Global - Italcementi Group
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Global 4 Più energia o più efficienza? More Energy or Smarter Use? di Nariman Behravesh e Emilio Rossi* by Nariman Behravesh and Emilio Rossi* Il potenziale esaurimento delle risorse del pianeta e gli effetti sul clima spingono a ricercare con urgenza soluzioni innovative The potential depletion of world resources and the impact on climate are driving urgent calls for innovative solutions Nariman Behravesh Crescita della domanda di energia, esaurimento delle risorse del pianeta, cambiamenti climatici, ascesa del prezzo del petrolio, fonti energetiche rinnovabili. Siamo destinati a un futuro senza oro nero? O le apocalittiche previsioni di un imminente picco della curva di produzione del greggio mascherano invece scarsi investimenti e gravi deficit tecnologici? Il nucleare rappresenta realmente la migliore soluzione a zero emissioni? Il dibattito è ancora aperto. Resta il fatto che nuove scoperte, maggiore sfruttamento, energie alternative e innovazione tecnologica nulla potranno senza una cooperazione internazionale più ampia ed efficace. Growing demand for energy, depletion of the planet’s resources, climate change, rising oil prices, renewable energy sources. Are we facing a future without oil? Or are the apocalyptic forecasts of an imminent peak in the crude production curve a cover for insufficient investment and serious technological shortcomings? Is nuclear energy really the best emission-free option? The debate continues. The fact remains that new discoveries, more effective utilization, alternative sources and technological innovation are nothing without wider and more constructive international cooperation. N egli ultimi due decenni, “sostenibilità” è diventata poco a poco una parola chiave per l’intero settore del mercato mondiale dell’energia. Un ampio consenso è stato ormai raggiunto tra politici, imprenditori e consumatori sul fatto che le modalità con cui l’umanità attualmente produce e consuma energia comportano un rischio molto elevato di esaurimento delle risorse del pianeta in un periodo di tempo relativamente breve. L’energia è essenziale per la vita umana e, sebbene il progresso tecnologico consenta una riduzione significativa del contenuto energetico per unità di prodotto, è impensabile un mondo privo di forme di energia sofisticate, per lo meno allo stato delle conoscenze tecnologiche attuali e di quelle ipotizzabili per il prossimo futuro. Questa semplice considerazione però non tocca tutti gli aspetti che si celano dietro la parola “sostenibilità”. Un altro elemento chiave della “sostenibilità” è la crescente preoccupazione per i cambiamenti climatici globali e i loro effetti sulle attività umane. In questo ambito, gli scienziati (con l’eccezione di alcuni scettici) sono concordi nel ritenere che le emissioni Emilio Rossi di anidride carbonica che derivano dalla produzione, trasformazione e consumo delle fonti energetiche stiano alterando il normale corso dei cicli climatici del pianeta. Il potenziale esaurimento delle risorse mondiali e le conseguenze climatiche richiedono con urgenza delle soluzioni innovative per il futuro dell’energia mondiale. Il presumibile esaurimento delle riserve di idrocarburi può ormai essere considerato un dato di fatto. Sarebbe meglio chiedersi, dunque, quando avverrà. Tra un paio di decenni? Tra un secolo? O forse, ancora più tardi? Qualunque sia la risposta, dobbiamo considerare una serie di condizioni fondamentali relative a ciò che accadrà nel lungo termine (diciamo tra cinquant’anni o oltre). • Dovrà essere adottato un nuovo approccio al consumo energetico. Una serie di studi, effettuati da organismi quali l’UN-IPCC (Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite), la IEA dell’Ocse (Agenzia Internazionale per l’Energia), la Commissione europea e l’EIA (Agenzia statistica del Dipartimento dell’Energia Usa), considerano la conservazione dell’energia un dovere di tutti e il fattore più importante per ridurre in modo significativo l’intensità energetica e le emissioni di anidride carbonica. La conservazione delle fonti energetiche richiede grandi investimenti, specialmente in impianti ed edifici di uso finale, sebbene secondo la IEA e altri studi, gli utili compenseranno abbondantemente l’investimento iniziale. La conservazione richiede anche un cambiamento delle abitudini legate all’uso dell’energia, con particolare attenzione al comportamento del singolo consumatore così come ai processi di produzione industriale, per minimizzare gli scarti e massimizzare il recupero dei materiali. • Sarà necessaria una combinazione di diverse fonti energetiche per ridurre l’uso dei combustibili fossili nella produzione di energia. Attualmente l’attenzione si concentra in particolare sulle fonti rinnovabili, tra le quali il nucleare rappresenta una possibile soluzione a zero emissioni, sebbene manchi ancora del necessario sostegno popolare. • In ogni caso, prima che l’energia solare, l’eolica, l’idrogeno e le biomasse possano sostituire completamente gli idrocarburi come fonti energetiche poco costose sono necessari dei progressi tecnologici di grande portata. Affinché queste tre condizioni si realizzino è necessario prendere provvedimenti e agire con urgenza, anche se dovremo sicuramente affrontare un lungo periodo di transizione in cui gli idrocarburi diventeranno sempre meno disponibili e di conseguenza sempre più costosi. La maggior parte degli studi internazionali sul futuro energetico del pianeta e sul potenziale esaurimento dei combustibili fossili indicano però che le riserve di petrolio 5 e gas naturale non saranno un problema almeno fino al 2030, considerando che nel frattempo si diffonderanno maggiormente nuove tecnologie e nuovi processi di raffinazione del petrolio (idrocarburi liquidi da gas naturale, petrolio non convenzionale, bio-fuels, nuove riserve). Uno dei principali studi viene dalla stessa industria petrolifera ed è stato condotto e recentemente pubblicato dal NPC (National Petroleum Council), un’organizzazione di 175 organismi che dipendono dal governo americano, sotto la direzione di Lee Raymond, ex amministratore delegato della ExxonMobil. Il gruppo che ha prodotto il rapporto comprendeva anche centri di ricerca privati, istituzioni accademiche, banche, agenzie governative e gruppi ambientalisti quali Resources for the Future e Alliance to Save Energy. Secondo il rapporto, carbone, petrolio e gas naturale rimarranno indispensabili nei prossimi decenni per rispondere alla prevista crescita globale della domanda di energia, ma “l’offerta globale di petrolio e gas naturale da fonti convenzionali…non potrà stare al passo…con la crescita della richiesta nei prossimi 25 anni”. In sintesi, la stessa industria petrolifera sostiene la necessità di ricercare nuove fonti di energia. Il rapporto, che ha richiesto quasi due anni di lavoro, fa eco alle preoccupazioni per l’incombente esaurimento di petrolio e gas naturale precedentemente espresse dalla IEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia dell’Ocse. Ovviamente qualsiasi stima relativa alla domanda futura di energia e di idrocarburi è soggetta a supposizioni e previsioni che implicano un certo numero di fattori che possono impattare significativamente sulle proiezioni stesse relative alla domanda di energia e alla sua composizione per fonti. Il mondo dell’energia raramente si sviluppa secondo percorsi prevedibili ed è soggetto a svariate influenze, che rendono complicato determinare in che modo ogni singolo fattore agirà sulla situazione futura, e tanto meno la combinazione di tutti i fattori in gioco. Fattori globali economici, politici e demografici Negli ultimi 25 anni, l’innovazione finanziaria, specialmente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ha prodotto consistenti flussi di capitale 6 da destinare agli investimenti, mentre l’integrazione europea e l’unione monetaria hanno gettato le basi per una finanza pubblica più sana, inflazione contenuta e tassi di interesse più bassi in Europa. L’avvento della moneta unica europea ha inoltre consentito ai paesi dell’Unione di diversificare le proprie attività di riserva in valuta estera, riducendo così i rischi in ambito finanziario. Allo stesso tempo, la perdurante tendenza verso la globalizzazione ha consentito alle grandi multinazionali di rilocalizzare le proprie attività produttive in aree a basso costo della manodopera e delle risorse naturali, contribuendo al contenimento dei prezzi nonostante gli aumenti sostanziali di petrolio e materie prime. Il boom cinese basato sul basso costo del lavoro è solo un esempio del sostanziale contributo alla disinflazione mondiale fornito dai paesi in via di sviluppo. Per completare il quadro, la caduta del comunismo e la fine della Guerra fredda hanno portato a un “dividendo di pace”, sotto forma di una riduzione delle spese per la difesa e più intensi rapporti di collaborazione e scambi commerciali tra i blocchi un tempo antagonisti. La fine della Guerra fredda ha inoltre facilitato il passaggio all’economia di mercato in molti paesi industriali occidentali traducendosi in una incisiva deregolamentazione, privatizzazione delle proprietà statali, maggiore flessibilità del mercato del lavoro, liberalizzazione commerciale, ecc. Considerati i precedenti storici, è possibile fare delle ragionevoli ipotesi sui possibili scenari dei prossimi 25 anni, fino al 2030. I soggetti che si sono avventurati sul terreno delle previsioni per la domanda futura di energia, quali l’UN-IPCC, la EIA americana, la IEA dell’Ocse e Global Insight, hanno formulato ciascuno le proprie proiezioni in materia di crescita economica, che differiscono però sia per dimensioni della crescita sia per il diverso contributo delle singole aree del pianeta. In generale però ci si aspetta che la crescita annuale del Prodotto interno lordo mondiale si stabilizzi tra il 3,5% e il 4%, accompagnata da un’ulteriore progressiva liberalizzazione dei mercati e del commercio mondiale. Lo sviluppo del mercato economico e finanziario in Cina, e nell’Asia in generale, consentirà un progressivo aumento della produttività totale, compensando in questo modo il minore contributo dei singoli fattori produttivi. Per contro, minori e più lenti saranno i miglioramenti di efficienza sui mercati europei dei capitali e del lavoro, e il problema sarà aggravato dalla frammentazione politica dell’Europa e dei paesi europei: con il risultato che l’Europa non raggiungerà il suo pieno potenziale di crescita. Infine, l’instabilità politica continuerà a frenare l’Africa e il Medio Oriente, che rimarrà un’area di importanza fondamentale per il mercato del petrolio e dell’energia. Un altro elemento chiave nelle previsioni relative alla domanda energetica è la crescita demografica. Numerosi osservatori usano proiezioni demografiche basate sui rapporti delle Nazioni Unite, che prevedono un aumento medio annuo dell’1% fino al 2030, per un totale di 8,1 miliardi di persone (dai 6,4 miliardi del 2004). Sviluppo tecnologico L’attuale livello di know-how tecnologico senza precedenti è il risultato di un processo di evoluzione sostanzialmente costante dall’inizio dell’era industriale fatto di progressi continui piuttosto che svolte epocali. Negli ultimi 25 anni sono state introdotte numerose innovazioni tecnologiche correlate all’energia, con un significativo effetto positivo sull’equilibrio tra domanda e offerta. Queste innovazioni hanno interessato sostanzialmente tutti gli ambiti del settore energetico: la produzione di energia primaria ha registrato rapidi incrementi di produttività nell’attività estrattiva, grazie a piattaforme per profondità sempre maggiori, sistemi di trivellazione orizzontale, miglior recupero delle riserve di petrolio, come pure l’iniziale sviluppo e produzione di idrocarburi non convenzionali. Nel campo della generazione e trasformazione di energia, si è ottenuto un miglioramento dell’efficienza dal 52% al 58% (potere calorifico inferiore, al netto delle perdite di calore dell’impianto); la commercializzazione di turbine a gas a ciclo combinato (CCGT) ha conquistato importanti quote di mercato e la capacità delle turbine eoliche è passata da meno di 100 kW a quasi 5 MW per unità, senza considerare l’avviamento di turbine eoliche off-shore. La tecnologia ha inoltre consentito una riduzione dei costi di trasporto del gas naturale liquefatto (LNG) insieme a una serie di miglioramenti di efficienza dei prodotti di consumo (lampadine, elettrodomestici bianchi, automobili, ecc.). Non c’è alcun motivo per ritenere che questa tendenza debba arrestarsi. Se non altro, il probabile aumento del prezzo degli idrocarburi favorirà ulteriori attività di Ricerca & Sviluppo nel settore energia, che probabilmente contribuiranno a produrre una decisa accelerazione del progresso tecnologico. I progressi nella scienza dei materiali, nelle nuove tecnologie delle batterie, nel costo del kWh di energia solare e nella tecnologia dei bio-fuels, nello sviluppo commerciale dell’energia prodotta dalle maree e nella diffusione capillare di contatori intelligenti per gas ed elettricità sembrano ormai a portata di mano. Prevedere il prezzo del petrolio e la domanda globale di energia Il primo fattore da considerare nel tentativo di descrivere uno scenario globale dei mercati energetici del futuro è il prezzo del petrolio e i suoi effetti sulla domanda e sulla produzione tanto dello stesso petrolio quanto delle altre fonti di energia che in relazione a questo possono diventare più o meno competitive, modificando di conseguenza il quadro degli investimenti in ricerca in una o nell’altra fonte. Diversi istituti di ricerca si sono cimentati in previsioni sul prezzo del petrolio raggiungendo risultati dissimili, anche se tutti distribuiti comunque entro una banda di oscillazione non troppo ampia. In particolare, secondo le previsioni di Global Insight il petrolio, sostanzialmente su alti livelli in termini nominali, registrerà invece una lenta flessione in termini reali. Tale ipotesi si basa su una serie di considerazioni, prima fra tutte il fatto che il costo attuale del petrolio è in qualche modo influenzato da un “effetto paura” dettato dalla cosiddetta sindrome del “picco del petrolio”. In secondo luogo, se da un lato la produzione di greggio convenzionale non-OPEC avrà molto probabilmente un picco prima del 2020, dall’altro il greggio convenzionale OPEC, le frazioni liquide del gas naturale (NGL) OPEC e non-OPEC, più l’aumento dei bio-fuels e di altre fonti energetiche (GTL-idrocarburi liquidi da gas naturale, petrolio pesante, sabbie bituminose) aiuteranno a soddisfare la domanda. La Figura 1 illustra il contributo relativo alla produzione globale di petrolio. Sulla base dei