell’Ovest del Paese, principale focolaio delle partenze, sono stati
arrestati dall’inizio dell’anno circa 20mila migranti. A Misurata, lo sconforto dei detenuti è
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palpabile. Uomini e donne sono ammassati, senza una separazione rigorosa, in sale
anguste dove si dorme per terra, con un po’ di coperte sparse qua e là e la biancheria
appesa ad asciugare alle finestre. Dopo le 17, la fornitura d’acqua viene interrotta. «Siamo
rinchiusi qua e non sappiamo per quanto tempo», dice con una smorfia Mohammed Abdi,
il giovane somalo. «Ci sono già tre casi psichiatrici, gente che si è messa a parlare da
sola. Ho paura di diventare pazzo, qua. Ho paura di fare una sciocchezza e che mi sparino
addosso». L’impotenza di uno Stato libico spaccato in due ha un’altra conseguenza, quella
di aprire nuovi spazi alle reti criminali che prosperano sul traffico di esseri umani. Secondo
numerosi osservatori, questi gruppi criminali stanno dando prova di un’inedita aggressività.
Al pari delle milizie che fanno la legge tutt’intorno, prendono le armi per aprirsi delle vie di
accesso lontano dai principali assi stradali, divenuti troppo aleatori. «La dotazione di armi
dei contrabbandieri è un fenomeno nuovo, da un anno a questa parte», osserva il direttore
del centro di detenzione di Misurata. In questo contesto, il timore di vedere gruppi jihadisti
saldarsi con le reti dei trafficanti non è più una semplice ipotesi, ma uno scenario che
allarma sempre di più gli europei. A Misurata, un ufficiale dell’intelligence non scarta
questa prospettiva, anche se non è in grado di fornire indicazioni tangibili. «C’è una
strategia dei jihadisti tesa a utilizzare i migranti per destabilizzare l’Europa», è il suo
parere. «Loro lavorano sul lungo periodo».
Del 21/04/2015, pag. 5
La Tortuga delle milizie
LE COSTE DELL’EX COLONIA SONO ORMAI COME IL RIFUGIO DEI
BUCANIERI
L’oro nero sotto il deserto e l’oro bianco che arranca sopra le dune. La Libia, lo “scatolone
di sabbia” d’imperiale memoria italica esporta petrolio (sempre meno) e migranti (sempre
più). Gli italiani dell’Eni sono ormai quasi i soli a continuare a pompare greggio dai
giacimenti meridionali dell’ex colonia e dalle piattaforme off shore lungo la costa,
approvvigionando di energia anche i due governi rivali: uno confinato a Tobruk a est e
quello di Tripoli . Ma il vero potere sul terreno è nelle mani delle milizie che debellarono
Gheddafi e che cercano soprattutto di allargare le loro aree di influenza, contrastando nel
contempo la propagazione dei guerriglieri islamici emanazione dell’Isis. Dalla cittadina di
Derna, in Cirenaica (est) - non lontano da Tobruk, sede del governo riconosciuto anche
dall’Italia - i movimenti islamici hanno espanso la loro influenza su Bengasi e sono arrivati
da qualche settimana nell’area di Sirte, città natale di Gheddafi cacciato e ucciso nella
rivoluzione del 2011. Misurata fu il cuore della ribellione al raìs dopo Bengasi e i suoi
miliziani cacciarono il Colonnello da Tripoli, restando a lungo in amri nella capitale per
ottenere la supremazia nei confronti delle altre bande unite solo per la guerra civile contro
la famiglia Gheddafi. Proprio tra la città- Stato di Misurata e Tripoli la zona di Garabulli ,
dalle cui spiagge partono nelle ultime settimane una parte rilevante dei barconi. Dal porto
di Misurata salpano invece i guardacoste con equipaggi formati da ex militari di Gheddafi
che tentano di intercettare i barconi entro le acque territoriali libiche, come nella missione
di pochi giorni fa nella quale venne invece bloccato un peschereccio di Mazara del Vallo
che aveva sconfinato. A OVEST DI TRIPOLI - sede del governo non riconosciuto dalla
comunità internazionale - verso il confine con la Tunisia, nelle spiagge di Zuwara e Zawia
è da lungo tempo attiva la tratta dei migranti subsahariani che attraversano il deserto. Ai
tempi di Gheddafi - quando i migranti erano già utilizzati come arma non convenzionale
38
contro l’Europa - uomini donne e bambini erano smistati nei centri di detenzione, come da
accordi sottoscritti nel trattato di amicizia tra Tripoli e Roma. Nel dopo-Gheddafi il Trattato
controfirmato per l’ultima volta tra Gheddafi e Berlusconi soltanto pochi mesi prima della
fine del raìs è carta straccia. Al suo posto vige la legge dei mercanti di uomini che hanno
abbassato i prezzi rispetto a qualche anno prima, avendo eliminato l’intermediazione di
buona parte delle forze di sicurezza, aumentando nel contempo il numero e la frequenza inversamente proporzionali alle condizioni dei natanti - dei viaggi. Dalle montagne di
Nefusa, i miliziani di al Zintan, i più agguerriti e organizzati insieme a quelli di Misurata,
controllano le rotte dall’interno verso il mare, con labili intese con trafficanti più o meno
professionali. Pacificare le milizie per ottenere un governo unitario con il quale affrontare
insieme l’emergenza, ormai cronica, dell’immigrazione: questa l’idea alla quale lavora
l’Onu, con l’inviato speciale Bernardino Leon che ha annunciato proprio ieri che il prossimo
round dei colloqui tra gruppi rivali potrebbe tenersi a Roma, dopo l’Algeria e il Marocco.
