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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI LECCE
FACOLTA’ DI BENI CULTURALI
Storia e Critica del Cinema
dott. Giuliano Capani
Il Cinema allo specchio
Dispense
anno accademico 200-2001
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Indice
Introduzione
3
Meta in Italy
4
Psicologia dello spettatore: aspetti dinamici
11
Grammatica cinematografica e percezione dello spettatore
21
Carteggio Reich - Ejzenstejn
27
La percezione nel Cinema
31
Il Cinema secondo “Effetto notte” di F. Truffaut
34
Alcune riflessioni sul montaggio cinematografico
36
La nozione di montaggio in R. Arnheim e S.M. Ejzenstein
49
Appendice
58
Manifesto dell’Asincrono
59
Schede:
“Sotto gli ulivi” di A. Kiarostami
61
“Effetto Notte” di F. Truffaut
65
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Introduzione
Il cinema nel cinema. Questo il tema del Corso monografico dell’ accademico 2000-2001: il
che cinema riflette su se stesso, parla di se stesso e sembra svelare i retroscena, i backstage,
cosa succede dietro la macchina da presa, quali sono le forze in campo che determinano le
scelte stilistiche di registi e operatori, ma anche come il cinema determina i loro comportamenti, in che maniera si inserisce e modifica la vita di chi lo fa.
I film che hanno come soggetto il cinema a volte parlano del fenomeno cinema in generale
(come Nitrato d’argento di M. Ferreri, Effetto notte di F. Trouffaut, Good Morning Babilonia
di P. e V. Taviani) ce ne svelano i segreti, la storia, le abitudini, le reazioni del pubblico; altre
volte focalizzano l’attenzione principalmente su uno specifico elemento: il fascino del cinema
come fabbrica dei sogni, delle aspirazioni ad una vita felice ed ideale e il conseguente impatto
traumatico che l’interazione con la macchina cinema provoca nella vita reale (come Bellissima
di L. Visconti, L’uomo delle stelle di G. Tornatore, o Sotto gli ulivi di A. Kiarostami). Celluloide
di C. Lizzani poi racconta il farsi del film: Roma città aperta di R. Rossellini documentandone
con pignoleria il percorso produttivo e le vicende storico artistiche del primo film neorealista.
Nuovo cinema paradiso di G. Tornatore è un vero e proprio omaggio al cinema in un momento
di profonda crisi che le sale stavano attraversando. La rosa purpurea del Cairo di W. Allen ci
fa piombare in uno spazio onirico senza ritorno, nel quale spettatori e attori entrano ed escono
dallo schermo rincorrendo le proprie ombre.
Ma è con Fellini 8½ che il cinema riflette se stesso come in un gioco di scatole cinesi. È il
primo film autoreferenziale nel senso che non parla del cinema o di un altro film, ma proprio del
film che si sta facendo nel momento stesso in cui le riprese vengono effettuate.
Nei film che parlano del cinema assistiamo ad una sorta di espansione virtuale dell’inquadratura. Tutto ciò che nel film non viene inquadrato, perché parte dell’apparato produttivo, si
manifesta allo spettatore operando una sorta di sfondamento del quadro che ci permette, da una
parte di inoltrarci nei territori dell’universo cinema, dall’altra di invertire la rotta tra il guardare ed essere guardati.
Il corso di quest’anno ci offre l’opportunità di avvicinarci al cinema in maniera più diretta,
non parleremo solo di registi e di film, ma sarà affrontato il fenomeno cinema come un universo
nel quale concorrono varie forze, esterne (lo spettatore) ed interne, (l’apparato cinematografico) a determinarlo.
Si parla, dunque, in queste dispense, del cinema e la sua grammatica, dei presupposti tecnici
e biofisiologici del montaggio, dei fenomeni psichici percettivi che ne sono alla base. Di tutte
quelle tematiche, dunque, che costituiscono la struttura portante di questa arte nuovissima a soli
cent’anni della sua nascita.
L’idea di offrire agli studenti un approccio al cinema in profondità, andando oltre una pedante storicità, nasce dalla considerazione che per la comprensione di questa particolare arte è più
efficace smontarne la scatola produttiva per ‘incorporarla’ nella propria esperienza. Gli studenti, infatti, oltre che studiarne la storia, quest’anno hanno organizzato un cineforum e si apprestano a realizzare dei ‘corti’ con le loro telecamere amatoriali.
Questa esigenza di provarsi con la ‘macchina cinema’ alla luce delle esperienze di studio
svolte forse sta a significare che i percorsi di conoscenza non possano prescindere dall’azione.
Crediamo, infatti, che l’uomo non debba soltanto sapere, ma anche saper fare.
Giuliano Capani
-3-
META IN ITALY
In questo articolo Marcello Walter Bruno traccia un percorso storico sui film che
hanno per soggetto il cinema. Ci sembra estremamente interessante proporlo in
apertura di queste dispense per avere subito un panorama abbastanza completo
su questo tema.
La via nazionale al cinema sul cinema
Trent’anni di riflessioni cinematografiche: da 8 ½ a Nuovo Cinema Paradiso
di Marcello Walter Bruno
Il metacinema moderno è nato in Italia nel 1963, con un’opera firmata e numerata:
Fellini 8 ½
Fellini 8 ½ è un film autoreferenziale fin dal titolo: si tratta, infatti, dell’opera che
nella filmografia di Fellini arriva dopo sei lungometraggi, due episodi e il film
d’esordio firmato a metà con Lattuada. Ma l’autoreferenzialità, come ha notato
Cristian Metz nel suo saggio contenuto in Semiologia del cinema (Garzanti, Milano
1972), si spinge al punto di fare di 8 ½ il primo vero caso di “costruzione in abisso”
di tutta la storia del cinema: “Non abbiamo soltanto un film sul cinema, ma un film
su un film che a sua volta verte sul cinema; non soltanto un film su un cineasta, ma un
film su un cineasta che riflette egli stesso sul proprio film. Una cosa è mostrare, in
un film, un secondo film il cui soggetto non ha o ha pochi rapporti con quello del
primo (Le silence est d’or di Renoir); un’altra cosa è invece parlare, in un film, di
questo stesso film mentre si va facendo. Una cosa è presentare, in un film, il personaggio di un cineasta che si limita a evocare debolmente, o soltanto a tratti, l’autore
del vero film (Prigione di Bergman); un’altra cosa è invece per un autore, assegnare
il ruolo di protagonista a un autore che si sta occupando di un film completamente
simile”.
Film d’autore in quanto autobiografico, moderno in quanto metalinguistica, 8 ½
mette in scena il proprio farsi: il prodotto consiste nelle fasi di produzione, il significato coincide con la barra della significazione, il film mostra solo ciò che lo
precede. Effetto di paradosso: si comincia sul finire, si termina all’inizio. Effetto di
mise en abime: 8 ½ è un meta-film che non contiene un film-oggetto, che è esso
stesso il proprio film oggetto; quello di Fellini è un autometafilm come I falsari di
Gide è un autometaromanzo.
Nel metacinema degli anni ’50 le cose andavano diversamente (cfr. i contributi
di Guido Fink e Patrizia Pistagnesi all’antologia di Giorgio Tinazzi Il cinema italiano degli anni ’50, Marsilio, Venezia 1979): il film-oggetto era ben distinto dal
metafilm, e questo decretava su quello un giudizio di assoluzione e di condanna.
Opere come La signora senza camelie di Antonioni o Bellissima di Visconti anticipano una “politica degli autori” mettendo le distanze fra la propria coscienza artistica/politica e l’ambiguo professionismo del “prodotto medio”, l’eredità del
ventennio fascista (rappresentata in Bellissima da Alessandro Blasetti, che vi ricopre il ruolo di regista del film-oggetto), il becero populismo degli spettacoli per le
masse (che lo stesso Fellini stigmatizza in Luci del varietà e Lo sceicco bianco). Il
film d’autore, insomma, è un esempio di cinema che si contrappone esplicitamente
– ovvero metalinguisticamente – al cinema “ di genere” e più in generale ad ogni
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Gli anni ‘50
forma di spettacolo mistificante e manipolatorio: abbiamo così, negli anni ’50, film
sulla rivista o sul melodramma (che sono film contro le illusioni fotoromantiche
dello spettatore-massa) come in seguito avremo film sulla televisione che sono film
contro l’inebetimento pubblicitario del pubblico diventato ‘audience’.
In effetti, se ancora nel 1965 (due anni dopo 8 ½) Antonio Pietrangeli poteva
dipingere, nella protagonista di Io la conoscevo bene, il prototipo della ragazzina
di provincia col mito del facile ingresso nel jet-set del cinema o della moda e se,
nello stesso anno, Michelangelo Antonioni dedica al tema del ‘provino’ il suo episodio del tre volti – già l’anno successivo lo stesso Antonioni opera una svolta
fondamentale. Blow-up non è un film sull’industria culturale o sulla “manipolazione
delle coscienze”, ma una riflessione metafisica sullo statuto dell’immagine
riprovisiva, su ciò che Bazin chiama il “realismo ontologico”. La storia del fotografo che ingrandisce sempre più un settore di fotogramma fino a intravedere la
possibile arma di un possibile delitto, sposta l’accento dalla vecchia questione
sociologica dell’esibizionismo (dunque dell’attorialità, del corpo) alla moderna
questione metalinguistica del voyeurismo (dunque della regia, dello sguardo). Dodici anni dopo La finestra sul cortile Antonioni va a girare a Londra, la città di
nascita di Hitchcock, un finto giallo in cui la figura del fotografo si fa metafora del
cacciatore di storie, colui che trasforma in suspense i piccoli segni a distanza della
quotidianità altrui.
Negli anni ’70, mentre Antonioni trasforma l’operatore televisivo di Professione: reporter nel simbolo pirandelliano di un fallimento – quello dell’immagine
come effettiva “presa” sulla realtà – e Ferreri compare come un fotografo parigino
nel western postmoderno Non toccate la donna bianca, nuove riflessioni si aggiungono. Alcune sotto il segno della nostalgia. E’ il caso di Telefoni bianchi, la commedia che Dino Risi dedica al cinema del ventennio fascista riproponendo – con il
gusto della retrodatazione più che col senno di poi – la polemica neorealista contro
i guasti della “fabbrica dei sogni” come mito della scalata sociale.
E’ il caso, soprattutto, del capolavoro di Ettore Scola C’eravamo tanto amati in
cui tutto l’arco della storia patria – dalla Liberazione al dopo-68 – viene rivisitato
avendo come filo conduttore il rapporto che i protagonisti hanno con il cinema e la
televisione: Stefano Satta Flores impersona un intellettuale di provincia (il cui accento campano rimanda ai luoghi di nascita dello stesso Scola) il quale, dopo aver
perso il posto di insegnante a causa di Ladri di biciclette, si trasferisce a Roma per
fare il critico cinematografico, perde al quiz di Mike Bongiorno “Lascia o raddoppia?” proprio su una domanda riguardante Ladri di biciclette, e quando finalmente
si trova vicino a Vittorio De Sica (a cui peraltro il film è dedicato) non ha il coraggio di contattarlo: Stefania Sandrelli interpreta di una provincialotta del nord che,
arrivata a Roma per diventare attrice di teatro, si trova sul set di La dolce vita –
ricostruito a Fontana di Trevi con l’amichevole partecipazione di Fellini e
Mastroianni – a mendicare una particina da comparsa (in seguito retrocede a maschera di un cinema, proprio come in Io la conoscevo bene, di cui peraltro Scola
era co-sceneggiatore); Giovanna Ralli, infine, è una romanaccia arricchita che giunge alla coscienza della sua alienazione borghese grazie ai film di Antonioni sulla
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Gli anni ‘60
Gli anni ‘70
“incomunicabilità.
Opera in cui la cinofilia si mescola alla passione politica sotto il segno della
nostalgia. C’eravamo tanto amati è forse l’unico film esistente in cui un regista
interpreta sé stesso che lavora ad un’opera già entrata nella storia del cinema:
Fellini vicino al fontanone è il simbolo di una gloria che va tramontando ma anche
la spia enunciazionale del film: la firma autenticata di una finzione che è stata effettivamente messa in scena, e con ciò stesso la falsificazione di sé stesso.
L’effetto 8 ½ si ripropone qui, con la riduzione di Fellini ad attore accanto
all’alter-ego Mastroianni, come un’intertestualità che aggancia due metatesti: insomma- se si potesse dire- una “intermetatestualità”.
L’altra grande riflessione metalinguistica degli anni ’70 è il capolavoro di
Bernardo Bertolucci Ultimo tango a Parigi, in cui il meccanismo un po’ abusato
del film-sul-film lascia il posto alla più sottile pratica del film-nel-film.
Ultimo
tango a
Parigi
Il film-nel-film, non ponendo il cinema come oggetto del discorso ma indicandolo marginalmente come soggetto dell’enunciazione, chiede allo spettatore un immediato confronto con la sua stessa disponibilità alla fascinazione della fiction. Il
film-nel-film è il veleno dell’ipnosi che contiene, come sottosistema semiotico,
l’antidoto dell’epochè. In effetti cosa ci fa, a Parigi, Jean-Pierre Lèaud armato della
cinepresa? Preannuncia, all’interno del film, il carattere finzionale della storia principale: “Se ti accarezzo i capelli, forse sto facendo del cinema… Se ti stringo la
mano, forse sto facendo del cinema… Vedrai, è soprattutto un film d’amore, vedrai…”.
E poi, com’è descritto il protagonista da parte della cameriera? “Sai cosa faceva? Il pugile…poi è passato al racket del porto di New York… suonatore di borgo… rivoluzionario in Messico… giornalista in Giappone… sbarca a Tahiti, s’arrangia…”: insomma, la filmografia di Marlon Brando da Fronte del porto a Gli
ammutinati del Bounty passando per Missione in Oriente (Il brutto americano). Dunque, lei è l’attrice Maria Schneider con alle spalle l’attore preferito di Truffaut e
della nouvelle vague, lui è l’attore Marlon Brando con alle spalle Massimo Girotti
simbolo del neorealismo italiano; il finale di Ultimo Tango è l’assassinio dello star
system hollywoodiano da parte del cinema moderno europeo, che si difenderà dicendo: “Voleva violentarmi. Ho voluto difendermi”.
Ma gli anni’70 sono anche famosi per la liberatoria battuta anticinefila pronunciata da Paolo Villaggio in Il secondo tragico Fantozzi: “Per me, la corazzata Potemkin
è una cagata pazzesca”. Nell’universo totalitario del Villaggio (!) Globale, la
cinefilia diventa il segno estenuante di una cultura imposta alle masse da un apparato burocratico che non è quello dell’intelligencia di sinistra, ma direttamente quello
dei dopolavoro aziendali: nella mega-azienda immaginata da Villaggio si viene
assunti in base a colloqui che vertono su Murnau e Griffith, e bisogna rinunciare
anche alle partite di calcio per sorbirsi i classici di Dreyer e, soprattutto,
dell’odiatissimo Ejzenstejn. La rivolta del nuovo sottoproletariato culturale – e qui
Fantozzi si rivela vero grande simbolo dello Zeitgeist post-68 – si esprime attraverso il rogo delle pellicole cinematografiche imposte dall’alto come ‘educazione all’immagine’: e non v’è dubbio che, nell’urlo di guerra del telespettatore Fantozzi,
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Paolo
Villaggio
e Fantozzi
risuona l’insofferenza di quelle nuove generazioni educate a suon di cineforum ma
desiderose di ‘spettacolo’ più che di ‘arte’.
Ribellione contraddittoria, come tutta la reazione postmoderna al cinema ‘d’autore’: da un lato si avversa l’uso terroristico che di Ejzenstejn, e di tutta la ‘settima
arte’, si va facendo attraverso la moda culturale delle semiotiche da dipartimento
universitario (il DAMS era appena nato); dall’altro quando Fantozzi e i colleghi
sono condannati a rifare La corazzata Potemkin con la regìa del dirigente aziendale,
Villaggio si toglie comunque lo sfizio di rifare la sequenza della carrozzina sulla
scalinata di Odessa (mentre Scola, in C’eravamo tanto amati, si limitava a farla
narrare sullo sfondo di Trinità dei Monti). Se la parodia è comunque un omaggio, il
remake di Villaggio va letto come un modo cinico e beffardo di vivere la nostalgia
del grande cinema. Se la cinefilia è metacinema, anche la cinefobia lo è.
Le requisitorie degli anni’80 sono perlopiù incentrate sulla ‘neorealtà’ del panorama massmediologico post-berlusconiano. Anche perché, ovviamente, la crisi
del cinema ha evidenziato la televisione come un nemico particolarmente subdolo,
che non si limita a fagocitare l’avversario (i palinsesti commerciali assimilano i
film nel flusso informazione/pubblicità) bensì lo tiene in vita surrettiziamente degradandolo a protesi: i nuovi divi cinematografici, da Villaggio a Troisi, da Arbore
a Benigni a Nuti, vengono tutti dal varietà televisivo, dall’avanspettacolo elettronico; i nuovi produttori si chiamano Rai e Berlusconi.
In questo contesto dominato tecnologicamente dai networks e ideologicamente
dall’advertising, s’inseriscono dei film che – parlando della televisione ed essendo
destinati al passaggio su piccolo schermo – si configurano come un caso speciale di
fiction che potremmo chiamare ‘metatelevisiva’: Il Pap’occhio di Arbore (1980),
in cui s’immagina l’organizzazione dell’emittente ‘libera’ vaticana; Ho fatto splash
di Nichetti (1980), dove un bambino s’addormenta davanti alle immagini del Festival
di Sanremo e si sveglia vent’anni dopo, quando farà successo in pubblicità; Joan
Lui di Celentano (1985), dove una rockstar prende il potere assoluto, ottenendo
dalla Tv di stato la facoltà d’inserirsi in qualunque programma, per fare quei
predicozzi che poi Celentano ha realmente ammannito durante la sua edizione di
“Fantastico”; Ladri di saponette ancora di Nichetti (1989), dove il flusso separato
dei canali televisivi impazzisce, sicché una modella pubblicitaria si ritrova all’interno di un film neorealista la cui protagonista (in bianco e nero) circola invece nel
mondo colorato degli spot commerciali.
Pupi Avati e Margarethe Von Trotta
Nell’epoca della massima crisi dell’industria cinematografica italiana, l’immagine ottica sembra un retaggio estetico del passato, ma anche la nostalgia di un
supporto che sa conservare un presente per il futuro. In Festa di laurea di Pupi
Avati la ‘futura memoria’ viene affidata al fulmineo BN che costruisce una falsa
sintesi degli avvenimenti: una critica alle teorie sulla ‘riproduzione meccanica
della realtà’, un’esibizione del potere mistificatorio delle immagini, ma anche la
fascinazione ipnotica della ‘traccia’ documentaria.
In Amore e rabbia la distanza struggente della vita fermata sul supporto film
entra in contrasto con la volgarità della diretta televisiva, impersonata dal perso-7-
Gli anni ‘80
La fiction
metatelevisiva
naggio di Paolo Hendel. Ma il conflitto cinema/televisione si legge in filigrana
anche nel drammatico Regalo di Natale di Pupi Avati, dove la vittima predestinata
del poker-stangata è un proprietario di cinema (che perderà per l’appunto la sala)
mentre l’amico traditore è un imbonitore tipico delle emittenti private, e per questo
sospettabile fin dall’inizio di essere un poco di buono.
Amore e rabbia, film italiano di Margarethe Von Trotta, si conclude con un passaggio dal colore a un BN virato azzurro che, equiparando il presente della protagonista al passato (già conservato su pellicola) della somigliantissima madre, fa di
qualunque esperienza filmata il monumento immediato del tempo perduto.
Anche Nanni Moretti, che con Sogni d’oro aveva usato una marca di camomilla
per intitolarsi un metafilm licantropico e post-felliniano, non si esime dal contrapporre la nostalgia del cinema all’asfissiante baraccone dell’informazione televisiva: in Palombella rossa la ‘tribuna politica’ è un gioco delle falsità da cui è possibile uscire solo con l’infantilismo perverso-polimorfo (la canzoncina) e con la
perdita d’identità, mentre un kolossal hollywoodiano Il dottor Zivago è ancora
capace di commuovere e far partecipare.
È lui, Fellini, il nume tutelare di tutta questa messa-in-abisso dei media, che fa?
Nemico dichiarato dell’immagine elettronica, il vecchio Federico dedica al conflitto tre film complementari e contrapposti. In Ginger e Fred – film nostalgico fin dal
titolo evocatore del musical hollywoodiano – recupera come valore il vecchio
avanspettacolo: i personaggi impersonati da Mastroianni e la Masina sono i rappresentanti di un mondo tramontato in quanto demodé, ma molto più umanamente ingenuo del cinico calderone dei megashow televisivi, faccia cialtrona di un sistema
spettacolare il cui cuore è quello mercantile della pubblicità, rappresentato come
luogo orrorifero del consumo gastronomico, circo folle privo della grazia nel circo
finale di 8 ½. In Intervista Mastroianni viene rapito mentre fa Mandrake per un
pubblicità (!) e condotto a casa dall’ingrassata Anita Ekberg a vivere il fascino
della Dolce vita (un auto-omaggio dopo quello gia tributato da Scola in C’eravamo
tanto amati): pochi minuti di magia prima che gl’indiani televisivi, armati d’antenna, attacchino il fortino del set cinematografico.
E’ interessante notare, a proposito dell’Intervista, che il Maestro girella sì per
Cinecittà sull’improbabile set di un film tratto da America di Kafka, ma la suddetta
intervista è opera di una troupe della Tv giapponese: doppia finzione giocata fra
metacinema e metatelevisione, in cui ciascun mezzo è inglobato nell’altro in una
mutua riflessione (o mutua fagocitazione?). L’ultimo film di Fellini, La voce della
luna, è un altro accorato grido d’allarme sulla spoeticizzazione operata dal grezzo
realismo dell’informazione-spettacolo su quegli oggetti d’affezione inconscia che
Bachelard chiamava ‘operatori d’immagine’: la luna, millenario simbolo dell’ispirazione poetica, è trascinata a terra, laicizzata all’occhio delle telecamere, violentata dal chiacchiericcio dei dibattiti in diretta, appiattita sul maxischermo elettronico; tolta di peso dal cielo dei lunatici, artisti compresi, la luna non è nient’altro che
un ennesimo satellite per telecomunicazioni, l’ennesima star buona per fare da
testimonial per la pubblicità.
La morte del cinema mette in moto un’elaborazione del lutto che è nostalgia di un
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Nanni Moretti
Federico Fellini
passato per molti versi mitico.
La crisi delle sale si fa materia poetica in due film contemporanei che hanno
molti punti in comune: Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e Splendor
di Ettore Scola. Nel primo, ambientato nella provincia siciliana dov’è nato Tornatore,
la vita amorosa del giovane Totò si sviluppa nel ristretto perimetro del cinema di
cui è protezionista: fa l’amore per la prima volta in mezzo alle poltrone e sotto il
bianco occhio quadrato del telone, sul nudo pavimento ricoperto di locandine; riceve il primo bacio dalla donna della sua vita per l’ultima volta sotto l’acquazzone di
un’arena estiva; la attende invano ad un appuntamento al Nuovo Cinema Paradiso, e
solo trent’anni dopo scoprirà la prova del suo amore nella solita saletta di proiezione; la perderà definitivamente per l’esplosione che distrugge il cinema per sostituirlo con un parcheggio. In Splendor – ambientato nella provincia campana dov’è
nato Scola – il menage à trois fra il proprietario, la cassiera e il proiezionista è
punteggiato dalla visione di film e metafilm (non c’è 8 ½, per via di Mastoianni, ma
c’è Effetto notte di Truffaut).
Tornatore
e
Scola
In entrambi lo scorrere del tempo è segnalato dallo scorrere della pellicola; in
entrambi, la proiezione assume il senso del transfert psicanalitico; in entrambi,
soprattutto, si scopre e si attiva la funzione attoriale della spettacolarità. C’è un’inquadratura di Nuovo Cinema Paradiso in cui la macchina da presa è posta dietro lo
schermo, in modo da avere il pubblico in posizione frontale, coperto in trasparenza
dalle scene del film proiettato: qui l’occhio dell’obiettivo è la soggettiva del filmoggetto; non sono gli spettatori a guardare il film, ma il film a guardare gli spettatori. Meglio ancora: gli attori-spettatori stanno guardando il film-oggetto e ciò facendo, guardano noi spettatori del meta-film: il gioco della specularità è perfetto, e lo
sguardo-in-macchina collettivo attiva quel ‘controcampo assoluto’ che fa della reale sala cinematografica il prolungamento della sala rappresentata. Il film avvolge i
propri spettatori nel buio di una sala che è pura rappresentazione. Il mito della
caverna colpisce ancora.
E il mito per antonomasia, la Hollywood del cinema muto, rivive ad opera di
Paolo e Vittorio Taviani in Good Morning Babilonia, titolo che richiama
l’ambientazione del film di Griffith Intolerance, ma anche il best-seller scandalistico
di Kenneth Anger Hollywood Babilonia (Adelphi, Milano 1979) che comincia con
queste parole: “Elefanti bianchi: il dio di Hollywood esigeva elefanti bianchi e gli
furono dati – otto mastodonti di gesso, appollaiati su piedistalli a mega-fungo, che
sovrastavano l’immensa corte di Belshazzar, la Babilonia di cartapesta costruita ai
margini della vecchia pista polverosa chiamata Sunset Boulevard”. Il film dei
Taviani è esattamente la storia degli elefanti.
Un atteggiamento metacinematografico è presente da sempre nell’opera dei
Taviani. Nel 1963, conclusa la fase di collaborazione con Valentino Orsini, “è
proprio la storia di un regista in crisi che vorrebbero raccontare, di un regista che
sta realizzando un film sulla Resistenza, ma che, colto da malore e ricoverato in
ospedale, si accorge dei limiti e della stanchezza di questa storia. Il produttore,
però, vuole a tutti i costi un film e allora il regista scopre che è proprio la storia
della sua crisi, della sua ricerca, che può diventare la storia del film. Il progetto fu
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I fratelli
Taviani
poi abbandonato con l’uscita del film 8½ di Federico Fellini che racconta situazioni analoghe, ma il fatto importante era che i Taviani collocassero un regista al
centro della loro opera, come dimostrazione della centralità del mestiere del cinema. Volendo chiudere un cerchio ideale, si può dire che, nei film realizzati da soli, i
Taviani collocano all’inizio e alla fine la figura del regista: in Sovversivi il regista
in crisi Ludovico e in Good Morning Babilonia il regista-mito Griffith” (Riccardo
Ferrucci: ‘Un viaggio nel cinema da S. Miniato a Hollywood’ in La bottega Taviani.
La casa Usher, Firenze 1987). Senza scordare che nel film del’79 Il prato, ambientato nella toscanissima S. Gimignano, il protagonista si suicida anche perché non
riesce a fare il regista.