recenti sviluppi economici, politici, demografici, tecnologici, dell’aumento del prezzo del petrolio e dello scenario descritto precedentemente, riteniamo abbastanza probabile un trend della domanda globale di energia fino al 2030, come descritto nella Figura 2. Bisogna sottolineare che le proiezioni proposte dalla IEA dell’Ocse, dalla EIA americana, da Global Insight e altri autorevoli organismi si muovono all’interno di una oscillazione piuttosto modesta, anche se si registrano alcune differenze, specialmente nel contributo relativo di alcune fonti. Il dato più rilevante che emerge dall’analisi delle diverse previsioni, come risulta chiaramente anche dalla Figura 2, è che gas naturale, petrolio e carbone sono le tre fonti che aumenteranno Figura 1 – PREVISIONI DELLA PRODUZIONE MONDIALE DI PETROLIO (in milioni di barili al giorno) maggiormente in termini assoluti. In altre parole, i combustibili fossili continueranno a fare la parte del leone nello scenario del consumo energetico mondiale. Le fonti rinnovabili (che nel grafico comprendono anche le biomasse) registreranno l’incremento più sostenuto, ma il loro contributo totale alla copertura della domanda energetica nel 2030 rappresenterà poco più del 10%. L’uso dell’energia nucleare è il dato su cui le stime discordano maggiormente, specialmente dopo il 2015. Se secondo la IEA e Global Insight entrerà realmente in funzione solo un numero limitato degli impianti pianificati e in fase di progetto – e il loro contributo consisterà prevalentemente nella sostituzione degli impianti in via di smantellamento – la EIA americana ne prevede invece una crescita più sostenuta a partire dal 2015, pur riconoscendo che il contributo del nucleare rimarrà comunque marginale. Un’altra importante indicazione che emerge dalla Figura 2 è che l’influenza di ciascuna fonte sul totale non subirà variazioni considerevoli rispetto alla situazione odierna. Aumenterà la contribuzione del gas naturale, ma le fonti rinnovabili non sembrano raggiungere quel livello di diffusione che potrebbe garantire una significativa riduzione delle emissioni di anidride carbonica. La sensazione è, dunque, che, nonostante il Protocollo di Kyoto e le preoccupazioni che circolano tra scienziati, politici e consumatori, gli appelli per nuove fonti di energia pulita e per un cambiamento nel comportamento dei consumatori non porteranno a nessuna reale novità nel mondo dell’energia…e che in realtà stiano solo facendo “molto rumore per nulla”. *Nariman Behravesh è direttore del Dipartimento di Economia Globale e vice presidente esecutivo di Global Insight. Prima di collaborare con Global Insight, è stato direttore del Dipartimento di Economia Internazionale di Standard & Poor’s. Emilio Rossi è direttore dell’European Consulting per Global Insight, sede di Milano, Italia. Figura 2 – ANDAMENTO DELLA DOMANDA ENERGETICA 7 8 I n the last two decades, “sustainability” has gradually become a keyword for the world energy markets and stakeholders. A wide consensus has been reached among policy makers, business and consumers that the way mankind is currently producing and using energy will lead to a very high risk of depletion of world resources within a relatively short space of time. Energy is essential to human life and, although technological progress has enabled a significant reduction in energy content per unit of production and use, a world lacking sophisticated forms of energy is inconceivable, at least as far as current and foreseeable technological knowledge is concerned. But this simple consideration does not cover all the issues behind the word “sustainability”. Another key element of “sustainability” is the increasing concern over global climate change and its impact on human activities. In this area, it is the scientists (with the exception of some skeptics) who have reached a consensus that carbon emissions from the production, transformation and consumption of energy sources are altering the normal course of world climate cycles. The potential depletion of world resources and the impact on climate are driving urgent calls for innovative solutions for the future of world energy. The eventual exhaustion of hydrocarbon reserves can be taken as fact. The question is, when will it occur? In a few decades? In a century? Or, maybe, even later? Whatever the answer, we need to consider a number of key conditions regarding the very long term (say 50 years or longer). • A new approach to energy consumption will have to be achieved. A number of studies, from authorities including the UN-IPCC (United Nations Intergovernmental Panel on Climate Change), the OECD-IEA (International Energy Agency), the EC (European Commission) and the US-EIA (Energy Information Administration), consider energy conservation a must and the single most important factor that can curb significantly energy intensity as well as carbon emissions. Energy conservation requires large investments, especially in end-use equipment and buildings, although, according to the IEA and other studies, the returns will more than compensate for the initial investment. Conservation also requires a change of habits in the use of energy, with attention on the behavior of the individual consumer as well as on industrial production processes, in order to minimize waste and maximize recycling. • A portfolio of different sources will be needed to reduce the use of fossil fuels in the production of energy. The current focus is on renewable sources, with nuclear representing a possible emission-free solution, but popular support needs to be built up. • Nevertheless, major technological breakthroughs will be required before solar, wind, hydrogen and biomass fully substitute hydrocarbons as non-expensive energy sources. While action is taken to put these three conditions in place, we shall experience a long period of transition during which hydrocarbons will become less and less available and consequently more and more expensive. However, the majority of international studies on the world’s energy future and the potential shortage of oil and gas conclude that oil and natural gas reserves will actually not become a problem until at least 2030, as new technology and new ways to produce oil become more common (natural gas to liquids, unconventional oil, bio-fuels, new reserves). One of the main studies comes from the oil industry itself—it was produced and recently released by the NPC, the National Petroleum Council, a body of 175 authorities that reports to the US government, under the direction of Lee Raymond, former CEO of ExxonMobil. The team that produced the report also included private research centers, academic institutions, banks, government agencies and environmental groups like Resources for the Future and the Alliance to Save Energy. According to the report, coal, oil and natural gas will remain indispensable in the next few decades to meet total projected growth in energy demand, but, it concludes, “the global supply of oil and natural gas from the conventional sources ... is unlikely to meet ... growth in demand over the next 25 years”. In a nutshell, the oil industry itself is advocating the need to search for new energy sources. The report, which took almost two years to produce, echoes the concern about impending oil and natural gas shortages previously voiced by the International Energy Agency of the OECD. Naturally, any estimate of future energy and hydrocarbon requirements is subject to assumptions and forecasts regarding a number of factors with a significant impact on projected energy demand and its composition by fuel. The energy world rarely develops in a predictable manner and is subject to varying influences, making it difficult to determine how any single factor will affect the future, let alone the combination of all the factors in play. Global economic, political and demographic drivers Over the last 25 years, financial innovation, especially in the United States and the United Kingdom, has freed up significant amounts of capital for investment, while European integration and monetary union has set the stage for healthier public finances, lower inflation and lower interest rates in Europe. The advent of the single European currency has also allowed countries to diversify their foreign reserve assets, thus lowering risks in the financial environment. At the same time, the constant trend toward globalization has allowed corporations to re-locate their production facilities to areas where resources (both natural and labor) are cheaper, helping to keep prices down despite substantial rises in oil and commodities prices. The Chinese boom based on cheap labor is just one example of how the developing countries are contributing to worldwide disinflation. To complete the picture, the fall of Communism and the end of the Cold War has brought a “peace dividend”, in the form of a reduction in defense expenditure and a higher level of collaboration and trade between the formerly antagonist blocks. The end of the Cold War has also facilitated the shift toward market-driven economies in many Western industrial countries. This has translated into significant deregulation, sales of state ownership in companies, greater flexibility on labor markets, freer trade, etc. Given this historical background, some reasonable assumptions may be made regarding the probable economic scenario for the next 25 years, or until 2030. The bodies that have ventured into forecasting future energy demand, such as the UN-IPCC, the US-EIA, the OECD-IEA and Global Insight, have each formulated their own economic growth projections, which differ with regard both to the scale of growth and to the contribution of each world region to growth. Overall, however, the expectation is that the annual growth in world GDP will stabilize between 3.5% and 4%, accompanied by further gradual liberalization of markets and global trade. Economic and financial market developments in China and in Asia generally will allow for progressive increases in Total Factor Productivity, thus offsetting declining contributions from factor inputs. On the other side of the coin, efficiency improvements will be slow in coming in Europe’s capital and labor markets, and the problem will be exacerbated by the political fragmentation of Europe and European countries, with the result that Europe will not achieve its full growth potential. Finally, political instability will continue to hamper Africa and the Middle East, which will remain a crucial region for the oil and energy markets. Another key element in forecasting energy demand is population growth. Most observers use population projections based on UN reports, which forecast an annual average increase of 1% until 2030, for a total of 8.1 billion people (from 6.4 billion in 2004). Technological developments The unprecedented level of technological knowledge currently available is the result of a process of fairly steady evolution since the start of the industrial age. Evolution has been the trend, rather than breakthroughs. In the last 25 years, many energy-related technological improvements have been introduced, with a significantly positive effect on the demand/supply balance. These improvements have taken place in basically all energy areas. Production of primary energy has seen rapid productivity gains in extraction, greatly increased water depths for platforms, horizontal drilling and enhanced recovery for oil reserves, as well as initial development and production of unconventional hydrocarbons. In the field of power generation and energy transformation, an increase in efficiency from 52% to 58% (lower calorific value, net of plant) has been achieved, commercialization of combined-cycle gas turbines (CCGTs) has obtained substantial market share and wind-turbine capacity has increased from less than 100 kW to nearly 5 MW per unit, while off-shore wind turbines have also gone into operation. Technology has also brought cost reductions in transport of liquefied natural gas (LNG), while a range of efficiency gains has been achieved in many consumer goods (light bulbs, white goods, automobiles, etc.). There is no reason to expect this trend to stop. If anything, the probable increase in the price of hydrocarbons will allow for additional R&D in the energy field, most likely bringing even faster technological progress. Developments in materials science, in new battery technology, in the cost per kWh of solar power and in bio-fuel technology, commercial development of tidal power and widespread penetration of smart meters for both gas and power are on the cards. Forecasting oil prices and global energy demand The first factor to forecast when attempting to depict a future global scenario of energy markets is the price of oil, which affects demand as well as the production of oil and other energy sources, the latter becoming relatively more or less competitive, thus changing the picture for investment in research in each of the sources. Different institutions provide different oil price forecasts, however the range within which the oil price path moves is not enormous. In particular, the Global Insight forecast expects the oil price to stay at high levels in nominal terms, and so slowly decrease in real terms. This is based on a number of considerations. First, that the current oil price is somehow driven by a “fear premium” related to the so-called “oil peak” views. Second, if on the one side, non-OPEC conventional crude oil production will most likely peak before 2020, on the other OPEC conventional crude oil, OPEC and non-OPEC natural gas liquids (NGL), plus increasing bio-fuels and other supply sources (gas-to-liquids—GTL, heavy oils, tar sands) will help to 9 10 meet demand. Figure 1 shows the relative contribution to oil production. On the basis of recent economic, political, demographic, technological and oil price developments and the scenario outlined above, we are looking at a foreseeable trend in global energy demand until 2030 as illustrated in Figure 2. It should be said that the projections from the OECD-IEA, the US-EIA, Global Insight and the other most reliable forecasters move within a reasonably narrow range, albeit with some differences, especially in the relative contribution of some sources. The most striking evidence that emerges from analysis of the various forecasts, and is also clear in Figure 2, is that natural gas, oil and coal will be the three sources that increase the most in absolute terms. In other words, fossil fuels will continue to account for the lion’s share of the world energy consumption pie. Renewables (which in the graph also include biomass) will show the fastest increase, but their total contribution to meeting energy