RASSEGNA STAMPA
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RASSEGNA STAMPA Martedì 21 aprile 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE 2 L’ARCI SUI MEDIA Da il manifesto del 21/04/15, pag. 3 A Roma sit-in e flash mob a Montecitorio, dalle 17,00 In una settimana più di mille morti in due stragi annunciate (...) che hanno responsabilità precise: le scelte politiche e le leggi dei governi dell’Ue (compreso quello italiano) che consegnano le persone in cerca di protezione nelle mani dei mercanti di morte. Aumentando controlli e mezzi per pattugliare le frontiere non si fermeranno le stragi, come dimostra quest’ultima tragedia con più di 900 morti, a poche ore da quella che ha portato a morire altre 400 persone. Chi scappa per salvare la propria vita e quella dei suoi cari non si ferma davanti al rischio di morire in mare. Non c’è più tempo da perdere. Si aprano subito (...) canali umanitari, unico modo per evitare i viaggi della morte. Il governo italiano (...) riattivi subito un programma di ricerca e salvataggio. Chieda all’Ue di farsi carico di un programma di ricerca e salvataggio europeo. Si sospenda il regolamento Dublino e si consenta alle persone tratte in salvo di scegliere il Paese dove andare sostenendo economicamente con un fondo europeo l’accoglienza in quei Paesi sulla base della distribuzione dei profughi. Questi morti non consentono più rinvii (...) Erano persone in carne e ossa. E invece sembrano fantasmi. Oggi mobilitazioni in tutta Italia promosse, tra gli altri, da Arci, Acli, Medici senza Frontiere, Amnesty, Emergency, Libera, Cgil, FiomCgil, Uil Comunità di Sant’Egidio, Action, Legambiente, Carovane Migranti, Casa dei diritti Sociali, Nessun Luogo è Lontano... Hanno aderito L’Altra Europa, Sel, Prc. A Roma sit in e flash mob dalle 17.00 davanti Montecitorio. Da Redattore sociale del 20/04/2015 Strage migranti, associazioni: Europa colpevole, smetta di stare a guardare E' tempo che l'Europa agisca: lo chiedono le organizzazioni di fronte al nuovo naufragio nel canale di Sicilia. Acli: "Con quelle vite spezzate si compromette la dignità della comunità internazionale". Oxfam: "Triton è un'operazione che non serve". Caritas: "L'idea di un'Europa inespugnabile barcolla sotto i colpi di un'umanità disperata" ROMA - E' un coro unanime quello delle associazioni dopo la terribile tragedia di ieri, una tragedia che rischia di essere una delle più gravi del Mediterraneo. E se un filo comune può essere trovato nelle diverse prese di posizione, la più evidente è certamente la richiesta di un intervento immediato dell’Europa e una nuova Mare nostrum. Insomma, l'Europa non può più permettersi di stare a guardare. Caritas Italiana: l'Europa barcolla sotto i colpi di un'umanità disperata. Unendosi alla preghiera di papa Francesco per le vittime, don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana, dalla Tunisia dove si trova proprio per organizzare il MigraMed, incontro tra le Caritas del Mediterraneo previsto per giugno, afferma: "L’idea di un’Europa inespugnabile sta barcollando sotto i colpi di una umanità disperata che in fuga dai propri paesi sta mostrando il volto peggiore degli effetti della globalizzazione. Iniquità, conflitti, ideologie sono i fattori che determinano il costante aumento dei flussi di profughi verso il continente europeo". 3 "Ci indigna che si alzi la voce solo quando il numero di chi non sopravvive raggiunge livelli ‘eclatanti’ - afferma Pietro Barbieri, portavoce del Forum terzo settore - . Quasi ogni giorno c’è qualche migrante che perde la vita in mare e solo dall’inizio di quest’anno sono morte quasi 1.500 persone. Numeri che non sono accettabili. Vite umane che devono essere tutelate. Non si può più gridare solamente la propria rabbia. Non si devono voltare le spalle. Servono fatti concreti. L’Europa, anche se non da sola, deve puntare i riflettori sul tema dell’immigrazione, sulle sue cause, sul fenomeno della tratta degli esseri umani". Un minuto di silenzio per il Consiglio nazionale dell’Arci, riunito a Roma il 18 e 19 aprile, per esprimere il "dolore e cordoglio per l’ennesima strage che si è consumata nel Mediterraneo". "Una tragedia che ha responsabilità precise – dice l’Arci - nelle scelte compiute dalle istituzioni italiane ed europee, che continuano a perseguire politiche di chiusura ed esternalizzazione delle frontiere e che, con Triton, hanno deciso di mettere in campo un’operazione finalizzata al solo controllo, anziché allargare a tutto il Mediterraneo un’azione di ricerca e salvataggio, quale è stata Mare nostrum, che ha consentito a tante persone di essere messe in salvo". Arci chiede al governo "in attesa che si arrivi ad un’azione congiunta con l’unione Europea, di ripristinare immediatamente Mare Nostrum". "Il più grande naufragio nella storia delle migrazioni: così rischia di essere ricordata l'ennesima tragedia avvenuta stanotte nel Canale di Sicilia". Questo anche il commento di Amref Health Africa, che ribadisce che è un "dovere di tutti, ma innanzitutto della politica, ricordare che la sofferenza di una parte del mondo è affare di tutti, non solo di chi lo vive in prima persona”. Per il direttore della sezione italiana, Guglielmo Micucci, “l'Europa, inerme, non riesce a dare una risposta adeguata”. Acli: "Con quelle vite spezzate si compromette la dignità della comunità internazionale”. Il presidente nazionale, Gianni Bottalico: "In particolare insieme a questi nostri circa 700 fratelli e sorelle periti la notte scorsa nelle acque del Canale di Sicilia c'è il naufragio anche dell'Europa che è doppiamente colpevole: primo per non aver assunto il programma Mare Nostrum a livello di Unione Europea, come da noi chiesto alla scadenza di questo programma. E secondo: per non aver agito con fermezza e chiarezza nel combattere la destabilizzazione di vaste zone dell'Africa”. Le Acli chiedono che “l'Europa avvii immediatamente un programma europeo di soccorso per i migranti nel Mediterraneo". Il Centro Astalli esterna “orrore e sgomento” per l’ultima terribile strage di migranti. E chiede alle istituzioni nazionali ed europee misure immediate. Eccole: “Attivare immediatamente un’operazione di soccorso e salvataggio ad ampio raggio. Oggi paghiamo il prezzo altissimo della scelta nefasta di interrompere l’operazione Mare Nostrum e sostituirla ipocritamente con Triton che ha il solo mandato di controllare le frontiere e non di salvare vite umane”. Inoltre, “applicare il prima possibile tra gli Stati europei il mutuo riconoscimento dello status di rifugiato in modo da garantire un’equa ripartizione dei rifugiati all’interno dell’Unione”. Infine, “fare in modo che tutti gli Stati dell’Unione accolgano in modo proporzionale i migranti forzati. Al momento solo 6 dei 28 Stati membri accolgono chi riesce a giungere vivo in Europa in fuga da guerre e persecuzioni”. Per la Fondazione Migrantes "è vergognoso nascondersi dietro ai supposti costi di un’operazione per abbandonare a se stessi famiglie, giovani, donne e bambini alla morte”. Per Migrantes, è importante “alimentare un piano sociale europeo che vada a rafforzare con risorse non solo l’accoglienza di chi chiede una protezione internazionale nelle sue diverse forme, ma valutando anche forme nuove di riconoscimento in tempi brevi, che permettano una circolazione e una tutela dei richiedenti asilo in tutti e 28 i Paesi europei". Infine, "ripartire da un’azione internazionale congiunta che abbia l’obiettivo della pace e della sicurezza nel Nord Africa, nel Medio Oriente e nel Corno d’Africa, così che le 4 persone, grazie anche a un efficace programma di cooperazione internazionale possano ricostruire il proprio Paese e avere il diritto di rimanere nel proprio Paese". "L’Italia, con la sua storia straordinaria di solidarietà già dimostrata, nonostante la crisi che segna anche i giovani e le famiglie italiane, - conclude - non può rinunciare a condividere risorse per la tutela di un diritto e dovere fondamentale verso chi oggi disperato si mette in viaggio”. Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia ha commentato il naufragio così: "Se l'Unione europea non attivera' immediatamente un'operazione di ricerca e soccorso in mare almeno pari all'italiana Mare nostrum la credibilita' delle istituzioni europee gia' compromessa ne uscira' definitivamente sconfitta. "Le parole e la costernazione non bastano piu'. Occorre prendere atto che Triton e' un'operazione che non serve ad affrontare l'enorme flusso migratorio che sta attraversando il Mediterraneo". E’ il commento di Alessandro Bechini, responsabile Programmi in Italia di Oxfam. "E' una ecatombe che pesa e pesera' sulla coscienza di chi non ha cuore, la sensibilita' e la competenza di trovare soluzioni urgenti". Cosi Amsi (Associazione medici di origine straniera in Italia) e Co-mai (Comunita' del mondo arabo in Italia) commentano tramite il presidente Foad Aodi la tragedia a largo della Libia. Le organizzazioni sono unite per chiedere urgentemente la "convocazione di un vertice europeo con l'Onu per trovare soluzioni immediate per fermare le continue morti che hanno trasformato in un cimitero il mare. La Comunita' di Sant'Egidio "esprime il suo profondo cordoglio a tutte le famiglie colpite dall'immane tragedia che si e' consumata nel Canale di Sicilia, dalle prime testimonianze la piu' grave mai registrata, e chiede con forza un intervento immediato: se l'Europa non e' all'altezza di fermare le inaccettabili stragi del mare e' l'Onu che deve scendere in campo utilizzando tutti gli strumenti possibili, fino alla convocazione urgente di una riunione del consiglio di sicurezza. Siamo infatti di fronte ad un numero di vittime che assomiglia a quello di una guerra". Lunaria: "Il governo si assuma le proprie responsabilità". L'associazione chiama in causa il governo italiano e lo invita ad attuare "un piano nazionale che coinvolga tutti i comuni in attività doverose di accoglienza dignitosa". Un primo passo al quale dovrà far seguito un'azione più ampia in ambito europeo. "Intanto si faccia un piano nazionale di accoglienza - sottolinea Lunaria - poi si cerchi di fare pressione sull’Europa convincendola a varare un piano europeo di ricerca e soccorso in mare, di apertura di corridoi umanitari che facilitino l’arrivo delle persone in Europa e di riforma del regolamento Dublino III". "Il rimpallo di responsabilità tra l’Italia e l’Europa, - continua l'associazione- annegato in fiumi di retorica e parole ipocrite di cordoglio, è vergognoso. 1100 persone morte in sei giorni che si aggiungono alle migliaia che abbiamo pianto negli ultimi anni sono un crimine contro l'umanità". Save the Children, l’Europa non stia più a guardare. Afferma Valerio Neri: “Non possiamo far finta di niente: il crescente numero dei morti in mare pone, non solo all’Italia, ma a tutta l’Unione Europea e ai suoi Membri, il dovere di rispondere con un sistema di ricerca e soccorso in mare capace di far fronte a questa situazione che è destinata a peggiorare ulteriormente nei prossimi mesi. Chiediamo pertanto un vertice europeo urgente in cui si prendano decisioni concrete e immediatamente operative.” Inoltre, per Neri, "sempre peggiori sono le condizioni dei barconi, il loro sovraffollamento e la violenza dei trafficanti nei confronti dei migranti, costretti spesso a partire a prescindere dalle condizioni meteorologiche del mare. Alcuni bambini arrivati di recente hanno infatti raccontato agli operatori di Save the Children che i trafficanti sparavano contro la loro barca costringendoli a partire. Per quanto riguarda i superstiti del naufragio, è necessario 5 garantire loro tutto il sostegno indispensabile a fronte della tragedia che hanno vissuto. Fondamentale, pertanto, è garantire un sistema di accoglienza in grado di rispondere ai bisogni essenziali di tutti i migranti in arrivo e, in particolare, dei più vulnerabili, tra i quali i minori non accompagnati e i nuclei familiari con bambini." Medici senza frontiere chiede agli stati membri dell'Unione Europea l'avvio urgente di attivita' di ricerca e soccorso in mare su ampia scala, per evitare altre morti nel Mediterraneo". Loris De Filippi, presidente di Msf:: "Stiamo scavando una fossa comune nel Mediterraneo. E la responsabilita' e' delle politiche europee, che di fronte a migliaia di disperati che cercano protezione sul continente chiudono le frontiere costringendoli a rischiare la vita in mare. Non c'e' piu' tempo per pensare, dobbiamo salvare queste vite". Per De Filippi "chiudere Mare Nostrum e' stato un errore". Per il presidente della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca, "con il passaggio da 'Mare Nostrum' a 'Triton' "c'è stato un peggioramento. Il momento è tragico, quello che sta accadendo è un segno dello scadimento morale in occidente rispetto alla mancanza di attenzione". Rocca ha sottolineato anche come si faccia "finta di nulla, e per iniziare la discussione si sono dovuti aspettare 700 morti". “Il volontariato organizzato, sempre in prima fila nel fronteggiare le emergenze umanitarie, deve continuare a gridare forte la propria indignazione”. Così Emma Cavallaro presidente della ConVol, che ha sciolto il dubbio dicendo la sua sulla terribile tragedia del Canale di Sicilia. E aggiunge: “Tacere o far finta di non vedere significa divenire complici di tutti coloro che sono responsabili di tante terribili morti”. Le associazioni dei salesiani , Vis (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo) e le Missioni Don Bosco lanciano, invece, la proposta di un intervento nei paesi di origine impegnandosi a “realizzare un progetto congiunto con lo scopo di rendere più consapevoli i migranti sui rischi del viaggio e della tratta". "Arrabbiarsi o indignarsi non serve più sottolineano - occorre intervenire per spiegare i pericoli dei viaggi". Tra le tante voci che si sono alzate in queste ore, anche il commento del Cospe che punta il dito contro il “cinismo criminale delle istituzioni europee”. L’organizzazione chiede il ripristino di Mare nostrum, lo stop alla convenzione di Dublino e una corsia preferenziale per le persone che sono intrappolate in Libia in attesa di partire. “Non possiamo continuare con la contabilità dei morti - sottolinea - bisogna agire subito”. Da Articolo 21 del 20/04/2015 “Fermare la strage. Subito!” Arci: martedì 21 aprile Giornata di mobilitazione nazionale. A Roma sit-in e flash mob davanti a Montecitorio a partire dalle 14.30 In una settimana più di mille morti in due stragi annunciate. Stragi che hanno responsabilità precise: le scelte politiche e le leggi dei governi dell’UE (compreso quello italiano) che consegnano le persone in cerca di protezione nelle mani dei mercanti di morte. Aumentando controlli e mezzi per pattugliare le frontiere non si fermeranno le stragi, come dimostra quest’ultima tragedia con più di 900 morti avvenuta a poche ore da quella che ha portato a morire altre 400 persone. Chi scappa per salvare la propria vita e quella dei suoi cari non si ferma davanti al rischio di morire in mare. Non c’è più tempo da perdere. Si aprano subito vie d’accesso legali, canali umanitari, unico modo per evitare i viaggi della morte. Il governo italiano, in attesa dell’intervento 6 europeo, assuma le sue responsabilità e riattivi subito un programma di ricerca e salvataggio. Chieda contemporaneamente all’UE di farsi carico di un programma di ricerca e salvataggio europeo. Si sospenda il regolamento Dublino e si consenta alle persone tratte in salvo di scegliere il Paese dove andare sostenendo economicamente con un fondo europeo ad hoc l’accoglienza in quei Paesi sulla base della distribuzione dei profughi. Questi morti non consentono più rinvii, basta con le parole che non si traducono in azioni concrete e immediate. Erano persone in carne e ossa. E invece sembrano fantasmi. Martedì 21 aprile, mobilitazioni in tutta Italia, organizzate da decine di associazioni, organizzazioni sindacali e ong. A Roma sit in e flash mob a partire dalle 14.30 davanti a Montecitorio. Nelle altre città gli appuntamenti saranno articolati secondo quanto deciso dalle organizzazioni locali. 7 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 21/04/2015, pag. 28 SOCIALE L’energia diffusa del Terzo Settore nuova frontiera del welfare privato Per fortuna che siete fuori moda, siete controcorrente, in un mondo che tende a chiuder la gente in se stessa». Così il Ministro alle Riforme Costituzionali Maria Elena Boschi ha salutato i volontari accorsi da tutta Italia lo scorso week-end al Festival di Lucca, l’appuntamento annuale che per il welfare privato rappresenta il Pitti di settore. Un ringraziamento ma anche la testimonianza di una promessa mantenuta dal governo Renzi che, un anno fa, proprio a Lucca annunciò il via al processo di riforma del comparto. Oggi la legge attende la discussione in Senato. L’approdo previsto per luglio, però, sarà argomento di discussione a Milano dove, da qualche mese ormai, esiste una vera e propria casa del volontariato: Cascina Triulza. In Expo 2015, infatti, per la prima volta un intero padiglione verrà dedicato alla società civile guidato dalla omonima Fondazione che racchiude al suo interno ben 63 sigle del sociale privato operante in Italia. «Energie per cambiare il mondo» è lo slogan scelto dal «cartello» del sociale per riassumere un programma fitto d’incontri ed iniziative che andranno avanti sino ad ottobre inoltrato: con Cittadinanzattiva, Altro consumo e Lega italiana per la lotta contro i tumori si parlerà di educazione alimentare e consumo consapevole, con Engim si potrà scoprire come i contadini della Sierra Leone hanno imparato a produrre il 30% in più di riso grazie ad una nuova tecnica che esclude i concimi chimici. Con Avis capiremo invece se la nostra alimentazione è sana grazie ad un questionario che verrà somministrato in Cascina, perché buoni donatori fanno buon sangue e proprio in Expo il prossimo 14 giugno festeggeranno la loro giornata mondiale con ben 4000 iscritti. Ma questo è solo un piccolo assaggio perché nei sei mesi di Expo in Triulza sono previsti oltre mille eventi (un numero destinato a crescere): con 440 sono già in calendario, 114 dibattiti, 252 laboratori e 74 spettacoli all’aperto. In Cascina Triulza le cose vanno talmente bene che già si è cominciato a progettare il dopo: «La Cascina continuerà a vivere racconta Sergio Silvotti, presidente di Fondazione Triulza – grazie al sostegno degli enti filantropici del territorio, su tutti Cariplo. Sarà a disposizione della rete delle organizzazioni che fanno parte di Fondazione Triulza e non solo, sia come luogo fisico da utilizzare, sia come cantiere di attività». E anche sulla sostenibilità del progetto i gestori hanno le idee chiare: «Oltre al sostegno degli enti filantropici che ci hanno assistito sin qui, stiamo individuando nuove forme di attrazione del reddito che possano restituire una completa sostenibilità del progetto», prosegue Silvotti. Insomma, decine di proposte dal basso per Expo e per il dopo Expo che andranno ad arricchire un programma che cresce di giorno in giorno. Si può dire, con l’accezione positiva del caso, che Triulza sarà una vetrina perché raccontare in un padiglione la molteplicità di buone azioni che ogni giorno i volontari italiani svolgono sul campo è davvero missione impossibile. Secondo l’ultima indagine Istat, effettuata assieme a CSVnet e Fondazione Volontariato e Partecipazione, sono infatti quasi 7 milioni gli uomini e le donne che dedicano parte della loro vita agli altri. Un viaggio quotidiano fatto di storie che attraversa l’Italia. Come quella del magazziniere Michele e della sua rinascita cominciata il 14 agosto del 2013, quand’erano da poco trascorse le 21 in via Tommaseo a 8 Padova. In un’auto diventata la sua casa, a 56 anni tira le somme sulla sua vita. Michele è finito in strada perché di magazzinieri non ce n’era più bisogno. Una ragazza bussa al suo vetro e gli lascia un biglietto. Il giorno dopo è alla porta della cooperativa per senza dimora La Bussola. Una casa, un impiego alla mensa e un affiancamento ai colloqui di lavoro. Poi a dicembre dello scorso anno un primo