Good Morning Babilonia è un monumento all’autorappresentazione: intanto, i
protagonisti sono due fratelli quasi coetanei (proprio come Paolo e Vittorio) e ultimi rampolli di una patriarcale famiglia di artisti-artigiani (i Taviani sono stati considerati come gli ultimi eredi del Neorealismo): siccome l’azienda è in crisi come è
in crisi il cinema italiano i due fratelli emigrano in America (e il film, benché
Hollywood sia stata in realtà costruita a Tirrenia, è americano per il cast e anche
per i capitali) ma alla fine tornano in Italia a girare la propria morte (o Il sole anche
di notte?). Poi, l’incontro fra Griffith e Bonanno (“chi saluterà per primo?”) è immediatamente l’incontro fra l’industria cinematografica americana e la tradizione
autoriale europea; il film ‘hollywoodiano’ dei Taviani è figlio delle loro opere
‘nazionali’ come Intolerance era il figlio di Cabiria.
In un periodo in cui i grandi ‘monumenti’ non hanno più committenza, e i restauratori non trovano lavoro, i due fratelli italiani si presentano – mettendo le parole in
bocca a Griffith – come gli eredi di “quegli oscuri tagliatori di pietra che hanno
inciso i loro capolavori sulle cattedrali, che hanno contribuito a rendere famose con
la propria arte, e che hanno aiutato il prossimo a credere e a vivere meglio”. Il
cinema è l’ultimo esempio auratico dell’Arte come sogno collettivo, e l’elefante –
simbolo di longevità – è il ‘testimone’ di un passaggio di consegne: cinema will
never die.
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Quando il cinema riflette su se stesso ci rimanda nel suo mondo complesso fatto
di persone che vivono un’esperienza molto particolare e intensa, in cui il tempo
della loro vita sembra scorrere e fondersi con quel tempo cinematografico che
non ha nulla di reale. È la realtà cinematografica! Una nuova realtà con regole
tutte proprie.
Vediamo ora di approfondire queste regole: cosa succede nello spettatore durante la visione del film? Abbiamo scelto un saggio di Alberto Angelini (in: Psicologia del cinema, Liguori editore, Napoli, 1992) che indaga proprio su questo
tema.
LA PSICOLOGIA DELLO SPETTATORE: ASPETTI DINAMICI
La situazione psicologica dello spettatore cinematografico coinvolge molteplici
aspetti, che vanno dall’area cognitiva, a quella dinamica, ai riscontri psicofisiologici
e cosi via. Nell’intento di offrire un quadro esauriente, e opportuno, comunque, fare
riferimento ad alcune caratteristiche esclusive della rappresentazione cinematografica.
Lo spettatore, al cinema, si trova di fronte ad uno spazio fittizio che ha tutti i
caratteri della realtà, ma che non è, oggettivamente, in nessun luogo. Musatti1 ha
evidenziato i diversi modi in cui può essere vissuta una vicenda rappresentata in un
romanzo, nella situazione teatrale, o in quella cinematografica. Per chi legge un
romanzo, i fatti che vi sono descritti risultano immaginati. Si tratta, cioè, di una
rappresentazione esclusivamente mentale e soggettiva. A teatro, invece, lo spettatore percepisce una porzione di spazio reale, ovvero il palcoscenico, dove attraverso
le scenografie, i costumi, i gesti ed i discorsi degli attori, Si ottiene la rappresentazione di una realtà fittizia.
Lo spazio
del Cinema
Al cinema, lo spettatore sperimenta un tipo di percezione immediata, in cui i fatti
sono direttamente presentati.
Al cinema, ha scritto, in particolare, C. Metz2 : “La finzione teatrale è maggiormente avvertita... mentre la finzione cinematografica è piuttosto sentita come la
presenza quasi reale di questo irreale”.
La maggior influenza del cinema sul pubblico, rispetto ad ogni altra forma di
spettacolo, è appunto dovuta a questa capacità della situazione cinematografica di
trasportare lo spettatore in un’altra realtà. Questo potente “carattere di realtà” del
cinema va preso in esame anche quando si considerano le potenzialità artistiche del
mezzo cinematografico. Il cinema può riuscire a mantenere alta la partecipazione
dello spettatore anche al di fuori di effettivi valori artistici. Diversamente, la caduta
di attenzione, durante uno spettacolo teatrale di scarso interesse è rapida e, in linea
di massima, inevitabile. Ciò nulla toglie, ovviamente alle capacità di espressione
artistica del cinema. Esso, come ogni altra forma espressiva, può raggiungere, o
meno, livelli artistici in relazione alle capacità dell’ideatore e al materiale utilizzato.
L’analogia tra la situazione cinematografica e quella onirica, in cui si sperimenta
il sogno, e stata posta in evidenza soprattutto da autori di estrazione psicoanalitica,
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Il cinema
e
il sogno
come Musatti. D’altra parte anche registi della massima importanza nella storia del
cinema, come S. M. Ejzenstejn, hanno paragonato la situazione cinematografica agli
stati ipnotici, riconoscendo la capacità del cinema di provocare una regressione
psicologica nello spettatore. In effetti, tra sogno e situazione cinematografica vi
sono, oltre ad ovvie differenze, alcune precise analogie. In primo luogo sia il cinema sia il sogno inducono l’individuo a sperimentare una situazione diversa da quella propria della vita reale. Inoltre, in entrambe le situazioni, ciò è possibile solo se
l’individuo sospende temporaneamente il corso della vita normale. Il sogno avviene durante il sonno, quando il contatto fisico con l’ambiente esterno è molto limitato. Analogamente anche nella situazione cinematografica, i contatti con l’ambiente
circostante vengono limitati. Per questo si spengono le luci, si evitano i rumori e si
cerca di offrire allo spettatore una situazione comoda e confortevole. Sia il sogno
sia il cinema rappresentano delle forme di evasione dal mondo reale. Rimangono,
ovviamente, delle differenze costituite principalmente dalla situazione, totalmente
passiva rispetto alle immagini, sperimentata dallo spettatore cinematografico.
Tuttavia, la contrapposizione tra sogno e realtà, come quella tra cinema e realtà,
presentano delle analogie. I sogni, come i film, si dimenticano e si modificano nella
memoria, con facilità. Infatti entrambi mancano di quei riferimenti costituiti dalla
solida impalcatura fornita dalla vita reale. Inoltre, il tempo e lo spazio cinematografico sono, come si e già osservato, diversi da quelli propri della vita reale, in
stretta analogia con ciò che avviene nei sogni. Secondo l’orientamento psicoanalitico,
i sogni, proprio perché si verificano durante una sospensione della attività psichica
cosciente, cadono sotto il dominio dei processi psichici inconsci. Gli impulsi e le
fantasie insoddisfatte, durante la veglia, per il controllo cosciente che esercitiamo
su noi stessi, si manifestano, durante il sonno, attraverso l’elaborazione onirica,
ovvero tramite i sogni. Per questo i sogni accolgono, a volte in modo esplicito,
esigenze e desideri che non ammetteremmo nella vita reale.
Anche in questo caso, vi è una forte analogia con la situazione cinematografica.
Infatti, sebbene gli spettatori non abbiano realizzato i film a cui assistono, la loro
tolleranza nei confronti delle situazioni illustrate cinematograficamente è assai maggiore di quella che potrebbero avere nei confronti di fatti reali, a cui fossero costretti a partecipare, o anche, semplicemente, ad assistere. Anche la situazione cinematografica, come quella onirica, consente, almeno parzialmente, di allentare la
sorveglianza che esercitiamo su noi stessi. I film di maggiore successo sono quelli
in cui compaiono quei fattori latenti che agiscono negli strati profondi della nostra
personalità fattori che non possiamo o non vogliamo soddisfare nella vita reale, ma
a cui non riusciamo a rinunciare completamente, Il film, entro certi limiti, consente
di appagare, in forma innocua, quegli impulsi che la coscienza considera proibiti.
Il sogno è certamente più individualizzato, rispetto al film, che si rivolge ad un
pubblico collettivo. D’altra parte, e stato diffusamente evidenziato che, prescindendo dalle caratteristiche psicologiche della singola persona, esistono dei motivi permanenti che si riscontrano nella complessità degli individui. Krin e Glenn 0. Gabbard
hanno fatto osservare le difficoltà metodologiche che si incontrano nell’applicare
la psicoanalisi al campo dell’arte. Sono difficoltà inevitabilmente presenti, soprat- 12 -
Il cinema
e
l’inconscio
collettivo
tutto quando la psicoanalisi esce dallo specifico settore clinico.
In una approfondita analisi dedicata alla persona e all’opera di Pier Paolo
Pasolini, Carotenuto ha evidenziato, tra l’altro, le tematiche collettive del rapporto
tra un artista e la sua opera. Ne “Il fiore delle mille e una notte” - ricorda Carotenuto“Pasolini fu uno dei primi a presentare sullo schermo il nudo maschile integrale”.
Un esempio di trasposizione cinematografica relativa a tematiche psicologiche personali, che trovano riscontro collettivo.
L’abilità dell’autore e del regista consiste nel soddisfare al massimo le esigenze
presenti nella maggioranza del pubblico; anche se tali esigenze risultano tra loro
contrastanti. Non si deve, poi, sottovalutare la possibilità offerta ad ogni spettatore,
di soddisfare. elementi psicologici specifici, attraverso il gioco delle proiezioni e
delle identificazioni.
Esistono numerosi argomenti che comprovano la capacità del film di parlare
direttamente all’inconscio dello spettatore. La psicoanalisi e la psichiatria hanno
descritto, da tempo, quel fenomeno specifico costituito dagli attacchi di “angoscia
cinematografica”. Vi sono diversi stati nevrotici, variamente denominati, in cui l’individuo è soggetto ad attacchi improvvisi di angoscia. Si tratta di subitanei stati di
paura, non collegati ad oggetti specifici. Si accompagnano a sensazioni di grande
rischio e di catastrofe imminente. L’individuo preso da questa paura immotivata si
sente in immediato pericolo di vita, o ha il timore di perdere il controllo su se
stesso. Finisce, spesso, col temere di morire, o di impazzire. Fisicamente il soggetto non presenta nulla, salvo manifestazioni neurovegetative, come accelerazione del
ritmo cardiaco, affanno respiratorio, sudorazione e tremiti, che non costituiscono la
causa della sua angoscia, ma l’effetto della grande paura che lo domina. Sul piano
psicoanalitico, è, tuttavia, noto che l’angoscia, come stato psichico, può essere
determinata da situazioni conflittuali che agiscono a livello inconscio, senza che il
soggetto se ne renda conto. Quando l’attacco si scatena è data, generalmente, una
qualche momentanea impressione determinata da un fatto reale, capace di mettere in
moto questi meccanismi inconsci. L’individuo, per lo più, non riesce a cogliere
questa momentanea impressione, come non riesce a percepire le cause recondite
della sua angoscia. Si è constatato che, a volte, i primi attacchi di angoscia in un
soggetto ansioso si sono prodotti durante la visione di un film. Analogamente, alcune persone, soggette ricorrentemente a simili disturbi, sperimentano, con maggiore
frequenza, i loro attacchi durante le proiezioni cinematografiche. Alcune persone
sviluppano una vera e propria fobia del cinema, giungendo ad evitare le sale cinematografiche, nel timore di essere colte da tali attacchi. Inoltre e clinicamente
riscontrabile la capacità di film determinati nel provocare attacchi di angoscia in
diverse, distinte, persone.
Metz ha osservato che, in questa indagine ad orientamento nosografico, si può
scivolare in una troppo generale caratteriologia cinematografica d’ispirazione
psicoanalitica. Ciò in osservanza alla perdita di distinzione netta tra normale e
patologico. D’altra parte, non necessariamente questi film ansiogeni sono gli stessi
che la maggior parte del pubblico giudica impressionanti. Anche film dotati di scarso contenuto emotivo possono scatenare l’ansia in persone particolarmente predi- 13 -
sposte. In genere, questi film contengono, comunque, la rappresentazione di qualche
atto di violenza. Tuttavia, solo una approfondita indagine psicoanalitica consente di
individuare il meccanismo per cui una determinata scena cinematografica provoca
questo effetto, in un particolare individuo.
E. Servadio3 ha fatto osservare come, nelle situazioni affettivamente rilevanti,
che coinvolgono sul piano della percezione l’elemento visivo, sia opportuno prendere in considerazione l’influenza, a livello inconscio, di quelle esperienze infantili, concrete e fantasticate, che la psicoanalisi raccoglie sotto la denominazione di
‘Scena primaria’.4
Anche altri elementi garantiscono la capacità dei film di mettersi in contatto con
l’inconscio degli spettatori, È noto che, secondo l’approccio psicoanalitico, i sogni
possono esprimere dei conflitti emotivi presenti nell’individuo, a livello inconscio,
tramite immagini e situazioni significativamente intuibili. Queste ultime sono costituite utilizzando materiale tratto dalla recente e comune esperienza di vita del soggetto. Non a caso, nel senso comune, i sogni rappresentano, in linea di massima, la
riproduzione di cose appartenenti alla recente esperienza quotidiana.
Nella terminologia psicoanalitica, questi elementi della vita reale che
ricompaiono, generalmente deformati, nei sogni, sono definiti “resti diurni”. Tali
resti non esplicitano, di per sé, il significato del sogno, che è promosso da altri
fattori. Essi costituiscono, piuttosto, un materiale rappresentativo di cui l’individuo
può disporre per realizzare il proprio sogno. È ovvio che non tutti i possibili resti
diurni di un soggetto, ovvero quel che è accaduto nella vita quotidiana, sono adatti
ad esprimere gli elementi inconsci che il sogno tende a comunicare. È necessaria la
presenza di particolari connessioni tra l’inconscio ed il materiale rappresentativo
con cui il sogno si manifesta. L’interpretazione psicoanalitica dei sogni tende, appunto, ad individuare tali connessioni. Sul piano psicoanalitico, è stato constatato
che, quando i pazienti frequentano il cinema, molti resti diurni presenti nei sogni
sono immagini e situazioni estratte da film.
La spiegazione può essere, in parte, formale se si fa riferimento all’analogia tra
la situazione onirica e la concreta situazione filmica. ha scritto, a proposito di questo fenomeno, M. Beluffi: “Il cosiddetto rilassamento paraonirico prodotto dallo
spettacolo cinematografico e dalla partecipazione all’azione che esso propone ci
sembra rappresentare la condizione privilegiata specifica e comune in cui tutti i
soggetti - normali o psicotici che essi siano - sono posti certamente in grado di
poter assimilare particolari messaggi che in altra situazione non sarebbero per essi
né attingibili né ipotizzabili con altrettanta efficacia)”.
La situazione, per cosi dire “oniroide”, in cui lo spettatore visiona il film può,
di per se, favorire la comparsa di brani filmici nei sogni 5 .
D’altra parte, in chiave psicoanalitica, emergono motivazioni profonde. In linea
di massima, quando immagini cinematografiche compaiono nei Sogni di un individuo, si riscontra che il film stesso aveva già precedentemente raggiunto aspetti
profondi della personalità del soggetto. Quegli stessi aspetti si ripropongono nei
sogni utilizzando il materiale cinematografico percepito come significativo.
- 14 -
Il cinema
e
il contatto
con l’inconscio
In un certo senso, l’individuo aveva già sperimentato una situazione onirica durante la visione del film. Nel sogno, egli la rivive modificandola ed integrandola.
Se ciò accade, si deve ammettere che il film ha la capacità di raggiungere direttamente l’inconscio dello spettatore.
Questo contatto del cinema con l’inconscio si realizza in più modi. Facendo
riferimento all’esperienza onirica, si possono, intanto, prendere in considerazione
quei sogni che l’individuo sperimenta esclusivamente come spettatore. In alcuni
casi, la situazione del sogno viene, esplicitamente, paragonata a quella cinematografica, in cui lo spettatore non partecipa al film.
Come
si realizza
il contatto
con
l’inconscio
Sul piano psicoanalitico, la mancata partecipazione diretta del soggetto al sogno
esprime semplicemente una difesa. L’individuo riesce a rappresentare, in sogno,
una determinata vicenda, che ha un significato nascosto e che appaga, indirettamente, dei desideri latenti. Contemporaneamente, si pone al di fuori della vicenda stessa, assumendo il ruolo esclusivo di spettatore, proprio per non sentirsi eccessivamente coinvolto Con quegli stessi desideri latenti, che egli avverte come proibiti.
Si tratta, in sostanza, di un compromesso che consente, da una parte, la simbolica
espressione di queste tendenze proibite e, dall’altra, rassicura l’individuo, rispetto
alla sua coscienza morale, ponendolo nella posizione di chi osserva e non agisce in
prima persona.
Lo spettatore cinematografico, a differenza di chi sogna, è immediatamente consapevole di non avere diretta responsabilità rispetto alla vicenda che si svolge
sullo schermo. Tuttavia la situazione è analoga. Nella sala cinematografica vengono
soddisfatte tendenze, più o meno inconsce, non dissimili da quelle che governano i
nostri sogni. Questo, in definitiva, è il motivo che ha determinato il successo storico
del cinema. D’altra parte, la posizione di spettatore consente di limitare il carico
psichico connesso a scene con contenuti stressanti, di tipo violento, erotico e cosi
via. Si può ipotizzare che le manifestazioni di angoscia cinematografica, capaci di
determinare, al limite, anche la fuga dello spettatore dalla sala, siano imputabili
alla percezione, più o meno chiara, del senso di colpa connesso a quegli inconsci
desideri che il Cinema parzialmente appaga. Il meccanismo psichico è simile a
quello che trasforma i sogni in incubi. Sul piano psicoanalitico, quando un individuo non riesce a tollerare il proprio senso di colpa per le tendenze che il sogno, in
qualche modo, soddisfa, si produce angoscia e la trasformazione del sogno in un
incubo. A ciò segue il risveglio che è, sostanzialmente una fuga dalla situazione
onirica.
Il modo in cui lo spettatore partecipa affettivamente alla vicenda filmica può
essere, appunto, analizzato in una prospettiva psicoanalitica.
I meccanismi
di partecipaz.
al film
Due sono i meccanismi psicologici fondamentali tramite cui l’individuo partecipa alla situazione cinematografica: l’identificazione e la proiezione.
Col termine identificazione si designa un processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma, parzialmente o totalmente, sul modello di quest’ultima. Alla costituzione e
differenziazione della personalità contribuisce una lunga serie di identificazioni. Le
identificazioni protratte conducono addirittura all’adozione di comportamenti men- 15 -
Identificazione
tali, motori ed emotivi altrui. D’altra parte, la personalità individuale reagisce continuamente alla forza del meccanismo identificativo che, se non incontrasse tale
reazione, finirebbe per annullare completamente le caratteristiche del soggetto, come
avviene nelle situazioni patologiche. Durante lo spettacolo cinematografico i fenomeni di identificazione sono particolarmente intensi. Ciò e anche dovuto alle caratteristiche oniroidi della situazione e alla consapevolezza, da parte dello spettatore,
dei limiti di tempo propri della visione cinematografica. Ciò rassicura chi vede un
film e gli consente di abbandonarsi, con tranquillità, ai processi psichici che il
cinema innesca e che ne hanno sostanzialmente determinato il successo storico come
strumento espressivo. Inoltre, anche se il film tende a polarizzare l’identificazione
dello spettatore su un personaggio principale che coincide, generalmente, con il
protagonista, i meccanismi identificativi agiscono, più o meno inconsciamente, anche rispetto agli altri personaggi della vicenda cinematografica. Il personaggio nei
confronti del quale l’autore del film favorisce l’identificazione è, in genere, un
individuo che pensa ed agisce come, secondo lo spettatore, sarebbe adeguato comportarsi nelle circostanze illustrate cinematograficamente. Spesso, i personaggi secondari consentono identificazioni laterali ed inconsce, colorate di sensazioni che,
nella vita quotidiana, non sono permesse.
Il cinema consente, quindi, la soddisfazione di impulsi che la realtà non ammette.
Ciò, del resto, è proprio anche del romanzo e del teatro. Tipica del cinema è, tuttavia, l’alta intensità che si accompagna a questo processo. Ciò e dovuto alla “caratteristica di realtà” propria del mezzo cinematografico.
È possibile osservare l’attuazione somatica dei processi di identificazione durante lo spettacolo cinematografico. Il pubblico, infatti, reagisce al film proiettato
con gesti ed atteggiamenti complessivi della persona che possono essere registrati
audiovisivamente. Queste reazioni risultano particolarmente ricche nel pubblico
infantile6 .
R. Zazzò (1968) ha specificamente analizzato le reazioni del pubblico durante la
visione cinematografica concentrando le sue ricerche sul pubblico infantile. Si è
constatata una notevole uniformità di espressione. Le reazioni, quali esse siano,
sono generalizzate. Ne si può ipotizzare una qualche forma di contagio emotivo o di
influenza reciproca tra gli spettatori, poiché la sala è al buio, l’attenzione di tutti è
concentrata sullo schermo e le reazioni, anche se avvengono in silenzio, sono generalmente uniformi.
Elevatissima è anche l’uniformità delle reazioni motorie agli avvenimenti proiettati sullo schermo, in virtù di quel processo denominato “induzione posturo-motrice” (Cfr. Croce, 1974).
Tuttavia, per approfondire i modi di partecipazione dello spettatore alla vicenda
cinematografica, è necessario prendere in considerazione, oltre al meccanismo della identificazione, anche il fenomeno della proiezione .
Il termine “proiezione” indica, in senso molto ampio, l’operazione con cui un
fatto psicologico è spostato dall’interno all’esterno, dal soggetto all’oggetto. Sul
piano strettamente psicoanalitico, per proiezione si intende quel processo con cui
l’individuo espelle da sé e localizza nell’altro, persona o cosa, delle qualità, dei
- 16 -
proiezione
desideri e dei sentimenti che egli non riconosce o rifiuta. È una difesa che ha origini
arcaiche e che agisce, particolarmente, nella paranoia.
Non manca, però, di manifestarsi in forme di pensiero “normali”, come la superstizione. Sebbene in maniera subordinata, anche il meccanismo della proiezione
agisce nella situazione cinematografica. La struttura, generalmente rigida ed articolata, del linguaggio filmico consente un limitato esercizio della proiezione. Tuttavia
essa si manifesta, palesemente, ogni volta che lo spettatore tende ad attribuire ai
personaggi del film sentimenti ed intenzioni che sono, più o meno consapevolmente,
suoi.
Come è noto, diversi test psicologici si basano sul fenomeno proiettivo, allo
scopo di mettere in evidenza elementi nascosti della personalità. Le risposte di chi
è invitato a dire cosa vede nelle figure prive di significato del test di Rorschach7 , o
nelle immagini ambigue del Thematic Apperception Test, sono estremamente diversificate da soggetto a soggetto e rivelatrici di aspetti profondi della personalità.
L’esile base offerta dalle tavole dei test è arricchita da elementi visti, evocati o
intuiti, che risultano espressione della personalità del soggetto. Tali elementi, a
domande dirette, non riuscirebbero ad emergere. La loro presenza è dovuta al processo di proiezione che trascende i dati oggettivi offerti alla osservazione individuale. Secondo Musatti nella situazione cinematografica funzionano gli stessi processi proiettivi in atto nei test psicologici. È noto che, nella storia del cinema,
registi come Pudovkin, Kuleshov o Ejzenstejn hanno intuitivamente percepito l’importanza di questo fenomeno, giungendo anche, come nel caso dei primi due, ad
elaborare sperimentazioni per verificarne le circostanze di attuazione e la loro portata.
In senso lato, ogni film è un test proiettivo, indipendentemente dall’intenzione
del regista. Nel film, infatti, non possono mancare alcuni elementi ambigui o enigmatici, perché tale risulta, comunque, il comportamento umano, al giudizio di chi
osserva, anche nell’ambito cinematografico. Quando lo spettatore cinematografico
tenta di precisare le qualità dei personaggi e il loro comportamento attua inevitabilmente dei processi proiettivi. Come ha scritto Musatti: “per effetto della identificazione, lo spettatore è di volta in volta tutti i singoli personaggi mentre per effetto
della proiezione i singoli personaggi sono sempre lo stesso spettatore”8 . In effetti,
entrambi i meccanismi agiscono contemporaneamente ed interferiscono fra loro.
Avviene, cioè, che la proiezione sia facilitata da una iniziale identificazione con un
personaggio, mentre la identificazione è rafforzata dal meccanismo proiettivo, che
rende l’altro più simile al soggetto proiettante.
Il motivo fondamentale che spinge lo spettatore al cinema è costituito dal desiderio
di sperimentare, soprattutto tramite i meccanismi psichici descritti sopra, una realtà
diversa da quella quotidiana. In linea di massima, questa realtà desiderata è meno
complicata e più ottimista di quella effettivamente vissuta. Conseguentemente, la
parte più ampia della produzione cinematografica è dedicata a storie a lieto fine.
Questo genere di produzione, in stile “happy end”, ha il maggior peso commerciale
e spazia dagli intrecci elementari al raffinato film d’arte. Anche nel cinema, tuttavia, è presente l’antica tradizione della tragedia; un tema espressivo fondamentale
- 17 -
che sembra contrastare con il precedente criterio dell’ottimismo ad ogni costo. In
questa situazione, anche se la vicenda cinematografica finisce male, lo spettatore
può ugualmente rimanere soddisfatto. I meccanismi narrativi che garantiscono questa soddisfazione fanno capo fondamentalmente, a due criteri narrativi. In un caso,
anche se la storia si conclude con una catastrofe ed il protagonista perisce, ciò
avviene per realizzare il trionfo di un superiore ed ideale principio di giustizia.
Non il solo lieto fine soddisfa le severe esigenze del Super-Io; in qualche modo, il
conto si pareggia sempre e sopravvive la gratificante sensazione relativa all’esistenza di un superiore equilibrio civile.
Esiste un altro meccanismo psichico che rende gradevole lo sgradevole, anche
quando la vicenda finisce male in senso assoluto e non sembrano apparire giustificazioni di nessun tipo. In simili circostanze, quando la luce torna nella sala cinematografica lo spettatore percepisce la realtà della vita più positivamente, rispetto
alle minacciose vicende cinematografiche cui ha assistito. Anche questo e un lieto
fine.
Passando ad esaminare aspetti più propriamente inconsci delle dinamiche
psichiche presenti durante la visione cinematografica, si devono prendere in considerazione gli elementi legati alla vita istintuale.
Gli elementi
inconsci
della visione
cinematogr.
Nel senso classico, l’istinto è uno schema di comportamento ereditato, proprio
di una specie animale, che varia poco da un individuo all’altro, si svolge secondo
una sequenza temporale poco suscettibile di profonde alterazioni e sembra rispondere ad una finalità. Questo termine è stato a volte utilizzato, in ambito psicoanalitico,
come traduzione o equivalente del termine freudiano Trieb, per il quale, in una
terminologia coerente, è opportuno ricorrere alla parola “pulsione”.