demand in 2030 will still be little more than 10%. Use of nuclear power is the factor on which estimates differ most, especially after 2015. While the IEA and Global Insight believe that few of the planned plants currently being discussed will come into operation and that Figure 1 – GLOBAL OIL SUPPLY OUTLOOK (Million barrels per day) their contribution will mostly be a replacement for the plants being decommissioned, the US-EIA expects faster growth after 2015; yet the US-EIA, too, believes the contribution of nuclear will remain marginal. Another important indication that emerges from Figure 2 is that the share of each source over the total will not vary greatly with respect to today. Natural gas will increase its share, but renewables do not appear to achieve the level of penetration that could assist a significant reduction in CO2 emissions. It would seem then that despite the Kyoto Protocol and concerns over emissions among scientists, policy makers and consumers, the calls for new clean sources and for a change in consumer behavior will not actually bring about much real change in the energy world … that they are in fact “much ado about nothing”. * Nariman Behravesh is Chief Global Economist and Executive Vice President for Global Insight. Before joining Global Insight, Dr. Behravesh was Chief International Economist for Standard & Poor’s. Emilio Rossi is Managing Director European Consulting for Global Insight, based in Milan, Italy. Figure 2 – TREND IN ENERGY DEMAND La prossima rivoluzione industriale nei sogni dell’Europa The Next Industrial Revolution in the Dreams of Europe di Andris Piebalgs* by Andris Piebalgs* La Ue vuole guidare da subito la lotta mondiale al riscaldamento globale The EU wants to take the immediate lead in the world struggle against global warming Andris Piebalgs C i troviamo di fronte a un periodo di estrema complessità per il settore dell’energia mondiale e per l’umanità intera. La domanda di energia è destinata a una crescita superiore al 50% entro il 2030, mentre la popolazione mondiale dovrebbe aumentare da 6,6 a più di 9 miliardi. Se l’attività industriale manterrà i ritmi attuali, il drastico aumento della domanda energetica finirà col costituire una minaccia per l’economia globale e per il clima: maggiore consumo energetico significa infatti aumento delle emissioni di anidride carbonica e si stima che entro il 2030 le emissioni di CO2 avranno subito un incremento del 110%. I cambiamenti climatici sono già sotto gli occhi di tutti: i segnali che confermano l’esistenza del problema sono inequivocabili e la comunità scientifica è concorde. Il Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (UN-IPCC) ha lanciato messaggi molto forti a riguardo: diventa sempre più evidente che senza un’azione vera ed efficace, gli effetti sull’ambiente, sull’economia e sul nostro stile di vita saranno terribili. I cambiamenti climatici sono già al centro dell’agenda politica della maggior parte dei paesi sviluppati, sebbene i loro effetti colpiscano principalmente le nazioni più povere del mondo. Dobbiamo renderci conto che abbiamo a disposizione solo un brevissimo lasso di tempo per affrontare il problema: sarebbe già troppo tardi anche solo se il mondo aspettasse un decennio, o poco più, per intervenire. Ciò significherebbe aver lasciato ai nostri figli e ai nostri nipoti la pesante eredità dei cambiamenti climatici che, a quel punto, non potranno più essere risolti. Siamo giunti a una svolta e fortunatamente sembrano esserci discrete possibilità che il mondo agisca all’unisono per affrontare questa sfida. Possiamo solo sperare che le azioni non siano troppo modeste e che non arrivino troppo tardi. Ma credo che riusciremo a vincere la battaglia, per un motivo che è stato espresso recentemente e molto chiaramente da Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute della Columbia University, in una serie di conferenze sul tema. Il professor Sachs rileva che già negli anni Novanta il pianeta si era trovato ad affrontare un problema simile con i cloro-fluoro-carburi (CFC) che stavano distruggendo lo strato di ozono dell’atmosfera e in quella occasione la funzione della cooperazione internazionale era stata determinante. Sachs ricorda che le azioni intraprese per risolvere la questione dei CFC seguirono un processo a cinque fasi. Nella prima fase, il mondo scientifico identificò il problema. Nella seconda, gli interessi colpiti – in questo caso i produttori di CFC e aerosol – contestarono pubblicamente e attivamente gli scienziati. Fortunatamente la natura e le leggi della fisica hanno un sistema per superare gli interessi costituiti: nel caso dei CFC, furono le foto del buco nello strato d’ozono scattate dalla Nasa. La terza fase fu dunque quella dell’accettazione pubblica, ovvero la presa di coscienza da parte di tutti del fatto che il problema toccava ognuno di noi e avrebbe avuto effetti sulla vita dei nostri figli e dei nostri nipoti. Questa consapevolezza rappresentò un primo invito all’azione, cui seguì la mobilitazione degli scienziati, in cerca di soluzioni. Per giungere così, infine, alla fase cruciale, quando le aziende, precedentemente scettiche, sussurrarono all’orecchio dei politici, “va bene, potete raggiungere un accordo, siamo in grado di gestire il problema”. E a quel punto, si riuscì ad arrivare rapidamente a un accordo internazionale. Il dibattito sui cambiamenti climatici sta seguendo lo stesso percorso. Sebbene il riscaldamento globale sia stato identificato per la prima volta nel 1896, solo recentemente – dopo gli uragani, il progressivo scioglimento dei ghiacciai e gli allarmanti e statisticamente significativi aumenti delle temperature medie – è stato accettato dalla comunità globale. E ora si comincia a comprendere che i cambiamenti climatici rappresentano, in effetti, un problema che ci colpisce tutti personalmente. Dopo un’iniziale reazione di scetticismo nei confronti della scienza, alimentata anche dagli interessi in gioco, si sta diffondendo finalmente in tutto il pianeta una coscienza pubblica della necessità di agire, che trova concorde anche il mondo scientifico. Credo di poter dire che stiamo entrando nella fase finale in cui le aziende cominciano a sussurrare all’orecchio dei politici “va bene, potete raggiungere un accordo, siamo in grado di gestire il problema”. L’Unione europea è determinata ad assumersi pienamente le proprie responsabilità nella lotta al riscaldamento globale. Considerato che il Vecchio Continente è uno dei maggiori consumatori mondiali di energia e uno dei principali produttori di gas a effetto serra, appare ovvia la necessità di una nuova politica europea in materia di energia per affrontare questa sfida. La Ue ha adottato un piano d’azione globale per pilotare una nuova politica energetica europea. L’obiettivo è quello di garantire la sostenibilità dell’energia che usiamo, la sicurezza dell’approvvigionamento e la competitività dell’economia. Ci siamo impegnati nella più ampia riforma della politica energetica europea mai intrapresa, una riforma che porterà a una fondamentale inversione di rotta. Il punto di partenza è un obiettivo strategico: un nuovo orientamento della politica energetica che possa consentire alla Ue di ridurre le proprie emissioni di gas serra del 20% entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990. Questo significa trasformare l’Europa in un’economia altamente efficiente sotto il profilo energetico e a basse emissioni di CO2, innescando una sorta di nuova rivoluzione industriale 11 nella politica energetica europea. Questi sono i provvedimenti auspicati dalla Commissione. • Revisione del sistema di scambio delle quote di emissione (ETS-Emissions Trading Scheme) e prolungamento di questo a oltre il 2012; integrazione di tutti gli emendamenti necessari a garantire l’obiettivo di riduzione del 20% dei gas serra entro il 2020; intensificazione degli sforzi per il raggiungimento di un accordo globale sui cambiamenti climatici. • Presentazione della nuova “Direttiva Ombrello sulle Energie Rinnovabili”. Il documento darà un contributo concreto all’accettazione da parte del Consiglio europeo degli obiettivi nazionali legalmente vincolanti in materia di energie rinnovabili. L’obiettivo del 20% di energie rinnovabili entro il 2020 è molto ambizioso e sono in parecchi a pensare che sarà molto difficile da raggiungere. Ma se permettiamo a noi stessi di accettare l’idea che un simile livello di energia rinnovabile sia “impossibile”, dobbiamo anche accettare l’idea che lasceremo ai nostri figli e ai nostri nipoti l’eredità del riscaldamento globale. Se tutta l’Europa seguisse l’esempio di Germania e Danimarca nell’utilizzo delle energie rinnovabili, il traguardo del 20% sarebbe a nostra portata di mano. Nonostante altre voci discordanti secondo le quali sarà comunque un obiettivo troppo costoso, dal mio punto di vista resta il fatto che non possiamo permetterci di non intraprendere questo passo. • Implementazione di una serie di iniziative sull’efficienza energetica, dagli standard minimi di produzione a una migliore etichettatura, dai codici di costruzione aggiornati e migliorati a sistemi di trasporto più efficienti nelle città europee. Il potenziale in questo ambito è enorme, non solo per quanto riguarda la riduzione delle emissioni ma anche per l’incremento della competitività europea. Tra i diversi progetti in corso, la Commissione intende inoltre gettare le basi di un nuovo accordo internazionale sull’efficienza energetica. Tale accordo potrebbe consentire all’Ocse e ad alcuni paesi chiave tra quelli in via di sviluppo di concordare approcci comuni per il contenimento dei consumi di energia. Il potenziale risparmio energetico e la riduzione delle emissioni di anidride carbonica sono enormi: una maggiore efficienza energetica potrebbe ridurre le emissioni nella Ue del 20% circa rispetto allo scenario di partenza. • Avvio dei lavori della Commissione per rispondere all’invito del Consiglio europeo per il lancio di un’Iniziativa strategica europea in materia di tecnologie energetiche. Questo è un aspetto fondamentale della nuova politica energetica europea e personalmente ritengo possa essere la chiave di volta per trasformare le problematiche connesse ai cambiamenti climatici e alla sicurezza energetica in un vantaggio competitivo. Come in tutte le rivoluzioni industriali, il successo nella lotta al cambiamento climatico sarà determinato dalla tecnologia. Questo significa una nuova generazione di impianti a efficienza energetica, tecnologie di sequestro dell’anidride carbonica e nuovi materiali per permettere l’abbattimento dei costi dell’energia eolica e fotovoltaica, per citare solo alcune delle innovazioni tecnologiche possibili. Non ha infatti alcun senso che l’Europa guidi il pianeta nella lotta ai cambiamenti climatici ma non sia poi all’avanguardia © European Community 2007 12 nel creare la prossima generazione di tecnologie a bassa emissione di anidride carbonica. La quota di risorse economiche messe a disposizione per finanziare la ricerca in materia di energia, incluse le energie rinnovabili, l’efficienza energetica e il sequestro di CO2, sarà ampliata significativamente nel 7° Programma quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico (FP7) della Ue. • Da ultimo, vorrei sottolineare la necessità di una politica estera comune in materia di energia che accresca la capacità dell’Unione di sostenere e promuovere la cooperazione con il resto del mondo. La politica energetica è una delle maggiori sfide che ci troviamo ad affrontare e in questo quadro rientra il lancio voluto dalla Commissione di un partenariato Ue-Africa per l’energia. La nostra attenzione si concentra sul rafforzamento del dialogo tra Africa e Unione europea sull’accesso all’energia e sulla sicurezza energetica, sull’aumento degli investimenti per le infrastrutture energetiche, compresa la promozione dell’efficienza energetica e delle energie rinnovabili, e sulla creazione di un ambiente favorevole a integrare la questione dei cambiamenti climatici e dell’energia nell’agenda di cooperazione allo sviluppo. Il riscaldamento globale è una sfida planetaria e la sicurezza energetica può essere incrementata esclusivamente a fronte di una vera azione internazionale. L’Unione europea, in quanto mercato energetico integrato più grande del mondo, può dettare il passo su questi temi ma deve riuscire a conquistare altri partner. L’interesse mostrato dall’Unesco rispecchia la necessità della più ampia coalizione internazionale per affrontare problemi quali la © European Community 2007 riduzione dei gas a effetto serra, il miglioramento dell’efficienza energetica, lo sviluppo di fonti di energia sostenibili e azioni per contrastare la scarsità di energia. Abbiamo una responsabilità collettiva nei confronti di tutti i nostri concittadini per preparare le basi a un futuro migliore. Il mercato e le tecnologie da sole non risolveranno tutti i nostri problemi. Se vogliamo invertire le attuali tendenze abbiamo bisogno di politiche forti e una reale volontà. L’industria, come sempre, non è una soluzione; ci vuole l’azione. La nostra nuova Politica Energetica per l’Europa è la risposta dell’Unione europea: una risposta ambiziosa, un piano d’azione per contrastare la minaccia dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale. Potrebbe essere considerata come l’inizio di una nuova rivoluzione industriale nell’uso dell’energia nei paesi dell’Unione europea. * Andris Piebalgs ha assunto il ruolo di commissario per l’Energia nel novembre 2004. Dall’allargamento della Ue del 1° maggio 2004, quando i commissari dei nuovi stati membri sono entrati a far parte della Commissione europea, ha diretto il Gabinetto del commissario lettone Sandra Kalniete. Prima di entrare a far parte della Commissione europea, ha lavorato in ambiente diplomatico per quasi dieci anni, prima come ambasciatore lettone in Estonia e poi come ambasciatore lettone presso l’Unione europea, fino al 2003. Successivamente è stato sottosegretario di stato per gli Affari Europei presso il Ministero lettone degli Affari Esteri. In Lettonia Piebalgs è stato ministro dell’Istruzione dal 1990 al 1993 e ministro delle Finanze dal 1994 al 1995. T hese are challenging times for the world’s energy sector and for mankind. Demand for energy is set to increase by more than 50% by 2030, the global population is expected to grow from 6.6 billion to more than 9 billion people. If business continues as usual, this dramatic increase in energy demand will pose a threat to the global economy and to the climate, since increased energy consumption will be accompanied by a rise in CO2 emissions. By 2030, CO2 emissions would have increased by 110%. Climate change is already visible to us