contratto a tempo determinato: «Sono felice, perché mi è stata restituita la dignità», e piange mentre racconta i giorni bui. Come i palazzoni di Gomorra, dove a farla da padrone è la criminalità. Ma questa è solo una faccia, fin troppo stereotipata, di un luogo che da sempre non ha avuto aiuto alcuno. Gli altri volti di Scampia, quelli più veri che fanno meno rumore, sono le facce del Maestro Maddaloni, che lì manda avanti a fatica una palestra con centinaia di judoki, rigorosamente gratis come l’associazione sportiva dilettantistica «scuola calcio Arci Scampia», lo sport per eccellenza degli scugnizzi. Antonio Piccolo, un passato da portiere sino alla serie D, «il mister» come lo chiamano li nel suo mondo, ha poco più di sessant’anni e in viale della Resistenza si allena con i suoi «quattrocento figli», scherza lui. Una storia nata quasi per gioco, era l’epoca di Maradona e con un gruppo di volontari Piccolo fondò un circolo Arci nella zona delle Vele, i palazzoni diventati simbolo dell’alienazione nei sobborghi napoletani. Anni di sacrifici tra il proprio lavoro e l’impegno quotidiano, costante, per tenere lontano quei ragazzi dalla strada e dalla «polvere bianca». Esempi di solidarietà in terra amica, ma anche di chi da qui ha deciso di tendere un mano ancora più lontano. In Italia, Fondazioni for Africa porta avanti una mission con ben 27 associazioni di migranti del Burkina Faso. Spesso, la molla per migliorarsi arriva proprio dopo un momento difficile. É accaduto con l’agricoltura sostenibile a Fanta Tiemtoré, 38 anni, dell’associazione Mirage Burkina, (suo nonno era re, suo padre però ha rinunciato al trono che ora è occupato da un’altra famiglia e oggi lavora a Lecco in un centro per anziani e ha due figli). Nel suo Paese ha dato vita all’iniziativa «100 ettari»: un progetto sperimentale, tutto al femminile, per la produzione del riso. «I nostri avi – dice Fanta – ci hanno insegnato che tutto quello che esiste in natura è abbastanza per tutti quanti. E questa è la Terra che vogliamo». E c’è chi promuove anche la cultura della terra d’origine con la danza. Come Emmilienne: nata in Burkina Faso, oggi a Napoli è mediatrice culturale. In questi mesi ha condotto un corso di ballo burkinabè scandito dal ritmo dello djembe. «Lo facciamo – spiega Emmilienne – perché vogliamo insegnare quella danza ai nostri figli che nascono qui. Chi non conosce il proprio passato non può andare incontro al 9 ESTERI Del 21/04/2015, pag. 16 “Un uomo di Saddam ispirò l’Is” Haji Bakr era un colonnello dei Servizi segreti iracheni. Fu ucciso l’anno scorso dai ribelli anti-Assad Nella sua casa trovati appunti e strategie del Califfato. E la sua decisione: “Il capo sarà Al Baghdadi” FABIO SCUTO GERUSALEMME Il “signore delle ombre” dello Stato islamico, la mente che ha concepito nascita ed espansione del Califfato islamico in Siria, era un ex colonnello dei servizi segreti dell’Aviazione di Saddam Hussein. Samir Abd Muhammad Al Khlifawi, meglio noto con il nome Haji Bakr, è stato ucciso nel gennaio del 2014 da un reparto dell’esercito siriano libero a Tal Rifaat. Ma nemmeno quelli che lo hanno eliminato sapevano chi fosse. Lo hanno scoperto dopo, perché ha lasciato dietro di sé qualcosa che doveva rimanere segreto: il progetto dello Stato islamico. Una cartella piena di documenti, fitta di schemi, elenchi, programmi che descrivono come un Paese può essere gradualmente soggiogato. È su queste “carte” che dopo mesi di ricerche che ha messo le mani il settimanale tedesco Spiegel . Trentuno pagine che rivelano i vari “strati” operativi, le direttive per l’azione del Califfato, com’è organizzata la leadership e quale ruolo hanno avuto militari e dirigenti dell’ex dittatore iracheno dopo la sua sconfitta. In pratica è il codice di guerra dell’esercito terrorista di maggior successo nella Storia recente. La conquista di Raqqa e di gran parte della Siria, suggeriscono questi documenti, era parte di un meticoloso piano curato da Haji Bakr utilizzando tecniche, come la sorveglianza, lo spionaggio, l’omicidio e il sequestro di persona, affinate in passato nei famigerati apparati di sicurezza dell’ex raìs iracheno. Altri come Izzat Ibrahim al-Douri, il “re di fiori” del celebre mazzo di carte, già braccio destro di Saddam, ucciso la scorsa settimana in un’operazione delle forze di sicurezza di Bagdad, avevano invece deciso di combattere in patria alleandosi con l’Is. Amareggiato dopo la decisiosciati americana di sciogliere l’esercito iracheno nel 2003, Haji Bakr finisce nelle carceri americane di Camp Bucca e Abu Ghraib, esce nel 2008 con solide relazioni con altri carcerati. Conosce Abu Musab al Zarkawi, incontra il giovane Abu Bakr Al Baghdadi e su lui decide di puntare. Tutto inizia nel 2012 quando Haji Bakr si trasferisce con la famiglia in Siria in una casa poco appariscente di Tal Rifaat, a nord di Aleppo. Vengono aperti gli uffici della Dawah, una delle tante charity islamiche attive in Siria. E’ qui che fra i giovani che vengono ad ascoltare lezioni o seguire corsi venivano selezionate le “spie” che dovevano scoprire quanto più possibile sulla città, quanti abitanti, chi comandava, le famiglie più ricche e le fonti di reddito, quante moschee c’erano, chi era l’imam, i nomi dei ribelli anti-Assad. Un elenco dettagliato di domande per raccogliere informazioni da utilizzare per dividere e controllare la popolazione. Già alla fine del 2012 c’erano i primi campi di addestramento in diverse zone della Siria, e nessuno sapeva a quale gruppo appartenevano i volontari che arrivavano e venivano addestrati per due mesi. Pochissimi dall’Iraq. Moltissimi dalla Tunisia, poi sauditi, turchi, egiziani, giordani, indonesiani e europei. A ceceni e uzbeki il ruolo di truppe d’assalto, la prima fila delle khatiba jihadiste. I piani di Haji Bakr includono anche altri settori come la finanza, scuole, asili, mezzi di comunicazione e trasporto. La scelta di Abu Bakr Al Baghdadi come leader del nascente Califfato, sarebbe stata fatta da questo circolo di ex ufficiali iracheni guidati proprio da Haji Bakr, nel 2010. Al Baghdadi, 10 un religioso istruito, avrebbe dato al gruppo quella dimensione religiosa necessaria ad attrarre i delusi. «Era un nazionalista e non un islamista», racconta allo Spiegel chi lo conosceva bene. Credeva che le convinzione religiose da sole non bastassero a garantire la vittoria, ma che la fede potesse essere sfruttata. E tra le tante carte ritrovate nella sua casa di Tal Rifaat non c’era nessun Corano, il libro che ogni buon fedele dovrebbe invece possedere. Del 21/04/2015, pag. 17 Arsenij Yatsenjuk “Stiamo difendendo l’Europa dall’invasione russa - dice il premier Mosca ritirerà i suoi soldati solo se il mondo inasprirà le sanzioni” “L’Ucraina è al disastro e la guerra non è finita Putin arma ancora i ribelli l’Occidente deve fermarlo” PIETRO DEL RE «Stiamo pagando il prezzo della nostra scelta», sostiene Arsenij Yatsenjuk, giovane primo ministro dell’Ucraina nata dalle ceneri di Maidan. «Abbiamo voluto entrare in Europa contro la volontà di Vladimir Putin e lui, per punirci, ha scatenato l’offensiva nell’est del Paese », aggiunge il premier che ci riceve alla Rada, il parlamento di Kiev, in una saletta color pistacchio con alle pareti quadri di tramonti sul fiume Dnepr. Signor Yatsenjuk, ma quanto vi costa la guerra con i separatisti? «Da economista le risponderei che costa miliardi di dollari, ma da primo ministro le dirò che è già costata troppe vite umane, quelle di 1800 soldati ucraini e di 6000 civili. A ciò vanno aggiunti 15mila feriti e un milione e mezzo di sfollati. L’aggressione russa nel Donbass è anzitutto un disastro umanitario». E in termini economici? «Secondo il ministero del Tesoro l’occupazione di Donetsk e Lugansk ci ha fatto già perdere 3 miliardi di dollari. Ora, anche se la propaganda di Mosca sostiene il contrario, noi continuiamo a pagare le pensioni in quelle città, pur non ricevendo un solo centesimo di tasse. Quest’inverno, per riscaldare la popolazione dei territori in mano ai separatisti, abbiamo sborsato un miliardo di dollari di gas». Il cessate-il-fuoco raggiunto durante gli accordi di Minsk viene rispettato? «Siamo lontani dall’applicazione di quegli accordi, perché ancora si spara e soprattutto perché la Russia continua a fornire carri armati, armi pesanti e soldi ai ribelli». Lo scorso anno lei dichiarò che Mosca stava per scatenare la Terza guerra mondiale e chiese aiuto a Europa e Stati Uniti. E’ arrivato l’aiuto occidentale? «Vede, noi stiamo difendendo i confini dell’Unione europea dall’invasione russa. L’Ucraina è solo il primo campo di battaglia della guerra di Mosca contro l’Occidente. Siamo tutti in pericolo, perché la Russia vuole destabilizzare il pianeta, e lo fa pur essendo uno dei 5 membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il cui compito dovrebbe essere quello di far rispettare un ordine mondiale. Noi avevamo chiesto armi per difenderci, che purtroppo non sono mai arrivate». Ha mai temuto un’imponente invasione delle truppe di Mosca, con raid aerei sulla capitale? 11 «La Russia è imprevedibile. Sa qual è la differenza tra i leader occidentali e il presidente Putin? Ebbene quando loro rispettano le regole, lui le trasgredisce. Lo scorso anno secondo i nostri servizi la Russia aveva preventivato l’ipotesi di una vasta azione militare in Ucraina, usando anche l’aviazione ». Ma quanto è affidabile il presidente Putin nel corso di un negoziato di pace, come quello di Minsk? «Non lo è affatto, perché non è un uomo credibile. Non posso fidarmi in ciò che dice Putin ma solo in quello che fa. Due anni fa dichiarò che la Crimea era parte integrante dell’Ucraina. Nel 2014 la Crimea è stata annessa dalla Russia. Ma non devi mai sottovalutare il tuo nemico, e Putin è senz’altro un osso duro. E l’unico linguaggio che capisce è lo stesso che parla lui, ossia un linguaggio rude. Il problema è che sopravvaluta il suo Paese, afflitto da enormi problemi. La Russia è infatti militarmente più debole della Nato, ha pessime prospettive economiche, una popolazione sempre più anziana, un governo di cleptocrati con inclinazioni dittatoriali». Quanto hanno funzionato le sanzioni economiche contro Putin? «Dopo l’annessione della Crimea, i leader occidentali sono stati costretti a intervenire. Non l’hanno fatto militarmente perché spaventati dall’idea di impelagarsi in un nuovo conflitto, ma l’hanno fatto con le sanzioni economiche. Ed è stata la giusta decisione. Adesso il modo migliore per ottenere che la Russia rispetti gli accordi di Minsk è inasprire le sanzioni». Come vede il futuro del Donbass? «Per normalizzare la situazione, come prima cosa la Russia dovrebbe ritirare le sue forze e noi dovremmo poter controllare quel tratto di frontiera. Ma ciò non è ancora possibile, perché Putin non lo vuole. Ci vorrà quindi ancora del tempo prima di reintegrare Donetsk e Lugansk in Ucraina. Molto più tempo di quello previsto a Minsk ». Considera la Crimea persa per sempre? «No, anche perché nessuno riconoscerà mai la sua annessione alla Russia. E prima o poi il regime di Mosca cadrà. Gli stessi che l’anno scorso gridavano per le strade di Sebastopoli la loro gioia di diventare russi oggi si pentono amaramente della loro scelta. Le assicuro che la mia generazione e quelle che verranno faremo di tutto affinché la Crimea ritorni nostra». A chi accusa l’esercito ucraino di essere composto da militari in pensione e dagli ultranazionalista di Pravij Sektor, cosa risponde? «Siamo in guerra. È difficile fare una distinzione tra chi è più o meno nazionalista. Tutti vogliono difendere l’Ucraina». Del 21/04/2015, pag. 22 Obama allarmato per le attenzioni di Putin adesso cambia tono con la Grecia DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FEDERICO RAMPINI NEW YORK . Alexis Tsipras sta perdendo l’alleato più potente che aveva: l’America di Barack Obama. Dopo cinque lunghissimi anni in cui Obama ha tentato di ammorbidire Angela Merkel, per convincerla che l’austerity è disastrosa, ora il presidente americano sembra sempre più irritato verso la Grecia. L’ultimo segnale è venuto venerdì durante la conferenza stampa con Matteo Renzi alla Casa Bianca. Le parole di Obama sul caso 12 greco non sono state amichevoli per Tsipras. Al contrario si possono leggere come un severo elenco di cose da fare, promesse mancate, delusioni. «La Grecia – ha detto il presidente – deve avviare le riforme. Deve far pagare le tasse. Deve ridurre la burocrazia. Deve avere regole più flessibili sul mercato del lavoro». Obama ha colto l’occasione per riferire urbi et orbi il tenore del suo ultimo colloquio con Tsipras: «Quando è venuto a trovarmi al premier greco ho detto: riconosco che dovete dare speranza al vostro popolo, indicare una via di crescita. Vi sosterremo nella ricerca di margini di manovra per investire, non dovete cavare sangue dalle pietre. Però dovete dimostrare a coloro che vi estendono i crediti, a quelli che tengono in piedi il vostro sistema finanziario, che state cercando di aiutare voi stessi. E questo richiede decisioni drastiche». Obama continua a svolgere un ruolo di mediazione, esorta tutti i protagonisti – il governo greco da una parte; la ex-troika (Commissione Ue-Bce-Fmi) e il suo referente più forte che è la Germania, dall’altra – perché trovino un compromesso. Di recente però il linguaggio del presidente americano è diventato più comprensivo verso Angela Merkel e insofferente nei confronti dei greci. In parte si spiega con l’irritazione di chi ha ricevuto alla Casa Bianca quattro premier in pochi anni, e si ritrova sulla scriva- nia il “male greco” ininterrottamente dal 2010. Lo stile della squadra Tsipras non aiuta. Al meeting del Fondo monetario a Washington molti hanno accusato il ministro dell’Economia greco, Yanis Varoufakis, di comportarsi come una “celebrità” attratta dai riflettori e dai dibattiti televisivi, anziché come il timoniere di una navicella che sta per affondare. Varoufakis ha indispettito con alcune furbizie di linguaggio; all’arrivo a Washington annunciava che la Grecia intende onorare i suoi impegni, per poi sottilizzare: «intende» non significa che lo farà. Tra i gesti di Tsipras che l’Amministrazione Obama giudica incauti, c’è stato l’aumento delle pensioni ai lavoratori più poveri, non accompagnato da risparmi su altre voci di spesa. Inoltre visto da Washington è esasperante che l’evasione fiscale di massa stia aumentando in Grecia, anziché diminuire. Il segretario al Tesoro americano, Jack Lew, ha ricordato agli europei che un default greco, pur colpendo un’economia molto piccola, potrebbe gelare la ripresa dell’intera eurozona, rinviando ulteriormente una crescita che già ha perduto sei anni. La Casa Bianca ha una preoccupazione aggiuntiva rispetto al Tesoro, è il timore più strategico che Tsipras stia scivolando verso l’orbita di Vladimir Putin, l’unico che sembra disposto a fargli credito in questa situazione. Che il default sia ormai un’opzione abbastanza probabile, i mercati lo deducono anche dal fatto che Varoufakis ha voluto incontrare a Washington un avvocato specializzato nei casi di bancarotta sovrana: Lee Buchheit, che lavora presso la law firm americana Cleary Gottlieb Steen & Hamilton. Buchheit aveva già assistito la Grecia nella ristrutturazione del debito avvenuta nel 2012. All’epoca gli interlocutori furono investitori privati – a maggioranza banche europee – che detenevano una quota sostanziale del debito pubblico di Atene. Oggi la situazione è cambiata, ci sono ormai pochi creditori privati, mentre la maggior parte del debito greco è detenuto da istituzioni come la Bce e il Fondo monetario. Perfino il premio Nobel dell’economia Paul Krugman, che continua a difendere Tsipras, nella sua ultima column sul New York Times invita tuttavia i greci a sbarazzarsi delle teorie del complotto: «Non è vero – scrive Krugman – che dall’altra parte del tavolo negoziale c’è un blocco solido di creditori implacabili e decisi a far fallire un governo di sinistra, anche a costo di un default e di un’uscita dall’euro; c’è più buona volontà dall’altro lato del tavolo di quanto i greci credano». 13 Del 21/04/2015, pag. 19 Così Obama ha chiesto all’Italia di restare in Afghanistan Nei cablo diplomatici le ragioni del prolungamento della missione Paolo Mastrolilli L’Italia ha accettato di prolungare la missione in Afghanistan perché era un suo dovere di alleato, e per avere più diritto a chiedere aiuto su altri fronti, come la Libia. L’intervento però potrebbe protrarsi ben oltre la scadenza di fine 2016, e sarà più complicato di quanto pensavamo, perché il governo in condominio fra il presidente Ghani e «l’amministratore delegato» Abdullah non funziona come dovrebbe, e l’Isis ne sta approfittando per cercare spazio anche a Kabul. Queste valutazioni emergono da una serie di incontri e rapporti che la diplomazia occidentale ha fatto dopo la visita di Ghani a Washington, e poco prima di quella di Renzi alla Casa Bianca, nella quale appunto il premier ha confermato al presidente Obama il prolungamento della presenza italiana nella regione di Herat. A spiegare la situazione può bastare la battuta ripetuta in varie occasioni da Jeff Eggers, Special Assistant presidenziale sull’Afghanistan, che parlando del Governo di unità nazionale di Kabul ha detto: «Il problema non è l’unità, ma il Governo». Accordo in bilico L’accordo fra Ghani e Abdullah vacilla, non al punto che l’«ad» sia pronto a rinnegare l’intesa mediata dal segretario di Stato Kerry dopo le contestate elezioni presidenziali, ma certamente a quello di rendere poco efficace l’azione dell’esecutivo. La sicurezza non migliora, le vittime civili aumentano, l’economia resta al palo e le elezioni parlamentari sono state rimandate al 2016. Ghani non sembra neppure intenzionato a completare davvero la compagine governativa, dopo la contrastata nomina del ministro della Difesa Ludin, perché tanto governa con i membri del suo circolo ristretto e non ha interesse a distribuire deleghe. Gli stessi americani lo vedono molto concentrato sui propri progetti di riforma, e poco sulla gestione dell’esecutivo. Quando è venuto a Washington, il suo obiettivo principale era ottenere da Obama la promessa di conservare una presenza militare occidentale in Afghanistan oltre la fine del 2016, perché altrimenti il Paese rischia il collasso, nonostante i progressi fatti nell’addestramento dell’esercito e delle forze dell’ordine. L’offensiva taleban Il primo banco di prova sarà immediato, perché con la primavera comincia la stagione dei combattimenti, in cui i taleban tornano all’offensiva. Lo scopo quest’anno sarà proprio mettere alla prova l’esercito regolare, e vedere se è in grado di resistere da solo. Anche i colloqui di pace con i taleban procedono a rilento, nonostante fosse girata la voce di un incontro imminente fra il ministro per la Riconciliazione Masoom Stanakzai e il mullah Jalil Akhund a Dubai, o in Turchia, sede prescelta per la trattativa. Gli uomini fedeli all’ex presidente Karzai considerano «folle» l’idea di negoziare, anche perché a favore sono solo i taleban più moderati e ormai emarginati, come lo stesso Akhund e Agha Jan Motasim, ex braccio destro del mullah Omar. Questa confusione genera due effetti negativi. Il primo è il malcontento della popolazione, che ad esempio si è manifestato proprio nella zona di Herat dove sono schierati i soldati italiani, con la manifestazione organizzata il 15 marzo scorso da Ismail Khan. Il secondo è il tentativo dell’Isis di trovare spazio. Ne sono prova il recente attentato di Jalalabad, rivendicato dagli alleati di Daesh, ma anche la scelta dei militanti del Movimento Islamico dell’Uzbekistan di dichiarare fedeltà al Califfo. Un ambiente sempre più difficile per la missione occidentale. 