La pulsione può essere considerata un processo dinamico consistente in una
spinta che fa tendere l’organismo verso una meta. Secondo Freud, una pulsione ha
la sua fonte in una eccitazione somatica (stato di tensione). La sua meta è la soppressione dello stato di tensione che regna nella fonte pulsionale. La pulsione può
raggiungere la sua meta nell’oggetto, cioè tramite un certo tipo di soddisfacimento,
o grazie ad esso.
La pulsione
È nota la posizione psicoanalitica che considera la civiltà strettamente connessa
ad una radicale limitazione delle manifestazioni istintuali. È anche noto come ogni
individuo, a dispetto di ogni considerazione cosciente e razionale, mantenga una
inconscia aspirazione alla libertà istintuale. Il film, utilizzando i meccanismi psicologici della identificazione e della proiezione, può evidentemente soddisfare in
modo parziale questa sotterranea aspirazione. Ha scritto Musatti: “Quando ci chiediamo per quale motivo nella produzione cinematografica corrente il sesso e la
violenza abbiano così gran parte, la risposta è presto data. Anche se non sempre il
pubblico è disposto a riconoscerlo, proprio esso vuole sesso e violenza, e di queste
cose sopra tutto si interessa” (Musatti, 1969, p. 28).
Anche Servadio, intervenendo a proposito dei film a contenuto erotico trasmessi
dalla televisione, ha fatto osservare l’ovvia corrispondenza del materiale trasmesso con alcune aspettative presenti nel pubblico. Contemporaneamente, ha evidenziato
“la straordinaria discrepanza tra gli ‘stimoli’ televisivi in questione e il terreno sul
- 18 -
Le pulsioni
inconsce
e il
senso di colpa
quale essi cadono” (Servadio, 1979, p. 228). Con ciò, intendendo ricordare come
dei ‘messaggi sessuali’ troppo diretti e potenti possano determinare, su un pubblico
psicologicamente impreparato, effetti fuorvianti, provocatori e, paradossalmente,
privi di reale erotismo.
D’altra parte, i fattori psicologici che realizzano le rinunce alle libertà istintuali,
cui si è fatto riferimento in precedenza, sono presenti anche nel cinema e nella
televisione. Il senso di colpa collegato all’emergere degli istinti si manifesta nello
spettatore cinematografico, quando il film proponga rappresentazioni eccessivamente crude. In effetti, il meccanismo della censura è presente nel pubblico stesso
che, se da una parte aspira alla rappresentazione di situazioni cariche di significati
istintuali, dall’altra è pronto a reagire sdegnosamente quando tali situazioni superino i limiti del comune “buon costume”.
Queste reazioni sono particolarmente vivaci soprattutto nei confronti delle scene
a contenuto sessuale.
Non a caso, la tradizione narrativa cinematografica ha elaborato dei particolari
artifici per rendere accettabili al pubblico quelle situazioni erotiche e sessuali cui
il pubblico stesso aspira intensamente. L’artificio più comune consiste nello spostare l’attenzione sugli aspetti più spirituali e sublimati della attrazione erotica, ponendo in secondo piano le aspirazioni di carattere sessuale. Una seconda eventualità tende a rappresentare visivamente le sole premesse degli incontri amorosi, lasciando “fuori campo” le conclusioni concrete. Infine, vi e la possibilità di aggiustare l’intera vicenda cinematografica con una conclusione moralistica. Per esempio, se il film narra la corruzione di una minorenne, la colpa può essere estinta
quando la vicenda contempli un matrimonio riparatore. Lo spettatore può beneficiare
delle sensazioni erotiche offerte dalla storia cinematografica, senza sentirsi, in conclusione, colpevole, poiché il suo moralismo viene appagato nel finale.
Altri artifici sussidiari consistono nell’accentuare quel certo distacco che, comunque, rimane, nonostante ogni identificazione, tra la vicenda cinematografica e la
realtà della vita. Ciò è ottenuto collocando il film in un ambito lontano dallo spettatore comune. Si può ottenere questo risultato ambientando la vicenda in un tempo
lontano, come nei film storici, o in uno spazio lontano, come nei film geograficamente esotici. In alcuni film, come quelli appartenenti al genere fantascientifico,
variano entrambi i parametri. Lo stesso senso di distacco può essere raggiunto collocando il film in una ristretta e minoritaria zona sociale, come nel mondo della
nobiltà o delle grandi ricchezze. In questo modo, lo spettatore, pur raggiungendo,
tramite l’identificazione, una parziale soddisfazione dei suoi inconsci impulsi
istintuali, percepisce contemporaneamente un senso di estraneazione rispetto alla
vicenda, che gli rende accettabile il film. Questi meccanismi sono utili per proporre
allo spettatore sia le scene a contenuto erotico e sessuale, sia le situazioni in cui e
presente la violenza.
Valgono, infatti, per la violenza, analoghe considerazioni. Aspirazioni aggressive e sadiche popolano l’inconscio, assieme alle tendenze volte al soddisfacimento
sessuale. Il cinema consente l’identificazione anche con personaggi che compiono
gesti violenti.
- 19 -
Le tecniche
di
accettazione
Tuttavia, è sempre possibile che il senso di colpa si risvegli, organizzato da
quella istanza della personalità che la psicoanalisi definisce Super-Io9 . In tal caso,
lo spettatore si ritira dalla vicenda cinematografica con orrore e disgusto. Gli artifici psicologici che rendono, al pubblico, tollerabili le situazioni violente, sono analoghi a quelli utilizzati per proporre, in modo accettabile, le vicende a contenuto
sessuale. Si tratta, cioè, di favorire un certo distacco dello spettatore dalla situazione cinematografica ed eventualmente di concludere il film in chiave moralistica,
facendo scontare all’autore della violenza la sconfitta ed il castigo. Un caso limite,
in tal senso e costituito dalla interminabile serie di film di fantascienza in cui un
alieno mostruoso ed aggressivo viene sconfitto. Come e stato osservato, in questa
circostanza predomina il meccanismo proiettivo. Ad esso si accompagna una totale
estraniazione formale dall’oggetto della proiezione, cioè dall’alieno.
“Nel film tale estraniazione viene resa in modo spettacolare, presentando gli
alieni come entità assolutamente diverse dagli esseri umani, sul piano biologico e
nell’aspetto. Essi vengono presentati sullo schermo muniti di tutti quegli attributi
che sottolineano la loro origine aliena e di tutte quelle caratteristiche atte ad ispirare repulsione e disgusto che ribadiscono la loro completa “estraneità”. Una volta
compiuto questo processo di estraniazione, avendo cioè convinto lo spettatore che,
in quanto uomo non ha nulla in comune” con quegli esseri, sarà possibile attribuire
ad essi qualsivoglia intenzione violenta” (Angelini, 1978, pp. 525, 526).
Può, cosi, realizzarsi pienamente il fenomeno proiettivo in cui si caricano gli
alieni di tutta quella aggressività che emerge dalla sfera dell’inconscio. Per mezzo
della estraniazione si attenuano le possibilità di identificazione col soggetto della
violenza, minimizzando la censura del Super-Io e l’insorgere del senso di colpa e
del conseguente stato angoscioso che ad esso si accompagna .
D’altra parte, è anche possibile nobilitare la violenza in funzione della giustizia
e dell’eroismo. Lo testimonia la lunga serie cinematografica di difensori della legge e della patria. In generale, un nobile fine può favorire l’accettazione della violenza anche in personaggi moralmente conflittuali.
Il brigante che aiuta i poveri, o il criminale dal cuore tenero sono tradizionali
figure cinematografiche che permettono allo spettatore di equivocare tra l’identificazione legata alla violenza e quella riguardante le altre qualità positive del personaggio.
Un diverso modo di rendere accettabile la violenza consiste, poi, nell’inserire
un elemento pseudocomico nella tragedia. Al personaggio umoristico è consentito
ciò che non è permesso all’individuo serio. La partecipazione all’elemento comico
copre, almeno parzialmente, la presenza della violenza.
Riassumendo, si può constatare che il sesso e l’aggressività sono due elementi
ampiamente presenti in ambito cinematografico. Né possono essere considerati due
fattori distinti. Infatti, se si prendono in considerazione gli aspetti sadomasochistici
della personalità, accade che la violenza, sia esercitata che subita, può essere, di
per sé, un elemento di eccitazione sessuale. In tal modo, una unica situazione cinematografica può soddisfare, contemporaneamente, sia l’inconscia aspirazione alla
violenza sia la ricerca di situazioni a contenuto sessuale. Questo indiretto appagamento cinematografico di tendenze proibite può avere, sul pubblico, notevoli conseguenze.
- 20 -
Quanto influisce la tecnica cinematografica nella percezione dell’immagine
filmica? Il cinema in questi 100 anni di vita ha elaborato varie tecniche di comunicazione che costituiscono la sua grammatica. Angelini, in questo brano che
segue, riporta il dibattito che iniziò alla fine degli anni ’20 sulla percezione
dell’ordine delle riprese, attualizzandolo poi con le nuove ricerche in campo
psicofisiologico.
GRAMMATICA CINEMATOGRAFICA E PERCEZIONE DELLO SPETTATORE
Storicamente, il primo problema che assume un considerevole peso teorico nell’ambito della riflessione sul cinema, riguarda il diverso significato attribuito alle
riprese a seconda dell’ordine in cui vengono presentate allo spettatore, tramite il
montaggio. Si tratta del famoso dibattito che vede confrontarsi, su posizioni conflittuali, i due grandi registi e teorici sovietici: Ejzenstejn e Pudovkin. Sintetizzando, si
può attribuire a Pudovkin la tendenza ad esprimere gli eventi attraverso la presentazione progressiva e sequenziale degli elementi cinematografici che li compongono.
In Ejzenstejn, invece, predomina la nozione di conflitto tra le riprese organizzate
nel montaggio, in modo da determinare, dialetticamente, la produzione di nuove
idee attraverso la contrapposizione delle immagini.
Ejzenstejn,
Pudovkin e
la sequenzaq
cinematografica
Nella pratica cinematografica, non è chiaro in cosa questi registi si siano realmente differenziati nell’ambito del loro lavoro. Si può constatare, in Pudovkin, un
orientamento volto a privilegiare la vicenda del singolo individuo all’interno di una
narrazione cinematografica che vorrebbe esporre i concetti generali, presentando in
sequenza gli elementi che li compongono. Ciò, tuttavia, non è radicalmente contraddittorio rispetto al tentativo di Ejzenstejn di realizzare una rivoluzione della forma
cinematografica, come metafora della rivoluzione sociale, attraverso la capacità di
“pensare per contraddizioni”. In effetti, si manifesta qui il problema del significato
psicologico della sceneggiatura cinematografica, ancor prima della questione del
montaggio, come elemento essenziale nella comprensione del pensiero visivo.
Ejzenstejn, che prestò la massima attenzione al valore psicologico della sceneggiatura,
riteneva, sul piano pratico, che quest’ultima, pur esigendo una esposizione dettagliata, dovesse evitare ogni ipoteca o appesantimento tecnico rispetto al concreto
esercizio della regia sul set cinematografico
Pudovkin, diversamente, sosteneva la necessità di precisare sulla carta ogni inquadratura o movimento di macchina, fin nei minimi dettagli. Si tratta, in effetti, di
un problema riguardante il metodo di lavoro dei singoli registi, che influenza solo
relativamente la sostanza psicologica della sceneggiatura. Il dibattito su quest’ultima prosegue tutt’oggi. Alcuni le attribuiscono una esistenza autonoma e, contemporaneamente, un valore letterario, mentre altri la considerano un semplice strumento
di lavoro. Tuttavia, dal punto di vista psicologico, la capacità di “pensare per scene”, prescindendo dalla manifestazione tecnica della sceneggiatura, è il fondamento
dell’espressione cinematografica. Fu proprio Ejzenstejn, ispirato dal lavoro dello
psicologo sovietico L. S. Vygotskij, che osservò come questa capacità corrisponda
ad un preciso stadio di sviluppo del pensiero infantile e primitivo.
- 21 -
Pensare
per scene
Il pensiero per immagini è alla base del lavoro di sceneggiatura, regia e montaggio ed è la sua attività che consente l’espressione cinematografica. In questa
prospettiva, la sceneggiatura assume, quindi, un posto di primo piano e, prescindendo dalla precisione con cui e scritta, costituisce un insieme compatto con quel lavoro che si concretizza nell’esercizio della regia e viene portato a termine in sede di
montaggio. La ricerca di uno specifico psicologico, in ambito cinematografico, è
tuttora in evoluzione e passa attraverso l’analisi dell’espressione cinematografica,
intesa come risultato coerente di questi tre aspetti.
Il pensiero
per immagini
Diversamente, sul piano storico, la componente che, per prima e maggiormente
ha attratto l’interesse teorico è relativa al procedimento del montaggio. Probabilmente ciò e accaduto perché durante il montaggio ci si deve confrontare, in forma
pura, con quel fenomeno che è il pensiero per immagini.
D’altra parte, è cosa nota ai cultori del cinema che nessuna operazione di montaggio può rimediare a gravi errori commessi in fase di sceneggiatura e di regia.
Quando ciò è invece possibile, il prezzo è un nuovo “ripensamento visivo” in base
alle immagini disponibili della vicenda narrata che, di fatto, si propone come una
nuova operazione creativa. Come ha sostenuto A. Bazin, il montaggio è, comunque,
“la creazione di un senso che le immagini oggettivamente non contengono e che
deriva soltanto dal loro rapporto” (A. Bazin, 1958; tr. it. 1973, p. 77).
Il termine “montaggio” descrive, in effetti, una vera e propria manipolazione del
tempo e dello spazio. Il regista, nella fase di montaggio, può muoversi liberamente
perseguendo le sue intenzioni espressive. Il “ritmo” del montaggio, tipico termine
del gergo cinematografico, non è sinonimo di velocità, ma indica una successione di
riprese in cui le inquadrature, l’azione scenica, i movimenti di macchina ed i valori
fotografici del quadro concorrono organicamente a mantenere alta l’attenzione dello spettatore. Ovviamente, i criteri di attuazione del montaggio sono molti e, considerata l’alta soggettività che interviene nella loro valutazione, è poco utile, in questo ambito, proporne una meccanica elencazione o una ideale tassonomia. È opportuno, piuttosto, ricordare, qui, i riferimenti storici da cui prese l’avvio il dibattito
sul montaggio e considerare, come si è inteso fare nell’ultimo capitolo, i termini
contemporanei nel cui ambito tale dibattito risulta significativo.
L’ordine
delle riprese
e il montaggio
Che l’ordine in cui vengono presentate le diverse riprese di una serie di immagini influisca sul significato complessivo della medesima, è cosa evidente ed è oggetto di indagine, da molto tempo. In generale, le ricerche volte in questa direzione si
sono occupate di sequenze costituite da un numero abbastanza limitato di riprese.
In una serie di famosi esperimenti, Kulesciov e Pudovkin tentarono di verificare
le reazioni dello spettatore di fronte alle molteplici possibilità offerte dalla tecnica
del montaggio. E da tener presente che proprio Kulesciov iniziò alla cinematografia
sia Pudovkin che Ejzenstejn. Ecco come, nell’ambito di quattro ricordi, Pudovkin
riassume tali esperienze:
Primo rlcordo:
“Kulesciov ed io prendemmo da vecchi film alcuni P.P. dell’attore Mozzuchin,
che erano del tutto simili, e li unimmo con altre inquadrature in tre diverse combina- 22 -
L’esperimento
di Kulesciov
e Pudovkin
zioni: nel primo caso il P.P. era seguito da un piatto di minestra; nel secondo, da una
bara con una morta, nel terzo da una bambina. Risultato: il pubblico era colpito
dall’alta personalità con cui l’attore guardava la minestra, commosso dall’afflizione con cui guardava la morta, ammirato dal sorriso con cui guardava la bambina.
Secondo ricordo:
Supponiamo di avere tre pezzi di pellicola: nel primo una faccia che ride, nel
secondo una faccia atterrita, nel terzo un revolver puntato. Facciamo vedere prima
la faccia che ride, poi il revolver, poi la faccia atterrita; in un secondo momento
mostriamo, invece, prima la faccia atterrita, poi il revolver, poi la faccia che ride:
nel primo caso abbiamo l’impressione che il possessore di quella faccia sia un
codardo, nel secondo un coraggioso. La lezione che Kulesciov credette di trarre da
questi esperimenti fu che l’inquadratura e, di per se, priva di capacità espressiva.
Essa è una parola che per significare qualcosa va inserita in una frase o in una
poesia e, siccome ‘nella poesia le parole non valgono per quello che esprimono, ma
per il posto che hanno nel verso’ (Pudovkin), ecco ‘dimostrato’ che il montaggio e
l’unico momento creativo dell’arte del film.
Terzo ricordo:
Kulesciov girò la seguente scena:
1)
2)
3)
4)
5)
un giovane avanza da sinistra a destra,
una donna va da destra a sinistra,
i due si incontrano e il giovane indica qualcosa,
un grande edificio bianco, con una larga scala,
entrambi salgono la scala.
Lo spettatore aveva l’impressione di un’azione ininterrotta: l’incontro dei due
presso la casa ed il salirne insieme la scala. I pezzi invece erano stati ripresi in
luoghi diversi: il giovane presso un edificio del centro, l’incontro presso il Bolscioi;
la casa tratta da un settimanale americano (era la Casa Bianca); la salita alla Cattedrale. E così Kulesciov dimostro che il montaggio da un significato diverso alle
riprese (egli diceva un significato), permette di creare una ‘cronologia ed una geografia’ ideali, non esistenti in realtà. Un esperimento del genere lo stava facendo
nello stesso tempo, naturalmente anche Griffith in Agonia sui ghiacci (1920). La
scena della ragazza trascinata nei flutti verso la cascata era composta da riprese di
studio e in esterni, frammenti di documentari, spezzoni di repertorio sulle cascate
del Niagara.
Quarto ricordo:
Kulesciov tentò la creazione di una donna che cammina mediante il montaggio di
riprese singole di piedi, mani, e teste di donne diverse. L’effetto sullo schermo fu di
un’unica donna che camminava Kulesciov credette cosi di aver dimostrato che il
montaggio può anche costruire una ‘anatomia’ ideale. In realtà, l’esperimento è la
spia dei limiti dello stesso Kulesciov, il quale per valorizzare il montaggio ha finito
per ridurre l’inquadratura - pezzo di ‘realtà’ operante - a manichino senza perso- 23 -
nalità, ad un insieme di pezzi da meccano intercambiabili. La dimostrazione è nella
sua teoria del ‘modello vivente’: Per il regista l’attore non può essere niente di più
di quanto sia il modello per lo scultore o il pittore. In ciò c’è l’intuizione delle
richieste che, rispetto al teatro, il cinema fa all’attore, ma anche un tendenziale
atteggiamento meccanicistico che rischia - per la sottovalutazione delle riprese - di
portare ad una recitazione stereotipata. Commentò lo stesso Pudovkin: “anche i P.P.,
che esigono dall’attore un grande lavoro interno, per lo più si limitavano all’apprendimento della composizione meccanica dei movimenti del viso”.
Sul versante opposto di Kulesciov si poneva Vertov. Partito anch’egli dal rifiuto
della ‘finzione teatrale’, mentre Kulesciov teorizzava una nuova finzione, pur se
cinematografica, Vertov metteva l’accento sulla necessità della conquista ‘visiva’
della realtà. Il cinema non ha bisogno di rappresentazioni finte del mondo per darne
il senso. Basta che lo riprenda dal vero e ci ragioni su e la verità (la Kinopravda)
verrà fuori. Ma come tentava Vertov di conciliare questa esigenza di ‘realismo’ con
il montaggio, strumento manipolatore per eccellenza? “La macchina da presa -sosteneva- non deve registrare ma esplorare i fatti, per presentarli finalmente agli
occhi che non li hanno mai guardati nel loro svolgimento, in modo da capirli e
giudicarli. In tale programma il montaggio serve per organizzare ‘mentalmente’ i
fenomeni ripresi”10
Dziga Vertov:
la conquista
visiva
della realtà
Con criterio interpretativo contemporaneo queste indagini possono essere inserite nel filone di ricerca volto a studiare le circostanze di attuazione dei meccanismi
psicodinamici dello spettatore; ovvero, in particolare, dell’identificazione e della
proiezione.
Da questo punto di vista, anche l’aspirazione “realistica” propugnata, a suo tempo, da Vertov, non può prescindere dalle valenze psicologiche del pubblico. Varie
ricerche (Goldberd, 1951; Kuiper, 1958; Foley, 1966) hanno confermato che il giudizio sull’espressione di un attore varia a seconda del contesto che segue o precede
l’immagine del medesimo, o a seconda dell’ordine in cui sono proposte le riprese.
Worth (1968) ha dimostrato che anche le riprese di immagini astratte non sfuggono a questo fenomeno. In linea di massima, se A e B sono singole riprese, risulta AB
/ BA, sempre. Si tratta di una regola generale relativa, ovviamente, anche a sequenze composte da riprese multiple. In effetti, essa sottende un complesso problema
linguistico e cognitivo Sempre Worth (1968) sintetizza i vari aspetti di questo problema chiedendosi: data una sequenza di riprese A,B e C, quali siano le condizioni
per cui la sequenza e vista come (A,B) (C), invece di (A) (B,C). Sono difficoltà,
secondo Hochberg (1978), simili a quelle che devono affrontare i linguisti quando
ricercano i meccanismi che delimitano le parole e le frasi. Alla ricerca di questi
meccanismi si sono cimentati autori della massima rilevanza nell’ambito delle ricerche sulla percezione visiva. E il caso di Gregory (1961) il quale, riprendendo
concetti espressi da Osgood, Suci e Tannenbaum (1957), ha sostenuto che il significato di due segnali, come due riprese cinematografiche, viene reciprocamente influenzato quando esiste un elemento capace di imporre un legame associativo.
Ciò accade se, per esempio, al primo piano di un oggetto, come un martello, si fa
seguire una inquadratura più ampia in cui un uomo utilizza questo martello durante
- 24 -
Il legame
associativo
un lavoro.
Ovviamente, l’ordine delle inquadrature influenza il loro significato e vi è anche
chi, come Isenhour (1975), ha tentato di stabilire delle relazioni quantitative tra
mutamenti nell’ordine delle riprese e mutamenti nel loro significato. In tale prospettiva, ad ogni mutamento nell’ordine delle riprese, il significato di ciascuna di esse
cambia in modo inversamente proporzionale alla pregnanza11 del significato originale. Tuttavia, una simile quantificazione appare prematura rispetto alla complessità delle variabili presenti. Le riprese, infatti, acquistano significato in relazione a
molti fattori. La durata è tra i più significativi. Una ripresa estremamente rapida non
è necessariamente incomprensibile, per motivi percettivi.
D’altra parte, una ripresa troppo lunga rispetto al ritmo complessivo del montaggio, si propone allo spettatore come portatrice di un significato particolare nei
confronti delle altre. Anche l’esasperazione di un dettaglio può servire a concentrare l’attenzione dello spettatore. Un esempio storico di questa possibilità è presente
nel film Suspicion di Hitchcock quando la luminanza di un bicchiere di latte viene
aumentata artificiosamente nascondendo al suo interno una lampadina. Ciò segnala
all’attenzione dello spettatore l’importanza di quel particolare oggetto. In realtà,
meccanismi di enfatizzazione esistono anche nel linguaggio verbale. Secondo
Hochberg (1978), l’autonomia della percezione cinematografica si manifesta pienamente solo quando i concetti che essa veicola non possono essere trasmessi fornendo informazioni verbali. È una concezione problematica rispetto alle peculiari
potenzialità espressive del cinema che si manifestano esclusivamente in virtù del
mezzo utilizzato.
È stata osservata (Luccio, 1973) l’esigenza di individuare la quantità di informazione trasmessa cinematograficamente (entropia). L’incertezza relativa alla possibilità di misurare questa informazione è notevole. Comunque per ciò che riguarda la
televisione, si è calcolata la cifra media di 40.000.000 bit al secondo (Luccio 1971).
Tale cifra che, in prima approssimazione, può essere applicata anche alla situazione cinematografica, eccede ampiamente le capacità di elaborazione dell’essere
umano. D’altra parte, anche il messaggio cinematografico e televisivo è estremamente ridondante. Si calcola, addirittura, una ridondanza vicina al 95%. L’esercizio
della regia impone una valutazione soggettiva delle caratteristiche espressive di
ogni ripresa. Ciò implica, in sostanza un giudizio sulle potenzialità informative
della ripresa. A questo aspetto, va aggiunta la scelta dei criteri e dei tempi che
determinano il mutamento dell’immagine. Il tutto è, in linea di massima, finalizzato
a mantenere viva l’attenzione dello spettatore.
- 25 -
L’entropia
cinematografica
Note
1
Musatti C,. Psicologia degli spettatori al cinema, ‘Quaderni di Ikon’ n° 7, 1969
2
Metz C., Cinema e psicoanalisi, Marsilio, Venezia 1980, p. 70
3
E. Servadio, Psiche e sessualità, Astrolabio, Roma, 1972
4
Scena primaria. Scena del rapporto sessuale tra i genitori, osservata o supposta, in base a
taluni indizi ed elaborata fantasmaticamente dal bambino. In generale, essa é da lui interpretata come un atto di violenza da parte del padre.
5
Metz ha accostato l’attitudine del pubblico al sonnambulismo (cfr. Metz, Op. cit. 1977, tr. it.
1980), p. 94
6
I cartoni animati e le caricature, pur non riproducendo l’anatomia umana, inducono vivaci reazioni motorie. Ha osservato Hochberg: “I disegni accurati, in cui le dita di sezioni rigide si piegano
alla giuntura, assomigliano forse di meno a ciò che realmente sentiamo (muscolarmente) quando pieghiamo le dita. Percio, la caricatura non solo potrebbe essere di fatto tanto informativa
quanto un disegno accurato potrebbe essere anche piu direttamente informativa ai fini del compito che il soggetto deve eseguire)” (Cfr. Hochberg 1972; tr. it. 1978, p. 92). Queste affermazioni di Hlochberg risultano in sintonia con quanto Freud sostenne rispetto alla capacità delle
immagini caricaturali e comiche di evocare la rappresentazione del movimento fisiologico (S.
Freud, 1905; tr. it. 1972, pp. L69, 1970)
7
Il test consiste nel far vedere delle immagini dai contenuti formali poco definiti e chiedere al
paziente una sua interpretazione percettiva. (n.d.r.)
8
C. Musatti, Op.cit. p. 25
9
Il Super Io è una delle istanze, attribuite da Freud, alla personalità. Il suo ruolo è assimilabile a
quello di un giudice o di un censore nei confronti dell’ Io. Freud considera come funzioni del
Super-Io, la coscienza morale, l’autosservazione, la formazione di ideali. Classicamente il SuperIo è definito come l’erede del complesso di Edipo. Esso si costituisce per interiorizzazione
delle esigenze e dei divieti dei genitori.