Nell’attesa i barconi continuano a prendere il mare.
Del 21/04/2015, pag. 11
Nel Mediterraneo un morto ogni 2 ore mai
così tante vittime nei naufragi
Un morto ogni due ore, questa è la media dei migranti scomparsi in mare dall’inizio
dell’anno, secondo le cifre pubblicate da Le Monde. L’Unhcr stima che dal primo gennaio
2015 siano spariti in mare 1.600 migranti sui 35mila arrivati in barca nel Sud dell’Europa.
Già 900 morti sono stati accertati dall’inizio dell’anno a oggi, ai quali ora si aggiungono i
700 spariti in mare in questi giorni, mentre nello stesso periodo del 2014 ne erano morti
90. Si tratta di 400 morti al mese e anche più, tenendo conto che aprile non è terminato. In
media, appunto, c’è un migrante che muore in acqua ogni due ore. Arrivati a un terzo
dell’anno, siamo già a circa metà dei 3.500 morti accertati nel 2014. Era già una cifra
record, comunque: quattro volte di più del 2013 e sei di più del 2012. L’Organizzazione
internazionale per le migrazioni stima poi che dal 2000 a oggi i migranti morti tentando di
raggiungere l’Europa, quasi tutti via mare, siano stati 22mila.
Del 21/04/2015, pag. 13
Né accolti né espulsi i 70 mila “inesistenti”
nelle strade italiane
Suleiman dorme a Termini, è arrivato 16 mesi fa Tanti come lui nel limbo
dopo il no alla richiesta d’asilo
Suleiman Kindo ha 33 anni, vive in Italia da sedici mesi ma per il nostro Paese non esiste.
Lo Stato ha speso per lui un anno di assistenza in un centro per richiedenti asilo, la
Commissione competente ha esaminato la sua pratica, ha bocciato la sua richiesta di asilo
e ora lui non esiste. Durante il giorno vaga tra mense e strade, di sera dorme alla stazione
Termini. Come spiega Suleiman: «Mi trovi al binario uno». Lo chiama così ma è il
marciapiede di via Marsala che dopo il tramonto si trasforma in una distesa di coperte,
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cartoni e persone. Anche Suleiman prende la sua coperta e i suoi cartoni, li tiene nello
spazio tra il palo di un segnale stradale e il muro, cerca un pezzo di marciapiede libero,
apre il cartone e la coperta, prende un libro di italiano e si stende lì a studiare prima di
dormire.
Cartone e coperta
Quelli come Suleiman sono gli «inesistenti», persone che non hanno più assistenza, diritti,
che per l’Italia non esistono più. Dopo il rifiuto possono fare ricorso, anche Suleiman ci ha
provato, non aveva soldi per pagare un vero avvocato, si è fidato di un amico di un amico,
ha perso il ricorso. E ora? «Farò un secondo ricorso», risponde. E così tutti, restando
«sospesi in un limbo» come denuncia Aboubakar Soumahoro, responsabile immigrazione
dell’Usb. È il limbo degli inesistenti, un popolo abbandonato a se stesso che bivacca fuori
e dentro le stazioni e ovunque ci sia uno spazio per sistemare un cartone e una coperta e
dormire al sicuro. È una popolazione in rapida crescita soprattutto da quando sono in
aumento gli invii di carrette e gommoni dalla Libia carichi di persone dell’Africa
subsahariana. Suleiman ha iniziato il suo viaggio molti anni fa dal Burkina Faso, in tanti
fuggono dal Mali, Gambia, Guinea, Sierra Leone. «Sono Paesi in guerra ma le
commissioni non ne tengono conto e rifiutano le loro richieste di asilo», spiega Aboubakar
Soumahoro. Secondo l’ultimo rapporto del ministero dell’Interno negli ultimi tre mesi il
50% delle domande presentate hanno ottenuto una risposta negativa. A dicembre 2014,
sulle 2.805 domande esaminate, i dinieghi sono stati pari al 48% (1.349 casi). Identica
situazione a gennaio 2015 (1.190 rigetti su 2.503 domande) e a febbraio (1.609 su un
totale di 3.301). Cifre molto più alte rispetto a quelle del 2013, quando solo il 29% delle
domande aveva avuto risposta negativa.
Numeri in crescita
A questo ritmo si stima che il numero di inesistenti possa arrivare a circa 35mila persone
entro la fine del 2015, che andrebbero ad aggiungersi ad altre decine di migliaia di
persone che si sono viste rifiutare la richiesta di asilo negli anni scorsi raggiungendo la
cifra di 70mila anime sospese, che a volte non possono tornare non per loro volontà. I
migranti in arrivo dal Mali, per esempio, si vedono quasi sempre bocciare la richiesta
perché per le Commissioni competenti sono fuggiti da un Paese ormai «in via di
normalizzazione» ma una circolare del ministero dell’Interno del gennaio 2014 ha bloccato
i rimpatri perché la situazione non è per nulla tranquilla.
Piccolezze della burocrazia italiana, sciocchezze per quelli come Suleiman o i migranti
maliani e degli altri africani: prima di diventare degli «inesistenti» in Italia, quelli come loro
sono innanzitutto dei sopravvissuti alla traversata dalla Libia a Lampedusa.