all. Evidence about its reality is overwhelming and the scientific community unanimous. The Intergovernmental Panel on Climate Change (UN-IPCC) has issued strong messages. It is becoming increasingly clear that without real and effective action, the impact on our environment, our economy, and our way of life will be tremendous. Climate change is already at the top of the political agenda in most developed countries, yet its effects are felt first of all by the world’s poorest nations. We have to realize that we have only a brief window of opportunity to deal with this problem. If the world waits a decade or more, it will be too late. We will have left our children and grandchildren the legacy of climate change and by that time there will be absolutely nothing they can do about it. We are turning a corner, and the signs are that the world will act together to meet this challenge. We can only hope that the action is not too little nor too late. But I believe that we will succeed, for a reason perhaps best expressed by Jeffrey Sachs, the Director of the Earth Institute of Columbia University, in a recent series of lectures. He points out that in the 1990s the world dealt with a similar problem—chlorofluorocarbons, or CFCs, which were destroying the Earth’s ozone layer—through international cooperation. As Sachs observes, arriving at action to deal with CFCs was a five-stage process. First, science identified the problem. Second, the vested interests—the makers of CFCs and aerosols in this case—publicly and actively disputed the scientists. But nature, the laws of physics, has a way of overcoming vested interests. In the case of CFCs, it was the NASA photo of the hole in the ozone layer. So the third stage was public acceptance—the realization that the problem was a personal one that would affect the lives of our own children and grandchildren. This fuelled a call for action. Then came the scientists, searching for solutions. And finally, the crucial stage, when the previously skeptical companies whispered to the politicians, “it’s OK, you can reach an agreement, we can handle this”. And from there, an international agreement was quickly reached. The climate change debate is following the same path. Although global warming was first identified in 1896, only recently—after hurricanes, glaciers melting in front of our eyes and statistically meaningful and worrying increases in average temperatures—has it been accepted by the global community. And it is now beginning to be widely understood that climate change is, indeed, a personal issue. So, after the initially skeptical response to science, fuelled by vested interests, public acceptance about the need to act is now spreading, right across the globe. Science has followed and I believe that we are entering the final phase when business is beginning to whisper in the ears of the politicians, “it’s OK, you can reach an agreement, we can handle this”. The European Union is resolved to take its responsibility in the struggle against global warming seriously. Given that it is one of the world’s largest energy consumers and a major emitter of greenhouse gases, the need for a new European Energy Policy to meet these challenges is self-evident. The EU adopted a comprehensive action plan to steer a new energy policy for Europe. It aims to ensure the sustainability of the energy we use, the security of supply and the competitiveness of the economy. We have embarked on the widest ranging reform of Europe’s energy policy ever attempted, a reform that will bring a fundamental change of direction. The point of departure is a strategic objective: redirecting our energy policy to enable the EU to achieve a 20% reduction in greenhouse gas emissions by 2020, compared to 1990 levels. This means transforming Europe into a highly energy efficient and low CO2 energy economy, which is nothing less than a new industrial revolution in the European energy policy. These are the steps the Commission prescribes. 13 © European Community 2007 14 • Commission’s review of the Emissions Trading Scheme (ETS), extending it beyond 2012 and amending it to provide the 20% greenhouse gas cuts we are looking to achieve by 2020. Further commitment to redouble its efforts to reach a global agreement on climate change. • Adoption of a new “Umbrella Renewables Directive”. This will give very concrete effect to the European Council’s acceptance of legally binding national renewable energy targets. A 20% renewable energy target by 2020 is very ambitious. I have heard some people say it will be very difficult to achieve. But if we allow ourselves to accept that such levels of renewable energy are “impossible”, we also have to accept that we will leave our children and grandchildren the legacy of global warming. If the whole of Europe were to follow Germany and Denmark’s lead on renewable energy, for example, we would reach our 20% objective. I have heard other people argue that it will be too expensive. In my view, we cannot afford not to take this step. • Implementation of a whole series of initiatives on energy efficiency; from minimum product standards to better labeling, improved building codes, more efficient transport systems in Europe’s cities. The potential here is huge, not just in terms of reducing emissions, but equally in improving European competitiveness. In addition, the Commission intends to draw up the basis for a new international agreement on energy efficiency. This could bring together the OECD and key developing countries to agree on common approaches to save energy. The potential energy saving and CO2 reduction is enormous—improved energy efficiency could cut emissions in the EU by around 20% compared to the baseline scenario. • Development of a comprehensive work plan to respond to the call of the European Council for a European Strategic Energy Technology Initiative. This is a cornerstone of Europe’s new Energy Policy and in my view the key to turning the challenge of climate change and energy security into a competitive advantage. Like all industrial revolutions, success in combating climate change will be technology driven. This means a new generation of energy efficient equipment, carbon sequestration technologies and new materials to bring down the cost of wind and photovoltaic, to name but a few. It makes no sense for Europe to lead the world in dealing with climate change but not take the lead in developing the next generation of low carbon technology. The financial means made available to fund energy research, including renewable energy, energy efficiency and carbon sequestration, will be significantly increased in the 7th Framework Program for Research and Development (FP7) in the EU. • Finally, I would like to emphasize the need for a common external EU energy policy which is enhancing the EU’s ability to engage in cooperation with the rest of the world. Energy Policy is one of the greatest challenges we face and, in this regard, the Commission has proposed the launch of an EU-Africa Energy Partnership. Our attention focuses on strengthening EU-African dialogue on access to energy and energy security, increasing investment in energy infrastructure, including promotion of energy efficiency and renewable energy, placing capacity building in the areas of energy and climate change high on our development aid agenda. Global warming is a global challenge and energy security can only be increased through real international action. As the world’s largest integrated energy market, the EU can set the pace on these issues, but it needs to bring other partners on board. The interest shown by UNESCO in this subject reflects the need for the broadest international coalition to address issues such as reduction of greenhouse gases, improvement of energy efficiency, development of sustainable energy sources and action to tackle energy poverty. We have a collective responsibility toward all our citizens to prepare a better future. Markets and technologies alone will not solve all our problems. Strong policies and a real political will are needed to reverse the current trends. Business as usual is not an option. Action is needed. Our new Energy Policy for Europe is the European Union’s response. It is truly ambitious, it is an action plan to overcome the threats of climate change and global warming. It could be regarded as the beginning of a new industrial revolution in energy use in the EU. * Andris Piebalgs took up the post of Energy Commissioner in November 2004. Since the enlargement of the EU on May 1, 2004, when the Commissioners of the new Member States joined the European Commission, he has headed the Cabinet of Latvian Commissioner Sandra Kalniete. Before joining the European Commission, he worked in the diplomatic community for almost a decade, as Latvian Ambassador to Estonia, then Latvian Ambassador to the European Union, until 2003. Subsequently, he was Undersecretary of State for EU affairs at the Latvian Ministry of Foreign Affairs. Previously, Mr. Piebalgs was Latvia’s Minister of Education from 1990 to 1993 and Minister of Finance from 1994 to 1995. Petrolio: una fiammata dura a morire Oil: the Die-Hard Flame di Alberto Clò* by Alberto Clò* I rincari non dipendono dall’esaurirsi delle riserve, ma dalla scarsità di investimenti per l’output Price increases caused by insufficient investment in output rather than by a depletion of reserves Alberto Clò D all’inizio del nuovo millennio, il mondo dell’energia sta attraversando una nuova crisi con prezzi del petrolio, pivot nell’insieme delle fonti, aumentati di 3-4 volte a punte prossime ai 100 dollari al barile (doll/bbl). Le ragioni all’origine appaiono, tuttavia, molto più complesse che in passato e il percorso per porvi rimedio molto più impervio, così che lo spettro di un suo possibile aggravarsi si paventa come sempre più verosimile. In gioco sono gli equilibri economici, politici, ambientali dell’intero pianeta, per tre ragioni: 1) la biunivoca rafforzata relazione tra energia e crescita, col ridursi delle disuguaglianze tra Sud e Nord del mondo; 2) le tensioni politiche che attraversano la generalità delle aree da cui dipende e sempre più dipenderà l’offerta incrementale di idrocarburi; 3) l’impatto sui cambiamenti climatici delle fonti fossili che, nonostante le diffuse speranze sul contributo delle risorse rinnovabili, sono finora le uniche in grado di dare soddisfazione alla fame di energia. Il cambiamento centrale alla dinamica dei mercati energetici è il venir meno delle condizioni che avevano consentito la precedente fase di bassi e stabili prezzi del petrolio – 16,5 doll/bbl nella media 1986-1999 – che ha alimentato uno dei più robusti cicli espansivi dal secondo dopoguerra. Tre in particolare: netta caduta e poi lenta ripresa della domanda di petrolio; drastica riduzione dei costi di produzione, per le innovazioni tecnologiche nella ricerca, estrazione, raffinazione di petrolio; formarsi di un consistente surplus di capacità produttiva in tutte le filiere energetiche (petrolio, metano, elettricità), da cui originarono le pressioni per la liberalizzazione dei mercati. Dall’inizio del millennio le cose si capovolgono lungo la sequenza: minori prezzi, minore redditività, minori investimenti, maggior domanda, maggiori prezzi del petrolio, del metano (ancorati ai primi), dell’elettricità, sempre più prodotta col metano. Se questi rialzi siano legati al ciclo degli investimenti e destinati, quindi, a rientrare col loro auspicato ma incerto espandersi, è l’interrogativo da cui discende l’ampio spettro di previsioni dei futuri prezzi reali: tra chi ne profetizza livelli superiori anche di molto ai 100 doll/bbl e chi un loro graduale rientro a 35-40. La risposta dipende dall’intensità relativa dei processi di aggiustamento della domanda e dell’offerta di petrolio (e di energia in genere) ai più elevati prezzi reali. Se, in sostanza, si ripeteranno le dinamiche che consentirono nelle passate crisi, in poco più di un decennio (1974-1986), un ritorno dei prezzi ai valori di partenza. A giudicare da quanto sta avvenendo la risposta è negativa. A rendere il rialzo dei prezzi strutturale va contribuendo, infatti, una minor elasticità dei prezzi sia della domanda sia dell’offerta di petrolio e di metano. Per quanto riguarda la domanda, i motivi sono: • la robustezza della crescita economica mondiale, la più elevata da una generazione in qua, che continua a sospingere verso l’alto la domanda di energia, specie dell’area asiatica, nonostante i suoi maggiori prezzi; • il restringersi, nei paesi industrializzati, degli spazi di sostituzione del petrolio che consentirono in passato, col ricorso al carbone e al nucleare, di abbatterne drasticamente la domanda; • il basso impatto inflazionistico del caro-petrolio per il minor peso dell’energia nella formazione del reddito dei paesi industrializzati e per i controbilancianti effetti dei bassi prezzi delle merci importate dall’area asiatica. La conclusione è che l’economia mondiale va reggendo molto meglio che in passato alla nuova crisi petrolifera. Il previsto calo della domanda, principale deterrente all’aumento dei prezzi, non si è verificato, registrandosi invece un suo aumento in soli 8 anni (1999-2007) di oltre 10 milioni di barili al giorno (mil. bbl/g), più dell’intera produzione dell’Arabia Saudita. La fame di energia – che proietta una crescita della sua domanda nell’ordine del 60% tra il 2004 e il 2030 a oltre 17 miliardi di tep (tonnellate equivalenti petrolio) e di quella di petrolio del 40% da 82 a 115 mil. bbl/g – appare molto più forte dell’antidoto degli alti prezzi. A essa il mondo deve dare risposta, anche perché nell’era della globalizzazione tutti beneficiano della crescita dell’economia mondiale. Alla robustezza della domanda fa riscontro, ed è questo il nocciolo della questione, un’offerta che stenta a crescere. La ragione non è riconducibile, come sovente paventato, alla scarsità di petrolio, ma ai bassi investimenti per renderlo disponibile. Come accaduto in ogni passata crisi, anche nell’attuale si sono puntualmente levati timori che il rialzo dei prezzi sia l’inevitabile effetto del manifestarsi della sua scarsità assoluta con “l’inevitabile e ormai imminente” picco della sua curva di produzione, secondo l’ormai famosa teoria del geofisico americano Marion King Hubbert. Non v’è dubbio che ciò sia avvenuto o stia avvenendo per un gran numero di giacimenti e/o di paesi produttori, ma trarne la conclusione che questo possa valere anche per la complessiva produzione mondiale è privo d’ogni fondamento logico-fattuale. Pochi dati ne rendono conto. L’ammontare delle risorse ultime di petrolio convenzionale – il confine massimo del suo potenziale estrattivo – è stimato