10
11
Citato da: Allori Luigi, Guida al linguaggio del cinema, Editori Riuniti, Roma, 1986, p. 122
Pregnanza la qualità di essere denso di significato. Nella dottrina della forma, accentuazione
della struttura, intesa, nei suoi diversi gradi, come proprietà basale di una Gestalt. Indica come
tendenza alla pregnanza, la tendenza ad una strutturazione meglio definita e precisa, più stabile,
più regolare e significativa. In campo cinematografo la pregnanza di una ripresa è, quindi, connessa alla densità di significato della medesima. Se la pregnanza è elevata, il suo significato
tende a mantenersi stabile, nonostante i possibili mutamenti nell’ordine di presentazione delle
riprese.
- 26 -
Ci sembra interessante riportare, a questo punto, il Carteggio tra W. Reich, S. Ejzenstejn
in cui il grande regista sovietico si confronta con il famoso psicologo e parlano della
funzione del cinema in una società tutta da costruire.
Carteggio tra W. Reich, S. Ejzenstejn
Da Rassegna Sovietica, Anno XXX, n.1 1979
Nel 1947, scrivendo un articolo per la rivista Iskusstvo, Sergej Ejzenstejn accennò con
disprezzo alle “tesi assurde della cosiddetta teoria di Freud”1 . Ma in realtà, malgrado
questo pubblico omaggio all’opinione corrente nell’URSS a proposito della psicanalisi,
Ejzenstejn prestava molta attenzione alle teorie di Freud. Nello stesso periodo, abbozzando frammenti di un’autobiografia, egli ricordo d’aver speso molto tempo per comprendere
che lo sfondo primario degli impulsi è più ampio di quello grettamente sessuale, come lo
concepisce Freud, ossia e più ampio dell’ambito della vicenda biologica personale degli
individui umani”2 .
In sostanza, quando scriveva per se stesso, Ejzenstejn definiva la psicanalisi non un’assurdità, ma una concezione unilaterale: “La sfera del sesso non è che un concentrato, che
crea attraverso innumerevoli ripetizioni a spirale i cerchi di una legge che ha un raggio
molto più incommensurabile3 .
La stessa idea s’incontra già in una lettera del 1934, inviata da Ejzenstejn al
“freudomarxista Wilhelm Reich, che gli poneva il problema di un’alternativa rivoluzionaria alla “politica sessuale borghese nel cine ma”. Della lettera di Ejzenstejn, che pubblichiamo insieme con quella di Reich, lo studioso sovietico L.G. Ionin ha trovato recentemente un abbozzo incompleto, che per ora ne è l’unica traccia.
Stimato compagno Ejzenstejn!
Subito dopo aver ricevuto la sua lettera, ho dato disposizione alla casa editrice d’inviarle
gli scritti richiesti. Se non le dovessero pervenire entro dieci giorni, la prego di sollecitarli.
Il libro sull’orgasmo e esaurito. Può darsi che l’Internationale Psychoanalytische Verlag
(Wien I, Borse gasse 11) ne abbia ancora delle copie.
Poiché lei esprime interesse per i miei studi economico-sessuali, vorrei segnalarle che nei
prossimi numeri della rivista v’erra data alle stampe un’esposizione delle ricerche clinicoteoriche sul problema fondamentale (“L’opposto primordiale della vita vegetativa”). Mi ha
particolarmente rallegrato sentire da un compagno che primeggia nel campo artistico che
l’arte e strettissimamente collegata col problema centrale della sostanza vivente, coll’orgasmo. Di solito non se ne parla o, al contrario, si dissente aspramente, quando viene fatto un
tentativo di unire l’arte elevata a una ‘bassezza’ come la vita sessuale. Mi riferisco all’opinione del compagno Hans Eisler, nostro comune conoscente, il quale nega qualsiasi legame
fra la musica e la sessualità. Mi è difficile capire come sia possibile, poi che ciò ostacola la
soluzione dei vitali problemi politico-culturali del movimento proletario, che credo e spero
di poter un giorno chiarire compiutamente.
La ringrazio molto della sua disponibilità ad aiutarmi. Credo che la rivoluzione culturale
avrebbe molto da guadagnare, se riuscissimo a giungere a una decisione di principio riguardo all’importanza della politica sessuale per il cinema rivoluzionario e ad applicare pratica- 27 -
mente questa decisione. Spero che avremo ancora la possibilità di parlarne. Da molti anni
m’interesso al problema della consapevole e coerente contrapposizione di una politica rivoluzionaria alla politica sessuale borghese nella cinematografia. Per ora il nostro lavoro in
questo campo ha prevalentemente un carattere razionalistico mi sembra che il problema
della vita personale e in particolare della vita sessuale venga respinto in secondo piano o
non sia sempre risolto giustamente. Mi spiego: Il letto e il sofà4 pone il problema in modo
fondamentalmente giusto; il Lasciapassare per la vita lascia aperta la questione della forma
di sessualità che viene contrapposta a quella borghese; nella Terra viene splendidamente
espresso l’elemento orgastico; nel Potemkin lo spettatore viene conquistato da un ritmo, che
è uno sviluppo diretto del ritmo fondamentale biologico-sessuale. Per quanto posso giudicare, le idee razionali del comunismo agiscono cinematograficamente nel modo migliore, quando
vengono felicemente collegate col ritmo biologico. Mi scusi se oso accennare tanto brevemente a problemi di tale importanza, ma poiché, come ho già detto, mi occupo da tempo di
tali questioni, non voglio perdere l’occasione di dirle il mio punto di vista. Sarei molto
contento, se la discussione preliminare di tali questioni venisse continuata, e sarà senza
dubbio utile al nostro lavoro, se lei esprimerà il suo parere riguardo alla possibilità di
utilizzare la vita sensoriale dell’uomo, compresa quella sessuale, per il raggiungimento dei
fini razionali della politica culturale rivoluzionaria. Qui stiamo preparando un lavoro più
ampio sugli effetti dei film borghesi e sui loro metodi d’influenza sulle grandi masse apolitiche.
Con i migliori saluti.
Suo Wilhelm. Reich
P.S. Nel libro sull’orgasmo mi attengo agli studi clinici. L’ultimo capitolo, che scrissi nel
mio periodo premarxista, ha richiesto molte correzioni.
***
Stimato compagno Reich!
Le sono molto grato del suo interessantissimo pacchetto. Anche il suo nuovo articolo è
molto interessante.
Vorrei però indicare alcune differenze dei nostri punti di vista. Mi sembra che lei, come
tutta la psicanalisi, ponga troppo l’accento su ciò che è puramente sessuale. Mi riferisco alla
carnalità. Secondo me, è sbagliato identificare nella sessualità la base di qualsiasi manifestazione. Io piuttosto attribuirei questa funzione alla vegetatività organica, ossia a un processo, nel quale la sessualità non è altro che una delle manifestazioni (una delle più forti, ma
concomitanti, anziché basilari e determinanti). All’influsso reciproco delle funzioni derivate
della vegetatività biologica devono la loro origine quelle spiegazioni, nelle quali una di
queste funzioni viene considerata in modo puramente meccanico la base di un’altra. Non mi
sono occupato abbastanza del problema generale per sostenere una discussione in tutto questo campo, ma il problema particolare dell’estasi nel suo rapporto col pathos, al cui studio
ho dedicato molto tempo, mi ha pienamente convinto che la diffusa interpretazione sessuale
di questo fenomeno conduce su una falsa strada. Qui l’immagine sessuale e soltanto una
“sottostazione”, una tappa intermedia. L’orgasmo sessuale in quanto tale e soltanto una delle
- 28 -
manifestazioni dell’estasi. È la via più facile e accessibile alla possibilità del piacere estatico, che si fonda interamente sui fenomeni primari, presessuali, per i quali l’attività sessuale
può fungere da “traghetto”. Lo squilibrio che attribuisce al fenomeno singolo sessuale, un’importanza che oltrepassa ampiamente il suo ambito reale, è uno degli errori più diffusi. Può
darsi che ciò sia giusto per i casi patologici, quando proprio questo squilibrio è la condizione dello stato patologico. È impossibile stabilire un confine fra il normale e il patologico:
ciò ora è noto anche ai bambini. Ma dopo che per anni il baricentro è stato cercato nel
patologico, mi sembra che sia venuto il tempo di approfondire seriamente lo studio del
normale. Il quadro psicanalitico del mondo è il riflesso di un mondo sociale patologico. Per
questo mondo è “normale” l’ipersessualizzazione, che deriva da una fondamentale insufficienza sessuale.
Questo mondo e questo ambiente non possono produrre alcun’altra concezione. La critica
di tale concezione del mondo può venire soltanto da quel mondo (da quella parte del mondo), ove il “normale” é normale e universalmente accettato, ove gli uomini non sono inceppati da antagonismi sociali, che determinano e generano tutte le altre contraddizioni e in
ultima analisi distorcono la visione normale della vita ed assumono come “necessario” ciò
che esiste. L’umanità e già andata abbastanza avanti in direzione della negazione di quest’ordine sul piano sociale. Ma e ancora molto indietro per ciò che concerne i rapporti
sovrastrutturali, anziché i più semplici rapporti basilari di sfruttamento. I rapporti
sovrastrutturali vengono considerati normali ed organici, mentre non sono altro che un
rispecchiamento dei rapporti sociali assolutamente disorganici ed anormali, che giacciono
alla loro base. È per questo, ad esempio, che nei casi patologici la psicanalisi da un chiarimento (ma non una cura, e in questo Stefan Zveig ha ragione: alla psicanalisi manca... la
psicosintesi). Viceversa quando essa tenta di spiegare i fenomeni normali (cioè quelli che
sulla linea che va dal patologico al normale sono più vicini al lato del normale, tutti i
tentativi sono infruttuosi. Lo sono anzitutto quando si parla dell’arte e dell’attività artistica
come processo lavorativo. Qui la psicanalisi non ha dato niente di costruttivo né di finalizzante.
Infine, proprio qui la psicanalisi non ha dato nulla che investisse il contenuto del processo.
Ha dato invece soltanto qualcosa che riguarda la sensazione intima ed ha spiegato pochissimo di ciò che riguarda l’aspetto simbolico-materiale dell’opera. Né ha dato nulla che avesse
a che fare con la forma come legge della costruzione dell’opera (in senso hegeliano, quindi),
e per conseguenza non ha dato nulla che riguardasse ciò che nell’inscindibile coppia del
contenuto e della forma si trova più vicino al soggetto aneddotico che al processo di formazione dell’opera. La situazione cambierà completamente soltanto quando la psicanalisi si
libererà dal suo feticismo sessuale e comincerà a considerare il mondo in immagini sessuali
e organiche normali.
Come marxista lei deve sapere che la patologia e la norma, anche se possono essere comparate quantitativamente, sul piano qualitativo non sono commensurabili fra loro. Ciò significa che le leggi dei rapporti e delle immagini esistenziali, che sono proprie del patologico,
non possono essere “trasferite” al normale come sue leggi. Il legame fra l’uno e l’altro non è
una linea retta, ma un triangolo, il cui vertice è una legge generale, la cui forma di manifestazione in un caso è normale e nell’altro è patologica. Il passaggio diretto dall’uno all’altro
caso, nel senso della comprensione dell’uno attraverso l’altro, è impossibile (benché il
- 29 -
passaggio di per se sia possibile e si verifichi). Se tuttavia si procede cosi, si giunge inevitabilmente alla negazione del sistema che consente tale passaggio.
Questa, a mio parere, è la cosa vitalmente e istintivamente importante, che suscita le obiezioni contro la psicanalisi. Lo schema dei rapporti, tracciato dalla psicanalisi, distorce la
situazione reale. L’“autoproiezione” della nevrosi, che è stata attribuita a qualsiasi obiezione contro la psicanalisi, ha un ruolo altrettanto limitato, ancorché vistoso, quanto il sessuale
nelle distorte immagini ipersessualizzate della realtà, che la psicanalisi patologica elabora
in se stessa. Con ciò si spiega lo squilibrio, per cui la psicanalisi viene negata da un lato da
un numero in fin dei conti molto piccolo di “malati” (giacché é cessata da tempo la volgare
negazione oscurantista della psicanalisi, che si aveva nei suoi primi anni d’esistenza), e
dall’altro lato dal sistema filosofico di un intero paese, che è l’unico socialmente sano! Qui
sottolineo volutamente non l’opposizione del marxismo a un sistema che pone in primo
piano il biologico anziché il sociale, ma le premesse interiori, organicamente determinate,
della negazione della psicanalisi, che compaiono in modo naturale nella “parte” normale
della personalità (ma non nella parte patologica, che, superata la prima reazione di ripugnanza, si affida interamente al fattore sessuale istintivo nella psicanalisi) 5
(Da Sociologiceskie issledovanija, 1977, n. 1, pp. 181-186. Traduzione di Claudio Masetti).
1
S. Ejzenstejn, Izbrannye proizvedenija v sesti tomach, v. III, Moskva, 1964, p. 475. 2 Idem, v. I, p. 245.
2
Idem, vol I, p. 245
3
Ibidem
4
Con questo titolo circolò in Germania il film Tret’ja Mescanskaja di A. Room (1927)
5
Qui s’interrompe il testo conservato.
- 30 -
Sulla percezione del cinema un gruppo di studenti ha così sintetizzato una parte del
Corso monografico.
LA PERCEZIONE NEL CINEMA
a cura di Vincenzo Borgia, Alberto Mercadante, Umberto Cartanì, Elena Garzia
Il Cinema si basa su un fenomeno ottico che genera nell’osservatore di immagini fisse,
proiettate su uno schermo, l’illusione del movimento. Tale illusione è generata dal verificarsi di tre diverse condizioni: la continuità luminosa dello schermo, l’assenza di sfarfallìo,
o scintillamento visivo, la continuità formale dell’immagine.
La continuità luminosa dello schermo è dovuta al fenomeno fisiologico della persistenza
delle immagini sulla retina dell’occhio per il tempo di circa 1/10 di secondo. Una nuova
immagine che si formi sulla retina entro questo tempo non sarà percepita come altra, ma fusa
con la precedente. La proiezione cinematografica, in effetti, alterna fasi luminose a periodi
di oscuramento dello schermo; la velocità, o cadenza di ripresa e di proiezione standard,
corrisponde a 24 fotogrammi al secondo. Queste fasi (di 1/24° di secondo) generano il cd.
sfarfallìo o scintillamento, come abbiamo detto, non sono percepite dall’occhio umano, purché le pulsazioni abbiano frequenza prossima a 50 Hz, o superiore (come avviene per la
televisione). Poiché non è giustificata una velocità della pellicola tale da raggiungere una
simile cadenza di proiezione, si ricorre all’artificio di attuare in proiezione (attraverso l’otturatore), due o tre fasi di oscuramento per ogni fotogramma proiettato. Una di queste fasi è
utilizzata per l’avanzamento della pellicola, le altre due per evitare lo sfarfallio. É importante per ridurre l’effetto di scintillamento al minimo che, le fasi di proiezione e di oscuramento
abbiano uguale durata.
La continuità formale dell’immagine si ottiene solo se una serie di immagini fisse di fasi
successive di un oggetto in movimento sono fra di loro apparentemente uguali. La più alta
velocità di ripresa e di proiezione adottata rispetto al limite minimo richiesto di dieci fotogrammi per secondo è necessaria per scomporre il movimento in variazioni formali dell’oggetto ripreso sufficientemente piccole così da ottenere fotogrammi apparentemente uguali.
Solo rispettando queste tre condizioni si induce nell’osservatore l’impressione che le immagini sullo schermo si muovano in modo conforme alla realtà. Dunque il Cinema altro non è
che un’illusione ottica, in quanto è costituito da immagini che corrispondono fisicamente a
luminescenze cromatiche variabili, e quindi da fotografie statiche che, poste una dopo l’altra
in sequenza temporale, ci danno l’illusione del movimento.
La particolare risonanza della scena filmica sui dinamismi della vita emotiva profonda si attua attraverso i processi di proiezione e di identificazione.
La proiezione di elementi psichici propri verso un soggetto esterno, è favorita da una
iniziale identificazione con il personaggio cinematografico, mentre l’identificazione è rafforzata dal fatto che il personaggio, per effetto del meccanismo proiettivo, è in certo modo
reso più simile a sé.
Attraverso la partecipazione cinematografica, lo spettatore inconsciamente aspira a soddisfare in modo innocuo, senza sensi di colpa (tanto è un film) quelle tendenze e quelle
pulsioni che normalmente sono represse. Questo appagamento cinematografico di tendenze proibite può avere sul comportamento istintuale due opposti effetti che possono essere
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definiti come effetto catartico ed effetto suggestivo.
L’effetto catartico si verifica quando lo spettatore può liberare le sue energie istintuali
represse; l’effetto suggestivo si attua quando le identificazioni si prolungano oltre la fine
dello spettacolo, e lo spettatore resta sotto l’influsso degli atteggiamenti e dei comportamenti dei personaggi del film. I due opposti effetti sono da porsi in relazione con la struttura
della personalità degli spettatori: coloro che conservano integra la possibilità di abbandonarsi al film, o di staccarsene in un momento qualsiasi, distinguendo la realtà cinematografica da quella effettiva, possono realizzare l’effetto catartico. L’effetto suggestivo può prevalere invece nei soggetti che hanno una possibilità ridotta di staccarsi dalla vicenda filmica.
Ciò significa che l’influsso psicodinamico del discorso filmico deve essere analizzato in
una prospettiva individuale, che esprime il modo in cui i fatti sociali sono vissuti dal soggetto sulla base delle sue precedenti esperienze (inconscio individuale). Le ricerche sperimentali condotte in questo campo tendono a considerare, quindi, il mezzo di comunicazione
come una variabile indipendente (è un mezzo codificato “uguale per tutti”), e la personalità
come una variabile dipendente (da rapportare ad ogni singolo soggetto), sia sotto l’aspetto
dell’indagine del comportamento cosciente, sia sotto quello dell’analisi del dinamismo inconscio. Il discorso si deve estendere su una prospettiva collettiva, in quanto le esperienze, i
bisogni e le necessità sentimentali di tutto il genere umano accumulate nel corso dei secoli
(la paura, l’odio, la gioia, il bisogno di essere amati, il bisogno di giustizia, ecc.) e trasmesse attraverso le generazioni, costituiscono il substrato dell’inconscio personale (inconscio
collettivo).
Il film lascia allo spettatore una libertà che è permessa dall’ambiguità dell’interpretazione: ciò aumenta l’interesse, stimola la partecipazione attiva all’azione che si svolge sullo
schermo, spinge a vivere la situazione rappresentata come se fosse reale, così che lo spettatore vive come due vite: la propria e quella del personaggio rappresentato, nel quale egli
proietta le sue proprie tendenze ed i suoi stati emotivi, in modo da scaricare e spesso risolvere certe sue tensioni profonde. Quanto più elevata è la partecipazione, tanto più efficace è
l’effetto di ‘scarica’ del film. La dinamica psicologica dello spettatore partecipante ad uno
spettacolo cinematografico viene influenzata dallo stimolo cui è sottoposta; inoltre la qualità
e la direzione di questa modificazione può essere logicamente prevista, quindi regolata in
modo sperimentale (dagli autori del film), in funzione della dinamica dei fatti rappresentati.
Tutto ciò è possibile a causa della facilità di fruizione del film, sia perché interessa i due
sensi predominanti (vista e udito), e sia perché esso ha molti punti di contatto con i processi
psichici umani che determinano la conoscenza.
Le esperienze accumulate durante la vita vengono ‘registrate’ nel n.s. cervello e vengono
ripescate attraverso la memoria che funziona come un sistema ad ‘accesso casuale’, cioè per
ricordare una fase della nostra infanzia non dobbiamo scorrere a ritroso le altre esperienze
fino ad arrivare in quel tempo remoto, il ricordo avviene in frazioni di secondo, istantaneamente. Possiamo poi spostarci con altrettanta rapidità nel passato prossimo fino al presente.
Ciò permette quindi un confronto immediato tra i vari elementi ed i momenti del nostro
vissuto. Anche il Cinema, attraverso il montaggio, possiede la stessa capacità, perché può
divincolarsi da una legge analogica temporale e lineare e portare lo spettatore in un viaggio
che attraversa tempo e spazio.
Per avvicinarsi il più possibile al processo di conoscenza umano, caratterizzato da lap- 32 -
sus, ricordi improvvisi, deja-vu, il montaggio deve essere realizzato secondo precise regole: quando ci si immedesima in una pellicola, consciamente o inconsciamente, come abbiamo già avuto modo di vedere, si scambia la visione di ciò che accade sullo schermo per
realtà (così come del resto si fa per le altre forme d’arte, cosa che Platone, nel Fedro attraverso il c.d. “Mito della caverna”, ha ben rilevato), ed essa deve quindi possedere i mezzi
per imitare la realtà, ed anzi arricchirla ed enfatizzarla al meglio, proiettando sullo spettatore l’energia, la forza della vita che nella realtà sembrano cristallizzate e inerti.
Le emozioni dello spettatore se sono in consonanza con quelle dei personaggi, se cioè
avviene il transfert da schermo, producono uno stato di tensione che a sua volta stimola una
trazione dei tendini e di una parte dei muscoli del corpo, specie quelli addominali vicini al
centro dell’emozione. L’energia che ne deriva, se non viene utilizzata, cioè trasferita all’esterno attraverso una reazione biomeccanica (come nel caso in cui lo spettatore è seduto
comodamente sulla poltroncina della sala cinematografica e non può agire), si trasferisce
prepotentemente nella sfera psichica.
In questo campo, sono state condotte ricerche sulla obbiettivazione neurologica dei differenti aspetti dell’informazione visiva. Le esperienze sul ritmo respiratorio hanno mostrato
che la variazione del ritmo di presentazione cinematografica agisce in modo costante sul
ritmo respiratorio normale, indipendentemente da ogni significato della sequenza in esame.
Essendo la qualità della respirazione (compulsiva o rilassata) associata a situazioni emozionali, ciò significa che lo spettatore, anche durante la breve proiezione di un film, si trovi
impegnato sul piano affettivo con tutto il suo corpo. Per ciò che concerne le variazioni
termiche, i risultati delle ricerche hanno confermato il carattere di sforzo psichico che risulta
dall’attività dello spettatore, così che è possibile stabilire che lo stimolo filmico di per sé
stesso costituisce un fattore di eccitamento sui meccanismi della vita vegetativa.
Da Fulchignoni fu studiata anche la misura del riflesso fotomotore, cioè la misura delle
variazioni del diametro pupillare sotto influsso di stimoli luminosi. I risultati sperimentali
confermano che la tecnica del montaggio rapido usata da alcuni registi deve essere contenuta
nel limite massimo di pochi secondi, dopo di che le condizioni di affaticamento e di paralisi
pupillare dovuta al riflesso fotomotore pregiudicano per parecchi altri secondi, e quindi per
numerosi fotogrammi, la corretta visione del film.
Nel caso che il regista ritenga di sorpassare il limite suddetto, è necessario ricorrere al
livellamento dei contrasti luminosi tra l’una e l’altra sequenza, per evitare tali effetti negativi. Ciò è particolarmente chiaro in alcuni video e videoclip, dove il racconto fa uso di un
linguaggio ad impatto ipnotico, ad andamento verticale, è cioè privo delle connessioni
cronologiche che ci si aspetterebbe (presenti in un racconto lineare, orizzontale). Essendo
una visione per una élite ristretta, esaspera le immagini, e, con una totale libertà di espressione, certo comunica un linguaggio non accessibile a tutti. Questa energia intellettuale sprigionata impedisce al cervello di trovare ed aggrapparsi immediatamente ad una risposta, ad
un’interpretazione accettabile nella misura in cui riesca a dare un senso compiuto a ciò che si
vede. Produce, quindi un disorientamento ad intermittenza che richiede nello spettatore una
rapida associazione di idee in una situazione molto simile all’esperienza onirica.
Si realizzano così le circostanze per la creazione di uno stato suggestivo capace di indurre l’accettazione delle immagini proposte in condizioni percettive non ordinarie.
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Ma cosa è il cinema per chi lo fa? Abbiamo l’opportunità di sentircelo dire dalla viva
voce di attori, regista , maestranze e produttore. Quello che vi proponiamo è la registrazione di alcune battute estrapolate dal film “EFFETTO NOTTE” di Francois Truffaut.
***
Le battute sul cinema in “EFFETTO NOTTE”
a cura di Emiliano Lecce
Giornalista - Signor produttore, resti con noi per parlare del film “Vi presento Pamela”
Produttore ( Jean Champion) - “No, no il produttore deve restare nell’ombra!
Il regista Ferrand (Francois Truffaut)
la lavorazione di un film assomiglia al percorso di una diligenza nel Far West: all’inizio uno
spera di fare un bel viaggio, poi comincia a domandarsi se arriverà a destinazione. ..
Che cos’è un regista? Un regista è uno a cui vengono fatte in continuazione domande, domande su qualunque cosa, a volte lui sa la risposta, a volte no.
Segretario d’edizione
Comunque per far quattrini oggi bisogna fare il costruttore non il cinema, se continuo a farlo
è perché mi piace
Severine ( Valentina Cortese)
Mi è venuta un’idea! Perché non giriamo con i numeri, lo faccio sempre con Federico
(Fellini n d r.)
Julie (Jacqueline Bisset)
- Senta, signore, quando mi piace un copione e accetto di girarlo, penso che piacerà al pubblico.
Produttore (Jean Champion)
- Io non ho mai visto un servizio televisivo in cui un’attrice è una donna che si alza alle sei di
mattina e torna a casa sua alle nove di sera. . .
Il regista Ferrand (Francois Truffaut)
- Si può fare un film con qualsiasi cosa! Si puo fare un film con Kissinger, missioni fruttuose,
il trapianto cardiaco e il gioielliere che spara alla moglie ..... Siamo arrivati a metà dell’avventura Io prima di cominciare a gìrare, desidero fare un film che soprattutto sia bello; non
appena sorgono le prime grane, devo ridurre le mie ambizioni augurandomi che si riesca a
finire il film verso la metà della lavorazione faccio un esame di coscienza e mi dico: - Potrei
lavorare meglio, potrei dare di più e ora resta l’altra metà per rimetterti in pari”. E da quel
momento cerco di rendere più vivo quello che si vedrà sullo schermo. “Vi presento Pamela”
mi sembra avviato sul binario giusto, gli attori sono a loro agio nei loro personaggi, la troupe
è affiatata, i problemi personali non contano piu: il cinema impera!
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Julie ( Jacqueline Bisset)
- Che vuol dire “effetto notte”? Ferrand ( Francois Truffaut) - È quando si gira una scena
nottuma in pieno giorno, mettendo un filtro davanti all’obiettivo.
Joel ( Nathalie Baye)
- Per un film potrei piantare un uomo, ma per un uomo non pianterei mai un film.