Del 21/04/2015, pag. 1-2
“Nero, maschio. Documenti: nessuno”
Nell’obitorio dei morti senza nome
FABIO TONACCI
DAL NOSTRO INVIATO
CI SONO morti più fortunati di altri, in questa storia. Fortunati, sì. Perché almeno hanno
ancora una speranza di essere qualcuno, dopo che il Mediterraneo li ha uccisi e ha
cancellato la loro identità. Qualcuno con un nome e un cognome, una famiglia da qualche
parte nel mondo, una faccia su una tomba. E quella speranza ce l’hanno legata al polso.
“Corpo numero 113”, c’è scritto sul braccialetto bianco di questa salma, che i medici
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dell’obitorio dell’ospedale “Mater Dei” di Malta stanno trasportando su un carrello per
l’ispezione esterna. Lo stesso numero è sull’etichetta adesiva incollata al sacco in cui è
avvolto il cadavere. Quel numero è tutto quello che gli resta. Sarà associato a una fialetta
di sangue, che verrà prelevata nelle prossime ore per fare i confronti del dna con i familiari
che avranno la forza di venire fino qui a cercare i fratelli e i figli che non hanno più. Non
deve ripetersi un’altra Lampedusa, la strage degli sconosciuti rimasti tali.
Sono arrivati 24 cadaveri, ieri mattina. La nave italiana Gregoretti li ha trasportati dal luogo
del naufragio fino al porto di Isla, a La Valletta. Erano dentro sacchi neri, sistemati uno
accanto all’altro in un angolo del ponte. Pochi metri più in là c’erano i 28 superstiti. Seduti
per terra, hanno visto tutto. In silenzio. Hanno visto i loro compagni di viaggio mentre
venivano adagiati sulla banchina, li hanno visti avvolgere in un altro sacco, questa volta di
colore bianco. Li hanno visti, per l’ultima volta, mentre i carri funebri li portavano via dentro
bare provvisorie di metallo zincato.
Sono le vittime del barcone che si è rovesciato, le poche che i soccorritori hanno strappato
agli abissi. Tutte le altre sono in fondo al Canale di Sicilia, a centinaia di metri di
profondità. Chissà quante persone ci sono veramente laggiù, statue di sale che nessuno
andrà mai a recuperare. Destinate all’oblio più profondo.
«Corpo numero 113», dice ad alta voce David Grima, il responsabile della camera
morturaria, un edificio squadrato di mattoni gialli. David è imbalsamato in due strati di tuta
protettiva di nylon, ha una maschera alla bocca, la testa e le scarpe coperti da quelli che
sembrano sacchetti di plastica. Gira attorno al carrello su cui è adagiato un uomo.
«Maschio, adulto, età compresa probabilmente tra i 20 e i 30 anni», scrive. «Occhi neri,
capelli neri, barba nera e corta. Colore della pelle: nera. Tatuaggi: nessuno. Segni
particolari: nessuno. Documenti: nessuno. Vestito con pantaloni neri e camicia rossa,
senza scarpe. Probabilmente, subsahariano ». Non si va oltre a questo. «Probabilmente
subsahariano» è tutto quello che si riesce a dire di quest’uomo morto. Il corpo è in buone
condizioni, non è gonfio d’acqua. Ma la faccia è rugosa, quasi espressiva. «Come se
stesse dormendo e avesse un incubo», commenta Tessie, una delle addette alla pulizia
dell’obitorio. L’ispezione esterna dura venti minuti in tutto, poi il cadavere viene riportato
nella “fridge room”, una stanza fredda (10 gradi al massimo) di una quarantina di metri
quadrati, con tre finestre, una luce bluastra, tre file di cassetti frigo da cui appaiono e
scompaiono, su lettini scorrevoli, i sacchi con i cadaveri. La Morturary dell’ospedale ne
può ospitare 65. Per adesso ne sono stati occupati 44 e 24 sono i naufraghi senza nome
del peschereccio. Cominciano a ispezionarli alle 13.05. Attorno a ogni corpo lavorano sei
medici: David Grima, che coordina le operazioni, poi l’ematologo, il “dissezionatore”, gli
assistenti. La procedura è sempre uguale, meccanica, asettica. In due aprono la cella frigo
e sollevano il sacco. Lo mettono sul carrello, lo spingono per una trentina di metri lungo il
corridoio fino alla stanza delle autopsie. Quelle saranno eseguite dopo che il magistrato
maltese avrà dato l’autorizzazione. Per ora si procede solo alla analisi sommaria: ogni
cadavere va numerato, descritto, schedato. «Corpo numero 114: maschio, adulto, età
compresa probabilmente tra 22 e 28 anni. Tatuaggi: nessuno. Documenti: una foto nella
tasca dei pantaloni». Chi è quella donna nella foto? Forse una fidanzata, forse la mamma
che ha lasciato in Eritrea, o in Somalia, o in Nigeria. «Probabilmente subsahariano». Non
si sa niente di questi disperati. Vengono chiamati ora migranti, ora profughi, ora
clandestini. Ma che storia abbiano, nessuno lo sa.
I 24 del naufragio sono tutti uomini. Non ci sono donne. Tutti hanno ancora i vestiti
addosso. «Sono giovani — dice Tessie — non credo ci sia qualcuno con più di trent’anni».
Dal frigo spunta un sacco meno gonfio, dentro c’è un ragazzo. Non un bambino, avrà 1617 anni. «Nero. Segni particolari: nessuno. Probabilmente adolescente», recita la sua
scheda. Forse è quello che è stato trovato dai soccorritori con la faccia riversa nella nafta.