tra 2.300 e 2.900 miliardi di barili, di cui 1.200-1.300 classificati come riserve provate, tecnicamente ed economicamente estraibili, rispetto a una produzione annua sui 32 miliardi. A queste risorse devono poi aggiungersi quelle non convenzionali (sabbie e scisti bituminosi, 15 16 greggi extra-pesanti, orimulsion), stimate tra i 1.300 miliardi di barili tecnicamente recuperabili e un loro confine massimo di 6.000 miliardi. Ancor più ampie sono quelle di metano. Conclusione: la base mineraria di idrocarburi su cui il mondo può fare affidamento, unitamente agli sviluppi della tecnologia per accrescerne il grado di sfruttamento, consente di far conto su un flusso potenziale di offerta in grado di soddisfare pienamente l’attesa crescita della domanda. La bassa propensione a investire dell’industria petrolifera non dipende, quindi, da limiti strutturali posti dalla natura, ma da altre motivazioni. In primo luogo, la bassa possibilità di accesso, per le compagnie occidentali, alle risorse convenzionali di idrocarburi controllate per l’80%-90% dalle compagnie di Stato dei paesi produttori; quindi, i sempre più elevati e imprevedibili costi e tempi dei progetti nelle aree di frontiera verso cui le imprese sono state costrette gioco forza a orientarsi. Il terzo motivo consiste nel prevalere, nella filosofia decisionale delle imprese occidentali, di logiche finanziarie più che industriali. Da cui la preferenza verso ottiche di ritorno di breve periodo; politiche di crescita lungo linee esterne, tramite fusioni ed acquisizioni, che bruciano enormi risorse finanziarie senza accrescere d’un solo barile le riserve; generose politiche di remunerazione degli azionisti. Ultima ragione, non per importanza, è lo stato di profonda crisi in cui versa la più parte delle compagnie di Stato dei paesi produttori: perché guidate da interessi politici più che da logiche economiche; assillate, tranne rari casi, da grandi difficoltà tecnologiche e manageriali; afflitte, paradossalmente, da scarsità finanziarie a causa del massiccio drenaggio di risorse da parte delle costose e inefficienti politiche sociali interne. Venezuela, Messico, Kuwait, Federazione Russa, Nigeria, Iraq, Iran, Indonesia, Gabon – che contano per oltre 1/3 della produzione mondiale di idrocarburi e per la metà delle relative riserve – vanno registrando una stagnazione/declino della loro produzione, nonostante un rapporto riserve/produzione superiore ai 60 anni per il petrolio e 120 anni per il metano. La loro capacità di espandere l’offerta attraverso un rapido e forte aumento degli investimenti è, allo stato delle cose, altamente incerta e improbabile. Due gli effetti della bassa propensione a investire. Il primo è la difficoltà a espandere la capacità produttiva nell’intera filiera degli idrocarburi. Quella inutilizzata di petrolio è crollata di circa 5 volte a 2-3 mil. bbl/g, vale a dire appena il 2%-3% dell’offerta mondiale. È evidente come in condizioni di tale rigidità dell’offerta ogni minima ragione di tensione – reale o politica, effettiva o anche solo temuta – impatta sui prezzi del petrolio in modo tanto più esasperato quanto più le transazioni finanziarie, prettamente speculative, prevalgono su quelle reali. Il secondo effetto è l’incapacità della più parte delle grandi imprese petrolifere a rimpiazzare la loro produzione: così che la loro base mineraria si va vieppiù restringendo. Se questa tendenza non verrà rapidamente invertita, sarà sempre più a rischio non tanto il loro futuro ma, ancor prima, quello dei sistemi energetici nella loro globalità. Il mondo intero si trova inerte e inerme di fronte ai principali attori della scena petrolifera governati da obiettivi/decisori – politici per le compagnie di Stato dei paesi produttori; finanziari per quelle internazionali – indifferenti all’esigenza di garantire un pieno e stabile equilibrio dei mercati energetici nelle loro due componenti essenziali: petrolio e metano. Chi e come risolvere questa contraddizione è l’interrogativo di fondo della crisi in cui versiamo. L’inversione delle tendenze in atto poggia sul verificarsi di condizioni interne ed esterne all’operato delle grandi compagnie internazionali. Sul piano interno si imporrebbe una profonda revisione delle loro strategie in più direzioni. Primo: forte impegno nell’innovazione tecnologica, per ridurre i costi di accesso agli idrocarburi e accrescerne il tasso di recupero minerario. Secondo: maggior creatività progettuale nel ricercare più avanzate “piattaforme contrattuali” con gli stati produttori che sappiano individuare nuovi punti di reciproco interesse. Terzo: recuperare una gestione industriale e non finanziaria del portafoglio di business, rafforzando la propensione al rischio storicamente connaturata al mondo degli idrocarburi. Solo chi avrà il coraggio di differenziarsi dal pensiero dominante, che privilegia la finanza sull’industria e l’interesse degli azionisti su quello delle stesse aziende, avrà un solido e duraturo futuro. Gli altri soccomberanno o ne saranno spinti ai margini. Di non minore rilevanza sono le condizioni esterne all’operato delle grandi imprese. In particolare: la possibilità, a oggi invero scarsa, che si realizzino le condizioni politiche per un massiccio ritorno dei capitali, delle tecnologie, delle risorse professionali dell’industria occidentale nei paesi produttori, specie del Medio Oriente, necessitando il mondo intero sempre più di quel petrolio. La cooperazione internazionale è la prima risposta alle criticità e alle sfide energetiche che il mondo si trova ad affrontare. La contrapposizione è per tutti perdente e costosa, anche se di ciò non pare esservi una coerente consapevolezza tra i governi del mondo. * Alberto Clò è professore straordinario di Economia Industriale presso l’Università di Bologna. Ha fondato nel 1980 la rivista Energia di cui è direttore responsabile. Ha scritto numerosi libri e oltre 100 saggi e articoli sulle problematiche dell’economia industriale ed energetica e collabora con diversi quotidiani e riviste economiche. Negli anni 1995-1996 è stato ministro dell’Industria e ad interim del Commercio con l’Estero, e presidente del Consiglio dei ministri dell’Industria e dell’Energia dell’Unione europea durante il semestre di presidenza italiana. Nel 1996 è stato insignito del titolo di Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica italiana. È attualmente consigliere indipendente di Eni, ASM Brescia, Società Autostrade, Italcementi e De Longhi. S ince the start of the new millennium, the energy industry has been in the throes of a new crisis: the price of oil, the world’s pivotal source of energy, has tripled or quadrupled to close on 100 dollars per barrel (doll/bbl). The underlying causes of the present crisis, however, are far more complex than in the past and the way toward a solution far more arduous, suggesting that a possible worsening of the crisis looks increasingly likely. The economic, political and environmental equilibriums of the entire planet are at stake, for three reasons: 1) the closer bilateral relationship between energy and growth, and the gradual disappearance of the inequalities between North and South; 2) the political tensions in the areas on which the incremental supply of hydrocarbons depends and increasingly will depend; 3) the impact on climate change of fossil fuels, which so far, despite the widespread hopes resting on renewable sources, are the only sources able to satisfy our hunger for energy. The fundamental change in the dynamics of the energy market is the disappearance of the conditions underpinning the previous period of stable low oil prices—an average of 16.5 doll/bbl from 1986-1999—which drove one of the most vigorous growth cycles of the postwar years. Three conditions in particular: a rapid fall in oil demand followed by a slow recovery; a sharp reduction in production costs as a result of advances in oil prospecting, extraction and refining technology; the creation of significant surplus production capacity in all energy sectors (oil, gas, electricity), leading to growing pressure for market deregulation. With the new century this situation has reversed as the result of the following sequence of trends: lower prices, lower profitability, lower investment, higher demand, higher prices for oil, for gas (linked to oil prices) and for electricity, whose production depends increasingly on gas. Whether or not these higher prices are tied to the investment cycle and will therefore fall when, hopefully but not certainly, investments increase, is the question on which the broad spectrum of real price forecasts hangs: from the predictions of prices well above 100 doll/bbl to those that expect a gradual downturn to 35-40 doll/bbl. The answer depends on the degree to which oil demand and supply (and energy demand and supply in general) adjust to higher real prices. In other words, on whether we can expect a repetition in the dynamics that, in the previous crisis, brought prices back down to their original levels in just over ten years (1974-1986). Judging by current events, the answer is no. The upward trend in prices is turning into a structural phenomenon, due to the lower price elasticity of both oil and gas demand and supply. The reasons for this, as far as demand is concerned, are as follows: • the strength of world economic growth, the highest for a generation, which continues to push up demand for energy, especially in Asia, despite higher prices; • the increasingly limited opportunities, in the industrialized nations, to use alternatives to oil, such as coal and nuclear power, which in the past produced significant reductions in oil demand; • the low inflationary impact of high oil prices due to the lower incidence of energy in income creation in the industrialized nations and the counterbalancing effects of the low prices of Asian imports. The conclusion is that the world economy is withstanding the new oil crisis much better today than in the past. The expected drop in demand, the main deterrent against higher prices, has not happened, indeed demand has risen in just 8 years (1999-2007) by more than 10 million barrels/day (mil. bbl/d), more than the entire output of Saudi Arabia. The thirst for energy—with a projected growth in demand in the order of 60% between 2004 and 2030 to more than 17 billion toe (tonnes of oil equivalent) and in oil of 40% from 82 to 115 mil. bbl/d—seems to be much stronger than the antidote of high prices. The world needs to find an answer to this, given that in our age of globalization we all benefit from world economic growth. Although demand is strong, supply, and this is the real problem, is struggling to grow. The cause is not an oil shortage, as is often claimed, but the low level of investment in making oil available. As in every previous crisis, commentators have promptly voiced fears that the price rise is the inevitable consequence of an absolute shortage in reserves and “the inevitable and now imminent” peaking of the production curve notably theorized by US geophysicist Marion King Hubbert. Unquestionably, this has happened or is happening in many oil fields and/or producer countries, but there is no logical or factual justification for concluding that it applies to world production as a whole. A few figures illustrate the point. Ultimate resources of conventional oil—the maximum limit of extractable potential—are estimated at between 2,300 and 2,900 billion barrels, of which 1,200-1,300 are classified as proven reserves, 17 18 whose extraction is technically and economically feasible. This compares with annual production of around 32 billion barrels. In addition to these resources, non-conventional sources (tar sands, oil shale, extra-heavy oil, orimulsion) are estimated at a technically extractable 1,300 billion barrels, with a maximum limit of 6,000 billion. Methane gas resources are even larger. In conclusion: the world’s workable mineral base of hydrocarbons, together with the technological advances enhancing exploitation, mean potential supply is sufficient to meet the expected rise in demand in full. So the oil industry’s low propensity to invest does not spring from natural structural limits, but from other considerations. First, Western industry’s low level of access to conventional hydrocarbon resources, controlled 80%-90% by the state-owned companies of the producer countries; second, the growing and unpredictable project times and costs in the frontier areas where the West necessarily has to focus. The third reason is that in Western business, financial considerations tend to take priority over industrial considerations. This produces a preference for short-term returns; for growth policies through external lines, through mergers and acquisitions that consume huge financial resources without expanding reserves by a single barrel; for generous shareholder remuneration policies. The last and equally important reason is the profound crisis troubling the majority of the state companies in the producer countries: companies run according to political rather than economic criteria; plagued, except in rare cases, by enormous technological and managerial difficulties; hampered, paradoxically, by financial shortages as a result of the massive drain on resources of expensive and inefficient domestic social policies. Venezuela, Mexico, Kuwait, the Russian Federation, Nigeria, Iraq, Iran, Indonesia, Gabon—who account for more than 1/3 of world hydrocarbon production and for half of world reserves—are all reporting stagnating or declining production, despite a reserves/production ratio of more than 60 years for oil and 120 years for gas. Their ability to increase supply through rapid and significant investment hikes is extremely uncertain and unlikely in the present circumstances. The low propensity to invest has two results. One is the difficulty of the entire hydrocarbon industry to expand production capacity. Unused oil production capacity has fallen five-fold to 2-3 mil. bbl/d, a bare 2%-3% of worldwide supply. Clearly, with such limited room for maneuver, even the smallest tension—real or political, actual or even just feared—has an impact on oil prices whose effect is directly proportional to the degree to which financial speculation prevails over real finance. The second result of low investment is that the majority of the major oil companies are unable to replace their production, and consequently their mineral base is gradually drying up. Without rapid action to reverse this trend, these companies, but above all our energy systems as a whole, face an uncertain future. An inert world watches helplessly as the main players on the oil stage are driven by goals and decision makers—political