La moglie del segretario (Zenaide Rossi)
- Ma cos’è questo cinema, che cos’e questo mestiere in cui tutti fanno l’amore con tutti, in
cui tutti quanti si danno del tu e in cui tutti fingono, ma che cos’è? Lo trovate normale? Ma il
vostro cinema io lo trovo irrespirabile, a me fa schifo il vostro cinema, sì mi fa schifo. . .
Produttore ( Jean Champion)
- Il cinema è una grande famiglia...
Alexandre (Jean Pierre Aumont)
- Anche gli Atridi erano una grande famiglia
Ferrand ( Francois Truffaut)
- Ho sempre paventato ciò che ora si e verificato, la lavorazione interrotta per la morte di un
attore. Con Alexandre scompare tutta un’epoca del cinema, i film si gireranno per strade
senza divi e senza copione..
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Ho scelto un brano di Walter Murch, famoso montatore, perché ci da la possibilità di leggere di prima mano alcune riflessioni certamente originali e suggestive su questa tecnica che è alla base del linguaggio cinematografico: il montaggio.
Alcune riflessioni sul montaggio cinematografico
Alle origini del cinema il montaggio non era conosciuto giacché il rullo di pellicola che veniva esposto in macchina, una volta sviluppato e stampato era proiettato
così come era stato girato, d’altronde la breve durata della ripresa (di circa 2
minuti al massimo) e il soggetto molto semplice non richiedevano certamente alcuna giunta.
Fu con Méliès che il cinema prese una forma più vicina a quella che noi oggi
conosciamo. Méliès, infatti, per le sue esigenze spettacolari, introdusse, oltre ai
trucchi, anche il montaggio che allora consisteva dapprima in giunte sulla stessa
inquadratura per simulare apparizioni e trasformazioni, e servì poi per mettere insieme le varie riprese e dar vita al racconto cinematografico. Ma bisogna attendere
gli anni ’20 perché si possa parlare di montaggio come di quella attività peculiare
che caratterizza lo specifico filmico.
Il montaggio, infatti, consiste nel mettere insieme più riprese in maniera tale che
il discontinuo e la frammentarietà del materiale girato risulti come un continuum.
Per ottenere ciò occorre, come si può facilmente comprendere, che gli stacchi da
una ripresa all’altra non siano percepiti dallo spettatore come una giustapposizione
tra due inquadrature, ma come lo sviluppo dell’azione attraverso due punti di vista:
quelli appunto dati dalle due inquadrature che vengono montate assieme. È
emblematico che nella terminologia americana un film al montaggio viete tagliato
(cut) mentre in quella Inglese viene messo insieme (joined)
Ma perché funzionano gli stacchi? Nella nostra esperienza di vita quotidiana
sembrerebbe che staccare da un immagine all’altra sia una cosa artefatta e non
naturale. Infatti la percezione della realtà che scorre intorno a noi é più vicina ad un
continuum che a un montato. A questo proposito ci sembra interessante riportare un
brano di Walter Murch, famoso montatore, che nel suo libro ‘In un batter d’occhi’1
ha raccontato la sua esperienza di montatore. In questo brano, riferendosi al film di
F.F. Coppola Apocalyspe Now, del quale fu il montatore, riflette sulla natura e la
funzione degli stacchi cinematografici.
“Il fatto è che Apocalypse Now, come ogni altro film, è fatto di molti pezzi diversi di pellicola composti in un mosaico di immagini. Misteriosamente, mettere insieme questi pezzi sembra funzionare davvero, anche se rappresenta uno spostamento
di campo visivo totale e istantaneo, che qualche volta implica un salto in avanti o in
dietro nel tempo come nello spazio.
Certo funziona; ma poteva anche andare diversamente, perché non c’è nulla
nella nostra esperienza quotidiana che possa prepararci a una cosa del genere. Al
contrario, la realtà visiva che noi percepiamo dal momento del risveglio fino a
quando chiudiamo gli occhi è un flusso continuo di immagini collegate. In effetti la
vita sulla Terra ha percepito il mondo in questo modo per decine o centinaia di
milioni di anni. Poi, all’inizio del XX secolo, gli esseri umani si sono trovati improvvisamente di fronte a qualcos’altro: il film montato.
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tagliare
o
unire?
Date le circostanze, non sarebbe stato sorprendente scoprire che il nostro cervello fosse stato programmato dall’evoluzione e dall’esperienza a rifiutare il montaggio cinematografico. Se cosi fosse successo, i film di una sola inquadratura dei
fratelli Lumiere o come Nodo alla gola di Hitchcock, sarebbero diventati la norma.
Per molti motivi, sia pratici che artistici, è un bene che non sia successo.
In verità un film viene “tagliato” 24 volte al secondo. Ogni fotogramma è uno
spostamento rispetto al precedente. Però in una ripresa continua lo spostamento
spazio-temporale da fotogramma a fotogramma è abbastanza piccolo (20
millisecondi) da far si che lo spettatore lo veda come un movimento in un contesto
piuttosto che come 24 contesti diversi al secondo. Però quando lo spostamento
visivo e abbastanza grande (come al momento dello stacco) siamo costretti a riconsiderare la nuova immagine come un contesto diverso. Miracolosamente non abbiamo problemi a farlo, il più delle volte.
Quello che sembra difficile da accettare è quel tipo di spostamento che non è né
sottile né totale, per esempio staccare da un master a figura intera su un campo
leggermente più ristretto che inquadra gli attori dalle caviglie in su. In questo caso,
la nuova inquadratura è abbastanza diversa da segnalare che qualcosa è cambiato,
ma non abbastanza da farci riconsiderare il suo contesto. Lo spostamento dell’immagine non è né movimento né cambio di contesto e la collisione di queste due idee
produce una dissonanza mentale, un salto relativamente fastidioso.
Ad ogni modo, la scoperta d’inizio secolo che certi tipi di stacco ‘funzionavano’
ha portato quasi immediatamente a capire che i film potevano essere girati a pezzi,
il che era l’equivalente cinematografico dell’invenzione del volo: in pratica i film
non erano più confinati nello spazio e nel tempo. Se potessimo fare dei film solo
assemblando tutti gli elementi simultaneamente, come si fa nel teatro, il novero dei
soggetti possibili sarebbe relativamente ristretto. Invece la discontinuità regna sovrana. È l’elemento chiave durante la fase produttiva e quasi tutte le decisioni le
sono direttamente connesse in un modo o nell’altro: come superare le difficoltà che
presenta e/o come meglio trarre profitto dalle sue potenzialità
L’altra considerazione è che anche se tutto fosse disponibile contemporaneamente, sarebbe comunque molto difficile girare delle lunghe scene in continuità con tutti
gli elementi che funzionano tutte le volte. I cineasti europei tendono a girare dei
master2 più complessi degli americani, ma anche se siamo Ingmar Bergman, c’è un
limite a quello che possiamo fare: proprio alla fine, qualche effetto speciale non
funziona o qualcuno ha dimenticato la sua battuta o e saltata una lampada, e adesso
bisogna rifare tutto da capo. Più lunga e la ri presa e più grandi sono le possibilità
di un errore.
Cosi c’è il notevole problema logistico del mettere insieme tutto allo stesso
tempo e il grave problema di far funzionare il tutto tutte le volte. Di conseguenza,
anche solo per ragioni pratiche, non seguiamo le orme dei fratelli Lumiere o di
Nodo alla gola.
Oltretutto la discontinuità ci permette anche di scegliere la migliore angolazione
per ogni emozione e ogni particolare della storia, per poi montarle insieme con un
impatto complessivamente maggiore. Se fossimo limitati da un continuo flusso di
immagini, sarebbe più difficile e i film sarebbero meno precisi e dettagliati. E
tuttavia, anche oltre queste considerazioni, tagliare è qualcosa di più che un como-
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do mezzo per rendere continua la discontinuità. Ha in se stesso, per la forza autentica della sua immediatezza paradossale, una positiva influenza nella creazione di un
film. Avremmo infatti voglia di tagliare anche se la discontinuità non avesse un
valore pratico.
Il fatto centrale di tutto ciò è che gli stacchi funzionano. Ma rimane la domanda:
perché’? È come il calabrone, che non dovrebbe essere in grado di volare, ma
vola”.
È interessante la riflessione di Murch sugli stacchi, perché ci permette di introdurre un’altra riflessione di natura psicologica che attiene al modi di percezione
della realtà del nostro cervello. La nostra mente, infatti, funziona ad accesso casuale, proprio come un computer. In pochi nanosecondi il nostro cervello può ricordare
immagini del passato e ritornare poi con altrettanta rapidità al presente, o prefigurarsi
il futuro. Proprio come accade nel film. Quindi la natura del montaggio, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, è molto vicina ai percorsi cognitivi della mente
umana.
Sempre Murch, in questo brano che riportiamo appresso, ci ricorda le molteplici
assonanze tra montaggio cinematografico e l’attività onirica, giacché si sa che nel
sogno, quando il nostro cervello è libero da pressioni esterne che ne condizionano
l’immaginazione fantastica e repentina, le immagini seguono un loro percorso associativo che può sembrare discontinuo ma è molto simile al montaggio.
“Prima ci siamo chiesti: Perché funzionano gli stacchi?. Noi lo sappiamo che
funzionano. Eppure ci sorprende ancora se pensiamo alla violenza di quello che
succede veramente. Al momento dello stacco c’é una discontinuità totale e istantanea del campo di visione. Mi ricordo che una volta sono tornato in sala di montaggio dopo qualche settimana di mix (in cui tutti i movimenti sono morbidi e progressivi) e mi ha fatto inorridire la brutalità del tagliare. Il paziente viene inchiodato al
ceppo e: zac! O si o no! Questo si quello no! Dentro o fuori! Sminuzziamo il povero
film con una ghigliottina in miniatura e poi incolliamo insieme i vari pezzi come se
fosse il mostro di Frankenstein. La differenza (miracolosa differenza) è che attraverso questo apparente macello la nostra creatura prenderà vita e qualche volta
addirittura un’anima. E ancora più sorprendente se pensiamo che lo spiazzamento
istantaneo prodotto dallo stacco è qualcosa che non sperimentiamo nella vita quotidiana.
Certo siamo abituati a queste cose in musica (Beethoven ne è stato il pioniere e
maestro) e anche nei nostri pensieri (il modo improvviso in cui un’idea si presenta
alla mente, cancellando tutto il resto, per essere a sua volta rimpiazzata da un’altra).
Ma nelle arti drammatiche (teatro, balletto, opera) non sembra esserci la possibilità
di ottenere questo spiazzamento totale e istantaneo: il macchinario del palcoscenico
può muoversi solo a una certa velocità. E allora perché funzionano gli stacchi?
Hanno qual che oscuro fondamento nella nostra esperienza, o sono un’invenzione
che fa comodo ai cineasti e a cui la gente si e in qualche modo abituata? Ebbene,
anche se la realtà di tutti i giorni sembra continua, esiste quell’altro mondo in cui
passiamo forse un terzo della nostra vita: la realtà onirica di tutte le notti. E nei
sogni le immagini sono molto più frammentarie e sono intrecciate in modi molto più
strani e più bruschi che nella vita da svegli, modi che per lo meno si avvicinano
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Perché
gli stacchi
funzionano?
all’interazione prodotta dal montaggio.
Forse la spiegazione è semplice: accettiamo gli stacchi perché assomigliano al
modo in cui le immagini sono giustapposte nei sogni. Anzi la natura brusca dello
stacco potrebbe essere addirittura uno dei fattori determinanti nel produrre la somiglianza tra i film e i sogni. Nel buio del cinema, noi ci diciamo, in effetti: “Questa
sembra la realtà, ma non può essere, perché e così discontinua visivamente, e dunque dev’essere un sogno”. E a proposito, è significativo che le parole usate da un
genitore per consolare un bambino spaventato da un incubo: “Niente paura, caro, e
solo un sogno”, siano le stesse che si usano anche al cinema: “Niente paura, caro, e
solo un film”. Sogni e film che fanno paura hanno lo stesso potere di scavalcare le
nostre difese, che invece funzionano con dei libri, dei quadri o delle musiche altrettanto spaventosi. Per esempio, è difficile immaginare di poter dire: “Niente paura,
caro, e soltanto un quadro”.
Niente paura:
è solo un film!
Il problema con tutto ciò è che il comparare film e sogni è un’attività interessante, probabilmente corretta, ma praticamente sterile: sappiamo ancora così poco
sulla natura dei sogni che questa esplorazione finisce prima ancora di cominciare.
Tuttavia possiamo considerare la possibilità che ci sia una parte della nostra realtà
da svegli in cui sperimentiamo davvero qualcosa di simile agli stacchi e in cui le
immagini diurne sono giustapposte in modo più discontinuo di quello che sembra
essere normale.
Ho avuto il primo barlume di questa intuizione sul mio primo lavoro da montatore,
La conversazione (1974), quando continuavo a notare che Gene Hackman (Harry
Caul nel film) batteva gli occhi molto vicino al punto in cui avevo deciso di fare uno
stacco. Era interessante, ma non sapevo che farmene.
Poi un mattino, dopo una notte di lavoro, vado a far colazione e scopro per caso
un’intervista con John Huston sulla prima pagina del “Monitor”3 , appeso alla vetrina di una sala di lettura degli Scientisti Cristiani. Mi fermo a leggerla e una cosa mi
colpisce fortemente perché connessa proprio alla questione del batter d’occhi:
“Secondo me il film perfetto è come se si svolgesse dietro i nostri
occhi e fosse proiettato dagli occhi stessi, così che vedremmo quello che
abbiamo voglia di vedere. Il cinema è come il pensiero. Di tutte le arti è
quella che gli si avvicina di più. Guarda quella lampada dall’altra parte
della stanza. Adesso guarda di nuovo me. Guarda ancora la lampada.
Adesso torna a guardare me. Hai visto cos’hai fatto? Hai battuto gli occhi. Quelli sono stacchi. Dopo il primo sguardo, lo sai che non c’è ragione di fare una panoramica continua da me alla lampada, perché sai già
cosa c’è in mezzo. La tua mente taglia la scena. Prima guardi la lampada
- Stacco - Poi guardi me.”
Quello che Huston ci chiede di considerare è un meccanismo fisiologico: il batter d’occhi, che interrompe l’apparente continuità visiva delle nostre percezioni: la
testa si può muovere lentamente da una parte all’altra della stanza, ma in effetti noi
spezziamo il flusso delle immagini in pezzi significativi, per meglio giustapporre e
confrontare quei pezzi (la lampada e la faccia nell’esempio di Huston) togliendo di
mezzo le informazioni irrilevanti. Naturalmente ci sono dei limiti al tipo di
giustapposizioni che si possono fare in questo modo nella vita reale: non si può
saltare avanti e indietro nel tempo e nello spazio (questa è la prerogativa dei sogni
e del cinema). Ma qualche volta sono piuttosto grandi gli spiazzamenti visivi che si
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Come in
un
batter d’occhi
possono avere anche solo voltando la testa (dal Grand Canyon di fronte a noi, alla
foresta dietro di noi, ma anche da una parte all’altra di una stanza).
Dopo aver letto quell’articolo, ho cominciato a osservare la gente, a vedere
quando batteva gli occhi, e ho cominciato a scoprire qualcosa di molto diverso da
quello che si impara nelle classi di biologia al liceo, cioè che il batter d’occhi
sarebbe semplicemente un mezzo per inumidire la superficie dell’occhio. Se fosse
veramente tutto qui, ci sarebbe per ogni ambiente e per ogni individuo un intervallo
tra i battiti puramente meccanico e prevedibile in base all’umidità, alla temperatura, alla velocità del vento ecc. Si batterebbero gli occhi solo quando cominciano a
diventare troppo secchi, a intervalli costanti a seconda dell’ambiente. Ma evidentemente non e così: qualche volta la gente tiene gli occhi aperti per dei minuti interi,
altre volte li batte ripetutamente, con molte varianti tra i due estremi. A questo punto
la domanda e: “Cos’è che fa battere gli occhi?”. Da una parte sono sicuro che tutti
noi ci siamo trovati di fronte qualcuno che era cosi arrabbiato da non battere gli
occhi per niente: una persona in balìa di un solo pensiero ossessivo, che non lo
lascia mai e inibisce l’impulso e il bisogno di battere gli occhi. Poi c’è l’altro tipo
di rabbia che ci fa battere gli occhi continua mente: in questo caso la persona è
assalita simultaneamente da una ridda di pensieri ed emozioni contrastanti e cerca
disperatamente (ma inconsciamente) di usare quel batter d’occhi per separare quei
pensieri, fare delle scelte e riguadagnare una forma di controllo.
Quindi mi pare che il ritmo del battere gli occhi sia legato ai nostri stati emotivi
e alla natura e frequenza dei nostri pensieri, più che all’ambiente atmosferico in
cui ci capita di trovarci. Anche se non c’e un movimento della testa (come nell’esempio di Huston) il batter d’occhi è qualcosa che aiuta la discriminazione interiore dei pensieri, oppure un riflesso involontario che accompagna quel processo
mentale.4
E non solo la cadenza, ma anche il momento preciso del batter d’occhi è significativo. Cominciamo una conversazione con qualcuno e osserviamo quando questi
batte gli occhi. Io credo che scopriremo che l’ascoltatore batterà gli occhi nel momento preciso in cui si sarà fatto un’idea di quello che stiamo dicendo, né prima né
dopo. E perché poi? Perché qualunque discorso è pieno di formalità, equivalenti
degli epistolari “Gentile Signora” e “Distinti saluti”, è spesso l’essenza di quello
che abbiamo da dire ed è incorniciata da un’introduzione e da una conclusione. Il
batter d’occhi avviene quando l’ascoltatore si rende conto che la nostra “introduzione” è finita e adesso diremo qualcosa di significativo, oppure quando sente che
ci stiamo “scaricando” e non diremo più nulla di significativo per il momento.
E se la conversazione fosse stata filmata, quel batter d’occhi corrisponderebbe
al punto in cui si potrebbe fare uno stacco. Ne un fotogramma prima, ne dopo.
Quando abbiamo un’idea o una sequenza di idee collegate, battiamo gli occhi per
puntualizzare e separare quell’idea dal resto. Analogamente nel film, un’inquadratura ci presenta un’idea, o una sequenza di idee, e lo stacco è un “batter d’occhi”
che le separa e puntualizza. Quando decidiamo di fare uno stacco, stiamo in effetti
dicendo: “Facciamo finire questa idea e cominciamo qualcosa d’altro”. È importante sottolineare che non è lo stacco in se a creare il “momento del batter d’occhi”,
non è la coda a scodinzolare il cane. Se lo stacco avviene al punto giusto il suo
effetto di puntualizzazione sarà tanto più completo quanto più estrema la discontinuità
visiva (per esempio da un interno buio a un esterno luminoso).
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La frequenza
dei nostri
pensieri
Comunque io credo che queste giustapposizioni “filmiche” avvengano nel mondo reale non solo nei sogni, ma anche quando siamo svegli. E in effetti mi spingerei
a dire che non sono solo delle costruzioni mentali occasionali, ma una parte integrante della nostra visione del mondo: dobbiamo rendere discontinua la realtà visiva per non percepirla come una striscia quasi incomprensibile di caratteri, senza
spazi tra le parole e senza punteggiatura. Seduti nel buio della sala, troviamo il film
montato un’esperienza (sorprendentemente) familiare. “Più simile al pensiero di
qualunque altra cosa”, come dice Huston”.
Ma quali sono le regole del montaggio? Dove tagliare una ripresa? Qual è il
punto preciso in cui operare lo stacco? A questo proposito varie sono le scuole di
pensiero, ma vale la pena leggere quel che Murch scrive a questo proposito e che
chiama
Le regole del sei.
“La prima cosa che si discute nelle classi di montaggio di una scuola di cinema è
ciò che chiameremo continuità tridimensionale. Nell’inquadratura A un uomo apre
una porta e cammina fino a metà di una stanza, poi si stacca sull’inquadratura B
prendendolo allo stesso punto e seguendolo finché si siede alla sua scrivania, o
qualcosa del genere.
Per molti anni, specialmente all’inizio del sonoro, questa era la regola. Si lottava per preservare la continuità dello spazio tridimensionale e violarla era visto
come una mancanza di rigore o di talento.5 Non si faceva saltare la gente di qua e di
la, eccetto forse in circostanze estreme, come combattimenti o terremoti, in cui c’è
molta azione violenta.
In realtà io metto questa continuità tridimensionale in fondo a una lista di sei
criteri da seguire per fare un bello stacco. In cima alla lista c’è l’Emozione, la cosa
a cui si arriva alla fine, nelle scuole di cinema, se mai ci si arriva, in gran parte
perché è la cosa più difficile da definire e da maneggiare. Che emozione vogliamo
far provare al pubblico? Se loro provano durante tutto il film quello che noi vogliamo, abbiamo fatto più o meno tutto quello che si poteva fare. Quello che loro ricorderanno alla fine non è il montaggio o le belle inquadrature o la recitazione e nemmeno la storia: è l’emozione che hanno provato.
Uno stacco ideale (almeno per me) soddisfa allo stesso tempo questi sei criteri:
1) rispecchia fedelmente l’emozione del momento;
2) fa andare avanti la storia;
3) avviene in un momento interessante e “giusto” dal punto di vista del
ritmo;
4) rispetta quello che potremmo chiamare il ‘tracciato dell’occhio’, cioè
la posizione e il movimento del centro d’attenzione dello spettatore
all’interno del fotogramma;
5) rispetta la “planimetria”, cioè la grammatica delle tre dimensioni
proiettate dalla fotografia a due dimensioni (i problemi di salti di
campo ecc.);
6) rispetta la continuità tridimensionale dello spazio reale (dove stanno
i personaggi nella stanza e in rapporto tra di loro).
Se dobbiamo dare la prevalenza a cosa preferire nel decidere lo stacco, direi di
- 41 -
Le sei regole
del taglio
rispettare questa tabella:
1) Emozione
51%
2) Storia
23%
3) Ritmo
10%
4) Tracciato dell’occhio
7%
5) Piano bidimensionale dello schermo
5%
6) Spazio tridimensionale dell’azione
4%
L’emozione, in cima alla lista, è la cosa che si dovrebbe cercare di preservare a
ogni costo. Se vediamo che bisogna sacrificare qualcuna di queste sei cose per fare
uno stacco, lo facciamo risalendo dal fondo. Per esempio, se a un certo punto del
film stiamo considerando diverse possibilità di montaggio, e troviamo uno stacco
che dà l’emozione giusta e fa avanzare la storia e ci soddisfa dal punto di vista del
ritmo e rispetta il tracciato dell’occhio e la planimetria, ma non preserva la continuità dello spazio tridimensionale, proprio questo è lo stacco che dovremmo assolutamente fare. Se nessun altro stacco ha l’emozione giusta, vale la pena di sacrificare la continuità spaziale.
Le percentuali che ho indicato sono un po’ scherzose, ma non del tutto. Si può
notare che i primi due punti della lista (emozione e storia) valgono molto di più
degli ultimi quattro e se andiamo al sodo, nella maggior parte dei casi l’emozione
vale più degli altri cinque messi insieme. L’aspetto pratico della faccenda è che se
l’emozione è giusta, e la storia va avanti in modo interessante, con il ritmo giusto, lo
spettatore tenderà a non accorgersi dei problemi minori (o a non dargli peso). Il
principio generale sembra essere che soddisfare i criteri più importanti della lista
tende a oscurare i problemi con gli altri, ma non viceversa.
In pratica si vede che l’emozione, la storia e il ritmo sono connessi in modo
molto stretto, come fossero protoni e neutroni nel nucleo atomico. Questi sono di
gran lunga i legami più forti, che si allentano man mano scendendo nella lista. Nella
maggior parte dei casi si possono soddisfare tutti e sei i criteri e naturalmente
dovremmo sempre provarci e non accettare mai niente di meno, quando è possibile.
Quella che sto suggerendo è una lista di priorità. Se proprio dobbiamo rinunciare a qualcosa, che non sia mai l’emozione prima della storia, la storia prima del
ritmo, il ritmo prima del tracciato dell’occhio, il tracciato dell’occhio prima della
planimetria, la planimetria prima della continuità spaziale”.
Queste le sei regole d’oro di Murch, ma il montaggio non è solo l’arte di giuntare
le inquadrature per dare più dinamismo e forza espressiva all’azione degli attori, è
soprattutto il catalizzatore dei vari materiali che compongono il film. L’inquadratura di per se non ha un significato compiuto; è come una lettera in una frase. Perché
essa possa assolvere alla sua funzione espressiva ha bisogno di essere inserita in un
contesto, quello filmico appunto, attraverso il montaggio. L’arte del montatore, dunque, consiste anche nel trovare la giusta soluzione nel comporre la sequenza delle
riprese tenendo conto da una parte la drammaturgia, dall’altra cercando di tener
viva l’attenzione dello spettatore.
Alla base di queste considerazioni c’è la preoccupazione fondamentale di un
- 42 -
montatore, che dovrebbe essere quella di mettersi nei panni dello spettatore.
È sempre Murch che ci ricorda a cosa deve pensare il montatore nel decidere i
tagli.
“Alla base di queste considerazioni c’è la preoccupazione fondamentale di un
montatore, che dovrebbe essere quella di mettersi nei panni dello spettatore. Cosa
penserà lo spettatore in questo momento? Dove guarderà? Cosa vogliamo che pensi? Cosa bisogna che pensi? E naturalmente, quali emozioni vogliamo che provi? Se
teniamo a mente questo (che è la preoccupazione di qualunque mago) allora siamo
anche noi una specie di mago. Non nel senso soprannaturale, ma un semplice mago
di tutti i giorni, un mago di mestiere.
Dalla parte
dello
spettatore
Il lavoro del mago Houdini era creare un senso di meraviglia, per cui non voleva
che si guardasse qui, dove lui si stava sciogliendo dalle catene e trovava il modo di
farci guardare là. Ci stava “fuorviando” come dicono i maghi. Faceva qualcosa che
costringeva il 99% di noi a guardare dove voleva lui, quando voleva lui. Un montatore
può fare lo stesso, lo fa e deve farlo. Qualche volta però si può essere catturati dai
dettagli e perdere la visione dell’insieme. Questo ci succede di solito perché guardiamo l’immagine sotto forma di miniatura in sala di montaggio, invece di vederla
come l’affresco che diventerà, una volta proiettata su grande schermo.
Un modo di restaurare la prospettiva corretta è immaginare noi stessi molto
piccoli e lo schermo molto grande, e far finta di vedere il film finito in un cinema da
1000 posti pieno di gente, senza poter più fare nessun ritocco. Se ancora ci piace
quello che vediamo, probabilmente va bene. Altrimenti ci verrà un’idea migliore
per correggere il problema, qualunque esso sia. Uno dei trucchi che uso per ottenere
questa prospettiva è ritaglia re delle figurine di carta (un uomo e una donna) e
metterle ai bordi del monitor. La dimensione delle figurine (pochi centimetri) è
proporzionalmente corretta per sembrare quel piccolo schermo grande dieci metri”.