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Le ispezioni durano fino alle 18 di sera. «Corpo numero 124...», «Corpo numero 125...»,
non c’è tregua. Fuori, nella cappella accanto all’obitorio, i maltesi hanno portato per
solidarietà 13 mazzi di fiori, così come aveva chiesto il direttore dell’ospedale. «Per i non
identificati — recita un biglietto, firmato Mizzie il Kalkhara — possiate vivere per sempre in
paradiso». Le schede sono tutte compilate, i cadaveri rimessi nelle celle frigo. I medici
hanno trovato pezzi di carta macerati con delle scritte sopra e delle piccole foto. «Ma non
ci dicono niente sull’identità di chi li aveva in tasca o negli indumenti ». Dopo l’autopsia i
migranti potranno ricevere una cerimonia funebre a rito congiunto, che sarà celebrata da
un imam e dal vescovo di Malta. Poi saranno seppelliti nel cimitero comunale
Dell’Addolorata. Di loro rimarrà una scheda e una fialetta di sangue. E una tomba con un
numero, che prima o poi, forse, diventerà un nome e un cognome.
Del 21/04/2015, pag. 1-4
Quelle mani tese sulla zattera dei disperati a
un metro da terra
GAD LERNER
SONO QUASI arrivati, hanno visto morire i loro compagni, il terrore è quel mare che
continua a frustarli anche adesso che la riva è lì, a pochi metri. Sono gli uomini nuovi che
stanno cambiando non solo la storia ma anche la geografia del Mediterraneo. Molti di loro
non avevano mai visto prima il mare. Lo temono. Non sanno nuotare. Basta uno spruzzo a
spaventarli. Fra gli scogli della spiaggia di Zephiros, a Rodi, i soccorritori gli urlano di
mollare quelle inutili assi di legno in cui s’è frantumato il barcone e di muovere finalmente i
pochi passi che mancano per raggiungere la terraferma. Ma la schiuma delle onde li
paralizza. Sono poco più di una dozzina, un paio di loro indossa un giubbotto salvagente
ma è come se fossero nudi. Il video sembra restituire l’immagine della “Zattera della
Medusa” di Géricault. Nel filmato, confuse dal frangersi delle onde sugli scogli, si sentono
le parole di un soccorritore, si vedono le sue mani tese, un gesto di incoraggiamento:
«Venite, venite...». Pochi metri ma per quell’umanità un abisso. Si lasciano scivolare di
qualche centimetro, si fermano, tornano indietro, puntano disperatamente i piedi su una
superficie che non li trattiene e li fa precipitare di nuovo verso l’acqua. Attorno a loro
galleggiano pezzi di plastica, una maglietta, inutili salvagenti. Bisogna raccoglierli uno a
uno, frantumi anch’essi di un moto d’umanità impossibilitato a fermarsi. La paura ce
l’hanno dentro da troppo tempo, da vite intere, perché possa bastare l’incognita visione del
mare ad arrestarli. Sono denutriti e disidratati, ma hanno unghie forti. Si aggrappano e non
mollano la presa. Papa Francesco, che riveste l’incarico di parlare a tutti noi dubbiosi, ha
sentito il bisogno di precisarlo perché sa che, in cuor nostro, non è affatto scontato: «Sono
uomini e donne come noi». Davvero? Quegli scheletri dalla pelle scura che per secoli il
senso comune relegava alla condizione di selvaggi, sul bordo del regno animale, saranno i
nostri nuovi vicini di casa? Francesco osa di più. Li definisce «nostri fratelli». Cercatori di
felicità. A dire il vero quelli che arrivano in Grecia, allargando il fronte dell’esodo da ovest a
est, dalla Libia alla Turchia come basi di partenza, hanno più spesso la carnagione
olivastra dei mediorientali: da sola la guerra siriana ha prodotto più di quattro milioni di
profughi, fra i quali intere famiglie della classe media in grado di gonfiare coi loro risparmi
le tasche dei trafficanti. Niente di più ragionevole, per loro, che tentare l’azzardo di una
traversata. Se anche le più efficienti flotte militari dell’emisfero nord, schierate a raggiera
lungo l’intera sponda meridionale del Mediterraneo, si prefiggessero lo scopo di arrestarne
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il flusso con un blocco navale, così moltiplicando il numero dei morti senza nome,
resterebbe impossibile fermarli. Stanno arrivando, inermi e con intenzioni pacifiche, nei
luoghi delle nostre vacanze estive. L’ecatombe in corso non basterà a sbarazzarcene. La
soluzione-tampone di sparare agli scafisti, ipotizzata già quindici anni fa quando partivano
dall’Albania e traversavano l’Adriatico, non corrisponde alla dimensione epocale del
rivolgimento planetario in corso. Nel suo linguaggio semplice, è stato sempre Francesco,
pochi giorni fa, ricordando gli eventi del 1915, a parlare di genocidio. Ebbene, l’Europa
contemporanea, afflitta dal rapido impoverimento dei suoi paesi rivieraschi, si trova di
nuovo a fronteggiare la possibilità di un genocidio, come dimostrano le cifre dei morti e gli
sguardi dei sopravvissuti.
Chi scampa alla traversata, chi viene raccolto in mezzo al mare dai mercantili e dalle
motovedette, reca a noi questa inoppugnabile testimonianza. Poco importa che si siano
ammassati a bordo dei gommoni e dei pescherecci di loro spontanea volontà, dopo
essersi svuotati le tasche. La loro condizione umana è in tutto e per tutto simile a quella
dei deportati nel cuore dell’Europa settanta anni fa, stipati su carri merci blindati. Identico è
l’andare verso l’ignoto, denudati, separati a casaccio dai familiari, umiliati come
sottouomini. L’unica differenza è che sta diventando impossibile fingere di non vederli.