for the state companies of the producer countries, financial for the international corporations—who are indifferent to the need to ensure a full and stable equilibrium in the two key sectors of the energy markets: oil and gas. Who can resolve this contradiction, and how, is the question at the root of today’s crisis. A reversal in current trends depends on a series of internal and external conditions impacting the operations of the large multinationals. Internally, a sweeping strategy review is needed on many fronts. First: a serious commitment to technological innovation to cut the cost of sourcing hydrocarbons and enhance the mineral recovery rate. Second: greater creativity in stipulating more advanced types of “contractual platform” that identify new areas of mutual interest with the producer states. Third: a return to industrial rather than financial management of business portfolios, strengthening the risk propensity historically associated with the hydrocarbons industry. Only players with the courage to abandon the mainstream where finance takes precedence over industry, shareholder interests over those of the companies themselves, will have a solid, lasting future. Everyone else will go under or find themselves relegated to the sidelines. Equally important are the external conditions needed to influence the large companies. Specifically, the development of political conditions for a full-scale return of western capital, technology and professional resources to the producer countries, especially in the Middle East, given that the entire world has increasing need of their oil; although it has to be said that today the possibility of this happening is remote. International cooperation is the first step toward resolving the critical issues and energy challenges facing the world. The alternative for everyone is negative and costly, even though the world’s governments do not all seem to be aware of this. * Alberto Clò is an Adjunct Professor of Industrial Economics at Bologna University. In 1980 he founded Energia magazine, of which he is Editor in Chief. He is author of many books and more than 100 essays and articles dealing with industrial and energy economy issues and writes for a number of daily newspapers and business journals. From 1995-1996 he was Italian Minister of Industry and Interim Minister of Foreign Trade, and President of the EU Council of Industry and Energy Ministers during Italy’s six-month term of presidency. In 1996 he was decorated with the Order of Merit of the Italian Republic with the rank of Cavaliere di Gran Croce. He is currently an independent director of ENI, ASM Brescia, Società Autostrade, Italcementi and De Longhi. Quale strada per il futuro Which Way Forward? di Luis E. Echávarri* by Luis E. Echávarri* Il fascino sottile dell’energia nucleare in Europa The subtle charm of nuclear energy in Europe Luis E. Echávarri N egli ultimi anni, la crescente dipendenza economica dell’Unione europea dalle importazioni di energia è diventata una delle principali preoccupazioni dei responsabili delle politiche energetiche. Secondo i dati forniti dall’Agenzia Internazionale dell’Energia dell’Ocse (IEA) e dalla Commissione europea, questa dipendenza è destinata a crescere dal 50% di oggi a circa il 75% entro il 2030. In questo scenario, molti paesi hanno avviato politiche energetiche volte ad aumentare la sicurezza degli approvvigionamenti e a diminuire la dipendenza energetica. È chiaro che conservazione ed efficienza energetica rivestiranno un ruolo fondamentale nell’implementazione di tali politiche, insieme allo sviluppo di fonti di energia pulita, tra cui le energie rinnovabili e il nucleare. Ridurre il consumo e utilizzare l’energia in modo più efficiente sono i due fattori chiave per la sicurezza futura degli approvvigionamenti, considerato che l’elevata domanda dei mercati internazionali provoca significativi rialzi dei prezzi e in alcuni casi particolari può addirittura mettere a rischio la garanzia di accesso a forniture adeguate. Anche un maggior utilizzo di fonti domestiche rinnovabili aiuta a ridurre questa dipendenza. Un altro fattore chiave delle politiche energetiche del futuro è rappresentato dal cambiamento climatico. La concentrazione di CO2 nell’atmosfera continua ad aumentare costantemente raggiungendo, secondo molti osservatori, livelli di criticità: si tratta di un elemento da tenere in grande considerazione nella corsa alla conservazione e all’efficienza energetica come pure nel crescente ricorso alle fonti rinnovabili e al peso sempre più rilevante che queste vanno acquistando nell’abbattimento delle emissioni di CO2 del settore energetico, largamente responsabile delle concentrazioni globali dei gas a effetto serra. Nonostante gli sforzi dei governi dei paesi Ocse per implementare politiche di conservazione ed efficienza energetica aggressive, si prevede tuttavia che la domanda di energia continuerà ad aumentare, in particolare sotto la spinta di paesi in via di sviluppo come la Cina e l’India, dove l’impiego di energie rinnovabili sarà più lento rispetto all’area dell’Ocse. Secondo le previsioni della IEA, anche se i governi adotteranno politiche migliorative dell’efficienza nella produzione e nell’utilizzo di energia, la domanda energetica mondiale aumenterà di oltre il 50% da oggi al 2030 e la domanda di elettricità crescerà di oltre il 70% nello stesso periodo. Sebbene non sarà certo l’Unione europea a guidare l’aumento della domanda di elettricità, si prevede che il suo fabbisogno crescerà di circa il 17% entro il 2030 e, se si considera la necessità di sostituire le centrali elettriche obsolete che nel 2030 saranno giunte al termine del loro ciclo di vita, va da sé la necessità di sviluppare nuove capacità di produzione. Copertura del carico base Per quanto riguarda il settore dell’elettricità, le nuove politiche devono tenere in considerazione le richieste di carichi base e di punta. Anche se le fonti rinnovabili ricoprono già una quota importante della produzione totale di energia elettrica e, come si è visto, rivestiranno un ruolo ancor più significativo in futuro, le loro caratteristiche, come l’intermittenza e la distribuzione, le rendono inadatte alla produzione di elettricità per i carichi base; fa eccezione l’energia da biomassa, ma non rappresenta l’opzione preferibile in Europa, dove la disponibilità di cereali da utilizzare come combustibili è limitata. L’energia idroelettrica potrebbe essere utilizzata per il carico base, ma le possibilità di espansione nell’Unione europea sono molto limitate. Pertanto, in termini pratici, la vera partita per l’investimento in elettricità di carico base si gioca tra carbone, gas naturale ed energia nucleare. Stando agli studi della IEA e della NEA (Agenzia per l’Energia Nucleare) dell’Ocse, e nella prospettiva della sicurezza degli approvvigionamenti, il carbone è molto appetibile e competitivo. Il problema è rappresentato dal fatto che emette grandi quantità di anidride carbonica, tra i 1000 g e i 1200 g di CO2 equivalente per kWh, il che significa che un maggior ricorso al carbone porterebbe a un aumento delle emissioni di CO2, a meno di rendere commercialmente disponibili tecnologie di cattura e sequestro dell’anidride carbonica attualmente non presenti sul mercato. Per quanto riguarda il gas naturale, gli studi indicano che, nonostante sia preferibile al carbone in termini di emissioni (circa 400 g di CO2 equivalente per kWh), il fatto che il suo prezzo sia legato in certa misura a quello del petrolio pone molte incertezze sui costi dell’elettricità generata nel medio e lungo termine. Inoltre, un maggior ricorso al gas naturale accrescerebbe la dipendenza dai paesi non-Ocse, una prospettiva certo non allettante dal punto di vista della sicurezza degli approvvigionamenti. Come conseguenza, l’energia nucleare sembra essere la soluzione migliore per fornire il carico base di elettricità. Innanzitutto è già presente un’industria forte e matura: oltre il 30% dell’elettricità totale prodotta nell’Unione europea proviene dalle centrali nucleari, nonostante negli ultimi 20 anni non sia stato praticamente costruito nessun nuovo impianto. L’energia nucleare è poi essenzialmente una fonte domestica: il combustibile rappresenta meno del 20% del costo totale della produzione di elettricità nucleare e la stessa materia prima, l’uranio, ne rappresenta il 5%. In termini di sicurezza degli approvvigionamenti, secondo l’Agenzia di Approvvigionamento dell’Euratom, oltre il 50% degli approvvigionamenti di uranio dell’Unione europea e il 70% dei suoi approvvigionamenti del 19 20 servizio di arricchimento sono forniti da paesi Ocse: l’uranio è disponibile in abbondanza e i suoi principali produttori sono due paesi dell’Ocse, Australia e Canada. In termini di impatto sui cambiamenti climatici, anche considerando l’intero ciclo del combustibile, le emissioni sono pari a solo 8 g di CO2 eq/kWh. Per quanto riguarda i costi, infine, gli studi dell’Ocse indicano che, anche con un prezzo del petrolio (che incide sul prezzo del gas naturale) di circa $40/45 al barile, l’elettricità nucleare resta molto competitiva, nonostante gli elevati costi di investimento. Un futuro nucleare? Data la necessità di ridurre le emissioni di CO2 e un elevato prezzo del petrolio, si sta diffondendo in tutta Europa un rinnovato interesse per l’energia nucleare. Il primo paese a tornare all’energia nucleare è stata la Finlandia, che ha deciso qualche anno fa di costruire un nuovo reattore con tecnologia franco/tedesca. I suoi 1600 MWe di capacità installata saranno operativi nel 2011 e il suo esempio dovrebbe essere seguito di lì a breve da un’unità simile già in costruzione in Francia. Questi due paesi hanno rotto il ghiaccio che circonda la costruzione di nuovi reattori in Europa, aprendo la strada ad altri paesi interessati. La Repubblica Slovacca ha deciso di completare la costruzione dei due impianti di Mochovce, interrotta alcuni anni addietro, la Romania sta completando Cernavoda, mentre la Bulgaria ha definito di recente la costruzione di quattro nuovi reattori con tecnologia russa. Ci sono poi altri paesi che stanno prendendo seriamente in considerazione l’installazione di nuovi impianti; tra questi in particolare il Regno Unito, le cui riserve di gas sono state intensamente sfruttate e i cui vecchi reattori nucleari, che forniscono circa il 20% dell’elettricità del paese, dovranno essere sostituiti nei prossimi dieci anni. Tutto ciò significa che l’energia nucleare, che già costituisce una forte realtà industriale e commerciale a livello europeo, potrà rivestire un ruolo anche più significativo in futuro, riducendo la vulnerabilità degli approvvigionamenti di energia della Ue e le emissioni di gas a effetto serra. Lo sviluppo dell’energia nucleare solleva tuttavia questioni e preoccupazioni di tipo sociale che hanno bisogno di essere affrontate. La comunità politica deve coinvolgere la società civile nel dibattito sulle scelte energetiche e creare un “level playing field” (condizioni e regole uniformi) su cui valutare ogni tecnologia e fonte energetica. Se si è concordi sul fatto che l’energia è una necessità fondamentale per il benessere sociale, la crescita industriale e un futuro sostenibile, e tutte le fonti disponibili dovranno essere impiegate per soddisfarne la domanda, è allora di vitale importanza che venga avviato un ampio e aperto dibattito sul ruolo dell’energia nucleare perché la società ne comprenda con chiarezza rischi e benefici rispetto alle altre alternative. Preoccupazioni sociali La società deve essere consapevole delle implicazioni di ogni scelta energetica e della conseguente necessità di assumere tutte le decisioni atte a rendere queste scelte fattibili e sostenibili. Nel caso dell’energia nucleare, lo smaltimento definitivo dei rifiuti ad alta attività e a lungo ciclo di vita sembra essere una delle principali preoccupazioni sociali. Da un punto di vista tecnico, la ricerca condotta dai paesi dell’Ocse negli ultimi 30 anni indica chiaramente che la soluzione è già nota. Sia nel caso dei cicli del combustibile nucleare aperti, senza rigenerazione o riciclaggio, sia nel caso dei cicli chiusi, con rigenerazione e riciclaggio, la presenza di depositi geologici profondi garantisce che la popolazione locale e le generazioni future non siano esposte a nessun eccessivo pericolo. La metodologia per valutare la sicurezza di questi depositi, in aree con formazioni geologiche stabili e con l’ausilio di un appropriato sistema di barriere ingegneristiche, è già disponibile. Inoltre, la riutilizzabilità e recuperabilità delle scorie depositate negli appositi siti consentono un controllo nel lungo periodo e l’opportunità di trarre vantaggio dai progressi della tecnologia per un uso più efficiente dei materiali e/o per l’eliminazione definitiva dei rifiuti. La Finlandia rappresenta un chiaro esempio di approccio vincente a questo problema. Prima di decidere di costruire un nuovo reattore, governo e parlamento hanno condotto lunghe e approfondite consultazioni con tutte le parti sociali, vagliando con attenzione ogni passaggio/intervento necessario alla costruzione di un deposito per il combustibile nucleare esaurito, il primo di questo tipo in Europa e nel mondo. Altre importanti questioni collegate all’energia nucleare sono la sicurezza e la proliferazione di armi nucleari. Per quanto riguarda la sicurezza, i dati relativi ai paesi dell’Ocse (con oltre 350 reattori in funzione) sono ragguardevoli, a dimostrazione dell’efficace combinazione di industria responsabile e sistema di regolamentazione indipendente. La non-proliferazione non è un problema che riguarda direttamente i paesi europei, considerato il loro forte sostegno al Trattato di Non-proliferazione. Va inoltre sottolineato che il rafforzamento del sistema internazionale di controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) e i nuovi approcci al ciclo del combustibile, con garanzie di approvvigionamento per i paesi del terzo mondo, offrono una maggiore assicurazione che i materiali commerciali e la tecnologia saranno accessibili a tutti, ma non verranno utilizzati per scopi non civili. Un dibattito europeo sulle scelte energetiche con il coinvolgimento e la partecipazione di tutti gli stakeholder è uno strumento fondamentale per discutere delle alternative possibili, esaminandole dalla prospettiva dello sviluppo sostenibile e considerando i fattori sociali, ambientali ed economici all’interno di una cornice globale. Un tale dibattito rappresenta un passo fondamentale verso l’implementazione di una forte politica energetica europea in grado di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti e di affrontare con successo le questioni climatiche globali. Il nucleare