Le proporzioni
Questo divertente espediente di Murch ci fa capire quanto è importante astrarsi
dalla tecnicità del decupage e proiettarsi in una dimensione al di fuori e al di sopra
di noi stessi nel momento della decisione del taglio. Quella che ci sembrava una
buona idea mentre seguivamo il ritmo interno del montaggio, una volta tornati indietro e visionata la scena montata con il dovuto distacco, essa ci può apparire completamente sbagliata perché, anche se risponde ad un suo giusto ritmo interno, magari non si adegua perfettamente alla scena precedente.
Un’altra caratteristica del lavoro del montatore è quella di guardare al materiale
girato in maniera più asettica possibile e non farsi condizionare da chi quelle scene
le ha girate e che per questo è portato a dare loro un valore aggiunto che va oltre le
riprese stesse. È quello che Murch chiama:
“Il montatore è uno dei pochi che lavorano alla realizzazione di un film senza
conoscere le esatte condizioni di ripresa (o meglio che può non volerle conoscere)
e allo stesso tempo ha un’enorme influenza sul film. Se uno è stato sul set o nei
dintorni per la maggior parte del tempo (come gli attori, il produttore, il regista,
l’operatore, lo scenografo), può essere intrappolato nelle procedure, a volte sanguinose, della gestazione e del parto. Quando poi guarda i giornalieri6 non può fare
a meno di vedere, con l’occhio della mente, intorno ai margini del fotogramma, e
uno immagina tutto quello che c’era, fisicamente ed emotivamente, intorno a ciò che
è stato effettivamente fotografato.
- 43 -
Vedere
intorno
al
fotogramma
“Abbiamo lavorato come pazzi per realizzare quell’inquadratura, deve starci
per forza nel film.” In questi casi il regista è convinto di aver ottenuto quello che
voleva, ma c’è una possibilità che si stia sforzando di vederla in questo modo
perché quell’inquadratura è costata così tanto in termini di soldi, tempo, angoscia.
Allo stesso modo ci sono dei casi in cui si gira qualcosa che non ci piace, con
tutti quanti di cattivo umore, e alla fine diciamo contro voglia: “Va bene, facciamolo
questo primo piano così non se ne parla più”. Più tardi, quando lo si rivede, l’unica
cosa che si ricorda è il momento odioso della ripresa, rischiando così di non vedere
le potenzialità che avrebbe in un contesto diverso.
Il montatore, al contrario, dovrebbe cercare di vedere solo quello che c’è sullo
schermo, come farà lo spettatore. Solo così si possono liberare le immagini dal
contesto della loro creazione. Concentrandosi sullo schermo, il montatore dovrebbe scegliere i momenti giusti, anche se girati contro voglia, e scartare quelli sbagliati, anche se sono costati un’enormità di denaro e di fatica.
Sto raccomandando di preservare un certo grado di verginità. Non bisogna lasciarsi impregnare più del necessario dalle condizioni di ripresa. Si cerca di stare
al passo con quello che succede sul set, ma entrando nei dettagli il meno possibile,
perché in fin dei conti il pubblico non ne sa nulla e il montatore è il portavoce dello
spettatore.
Il regista è naturalmente la persona più coinvolta in quello che è successo durante le riprese e dunque è il più appesantito da questo surplus di informazioni intorno
al fotogramma. Tra la fine delle ri prese e la messa in fila del primo montaggio, la
cosa migliore in assoluto che può succedere al regista (e al film) è che lui saluti tutti
e sparisca un paio di settimane per scaricarsi in montagna, al mare, su Marte, o
dove gli pare.
Ma dovunque vada, dovrebbe cercare di pensare il più possibile a cose che non
hanno niente a che vedere col film. È difficile, ma necessario creare una barriera,
una membrana cellulare tra le riprese e il montaggio. Fred Zinnemann andava a
scalare le Alpi dopo le riprese, per mettersi in una situazione potenzialmente pericolosa che lo costringeva a essere presente a se stesso e a non rimuginare sui problemi del film.
Dopo qualche settimana scendeva dalle Alpi e tornava sulla Terra; si sedeva da
solo in una sala buia, la lampada del proiettore diventava incandescente, e lui si
guardava il suo film. Era ancora traboccante di quelle immagini intorno al fotogramma (un regista non può mai cancellarle del tutto), ma se fosse passato direttamente dalle riprese al montaggio, la confusione sarebbe stata maggiore, con i due
processi mentali del girare e del montare irrimediabilmente mischiati.
Facciamo tutto quello che possiamo per aiutare il regista a tirar su questa barriera, in modo che quando lui vede il film per la prima volta possa dire: “Benissimo,
farò finta di non essere coinvolto in questo film, che ha bisogno di qualche ritocco.
Vediamo cosa si può fare”. E così cerchiamo di separare il più possibile i nostri
desideri da quello che abbiamo in mano veramente, senza mai abbandonare i nostri
sogni, ma cercando sempre di vedere quello che c’è effettiva mente sullo schermo”.
I rapporti tra montatore e regista sono sempre di estrema delicatezza. Ci deve
essere tra di loro uno speciale feeling che li faccia sentire all’unisono ma allo
stesso tempo si crei una situazione di stimolo reciproco per la ricerca delle soluzio- 44 -
Il regista
e
il montatore
ni. Nel brano che segue, titolato leggiadramente “Sognare in coppia”, Murch ci
parla delle sue esperienze di lavoro come montatore con registi come F.F. Coppola
e B. Bertolucci.
“Per molti versi il montatore riveste per un regista lo stesso ruolo del redattore
per uno scrittore: incoraggia certi sviluppi dell’azione e ne sconsiglia altri, discute
con lui se un certo materiale va incluso nel lavoro finito o se c’è bisogno di inserirne di nuovo. Tuttavia, alla fine della giornata è lo scrittore che torna a casa e mette
insieme le parole. Ma nel cinema il montatore ha anche la responsabilità di
assemblare concretamente le immagini (vale a dire le ‘parole’) in un certo ordine e
con un certo ritmo. E qui il ruolo del regista è quello di offri re spunti e consigli
proprio come farebbe con un attore che deve interpretare una parte. Così sembra
che il rapporto tra il regista e il montatore oscilli avanti e indietro nel corso del
progetto con il numeratore che diventa il denominatore e viceversa.
Nella terapia del sogno c’è una tecnica che accoppia il paziente (il sognatore in
questo caso) con qualcuno che fa da ascoltatore. Il più presto possibile dopo il
risveglio, il sognatore si incontra con l’ascoltatore per raccontare i sogni della
notte precedente. Molto spesso non c’è niente o magari una sola immagine, deludente. Ma di solito questo è sufficiente per cominciare il processo. Una volta descritta
l’immagine, il lavoro dell’ascoltatore è proporre una sequenza immaginaria di eventi
basati su quel frammento. Per esempio: un aeroplano è l’unica immagine ricordata?
Immediatamente l’ascoltatore suggerisce che potrebbe trattarsi di un aereo di linea
in volo sopra Tahiti, pieno di palline da golf per un torneo in Indonesia. Non appena
sente questa descrizione, il sognatore si ritrova a protestare che “no, era un biplano,
in volo sui campi di battaglia della Francia e intanto Annibale gli tirava frecce dalla
sua legione di elefanti”. In altre parole, il sogno stesso, sepolto nella memoria,
insorge a sua difesa quando si sente sfidato da una versione alternativa, e in questo
modo rivela se stesso. Questa rivelazione di biplani ed elefanti a sua volta induce
l’ascoltatore a elaborare un’altra improvvisazione che farà emergere un altro aspetto del sogno nascosto e così via finché il massimo possibile è rivelato.
Il rapporto tra regista e montatore è in qualche modo simile: il regista è il sognatore, di solito, e il montatore è l’ascoltatore. Ma anche per il più preparato dei
registi ci sono dei limiti all’immaginazione e alla memoria, soprattutto a livello di
dettagli. Ecco che il compito del montatore è proporre degli sviluppi alternativi
come un’esca per il sogno addormentato che insorge a sua difesa e in questo modo
si rivela pienamente. Questi scenari si svolgono al livello più ampio (questa scena
andrebbe eliminata per il bene del film?) e al più minuzioso (è meglio tagliare una
certa inquadratura a questo fotogramma o a quello successivo, 1/24 di secondo più
tardi?).
Ma qualche volta è il montatore a sognare e il regista fa l’ascoltatore e in questo
caso è lui a offrire l’esca per indurre il sogno collettivo a rivelarsi di più. E come
qualunque pescatore vi potrà confermare, è la qualità del l’esca che determina il
tipo di pesce che si pesca”.
Concludiamo queste considerazioni di Murch sul montaggio con un suo brano
sui test di proiezione usati dalle case di produzione prima della distribuzione del
film per avere in anticipo una risposta esterna di un pubblico scelto. È interessante di come il montatore legga questi test in maniera relativa, concludendo che
servono soltanto a dare un’idea del punto a cui è giunto il proprio lavoro.
- 45 -
Ascoltare
i sogni
“Verso la fine del montaggio di Giulia, Fred Zinnemann mi disse che secondo lui
il regista e il montatore, dopo tanti mesi a tu per tu con il film, possono fare solo il
90% della strada verso il prodotto finito e che per l’ultimo 10% è necessaria la
“partecipazione dello spettatore”, che lui vedeva come il suo collaboratore finale.
Non nel senso che l’avrebbe seguito ciecamente, ma la cui presenza sarebbe stata
utile come correttivo, per impedire che certe ossessioni diventino corrosive e per
evidenziare certe oscurità che possono essersi sviluppate attraverso l’eccessiva
familiarità con il materiale. Sicuramente questa è stata la mia esperienza: tutti i film
su cui ho lavorato sono stati testati con un vero pubblico, eccetto La conversazione
e L’insostenibile leggerezza dell’essere. Abbiamo fatto delle proiezioni anche di
questi due, naturalmente, ma mai aperte al pubblico.
Francis Coppola in particolare è sempre stato un sostenitore entusiasta del mostrare i suoi film a quasi ogni stadio, senza quasi preoccuparsi di quanto incompleti
fossero. Proiezioni informali per piccoli gruppi di una decina di persone che lui
conosceva più due o tre estranei. Questi non avevano nessuna idea di cosa parlasse
il film e lui in seguito li interrogava uno a uno per confrontare le loro opinioni con
le reazioni della gente che già conosceva il film.
Fred Zinnemann, al contrario, ha fatto proiezioni test di Giulia solo quando era
tecnicamente completo, col negativo tagliato e la colonna sonora ottica. Era assolutamente pronto a fare dei cambiamenti in seguito, ma non credeva che il grande
pubblico fosse in grado di ignorare giunte visibili, salti di colore o un sonoro incompleto, e io sono d’accordo con lui. Anche con dei film tecnicamente completi,
le proiezioni test sono da prendere con le molle. Si può imparare moltissimo, ma
bisogna stare attenti a non interpretare semplicisticamente quello che la gente ha da
dirci, specialmente sulle schede compilate dopo la proiezione. Sono estremamente
scettico sulle schede. La cosa più utile è semplicemente capire che sensazione abbiamo noi mentre il film viene proiettato a 600 persone che non l’hanno mai visto.
Sul piano emotivo è come se una grande mano ci sollevasse per i capelli e ci
spostasse di lato. E noi pensiamo: “Oddio, ma guarda questa cosa!”. È come se
finora avessimo costruito un palazzo senza vederne altro che la facciata. All’improvviso scopriamo gli altri lati e vediamo delle cose che non ci sembra di avere
mai visto prima.
Non si dovrebbe seguire ciecamente niente e nessuno, tanto meno le indicazioni
di queste proiezioni. Cosa si può capire dalle differenze tra questa proiezione e le
precedenti? Date queste coordinate, dove sta il Polo Nord? Le proiezioni test sono
soltanto un modo per scoprire a che punto siamo. C’era una procedura con Giulia
che sfortunatamente non ho mai più visto. C’era un persona a un tavolino nell’atrio
con un cartello che diceva: “Se volete parlare con noi fra qualche giorno, lasciate il
vostro numero di telefono”. E in seguito quelle conversazioni venivano trascritte e
allegate al sondaggio. Se si fanno dei test e si vuole sentire quello che la gente ha da
dire, questo è il modo di farlo, dopo un paio di giorni, quando hanno assimilato il
film. Non facciamo caso a quello che la gente scrive a caldo, perché la loro è una
reazione di rimbalzo. C’è molto di ciò che in medicina si chiama ‘dolore riferito’
in questo responso.
Se andiamo dal dottore perché ci fa male il gomito, solo un ciarlatano tirerebbe
subito fuori il bisturi per operarci al gomito. Così poi ci ritroveremmo, non solo col
dolore di prima, ma magari anche con un dolore al gomito e alla spalla. Invece un
- 46 -
I test di
Proiezione
medico esperto ci visita, ci fa fare la radiografia e determina che la causa del
dolore è probabilmente un nervo accavallato nella spalla, che per caso ci fa soffrire
al gomito. Il dolore è stato ‘trasferito’ dalla spalla al gomito. Le reazioni del pubblico sono così. Se domandiamo direttamente: “Qual è la scena che vi piace di
meno?” e 1’80% è d’accordo su una scena che proprio non va, l’impulso è quello di
‘aggiustare’ la scena o di toglierla di mezzo. Ma c’è qualche possibilità che la
scena vada bene. Invece il problema potrebbe essere che il pubblico semplicemente non ha capito qualcosa che era necessario conoscere per far funzionare questa
scena.
Allora, invece di aggiustare la scena, si potrebbe chiarire qualcosa che succede
cinque minuti prima. Non operiamo necessariamente al gomito: scopriamo invece
se c’è un nervo accavallato da qualche al tra parte. Ma il pubblico non ce lo dirà
mai direttamente. Ci diranno solo dove c’è il dolore, non la sua fonte.
Le decisioni di montaggio diventano particolarmente delicate negli ultimi giorni
prima dell’uscita del film, perché i cambiamenti fatti in questo momento saranno
permanenti. Se come montatori abbiamo qualche forte sensazione su qualcosa in
questa fase, dovremmo sì cercare di dire la nostra con forza e convinzione, magari
stando su la notte a montare per prova la nostra versione o buttando giù qualche
schizzo, ma dobbiamo anche essere discreti e consapevoli di chi abbiamo di fronte,
e presentare le nostre idee al regista o al produttore nel giusto contesto. E come ci
comportiamo in questi casi dipende anche dalla nostra storia professionale, dalle
modalità della nostra assunzione, da quanto rispettiamo il regista e da quanto il
regista rispetta noi.
Mi ricordo un momento in particolare, dopo le proiezioni test di Giulia, quando
con Fred Zinnemann discutevamo su quali cambiamenti definitivi apportare alla
struttura dell’inizio, che sembrava essere stata seguita con difficoltà dal pubblico.
Il primo rullo del film era fatto di un intreccio di flashback (il ricordo di un ricordo
di un ricordo di un ricordo) e ce n’era forse qualcuno di troppo. Ho suggerito di
eliminare una scena che si svolgeva a un livello temporale che non veniva mai più
ripreso, e abbiamo deciso di toglierla, per far sì che le scene rimaste fossero disposte in una sequenza più afferrabile. Mentre io stavo disfando le giunte (che facevano
un suono straziante nello staccarsi, quasi come se piangessero) Zinnemann guardava pensieroso quello che stava succedendo e ha detto, quasi senza volerlo: “Quando ho letto questa scena la prima volta nella sceneggiatura, ho capito che volevo
fare questo film”.
Ho avuto una breve esitazione, l’ho guardato, e poi ho continuato a disfare le
giunte. Ma avevo il cuore in gola perché a quel punto del processo non si è sicuri di
niente, si può solo credere che quello che si sta facendo sia la cosa giusta. Stavamo
strappando via per sbaglio il cuore del film, o soltanto tagliando il cordone ombelicale?
Col senno di poi, credo che fosse davvero il cordone ombelicale e che abbiamo
fatto bene a tagliare: quella scena aveva avuto la funzione essenziale di tirar dentro
Fred Zinnemann nel progetto, ma una volta stabilita la connessione e dopo che la
sensibilità di Zinnemann si è riversata da quella a tutte le altre scene del film, la si è
potuta rimuovere senza alcun danno.
Ma cose di questo genere ci fanno esitare”.
- 47 -
Note
1
Walter Murch, In un batter d’occhi, Lindau, Torino, 2000
Il Master è una ripresa singola che inquadra in totale l’intera azione.
3
Christian Science Monitor, 11 agosto 1973. Intervista con John Huston di Louise Sweeney.
4
Il dott. John Stern della Washington University di St. Louis ha pubblicato nel 1987 una
ricerca sulla psico fisiologia del batter d’occhi che sembra confermare quanto sopra.
5
Il problema di questo modo di pensare si può vedere in TV con qualsiasi situation-comedy
girata con più telecamere che riprendono simultaneamente: gli attori sono sempre necessariamente “corretti” dal punto di vista della continuità spaziale e relazione reciproca, ma ciò
non impedisce che vengano fatti continuamente dei brutti stacchi.
6
I giornalieri sono la stampa del girato che viene fatta immediatamente dopo le riprese.
2
- 48 -
Un confronto esemplare:
La nozione di montaggio in Rudolf Arnheim e Sergej M. Ejzenstejn
Sul piano storico, il cinema si impose, fin dalla fine dell’Ottocento, come fatto
spettacolare e di costume in tempi rapidissimi, precedendo qualunque valutazione
scientifica o critica sulla sua natura. La riflessione psicologica sul fenomeno cinematografico nacque solo in un secondo momento, nei primi decenni del Novecento.
Essa apparve con temporaneamente in ambiti culturali e luoghi diversi, assumendo
differenti prospettive teoriche. Le concezioni di Sergej M. Ejzenstejn e Rudolf
Arnheim, illustrate in questo contesto, risultano in tal senso esemplificative. Esse
rappresentano due filoni di pensiero distinti, che hanno vivificato, fino ad oggi, il
dibattito sull’argomento. Va osservato che tali concezioni relative al problema
percettivo e, in particolare, alla psicologia del montaggio, furono espresse da entrambi gli autori, all’interno di più vaste riflessioni riguardanti il cinema, come
fenomeno artistico ed intellettuale. Il valore delle proposte di Arnheim presente, in
prima persona, nella saggistica psicologica e di Ejzenstejn, che ebbe profondi legami scientifici e personali con il mondo della psicologia, e di estrema attualità.
Ejzenstejn, in particolare, oltre ai collegamenti con il pensiero dello psicologo
sovietico Lev S. Vygotskij, cui si farà riferimento in seguito, mantenne contatti e
corrispondenza con altri significativi esponenti del mondo della psicologia e della
psicoanalisi, evidenziando, sempre, l’essenzialità di tali problematiche nella realizzazione del suo lavoro cinematografico1 .
Buona parte del dibattito contemporaneo sulla percezione cinematografica ruota
ancora attorno ai problemi sollevati da Arnheim ed Ejzenstejn.
Inoltre, la qualità dei legami teorici che i due autori mantennero con la psicologia consente di approfondire meglio alcune caratteristiche del loro pensiero che,
soprattutto nel caso di Ejzenstejn, risultano ancor oggi poco evidenziate.
Rudolf Arnheim, psicologo e critico d’arte, è universalmente noto sostenitore
dell’autonomia espressiva del cinema rispetto alle altre arti. La sua indagine, esposta fondamentalmente nel saggio Film come arte (1933-1938), si è accentrata sul
rapporto tra la percezione cinematografica ed il modello psicologico che ne è
alla base.
Le concezioni di Arnheim sulla percezione cinematografica sono, nel complesso, coerenti con i principi della psicologia della Gestalt; quella che egli stesso,
nell’introduzione, ha definito una tendenza kantiana negli studi sulla percezione.
Del resto, nella stessa pagina, ha ricordato di essere stato allievo di due tra i
capiscuola della Gestalt: Max Wertheimer e Wolfgang Kohler. La teoria della Gestalt,
che tanta parte ha avuto nello studio della psicologia del cinema, sostiene che, nel
percepire, gli individui sono direttamente consapevoli di una struttura o, una forma,
che viene appresa come un tutto organizzato e non è, semplicemente, la somma
delle sue parti. Uno degli esempi solitamente addotti in tal senso, appartiene al
campo musicale e si basa sulla constatazione che una melodia viene percepita come
un tutto organizzato e non come una serie di note separate. Ciò implica, da parte del
soggetto, il possesso di una funzione integrativa, ovvero di un meccanismo capace
di integrare, in una sola configurazione, la costellazione dei singoli stimoli.
Le analogie col meccanismo della percezione cinematografica, risultante dallo
scorrere dei singoli fotogrammi, sono evidenti.
È qui opportuno ricordare come alcune concezioni hanno sottolineato una ten- 49 -
Rudolf Arnheim
La funzione
integrativa
della percezione
denza dell’ambiente cinematografico, nel suo insieme, ad apparire come immagine
e copia di quello reale. Si tratta di una vera e propria forza-strutturale del campo
psicologico dello spettatore. In altri termini, per comprendere la situazione cinematografica, è necessario ipotizzare una tendenza degli oggetti cinematografici ad assomigliare, in ambito psichico, a quelli originari corrispondenti. È su questo piano
cognitivo che si è sviluppata la sostanza delle argomentazioni di R. Arnheim. Egli,
in sintonia con l’ipotesi gestaltica, che attribuisce alla mente una sua autonoma
capacità operativa rispetto al fenomeno percettivo, ha sviluppato, in primo luogo,
una critica a quelle tendenze che individuano nel cinema un semplice strumento di
registrazione automatica della realtà, sostanzialmente condizionato dalla sua natura
tecnica.
Nel cinema, invece, in ogni inquadratura, fin nel singolo fotogramma, l’insieme
delle scelte, non solo tecniche, effettuate dal regista, determinerebbe specifici risultati percettivi ed estetici che non corrispondono semplicemente alla registrazione del reale. Temi centrali della riflessione di Arnheim hanno riguardato, appunto,
il “carattere di realtà”, tipico del cinema e, soprattutto, gli interrogativi fondamentali attinenti al montaggio cinematografico.
Il carattere
di realtà
Riallacciandosi storicamente alle caratteristiche dei primissimi film muti,
Arnheim ne ha ricordato l’estrema povertà rispetto alla scelta delle inquadrature.
Le riprese venivano effettuate solo per mostrare, nel modo più chiaro possibile, ciò
che si voleva rappresentare. Non si era ancora acquisito che il punto di vista, la
particolare angolazione della camera avesse una sua propria peculiarità capace di
superare la semplice osservazione e tale da riuscire a rappresentare, più efficacemente, le cose.
L’acquisizione del valore espressivo dell’angolo di ripresa avrebbe implicato
di per se, secondo Arnheim, la presenza di un valore artistico nella rappresentazione. Tale concezione, sul piano percettivo, sottenderebbe la capacità del regista di
elaborare il materiale in sintonia con le strutture operative della mente. In questo
ordine di manipolazioni Arnheim ha inserito anche le alterazioni dei valori di colore e della dimensione prospettica, come nel caso delle variazioni della profondità
di campo. Trattando poi il problema dei limiti dello schermo cinematografico egli
ha osservato come l’inserimento dello spettatore nella scena, elemento fondamentale del carattere di realtà del cinema, non sia collegato ad un ampliamento fisico
dello schermo, ma ad un uso adeguato dei piani e delle inquadrature. L’impiego dei
primi piani e dei dettagli è stato una conquista storica del cinema che tendeva,
invece, ai suoi esordi, ad inquadrare le figure umane e le situazioni al completo (la
c.d. figura intera n.d.r.).
I piani e
i campi
L’uso del particolare differenziò il cinema dal teatro, incrementando la sua potenza espressiva, la sua capacità di tenere desta l’attenzione dello spettatore e producendo, contemporaneamente, un nuovo stile di recitazione. Arnheim ha riconosciuto che la sfera d’azione del cinema è enormemente più ampia di quella del
teatro, soprattutto perché, in esso, l’azione ed il gesto possono prevalere sulla parola, per la stessa natura tecnica del mezzo.
Sempre sul tema delle dimensioni dello schermo, ha avanzato importanti riflessioni di carattere psicologico. In primo luogo la constatazione che la stereoscopia,
il sonoro ed il colore non hanno aggiunto essenziali qualità al carattere di realtà già
posseduto dal cinema muto nella sua espressione matura. Arnheim ha espresso,
sostanzialmente, la convinzione che la “pregnanza” del film sia già altissima con
l’impiego dello schermo normale, in bianco e nero. Non a caso, proprio la scuola
- 50 -
La pregnanza
psicologica della Gestalt aveva elaborato il concetto di “pregnanza” come tendenza
di una struttura, in questo caso cinematografica, ad essere densa di significato. Per
lo stesso motivo egli non ha gradito la sonorizzazione del film.2 A suo avviso, la
parola ha distrutto nel cinema i1 valore della pantomima, tipica del film muto. Con
i suoi gesti essenziali, ma carichi d’espressione, la pantomima rendeva il cinema
simile alla pittura. Con ciò Arnheim si riferiva alla capacità del vero pittore di
ottenere, con pochi tratti fondamentali, un significato espressivo complesso. Anche
in tal caso agiscono a suo parere, le capacità percettive del soggetto che, secondo i
criteri gestaltici, elabora singoli elementi in una configurazione complessa.
Il cinema muto - ha affermato - aveva creato un’unione tra uomo muto ed oggetto
muto, come pure fra la persona vicina (udibile) e quella molto lontana (non udibile). Nel silenzio universale delle immagini i frammenti di un vaso potevano parlare
esattamente come un personaggio parlava al suo vicino; e una persona che si veniva
avvicinando lungo una strada visibile all’orizzonte come un semplice puntino, ‘parlava’ come uno che si muovesse invece in primo piano. Questa omogeneità lontanissima dalle possibilità del teatro, ma familiare invece alla pittura, viene distrutta
nel cinema parlato: esso dà la parola all’attore, e giacché egli solo può averla, tutte
le altre cose vengono respinte sullo sfondo”3 .
Complessivamente Arnheim è risultato contrario ad ogni perfezionamento tecnico del cinema capace di aumentare la sua aderenza alla realtà. L’artista dovrebbe
essere il più possibile “indipendente” dalla realtà, per poter meglio gestire la sua
opera. Egli ha affermato che non esiste “nelle immagini del mondo reale quella
precisione formale che, nell’opera d’arte, attraverso i dati fenomenici, rappresenta
il soggetto e le sue caratteristiche in modo univoco e straordinariamente espressivo”.
Ciò perché “la realtà fisica foggia e raggruppa cose ed avvenimenti solo con una
certa approssimazione alle ‘idee’ pure ed autentiche che stanno alla base del mondo
empirico”4 .