14 Del 21/04/2015, pag. 9 Vota quasi il 90%, due oppositori bocciati Cuba. Grande partecipazione alle municipali Geraldina Colotti Cba ha votato domenica per le municipali. Hanno partecipato oltre sette milioni di cittadini maggiori di 16 anni, ovvero più dell’85% degli 8.536.670 aventi diritto, su una popolazione di 11,1 milioni di abitanti. I giovani che hanno votato per la prima volta sono stati 63.400. Su un totale di 27.379 candidati, 9.815 erano donne, 5.448 giovani e 11.663 afrodiscendenti e meticci. Gli eventuali ballottaggi si risolveranno al secondo turno del 26 aprile. A custodire le urne, come di consueto, c’erano i ragazzini delle scuole e gli studenti universitari. I due candidati di opposizione, l’avvocato e giornalista Hildebrando Chaviano, di 65 anni, e l’informatico Yuniel Lopez, di 26, non hanno ottenuto abbastanza preferenze, totalizzando rispettivamente 138 voti e 233, ma entrambi si sono dichiarati «soddisfatti» dell’esperienza. Il sistema elettorale è entrato in vigore nel 1976, e a Cuba è considerato un esempio di «trasparenza e democrazia». I candidati vengono proposti nelle assemblee di quartiere e va alle urne chi ottiene più preferenze, per alzata di mano. Così si sceglie il 50% dei candidati, l’altra metà è proposta dalle organizzazioni sociali, dai comitati delle donne, dalle organizzazioni degli studenti. Una commissione elettorale cerca poi l’equilibrio fra le candidature, affinché negli istituti di governo siano rappresentati tutti i segmenti della società. Le elezioni non sono obbligatorie e il Partito comunista non propone candidati. Le comunali si tengono ogni due anni e mezzo e sono l’anticamera di quelle per le assemblee provinciali e dell’assemblea nazionale (il Parlamento), previste per il 2018, e che si svolgono ogni sei anni. Il Parlamento elegge il presidente e il vicepresidente, che hanno prima dovuto diventare deputati. I membri del parlamento, molti dei quali non sono iscritti al Partito comunista, non percepiscono compenso, continuano a fare il loro lavoro e si recano all’Avana quando il parlamento si riunisce. Per diversi giorni, i media hanno fatto campagna per invitare alla partecipazione e il governo ha definito il risultato «un’azione di genuina democrazia». Cuba in questi giorni ha ricordato l’assalto alla Baia dei Porci, compiuto da oltre 2.000 mercenari al soldo della Cia nel 1961, e respinto dalla popolazione. Si attende anche qualche altro passo concreto da parte del governo Usa nel processo di disgelo tra i due paesi, iniziato nel dicembre scorso. Al VI vertice delle Americhe, che si è tenuto a Panama, c’è stato un incontro bilaterale tra Raul Castro e Obama, ma nessun annuncio eclatante: il decreto di sanzioni imposto al Venezuela di Nicolas Maduro, intorno al quale si sono stretti 33 paesi salvo Canada e Usa, ha creato un irrigidimento. Cuba, sia per voce di Fidel Castro che per quella del fratello Raul, ha ribadito di non mettere sul piatto la «testa» di Maduro in contropartita per la fine del blocco economico che ha subito, e che Obama ha riconosciuto essere un fallimento. Dopo il vertice di Panama, Obama ha annunciato che Cuba verrà tolta dalla lista dei paesi «che finanziano il terrorismo», e ora si attende anche la possibile apertura dell’ambasciata statunitense all’Avana. Intanto, l’isola si prepara ad accogliere la Fiera del turismo, dove l’Italia è il paese protagonista e durante la quale verranno annunciate importanti aperture economiche agli investitori nordamericani ed europei. 15 Del 21/04/2015, pag. 19 Pechino “compra” dal Pakistan lo sbocco sul Mar Arabico Intesa per la costruzione di una megaferrovia Ilaria Maria Sala Il Presidente cinese Xi Jinping è arrivato in Pakistan per una visita di Stato ricca di retorica e contratti miliardari. L’obiettivo è consolidare una delle relazioni più strette dell’Asia, che vede la Cina al fianco del Pakistan con investimenti e aiuti tecnologici (inclusi quelli sul nucleare). Ieri Xi Jinping si è presentato a Islamabad con in tasca 46 miliardi di dollari da investire in progetti infrastrutturali volti a creare il «China-Pakistan Economic Corridor», o corridoio economico sino-pachistano. Si tratta di ferrovie e autostrade che collegheranno il porto pachistano di Gwadar con la regione cinese dello Xinjiang, a 3200 chilometri di distanza. Ahsan Iqbal, ministro pachistano per la Pianificazione, ha detto che il progetto «modificherà il destino della nazione» e che «i due Paesi trasformeranno la loro relazione da geopolitica a geo-economica». Il porto di Gwadar L’intesa col Pakistan - che irrita non poco l’India - garantisce a Pechino sostegno alle politiche nello Xinjiang (la regione confinante col Pakistan dove la Cina ha creato una situazione di conflitto simile a quella in Tibet), e assicura uno sbocco al mare alternativo per espandere i mercati. Ad esempio, grazie all’accesso al porto di Gwadar, in Pakistan, Pechino non sarà costretta a far transitare le merci attraverso lo Stretto di Malacca, sovraffollato e infestato dai pirati. Con la visita iniziata ieri Xi Jinping vuole portare avanti il progetto di rivoluzionare le connessioni internazionali marittime e terrestri, garantendo al Pakistan nuove fonti di energia e infrastrutture. Tuttavia, il valore geopolitico della visita, e degli investimenti che porta, non può essere sottovalutato: in un colpo Pechino investe in Pakistan tre volte e mezzo in più di quanto non abbiano fatto gli Stati Uniti negli ultimi dieci anni, dando prova dell’efficacia di quel pragmatismo privo di ostacoli morali e basato unicamente sulla convenienza strategica. Del 21/04/2015, pag. 12 GRECIA, I SOLDI SONO FINITI TSIPRAS LI PRENDE AI COMUNI ATENE REQUISISCE ANCHE LA LIQUIDITÀ DI FONDI PENSIONE E COLOSSI STATALI PER PAGARE STIPENDI E PENSIONI. SI TRATTA SUL DEFAULT. LA BCE: “NON SARÀ GREXIT” Se non è la prova di un default considerato ormai inevitabile, poco ci manca. L’epilogo della vicenda Greca è nell’esegesi dei segnali arrivati ieri. Questa la sequenza: nel pomeriggio la Bce rivela di non temere l’uscita del Paese dall’Euro. Lo fa per bocca del suo vice presidente Vitor Constancio, che all’Europarla - mento illustra il motivo di tanta 16 sicurezza: “Un eventuale default della Grecia verso uno dei suoi creditori non implica automaticamente l’espulsione dall’eurozona”. Passa un minuto e l’agenzia Bloomberg confer - ma che il governo di Alexis Tsipras ha requisito per decreto la liquidità degli Enti Locali, obbligando le amministrazioni a trasferire alla Banca centrale le disponibilità di contante. NON È LA PRIMA volta che accade - era già successo con Samaras - ma stavolta la misura colpisce tutto il perimetro pubblico, fondi pensione inclusi. Anche i colossi statali quotati in borsa dovranno contribuire. Il motivo è semplice: servono tutte le risorse per tirare a campare in vista dell’ennesimo ultimo round di negoziati. L’Eurogrup po deve decidere nella riunione del 24 aprile – un’altra è fissata per l’11 maggio prossimo – se concedere alla Grecia l’ultima tranche da 7,2 miliardi del vecchio piano di salvataggio. L’ese - cutivo ellenico aveva provato nelle scorse settimane a convincere regioni, comuni ed enti previdenziali a contribuire volontariamente. Niente da fare. Poche ore prima, in mattinata, fonti Bce raccontavano che a Francoforte si studiano ormai gli scenari di un possibile default tecnico, con ipotesi surreali. L’ultima è questa: la Grecia finisce i soldi e inizia a onorare stipendi e pensioni con dei crediti, creando una seconda valuta virtuale all’interno del blocco dell’euro. In sostanza, dei pagherò. L’ipotesi è stata smentita a stretto giro dal portavoce della Bce e da fonti ufficiali del governo Tsipras. Il punto però è politico, più che tecnico. Se default dev’essere, ci sono molti modi per farlo, quello politicamente suicida per l’esecutivo di Syriza è partire dalle pensioni e dagli stipendi degli statali (1,7 miliardi da saldare nelle prossime settimane). Non è detto però che basti a convincere il fronte interno. Sul quello esterno, ora si registrano aperture. Ieri il “Brussels group” (Bce, Fmi e Ue, cioè la Troika) - che si riunisce a oltranza da giorni - ha fatto trapelare un ottimismo gelido: “Ci sono state spinte nei negoziati, ma l’accordo è lontano”. Un segnale diverso dagli ultimatum degli ultimi giorni. Ad Atene, Bruxelles chiede impegni stringenti su lotta all’evasione, lavoro (archiviando i contratti nazionali) e pensioni. Misure che Tsipras e il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis hanno respinto. Anzi, il governo è pronto a presentare oggi un ddl per alzare il salario minimo che non piace affatto ai creditori, e oggi il premier incontrerà il numero uno del colosso russo Gazprom per discutere del gasdotto Turkish Stream, che portarebbe qualche miliardo nelle casse di Atene. QUEL CHE è emerso finora dalle trattative è che Atene ha legato la lista degli impegni –che serve a ottenere il prestito ponte fino all’estate – alla ristrutturazione del debito (320 miliardi), ormai insostenibile. I segnali di ieri vanno in questa direzione. Come rivelato dal New York Times, a Washington per la sessione primaverile del Fmi, Varoufakis ha incontrato in sordina Lee Buchheit, massimo esperto mondiale di ristrutturazione dei debiti sovrani. A grandi linee, l’in - certezza è ormai solo sui dettagli tecnici. Un parziale default pilotato è il minore dei mali per i creditori: dopo anni di austerità, il debito non è più nelle mani delle banche private (soprattutto tedesche e francesi) ma in quelle dei Paesi dell’Eurozona attraverso i Fondi salva stati. Gli Istituti non rischiano più nulla e se ne può discutere. Più che un taglio, probabile arrivi un’esten - sione ad libitum delle scadenze, come chiesto da Varoufakis. Il problema sono le misure promesse da Tsipras in campagna elettorale: dopo le aperture sul debito, i margini saranno più stretti. La risposta arriverà entro il 12 maggio, quando andranno pagati 800 milioni al Fmi. Ieri era anche il giorno del processo a 69 tra dirigenti e membri di Alba Dorata per l’omicidio del rapper Pavlos Fyssas: tutto spostato al 7 maggio. 17 INTERNI Del 21/04/2015, pag. 12 LA GIORNATA Italicum, tensione nel Pd e il premier sostituisce i ribelli in commissione E Bersani non viene invitato alla Festa dell’Unità di Bologna Cinquestelle e Scelta civica minacciano l’Aventino SILVIO BUZZANCA I 10 “dissidenti” del Pd sulla legge elettorale sono fuori dalla commissione Affari costituzionali che oggi pomeriggio inizierà a votare gli emendamenti all’Italicum. Lo ha deciso l’ufficio di presidenza del gruppo che ha “salvato” Giuseppe Lauricella: il deputato siciliano ha assicurato che si atterrà alle indicazioni del gruppo. Niente da fare invece per l’ex segretario del Partito Pierluigi Bersani, per l’ex presidente del partito Rosi Bindi e per Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi alle primarie. Dovranno lasciare il loro posto a colleghi di partito che rispetteranno le decisioni del gruppo e della direzione. E intantoda Bologna arriva anche la notizia che Bersani, Cuperlo e Pippo Civati sono stati invitati alla prossima festa nazionale dell’Unità. La scelta di sostituire i 10 “dissidenti”non è però condivisa da Roberto Speranza, il capogruppo dimissionario, infatti, giudica «grave quanto accaduto nell’ufficio di presidenza. Io non avrei mai potuto sottoscrivere questa decisione». E Cuperlo aggiunge che si tratta di «un fatto molto serio» che se fosse seguito dalla richiesta di fiducia darebbe luogo ad uno «strappo che metterebbe a rischio la legislatura». Ma il partito guarda avanti. E sempre nella stessa riunione, come comunicato dal vice capogruppo Ettore Rosato, è stato deciso di convocare il gruppo per discutere della successione a Speranza. E avanti guarda anche Renzi. Il premier ieri mattina, sulla fiducia, ha detto: «Vedremo. Ma dopo tante discussioni ora siamo a un passo, vediamo il traguardo dell'ultimo chilometro. Faremo lo sprint finale sui pedali e a testa alta». Il premier ha detto che non sarà «più consentito ai veti e controveti dei piccoli di bloccare la democrazia in Italia». L’iter della legge però deve fare i conti con l’annuncio dei grillini, che, di fronte alla scelta del Pd, hanno deciso di boicottare i lavori della commissione Affari costituzionali. E Sel e Scelta civica, che fa parte della maggioranza, stanno pensando di seguire il loro esempio. E la tentazione dell’Aventino potrebbe contagiare anche Forza Italia. Del 21/04/2015, pag. 14 La tentazione di Berlusconi “Ricucire con Renzi per un Patto rinnovato e non dare spazio a Salvini” Il pressing degli uomini-azienda, da Confalonieri a Doris Cena ad Arcore. La svolta dopo la tragedia al largo della Libia CARMELO LOPAPA 18 «Guarda, Silvio, che tu devi riprendere il rapporto con Renzi, devi mettere da parte i toni di queste settimane, così non si va da nessuna parte». Berlusconi ascolta in silenzio, al tavolo con lui, ad Arcore, siedono i compagni d’avventura di una vita, due delle pochissime persone delle quali il leader si fidi per davvero. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum. Ultimo fine settimana, a Villa San Martino non si parla solo di cessione del Milan al thailandese Mr Bee, non solo dell’operazione Mondadori-Rcs libri, ma anche del futuro politico dell’ex Cavaliere. Ora che la pena è stata espiata e che Forza Italia dal primo giugno si prepara ad essere pressoché rasa al suolo e rifondata. Ma secondo i due vecchi consiglieri del capo, al restyling andrà affiancato un cambio di strategia. Fare un’immediata inversione a “U” sul patto del Nazareno non è possibile. L’Italicum che andrà al voto la prossima settimana alla Camera, non sarà ancora un test probante dei dubbi emersi a Villa San Martino. Certo, a voto segreto qualcuno dei “verdiniani” non mancherà di lanciare un segnale. Quando invece la riforma del bipolarismo tornerà all’esame del Senato, allora sì che i giochi potranno riaprirsi. Berlusconi non ne farà cenno di certo nelle prossime cinque settimane: con le regionali alle porte (il 31 maggio) l’esigenza è marcare Renzi, criticarlo semmai sull’attività di governo, ed evitare di lasciare lo scettro dell’opposizione a Salvini. Il quadro tuttavia è destinato a cambiare a urne chiuse. Ne sono convinti Raffaele Fitto e i suoi trenta parlamentari che, dopo lo strappo in Puglia e l’imminente battaglia legale sull’uso del simbolo, si preparano allo strappo e alla creazione di nuovi gruppi parlamentari. Si preparano a fare altrettanto Verdini e i suoi, per opposti motivi: se la linea non cambierà appunto sulle riforme che pure Fi ha sostenuto finora. Del resto dopo il brusco faccia a faccia della scorsa settimana, tra Silvio e Denis il gelo è pressoché totale. La situazione ad ogni modo è fluida. Domenica sera, dopo la tragedia del Mediterraneo, la mano tesa da Berlusconi a Renzi in nome dell’emergenza. Quel «basta alle accuse e alle contrapposizioni» e la proposta di un immediato «tavolo tra tutti i protagonisti dei governi passati e presenti». Sottolineata e apprezzata non poco, ieri mattina, dal presidente del Consiglio («Ha detto cose più sagge di Salvini »). Prequel di una svolta da qui a un paio di mesi? Quel che è certo è che i sondaggi commissionati negli ultimi giorni dall’ex Cavaliere sulle aspettative degli elettori moderati gli hanno confermato quel che aveva previsto. E così lo ha spiegato in queste ore ai dirigenti di prima fascia di Forza Italia: «La nostra gente si aspetta da noi buon senso. Dunque, da questo momento in poi, i toni devono essere più sfumati, moderati, meno urlati e i contenuti più ispirati alla linea del Ppe». Anche perché — ha continuato — «se copiamo i contenuti e i metodi della Lega, è chiaro che gli elettori preferiranno Salvini. Da lui invece dobbiamo prendere sempre più le distanze». Convinto che così potrà recuperare l’elettorato moderato in fuga da Fi anche perché impaurito dal mood barricadero. Con questa operazione, dai contorni ancora poco definitivi, Berlusconi innanzitutto punta a riaccreditarsi e a recuperare centralità sul piano nazionale: unico interlocutore di Renzi in una fase di emergenza, anche se per il momento non più seduto al tavolo delle riforme. E in secondo luogo, l’ex premier vuole confermare la sua leadership italiana del Ppe, frontman dei leader popolari europei. E la dichiarazione di domenica, al di sopra delle parti, è stato un biglietto da visita in vista dell’appuntamento Ppe di Milano di giovedì e venerdì centrato proprio sull’immigrazione. Intanto, la rifondazione del partito è iniziata. Ancora prima di sbarcare oggi a Roma, ieri da Arcore ha nominato Marcello Fiori (già coordinatore dei club Forza Silvio) responsabile degli Enti locali. Non ha ricevuto investitura ufficiale invece Andrea Ruggieri, ex avvocato e autore tv, nonché nipote di Bruno Vespa, inserito nello staff comunicazione con delega alle presenze tv, al fianco di Deborah Bergamini. 19 Del 21/04/2015, pag. 15 Berlusconi rinforza il cerchio magico L’ex premier nomina responsabile degli Enti locali il fedelissimo Marcello Fiori Estinzione della pena, la Procura generale chiede gli atti del Ruby ter e valuta un ricorso ROMA La sua dichiarazione sulla necessità di «essere uniti» di fronte a tragedie come quella del Canale di Sicilia ha riportato dopo settimane Silvio Berlusconi al protagonismo sulla scena politica, ma ha anche fatto sorgere il dubbio che si stia preparando una nuova svolta, una sorta di ritorno se non al patto, almeno allo spirito che diede vita al Nazareno. Sensazione sbagliata, assicurano i suoi. Da Arcore, dove ieri ha passato la giornata, l’ex premier viene descritto come molto impegnato sulle liste per le Regionali ed agguerrito rispetto a Renzi come è ormai da quando è saltato ogni accordo sul Quirinale. Nessun cambio di rotta insomma, piuttosto riflessioni sulla scelta — che si impone ormai — su come giocare la partita delle Regionali. Metterci o no la faccia? Tornare o no sulla scena in grande stile, magari trattando argomenti alti e non di spicciola campagna elettorale, per dare una mano ai propri candidati impegnati in una corsa a rischio? Berlusconi è tentato dal riprendere gradualmente il cammino verso una maggiore centralità mediatica e di conseguenza politica, ed è probabile che nelle Regioni dove gli azzurri sono in campo sarà presente magari con visite in luoghi simbolici, non con i tradizionali comizi. Ci sarà insomma in Liguria per Toti, dove è saltato l’accordo con i centristi di Ap che correranno da soli (anche se il candidato spera ancora in un appoggio visto che non è stata siglata un’intesa con la sua rivale Paita); in Campania per Caldoro e probabilmente in Puglia dove ha voluto a tutti i costi la candidatura della Poli Bortone. Ma ci sono controindicazioni: la prima è quella di legare il suo ritorno sulla scena ad elezioni come quelle Regionali mai tradizionalmente favorevoli e stavolta difficilissime, nonostante la speranza del 4 a 3 (al centrodestra Veneto, Liguria e Campania) ci sia in FI, tanto che Toti già dà a Renzi l’avviso di sfratto se accadrà. C’è poi cautela nelle mosse perché tornano a farsi minacciose le vicende giudiziarie che ancora lo tormentano: ieri infatti la Procura generale di Milano ha chiesto ai pm dell’inchiesta Ruby ter gli atti dell’indagine per valutare un eventuale ricorso al Tribunale di Sorveglianza che ha dichiarato estinta la pena per la condanna Mediaset. L’intenzione è di valutare se il leader azzurro abbia commesso reati nel periodo di affidamento in prova, visto che la Procura ha segnalato che avrebbe corrotto i testi fino al febbraio scorso. Tra vecchie e nuove preoccupazioni Berlusconi affronta dunque gli scenari futuri, sapendo che il suo partito è destinato a lacerazioni, ma preparandosi al contrattacco per il «rinnovamento» che dovrebbe presto portare al «partito repubblicano» che vorrebbe costruire per riunire tutto il centrodestra. Ieri infatti ha nominato responsabile degli Enti locali del partito, incarico di gran peso, uno dei fedelissimi di area cerchio magico, quel Marcello Fiori che guidava i club Forza Silvio. A lui il compito di «integrare» la vecchia struttura dei club nel partito, a tutti gli altri un messaggio: chi vuole andarsene si accomodi fuori, il partito cambierà pelle e facce. Radicalmente. 