Non un vescovo, ma una donna laica come Emma Bonino, lo ha detto ieri: l’Europa che ha
innalzato il suo “mai più” dopo aver sopportato l’orrore dei forni crematori, finora non ha
fatto nulla per impedire l’orrore dei forni liquidi. Pur disponendo di tutte le tecnologie e i
mezzi tecnici necessari a monitorare i lager di raccolta dei profughi, i porti di partenza dei
barconi e le loro rotte di navigazione, l’Ue con Triton ha dato ordine ai suoi militari di
limitarsi al presidio della cosiddetta area Schengen: azione circoscritta non oltre i 30
chilometri dalle nostre coste. Una decisione subita con imbarazzo dalla Marina Militare
italiana, tanto più che dal Viminale veniva giustificata asserendo che i 9 milioni al mese di
Mare Nostrum — 300mila euro al giorno — sarebbero una cifra eccessiva.
Così siamo giunti alla situazione odierna. Il cinismo dei governanti e l’indifferenza delle
opinioni pubbliche si sono confermati palliativi inefficaci di un’Unione Europea rattrappita in
una visione miope dei suoi interessi. Ancora oggi i responsabili politici esitano a utilizzare
una parola che loro stessi hanno contribuito a rendere impopolare: accoglienza. La bontà
e la cattiveria qui non c’entrano un fico secco. Si tratta di gestire con realismo un flusso
migratorio provocato da guerre sfuggite al nostro controllo, cercando di prevenire la
saldatura (in parte già avvenuta) fra i trafficanti che monopolizzano la navigazione
marittima e i jihadisti che presidiano porzioni crescenti di terraferma.
Eppure ce n’erano, di opportunità d’azione tempestiva. Istituire presidi per l’identificazione
e lo smistamento dei profughi già nei loro primi luoghi di transito. Condividere tra gli Stati
membri l’accoglimento delle richieste d’asilo, in deroga agli accordi di Dublino. Garantire
un servizio di traghetti e voli charter. Forse si fa ancora in tempo.
Poveri europei messi al cospetto di una povertà assoluta. Trascinati in una sorta di guerra
del mare che miete vittime a migliaia e che invano si vorrebbe poter ignorare. Però loro
arrivano, e quando ci protendono le braccia da una zattera in mezzo a quel mare non c’è
altro gesto d’umanità possibile che protendere verso di loro le nostre braccia. Non c’è altra
salvezza che una salvezza comune. Trasformando i sommersi in salvati.
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Del 21/04/2015, pag. 2
Lavoro e imprese: cresce il ruolo degli
immigrati nella Ue
In Italia lo scorso anno +111mila occupati dall’estero
Tra il 2009 e il 2014 le aziende cresciute del 21,3%
Gli immigrati hanno rivoluzionato il mercato del lavoro con un impatto di proporzioni
enormi. Ma oggi c’è ancora spazio per loro? E, soprattutto, la “finestra” di opportunità e la
crescita del Pil in Europa riservano posti anche per i lavoratori provenienti dall’estero?
Partiamo da due numeri: negli ultimi dieci anni, secondo l’Ocse, gli immigrati hanno
coperto il 70% dell’incremento dei posti di lavoro in Europa e il 47% negli Stati Uniti.
Dall’assistenza familiare all’edilizia, dalle imprese manifatturiere ai servizi, gli immigrati
hanno riempito importanti nicchie del mercato del lavoro, soprattutto in Europa, e hanno
creato nuove piccole imprese. Gli immigrati giovani, così come i giovani dei Paesi
ospitanti, hanno un’educazione scolastica più elevata di quella dei lavoratori vicini alla
pensione. Flessibili, per necessità, hanno contribuito e agevolato la flessibilità del mercato
del lavoro, soprattutto in Europa.
Il dibattito di questi mesi ruota prevalentemente sul fenomeno drammatico degli sbarchi,
portando spesso l’opinione pubblica a identificare “immigrati” e “profughi” come sinonimi.
In realtà, i migranti sbarcati sulle nostre coste nell’ultimo anno (170mila) rappresentano il
3% della popolazione straniera residente regolarmente in Italia (circa 5 milioni). «La
componente immigrata, nonostante la crisi, ha mantenuto un tasso di occupazione
superiore rispetto alla popolazione italiana – sottolineano alla Fondazione Leone Moressa
-. Questo fenomeno, dovuto principalmente alla struttura demografica della popolazione
straniera (più giovane, e quindi in età lavorativa), ha un impatto diretto sul nostro sistema
economico. I 2,3 milioni di occupati non italiani, infatti, contribuiscono alla produzione di
circa 123 miliardi di euro di valore aggiunto, ovvero l’8,8% della ricchezza nazionale
complessiva. Nel 2014, a fronte di un calo degli occupati italiani (-23 mila unità), si è
registrato un aumento degli occupati dall’estero (+111 mila). Allo stesso modo, il tasso di
disoccupazione relativo agli italiani ha continuato a salire (+0,6%), mentre quello degli
stranieri ha mostrato segni di diminuzione (-0,4%)».
Un altro contributo significativo all’economia italiana arriva dagli imprenditori stranieri. Gli
imprenditori nati all’estero attivi in Italia alla fine del 2014 sono oltre 632 mila, pari all’8,3%
del totale. «Nel periodo della crisi (2009-2014) in tutte le regioni c’è stato un aumento, che
coincide con il calo degli imprenditori italiani. A livello nazionale, gli imprenditori stranieri
sono aumentati del 21,3%, mentre gli italiani sono diminuiti del 6,9%».