In questa prospettiva lo spettatore cinematografico sarebbe progressivamente
allontanato dal significato artistico dell’espressione filmica, man mano che il perfezionamento dei mezzi tecnici di ripresa e proiezione avvicina il mondo dello
schermo a quello reale. Del resto, ogni arte si basa su una parziale ‘illusione di
realtà’, che può essere più o meno forte. Da questo punto di vista, il cinema è a metà
strada, secondo Arnheim, tra la fotografia ed il teatro, che raggiunge, a suo parere,
il massimo livello di realismo. Questa asserzione è stata in seguito criticata, sia
indirettamente sia direttamente, da più parti. Si può citare a questo proposito, ancor
prima di valutare il carattere di realtà del cinema secondo Eisenstejn, la critica di
Cristian Metz. Quest’ultimo, in tempi anche recenti, nell’opera Semiologia del cinema ha evidenziato come il teatro non sia una illusione di realtà, ma la realtà
stessa; perciò gravato da limiti assai più pesanti di quelli del film, rispetto alla
esigenza di una rappresentazione realistica5 .
D’altra parte, Arnheim è apparso consapevole che, se le sequenze cinematografiche dessero una impressione concreta e spaziale assolutamente reale, il montaggio, che è alla base della illusione di realtà cinematografica, non sarebbe possibile.
Il criterio del cosiddetto ‘tempo cinematografico’ non risulterebbe, infatti, applicabile.
Parimenti, oltre al tempo, il montaggio dovrebbe rispettare i movimenti reali del
soggetto ripreso. Al contrario, ciò che rende possibile il montaggio ed il complessivo carattere di realtà del cinema, è, paradossalmente, proprio la sostanziale irrealtà
- 51 -
La dimensione
sonora del
cinema muto
della immagine cinematografica.
Il fenomeno definito “carattere o illusione di realtà” designa, infatti, la tendenza
dello spettatore a vivere i fatti cinematografici come reali e ad inserire se stesso
nello spazio rappresentato cinematograficamente. Tale fenomeno costituisce uno
dei più complessi e, come si e constatato, dibattuti problemi della psicologia della
percezione. Dall’opera di Arnheim si può dedurre che egli, coerentemente con le
sue convinzioni gestaltiche, ha considerato il carattere di realtà del cinema un attributo dovuto alle capacità percettive dello spettatore. Il pensiero stesso dell’individuo, per caratteristiche sue proprie, si andrebbe strutturando, durante l’esperienza
cinematografica, in modo da conferire tale illusione di realtà alla situazione. Anche
in anni più recenti, sviluppando la sua riflessione teorica su temi non strettamente
cinematografici, Arnheim non ha mai contraddetto questa iniziale impostazione. Ne
Il pensiero visivo6 è poi giunto a sostenere la natura fondamentalmente visiva del
pensiero stesso. D’altra parte, il problema del rapporto tra pensiero e immagini,
uno dei più sentiti nella storia della psicologia, ha dato vita a parecchie ipotesi
differenti.
Il pensiero
visivo
Frequentemente, il pensiero per immagini è stato collocato, sul piano evolutivo, in
posizione antecedente allo sviluppo del pensiero astratto e concettuale infantile.
Autori di estrazione psicoanalitica hanno, parallelamente, fatto notare come il pensiero per immagini si differenzi dal pensiero realistico o concettuale, collocandosi
più vicino alle sorgenti pulsionali dell’individuo.7
Ciò contribuirebbe a rendere tale pensiero meno coerente con il principio di realtà
preposto all’attività dell’io cosciente e, paradossalmente, più reale sul piano emotivo. Prescindendo dall’analisi psicoanalitica del fenomeno, che presenta, tuttora,
diversi interrogativi, va osservato che, negli anni in cui Arnheim sviluppava la sua
opera, un uomo di cinema, Sergej M. Ejzenstejn, aveva già accostato il linguaggio
cinematografico al pensiero infantile e primitivo. Questa posizione di Ejzenstejn
aveva una precisa origine nell’ampia cultura psicologica del famoso regista sovietico. È, anzi, possibile collegare precisamente le sue riflessioni sulla percezione
cinematografica al vasto corpo teorico costituito, nella storia della psicologia sovietica, dall’opera di Lev S. Vygotskij. Gli scritti sulla percezione ed il montaggio
racchiusi nell’opera Forma e tecnica del film e lezioni di regia8 risentono, infatti,
profondamente, dell’influenza delle concezioni di Vygotskij.
S.M. Ejzenstejn
Ciò e talmente vero, per la cosiddetta teoria del “monologo interiore” di Ejzenstejn,
che ai fini di una migliore comprensione appare opportuno, in prima analisi, esaminare le concezioni di Vygotskij riguardanti l’argomento. Lev S. Vygotskij, psicologo, pedagogista e studioso di estetica, fu una tra le più rappresentative figure della
cultura russa post-rivoluzionaria. Ci si limiterà, in questo contesto, ad una sintetica
esposizione delle sue concezioni relative allo sviluppo del linguaggio. Tali concetti
sono raccolti principalmente nell’opera Pensiero e linguaggio (1934) che costituisce, tutt’oggi, un riferimento essenziale per le ricerche nel settore.
Vygotskijj
Vygotskij ha sostenuto la presenza di due piani di realtà all’interno del linguaggio. Un “livello esteriore”, ovvero l’aspetto fonetico della funzione linguistica, ed
un “livello interiore”, legato al significato del linguaggio. Prescindendo dall’analisi, effettuata da Vygotskij, sui modi di formazione di tale linguaggio interiore nell’età evolutiva, è opportuno qui sottolineare che il linguaggio interiore si astrae
dall’aspetto sonoro della parola. Esiste, in sostanza, un piano del linguaggio che
non coincide con l’aspetto verbale9 . Il pensiero, quindi, non è l’equivalente della
parola. Il linguaggio interiore è, anzi, assai più frammentario ed abbreviato del
I livelli
del linguaggio
- 52 -
linguaggio verbale. Sul piano interiore, afferma Vygotskij, la parola si “volatilizza”,
anche se il pensiero non scompare. Ciò significa che la coscienza umana ha una
estensione assai più ampia della parola. Il linguaggio interiore costituisce una funzione psichica indipendente ed autonoma in ogni individuo.10
Nel campo della riflessione sul fenomeno cinematografico, Sergej M. Ejzenstejn
ha avuto il merito di aver accostato le concezioni estetiche e, soprattutto, la teoria
del linguaggio interiore di Vygotskij, alla problematica psicologica relativa al montaggio ed al cinema.
Nelle opere di Ejzenstejn non è citato direttamente il lavoro di Vygotskij; tuttavia è
nota la personale frequentazione ed amicizia intercorsa tra i due. Inoltre, in tempi
recenti, il dattiloscritto autografo di L. S. Vygotskij, Psicologia dell’arte (1925),
con correzioni di mano dell’autore, è stato scoperto proprio nell’archivio di S. M.
Ejzenstejn11 . Ciò conferma, ulteriormente, la conoscenza, da parte del regista sovietico, delle concezioni estetiche, oltre che linguistiche, di Vygotskij. Del resto, il
lavoro teorico di Ejzenstejn appare, indubbiamente, collegato con le ipotesi avanzate dal grande psicologo sovietico.
In Forma e tecnica del film e lezioni di regia egli, sostanzialmente, ha affermato
che le leggi del linguaggio interiore sono alla base di tutte le dinamiche che governano le opere di arte. Il linguaggio interiore corrisponde allo stadio del pensiero
fiugrativo-sensoriale; Esso consente la creazione delle forme artistiche impiegando
procedimenti concettuali fondati sulla sensazione e sull’immagine. Tali procedimenti si avvicinano, secondo Ejzenstejn, ai criteri mentali utilizzati dai bambini e
dai popoli primitivi.
Il linguaggio
interiore
Ciò, tra l’altro, può giustificare la deformazione delle proporzioni effettuata in
alcune raffigurazioni artistiche coerenti con questo pensiero arcaico12 . Ejzenstejn
ha sostenuto inoltre che il linguaggio interiore è un linguaggio per azioni ed immagini che si contrappone alla parola e che corrisponde, in campo cinematografico, alla
sceneggiatura di una azione. Ha osservato che, nella cinematografia, discipline
come la “Fisiognomica”, che non godono di dignità scientifica, acquistano un loro
specifico valore13 . Per Ejzenstejn, che appare in evidente sintonia con le concezioni di Vygotskij, il pensiero figurativo e per azioni, espressione del linguaggio interiore, precede, sul piano evolutivo, il concetto e l’astrazione. Egli ha citato, a conferma delle sue ipotesi, alcune ricerche svolte nella clinica neurochirurgica di Mosca, dove pazienti con particolari lesioni cerebrali indicavano gli oggetti esclusivamente con i verbi specifici relativi alle azioni eseguibili con essi e, contemporaneamente, non riuscivano ad attribuire loro un nome14 . In questa prospettiva, come si è
accennato, Ejzenstejn ha ipotizzato che l’arte rappresenti una regressione psichica
artificiale, verso forme di pensiero evolutivamente ed antropologicamente primitive.
Nella Teoria generale del montaggio è giunto ad accostare alla percezione artistica lo stato ipnotico, in cui si verifica, appunto, una regressione psicologica. Ha
scritto infatti: “L’ipnosi consiste nella stessa cosa ed in particolare nel fatto che si
trova il modo di neutralizzare temporaneamente gli ‘strati superiori’ della coscienza. L’ipnotizzato si trova in tal modo in uno stato di completa soggezione a leggi del
pensiero e del comportamento che, pur dettate dall’apparato mentale, agiscono indipendentemente dai centri superiori. Anatomicamente, si tratta del comportamento
della mente in condizioni di esclusione dei lobi frontali del cervello.
Ontogeneticamente, si tratta del comportamento che precede lo sviluppo di que- 53 -
Ipnosi
e
percezione
artistica
sti lobi, all’inizio del loro funzionamento (il pensiero infantile). Filogeneticamente,
si tratta del comportamento che precede l’elaborazione storica del pensiero logicoformale che ha richiesto un’evoluzione piuttosto lunga e travagliata di questi organi
della mente. Patologicamente, si tratta di una regressione permanente, prolungata o
sporadica, causata da una malattia o da un trauma subìto durante gli stadi iniziali
dello sviluppo mentale. Il tratto distintivo di questo processo nell’ambito dell’arte
sarà sempre la sua relatività, o meglio il suo agire contemporanea mente su due
piani: sia la regressione fino al livello in cui sono possibili i fenomeni propri di
questo stadio, sia la conservazione del livello proprio della coscienza”15 .
Il fenomeno della regressione psicologica é presente, secondo Ejsenstein, anche
nel pensiero religioso, magico e nelle alterazioni prodotte dalle droghe. In questa
prospettiva il carattere di realtà del film e anche dovuto alla intensità delle sensazioni che si collegano agli stati regressivi. D’altra parte il linguaggio interiore è
quel fenomeno psicologico che consente la massima espressività emotiva. Anche la
scelta delle inquadrature ha un corrispettivo nel linguaggio interiore. Si riservano i
dettagli ed i primi piani a quelle parti del mondo reale che vengono percepite come
più importanti, o cariche simbolicamente dei più ampi significati.
Anche Ejzenstejn, come Arnheim, ha mostrato scarso interesse per il colore e la
stereoscopia e ha manifestato varie perplessità nei confronti dello stesso sonoro
cinematografico. Infatti, una sceneggiatura facilitata dalla presenza della parola potrebbe a suo parere minacciare la raffinatezza del montaggio acquisita dal film
muto16 . Contemporaneamente, però, Ejzenstejn ha esorcizzato questo timore proponendo esperienze cinematografiche in cui l’immagine visiva non coincide con “l’immagine sonora ed elaborando una teoria del “contrappunto cinematografico” ispirata al contrappunto musicale. Si tratta di una concezione per cui, nell’ambito della
composizione cinematografica, coesistono e si alternano motivi visivi e sonori a
contrasto, seppur inestricabilmente complementari. Una sorta di armonia tra il movimento musicale e quello cinematografico.
A ciò può anche riallacciarsi la nota polemica di Ejzenstejn con Pudovkin. Quest’ultimo considerava il montaggio un mezzo per sviluppare progressivamente una
idea, attraverso il discorso cinematografico, secondo un principio, definito da
Ejzenstejn, “epico”. Egli invece ha ritenuto utile e maggiormente espressivo lo scontro
ed il confronto tra inquadrature profondamente differenti, seppur armonizzate nell’ambito di un principio definito “drammatico”. Quel che sostanzialmente Ejzenstejn
ha perseguito è l’espressione in termini cinematografici dei conflitti psicologici.
Conflitti che ha inteso esprimere, anche, con un montaggio conflittuale. Non a caso
Vygotskij ha posto l’attenzione sul “contrasto dei sentimenti”17 . Questa strategia
estetica è indispensabile, secondo Ejzenstejn, intendendo raggiungere il massimo
coinvolgimento dello spettatore. È interessante, a questo proposito, osservare che
egli ha individuato tale coinvolgimento cinematografico non solo a livello emotivo,
ma anche sul piano motorio e gestuale. In ciò ha anticipato alcuni studi, elaborati in
tempi più recenti, sulla cosiddetta “induzione posturo-motrice” dello spettatore al
cinema18 .
Ejzenstejn ha espresso sovente l’esigenza di realizzare una “unità organica” nell’ambito dell’opera d’arte. Questa organicità dovrebbe coinvolgere tutti gli aspetti
dell’evento cinematografico, compreso quello sonoro. Spetta al regista raggiungere
la composizione di una organica struttura cinematografica. L’organicità cui si riferisce Ejzenstejn, che egli ha considerato propria di ogni opera d’arte, compresa quella cinematografica, è certamente qualcosa di diverso dalla configurazione gestaltica
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La regressione
psicologica
Il contrappunto
cinematografico
Il contrasto
dei sentimenti
e il
coinvolgimento
degli spettatori
L’unità
organica
cui ha fatto riferimento Arnheim. Il regista sovietico, partecipe di un ambiente culturale fortemente influenzato dalle concezioni marxiste, si è piuttosto riferito ad una
organicità dialettica.
Nella composizione cinematografica, secondo Ejzenstejn, elementi disomogenei
devono svilupparsi unitariamente, risolvendosi in una superiore sintesi artistica.
Questa unità dialettica è l’obiettivo da raggiungere attraverso la sofisticata disciplina del montaggio cinematografico. Ejzenstejn, nella sostanza, ha accostato il meccanismo del montaggio, al criterio psicologico del linguaggio interiore descritto da
Vygotskij. Ciò comporta varie considerazioni. Come ha scritto in Teoria Generale
del montaggio: “Il principio del cinema non è altro che una riproduzione in termini
di pellicola, metraggio, inquadratura e ritmo di proiezione, di un processo; indispensabile e profondamente originario che caratterizza in generale la coscienza fin
dai suoi primi passi nell’assimilazione della realtà” (Ejzenstejn, op. cit. 1985, p.
144). Questo processo esplicita cinematograficamente un senso che era racchiuso
nella sola mente del regista. Tuttavia, per questo stesso motivo, il procedimento del
montaggio non può essere estraneo al contesto storico-sociale in cui l’opera cinematografica prende corpo ed in cui l’autore si esprime. Ejzenstejn ha fatto aperto
riferimento alla Dialettica della natura di Engels19 , ma la dialettica cui egli ha
inteso riferirsi non appartiene esclusivamente alla struttura dell’opera cinematografica, bensì interviene nei complessi rapporti che coinvolgono il film, l’autore ed il
contesto storico-sociale in cui l’opera si realizza. Ejzenstejn e arrivato anche a
sostenere che l’ordine stesso del film è determinato dalle tendenze sociali dell’autore20 .
Va osservato che questo atteggiamento è coerente con le concezioni di L. S.
Vygotskij sul pensiero ed il linguaggio interiore. Lo psicologo sovietico, infatti, ha
inserito l’intero apparato psichico del pensiero e del linguaggio nel vasto mare
delle dinamiche della società e della cultura. Questa interazione del linguaggio con
l’ambiente sociale è anche utile per spiegare l’evoluzione storica del linguaggio e
del pensiero stesso. Si tratta di una nozione che, seppur non pienamente esplicitata,
è certa mente presente anche in Ejzenstejn. Ciò pone in una particolare prospettiva i
mutamenti del linguaggio cinematografico che si sono verificati dalla nascita del
cinema ad oggi.
L’arricchimento nella scelta delle inquadrature e delle angolazioni che ha
vivacizzato la storia dei primi anni del cinema, non rappresenta solo un autonomo
perfezionamento del mezzo cinematografico, ma va anche collegato alla complessiva maturazione del mondo sociale in cui il cinema si inserisce e l’autore opera.
Ejzenstejn ha sviluppato tale concetto facendo riferimento a precedenti tipici della
storia dell’arte. È il caso, per esempio, della stessa prospettiva pittorica che è
comparsa in seguito alle differenziazioni percettive dovute alle trasformazioni storiche della società, dopo il superamento del feudalesimo.
I mutamenti avvenuti negli ultimi anni nei criteri e nei ritmi del montaggio cinematografico, soprattutto in campo pubblicitario, assumono, alla luce di queste concezioni, un significato, collegato alle esigenze del mondo sociale e produttivo. Il
tema del montaggio è sempre stato centrale nell’attenzione di Ejzenstejn. Egli ha, tra
l’altro, sostenuto che “definire la natura del montaggio equivale a risolvere il problema specifico del cinema” e l’accostamento della cinematografia al patrimonio
scientifico della psicologia, nell’affrontare tale problema, è stata una notevole intuizione intellettuale.
In questo contesto, meritano anche attenzione le numerose osservazioni dedicate
ad altri aspetti significativi della questione. Interessante è l’analisi del cosiddetto
- 55 -
Il montaggio
e il linguaggio
interiore
meccanismo della “pars pro toto” che rappresenta, nel montaggio, un fenomeno di
simbolizzazione. Ejzenstejn ha preso ad esempio una scena del proprio film, La
corazzata Potemkin, in cui gli occhiali a pince-nez del medico della nave, inquadrati in primo piano, rappresentano simbolicamente l’intero personaggio. Anche
questo processo di simbolizzazione, che sul piano letterario può essere avvicinato
alla figura retorica detta “sineddoche”, apparterrebbe secondo Ejzenstejn ai criteri
del linguaggio interiore e del pensiero primitivo. E quel che avviene, ad esempio,
egli ha affermato, quando un uomo primitivo, ornandosi del dente di un animale
ucciso, ritiene di portare con se l’equivalente dell’intero animale21 .
In tale esame dei significati psicologici afferenti alla situazione cinematografica,
rimane, comunque, come punto fisso, l’esigenza di evidenziare il contesto storico in
cui il fenomeno avviene. In La natura non indifferente Ejzenstejn ha scritto con
raro acume psicologico: “Se è vero, in altre parole, che esiste uno stadio del pensiero in cui il concetto (ponjatie) non ha ancora preso forma e l’unico strumento
dell’espressione è l’immagine, dobbiamo anche supporre che esiste uno stato ancor
più originario, fondato unicamente sul sentimento (oscuscenie), e del tutto privo di
mezzi espressivi che non siano i semplici sintomi di quello stesso stato”22 . Questa
affermazione precede, una riflessione in cui si evidenzia come qualunque “stato”
psichico acquisti una “concreta oggettualità tematica”, solo attraverso l’associazione con oggetti concreti. Constatando, poi, la natura necessariamente storica di associazioni di questo tipo, Ejzenstejn ha escluso qualunque ipotesi sovrastorica nella
rappresentazione dei sentimenti umani.
Complessivamente, questa attenzione per il contesto storico in cui si realizza sia
l’opera cinematografica sia la sua fruizione, è il dato essenziale che caratterizza il
lavoro teorico di Ejzenstejn. Da questo punto di vista, le stesse potenzialità percettive
dello spettatore vengono relativizzate. In ciò, come si e osservato, egli ha manifestato evidenti differenze concettuali rispetto al pensiero di Arnheim teso, piuttosto,
ad esaltare una capacità autonoma della mente, nell’organizzare la situazione
percettiva cinematografica.
Buona parte del dibattito, svolto dalla psicologia contemporanea sul cinema,
ruota, tutt’oggi, attorno a queste differenze concettuali.
- 56 -
La
sineddoche
cinematogr.
Appendice
- 57 -
Note
1
Vedi in Appendice il carteggio tra Ejzenstejn e lo psicoanalista austriaco Wilhelm Reich, in
cui il regista espose le sue perplessità sulla psicoanalisi, pubblicato su Sociologiceskie
Issledovanija, n. 1/1977. Tr. it. in Rassegna Sovietica n. 1/1979
2
Vedi in appendice il Manifesto dell’Asincrono.
3
R. Arnheim, Film come arte (1933-1938), Feltrinelli, Milano, 1983, p 200.
4
Ivi, p. 180
5
Cfr. C. Metz, Semiologia del cinema (1968), Gar2anti, Milano, 1972, pp. 42-45.
6
R. Arnheim, Il pensiero visivo, Einaudi, Torino, 1974
7
Cfr, tra gli altri: C Musatti, “Psicologia degli spettatori al Cinema”, Quaderni di Ikon, n. 7/
1969.
D. Rapaport, Il modello concettuale della psicoanalisi (1942-1960), Feltrinelli, Milano, 1977.
8
S. Ejzenstejn, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, Torino, 1964
9
La nozione di “linguaggio interiore” avanzata da Ejzenstejn ed i collegamenti di questo concetto con le teorie
psicologiche di L. S. Vygotskij, sono stati evidenziati, già nel 1975, da M. Vannucchi
10
In PNL (Programmazione Neuro Linguistica) una branca della psicoanalisi sorta in America negli anni ’70,
con l’affermazione che ‘La mappa non è il territorio’ si sostiene che non esiste una realtà oggettiva, ma essa
è determinata dagli schemi rappresentazionali di ciascun individuo. N.d.r.
11
Cfr. a questo proposito il commento di V. Vs. Ivanov all’opera succitata di L. S. Vygotskij, Psicologia dell’arte (1925); tr. it. 1972 p. 371. La seconda edizione di tale opera è stata, appunto, realizzata utilizzando il
manoscritto ritrovato nell’archivio di S. M. Ejzenstejn.
12
Cfr. Ia nota di V. Vs. Ivanov in: 1.. S. Vygotslcij, Psicologia dcll’artc (1925), tr. it. 1972, p. 324, nota 5. In
tale contesto si sottolinea la disponibilita di Ejzenstejn verso forme espressive non necessariamente
reaJisticl1e, proplio in vista cli questo aggancio con il pensiero arcaico
13
Ejzenstejn, con ogni probabilità, aveva anche presente l’opera di H. Werner, Psicologia comparata dello
sviluppo mentale (1926), tr. it. Giunti, Firenze, 1970; in cui si indaga sulle nozioni spazio-temporali primitive
e sulla fisiognomia
14
S M. Ejzenstejn, Forma e tecnica del film e lezioni di regia (raccolta di saggi; tr. it. 1964 p. 126.
Alexsander R. Luria, fondatore della neuropsicologia contemporanea, psicoanalista negli anni giovanili ed importante esponente della scuola psicologica storico-culturale, di cui Vygotskij fu il capostipite, ha affermato
nella sua autobiografia, che quest’ultimo, nella seconda meta degli anni venti, frequento la clinica delle malattie nervose diretta da G. I. Rossolimo. In questo ambito, egli, assieme allo stesso Luria, si dedico allo studio
delle afasie, nell’intento di chiarire il ruolo svolto dal linguaggio nella strutturazione dei processi psicologici.
Cfr. A. R. Luria Uno sguardo sul passato (1976), tr. it. Giunti Barbera, Firenze, 1983, p. 36, nota 13.
15
S M. Ejzenstejn, Teoria generale del montaggio (II vol dell’edizione russa delle opere scelte, Mosca, 19631970); tr it. Marsilio, Venezia, 1985, p 148.
16
Vedi Il Manifesto dell’asincrono in Appendice
17
L S Vygotskij, Psicologia dell’arte (1925); tr it l972 p 291. Consultare, anche, nella stessa edizione, la nota
di V. Vs. Ivanov, n 3, p. 296. ~s Sulla “indl~ione rSosturo-motrice~ consultare, ad esempio: M A Croce,
Comuni cazioni di massa tecniche audiovisive e societd. Una valuta~ione sperimentale, Il Mulino, Bologna, 1974, p 168.
18
Sulla “induzione posturo-motrice” consultare, ad esempio: M A Croce, Comunicazioni di massa tecniche
audiovisive e società. Una valutazione sperimentale, Il Mulino, Bologna, 1974, p 168.
19
S M. Ejzenstejn, Forma e tecnica del film e lezioni di regia cit. 1964, ~7. 142. Il regista sovietico fa riferimento a: 1~. Engels, Dialettica della natura (1925, edizione postuma in russo), Editori Riuniti, Roma, 1956
20
Ivi, p. 6.
21
Ivi, p. 119. Metz (1968; tr. it. 1972, p. 179), sottolineando il valore di questo procedimento. ne ha evidenziato i
possibili accostamenti con diversi aspetti della scrittura.
22
S. M. Ejzenstejn, La natura non indifferente (scritto nel 1945-47, III volume dell’edizione russa delle opere
scelte, Mosca, 1963-1970); tr. it. Marsilio, Venezia, 1981, p. 185 .
- 58 -
Concludiamo con questo documento che riflette le preoccupazioni dei maesrti del cinema
muto. Con l’avvento del sonoro sincronizzato il cinema stava diventando un’altra cosa. Le
ricerche estetiche a cui erano giunti i grandi registi fino a quel momento sembravano
venire travolte, spazzate via da un’invenzione che sembrava banalizzare il lavoro creativo
del cinema. Con questo manifesto gli illustri firmatari si confrontano con la nuova tecnica, non senza un pizzico di rimpianto.
Manifesto dell’Asincronismo (1928)
L’ideale a lungo vagheggiato di un cinema sonoro è ormai una realtà. Gli americani hanno
inventato la tecnica del film parlato portandola a un livello che ne consente ormai un impiego
pratico. Anche in Germania si lavora con impegno nello stesso senso. E in tutto il mondo si
discute di quest’arte muta che infine ha trovato la sua voce.
Noi, che lavoriamo nell’URSS, abbiamo piena coscienza delle deficienze dei nostri mezzi
tecnici, che non sono tali da farci sperare in un rapido successo pratico. D’altra parte, ci
sembra interessante formulare qualche considerazione teorica preliminare, tanto più che -se
le nostre informazioni non sono errate- il nuovo progresso tecnico risulta indirizzato male.
Una falsa concezione delle possibilità di questa scoperta tecnica può non solo ostacolare lo
sviluppo del cinema-arte, ma addirittura annientarne l’attuale potenza espressiva. Il cinema
di oggi, attraverso le immagini visive di cui è costituito, provoca nello spettatore un’enorme
impressione, ed ha saputo guadagnarsi un posto di primo piano tra le altre arti.
Com’è noto, il mezzo fondamentale e, d’altra parte, unico per il quale il cinema ha raggiunto
un così alto livello espressivo è il montaggio.