20 Del 21/04/2015, pag. 14 Libro Bianco, ecco come cambierà la Difesa “Nuovi fenomeni criminali e terrorismo da profondi sconvolgimenti politici” Da Marina e Aeronautica timori per possibili tagli orizzontali GIAMPAOLO CADALANU ROMA . La Guerra Fredda è lontana, il centro dell’attenzione italiana dev’essere il Mediterraneo, soprattutto per le Forze Armate: è questa una delle idee-guida del Libro Bianco della Difesa, che oggi verrà presentato al capo dello Stato Sergio Mattarella. Il documento di pianificazione strategica, fortemente voluto dal ministro Roberta Pinotti, indica che nel Terzo Millennio il centro di interesse per la sicurezza nazionale si è spostato: le minacce e le emergenze da affrontare possono arrivare da Est, ma ormai vengono più spesso da Sud, nell’area euromediterranea, dove «profondi sconvolgimenti politici hanno generato nuovi fenomeni criminali, guerre civili e il radicamento del terrorismo transnazionale ». E proprio contro i focolai di terrorismo l’Italia «deve assumere maggiori responsabilità e un ruolo attivo negli sforzi della comunità internazionale ». L’impegno degli uomini con le stellette deve cambiare anche attraverso strumenti di gestione: le risorse umane della Difesa dovranno essere meglio amministrate, e gestite con più rapidità. Non più un sistema rigido, ma «un’unica forza integrata», capace di intervenire tempestivamente ed efficacemente nella gestione delle crisi e nell’eliminazione delle minacce. «Le Forze Armate dovranno comportarsi come un decatleta, magro, scattante e flessibile», sintetizza un alto ufficiale che ha contribuito alla realizzazione del documento. Quanto alle caratteristiche della forza, dovrà essere «giovane e ben preparata professionalmente », con «dirigenza apicale contenuta». In altre parole, meno generali e più soldati in grado di operare. Il documento, ampiamente ispirato al “Levene Report” del 2011 che avviava la riforma della Difesa britannica, è un passo ulteriore nella manovra di tagli che dovrà portare le Forze Armate a 150 mila uomini, la cui carriera e il cui impegno dovranno essere slegati da logiche di automatismo e far riferimento alla professionalità. Il Libro Bianco stabilisabilità sce anche il principio della “stabilizzazione delle risorse”, che deve garantire un respiro pluriennale agli investimenti della Difesa. Come documento di indirizzo, il Libro Bianco affida allo Stato Maggiore della Difesa la realizzazione delle linee guida indicate. Proprio qui si nasconde un dettaglio che ha suscitato irritazione nella alte sfere militari, già critiche per lo scarso coinvolgimento nell’elaborazione del documento. Sono soprattutto Marina e Aeronautica che esprimono timori di un “ridimensionamento” attraverso tagli “orizzontali”. Del 21/04/2015, pag. 15 Crisafulli vince le primarie, il Pd lo stoppa L’ex senatore trionfa a Enna, ma Guerini chiama il segretario Raciti: non sarà il nostro candidato Il partito siciliano però non si allinea: “Sull’uso del simbolo deve decidere la federazione locale” EMANUELE LAURIA Nella città dove si è sempre vantato di vincere «anche a sorteggio» stavolta non ha maramaldeggiato. Ma lo scontatissimo successo di Vladimiro “Mirello” Crisafulli alle 21 primarie di Enna ha comunque riacceso le polveri nel Pd. Perché dal Nazareno, all’indomani dell’ultima performance dell’ex senatore, è partito un chiaro avvertimento rivolto ai dirigenti regionali del partito: «Non possiamo sostenerlo». Una presa di posizione che Lorenzo Guerini, il vice di Renzi, ha espresso ieri mattina al segretario dei dem siciliani Fausto Raciti. È quest’ultimo a confermarlo: «Sì, su Crisafulli mi è stata posta una questione di opportunità». Per essere più espliciti, Guerini ha detto a Raciti che il Pd non può sostenere la corsa al sindaco del dirigente ennese, già escluso dalle candidature alle Politiche, nel 2013, perché “impresentabile”. Ma il giovane segretario si è limitato a demandare la scelta ai circoli locali: «Io, a questo punto, non posso fare più niente. Sarà il territorio a decidere». La speranza (anche una prospettiva concreta?) consiste in una candidatura di Crisafulli appoggiata solo da liste civiche, senza simboli di partito. Ma per il Pd le amministrative in Sicilia stanno diventando un incubo. Dopo le primarie di Agrigento, annullate in seguito alla vittoria di un candida appoggiato da Forza Italia, ecco esplodere (anzi riesplodere) il caso Enna. Ampiamente prevedibile, in realtà. «Crisafulli? Spero che decida di non presentarsi», aveva detto la vicesegretaria del Pd Debora Serracchiani il 26 marzo. Malgrado ciò, il percorso delle primarie del Comune di Enna è andato avanti regolarmente: l’ex senatore, già coinvolto in diverse inchieste anche di mafia (tutte concluse in modo favorevole all’indagato), è stato lanciato alle consultazioni ai gazebo da un voto unanime pronunciato sia dalla direzione comunale che quella provinciale. Crisafulli, la scorsa settimana, ha archiviato l’ultima grana giudiziaria: è venuto fuori da un processo per falso in bilancio e truffa aggravata nato nel periodo in cui l’ex parlamentare diessino guidava l’Ato rifiuti di Enna. Un ulteriore tassello alla sua candidatura, anche se l’accusa di truffa è caduta solo per prescrizione. In ogni caso, domenica, il “Barone rosso” ha affrontato il test delle primarie e lo ha superato senza patemi: ha vinto con il 73,7 per cento del consensi. Il suo rivale Dario Cardaci, esponente di Ncd, si è fermato al 26,3 per cento. Una vittoria più che annunciata che non ha però spento le polemiche. Giuseppe Lauricella, deputato siciliano del Pd, ha riproposto il tema delle alleanze: «Come ad Agrigento, qui si è andati oltre. Non si può estendere il quadro delle forze politiche partecipanti alle primarie fino all’Ncd. Siamo oltre il centrosinistra». Mentre Angelo Argento, membro della commissione di garanzia del partito, anche ieri ha invitato i vertici del Pd a riflettere: «Il problema non è personale, è politico. Crisafulli non può interpretare il nuovo corso del partito». L’atteggiamento del Nazareno, d’altronde, è chiaro. Ed è di sostanziale gelo nei confronti della candidatura dell’ex senatore. Il quale, dal canto suo, non ha alcuna intenzione di demordere. Già nel 2010 Crisafulli vinse le primarie per il Comune e si ritirò per questioni di opportunità. Ora vuole andare sino in fondo, in una città dove dal 1991 non ha mai perso una sfida elettorale. Ed è pronto a confrontarsi con un avvocato, Maurizio Di Pietro, che è stato capogruppo dei Ds e che poi, entrato fra i dem, è stato espulso per due volte dalla dirigenza vicina a Crisafulli. Di Pietro fu addirittura querelato e finì davanti a un magistrato quando, in un documento politico, scrisse che «i vertici del Pd locale hanno avuto scarsa attenzione ai temi della legalità, consentendo carriere politiche a uomini che hanno comprovati rapporti con la malavita». Il procedimento venne archiviato. E adesso il confronto si sposta dal tribunale alle urne. 22 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 21/04/2015, pag. 25 Troppa corruzione, diffusa ovunque: noi bocciati in etica La percezione di giovani, dirigenti e imprenditori nella ricerca di Makno per Miworld. «Investire in cultura» Se si prova a incasellare gli Stati incrociando corruzione e partecipazione culturale, il risultato è questo: l’Italia, in compagnia di Grecia, Romania o Bulgaria, è nel quadrante «peggiore», quello che raggruppa elevata corruzione e scarsa propensione a valorizzare il proprio patrimonio artistico. All’opposto, nazioni come la Svezia e Danimarca ma anche Francia e Regno Unito. È una delle fotografie della ricerca condotta da Makno per Miworld, associazione che si propone non solo di riflettere sulla società e l’economia ma di proporre soluzioni e azioni concrete, con il cuore a Milano e un orizzonte più vasto. La ricerca, che sarà presentata il prossimo 24 aprile alla Triennale di Milano, aveva come obiettivi quelli di «comprendere e verificare le dinamiche che intervengono tra investimenti in cultura e qualità etica di una governance». I dati sono impietosi: il 98% del campione intervistato ritiene che la corruzione nel nostro Paese è diffusa (26%) o molto diffusa (72%); cifra che sale al 99% quando la domanda è sulla diffusione nella politica. E più di due intervistati su tre (il 70%) ritengono che riguardi sia i livelli alti che quelli intermedi. A più di vent’anni da Mani pulite, quando anche la fiction celebra quegli anni di svolta, la ricerca Makno nota e sottolinea la «pervasività» della corruzione. Tutt’altro che debellata o ridotta, come testimonia la cronaca quotidiana. Anzi, evidenzia il «crescente livello di accettazione da parte della grande maggioranza della popolazione». Non solo, «la commistione tra interesse pubblico e interesse privato ha caratterizzato il panorama politico nazionale a partire dagli Anni 90». Le conseguenze sono un crescente indebolimento del senso di appartenenza alla comunità e il «disinnamoramento» per la cosa pubblica a favore del vantaggio personale. I costi sono non solo economici (ostacoli alla libera concorrenza o alla scelta di operatori sulla base del merito, sperpero di denaro pubblico) ma anche sociali (aumento delle disuguaglianze, sfiducia nelle istituzioni) e «reputazionali» (l’immagine dell’Italia a livello internazionale, la disincentivazione degli investimenti). Il merito della ricerca non è solo quello di sondare un campione rappresentativo della popolazione, ma di interrogare opinion maker, e analizzare materiali italiani e internazionali. Le percentuali che segnalano il malessere sono l’input per indicare linee d’azione, nella convinzione che «le forme repressive da sole non bastano». Ecco allora l’indicazione del rafforzamento del sistema etico di valori e i due elementi su cui puntare sono da un lato i media (per la capacità di costruire una cultura della responsabilità) e i giovani (tocca a loro infrangere le cattive abitudini). La cesura con il passato (e il presente) e l’avvio di una fase virtuosa non solo può essere favorita dalla cultura ma deve metterla decisamente al centro (come antidoto alla corruzione). Per il 92% degli intervistati rappresenta la leva da attivare per risollevarsi dalla crisi economica, il 66% indica gli investimenti in questo settore come una delle priorità, e l’88% ritiene le risorse attuali inferiori (o molto inferiori) a quanto sarebbe necessario. Il futuro auspicabile e possibile dovrà passare attraverso la formazione di una nuova classe dirigente ma anche da una consapevolezza più diffusa, una rinnovata etica che spazzi via frasi del tipo: «Si è sempre fatto così». Per eliminare anche quel paradosso 23 evidenziato da quel confronto tra le nazioni, dove proprio l’Italia e la Grecia, che possono vantare un patrimonio culturale imponente, sono le prime a frustrarne l’accesso e la fruizione . Riccardo Bruno Del 21/04/2015, pag. 28 Il rischio strisciante del malaffare Non solo Mafia Capitale. E della nuova legge si contesta l’assenza di un’Authority di controllo Bisognerà attendere la prossima rilevazione per sapere se davvero «Mafia Capitale» ha intaccato il buon nome del Terzo Settore. Per il momento, stando a quella dello scorso anno, pubblicata a febbraio nel «Rapporto Italia» di Eurispes, il volontariato svetta ancora al primo posto nell’indice della fiducia dei cittadini con un 78,8 per cento di preferenze, seguito a ruota dall’Arma dei Carabinieri (73,4 per cento). Tuttavia, regole poco chiare hanno permesso di creare un labirinto dove s’insinua il malaffare. I casi da elencare sono i più svariati, solo per citare i più recenti, si va da quello della cooperativa di Ischia della scorsa settimana, alla clamorosa inchiesta di mafia Capitale, sino ai 14 arresti a gennaio scorso per il «mercato nero» degli abiti usati che venivano sì inviati in Africa ma per essere rivenduti. Molte anche le inchieste relative all’accoglienza dei rifugiati politici. Lo stesso Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Anticorruzione, non più tardi di qualche giorno fa ha rilanciato affermando che «a breve potrebbero partire nuove indagini riguardanti il sociale». Un’attenzione sempre crescente verso un settore, l’unico in Italia, che negli anni della crisi secondo l’Istat ha registrato una crescita, rispetto al 2001, del 35 per cento con 681mila addetti, 271mila lavoratori stabili e 5mila temporanei, oltre i 4 milioni e 700mila volontari. Sul Pil questo mondo pesa per più del 5 per cento. Numeri da capogiro che per il non-profit, come spiega il sociologo Giovanni Moro, autore di Contro il no profit»: «Senza un adeguato controllo rischia di andare fuori binario». Lui lo ha ribattezzato il «dark side» del sociale: c’è chi gonfia a dismisura il numero delle prestazioni e degli assistiti; chi utilizza la forma giuridica per saltare la gara d’appalto nei servizi di assistenza; chi usa il servizio civile per dispensare piccoli posti di lavoro da tramutare in voti al momento opportuno; chi eroga rimborsi forfettari che altro non sono se non stipendi in nero; onlus che acquistano beni e li riaffittano ai proprio soci a prezzi stracciati e chi apre un bar senza bisogno di licenza alcuna sfruttando la formula della somministrazione libera di alcolici ai soci. Frodi perseguibili, certo, ma come? «Purtroppo oggi in Italia non esiste un’autorità in grado di controllare la coerenza delle attività svolte» spiega Moro. Authority non prevista nel testo della Legge Delega sulla riforma del Terzo Settore che dopo l’approvazione avuta alla Camera è attesa al Senato: entro luglio dovrebbe esserci il via libera definitivo. Del 21/04/2015, pag. 13 Speculazioni e mafie In Liguria tutto liscio come l’olio 24 DAL PICCOLO BERLUSCONI DI AVEGNO, GIÀ PADRONE DELL’INDUSTRIA DELLE OLIVE AL SUMMIT DELLE CHITARRE Con la val di Vara alle spalle ripetiamo la formula slow. Tornanti a ripetizione, discese e risalite fino ad Avegno. È il paese di un berlusconoide, Ezio Armando Capurro, politico itinerante ma anche imprenditore itinerante. Con l’olio di sanza, il nocciolo dell’oliva da cui si spreme l’ultimo e più degradato succo, ha fatto begli affari. In Liguria come in Puglia. Per anni ha conosciuto il successo detenendo il marchio dell’olio Sasso ed è stato con i suoi concittadini il promotore del perenne scambio civile: lavoro contro inquinamento. La gente lo ha accolto come un grande benefattore, acclamandolo poi nelle urne, e se ne è infischiata se dalle ciminiere usciva fumo puzzolente. Meglio la puzza che la disoccupazione. Meglio deviare il corso del torrente, come è stato necessario per far posto alla fabbrica, che rinunciare alla fabbrica. Quando il business è finito, l’impianto ha cessato la produzione e si è trasformato in una discarica illecita fino a che nel 2004 l’area è stata posta sotto sequestro dall’Autorità Giudiziaria. Il 2004 è anche l’anno in cui, grazie all’adozione del nuovo piano urbanistico comunale, il terreno trova una nuova destinazione e da zona industriale diviene zona residenziale e commerciale (previsti circa 17.000 mq di nuove costruzioni). Un bel regalo per il politico imprenditore, già sindaco di Rapallo e oggi consigliere regionale del Pd. Ma la crisi del mercato immobiliare ha gelato l’entusiasmo del grande benefattore e ora si dovrebbe pensare a qualcosa di più profittevole. Con una perla si chiude questo piccolo viaggio dentro il magico mondo dei berlusconi di provincia: nonostante esista una valutazione risalente all’anno 2008 dell’Agen - zia delle entrate che stima il valore dell’area in una somma superiore ai 6 milioni di euro, l’am - ministrazione comunale non ha mai ritenuto di riscuotere l’ICI prima e l’IMU successivamente sul valore dei terreni resi fabbricabili, in forza di un parere legale richiesto e pagato dalla stessa amministrazione che sostiene la non legittimità del tributo. Quanta solerzia, e quanta generosità, vero? Un bell’esempio di come la politica, quando è sovvenzionata dagli interessi, prosegua a zig zag e adatti il territorio e perfino la legislazione agli interessi del dominus. Si faceva l’olio ed era zona industriale, è finito l’olio e quella è divenuta area residenziale. È crollato il mondo del mattone e si cambia ancora. Uscio, l’orologio d’Italia È ora di andare a Uscio, nell’altro versante della vallata. Qua costruiscono orologi per campanili di ogni ordine e grado. Servono, su richiesta, anche splendide campane, piombo fuso di prima qualità. È una fabbrica che non ha età e, a dispetto del settore, non ha tempo. Felicemente antimoderna, la comunità non soffre la crisi delle lancette. Non esiste campanile senza orologio, e non c’è orologio che non si fermi, che non abbia bisogno di una riparazione o di una sua riedizione. Uscio merita una capatina, senza fretta però. L’orologio lasciatelo a casa. Rapallo, Lavagna e i fiori Non c’è niente da fare: chi è bello ha sempre il sole in tasca. Il panorama che l’Aurelia offre nei pressi di Rapallo è incantevole. Nelle curve a gomito, nelle sporgenze avanzate, con i balconi fioriti dei palazzi a picco sul mare, il Levante ligure si piglia e si assomiglia con la costiera amalfitana. Più della luce del mare è l’armonia apparente tra il costruito e la natura, e la misura con la quale l’uomo ha edificato e rimarchevole anche la riservatezza che ha impiegato per nascondere le schifezze alla vista. Gli abusi ci sono, ma non si vedono. Anche questo è talento. Il sole però inizia a declinare e all’altezza di Lavagna troviamo una nebbiolina inglese, quella pioggia insistente ma dolce che trasforma il porticciolo in un hangar per gabbiani colpiti da un maestrale improvviso e freddo. La discarica sul golfo dei poeti C’è invece sempre un luogo dove la ragione, la banale considerazione che il bene comune non può essere tragicamente offeso, debba trovare un’ostruzione invincibile. A La Spezia menti particolarmente crudeli hanno deciso di realizzare in cima a uno spuntone di roccia che s’affaccia sul golfo dei poeti una discarica. In città è conosciuta come la discarica dei veleni, ed è la dimostrazione che al peggio non c’è mai fine. Stefano Sarti, vicepresidente 25 di Legambiente e Marco Grondacci, consulente di diritto ambientale, fanno strada verso questa vergogna. Sono uomini di mezza età, abituati alla sconfitta, a perorare cause perse. E infatti la loro battaglia per vedere cessato questo misfatto ha da poco raggiunto il traguardo. La discarica è stata chiusa quando però tutto il peggio era già stato infilato nel terreno. “Ora vediamo i bulldozer che stanno spianando l’area, bonificando con la seppellitura”. La discarica è appena sotto il cimitero. Sembra che la morte abbia preso prima gli uomini e poi la natura. Stanno seppellendo la montagna che guarda il golfo, e la sua memoria. Fu il commediografo Sem Benelli a coniare il termine durante l’orazione funebre per Paolo Mantegazza: “Beato te, o poeta della scienza, che riposi nel golfo dei poeti”. Lord Byron, David Herbert Lawrence, George Sand, Gabriele D’Annunzio, Mario Soldati amarono questa terra. Anche Indro Montanelli era innamorato delle sue vedute. Avesse saputo che qui avrebbero eretto una discarica... Sarzana, che Botta! Sarzana non è più Liguria e non è ancora Toscana. Piega verso le Apuane, traffica con l’Emilia e sbuffa. Città rossa per eccellenza, comunisti instancabili e devoti. Sarzana oggi è divenuta un crocevia pericoloso per i conflitti tra alcune famiglie ’ndranghetiste. “Giuro che in cinquant’anni di vita non ho mai sentito parlare di malaffare. È una scoperta degli ultimi tempi, per noi è stato davvero uno choc”, dice Gianna al bar dove lei e i suoi amici si ritrovano per spiegare le ragioni della loro associazione che ha un bel nome. Si chiama “Oltre il mugugno”. “Abbiamo scelto di aprire gli occhi e di dar fiato alla bocca. Di denunciare tutto quel che non va, questa deriva morale che sta corrompendo una città ricca di storia e piena di orgoglio. Noi ci siamo spaventati il giorno in cui, riuniti per una manifestazione della casa della legalità, abbiamo visto due signore, sedute proprio al mio fianco, inveire contro il relatore che ci spiegava la dislocazione delle famiglie della ’ndrangheta a Sarzana. Erano le mogli di due di loro, che magari avrò salutato tante volte. È stato uno choc, mi creda”. Le inchieste e gli arresti hanno riempito le pagine delle cronache locali. Gli investigatori da tempo avevano raccolto elementi a carico della famiglia dei Romeo. A cui si sono aggiunti i Siviglia, gli Iemma. Nomi che per anni sono rimasti confinati dentro le mura del palazzo di Giustizia di La Spezia, confusi, diluiti o annegati dalla colpevole distrazione della politica. “Siamo alle Mani sulla città di Francesco Rosi. Le dimensioni sono più contenute ma gli effetti devastanti dell’illegalità sono esplosi tutti insieme”, dice Luca Manfredini. Gianna: “Per dire la mia confusione: mio figlio è amico di un ragazzo di quelle famiglie, frequenta le loro case. Il ragazzo è perbene ma dei genitori posso dire altrettanto? Questo mi disturba, mi mette in tensione”. Gandolfo, siciliano, muratore in pensione: “La città è sporca dentro”. Paola Settimi, editore di La Spezia Oggi: “La ‘ndrangheta che non vedi è negli appalti”. Sarzana naturalmente è una città con una ossatura civile che le permette di fronteggiare anche questa emergenza, questa delusione. Ospita il festival della mente, conosciuto in Italia, e qui c’è una rassegna straordinaria, il summit annuale delle migliori chitarre acustiche. Andrea Giannoni è un musicista blues, stasera suona al Kirkur, un pub in piazza: “Il blues riempie le notti ma ci obbliga a lavorare di giorno. Io faccio il cuoco in una scuola elementare di Aulla, una città che dopo l’alluvione sta poco a poco morendo. Sarzana è robusta, secondo me sa come cavarsela”. “Secondo me invece dobbiamo stare attenti, venga che le mostro un’altra cosa”, dice Luca. Andiamo verso un quadrato di palazzi costruiti a metà, residenze per famiglie non abbienti. Dovevano essere case popolari disegnate dalla matita dell’archistar Mario Botta. Finanziamento incompleto, costruzioni bloccate, rovine in città. “Ecco la speculazione, il magna magna non è solo romano. Qui la politica ha dilapidato un patrimonio”. “Sarzana che Botta!”