Secondo i ricercatori della Fondazione Leone Moressa «i dati dimostrano il ruolo dei
lavoratori stranieri nel sistema produttivo nazionale. Nell’ultimo anno gli occupati stranieri
sono 2,3 milioni, in aumento del 5% rispetto all’anno precedente, e producono circa l’8%
del Pil. Gli occupati stranieri rappresentano circa il 10% dei lavoratori in Italia: nonostante
l’emergenza sbarchi, la componente straniera è fondamentale per l’economia italiana e
rappresenta un’opportunità di rilancio per l’intero sistema economico».
E in Europa ci sarà ancora posto, anche in uno scenario di medio periodo?
«Apparentemente potrebbe esserci - spiega Giancarlo Blangiardo, docente di Demografia
all’Università Bicocca di Milano ed esperto della Fondazione Ismu -. Da qui al 2030, cioè
tra 15 anni, secondo le previsioni Eurostat ci sarebbe infatti, in assenza di migrazioni, un
calo della popolazione in età lavorativa nell’ordine di quasi 20 milioni di unità. Un calo che
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potrebbe tuttavia dimezzarsi se si tiene conto dei flussi migratori previsti da Eurostat
secondo le tendenze del recente passato».
Altre stime della Commissione Ue mostrano che tra il 2013 e il 2025 vi sarà una
sostanziale stabilità (solo 3 milioni di crescita), ma soprattutto mettono in rilievo un
riassestamento qualitativo che privilegia i livelli professisonali alti (+21 milioni) a scapito di
quelli medi (-5 milioni) e soprattutto bassi (-13 milioni): «Si accredita uno scenario che
lascia poco spazio a un’immigrazione scarsamente qualificata come è, verosimilmente,
quella potenzialmente spinta a emigrare da un’Africa sub-sahariana - prosegue Blangiardo
-. Anche l’Italia verrebbe caratterizzata, pur a totale di forza lavoro invariato, da uno
spostamento verso qualifiche più alte (+3 milioni compensato da un identico calo per la
qualifiche più basse), ma forse da noi ci saranno ancora possibilità di espansione almeno
nel lavoro domestico, dove l’invecchiamento della popolazione farà da spinta propulsiva.»
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 21/04/2015, pag. 42
La Germania in forze a Torino per lanciare se
stessa (e gli altri)
Il Salone del Libro
Via il 13 maggio con un’edizione dedicata al mondo tedesco. Scoperte e
riproposte. Berlino resta cruciale per promuovere anche letterature
diverse dai Balcani alla Cina
Sarà Giovanni Di Lorenzo, direttore della «Zeit», a tenere, mercoledì 13 maggio, il
discorso di introduzione del Salone di Torino 2015 a nome della Germania che quest’anno
è ospite d’onore. Il giorno dopo, Claudio Magris pronuncerà la lectio magistralis . In
omaggio alla Germania, sul manifesto (il fotomontaggio propone un Grand Tour nelle
nuove meraviglie d’Italia: moda, cinema, cucina) campeggia Goethe, nel ritratto famoso
che gli fece l’amico pittore Tischbein a Roma nel 1786-87. Una presenza numericamente
significativa (più di venti autori tedeschi, una quarantina di editori rappresentati) e folta di
nomi importanti, coordinata dall’Ufficio progetti internazionali della Fiera del libro di
Francoforte con la collaborazione del Goethe Institut di Torino.
«Una macchina di perfetta efficienza, come la Mercedes» commenta il direttore editoriale
del Salone, Ernesto Ferrero. Ma anche Torino ha per l’occasione dimostrato doti
analoghe, con il fitto programma di avvicinamento alla settimana tedesca del Lingotto —
musica, letteratura, scienze, cinema — che per quattro mesi dall’inizio dell’anno ha
allestito un’offerta culturale imponente, a cui la città ha risposto con grande
partecipazione.
Pagine sopra la città
In previsione del Salone, gli editori italiani propongono una cospicua offerta di libri tedeschi
in traduzione (alcuni freschi di stampa, altri usciti da pochi mesi), e tutti gli autori presenti
avranno i loro titoli disponibili in italiano. Un dato eccezionale, soprattutto per questi tempi
di crisi, e tenuto conto del fatto che da molti anni gli editori italiani acquistano libri tedeschi
in misura assai modesta. Saranno, gli scrittori tedeschi, protagonisti di una trentina di
incontri, mentre gli editori presenti parteciperanno a dibattiti sulle trasformazioni del
mercato del libro. Presenti a Torino due famosi disegnatori di libri per ragazzi, Axel
Scheffler ( Il Gruffalò , EL) e Nadia Budde, a cui il Goethe Institut dedica una mostra fino al
30 maggio. Il graphic novel è rappresentato da Isabel Kreitz (in Italia, Black Velvet). Tre gli
autori del genere Krimi (poliziesco), che ne rispecchiano le diverse sfumature: il thriller
internazionale, con Frank Schätzing ( Breaking News , Nord); lo psico-thriller, Sebastian
Fitzek ( Noah , Einaudi); il giallo tradizionale, Friedrich Ani, «il Simenon di Monaco di
Baviera» (inaugura la collana Gialli tedeschi nei libri di carta Emons). La letteratura che
torna a interrogarsi sulle tragedie del Novecento com-prende la memoria dell’Olocausto di
Katja Petrovskaja (gli orrori delle SS a Kiev: Forse Esther , Adelphi) e di Jennifer Teege
(figlia di un nigeriano e una tedesca, scopre di essere nipote del comandante di un Lager:
Amon, mio nonno mi avrebbe ucciso , Piemme). Volker Weidermann racconta, in forma di
romanzo, l’estate del 1936, quando sulle spiagge di Ostenda s’incontrarono Joseph Roth,
Stefan Zweig e Irmgard Keun, tre scrittori i cui libri erano finiti nei roghi nazisti ( L’estate di
un’amicizia , Neri Pozza). Ulrike Edschmid, invece, ambienta la sua storia negli Anni di
piombo: Philip, il marito della protagonista, si associa ai gruppi di guerriglia clandestina (
La scomparsa di Philp S. , e/o). Due gli esponenti della Wendeliteratur , la letteratura della
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fine della Germania divisa: Lutz Seiler, vincitore del Deutscher Buchpreis 2014, ci porta su
un’isola del Mare del Nord nell’estate prima della Caduta del Muro ( Kruso , Del Vecchio);
David Wagner (già tradotto da Fazi, Il corpo della vita ), è a Torino con il nuovo libro sui
diversi modi di crescere a Berlino, di qua e di là del Muro.