ha dimostrato la propria efficacia tecnica ed economica in diversi decenni di sviluppo industriale e commerciale offrendo al contempo interessanti vantaggi ambientali. La società dovrà mettere sul piatto della bilancia rischi e benefici di tutte le alternative possibili per delineare infine il mix energetico del futuro in grado di soddisfare appieno le sue necessità. * Luis E. Echávarri è direttore generale dell’Agenzia per l’Energia Nucleare (NEA) dell’Ocse. Prima di entrare nella NEA, è stato direttore generale del Forum spagnolo sull’Industria Nucleare. In precedenza, ha occupato diverse posizioni di responsabilità come direttore tecnico e poi commissario presso il Consiglio di Sicurezza Nucleare spagnolo (CSN). Ha lavorato diversi anni per la Divisione Nucleare della Westinghouse Electric di Madrid ed è stato successivamente project manager delle centrali nucleari di Lemóniz, Sayago e Almaraz. Dal 1997 ha rappresentato la NEA/Ocse al Consiglio Direttivo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) e nel 2003 è diventato membro del Consiglio consultivo sulla sicurezza nucleare dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA). I n recent years, the increasing dependence of the European Union economy on energy imports has become one of the main concerns of energy policy makers. According to data from the International Energy Agency (OECD-IEA) and from the European Commission, this dependence is set to grow from 50% today to about 75% in the year 2030. In this situation, many countries are pursuing energy policies designed to increase the security of their energy supplies and diminish their energy dependency. It is very clear that energy conservation and efficiency are going to be essential for implementing such policies, together with the development of carbon-free energy sources including renewable and nuclear energies. Reducing consumption and using energy more efficiently are key factors for the future security of supply, since high demand on the international markets raises prices significantly, and in some specific cases may even jeopardize guaranteed access to adequate supply. Greater use of renewable domestic sources also helps reduce dependency. Another key factor in future energy policies is climate change, given that the concentration of CO2 in the atmosphere is rising continuously and, according to many observers, reaching critical levels. This is another element in the drive for energy conservation and efficiency as well as for increased reliance on renewable sources, an important element in reducing the CO2 emissions of the energy sector, which account for such a significant portion of global greenhouse gas emissions. Yet despite the efforts of OECD member country governments to implement aggressive energy conservation and efficiency policies, it is expected that energy demand will continue to grow, driven in particular by the developing countries such as China and India, where deployment of renewable energies will be slower than in the OECD area. According to IEA forecasts, even if governments adopt policies to improve efficiency in energy production and use, world energy demand will grow by more than 50% from now to the year 2030 and electricity demand will grow more than 70% over the same period. Although the European Union will clearly not be leading the rise in demand for electricity, its requirement is expected to grow by at least 17% by 2030. Taking into account the need to replace obsolete power plants that reach the end of their useful life by 2030, this implies a significant need for new generation capacity. Base load needs As far as the electricity sector is concerned, new policies should consider both base and peak load requirements. While renewable sources already cover an important share of total power production and, as we have seen, will play a still more significant role in the future, their characteristics—intermittence and distribution—make them unsuitable for base load electricity production; biomass is the exception, but is not a major option in Europe where land availability for energy crops is limited. Hydropower could be used for base load, but the possibilities for its expansion in the European Union are very limited. Thus, in practical terms, the real contest for investment in base load electricity is between coal, natural gas and nuclear power. Based on the studies of the OECD’s IEA and NEA (Nuclear Energy Agency), and from the security of supply standpoint, coal is very attractive and competitive. It is, however, a large CO2 emitter—between 1000g and 1200g CO2 equivalent per kWh—implying that increased reliance on coal leads to increased CO2 emissions, unless carbon capture and sequestration is commercially available, which is not the case today. As regards natural gas, the studies indicate that although it is better than coal in terms of emissions—around 400g CO2 equivalent per kWh—the fact that its price is linked to some extent to the price of oil introduces many uncertainties regarding gas-generated electricity costs in the medium and long term. Furthermore, increased reliance on natural gas raises dependence on non-OECD countries, not an attractive prospect from the security of supply standpoint. Therefore nuclear power appears very well placed for providing base load electricity. First, a strong, mature industry is already in place. More than 30% of total electricity produced in the European Union comes from nuclear 21 22 power plants, in spite of the fact that almost no new facilities have been built in the last 20 years. Nuclear energy is essentially a domestic source. Fuel accounts for less than 20% of total nuclear electricity generation cost and the raw material itself, uranium, accounts for some 5%. In terms of security of supply, according to the Euratom Supply Agency more than 50% of the EU uranium supply and 70% of its enrichment service supply are provided by OECD countries. Uranium is plentiful and its main producers are two OECD countries, Australia and Canada. In terms of impact on climate change, even considering the whole fuel cycle, emissions are a mere 8g CO2 eq/kWh. As for cost, OECD studies indicate that even with the price of oil (which affects the price of natural gas) at about $40/45 per barrel, nuclear electricity is very competitive, despite a high capital investment cost requiring considerable financial outlay. A nuclear future? Given the need to reduce CO2 emissions and the high price of oil, renewed interest in nuclear power is spreading throughout Europe. The first country to return to nuclear energy was Finland, which decided a few years ago to build a new reactor with French/German technology. Its 1600 MWe of installed capacity could be in operation in 2011; it should be followed soon afterwards by a similar unit already under construction in France. These two countries have broken the ice surrounding new reactor construction in Europe, paving the way for other interested countries. The Slovak Republic has decided to complete construction of the two Mochovce units, halted some years back; Romania is completing Cernavoda; and Bulgaria decided recently to build four new reactors with Russian technology. Other countries are also seriously considering the construction of new units, notably the United Kingdom whose gas reserves have been significantly depleted and whose old nuclear reactors, which provide close to 20% of its electricity, will need to be replaced in the next ten years. All this means that nuclear power, a robust industrial and commercial reality in Europe, could play an even more significant role in the future in reducing the vulnerability of the EU’s energy supply and greenhouse gas emissions. However, the development of nuclear power raises social issues and concerns that need to be addressed. The political community must involve civil society in the debate about energy choices, and create a level playing field for evaluation of each technology and source. Recognizing that energy is an absolute requirement for social welfare, industrial growth and a sustainable future, and that all sources will be necessary to meet demand, a broad, open debate on the role of nuclear energy is essential to develop society’s understanding of its risks and benefits as compared to alternatives. Societal concerns Society should be aware of the implications of each energy choice and of the need to take the corresponding decisions to make those choices viable and sustainable. In the case of nuclear power, ultimate disposal of long-lived, high-level waste appears to be one of society’s main concerns. From a technical viewpoint, the research conducted by OECD countries over the past 30 years indicates clearly that the solution is already known. In the case of both open nuclear fuel cycles, without reprocessing or recycling, and closed cycles, with reprocessing and recycling, deep geological repositories guarantee that the surrounding population and future generations will not be subject to any undue risk. The methodology to evaluate the safety of these repositories, in areas with stable geological formations and using appropriately engineered barriers, is already available. Furthermore, retrievability and/or recuperability of waste deposited in the repositories allows for long-term control and opportunities to take advantage of technological progress for more efficient use of materials and/or the ultimate disposal of waste. Finland exemplifies a successful approach in this area. Before deciding whether to construct a new reactor, the Government and Parliament held lengthy and very comprehensive consultations with all stakeholders in society, which also considered the steps involved in construction of a repository for commercial spent nuclear fuel, the first of its type in Europe and the world. Other important issues raised by nuclear power are safety and proliferation of nuclear weapons. Regarding safety, the record of the OECD countries (with more than 350 reactors in operation) is very impressive, and the combination of a responsible industry and an independent regulatory system has proved highly effective. Non-proliferation is not a direct problem for European countries since they are firm supporters of the Non-Proliferation Treaty. It should also be stressed that the reinforcement of the international system of safeguards though the International Atomic Energy Agency (IAEA) and the new approaches to the fuel cycle, with fuel supply guarantees for third countries, provide enhanced assurance that commercial materials and technology will be accessible to everyone, but will not be diverted for non-civilian uses. A European debate on energy choices with the participation of all stakeholders in society is a fundamental tool for discussing options, examining them from the perspective of sustainable development, and considering social, environmental and economic factors within a comprehensive assessment framework. Such a debate is an essential step toward implementation of a robust European energy policy guaranteeing security of supply and addressing global climate issues. Nuclear power has demonstrated its technical and economic performance over several decades of industrial and commercial development and offers significant environmental benefits. Society will need to balance the risks and benefits of alternatives and ultimately decide on future energy mixes to meet its needs. * Luis E. Echávarri is Director-General of the Organization for Economic Co-operation and Development Nuclear Energy Agency (NEA). Before joining the NEA, Mr. Echávarri was Director-General of the Spanish Nuclear Industry Forum. Previously, he held several senior positions, as Technical Director and then Commissioner, at the Spanish Nuclear Safety Council (CSN). Mr. Echávarri spent several years at the Madrid Westinghouse Electric nuclear office, and was later appointed Project Manager of the Lemóniz, Sayago and Almaraz nuclear power plants. Mr. Echávarri has represented the OECD/NEA on the Governing Board of the International Energy Agency (IEA) since 1997 and became a member of the IAEA-International Atomic Energy Agency’s International Nuclear Safety Advisory Group in 2003. La difficile equazione dell’energia sostenibile The Problematic Sustainable Energy Equation di Leonardo Maugeri* by Leonardo Maugeri* La soluzione è negli investimenti in efficienza e tecnologia Solving the problem by investing in efficiency and technology Leonardo Maugeri L’ obiettivo di tendere a un’economia a minor contenuto di fonti fossili è possibile, ma non facile. E passa per una porta stretta. Perché la ragione per cui le fonti fossili coprono ancora oggi più dell’80% dei consumi di energia primaria del mondo è talmente solida da sfidare ogni più rosea aspettativa sulle fonti alternative: le fonti fossili sono in grado di offrire enormi quantità di energia a prezzi relativamente bassi. E nessun’altra fonte fino a oggi si è dimostrata in grado di fare altrettanto. Di tutti i loro vantaggi, questi sono sicuramente quelli essenziali e dirimenti. Ce ne sono altri, comunque, che non possono essere trascurati. Le fonti fossili sono disponibili quando ve ne è necessità, possono essere comprate e accumulate in attesa dell’uso futuro, possono essere trasportate da un paese all’altro. Inoltre, sono sufficientemente duttili da fornire più forme di energia: dal calore per il riscaldamento all’elettricità, ai carburanti per il trasporto. Tutto ciò senza menzionare la loro importanza nella petrolchimica di cui costituiscono le materie prime di riferimento. Il petrolio è la fonte in cui queste doti risultano impareggiabili e per questo è diventato il “re” dell’energia. Niente di simile è alla portata delle fonti alternative a quelle fossili. Con l’eccezione del nucleare e – in misura minore – dell’idroelettrico, il primo problema di queste fonti è quello di produrre quantità di energia limitate, sia per i vincoli posti dalle tecnologie e dalle conoscenze disponibili, sia per fattori oggettivi – su cui tornerò tra poco. Ciò prescinde dal problema del loro costo specifico, pure assai più alto per la maggior parte delle fonti alternative rispetto a quello delle fonti fossili. In altri termini, anche assumendo che si dia molto più spazio alle fonti alternative per ragioni di sensibilità ambientale e che il costo maggiore di queste fonti debba essere pagato dalla comunità – di per sé una linea d’azione condivisibile – il problema di fondo rimane: le quantità di energia che oggi possono fornirci sono relativamente modeste. Sicuramente non in grado di rispondere ai bisogni di energia di cui l’umanità avrà bisogno nel corso dei prossimi due decenni. Se l’energia solare copre oggi lo 0,4 per