è il nome dell’associazione che monitora il cemento mancante, i giorni persi nell’attesa, e questo scheletro urbano extralusso. Si vota in Liguria e all’agriturismo L’Antico Casale Forza Italia tenta di organizzare una difesa per Giovanni 26 Toti, il candidato governatore. C’è una riunione con tutti i maggiorenti. Benché il Pd non sia messo bene, l’umore non è dei migliori stasera. RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 21/04/2015, pag. 5 CGIL E ASSOCIAZIONI IN PIAZZA MANIFESTAZIONI OGGI IN TUTTA ITALIA Oggi mobilitazione nazionale a Roma e in tutta Italia, per chiedere di fermare la strage nel Mediterraneo: a organizzarla sono Cgil, altri sindacati, associazioni e ong. A Roma appuntamento a partire dalle 14.30 davanti a Montecitorio. Appuntamenti in tutte le principali città italiane. Da il manifesto del 21/04/15, pag. 2 Sommersi e abbandonati Federico Scarcella CATANIA La strage del canale di Sicilia. Su 20mila persone giunte in Italia, il 10% sono morte. Il procuratore Salvi «Triton crea problemi anche sul piano delle indagini» Quel barcone era un sepolcro per vivi, con i due livelli inferiori adibiti alla «terza classe» dei migranti, quella riservata a chi ha i soldi per imbarcarsi ma non per garantirsi l’aria da respirare e l’acqua, privilegio degli occupanti dell’unico piano alto. Giù, negli inferi, la poca acqua fornita agli assetati veniva miscelata con un po’ di gasolio, in modo da farsi passare la voglia di bere. Giù, dice il procuratore di Catania Giovanni Salvi, prima della partenza le porte sono state sprangate, perché nessuno doveva uscire, perché ogni movimento può mettere a rischio l’equilibrio dell’imbarcazione, che infatti è colata a picco all’alba di sabato scorso, quando i migranti in coperta si sono spostati tutti su una fiancata alla vista del container portoghese «King Jacob» giunto in loro soccorso dopo un sos lanciato con un telefono satellitare. L’invito a mantenere la cautela sul numero dei morti, fatto ieri dal procuratore Salvi, non cambia le dimensioni della tragedia: 700 — come detto nell’immediatezza dei fatti — o 900 come ha riferito un superstite domenica sera, si tratta comunque di un’ecatombe. Se quest’anno su 20 mila persone giunte in Italia, quasi 2mila (il 10%) sono morte, vengono i brividi a pensare cosa ancora potrà accadere. Lo scorso anno ne sono arrivate 170 mila in 12 mesi; nel 2015 le previsioni più ottimistiche ne stimano 250 mila. Stavolta lo «spread» tra i vivi e i morti è impressionante: soltanto 28 sopravvissuti e tra loro anche due migranti che hanno raccontato di essersi «aggrappati ai morti per non finire in fondo»; mentre gridavano, aggiungono i soccorritori, «per attirare la nostra attenzione». I 28 superstiti sono arrivati a Catania nella tarda serata di ieri sulla nave Gregoretti della Guardia costiera, che in mattinata aveva fatto tappa a Malta per lasciare i 24 cadaveri che troveranno sepoltura a La Valletta. 27 Da noi non c’è più neanche posto per i morti, e mentre sono tante le parole in libertà, scarsissima è la libertà di parola, quella che dovrebbe inchiodare alle proprie responsabilità la ricca Europa, che facendo i conti della serva ha fatto in modo che la «costosa» e ben più efficace operazione Mare Nostrum (9 milioni al mese) fosse sostituita dalla più economica Triton (3 milioni al mese). È ancora il procuratore Salvi a parlare: «Triton — spiega — crea problemi anche sul piano delle indagini, rispetto alla precedente operazione, e si basa fondamentalmente sulle navi mercantili», cioè sui natanti in navigazione nel Mediterraneo, precettati e dirottati sui «target» man mano individuati nelle varie aree. Non solo mercantili, ma anche pescherecci, come è accaduto alle cinque motonavi di Mazara del Vallo — marineria allo stremo per i sequestri e per la crisi che ha corroso l’economia locale — inviati sul luogo del naufragio. Vincenzo Bonanno, comandante dell’«Antonino Sirrato», ha provato una grande delusione quando è giunto sul posto, alle quattro del mattino di sabato scorso, e ha trovato «solo giubbotti di salvataggio, vestiti, detriti d’ogni genere, una grande chiazza di gasolio e… morti. Nessuno da salvare, il mare ha inghiottito in fretta 900 persone, la popolazione di un paese». A questa gente, pronta a sacrificare il proprio pane e la propria vita per salvare i naufraghi, lo Stato non ha mai detto grazie: «Se salvi qualche migrante, dopo un paio d’anni qualcuno organizza una cerimonia e ti appuntano una medaglia sul petto. Mai un rimborso», dice l’armatore del «Sirrato» Piero Asaro. Si fa economia e si fanno grandi proclami: «Arrestare gli scafisti è una priorità», dice ancora Renzi, dopo che all’alba di ieri la Dda di Palermo aveva fermato un gruppo di eritrei, etiopi, ivoriani e Ghanesi. E in Calabria è finito in manette uno scafista — riconosciuto perché privo di una gamba — che lo scorso 12 aprile, per una manovra sbagliata, aveva provocato davanti alle coste libiche un naufragio costato la vita a 350 persone (150 i sopravvissuti). La notizia dei 350 morti era stata data dai media senza troppa enfasi, a sottolineare che anche l’informazione sta facendo il callo ai morti e rivedendo i propri parametri. A Palermo la Dda ritiene di aver fatto un colpo grosso. Tra le 24 persone coinvolte nell’indagine (10 sfuggiti alla cattura) ci sono anche l’etiope Ermias Ghermay (latitante dal luglio scorso) e l’eritreo Medhane Yehdego Redae, ritenuti tra i più importanti trafficanti di migranti che operano su quella che viene chiamata la «rotta libica». L’organizzazione, con un cospicuo supplemento in denaro, gestisce le fughe dei migranti dai centri di accoglienza italiani verso altri paesi Ue, soprattutto Norvegia, Germania e Svezia. Si stima che 5mila persone si sono rivolte nel solo 2014 al gruppo criminale e alcuni hanno pagato con un metodo fiduciario usato nel mondo arabo, che si chiama «Hawala» e che non lascia tracce, messo a punto parecchi secoli fa per raggirare il diritto romano. Ghermay è accusato del naufragio avvenuto il 3 ottobre 2013 davanti a Lampedusa, in cui persero la vita 366 migranti e per il quale è stato condannato a 20 anni uno scafista. Quella strage di un anno e mezzo fa impressionò il mondo intero, tanto che la data del 3 ottobre è stata scelta come Giornata per commemorare i migranti vittime di naufragi. 366 era una sorta di Linea Maginot, una cifra non superabile per la devastante dimensione della tragedia. Oggi i morti sono quasi il triplo e le parole di chi ha il compito di decidere le misure per arrestare questo genocidio restano le stesse e suonano sempre più beffarde: mai più. 28 Del 21/04/2015, pag. 2 Migranti, a Rodi un’altra tragedia si ribalta il barcone, 200 a bordo “Un milione di profughi in arrivo” Drammatico naufragio in Grecia: 80 salvati, tra i cadaveri anche un bimbo Allarme sui nuovi sbarchi. Ieri soccorsi sei gommoni con 600 persone Un puntino in mezzo al mare. Lo si vede da lontano, in balia delle onde, mentre si avvicina. Se ne distingue appena la sagoma. L’unica cosa che si scorge, nitidamente, è che là sopra sono tanti, tanti davvero (200 circa diranno qualche ora più tardi i testimoni alle autorità greche). Così tanti da rendere assai precario l’equilibrio del barcone che, infatti, in un istante, si capovolge: troppo pesante, lo scafo urta contro gli scogli. Gettando i corpi a mare. E la tragedia è in diretta, filmata con il cellulare da turisti e residenti. Lì, a poche bracciate dalla costa di Rodi, hanno perso la vita un bambino, un uomo e una donna, mentre 80 sono stati tratti in salvo e gli uomini dei soccorsi sono ancora al lavoro per cercare i dispersi. Decine e decine di persone in mare, disperate, hanno cercato di trovare un appiglio che permettesse loro di galleggiare e di raggiungere la riva. È scattata subito una catena umana e diversi uomini si sono tuffati nell’acqua gelida per andare incontro ai superstiti e trascinarli a fatica verso la riva non sabbiosa ma irta di scogli taglienti. Secondo la Guardia costiera, il barcone era partito dalle coste della vicina Turchia ma gli scafisti lo hanno abbandonato quando ancora si trovava al largo dell’isola di Rodi, lasciandolo a destino che, con quel peso e quella costa, era scritto. Molti dei migranti a bordo, che secondo le autorità sarebbero per lo più di origine siriana, potrebbero aver raggiunto terra incolumi ed essersi poi nascosti. Immagini di una tragedia che ogni giorno si fa più cruenta e di un bollettino che fa rabbrividire. Ieri, 638 migranti sono stati soccorsi, da imbarcazioni italiane, mentre navigavano nel Canale di Sicilia. Erano a bordo di sei gommoni in difficoltà che hanno lanciato l’sos all’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, Oim. Un’emergenza che non accenna a diminuire. Ieri il procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia, nel corso della conferenza stampa di presentazione di un’operazione contro la tratta di immigrati, ha detto che in Libia «ci sono tra 500 mila e un milione di persone pronte a partire per l’Italia: sono siriani, eritrei, etiopi pronti a pagare, come hanno fatto tutti gli altri prima di loro, complessivamente seimila o seimilacinquecento dollari a testa per abbandonare i loro Paesi». Numeri che non lasciano molti dubbi: è solo all’inizio. 29 Del 21/04/2015, pag. 8 “Subito il sì dell’Onu e blocchiamo i barconi” La road map di Renzi per un’ipotesi di intervento di polizia internazionale contro gli scafisti. No a operazioni di terra Nuova stoccata all’Europa di Mattarella: “Fino ad ora risposte inadeguate, non può più volgere lo sguardo altrove” GOFFREDO DE MARCHIS Come al solito, è “timido” l’impegno finanziario dell’Unione europea per fronteggiare gli sbarchi dei profughi dalla Libia. Qualche promessa, ma niente di più. Va molto meglio sul fronte della «guerra agli scafisti» che Matteo Renzi ha dichiarato dopo la tragedia di domenica. Il governo italiano incassa il consiglio straordinario della Ue fissato per giovedì. All’ordine del giorno non ci saranno solo le operazioni umanitarie necessarie per salvare delle vite, ma «un’iniziativa diretta contro i trafficanti di essere umani», dicono a Palazzo Chigi. Significa intervento militare o comunque di polizia internazionale. Non operazioni di terra ma contro gli scafisti da condurre nei porti libici. Per distruggere i barconi ed eliminare i negrieri equiparandoli a terroristi. L’Italia gioca la partita in prima linea e lo fa su due tavoli. Quello di Bruxelles e quello, ancora più delicato, di New York. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, riunito ieri in Lussemburgo con i colleghi europei, tiene i contatti con la presidenza di turno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Giordania, già impegnata negli attacchi alle basi dell’Isis tra la Siria e l’Iraq. Dalle Nazioni unite, nelle prossime ore, dovrebbe arrivare una dichiarazione ufficiale sulla vicenda libica e sulla tratta degli esseri umani nel Canale di Sicilia. Una dichiarazione del consiglio di sicurezza va oltre le parole di cordoglio del segretario generale Ban Ki Moon. Può avere effetti operativi o prepararli. Il pronunciamento dell’organo esecutivo dell’Onu non è una risoluzione, non offre poteri di azione immediati alla comunità internazionale. Per la risoluzione i tempi sono naturalmente più lunghi. Va studiata sul piano tecnico e giuridico. Ma può essere il segnale decisivo, anche perché dimostrerebbe l’attenzione della Casa Bianca e del Cremlino, ovvero delle potenze mondiali. Una dichiarazione dell’Onu può scuotere ancora di più i Paesi europei. Tra i quali, comunque, secondo la versione che esce dal vertice del Lussemburgo, si è fatta largo «la consapevolezza» del problema grazie anche alle nette prese di posizione dell’alto rappresentante Federica Mogherini e del commissario all’immigrazione Dimitris Avramopoulos. Il giro di telefonate di Renzi ha fatto compiere qualche passo avanti. Da ratificare però giovedì a Bruxelles. L’Europa dimostra la sua tradizionale ritrosia a tirare fuori del denaro per un problema continentale. Gentiloni ed Alfano (presente in Lussemburgo) hanno ascoltato le garanzie per il raddoppio dei fondi di Triton, la missione di contrasto agli sbarchi che oggi costa 2,9 milioni di euro al mese. E la generica promessa di «moltiplicare» gli investimenti per l’accoglienza ai migranti. Ma non hanno avuto la sensazione che si faccia sul serio. La controprova la daranno i leader. La spinta di Barack Obama invece costringe i paesi della Ue ad affrontare di petto il problema degli scafisti. E per un intervento militare, ovviamente non di terra, ma via mare o dal cielo, conta soprattutto l’Onu. Un’eventuale risoluzione ha bisogno di un governo stabile in Libia. Bernardino Leon, lo spagnolo a capo della missione libica, ha fatto sapere alla Farnesina che «l’80 per cento del programma per un governo di unità nazionale viene condiviso dalle tribù locali». Manca quindi un passo non troppo lungo per dare un’autorità al Paese. Nel frattempo però l’Europa deve dare un segnale. 30 Una strigliata alla Ue arriva da Sergio Mattarella. «Non può sottrarsi alla prova di centinaia di migliaia di profughi in movimento che abbandonano le proprie case per sfuggire alla morte, alle persecuzioni, alla fame». Il capo dello Stato ha colto l’occasione dell’udienza concessa ai presidenti dei Parlamenti dell’Unione per scandire quello che è più di un semplice invito a fare presto. Non voltare la testa, dice, «è la ragione fondante della nostra Unione». Se esiste una comunità europea questo è il momento in cui è chiamata a farsi sentire. «I valori di pace, libertà, democrazia, rispetto dei diritti della persona ci impediscono di rimanere indifferenti di fronte all’immane tragedia che si svolge quotidianamente a poche miglia dal confine meridionale dell’Europa», avverte il presidente della Repubblica. «Oggi essere europei significa anche saper dare risposta efficace a questa crisi». Del 21/04/2015, pag. 9 Il vertice Programma in dieci punti. Ma niente intesa sulla ridistribuzione dei richiedenti asilo La Casa Bianca: “In Libia situazione insostenibile”. Giovedì summit straordinario “Distruggere le barche dei trafficanti e più soccorsi in mare” Ecco il piano della Ue ANDREA BONANNI Sembra che la catastrofe dell’altro ieri al largo delle coste libiche abbia finalmente smosso le coscienze anche dei governi che fino ad ora si erano dimostrati più ostili ad un sostanzioso intervento di solidarietà per aiutare i Paesi sommersi dalla marea di profughi. Ma si tratta pure sempre di una solidarietà limitata. Su uno dei punti cruciali della questione migranti, e cioè la ridistribuzione tra gli Stati membri dei richiedenti asilo, la Ue infatti si dice pronta solo a «considerare le opzioni» per un «meccanismo di ricollocazione di emergenza». Tradotto dal linguaggio diplomatico, vuol dire che su questo punto si continuano a registrare veti e indisponibilità. Il piano in dieci punti prevede un rafforzamento immediato delle operazioni di ricerca e soccorso in mare denominate “Triton” e “Poseidon”. Anche il raggio di azione dei pattugliamenti dovrebbe essere sostanzialmente ampliato. Dopo che l’Europa aveva criticato l’operazione italiana Mare Nostrum perchè troppo estesa e suscettibile di incrementare il flusso dei profughi, ora evidentemente fa marcia indietro. La Germania ha proposto di raddoppiare i fondi comunitari messi a disposizione delle due operazioni. Molti Paesi, tra cui la Svezia, si sono detti disponibili ad aumentare il numero di navi, aerei e motovedette da inviare nel Mediterraneo. Altro punto qualificante del programma proposto da Bruxelles, che si concentra particolarmente sulla lotta ai trafficanti, è l’impegno a rafforzare le operazioni di cattura e distruzione delle carrette del mare usate per il trasporto dei profughi. Per questo i ministri suggeriscono di utilizzare i metodi sperimentati nell’operazione Atalanta per la lotta contro i pirati che infestano l’oceano Indiano al largo delle coste somale. Ma per una effettiva azione di ricerca e distruzione delle imbarcazioni, ha avvertito ieri Federica Mogherini, sarà necessario un mandato delle Nazioni Unite, «e l’Europa si sta muovendo per ottenerlo». Il piano prevede inoltre che l’ufficio europeo per l’asilo invii funzionari in Italia e Grecia per aiutare i due Paesi ad esaminare le richieste di protezione dei rifugiati. A tutti i migranti verranno prese le impronte digitali (cosa che si 31 dovrebbe già fare ora, ma che spesso non si fa). Le agenzie europee per la lotta alla criminalità e la sorveglianza delle frontiere dovranno coordinarsi per rafforzare la guerra contro i racket del traffico di esseri umani e inviare agenti nei Paesi limitrofi alla Libia per individuare le filiere del traffico. La Ue varerà un nuovo piano coordinato dall’agenzia Frontex per il rimpatrio degli irregolari che non abbiano diritto di asilo. Inoltre si rafforzeranno i rapporti con gli Stati attorno alla Libia per cercare di potenziare il controllo alle frontiere meridionali del Paese e ridurre il numero di migranti che raggiungono le coste della Cirenaica e della Tripolitania. Come sempre, in questi casi, ad alcuni fatti concreti si aggiunge un catalogo di buone intenzioni. Ma la sensazione è che questa volta anche i governi europei più refrattari comincino davvero a sentire la pressione delle rispettive opinioni pubbliche e anche delle organizzazioni internazionali. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon ha parlato di una «tragedia titanica », e il suo portavoce ha invitato l’Ue a dimostrare solidarietà ai Paesi più colpiti dall’ondata migratoria, come l’Italia, la Grecia e Malta. Anche la gli Stati Uniti intervengono sulla questione: la portavoce del Dipartimento di Stato offre la disponibilità di Washington a «collaborare» con le autorità europee, mentre la Casa Bianca definisce la «situazione in Libia sempre più insostenibile» e «con gravi riflessi umanitari». Ieri perfino il premier britannico David Cameron, che da tempo si batte per porre limiti all’immigrazione nel suo Paese, dopo una telefonata con Renzi si è unito all’Italia, a Malta e alla Grecia per sollecitare la convocazione del vertice europeo straordinario. Del 21/04/2015, pag. 6 Il boss dei trafficanti nel centro per rifugiati “Ne carico troppi? Loro hanno fretta...” ALESSANDRA ZINITI PALERMO Chissà che non siano proprio loro i trafficanti che hanno organizzato il viaggio poi trasformatosi nel più grave naufragio della storia dell’immigrazione. «Non abbiamo alcun elemento ma non possiamo neanche escluderlo, visto che abbiamo la certezza che i capi di questa organizzazione siano ancora attivi in Libia e sono i responsabili di molti recenti viaggi», dice il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. D’altronde l’eritreo Merede Medhanie, uno dei due “boss” che, sull’altra sponda del Canale di Sicilia, guida questa sorta di network transnazionale che negli ultimi due anni avrebbe “fatturato” più di 100 milioni di euro, non è uno che ci pensa due volte a stipare fino all’inverosimile sui barconi uomini, donne, bambini, a costringere i suoi “clienti” a partire con le gambe spezzate e chiusi nella stiva o nel vano motore. Gli investigatori dello Servizio centrale operativo della Polizia lo sentono al telefono mentre ride e dice: «Il mio unico problema è che ho troppi migranti, quindi ne imbarco sempre più di 500, posso solo sperare che arrivino sani e salvi. Hanno fretta...Quando non partono si lamentano e io sono stressato...». Lui e Ermias Ghermay “lavorano” tranquillamente in Libia, pronti a far partire quel milione di profughi in attesa (questa la stima dei pm di Palermo), ma i loro complici in Italia sono finiti in manette in una operazione condotta dallo Sco e dalle squadre mobili di Palermo ed Agrigento che hanno disarticolato le “cellule” siciliana, romana, e milanese che si occupavano di “recuperare” i loro clienti smistati dopo i soccorsi in mare nei vari centri di accoglienza in Sicilia per portarli fino alla loro destinazione finale (quasi sempre Svezia, Olanda, Germania, Regno Unito) dopo il pagamento di una ulteriore tranche di denaro. 32 Sono cifre considerevolissime quelle fatte dagli investigatori che calcolano mediamente il costo dell’intero viaggio (dalla prima tratta in Africa all’attraversamento del Canale di Sicilia fino al trasporto a destinazione) in cinquemila euro. Un business da almeno cento milioni di euro negli ultimi due anni che, secondo Renato Cortese, al suo esordio alla guida dello Sco, lascia intravedere scenari sorprendenti. «Dalle intercettazioni emerge una sconcertante facilità di questi trafficanti nell’aprire conti correnti in Svezia, Olanda, Emirati Arabi, nell’investire ingenti somme, c’è una movimentazione di denaro che proveremo a seguire». Dei 24 destinatari degli ordini di custodia cautelare ottenuti dai pm Claudio Camilleri e Geri Ferrara, coordinati dall’aggiunto Maurizio Scalia, in 15 sono finiti in manette. E la metà di loro, tutti eritrei, erano ospiti del Cara di Mineo, il più grande centro di richiedenti asilo d’Europa, finito nell’inchiesta su Mafia Capitale. Ed è lì, tra i 5.000 ospiti del centro, che i trafficanti recuperavano i loro “clienti”, ne organizzavano la fuga, trovavano il modo per non farli identificare, riuscivano persino a fare entrare clandestinamente altri migranti (prelevati da ogni parte della Sicilia) e ad “ospitarli” a spese dello Stato in attesa di organizzare l’ultima tappa del loro viaggio. Un’organizzazione collaudatissima quella di Medhanie il “generale” intercettato mentre si paragona a Gheddafi: «Io ho lo stile di Gheddafi, sono forte e non potrà mai esserci nessuno più forte di me nell’organizzazione». Ha anche progetti precisi per il futuro: «Quest’anno ho lavorato bene, ho fatto partire 7-8.000 persone, lavorerò ancora per un anno e poi quando lascerò, creerò dei problemi tra quelli che restano facendo in modo che tutto finisca». Medhanie ed Ermias (l’organizzatore del drammatico viaggio poi finito nel naufragio del 3 ottobre 2012 a Lampedusa) sono l’emblema dei trafficanti senza scrupoli che contendono ad altri criminali il primato nell’organizzazione dei viaggi. Quando affondano barconi si chiedono immediatamente. «Di chi era quello? Non era nostro... benissimo allora ». D’altronde, a loro che i migranti arrivino vivi o morti importa poco. L’importante è che partano, così da chiedere alle famiglie altri soldi (1.500 euro) per il passaggio in mare. Per questo arriva- no ad “acquistare” pacchetti di migranti nelle carceri libiche corrompendo funzionari e guardie penitenziarie e costringendoli poi a partire con la forza in qualsiasi condizione. Di soldi ne fanno a palate e si occupano direttamente degli investimenti: «È meglio investire in America o in Canada — dice al telefono — lì non ti chiedono la provenienza dei soldi». Il denaro lo incassano in tanti modi: contanti naturalmente, ma anche Postepay, i classici Money transfer e con il cosiddetto metodo “Hawala” che consente di eludere ogni passaggio bancario grazie a fiduciari, di solito commercianti che, grazie alle loro attività, possono giustificare rimesse dall’estero all’Italia o viceversa in cambio di una commissione. Ognuno dei migranti ha un suo numero identificativo e ad ogni numero corrisponde una somma ma anche la possibilità di “tracciare” per le famiglie il percorso dei migranti. Solo che quando qualcuno non si trova e i familiari lo tempestano di chiamate Ermias infastidito dice: «Noi facciamo il lavoro di ladri, sporco, non siamo il governo che può ascoltare e aiutare tutti». Del 21/04/2015, pag. 8 Il modello Somalia contro gli scafisti I droni per distruggere le barche ROMA Scafisti libici come i pirati somali. L’Unione Europea si mostra disponibile ad accogliere le richieste presentate dall’Italia e contro i trafficanti di uomini decide di colpire le postazioni e distruggere le barche utilizzate per trasportare i migranti. Il modello è quello 33 dell’operazione «Atalanta» varata nel 2008 e rifinanziata nel novembre scorso. In attesa di un via libera dell’Onu all’intervento che consenta di svolgere operazioni di polizia sul suolo libico, i ministri degli Esteri e dell’Interno scelgono comunque di intervenire. La «linea dura» dovrà essere confermata durante il vertice straordinario di giovedì, ma l’intesa appare raggiunta e l’assenso da parte di alcuni Paesi ad accogliere una parte dei profughi, sia pur minima, dimostra che qualcosa effettivamente potrebbe cambiare nella politica comunitaria. Anche perché per il governo di Roma sono proprio queste le condizioni non negoziabili per tentare di governare il flusso di stranieri che certamente continueranno ad arrivare sulle nostre coste. Modello Somalia Lo schema dovrà essere messo a punto dai vertici militari, l’ipotesi rimanda a quello già sperimentato in Somalia, anche se dovranno essere rimodulati gli interventi. La missione avviata sette anni fa e tuttora attiva nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, si svolge infatti in sintonia con il governo di Mogadiscio, mentre al momento appare impossibile trovare interlocutori in Libia. Dunque si procederà utilizzando soprattutto i mezzi aerei, in particolare i droni, in modo da poter compiere azioni mirate e annientare la flotta dei trafficanti. L’operazione coinvolgerà gli Stati membri e potrebbe richiedere anche la collaborazione di alcuni Paesi africani disponibili a cooperare con l’Europa. Triton e Poseidon L’attività compiuta dall’alto sarà naturalmente affiancata dai pattugliamenti marittimi. Da qui la scelta di potenziare «Triton» con ulteriori finanziamenti e soprattutto prevedendo l’impiego di un numero maggiore di mezzi navali rispetto a quelli attualmente schierati a 30 miglia dalle coste siciliane. La «copertura» dell’area di intervento sarà ampliata prevedendo anche una sinergia tra «Triton» e «Poseidon», l’operazione svolta nel tratto di mare di fronte alla Grecia, una delle nuove rotte battute dagli scafisti, come dimostra la tragedia di ieri di fronte a Rodi. Il timore, in vista dell’estate, è che il massiccio afflusso di profughi provenienti dall’Africa, ma anche dal Medio Oriente possa infatti convincere i trafficanti ad aprire nuove piste. Già nei mesi scorsi la Capitaneria di Porto e il Servizio Immigrazione del ministero dell’Interno avevano segnalato la presenza di numerosi mercantili nei porti della Turchia pronti a salpare e l’arrivo dei siriani nelle scorse settimane aveva confermato la necessità di avviare subito una trattativa con il governo di Ankara. Il negoziato ha dato al momento buoni risultati, ma non è possibile escludere che la pressione migratoria torni a farsi sentire e dunque appare necessario un pattugliamento più esteso. Il trattato di Dublino Molto importante viene giudicata dal governo italiano anche la disponibilità degli Stati membri ad accogliere 5.000 profughi sbarcati in Italia. Si tratta di un numero irrisorio rispetto alle 70.000 persone attualmente assistite e a quelle che presumibilmente saranno accolte entro breve, ma il risultato politico appare evidente perché per la prima volta viene superato — almeno nei fatti — il regolamento di Dublino secondo il quale il richiedente asilo deve rimanere nello Stato dove ha presentato istanza fino al completamente della procedura. Più volte era stata sollecitata, e sempre negata, una revisione dell’accordo per consentire una circolazione più libera tra i Paesi dell’Unione. Adesso uno spiraglio sembra aprirsi, già la prossima settimana potrebbero essere stabilite le «quote». Sempre che non si tratti delle promesse fatte sull’onda dell’emozione che, come in passato, tali rimangono. 34 Del 21/04/2015, pag. 2 Tutti i dubbi di un naufragio: in quanti sul barcone? I RACCONTI DEI PESCATORI: “TROPPE 900 PERSONE SU UN NATANTE DI 23 METRI”. INDAGINI SULLA KING JACOB PER SAPERE SE HA URTATO IL BATTELLO Il capitano Vincenzo Bonomo di Mazara del Vallo ieri sera è tornato a calare le sue reti. Ci ha provato, due notti fa, a salvare qualcuno dal mare. Ma non ci è riuscito. Ora – oltre il profondo dispiacere – emergono anche i suoi dubbi. “Non riesco a farmene una ragione – dice – avrei voluto salvare qualcuno”. Sono state salvate soltanto 28 persone su un totale – secondo le cifre ufficiali, ricostruite in base alle testimonianze, sin dalle prime ore – di circa 900 viaggiatori. “Ho molti dubbi su queste cifre”, dice il capitano, “certo tutto può essere, ma ottocento, novecento persone, su una barca di 23 metri? Mentre viaggiavo immaginavo tutto un altro scenario. Ma è mai possibile che su 900 persone ne abbiamo salvate così poche? È mai possibile che il resto dei migranti fosse tutto stipato sotto? Lo sa soltanto il cielo”. E non è l’unico dubbio nella ricostruzione dei fatti. Se davvero, come raccontano, la barca si è ribaltata perché i migranti si sono riversati tutti sul lato più vicino al mercantile King Jacob, il primo a prestare soccorso, dobbiamo immaginare che in coperta il numero dei passeggeri dovesse essere piuttosto alto. La tesi investigativa, finora, è però che tra le 700 e le 900 persone siano annegate e scomparse perché trascinate a fondo dall’imbarcazio - ne, in quanto recluse nei “piani” infe - riori del peschereccio. Ma se i soccorritori hanno trovato solo 28 superstiti e 24 vittime, per di più con il mare calmo che tutti descrivono, quanta gente c’era sul ponte? E davvero in quella stiva erano così tanti, il 90 per cento dei passeggeri? GLI ORARI.Abbiamo chiesto a che ora è partito l’allarme per dare soccorso all’imbarcazione. Il capitano di Vascello Rosario Capodicasa riferisce che l’al - larme è stato diramato intorno alle 23.50. La circostanza è confermata dal capitano Bonomo: “Alle 23.50 del 18 aprile abbiamo ricevuto il messaggio, abbiamo salpato le reti e ci siamo diretti sul posto, che dista circa 40 miglia e abbiamo raggiunto alle 04.19, con altri cinque pescherecci e, in totale, 15 unità di soccorso, incluso il mercantile King Jacob e la Marina Militare. Come le ho detto, però, immaginavo di trovare uno scenario diverso. Siamo rimasti lì per ore e ore ma abbiamo trovato soltanto giubbotti, zaini, cappellini e una grande chiazza d’olio. Il peschereccio Antonino Serrato intorno alle 6 del mattino ha rinvenuto due cadaveri, poi altri due, è stato raccapricciante”. E qui sorge un ulteriore interrogativo relativo alle salme. “VERSO MALTA”. Alle sei del pomeriggio, di questo tragico 18 aprile, l’Ansa batte un lancio d’agenzia che fa il giro d’Europa: “Una motovedetta con i corpi delle vittime del naufragio è in rotta verso Malta dove arriverà nelle prossime ore”. È l’annuncio del premier Matteo Renzi nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi. Il punto, però, è che il premier non ha alcuna competenza giudiziaria e non può prendere una decisione del genere. Infatti la Guardia costiera, che risponde al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti guidato ora da Graziano Delrio, ha chiesto l’autorizzazione alla Procura che, come spiega il procuratore capo Giovanni Salvi, ha dato il nullaosta. L’impressione, purtroppo, è che abbia inconsapevolmente fornito il “nullao - sta” a una scelta politica e di immagine. Da un lato ha evitato agli italiani le scene dell’ennesimo “funerale” sulle banchine, che avrebbe monopolizzato i tg per giorni, dall’altro ha internazionalizzato la vicenda che –considerate per di più la presunta cifra delle vittime –si sta imponendo nell’agenda dell’Ue anche in 35 considerazione della gravità di un bilancio che oscilla tra le 700 e le 900 vittime. IL CASO DEL 2012. Quando nel 2012 si contarono 17 cadaveri a quaranta miglia dalla costa libica, la nave militare Grecale, dopo aver soccorso i 206 superstiti, approdò al porto di Catania. La Procura guidata da Salvi aprì un fascicolo d’indagine e furono necessarie le autopsie sui cadaveri. La nave Gregoretti della Marina Militare ha lasciato le 24 salme a Malta ed è ripartita per Catania con i 28 superstiti a bordo. Ormeggia in Sicilia nella tarda serata, gli investigatori dello Sco e della squadra mobile l'hanno raggiunta in elicottero, per interrogare i sopravvissuti e avviare le indagini. Il medico legale dovrà invece svolgere il suo lavoro nell’isola maltese. E non si tratta di un dettaglio: saranno necessarie le autopsie, le relazioni alla Procura sulle cause di morte e, se possibile, indagini sull’identità delle vittime attraverso eventuali segni di riconoscimento, documenti o altro per offrire –per quanto sia remota –la possibilità a un familiare di riconoscerle. Un compito che, su richiesta del governo, in questo caso sarà svolto a Malta. La King Jacob, che ora è oggetto d'indagine perché potrebbe aver causato il rovesciamento del barcone, mentre scriviamo è invece già ormeggiata in Libia. Del 21/04/2015, pag. 10 Libia. Uno Stato al collasso, due governi la guerra tra le milizie: tutto questo sta favorendo i trafficanti di uomini e donne provenienti dall’Africa subsahariana “Senza aiuti, non possiamo far nulla per fermare i barconi” Misurata, tra i migranti pronti alla traversata “Preferiamo morire che tornare in patria” FRÉDÉRIC BOBIN MISURATA «PREFERISCO morire che tornare in patria». Mohammed Abdi è serissimo. Questo giovane somalo ha sfiorato la morte e sa che peso hanno le parole. Un viso sottile incorniciato da un cappuccio arancione, qualche ciuffo di peli sul mento, è seduto sotto il sole ancora clemente di Misurata e si ricorda della paura che gli ha stretto la gola quando il gommone Zodiac su cui era imbarcato ha cominciato ad andare alla deriva al largo delle coste libiche, con il motore che non funzionava più. Era domenica 12 aprile, un mare senza nuvole e la Sicilia così vicina: il futuro lì davanti, in fondo allo sguardo. Ma quel gommone ormai seguiva correnti imprevedibili. Centodieci migranti erano ammassati su quella barca, concepita per contenerne appena un quarto. Erano tutti somali e avevano pagato 600 dollari per la traversata. «Noi somali preferiamo restare fra di noi, per evitare risse con migranti di altri Paesi», confessa Mohammed Abdi. Quella domenica, Abdi ci ha messo poco a capire che, con il motore rotto, il suo sogno di raggiungere la Norvegia si era infranto. La vedetta della guardia costiera libica è arrivata e lui ha tirato un sospiro di sollievo. Era solo il primo tentativo. Ora eccolo qui, dentro una scuola con la facciata verde mela riconvertita in centro di detenzione per migranti, al margine orientale di Misurata, nel cuore di questa Libia lacerata dove si affrontano le milizie. Mohammed Abdi non si scoraggia di fronte alle avversità, tenterà di nuovo la fortuna: «Per me ritornare in Somalia, con la sua insicurezza e la sua povertà, non è concepibile. Proverò di nuovo a partire per l’Europa. Preferisco morire che rinunciare…». Allora sì, se 36 lo rimandano a casa, è pronto a ricominciare il suo periplo di tre mesi, «sempre nascosto», «imbarcato su grosse auto», senza nemmeno accorgersi dei «trafficanti che cambiano a ogni tappa». È una corrente inarrestabile? Nella sola giornata di domenica 13 aprile i guardiacoste di Misurata hanno intercettato 250 aspiranti emigranti diretti verso l’Europa, in stragrande maggioranza provenienti dall’Africa subsahariana. Con il ritorno del bel tempo nel Mediterraneo, le partenze si intensificano e le tragedie in mare si moltiplicano. Il caos che regna lungo la costa della Tripolitania, dove si concentra il grosso delle partenze dal Nordafrica, espone con crudezza la sfida migratoria che rappresenta ormai per l’Europa il collasso dello Stato libico. Dopo le cifre record del 2014, con circa 170mila migranti sbarcati in Italia, dall’inizio dell’anno la curva delle partenze è salita vertiginosamente. «Con l’arrivo del bel tempo, in questo momento si calcola che siano fra i 300 e i 700 i migranti che lasciano la Libia ogni giorno», dice un ufficiale di intelligence della coalizione di milizie che controlla Misurata. I luoghi della Tripolitania da cui salpano queste malferme imbarcazioni sono noti: Zuara, Sabrata, Zauia, Garabulli, Homs, Zliten, punti di arrivo delle rotte meridionali che attraversano il Sahara. E per controllarli, l’amministrazione fantasma di un Paese in guerra oppone uno sbarramento ormai soltanto fittizio. Il tenente colonnello Tawfiq Alskir sospira. Percorre a grandi passi i moli del porto di Misurata, di fronte a un mare liscio come l’olio. Sul cemento sbrecciato sta steso, sgonfio, il gommone Zodiac sequestrato domenica. Si fa fatica a immaginare che potessero starci sopra un centinaio di persone. Tre sono cadute in acqua e sono annegate in preda all’agitazione nel momento in cui la vedetta del tenente colonnello Alskir ha fermato l’imbarcazione. Il vicecapo della guardia costiera sospira con la sua barba brizzolata, perché non sa più che fare. «Non ho alcun sostegno dal governo», si lamenta. «Senza aiuti, non posso fare nulla per lottare contro l’emigrazione illegale». Il suo arsenale si riassume in due vedette — una a Misurata e l’altra a Homs — per i 600 chilometri di coste di sua competenza territoriale. E la manutenzione delle imbarcazioni, a quello che ci dice, è diventata un vero e proprio incubo da quando è scoppiata la guerra, nel 2014, e il Paese si è diviso in due governi rivali, uno con base a Tripoli, nell’Ovest, e l’altro a Beida, nell’Est. Avevano firmato un contratto con l’Italia per far riparare quattro vedette, ma Roma non ha ancora restituito le imbarcazioni a causa della confusione politica che regna in Libia. Per sottolineare la sua impotenza, il tenente colonnello Alskir si lascia sfuggire questa confidenza: «Se adesso esco in mare, sono sicuro di incrociare una o due navi di migranti». Ma non esce così spesso in mare, con due misere vedette per coprire 600 chilometri di costa. La cifra di 1015 imbarcazioni di migranti che lasciano la Tripolitania ogni settimana non gli sembra «impossibile». La Libia, bomba migratoria dell’Europa? A Tripoli, dove ha sede il governo dell’Ovest, a cui è affiliata Misurata, i funzionari invocano aiuto: «L’Europa deve farsi carico della sua parte, la Libia non può sostenere questo fardello da sola», ha implorato il 14 aprile in una conferenza stampa a Tripoli Mohammed Abu al-Khair, il ministro del Lavoro. Da quando le ambasciate hanno lasciato la capitale, nel 2014, per trasferirsi nella vicina Tunisia in attesa che la crisi di legittimità fra due poteri rivali trovi una soluzione, tutta la