Due pensatori rappresentano la filosofia tedesca: Peter Sloterdijk (di cui Cortina sta
traducendo la trilogia Sfere ) e Markus Gabriel ( Perché il mondo non esiste , Bompiani).
Nella saggistica, si spazia dal massimo egittologo tedesco, Jan Assman (da Adelphi esce
La distinzione mosaica ), al giornalismo d’inchiesta di Günter Wallraf ( Germania anni
Dieci , L’Orma). Molto atteso l’incontro con Wolfgang Streek ( Tempo guadagnato. La crisi
rinviata del capitalismo democratico , Feltrinelli), il sociologo che ha descritto la crisi della
democrazia nell’era del capitalismo neoliberista.
Infine, i romanzi veri e propri. I due nomi più celebrati sono quelli di Daniel Kehlmann ( La
misura del mondo e ora il nuovo F ) e di Ingo Schulze ( Semplici storie , Arance e angeli.
Bozzetti italiani ), entrambi Feltrinelli. Nell’autobiografico Quando tutto tornerà a essere
come non è mai stato , Joachim Meyerhoff racconta la sua infanzia di figlio del direttore di
un ospedale psichiatrico (Marsilio). L’austriaco Robert Seethaler, Libro dell’anno 2014,
propone la vita dell’orfano Andreas, cresciuto fra le montagne e incapace di venire a patti
con la modernità ( Una vita intera , Neri Pozza). Con Stephanie de Velasco e Monika
Zeiner abbiamo due debuttanti: la prima ( Latte di tigre , Bompiani) descrive la vita
spericolata di due ragazzine nella Berlino multikulti , tra alcool, amicizie e amori senza lieto
fine. L’altra invece ( L’ordinamento delle stelle , Keller) s’immagina un triangolo tipo Jules
e Jim : due amici, una donna, la musica e a far da sfondo agli amori e ai tradimenti ci sarà
l’Italia.
Questione di diritti
Confortata da un buon andamento del mercato (dopo anni di alterni risultati, a dicembre
2014 era in passivo, ma nel marzo di quest’anno la vendita di libri ha segnato un forte
aumento), l’editoria tedesca mantiene un carattere di grande solidità.
Merito di un altissimo profilo professionale, dice Barbara Griffini dell’agenzia Berla &
Griffini che rappresenta per l’Italia circa 25 marchi editoriali, tra cui Piper, Suhrkamp,
Random House, KiWi, Rowohlt, Fischer. Per questo «diversi autori di altre nazionalità e
altri Paesi affidano i diritti delle loro opere a case editrici tedesche, che poi le diffondono in
tutto il mondo. Spesso questi autori scrivono nella loro lingua d’origine, ma vengono poi
lanciati a livello internazionale una volta pubblicati in traduzione tedesca. Ci sono tre premi
Nobel, due per la Letteratura, Herta Müller (romena di lingua tedesca) e Imre Kertész
(ungherese) e Liu Xiaobo (cinese), per la Pace. Così avviene per gli ungheresi Péter
Esterházy e Péter Nádas, il bosniaco Saša Stanišic, i russi Viktor Erofeev, Andrej Kurkov,
Jurij Andruchovyc. Anche i diritti internazionali del greco Petros Markaris sono
rappresentati dall’editore Diogenes di Zurigo».
Fuorisalone
La lista dei libri tedeschi che arrivano in libreria non si esaurisce con i titoli del Salone:
Mondadori pubblica il nuovo romanzo di Uwe Timm, La volatilità dell’amore , Bompiani
traduce Tutto su Sally dell’austriaco Arno Geiger, da Sperling & Kupfer esce Una
casa sul Mare del Nord di Nina George, e Giunti propone il thriller di Karen Sander Muori
con me . Particolarmente attivo, il giovane editore di Rovereto Roberto Keller manda in
libreria Tutti i russi amano le betulle , scritto in tedesco dall’azera Olga Grjasnowa e La
frontiera dei cani , il bellissimo reportage di Marie-Luise Scherer, scritto all’indomani della
caduta del Muro, sui cani lupo che sorvegliavano il confine della Ddr. Per quanto riguarda i
classici moderni, Einaudi raccoglie tutto il teatro dell’austriaco Thomas Bernhard; da
Quodlibet, in più volumi, è annunziato tutto il teatro del suo connazionale Peter Handke.