Il progresso del montaggio, in quanto mezzo espressivo, è l’assioma su cui si basa lo sviluppo del cinema.
Il successo universale dei film sovietici è dovuto in gran parte ad alcuni principi di montaggio, che essi per primi hanno scoperto e applicato.
1. Per il futuro sviluppo del cinema i soli fattori importanti sono quelli volti a rafforzare e a
sviluppare il montaggio e i suoi modi.
Da questo punto di vista, è facile dimostrare lo scarso interesse che il colore e la
stereoscopia presentano a paragone dell’alta significazione del suono.
2. Il sonoro è un’arma a due tagli, ed è molto probabile che sarà impiegata secondo la legge
del minimo sforzo, ossia per soddisfare semplicemente la curiosità del pubblico. Da principio, assisteremo allo sfruttamento commerciale della merce piú facile da fabbricare e da
vendere: il film parlato, nel quale la registrazione della voce coinciderà nel modo piú esatto
e piú realistico col movimento delle labbra sullo schermo, e nel quale il pubblico apprezzerà l’illusione di sentire veramente un attore, una tromba d’auto, uno strumento musicale, ecc.
Questo primo periodo di “ attrazione ” non pregiudicherà tuttavia lo sviluppo della
nuova arte; ma ci sarà un secondo periodo, ben più terribile. Esso coinciderà col declino del
precedente, quando si cercherà di creare drammi di “alta levatura letteraria”, mentre si
rinnoveranno i tentativi d’invasione dello schermo per opera del teatro.
Così impiegato, il sonoro renderà piú intensa e arricchirà la significazione intrinseca
di ciascun pezzo di montaggio; il che fatalmente tornerà a detrimento del montaggio, che
sortisce il suo effetto non dai singoli pezzi, ma dalla loro somma.
- 59 -
3. Solo l’impiego del suono in contrappunto con un pezzo di montaggio visivo offre nuove
possibilità di sviluppare e perfezionare il montaggio.
Le prime esperienze del sonoro devono essere pertanto indirizzate verso la non coincidenza del suono con le immagini.
Solo questo metodo di montaggio può produrre l’effetto voluto e, col tempo, porterà
alla creazione di un nuovo contrappunto orchestrale tra le immagini visive e le immagini
sonore.
4. La nuova scoperta tecnica non è casuale nella storia del film, ma lo sbocco naturale
dell’avanguardia cinematografica. E, in virtù di questa scoperta, sarà possibile sormontare
molti ostacoli altrimenti insuperabili.
Il primo di questi ostacoli è costituito dai sottotitoli, nonostante tutti i tentativi per
incorporarli nel movimento o nelle immagini del film.
Il secondo ostacolo è costituito dal cumulo di cose che bisogna spiegare: il che
sovraccarica la composizione delle scene e rallenta il ritmo.
Ogni giorno i problemi che riguardano il tema e il soggetto diventano più complessi.
E i tentativi che sono stati fatti per risolverli con sotterfugi scenici, d’ordine esclusivamente
visivo, o hanno lasciato insoluti quei problemi o hanno portato a un simbolismo troppo
fantasioso.
Il suono, considerato come nuovo elemento di montaggio (indipendente dall’immagine visiva), introdurrà senza dubbio un mezzo nuovo e molto efficace per esprimere e risolvere i complessi problemi contro i quali abbiamo finora urtato e che non abbiamo potuto
risolvere, data l’impossibilità di trovare una soluzione con l’ausilio dei soli mezzi visivi.
5. Il “ metodo del contrappunto ”, applicato alla creazione del film sonoro e parlato, non solo
non altererà il carattere internazionale del cinema, ma ne potenzierà il valore e la funzione
culturale.
Applicando questo metodo di costruzione, il film non sarà confinato nei limiti d’un mercato
nazionale, come avviene per i drammi teatrali e come avverrà per il teatro filmato. Inoltre, si
avrà una possibilità, ancora maggiore che per il passato, di far circolare nel mondo le idee
espresse nei film.
Ejzenstein, Pudovkin, Alexandrov
- 60 -
Gli studenti hanno organizzato un cineforum interno sui film aventi per soggetto il cinema.
Riportiamo due schede relative a “Sotto gli ulivi” ed Effetto Notte.
Scheda a cura di Donatella Pastore e Paola Pepe
“SOTTO GLI ULIVI”
di Abbas Kiarostami
IRAN-FRANCIA 1994
Titolo originale: Zir-e derakhtan-e zeytun.
Regia, soggetto e sceneggiatura: Abbas Kiarostami.
Fotografia: Hosein Jafarian, Farhad Saba.Musica: Farshid Rahimian (dal concerto per oboe ed
archi di D. Cimarosa).
Montaggio: Abbas Kiarostami.
Interpreti: Hosein Rezai, Tahareh Ladania, Mohamad Ali Keshavarz, Farhad Kheradmand, Zarifeh
Shiva, Ahmad Ahmadpour, Babak Ahmadpour.
Produzione: Kanun (Institute for the Intellectual Development of Children and Young Adults).
Distribuzione: BLM.
Origine: Iran, 1994.
Durata: 103'
IL REGISTA
Abbas Kiarostami è nato a Tehran (Iran) nel 1940. Si iscrive alla facoltà di Belle Arti, dove si
laurea in pittura e nel frattempo, per mantenersi agli studi, lavora come impiegato della polizia
stradale e poi come grafico pubblicitario disegnando manifesti, copertine di libri, affiches e titoli
di film. Tra il ’62 ed il ’68 realizza circa 150 spot pubblicitari. Entrato nel 1969 al “Kanun”,
l’istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e dei Giovani Adulti, ne organizza il Dipartimento Cinematografico, che diventerà uno degli studi di produzione più prestigiosi del paese, e
per il quale sceneggerà e dirigerà quasi tutti i suoi film, a cominciare dal cortometraggio “Il pane
e il vicolo”, realizzato nel 1970. Il primo lungometraggio, “Il Viaggiatore” del 1974, è tutto girato
in presa diretta, con materiali inadeguati, di fortuna e con attori non professionisti. Dopo tre anni
gira “Gli alunni della prima classe”, un documentario vero e proprio: per soggetto la vita di una
classe scolastica di bambini trasformata per l’occasione in uno scarno set.
Dal 1987 inizia a riscuotere un grande successo ai festival più importanti d’Europa.
Autore di punta della “ nouvelle vague” iraniana, oggi considerato cineasta di grande qualità ed
autentica rivelazione del cinema contemporaneo, Kiarostami ha ottenuto il primo riconoscimento
internazionale nel 1989 al Festival di Locarno con “Dov’è la casa del mio amico?”, che ha subito
trovato un ampia distribuzione nei paesi occidentali. Dopo “Close-up” (Rimicinema’90), ha ricevuto a Cannes nel 1992 il premio Rossellini per “E la vita continua...”; con “Sotto gli ulivi”
Kiarostami è stato oggetto di numerosi riconoscimenti internazionali e ha vinto in Italia l’edizione
’95 del Bergamo Film Meeting. “Il sapore della ciliegia” nel 1997 vince la Palma d’oro al 50°
Festival Internazionale di Cannes.
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LA TRAMA:
Un regista cerca attori per il suo film in mezzo alla gente delle campagne: siamo in un disperso
villaggio dove ancora sopravvivono antichissime usanze e codici comportamentali. I due protagonisti, trovati fra i contadini e le studentesse di un liceo, sono due giovani Hosseim e Assimira:
lui è un povero manovale analfabeta; lei una giovane studentessa di buona famiglia. Le riprese
del film subiscono numerose interruzioni a causa della storia d’amore contrastata nata fra i due
protagonisti.
La studentessa-attrice si rifiuta di rivolgere la parola al manovale-attore che ha chiesto alla
famiglia di lei di poterla sposare ricevendo, non solo risposta negativa, ma anche il divieto di
parlarle. Nel finale meraviglioso, il ragazzo continuando nel suo monologo, segue la ragazza fino
a casa cercando di strapparle una parola di assenso: la macchina da presa indugia lungamente
con un campo lunghissimo in un interminabile piano sequanza su un colle e lascia i due a camminare nell’immensa distesa verdeggiante, sotto una coltivazione di ulivi. Due piccoli puntini bianchi che si seguono fino a quando, improvvisamente, il ragazzo corre velocemente indietro: forse
è arrivato il SI.
DENTRO IL FILM:
Il film fa parte di quella che è stata ribattezzata la “Trilogia di Koker” dal nome del villaggio
scelto da Kiarostami per le riprese. Si tratta di tre film girati nella regione del Gilan, dei quali
solo il primo (“Dov’è la casa del mio amico?”) si dava come semplice finzione, mentre gli altri
due (“E la vita continua” e “Sotto gli ulivi”, appunto) erano piuttosto delle riflessioni sul legame del regista con la gente del posto, il rapporti tra il film e la realtà, il concetto e il realismo.
In “Sotto gli ulivi” Kiarostami smaschera la finzione necessaria a costruire il film precedente
ma, paradossalmente, lo fa attraverso un’ulteriore messa in scena: dal precedente “E la vita
continua”, nasce la storia di questo film che racconta le vicende dei due protagonisti chiamati a
interpretare un nuovo film.
Ciò che in definitiva è più interessante seguire, è il continuo slittare degli attori dei suoi film
dal contesto immaginario di “Dov’è la casa del mio amico?”, nel quale erano semplici personaggi a quello reale di “E la vita continua” nel quale era la loro umanità e sopravvivenza
concreta ad essere in gioco, quindi a quello della rappresentazione, né interamente vera, né
totalmente falsa che ce li restituisce nella loro “integrità” di personaggi, interpreti e individui in
“Sotto gli ulivi”.
In questo film, Hossein, un ragazzo scelto per interpretare la parte di un giovane sposo nel film
“E la vita continua” che, in realtà, è veramente il titolo di un film di Kiarostami, ha come
partner la giovane figlia del vicino della quale è “veramente” innamorato. Hossein, quindi, interpreta la parte del marito nel film e continua il suo corteggiamento “reale” quando le riprese
sono finite. “Sotto gli ulivi” indaga sul confine fra cinema e realtà, cinema e verità, realtà e
finzione che si mescolano in modo sorprendente raccontando la vita in modo semplice e sincero.
CRITICA E TECNICA:
“Il pubblico si siede davanti allo schermo proprio perché desidera restare bloccato sulla
poltrona ma al contempo viaggiare con la mente. Altrimenti non ha senso che il pubblico entri
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nelle sale cinematografiche, perché questo viaggio lo può fare da solo, all’esterno del cinema. Adesso che l’abbiamo inchiodato su questa sedia, abbiamo il dovere di fargli fare questo
viaggio”.
Sono parole di Abbas Kiarostami autore singolare di un cinema profondamente umanista, che,
dietro un’apparenza di semplicità assoluta, è abituato a lavorare con il minimo dei mezzi disponibili, in un paese pieno di problemi come l’Iran. È straordinario nel filmare i gesti più elementari e non si cura, se non in minima parte, dell’aspetto tecnico, ingaggia soltanto attori non
professionisti in molti casi presi dalla strada.
Artista che non teme confronti, complesso e raffinato, le sue pellicole sono una sorta di filmdocumentario dove troupe e gente del luogo si mischiano divenendo tutti attori. Maestro di una
sorta di neorealismo poetico, capace in uguale misura di ironia e tristezza, di pietà e cinismo, fra
i suoi ispiratori, cita sempre Roberto Rossellini e il cinema italiano:
“Ma io amo un cinema particolare, il cinema della scuola neorealista italiana”.
Tra i pochi aspetti tecnici che ritiene importanti, pone particolare attenzione al suono:
“Il suono è molto importante per me, più importante dell’immagine”(...), Attraverso la
ripresa visiva, noi arriviamo, al massimo, a ottenere una superficie bidimensionale. Il suono
conferisce a questa immagine la profondità, la terza dimensione. È il suono a colmare le
lacune dell’immagine”.
“Sotto gli ulivi”, Oscar 1996 come migliore film straniero, racconta il cinema e l’amore; ma
non l’amore occidentale, bensì quello persiano rappresentato nel paesaggio iraniano dopo il
terremoto che lo ha devastato nel 1990.
Solo quindici pagine di sceneggiatura e tanta improvvisazione in questo incredibile saggio di
cinema sul cinema, anche se nulla, come dichiara lo stesso regista, è lasciato al caso.
In generale, tanto nei documentari a scopo didattico, quanto nei film narrativi, le storie hanno
sempre per protagonisti dei bambini che si trovano a dover risolvere i propri problemi da soli,
scegliendo fra due soluzioni, spesso sacrificandosi.
La metafora è fin troppo evidente: anche il cinema, per sopravvivere, è costretto ad illudere lo
spettatore, in cambio di pochi spiccioli, ed a trasformare la realtà in illusione. Ciò che se ne
guadagna, però, è la possibilità di dar forma ai propri desideri e, Kiarostami, coerentemente, fa
di tutto, durante il suo percorso di cineasta, per rendere ciò possibile per ogni singolo spettatore
rifiutando il cinema come puro mezzo di intrattenimento o macchina per far soldi.
I bambini non sono solo l’unica alternativa praticabile per narrare la lotta tra la legge coranica,
ed il desiderio, ma sono anche i portatori di uno sguardo solo apparentemente ingenuo che, se da
un lato si limita a registrare il reale, è anche capace di riflettere su se stesso e sulla società con la
quale si deve confrontare.
Un accento nuovo rispetto ad altri film di Kiarostami è, appunto, l’amore, qui rappresentato
come un muro di gomma che la ragazza oppone al ragazzo che tenta di conquistarla.
Hosseim sa di essere analfabeta e di non avere nè denaro nè il rango di Assimira; ma a questo
conflitto di classe oppone la sua semplice visione del mondo: “se i ricchi sposano sempre i
ricchi e se quelli con la casa sposano sempre altri con la casa, i ricchi rimarranno sempre più
ricchi e con due case. Cosa ci fanno con due case: mica possono vivere in due luoghi diversi. È
meglio che chi ha una casa sposi chi non ha casa, e chi è ricco sposi chi non è ricco: così si sta
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tutti bene”.
Hosseim, orfano come Assimira, è ben radicato nella realtà: vuole sposarla a tutti i costi
malgrado le resistenze della ragazza.
Hosseim non ha solo l’umiltà della sua condizione, ma ha un’umiltà ancora più profonda che
gli viene dalla purezza del suo amore. Le sue parole sono povere, spesso inesatte, prive di
qualsiasi inutile abbellimento: sono schiette e asciutte, colpiscono direttamente al cuore.
Questa essenzialità è anche la sua più grande ricchezza: sa di essere un uomo semplice ma
anche profondamente autentico. La purezza e la bellezza del suo amore lentamente emergono fra
le macerie: in un paese profondamente sconvolto e devastato, l’amore di Hosseim è come un
fiore che fa capolino fra le rovine.
La semplicità di questo amore è anche la sua grande forza: Assimira non ha nessun argomento
per contrastarlo. Una potenza incredibile lo anima e lo sostiene. Il paese è distrutto, i genitori
sono morti, il passato è cancellato; ma l’amore riemerge a tratteggiare un futuro possibile, forse
l’unico possibile: quello disegnato dall’amore più puro.
Ciascuna parte del film rivela, ovviamente, una serie di significati che ci forniscono una
quantità di informazioni sulla società, la cultura iraniana e sulla realtà dei suoi protagonisti, ma
il suo valore principale emerge dalle relazioni che intrattiene con gli altri frammenti, sul piano
del credito che lo spettatore è disposto a dare a ciascun brano così come all’intero film.
In un mondo di immagini che si offrono allo sguardo logorante di un pubblico di consumatori
eccitati e distratti, Kiarostami ci restituisce alla nostra dignità di spettatori, facendoci tornare ad
assistere ad un cinema che si confronta continuamente con la vita, fatto di immagini necessarie,
che rinuncia talvolta a rappresentare per limitarsi a testimoniare, talvolta persino a mostrare per
non mortificare.
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“EFFETTO NOTTE”
Scheda a cura di Emiliano Lecce
“ Effetto notte” è un film francese del 1973, diretto con maestrìa e sguardo indulgente da
François Truffaut, uno dei maggiori esponenti della “Nouvelle Vague”, corrente cinematografica, nata negli anni 60 in Francia, che rivoluzionò il mondo del cinema, contrapponendosi al
Classicismo americano, basato sul divismo e gli ingenti mezzi di produzione, attraverso uno
stile più semplice e realista.
“Effetto notte” può essere considerato un film “metacinematografico”, poiché è un’esplicita
dichiarazione d’amore all’universo della celluloide, non a caso, già il titolo, rimanda ad un
trucco per la ripresa cinematografica, il “day full night”, un filtro scuro inserito davanti al
mirino della macchina da presa, utilizzato per le riprese notturne, realizzate in pieno giorno.
La trama del film è imperniata sulla realizzazione di un film fittizio, “Vi presento Pamela”:
attorno alla turbolenta lavorazione del film si incrociano rapporti conflittuali e nello stesso
tempo tra i protagonisti si intersecano relazioni basate sulla complicità; protagonista, appunto,
della pellicola è la troupe cinematografica, dal regista, i primi attori sino ai tecnici ed ai produttori.
Tra gli attori di “Effetto notte” possiamo annoverare lo stesso François Truffaut, nelle vesti
del regista Ferrand, Jacqueline Bisset nel doppio ruolo di Julie Baker/Pamela, Jean Pierre
Leàud nei panni dell’inquieto Alphonse, Jean Pierre Aumont che ricalca il personaggio di
Alexandre, ed infine Valentina Cortese, che ricopre il ruolo brioso dell’alcolizzata e vecchia
attrice Severine.
Proprio dai personaggi emergono riflessioni sul cinema, che portano e conducono verso
interessanti opinioni dal punto di vista sociologico, in parallelo con la vita :
“ I film sono più armoniosi della vita. Nei film non ci sono intasamenti, né vuoti, né tempi
morti. I film avanzano come treni nella notte.”
Così dichiara Ferrand/ Truffaut.
Il film è costellato da molteplici citazioni cinematografiche e da rimandi a film e a personaggi della storia del cinema: oltre agli omaggi ad Orson Welles, Alfred Hitchcock e Jean Renoir,
molto eloquente è la scena in cui al regista viene consegnato un pacco, con delle monografie,
dedicate a Bergman, Bresson, Dreyer, Lubitsch, Rossellini etc…
Ed anche Federico Fellini è citato attraverso la svanita Valentina Cortese/ Severine che
esclama:- Ho un’ idea! Perché non giriamo con i numeri? Lo faccio sempre, con Federico!”.
“Effetto notte”, oltre a costituire un omaggio al cinema, rappresenta anche il momento centrale della filmografia del regista francese, opera di ricapitolazione e bilancio del passato e di
apertura verso un nuovo periodo più sperimentale,che si concluderà nel 1983 col film “Finalmente domenica!”. Tra i segreti del film bisogna evidenziare l’apparecchio acustico indossato
da Ferrand nel film: l’idea di far portare un apparecchio acustico al suo personaggio è nata in
Truffaut per l’esigenza di staccarsi dalla realtà e riuscire a recitare con naturalezza, a non essere
più un regista, ma un attore che interpreta un regista; tra l’altro Truffaut non è nuovo a queste
“contaminazioni” di ruolo, aveva già recitato in “Il ragazzo selvaggio” e “ La camera verde”, da
lui diretti ed anche nel film di fantascienza “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg,
nel ruolo di Claude Lacombe.
In Truffaut è giusto evidenziare una sensibilità e una ponderatezza nel ricostruire situazioni
dall’intreccio molto complesso: tali doti verranno espresse nel film che, adorato dagli america- 65 -
ni, vincerà nel 1973 il premio Oscar come miglior film straniero.
“ La nuit americaine”, questo è il titolo originale del film, è strutturato come un film ad
incastro, una “matrioska cinematografica” in cui gli intrecci si dipanano all’interno di una cornice più grande: il film. Attorno ad esso, è naturale imbattersi in problemi d’ordine logistico,
economico e finanziario, al taglio del budget, al cambio di location, ma Truffaut aggiunge a
queste componenti tecniche un risvolto più umano, attraverso i problemi e le afflizioni esistenziali di ognuno dei personaggi, partendo proprio in prima persona, dal suo stesso ruolo: ossessionato dal film in fase di lavorazione, il regista è perseguitato nel sonno da un sogno ricorrente
che raffigura lui stesso, bambino, percorrere nel buio un viottolo ed indirizzarsi verso un cinema, per strappare dalla saracinesca e dalle inferriate alcune locandine ;i l riferimento autobiografico e allegorico è palese, come del resto anche la connotazione fortemente onirica della
scena.
Gli altri personaggi simulano per dimenticare le proprie nevrosi: il film per loro assorbe la
funzione di maschera da presentare in società, per coprire le proprie fragilità espresse fuori dal
set: Severine ( Valentina Cortese) è una vecchia alcolizzata, che vive nei ricordi del passato,
non accettando la propria decadenza, per amore del figlio morente, per Alphonse ( Jean Pierre
Leàud) il cinema non rappresenta un punto d’arrivo, una coronazione personale, perché è interessato alla sfera sentimentale della sua vita, che però vive con infantilismo e con eccesso di
drammaticità; Liliane (Dani), la sua effimera partner, utilizza il cinema come spassatempo e
diversivo, attribuendogli il ruolo di breve parentesi nella sua vita, mentre per Julie Baker (
Jacqueline Bisset) il cinema rappresenta il momento di rinnovarsi,la voglia di ricominciare, di
riscattarsi da una crisi depressiva, comunque sempre in agguato.
Da questo quadro complessivo della psicologia dei protagonisti, si può comprendere come
il cinema rappresenti una sorta di specchio riflettente della verità e della realtà, che vuole
riflettere sé stesso e la vita complementariamente, eludendo quel confine che nettamente li
separa; tra l’altro la profondità di Truffaut giunge ad elaborare un quadro psicologico, seppur
approssimativo, persino dei personaggi interpretati dagli attori fittizi, per esempio attraverso
qualche gesto e qualche frase si comprende come Pamela sia una ragazza moderna,emancipata
che però vive l’amore con passionalità ed irruenza, sovrastando scelte precedenti e calpestando i sentimenti altrui per un richiamo all’amore più forte della coscienza: se notiamo è lo stesso
atteggiamento di Alphonse per l’improvvisa ed irrazionale infatuazione per Julie. A proposito
di Alphonse, quest’ultimo nel corso della pellicola domanda a diversi membri della troupe
cinematografica se le donne siano magiche: la domanda nasconde in realtà, non tanto un interrogativo di tipo sentimentale, ma piuttosto un omaggio personale del regista a due attrici del
periodo del cinema muto, Lillian e Dorothy Gish, muse di David Wark Griffith; tale omaggio è
anche per il cinema che attorniava le due sorelle, un mondo di celluloide fatto di sogni e
sfavillanti successi. Anche altre attrici sono ricordate nel film e tutte hanno lavorato precedentemente con Truffaut: ad esempio il ruolo di Julie Baker, è ripreso da una vera attrice inglese,
Julie Christie mentre alcune battute che Julie, in un momento di sconforto, sussurra ( “ Ora so
che la vita è disgustosa”) e che verranno inserite nel copione definitivo, ricorda un identico
episodio che avvenne tra lo stesso Truffaut e l’attrice francese Jeanne Moreau durante la lavorazione di un suo film. Se da questi riferimenti traspare l’amore che il regista nutre per la sua
professione e l’ambiente di lavoro, non ci risparmia comunque opinioni contrastanti, che denunciano un’avversione per il cinema: l’acida moglie del segretario d’edizione ( Zenaide Rossi) si scaglia in un monologo concitato che esprime il suo schifo per il mondo del cinema, ma
ciò è tratto dal regista in chiave ridicola e grottesca.
Un altro aspetto presente nel film è il gioco costante del binomio vita/morte sia nella finzione che nella realtà: attraverso un incidente di macchina vediamo morire Pamela nella finzione e
poi Alexandre nella vita ; la prima morte è vissuta come spettacolarizzazione, per richiamare
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l’attenzione del pubblico fittizio mentre la morte di Alexandre addolora soprattutto chi teme il
blocco della lavorazione del film, ed è allora che Alexandre, seppur morto, rivive, per esigenza cinematografica, tramite un sosia figurante.
Il film, come già detto in precedenza, esamina tutti i punti della lavorazione del film,
focalizzando tra i vari momenti le varie tecniche di ripresa e in special modo vari trucchi di
scena come il camino con la fiamma “regolabile”, la candela “elettrica”, la schiuma sparsa
come neve per mezzo di idranti e tanti altri spassosi espedienti, dimostrando che attraverso
filtri, velatini, flou si può ricostruire un’ambientazione quanto più naturale.
“Effetto notte” quindi, svela allo spettatore i retroscena del set cinematografico demistificando l’aura di sogno che il cinema dovrebbe trasmettere, ma nello stesso tempo riesce a
trasmettere paradossalmente fascino e interesse puro per la settima arte e già altri film avevano osato svelare cosa si nascondesse dietro la fantasia di una pellicola: ad esempio Mario
Bava, maestro dell’horror gotico italiano, nella scena finale del suo film “I tre volti della
paura” mostra come Boris Karloff nell’episodio dei Wurdalak, non cavalcasse un vero cavallo ma piuttosto un’asse meccanico e come gli alberi, in realtà fossero fronde e rametti mossi
dagli assistenti di scena.
Oltre all’aspetto tecnico Truffaut offre un piccolo spazio anche alla frivolezza degli attori
con i loro capricci e al cinismo dei produttori e degli assistenti di scena, perché anche questi
aspetti fanno parte della vita sul set cinematografico: in verità “Effetto notte” è proprio un
concentrato di cinismo e umanità, di aspetti positivi e negativi che descrivono un mondo a
parte, ovvero il cinema; il film è attraversato da diversi riferimenti : “La regola del gioco” di
Jean Renoir, “Paura sul palcoscenico”di Alfred Hitchcock, poi Jean Cocteau e Max Ophuls:
tali citazioni dimostrano la cultura cinematografica del regista, ma intanto la scena che più
rimane impressa è quello scorrere incessante e vorticoso di pellicola durante il montaggio che
segna il passaggio da un mondo all’altro: dalla troupe ( gli Atridi secondo Alexandre/Aumont)
sino agli spettatori. Il film di Truffaut nasce paradossalmente da un ‘incidente’: da tempo
Truffaut aveva in mente l’idea di dedicare un film al cinema.
Rammentava di aver riflettuto quanto fosse stato interessante mostrare le piccole stranezze
del mestiere e tale occasione giunse sul set de “La peccatrice”di Jacques Demy, quando un
attore agli esordi si era messo a ridere scoprendo che, nel girare un interruttore, la luce veniva
in realtà accesa fuori campo da un elettricista: da un episodio spassoso prendeva inizio così
“Effetto notte” e la sua riflessione attorno al meraviglioso mondo del cinema…
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