cooperazione internazionale sulla questione migratoria in Libia si è bloccata. La rete diplomatica che consentiva il rimpatrio dei migranti intercettati verso i loro Paesi di origine funziona solo al rallentatore. Le richieste ormai devono essere indirizzate da Tripoli alle ambasciate africane rifugiate a Tunisi, e questo allunga notevolmente i tempi. «L’ambasciata del Senegal collabora », riferisce Salah Abudabus, il direttore del centro di detenzione di Misurata. «Ma quelle con cui è più difficile avere rapporti sono le ambasciate di Somalia ed Eritrea». Nell’attesa, i centri di detenzione in Libia si riempiono, in condizioni di estrema precarietà. Nell’Ovest del Paese, principale focolaio delle partenze, sono stati arrestati dall’inizio dell’anno circa 20mila migranti. A Misurata, lo sconforto dei detenuti è 37 palpabile. Uomini e donne sono ammassati, senza una separazione rigorosa, in sale anguste dove si dorme per terra, con un po’ di coperte sparse qua e là e la biancheria appesa ad asciugare alle finestre. Dopo le 17, la fornitura d’acqua viene interrotta. «Siamo rinchiusi qua e non sappiamo per quanto tempo», dice con una smorfia Mohammed Abdi, il giovane somalo. «Ci sono già tre casi psichiatrici, gente che si è messa a parlare da sola. Ho paura di diventare pazzo, qua. Ho paura di fare una sciocchezza e che mi sparino addosso». L’impotenza di uno Stato libico spaccato in due ha un’altra conseguenza, quella di aprire nuovi spazi alle reti criminali che prosperano sul traffico di esseri umani. Secondo numerosi osservatori, questi gruppi criminali stanno dando prova di un’inedita aggressività. Al pari delle milizie che fanno la legge tutt’intorno, prendono le armi per aprirsi delle vie di accesso lontano dai principali assi stradali, divenuti troppo aleatori. «La dotazione di armi dei contrabbandieri è un fenomeno nuovo, da un anno a questa parte», osserva il direttore del centro di detenzione di Misurata. In questo contesto, il timore di vedere gruppi jihadisti saldarsi con le reti dei trafficanti non è più una semplice ipotesi, ma uno scenario che allarma sempre di più gli europei. A Misurata, un ufficiale dell’intelligence non scarta questa prospettiva, anche se non è in grado di fornire indicazioni tangibili. «C’è una strategia dei jihadisti tesa a utilizzare i migranti per destabilizzare l’Europa», è il suo parere. «Loro lavorano sul lungo periodo». Del 21/04/2015, pag. 5 La Tortuga delle milizie LE COSTE DELL’EX COLONIA SONO ORMAI COME IL RIFUGIO DEI BUCANIERI L’oro nero sotto il deserto e l’oro bianco che arranca sopra le dune. La Libia, lo “scatolone di sabbia” d’imperiale memoria italica esporta petrolio (sempre meno) e migranti (sempre più). Gli italiani dell’Eni sono ormai quasi i soli a continuare a pompare greggio dai giacimenti meridionali dell’ex colonia e dalle piattaforme off shore lungo la costa, approvvigionando di energia anche i due governi rivali: uno confinato a Tobruk a est e quello di Tripoli . Ma il vero potere sul terreno è nelle mani delle milizie che debellarono Gheddafi e che cercano soprattutto di allargare le loro aree di influenza, contrastando nel contempo la propagazione dei guerriglieri islamici emanazione dell’Isis. Dalla cittadina di Derna, in Cirenaica (est) - non lontano da Tobruk, sede del governo riconosciuto anche dall’Italia - i movimenti islamici hanno espanso la loro influenza su Bengasi e sono arrivati da qualche settimana nell’area di Sirte, città natale di Gheddafi cacciato e ucciso nella rivoluzione del 2011. Misurata fu il cuore della ribellione al raìs dopo Bengasi e i suoi miliziani cacciarono il Colonnello da Tripoli, restando a lungo in amri nella capitale per ottenere la supremazia nei confronti delle altre bande unite solo per la guerra civile contro la famiglia Gheddafi. Proprio tra la città- Stato di Misurata e Tripoli la zona di Garabulli , dalle cui spiagge partono nelle ultime settimane una parte rilevante dei barconi. Dal porto di Misurata salpano invece i guardacoste con equipaggi formati da ex militari di Gheddafi che tentano di intercettare i barconi entro le acque territoriali libiche, come nella missione di pochi giorni fa nella quale venne invece bloccato un peschereccio di Mazara del Vallo che aveva sconfinato. A OVEST DI TRIPOLI - sede del governo non riconosciuto dalla comunità internazionale - verso il confine con la Tunisia, nelle spiagge di Zuwara e Zawia è da lungo tempo attiva la tratta dei migranti subsahariani che attraversano il deserto. Ai tempi di Gheddafi - quando i migranti erano già utilizzati come arma non convenzionale 38 contro l’Europa - uomini donne e bambini erano smistati nei centri di detenzione, come da accordi sottoscritti nel trattato di amicizia tra Tripoli e Roma. Nel dopo-Gheddafi il Trattato controfirmato per l’ultima volta tra Gheddafi e Berlusconi soltanto pochi mesi prima della fine del raìs è carta straccia. Al suo posto vige la legge dei mercanti di uomini che hanno abbassato i prezzi rispetto a qualche anno prima, avendo eliminato l’intermediazione di buona parte delle forze di sicurezza, aumentando nel contempo il numero e la frequenza inversamente proporzionali alle condizioni dei natanti - dei viaggi. Dalle montagne di Nefusa, i miliziani di al Zintan, i più agguerriti e organizzati insieme a quelli di Misurata, controllano le rotte dall’interno verso il mare, con labili intese con trafficanti più o meno professionali. Pacificare le milizie per ottenere un governo unitario con il quale affrontare insieme l’emergenza, ormai cronica, dell’immigrazione: questa l’idea alla quale lavora l’Onu, con l’inviato speciale Bernardino Leon che ha annunciato proprio ieri che il prossimo round dei colloqui tra gruppi rivali potrebbe tenersi a Roma, dopo l’Algeria e il Marocco. Nell’attesa i barconi continuano a prendere il mare. Del 21/04/2015, pag. 11 Nel Mediterraneo un morto ogni 2 ore mai così tante vittime nei naufragi Un morto ogni due ore, questa è la media dei migranti scomparsi in mare dall’inizio dell’anno, secondo le cifre pubblicate da Le Monde. L’Unhcr stima che dal primo gennaio 2015 siano spariti in mare 1.600 migranti sui 35mila arrivati in barca nel Sud dell’Europa. Già 900 morti sono stati accertati dall’inizio dell’anno a oggi, ai quali ora si aggiungono i 700 spariti in mare in questi giorni, mentre nello stesso periodo del 2014 ne erano morti 90. Si tratta di 400 morti al mese e anche più, tenendo conto che aprile non è terminato. In media, appunto, c’è un migrante che muore in acqua ogni due ore. Arrivati a un terzo dell’anno, siamo già a circa metà dei 3.500 morti accertati nel 2014. Era già una cifra record, comunque: quattro volte di più del 2013 e sei di più del 2012. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni stima poi che dal 2000 a oggi i migranti morti tentando di raggiungere l’Europa, quasi tutti via mare, siano stati 22mila. Del 21/04/2015, pag. 13 Né accolti né espulsi i 70 mila “inesistenti” nelle strade italiane Suleiman dorme a Termini, è arrivato 16 mesi fa Tanti come lui nel limbo dopo il no alla richiesta d’asilo Suleiman Kindo ha 33 anni, vive in Italia da sedici mesi ma per il nostro Paese non esiste. Lo Stato ha speso per lui un anno di assistenza in un centro per richiedenti asilo, la Commissione competente ha esaminato la sua pratica, ha bocciato la sua richiesta di asilo e ora lui non esiste. Durante il giorno vaga tra mense e strade, di sera dorme alla stazione Termini. Come spiega Suleiman: «Mi trovi al binario uno». Lo chiama così ma è il marciapiede di via Marsala che dopo il tramonto si trasforma in una distesa di coperte, 39 cartoni e persone. Anche Suleiman prende la sua coperta e i suoi cartoni, li tiene nello spazio tra il palo di un segnale stradale e il muro, cerca un pezzo di marciapiede libero, apre il cartone e la coperta, prende un libro di italiano e si stende lì a studiare prima di dormire. Cartone e coperta Quelli come Suleiman sono gli «inesistenti», persone che non hanno più assistenza, diritti, che per l’Italia non esistono più. Dopo il rifiuto possono fare ricorso, anche Suleiman ci ha provato, non aveva soldi per pagare un vero avvocato, si è fidato di un amico di un amico, ha perso il ricorso. E ora? «Farò un secondo ricorso», risponde. E così tutti, restando «sospesi in un limbo» come denuncia Aboubakar Soumahoro, responsabile immigrazione dell’Usb. È il limbo degli inesistenti, un popolo abbandonato a se stesso che bivacca fuori e dentro le stazioni e ovunque ci sia uno spazio per sistemare un cartone e una coperta e dormire al sicuro. È una popolazione in rapida crescita soprattutto da quando sono in aumento gli invii di carrette e gommoni dalla Libia carichi di persone dell’Africa subsahariana. Suleiman ha iniziato il suo viaggio molti anni fa dal Burkina Faso, in tanti fuggono dal Mali, Gambia, Guinea, Sierra Leone. «Sono Paesi in guerra ma le commissioni non ne tengono conto e rifiutano le loro richieste di asilo», spiega Aboubakar Soumahoro. Secondo l’ultimo rapporto del ministero dell’Interno negli ultimi tre mesi il 50% delle domande presentate hanno ottenuto una risposta negativa. A dicembre 2014, sulle 2.805 domande esaminate, i dinieghi sono stati pari al 48% (1.349 casi). Identica situazione a gennaio 2015 (1.190 rigetti su 2.503 domande) e a febbraio (1.609 su un totale di 3.301). Cifre molto più alte rispetto a quelle del 2013, quando solo il 29% delle domande aveva avuto risposta negativa. Numeri in crescita A questo ritmo si stima che il numero di inesistenti possa arrivare a circa 35mila persone entro la fine del 2015, che andrebbero ad aggiungersi ad altre decine di migliaia di persone che si sono viste rifiutare la richiesta di asilo negli anni scorsi raggiungendo la cifra di 70mila anime sospese, che a volte non possono tornare non per loro volontà. I migranti in arrivo dal Mali, per esempio, si vedono quasi sempre bocciare la richiesta perché per le Commissioni competenti sono fuggiti da un Paese ormai «in via di normalizzazione» ma una circolare del ministero dell’Interno del gennaio 2014 ha bloccato i rimpatri perché la situazione non è per nulla tranquilla. Piccolezze della burocrazia italiana, sciocchezze per quelli come Suleiman o i migranti maliani e degli altri africani: prima di diventare degli «inesistenti» in Italia, quelli come loro sono innanzitutto dei sopravvissuti alla traversata dalla Libia a Lampedusa. Del 21/04/2015, pag. 1-2 “Nero, maschio. Documenti: nessuno” Nell’obitorio dei morti senza nome FABIO TONACCI DAL NOSTRO INVIATO CI SONO morti più fortunati di altri, in questa storia. Fortunati, sì. Perché almeno hanno ancora una speranza di essere qualcuno, dopo che il Mediterraneo li ha uccisi e ha cancellato la loro identità. Qualcuno con un nome e un cognome, una famiglia da qualche parte nel mondo, una faccia su una tomba. E quella speranza ce l’hanno legata al polso. “Corpo numero 113”, c’è scritto sul braccialetto bianco di questa salma, che i medici 40 dell’obitorio dell’ospedale “Mater Dei” di Malta stanno trasportando su un carrello per l’ispezione esterna. Lo stesso numero è sull’etichetta adesiva incollata al sacco in cui è avvolto il cadavere. Quel numero è tutto quello che gli resta. Sarà associato a una fialetta di sangue, che verrà prelevata nelle prossime ore per fare i confronti del dna con i familiari che avranno la forza di venire fino qui a cercare i fratelli e i figli che non hanno più. Non deve ripetersi un’altra Lampedusa, la strage degli sconosciuti rimasti tali. Sono arrivati 24 cadaveri, ieri mattina. La nave italiana Gregoretti li ha trasportati dal luogo del naufragio fino al porto di Isla, a La Valletta. Erano dentro sacchi neri, sistemati uno accanto all’altro in un angolo del ponte. Pochi metri più in là c’erano i 28 superstiti. Seduti per terra, hanno visto tutto. In silenzio. Hanno visto i loro compagni di viaggio mentre venivano adagiati sulla banchina, li hanno visti avvolgere in un altro sacco, questa volta di colore bianco. Li hanno visti, per l’ultima volta, mentre i carri funebri li portavano via dentro bare provvisorie di metallo zincato. Sono le vittime del barcone che si è rovesciato, le poche che i soccorritori hanno strappato agli abissi. Tutte le altre sono in fondo al Canale di Sicilia, a centinaia di metri di profondità. Chissà quante persone ci sono veramente laggiù, statue di sale che nessuno andrà mai a recuperare. Destinate all’oblio più profondo. «Corpo numero 113», dice ad alta voce David Grima, il responsabile della camera morturaria, un edificio squadrato di mattoni gialli. David è imbalsamato in due strati di tuta protettiva di nylon, ha una maschera alla bocca, la testa e le scarpe coperti da quelli che sembrano sacchetti di plastica. Gira attorno al carrello su cui è adagiato un uomo. «Maschio, adulto, età compresa probabilmente tra i 20 e i 30 anni», scrive. «Occhi neri, capelli neri, barba nera e corta. Colore della pelle: nera. Tatuaggi: nessuno. Segni particolari: nessuno. Documenti: nessuno. Vestito con pantaloni neri e camicia rossa, senza scarpe. Probabilmente, subsahariano ». Non si va oltre a questo. «Probabilmente subsahariano» è tutto quello che si riesce a dire di quest’uomo morto. Il corpo è in buone condizioni, non è gonfio d’acqua. Ma la faccia è rugosa, quasi espressiva. «Come se stesse dormendo e avesse un incubo», commenta Tessie, una delle addette alla pulizia dell’obitorio. L’ispezione esterna dura venti minuti in tutto, poi il cadavere viene riportato nella “fridge room”, una stanza fredda (10 gradi al massimo) di una quarantina di metri quadrati, con tre finestre, una luce bluastra, tre file di cassetti frigo da cui appaiono e scompaiono, su lettini scorrevoli, i sacchi con i cadaveri. La Morturary dell’ospedale ne può ospitare 65. Per adesso ne sono stati occupati 44 e 24 sono i naufraghi senza nome del peschereccio. Cominciano a ispezionarli alle 13.05. Attorno a ogni corpo lavorano sei medici: David Grima, che coordina le operazioni, poi l’ematologo, il “dissezionatore”, gli assistenti. La procedura è sempre uguale, meccanica, asettica. In due aprono la cella frigo e sollevano il sacco. Lo mettono sul carrello, lo spingono per una trentina di metri lungo il corridoio fino alla stanza delle autopsie. Quelle saranno eseguite dopo che il magistrato maltese avrà dato l’autorizzazione. Per ora si procede solo alla analisi sommaria: ogni cadavere va numerato, descritto, schedato. «Corpo numero 114: maschio, adulto, età compresa probabilmente tra 22 e 28 anni. Tatuaggi: nessuno. Documenti: una foto nella tasca dei pantaloni». Chi è quella donna nella foto? Forse una fidanzata, forse la mamma che ha lasciato in Eritrea, o in Somalia, o in Nigeria. «Probabilmente subsahariano». Non si sa niente di questi disperati. Vengono chiamati ora migranti, ora profughi, ora clandestini. Ma che storia abbiano, nessuno lo sa. I 24 del naufragio sono tutti uomini. Non ci sono donne. Tutti hanno ancora i vestiti addosso. «Sono giovani — dice Tessie — non credo ci sia qualcuno con più di trent’anni». Dal frigo spunta un sacco meno gonfio, dentro c’è un ragazzo. Non un bambino, avrà 1617 anni. «Nero. Segni particolari: nessuno. Probabilmente adolescente», recita la sua scheda. Forse è quello che è stato trovato dai soccorritori con la faccia riversa nella nafta. 41 Le ispezioni durano fino alle 18 di sera. «Corpo numero 124...», «Corpo numero 125...», non c’è tregua. Fuori, nella cappella accanto all’obitorio, i maltesi hanno portato per solidarietà 13 mazzi di fiori, così come aveva chiesto il direttore dell’ospedale. «Per i non identificati — recita un biglietto, firmato Mizzie il Kalkhara — possiate vivere per sempre in paradiso». Le schede sono tutte compilate, i cadaveri rimessi nelle celle frigo. I medici hanno trovato pezzi di carta macerati con delle scritte sopra e delle piccole foto. «Ma non ci dicono niente sull’identità di chi li aveva in tasca o negli indumenti ». Dopo l’autopsia i migranti potranno ricevere una cerimonia funebre a rito congiunto, che sarà celebrata da un imam e dal vescovo di Malta. Poi saranno seppelliti nel cimitero comunale Dell’Addolorata. Di loro rimarrà una scheda e una fialetta di sangue. E una tomba con un numero, che prima o poi, forse, diventerà un nome e un cognome. Del 21/04/2015, pag. 1-4 Quelle mani tese sulla zattera dei disperati a un metro da terra GAD LERNER SONO QUASI arrivati, hanno visto morire i loro compagni, il terrore è quel mare che continua a frustarli anche adesso che la riva è lì, a pochi metri. Sono gli uomini nuovi che stanno cambiando non solo la storia ma anche la geografia del Mediterraneo. Molti di loro non avevano mai visto prima il mare. Lo temono. Non sanno nuotare. Basta uno spruzzo a spaventarli. Fra gli scogli della spiaggia di Zephiros, a Rodi, i soccorritori gli urlano di mollare quelle inutili assi di legno in cui s’è frantumato il barcone e di muovere finalmente i pochi passi che mancano per raggiungere la terraferma. Ma la schiuma delle onde li paralizza. Sono poco più di una dozzina, un paio di loro indossa un giubbotto salvagente ma è come se fossero nudi. Il video sembra restituire l’immagine della “Zattera della Medusa” di Géricault. Nel filmato, confuse dal frangersi delle onde sugli scogli, si sentono le parole di un soccorritore, si vedono le sue mani tese, un gesto di incoraggiamento: «Venite, venite...». Pochi metri ma per quell’umanità un abisso. Si lasciano scivolare di qualche centimetro, si fermano, tornano indietro, puntano disperatamente i piedi su una superficie che non li trattiene e li fa precipitare di nuovo verso l’acqua. Attorno a loro galleggiano pezzi di plastica, una maglietta, inutili salvagenti. Bisogna raccoglierli uno a uno, frantumi anch’essi di un moto d’umanità impossibilitato a fermarsi. La paura ce l’hanno dentro da troppo tempo, da vite intere, perché possa bastare l’incognita visione del mare ad arrestarli. Sono denutriti e disidratati, ma hanno unghie forti. Si aggrappano e non mollano la presa. Papa Francesco, che riveste l’incarico di parlare a tutti noi dubbiosi, ha sentito il bisogno di precisarlo perché sa che, in cuor nostro, non è affatto scontato: «Sono uomini e donne come noi». Davvero? Quegli scheletri dalla pelle scura che per secoli il senso comune relegava alla condizione di selvaggi, sul bordo del regno animale, saranno i nostri nuovi vicini di casa? Francesco osa di più. Li definisce «nostri fratelli». Cercatori di felicità. A dire il vero quelli che arrivano in Grecia, allargando il fronte dell’esodo da ovest a est, dalla Libia alla Turchia come basi di partenza, hanno più spesso la carnagione olivastra dei mediorientali: da sola la guerra siriana ha prodotto più di quattro milioni di profughi, fra i quali intere famiglie della classe media in grado di gonfiare coi loro risparmi le tasche dei trafficanti. Niente di più ragionevole, per loro, che tentare l’azzardo di una traversata. Se anche le più efficienti flotte militari dell’emisfero nord, schierate a raggiera lungo l’intera sponda meridionale del Mediterraneo, si prefiggessero lo scopo di arrestarne 42 il flusso con un blocco navale, così moltiplicando il numero dei morti senza nome, resterebbe impossibile fermarli. Stanno arrivando, inermi e con intenzioni pacifiche, nei luoghi delle nostre vacanze estive. L’ecatombe in corso non basterà a sbarazzarcene. La soluzione-tampone di sparare agli scafisti, ipotizzata già quindici anni fa quando partivano dall’Albania e traversavano l’Adriatico, non corrisponde alla dimensione epocale del rivolgimento planetario in corso. Nel suo linguaggio semplice, è stato sempre Francesco, pochi giorni fa, ricordando gli eventi del 1915, a parlare di genocidio. Ebbene, l’Europa contemporanea, afflitta dal rapido impoverimento dei suoi paesi rivieraschi, si trova di nuovo a fronteggiare la possibilità di un genocidio, come dimostrano le cifre dei morti e gli sguardi dei sopravvissuti. Chi scampa alla traversata, chi viene raccolto in mezzo al mare dai mercantili e dalle motovedette, reca a noi questa inoppugnabile testimonianza. Poco importa che si siano ammassati a bordo dei gommoni e dei pescherecci di loro spontanea volontà, dopo essersi svuotati le tasche. La loro condizione umana è in tutto e per tutto simile a quella dei deportati nel cuore dell’Europa settanta anni fa, stipati su carri merci blindati. Identico è l’andare verso l’ignoto, denudati, separati a casaccio dai familiari, umiliati come sottouomini. L’unica differenza è che sta diventando impossibile fingere di non vederli. Non un vescovo, ma una donna laica come Emma Bonino, lo ha detto ieri: l’Europa che ha innalzato il suo “mai più” dopo aver sopportato l’orrore dei forni crematori, finora non ha fatto nulla per impedire l’orrore dei forni liquidi. Pur disponendo di tutte le tecnologie e i mezzi tecnici necessari a monitorare i lager di raccolta dei profughi, i porti di partenza dei barconi e le loro rotte di navigazione, l’Ue con Triton ha dato ordine ai suoi militari di limitarsi al presidio della cosiddetta area Schengen: azione circoscritta non oltre i 30 chilometri dalle nostre coste. Una decisione subita con imbarazzo dalla Marina Militare italiana, tanto più che dal Viminale veniva giustificata asserendo che i 9 milioni al mese di Mare Nostrum — 300mila euro al giorno — sarebbero una cifra eccessiva. Così siamo giunti alla situazione odierna. Il cinismo dei governanti e l’indifferenza delle opinioni pubbliche si sono confermati palliativi inefficaci di un’Unione Europea rattrappita in una visione miope dei suoi interessi. Ancora oggi i responsabili politici esitano a utilizzare una parola che loro stessi hanno contribuito a rendere impopolare: accoglienza. La bontà e la cattiveria qui non c’entrano un fico secco. Si tratta di gestire con realismo un flusso migratorio provocato da guerre sfuggite al nostro controllo, cercando di prevenire la saldatura (in parte già avvenuta) fra i trafficanti che monopolizzano la navigazione marittima e i jihadisti che presidiano porzioni crescenti di terraferma. Eppure ce n’erano, di opportunità d’azione tempestiva. Istituire presidi per l’identificazione e lo smistamento dei profughi già nei loro primi luoghi di transito. Condividere tra gli Stati membri l’accoglimento delle richieste d’asilo, in deroga agli accordi di Dublino. Garantire un servizio di traghetti e voli charter. Forse si fa ancora in tempo. Poveri europei messi al cospetto di una povertà assoluta. Trascinati in una sorta di guerra del mare che miete vittime a migliaia e che invano si vorrebbe poter ignorare. Però loro arrivano, e quando ci protendono le braccia da una zattera in mezzo a quel mare non c’è altro gesto d’umanità possibile che protendere verso di loro le nostre braccia. Non c’è altra salvezza che una salvezza comune. Trasformando i sommersi in salvati. 