Da parte tedesca, comunque, non si è da meno: a quarant’anni dalla prima edizione
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italiana, Fischer pubblica la traduzione di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, e dall’editore
zu Klampen! escono i diari di prigionia, 1918, di Gadda e di Bonaventura Tecchi.
SCUOLA
Del 21/04/2015, pag. 8
Renzi tira dritto: «La riforma ve la spiego io»
Scuola . Il premier scriverà una lettera a tutti gli insegnanti. Attacco ai
sindacati: «Lo sciopero? Fa ridere, se non fosse triste». Riunione Pd al
Nazareno: no a modifiche di Fassina e tempi stretti
Roberto Ciccarelli
Renzi si è detto stupito. I motivi dello sciopero generale indetto dai sindacati della scuola
Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals e Gilda per martedì 5 maggio sarebbero «incomprensibili» a suo avviso. «Mi fa ridere, se non fosse una cosa triste, il fatto che si proponga
di scioperare contro un governo che sta assumendo 100mila insegnanti. Il più grande investimento fatto da un governo nella scuola italiana», ha ribadito ieri su radio Rtl 102.5.
Il disegno di legge n. 2994, detto anche «Buona scuola», viene così descritto dal Presidente del Consiglio: «Diamo più soldi agli insegnanti con la carta sulla formazione, più
soldi per l’edilizia scolastica. Ma in cambio di questo chiediamo qualche modifica al
sistema organizzativo della scuola, con un po’ meno burocrazia. Non mi si dica che si fa
sciopero contro il primo governo che elimina i precari dalla scuola. Se fanno sciopero contro di noi che abbiamo fatto queste cose, contro quelli di prima che non facevano niente,
che fanno?», ha concluso il premier. Ad esempio uno sciopero generale contro la riforma
Gelmini, datato 2008, l’ultima volta che i sindacati maggiori della scuola sono scesi in
piazza in maniera unitaria. La strategia di Renzi è contrapporre famiglie e studenti ai sindacati che «hanno paura che gli portiamo via il diritto di decidere come vogliono». Su questa base ha promesso un’«intensa campagna di comunicazione» per dimostrare che la
trasformazione del preside in manager con potere di assumere, attribuire meriti e aumentare gli stipendi ai 100.701 docenti precari assunti a settembre è un «progetto rivoluzionario», non una norma anti-costituzionale. Una campagna che — si scopre dopo la riunione
pomeridiana al Nazareno del Pd — avrà al centro una lettera che Renzi scriverà a tutti
i docenti italiani per illustrare loro la riforma.
«Si può ben comprendere come gli serva una campagna di comunicazione – ironizza
Francesco Scrima (Cisl scuola) — le versioni che ne ha proposto sono diverse, spesso
stravaganti». Il governo, conviene ricordarlo, che è stato già sconfitto in occasione della
consultazione online sulla «Buona scuola». Per l’esecutivo, e per il Pd, si è trattato di uno
smacco. Il 60% dei docenti ha respinto la «riforma meritocratica che aboliva gli scatti stipendiali basati sull’anzianità a favore degli «scatti di competenza». Un risultato che ha
costretto il governo a fare marcia indietro. Oggi la protesta si rivolge contro l’altro pilastro
di una riforma aziendalista e autoritaria — il preside-manager e la chiamata diretta dei
docenti — destinata a modificare definitivamente l’ispirazione pubblica dell’istruzione,
completando l’autonomia voluta dal centro-sinistra di Luigi Berlinguer sin dal 2000. La
mobilitazione sembra davvero generale. Il 24 aprile scioperano Anief, Unicobas e Usb. La
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Cub rilancia l’astensione contro le prove Invalsi del 5, 6 e 12. I Cobas confermano lo sciopero del 6 maggio. Gli studenti dell’Uds saranno in piazza il 5 insieme a Link e Rete della
Conoscenza e boicotterrano i test Invalsi il 12 maggio e contribuiranno al blocco degli
scrutini. I sindacati non contestano le assunzioni, ma la loro modalità, la quantità e il
sistema in cui i docenti verranno a trovarsi una volta assunti. I sindacati di base chiedono
anche il ritiro del Ddl. La piattaforma dello sciopero prevede lo stralcio delle assunzioni dei
precari dal Ddl, emendamenti radicali al provvedimento; la cancellazione dell’articolo 12
del Ddl che vieta le supplenze oltre i 36 mesi come richiesto dalla Corte di giustizia Ue
e dunque il licenziamento di questi docenti. La riforma, con ogni probabilità. passerà. Bisognerà però vedere come. Molto dipende dai 1800 emendamenti (Forza Italia: 250, Cinque
Stelle: 650; Sel 200; Pd: 150 tra gli altri). E, forse, dal dibattito nel Pd. Su questo la riunione di ieri pomeriggio sembra aver cambiato poco. Nonostante l’impegno di Stefano
Fassina, presente alla manifestazione dei sindacati di sabato, il Pd va avanti: niente emendamenti sostanziali e approvazione nei tempi ipotizzati (prima lettura alla Camera entro il
10 maggio, poi esame al Senato e terza lettura a Montecitorio in tempi brevi). Possibile
invece una modifica ai nuovi poteri del preside, che potrebbero essere mitigati con un
ruolo più forte del Consiglio di istituto. Al preside, sottolineano fonti Pd, sarebbe comunque
lasciata la possibilità di assumere decisioni organizzative.
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