43 Del 21/04/2015, pag. 2 Lavoro e imprese: cresce il ruolo degli immigrati nella Ue In Italia lo scorso anno +111mila occupati dall’estero Tra il 2009 e il 2014 le aziende cresciute del 21,3% Gli immigrati hanno rivoluzionato il mercato del lavoro con un impatto di proporzioni enormi. Ma oggi c’è ancora spazio per loro? E, soprattutto, la “finestra” di opportunità e la crescita del Pil in Europa riservano posti anche per i lavoratori provenienti dall’estero? Partiamo da due numeri: negli ultimi dieci anni, secondo l’Ocse, gli immigrati hanno coperto il 70% dell’incremento dei posti di lavoro in Europa e il 47% negli Stati Uniti. Dall’assistenza familiare all’edilizia, dalle imprese manifatturiere ai servizi, gli immigrati hanno riempito importanti nicchie del mercato del lavoro, soprattutto in Europa, e hanno creato nuove piccole imprese. Gli immigrati giovani, così come i giovani dei Paesi ospitanti, hanno un’educazione scolastica più elevata di quella dei lavoratori vicini alla pensione. Flessibili, per necessità, hanno contribuito e agevolato la flessibilità del mercato del lavoro, soprattutto in Europa. Il dibattito di questi mesi ruota prevalentemente sul fenomeno drammatico degli sbarchi, portando spesso l’opinione pubblica a identificare “immigrati” e “profughi” come sinonimi. In realtà, i migranti sbarcati sulle nostre coste nell’ultimo anno (170mila) rappresentano il 3% della popolazione straniera residente regolarmente in Italia (circa 5 milioni). «La componente immigrata, nonostante la crisi, ha mantenuto un tasso di occupazione superiore rispetto alla popolazione italiana – sottolineano alla Fondazione Leone Moressa -. Questo fenomeno, dovuto principalmente alla struttura demografica della popolazione straniera (più giovane, e quindi in età lavorativa), ha un impatto diretto sul nostro sistema economico. I 2,3 milioni di occupati non italiani, infatti, contribuiscono alla produzione di circa 123 miliardi di euro di valore aggiunto, ovvero l’8,8% della ricchezza nazionale complessiva. Nel 2014, a fronte di un calo degli occupati italiani (-23 mila unità), si è registrato un aumento degli occupati dall’estero (+111 mila). Allo stesso modo, il tasso di disoccupazione relativo agli italiani ha continuato a salire (+0,6%), mentre quello degli stranieri ha mostrato segni di diminuzione (-0,4%)». Un altro contributo significativo all’economia italiana arriva dagli imprenditori stranieri. Gli imprenditori nati all’estero attivi in Italia alla fine del 2014 sono oltre 632 mila, pari all’8,3% del totale. «Nel periodo della crisi (2009-2014) in tutte le regioni c’è stato un aumento, che coincide con il calo degli imprenditori italiani. A livello nazionale, gli imprenditori stranieri sono aumentati del 21,3%, mentre gli italiani sono diminuiti del 6,9%». Secondo i ricercatori della Fondazione Leone Moressa «i dati dimostrano il ruolo dei lavoratori stranieri nel sistema produttivo nazionale. Nell’ultimo anno gli occupati stranieri sono 2,3 milioni, in aumento del 5% rispetto all’anno precedente, e producono circa l’8% del Pil. Gli occupati stranieri rappresentano circa il 10% dei lavoratori in Italia: nonostante l’emergenza sbarchi, la componente straniera è fondamentale per l’economia italiana e rappresenta un’opportunità di rilancio per l’intero sistema economico». E in Europa ci sarà ancora posto, anche in uno scenario di medio periodo? «Apparentemente potrebbe esserci - spiega Giancarlo Blangiardo, docente di Demografia all’Università Bicocca di Milano ed esperto della Fondazione Ismu -. Da qui al 2030, cioè tra 15 anni, secondo le previsioni Eurostat ci sarebbe infatti, in assenza di migrazioni, un calo della popolazione in età lavorativa nell’ordine di quasi 20 milioni di unità. Un calo che 44 potrebbe tuttavia dimezzarsi se si tiene conto dei flussi migratori previsti da Eurostat secondo le tendenze del recente passato». Altre stime della Commissione Ue mostrano che tra il 2013 e il 2025 vi sarà una sostanziale stabilità (solo 3 milioni di crescita), ma soprattutto mettono in rilievo un riassestamento qualitativo che privilegia i livelli professisonali alti (+21 milioni) a scapito di quelli medi (-5 milioni) e soprattutto bassi (-13 milioni): «Si accredita uno scenario che lascia poco spazio a un’immigrazione scarsamente qualificata come è, verosimilmente, quella potenzialmente spinta a emigrare da un’Africa sub-sahariana - prosegue Blangiardo -. Anche l’Italia verrebbe caratterizzata, pur a totale di forza lavoro invariato, da uno spostamento verso qualifiche più alte (+3 milioni compensato da un identico calo per la qualifiche più basse), ma forse da noi ci saranno ancora possibilità di espansione almeno nel lavoro domestico, dove l’invecchiamento della popolazione farà da spinta propulsiva.» 45 CULTURA E SPETTACOLO Del 21/04/2015, pag. 42 La Germania in forze a Torino per lanciare se stessa (e gli altri) Il Salone del Libro Via il 13 maggio con un’edizione dedicata al mondo tedesco. Scoperte e riproposte. Berlino resta cruciale per promuovere anche letterature diverse dai Balcani alla Cina Sarà Giovanni Di Lorenzo, direttore della «Zeit», a tenere, mercoledì 13 maggio, il discorso di introduzione del Salone di Torino 2015 a nome della Germania che quest’anno è ospite d’onore. Il giorno dopo, Claudio Magris pronuncerà la lectio magistralis . In omaggio alla Germania, sul manifesto (il fotomontaggio propone un Grand Tour nelle nuove meraviglie d’Italia: moda, cinema, cucina) campeggia Goethe, nel ritratto famoso che gli fece l’amico pittore Tischbein a Roma nel 1786-87. Una presenza numericamente significativa (più di venti autori tedeschi, una quarantina di editori rappresentati) e folta di nomi importanti, coordinata dall’Ufficio progetti internazionali della Fiera del libro di Francoforte con la collaborazione del Goethe Institut di Torino. «Una macchina di perfetta efficienza, come la Mercedes» commenta il direttore editoriale del Salone, Ernesto Ferrero. Ma anche Torino ha per l’occasione dimostrato doti analoghe, con il fitto programma di avvicinamento alla settimana tedesca del Lingotto — musica, letteratura, scienze, cinema — che per quattro mesi dall’inizio dell’anno ha allestito un’offerta culturale imponente, a cui la città ha risposto con grande partecipazione. Pagine sopra la città In previsione del Salone, gli editori italiani propongono una cospicua offerta di libri tedeschi in traduzione (alcuni freschi di stampa, altri usciti da pochi mesi), e tutti gli autori presenti avranno i loro titoli disponibili in italiano. Un dato eccezionale, soprattutto per questi tempi di crisi, e tenuto conto del fatto che da molti anni gli editori italiani acquistano libri tedeschi in misura assai modesta. Saranno, gli scrittori tedeschi, protagonisti di una trentina di incontri, mentre gli editori presenti parteciperanno a dibattiti sulle trasformazioni del mercato del libro. Presenti a Torino due famosi disegnatori di libri per ragazzi, Axel Scheffler ( Il Gruffalò , EL) e Nadia Budde, a cui il Goethe Institut dedica una mostra fino al 30 maggio. Il graphic novel è rappresentato da Isabel Kreitz (in Italia, Black Velvet). Tre gli autori del genere Krimi (poliziesco), che ne rispecchiano le diverse sfumature: il thriller internazionale, con Frank Schätzing ( Breaking News , Nord); lo psico-thriller, Sebastian Fitzek ( Noah , Einaudi); il giallo tradizionale, Friedrich Ani, «il Simenon di Monaco di Baviera» (inaugura la collana Gialli tedeschi nei libri di carta Emons). La letteratura che torna a interrogarsi sulle tragedie del Novecento com-prende la memoria dell’Olocausto di Katja Petrovskaja (gli orrori delle SS a Kiev: Forse Esther , Adelphi) e di Jennifer Teege (figlia di un nigeriano e una tedesca, scopre di essere nipote del comandante di un Lager: Amon, mio nonno mi avrebbe ucciso , Piemme). Volker Weidermann racconta, in forma di romanzo, l’estate del 1936, quando sulle spiagge di Ostenda s’incontrarono Joseph Roth, Stefan Zweig e Irmgard Keun, tre scrittori i cui libri erano finiti nei roghi nazisti ( L’estate di un’amicizia , Neri Pozza). Ulrike Edschmid, invece, ambienta la sua storia negli Anni di piombo: Philip, il marito della protagonista, si associa ai gruppi di guerriglia clandestina ( La scomparsa di Philp S. , e/o). Due gli esponenti della Wendeliteratur , la letteratura della 46 fine della Germania divisa: Lutz Seiler, vincitore del Deutscher Buchpreis 2014, ci porta su un’isola del Mare del Nord nell’estate prima della Caduta del Muro ( Kruso , Del Vecchio); David Wagner (già tradotto da Fazi, Il corpo della vita ), è a Torino con il nuovo libro sui diversi modi di crescere a Berlino, di qua e di là del Muro. Due pensatori rappresentano la filosofia tedesca: Peter Sloterdijk (di cui Cortina sta traducendo la trilogia Sfere ) e Markus Gabriel ( Perché il mondo non esiste , Bompiani). Nella saggistica, si spazia dal massimo egittologo tedesco, Jan Assman (da Adelphi esce La distinzione mosaica ), al giornalismo d’inchiesta di Günter Wallraf ( Germania anni Dieci , L’Orma). Molto atteso l’incontro con Wolfgang Streek ( Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico , Feltrinelli), il sociologo che ha descritto la crisi della democrazia nell’era del capitalismo neoliberista. Infine, i romanzi veri e propri. I due nomi più celebrati sono quelli di Daniel Kehlmann ( La misura del mondo e ora il nuovo F ) e di Ingo Schulze ( Semplici storie , Arance e angeli. Bozzetti italiani ), entrambi Feltrinelli. Nell’autobiografico Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato , Joachim Meyerhoff racconta la sua infanzia di figlio del direttore di un ospedale psichiatrico (Marsilio). L’austriaco Robert Seethaler, Libro dell’anno 2014, propone la vita dell’orfano Andreas, cresciuto fra le montagne e incapace di venire a patti con la modernità ( Una vita intera , Neri Pozza). Con Stephanie de Velasco e Monika Zeiner abbiamo due debuttanti: la prima ( Latte di tigre , Bompiani) descrive la vita spericolata di due ragazzine nella Berlino multikulti , tra alcool, amicizie e amori senza lieto fine. L’altra invece ( L’ordinamento delle stelle , Keller) s’immagina un triangolo tipo Jules e Jim : due amici, una donna, la musica e a far da sfondo agli amori e ai tradimenti ci sarà l’Italia. Questione di diritti Confortata da un buon andamento del mercato (dopo anni di alterni risultati, a dicembre 2014 era in passivo, ma nel marzo di quest’anno la vendita di libri ha segnato un forte aumento), l’editoria tedesca mantiene un carattere di grande solidità. Merito di un altissimo profilo professionale, dice Barbara Griffini dell’agenzia Berla & Griffini che rappresenta per l’Italia circa 25 marchi editoriali, tra cui Piper, Suhrkamp, Random House, KiWi, Rowohlt, Fischer. Per questo «diversi autori di altre nazionalità e altri Paesi affidano i diritti delle loro opere a case editrici tedesche, che poi le diffondono in tutto il mondo. Spesso questi autori scrivono nella loro lingua d’origine, ma vengono poi lanciati a livello internazionale una volta pubblicati in traduzione tedesca. Ci sono tre premi Nobel, due per la Letteratura, Herta Müller (romena di lingua tedesca) e Imre Kertész (ungherese) e Liu Xiaobo (cinese), per la Pace. Così avviene per gli ungheresi Péter Esterházy e Péter Nádas, il bosniaco Saša Stanišic, i russi Viktor Erofeev, Andrej Kurkov, Jurij Andruchovyc. Anche i diritti internazionali del greco Petros Markaris sono rappresentati dall’editore Diogenes di Zurigo». Fuorisalone La lista dei libri tedeschi che arrivano in libreria non si esaurisce con i titoli del Salone: Mondadori pubblica il nuovo romanzo di Uwe Timm, La volatilità dell’amore , Bompiani traduce Tutto su Sally dell’austriaco Arno Geiger, da Sperling & Kupfer esce Una casa sul Mare del Nord di Nina George, e Giunti propone il thriller di Karen Sander Muori con me . Particolarmente attivo, il giovane editore di Rovereto Roberto Keller manda in libreria Tutti i russi amano le betulle , scritto in tedesco dall’azera Olga Grjasnowa e La frontiera dei cani , il bellissimo reportage di Marie-Luise Scherer, scritto all’indomani della caduta del Muro, sui cani lupo che sorvegliavano il confine della Ddr. Per quanto riguarda i classici moderni, Einaudi raccoglie tutto il teatro dell’austriaco Thomas Bernhard; da Quodlibet, in più volumi, è annunziato tutto il teatro del suo connazionale Peter Handke. Da parte tedesca, comunque, non si è da meno: a quarant’anni dalla prima edizione 47 italiana, Fischer pubblica la traduzione di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, e dall’editore zu Klampen! escono i diari di prigionia, 1918, di Gadda e di Bonaventura Tecchi. SCUOLA Del 21/04/2015, pag. 8 Renzi tira dritto: «La riforma ve la spiego io» Scuola . Il premier scriverà una lettera a tutti gli insegnanti. Attacco ai sindacati: «Lo sciopero? Fa ridere, se non fosse triste». Riunione Pd al Nazareno: no a modifiche di Fassina e tempi stretti Roberto Ciccarelli Renzi si è detto stupito. I motivi dello sciopero generale indetto dai sindacati della scuola Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals e Gilda per martedì 5 maggio sarebbero «incomprensibili» a suo avviso. «Mi fa ridere, se non fosse una cosa triste, il fatto che si proponga di scioperare contro un governo che sta assumendo 100mila insegnanti. Il più grande investimento fatto da un governo nella scuola italiana», ha ribadito ieri su radio Rtl 102.5. Il disegno di legge n. 2994, detto anche «Buona scuola», viene così descritto dal Presidente del Consiglio: «Diamo più soldi agli insegnanti con la carta sulla formazione, più soldi per l’edilizia scolastica. Ma in cambio di questo chiediamo qualche modifica al sistema organizzativo della scuola, con un po’ meno burocrazia. Non mi si dica che si fa sciopero contro il primo governo che elimina i precari dalla scuola. Se fanno sciopero contro di noi che abbiamo fatto queste cose, contro quelli di prima che non facevano niente, che fanno?», ha concluso il premier. Ad esempio uno sciopero generale contro la riforma Gelmini, datato 2008, l’ultima volta che i sindacati maggiori della scuola sono scesi in piazza in maniera unitaria. La strategia di Renzi è contrapporre famiglie e studenti ai sindacati che «hanno paura che gli portiamo via il diritto di decidere come vogliono». Su questa base ha promesso un’«intensa campagna di comunicazione» per dimostrare che la trasformazione del preside in manager con potere di assumere, attribuire meriti e aumentare gli stipendi ai 100.701 docenti precari assunti a settembre è un «progetto rivoluzionario», non una norma anti-costituzionale. Una campagna che — si scopre dopo la riunione pomeridiana al Nazareno del Pd — avrà al centro una lettera che Renzi scriverà a tutti i docenti italiani per illustrare loro la riforma. «Si può ben comprendere come gli serva una campagna di comunicazione – ironizza Francesco Scrima (Cisl scuola) — le versioni che ne ha proposto sono diverse, spesso stravaganti». Il governo, conviene ricordarlo, che è stato già sconfitto in occasione della consultazione online sulla «Buona scuola». Per l’esecutivo, e per il Pd, si è trattato di uno smacco. Il 60% dei docenti ha respinto la «riforma meritocratica che aboliva gli scatti stipendiali basati sull’anzianità a favore degli «scatti di competenza». Un risultato che ha costretto il governo a fare marcia indietro. Oggi la protesta si rivolge contro l’altro pilastro di una riforma aziendalista e autoritaria — il preside-manager e la chiamata diretta dei docenti — destinata a modificare definitivamente l’ispirazione pubblica dell’istruzione, completando l’autonomia voluta dal centro-sinistra di Luigi Berlinguer sin dal 2000. La mobilitazione sembra davvero generale. Il 24 aprile scioperano Anief, Unicobas e Usb. La 48 Cub rilancia l’astensione contro le prove Invalsi del 5, 6 e 12. I Cobas confermano lo sciopero del 6 maggio. Gli studenti dell’Uds saranno in piazza il 5 insieme a Link e Rete della Conoscenza e boicotterrano i test Invalsi il 12 maggio e contribuiranno al blocco degli scrutini. I sindacati non contestano le assunzioni, ma la loro modalità, la quantità e il sistema in cui i docenti verranno a trovarsi una volta assunti. I sindacati di base chiedono anche il ritiro del Ddl. La piattaforma dello sciopero prevede lo stralcio delle assunzioni dei precari dal Ddl, emendamenti radicali al provvedimento; la cancellazione dell’articolo 12 del Ddl che vieta le supplenze oltre i 36 mesi come richiesto dalla Corte di giustizia Ue e dunque il licenziamento di questi docenti. La riforma, con ogni probabilità. passerà. Bisognerà però vedere come. Molto dipende dai 1800 emendamenti (Forza Italia: 250, Cinque Stelle: 650; Sel 200; Pd: 150 tra gli altri). E, forse, dal dibattito nel Pd. Su questo la riunione di ieri pomeriggio sembra aver cambiato poco. Nonostante l’impegno di Stefano Fassina, presente alla manifestazione dei sindacati di sabato, il Pd va avanti: niente emendamenti sostanziali e approvazione nei tempi ipotizzati (prima lettura alla Camera entro il 10 maggio, poi esame al Senato e terza lettura a Montecitorio in tempi brevi). Possibile invece una modifica ai nuovi poteri del preside, che potrebbero essere mitigati con un ruolo più forte del Consiglio di istituto. Al preside, sottolineano fonti Pd, sarebbe comunque lasciata la possibilità di assumere decisioni organizzative. 49