mille dei consumi mondiali di energia primaria, non è solo perché non si è ancora riusciti a portarla a un livello di economicità tale da renderla conveniente. Tra i principali problemi dell’energia solare vi sono la sua “bassa densità” e la modesta efficienza dei pannelli disponibili oggi e per il prossimo futuro (per i migliori pannelli fotovoltaici commerciali si arriva al 15%, anche se alcune società sembrano aver raggiunto pannelli commerciali con efficienza superiore al 20%). Pertanto per produrre con il solare quantità significative di energia elettrica occorrono spazi enormi: in zone a insolazione favorevole, come per esempio il Sud dell’Europa, una centrale da 500 MW a gas naturale richiede 6 ettari di terreno; una a solare fotovoltaico, richiederebbe 600-1000 ettari! Un discorso analogo vale per l’energia eolica, utilizzata per generare elettricità, che nel mondo copre meno dello 0,1% dei consumi primari di energia e lo 0,6% della produzione di elettricità. Oggi in termini di costo è molto più conveniente di quella solare e sta attraversando un boom mondiale che sembra far ben sperare. Il vento – come il sole – è una fonte intermittente di energia, che può mancare quando l’elettricità serve; le zone caratterizzate da venti costanti compresi tra i 4 e i 25 metri al secondo (quelli compatibili con il funzionamento di una turbina eolica) sono in molti casi non adatte all’installazione di impianti eolici. Inoltre, i più grandi di questi – quelli con rotori di diametro superiore ai 100 metri – possono alimentare generatori con potenza massima di pochi megawatt, 5 o 6 al massimo (ed è già un grande balzo in avanti rispetto ad appena 15 anni fa) e devono essere molto distanziati tra loro, per evitare che ogni impianto faccia da barriera a quello successivo (tra 2 generatori da 2 megawatt è necessaria una distanza “di rispetto” tra 300 e 800 metri a seconda delle condizioni ambientali). Ne consegue che per ottenere la stessa potenza installata in una comune centrale elettrica alimentata da fonti fossili è necessario costruire parchi eolici con centinaia di impianti lungo distese di molte decine di chilometri. Infine gli impianti eolici sono già incorsi negli strali di gruppi ambientalisti o di comunità che li hanno dovuti ospitare, a causa del loro impatto visivo, delle interferenze elettromagnetiche che determinano, dell’inquinamento acustico e delle trappole mortali che costituiscono per molti uccelli. Tutti questi problemi costituiscono un limite oggettivo alla possibilità dell’energia eolica di incidere in maniera adeguata sul mix dei consumi energetici mondiali. Altre fonti di energia più pulita di quella fossile, da quella delle maree alla geotermia, sono lontanissime dal poter offrire un contributo significativo al paniere energetico mondiale. Le biomasse che il mondo consuma oggi in maniera massiccia (10% dei consumi di energia primaria) sono costituite per la gran parte (70%) da legno, residui vegetali e perfino sterco essiccato, ovvero materie prime relativamente sporche, tipiche di popolazioni povere. La frontiera più avanzata delle biomasse, i biocarburanti, sta sì registrando un grande boom, ma con tante ombre e nubi che si stagliano all’orizzonte. Utilizzando colture tradizionali, occorrono enormi spazi coltivati per ottenere quantità modeste di biocarburanti e un impiego massiccio di fertilizzanti e acqua che renderebbe lo sviluppo di carburanti biologici su larga 23 24 scala problematico sotto il profilo della sostenibilità ambientale. Inoltre, la concorrenza dei biocarburanti con gli usi agro-alimentari dei terreni e delle colture (es. cereali) avrebbe un effetto potenzialmente devastante sui costi di tanti generi alimentari. Le prime avvisaglie si sono già avvertite, e siamo solo all’inizio di un boom. Nel frattempo, le uniche fonti alternative a quelle fossili in grado di incidere in modo significativo sul paniere energetico globale sono in crisi. Lo è il nucleare che, nonostante le prospettive di un rinascimento rilanciate anche di recente da importanti testate internazionali (da Fortune all’Economist), continua a recedere nel contributo alla produzione di energia elettrica del mondo. E il rinascimento di cui si parla sembra più scritto sulla carta che destinato a materializzarsi. I siti in costruzione nel mondo non bastano a compensare le chiusure di impianti ormai vecchi, che nel prossimo decennio saranno molti; e per quanto la vita di molti di essi possa essere allungata per legge, altri dovranno inevitabilmente chiudere. Troppi fattori, poi, giocano contro il nucleare, almeno per i prossimi due decenni: l’opposizione di molte comunità locali (soprattutto nel mondo industrializzato) alla costruzione di nuove centrali, la mancata soluzione del problema dello stoccaggio geologico delle scorie ad alta radioattività (nel mondo non esiste ancora un sito del genere), i lunghissimi tempi necessari per la certificazione e l’avvio commerciale delle prime centrali a sicurezza passiva, unitamente ai timori di proliferazione di armamenti nucleari e di attacchi terroristici. Non ultimi, fattori spesso dimenticati: le future generazioni si troveranno a pagare i costi non contabilizzati correttamente dello smantellamento delle vecchie centrali; le centrali costruite negli ultimi 15 anni hanno richiesto in media 200 mesi per essere avviate alla produzione (con l’eccezione di Giappone e Cina); e, ancora una volta, i budget ottimistici sulla base dei quali sono stati avviati i lavori si sono dimostrati irrisori. La centrale in costruzione in Finlandia, per esempio, ha visto il suo budget iniziale più che raddoppiare in pochi anni, riproponendo il dilemma se il nucleare – a costi reali (e non ipotetici) – sia conveniente o meno. Ciò detto, penso che l’equazione dell’energia sostenibile del nostro secolo non potrà fare a meno del nucleare: ma, visto lo stato delle cose, un vero rinascimento non potrà che trovare spazio dopo il 2025-2030. Anche l’energia idroelettrica non è in buona salute. La costruzione di grandi dighe è ormai sotto attacco in vaste aree del pianeta per motivi ambientali e sociali. I nuovi progetti si concretizzano in paesi in via di sviluppo, prevalentemente in Cina e America Latina, mentre siccità e pioggia insufficiente minano la produttività di molti impianti esistenti. L’altro motivo per cui la porta di un futuro a minore intensità di carbonio è stretta è che petrolio, carbone e gas naturale non sono destinati a esaurirsi in tempi brevi, come molti hanno vaticinato negli ultimi tempi. In altri termini, non c’è alcun problema di risorse. L’apparente deficit di questi anni, soprattutto del petrolio, è frutto soltanto degli scarsi investimenti nell’esplorazione e nello sviluppo che ha caratterizzato gli anni 80 e 90, sull’onda di un eccesso di offerta e di prezzi del greggio così bassi da non giustificare la creazione di nuova capacità produttiva. Un fenomeno del genere, d’altra parte, ha caratterizzato anche l’uranio e altre materie prime, la cui esplosione di prezzo nei primi anni di questo decennio ha infine avviato un forte rilancio di investimenti. Allo stesso tempo, la più inquinante delle fonti di energia – il carbone – è tutt’altro che in declino e sarà difficile ridimensionarne il consumo per un motivo molto semplice: esso è utilizzato prevalentemente (quasi per il 90%) da paesi che ne detengono grandi riserve a basso costo sul territorio (è il caso di Cina e Stati Uniti). Che per queste ragioni, ne faranno difficilmente a meno. Anche per questo, l’aumento di emissioni annuali di CO2 previsto per la Cina al 2020 rispetto a oggi – oltre 3,5 miliardi di tonnellate all’anno – è di circa 6 volte superiore all’obiettivo di riduzione, molto ambizioso, che l’Unione europea si sta dando per il 2020. Il gas naturale, poi, sta vivendo un boom meritato che non si ferma, forte del fatto di essere la fonte fossile migliore sotto il profilo ambientale. Il vero rischio che stiamo correndo, quindi, è che il grande sforzo in corso in tutto il mondo sulle energie rinnovabili e pulite rischi di compensare appena i problemi del nucleare e dell’idroelettrico, senza intaccare minimamente il peso delle fonti fossili. Che, anzi, potrebbero crescere ancora. Una nuova sensibilità energetica e ambientale, pertanto, deve fondarsi realisticamente non sull’obiettivo impossibile di tagliare drasticamente l’uso delle fonti fossili, ma su come utilizzarle al meglio sia in termini di efficienza sia sotto il profilo ambientale. Allo stesso tempo, essa deve prescindere dalle ondate di isteria provocate dai prezzi alti del petrolio e del gas, destinate a svanire nel momento in cui quei prezzi tornassero su livelli più moderati mettendo una pietra tombale sulle energie alternative. Non è con le spinte emotive di breve periodo che si può sviluppare una vera transizione energetica. In realtà, sia il modo migliore per convivere con le fonti fossili, sia la possibilità di sviluppo delle fonti a esse alternative, posano su due grandi pilastri: la ricerca scientifica e tecnologica e l’efficienza energetica. Occorre uno sforzo gigantesco della ricerca scientifica per puntare a tecnologie innovative che rendano le fonti alternative al petrolio effettivamente “alternative” – ovvero competitive in termini di costo e di quantità – nel medio-lungo periodo. Ma tale sforzo deve essere orientato anche a rendere meno inquinanti e perniciose per il clima le tradizionali fonti fossili. E poiché i risultati della ricerca scientifica non potranno essere immediati, è necessaria in parallelo un’azione incisiva sul fronte dell’efficienza energetica, che non potrà essere lasciata al volontarismo dei singoli, ma dovrà essere puntellata da leggi e vincoli precisi. Non si tratta di cambiare il nostro tenore di vita, ma di eliminare sprechi assurdi a cui ci hanno abituato prezzi dell’energia bassi per troppi decenni. Pochi esempi danno il senso di quello che potrebbero comportare consumi più responsabili: se gli statunitensi avessero un parco auto con la stessa efficienza di quello europeo (che pure non è eccelso) potrebbero risparmiare oltre 4 milioni di barili di petrolio al giorno, molto più di quanto oggi consumi un paese in forte crescita come l’India oppure più di quanto greggio produce l’Iran. Se la Cina avesse centrali a carbone di ultima generazione potrebbe tagliare del 20-30 per cento i propri consumi di energia. Sposare l’efficienza energetica come programma da attuare subito, in sostanza, non significa riportare indietro le lancette dello sviluppo. Significa ricorrere alla più potente e meno costosa fonte alternativa al petrolio, tagliando drasticamente non solo le emissioni di gas serra, ma anche di tutti gli inquinanti locali che affliggono il nostro vivere quotidiano. Ma è soprattutto un prerequisito per poter chiedere in modo credibile ai paesi in via di sviluppo di partecipare allo sforzo di salvaguardia ambientale e climatica del nostro pianeta. Senza dimenticare che se questi si limitassero a imitare i comportamenti energetici seguiti dall’Occidente nel XX secolo, condannerebbero il pianeta a una sorte infausta. * Leonardo Maugeri è direttore Strategie e Sviluppo dell’Eni. Tra i più noti esperti mondiali di energia, ha scritto diversi libri, tra cui l’ultimo, The Age of Oil, pubblicato negli Usa, è stato tradotto e pubblicato in Italia da Feltrinelli (L’Era del Petrolio, 2006). I suoi articoli sono stati pubblicati sulle più prestigiose testate internazionali, da Newsweek a Foreign Affairs, da Science a Forbes e al Wall Street Journal. È editorialista del Sole 24 Ore, e membro del World Economic Laboratory del MIT, dell’International Councillors Board del Center for Strategic & International Studies (CSIS) e dell’Energy Advisory Board (Consiglio consultivo sull’energia) di Accenture. A chieving an economy with a lower fossil fuel content is possible, but not easy. And the window of opportunity is very narrow. The reason why fossil fuels continue to account for more than 80% of world primary energy consumption is so solid that it withstands even the most optimistic expectations regarding alternative fuels: fossil sources offer enormous quantities of energy at relatively low prices. And so far no other source has been able to match them. These are certainly the two absolute advantages offered by fossil sources. Yet there are others we should not neglect. Fossil fuels are available when we need them, they can be purchased and stored for future use, they can be transported from one country to another. They are sufficiently ductile to support different forms of energy: heating, electricity, transport fuel. Not to mention their importance in the petrochemicals industry, where they are the primary raw material. For all these reasons, oil is incomparable, and this is why it “reigns” supreme. No such benefits are offered by non-fossil sources. With the exception of nuclear and—to a lesser extent—hydroelectric power, the first problem with the alternatives is that they produce limited quantities of energy, due both to technological constraints and limited available knowledge, and to a series of objective factors, of which more later. Then there is the question of the alternatives’ specific cost, which, in the majority of cases, is very much higher than the cost of fossil fuels. In other words, even assuming that far greater space is given to alternative sources for environmental reasons and that their higher cost will be paid by the community—an assumption that would find 25 26 a consensus—the basic problem remains: the quantities of energy they can deliver today are relatively modest, and certainly not sufficient to meet the world’s energy requirement over the next twenty years. If solar energy today covers 0.04% of world primary energy consumption, it is not only because we have not attained a sufficient level of cost-effectiveness. One of the main problems with solar energy is its “low density” and the modest efficiency of the panels available today and in the near future (the best photovoltaic panels on the market offer 15% efficiency, although some companies seem be marketing panels offering more than 20%). Consequently, huge amounts of space are needed to produce sufficient quantities of solar power: in areas with high levels of sunlight like Southern Europe, a 500 MW natural gas station takes up 6 hectares; a photovoltaic solar plant would require from 600-1000 hectares! The same applies to use of wind energy for electric power generation; worldwide, wind power accounts for less than 0.1% of primary energy consumption and 0.6% of electricity production. In cost terms, it is far more competitive than solar energy and is enjoying a promising world boom. The wind—like the sun—is an intermittent source of energy and may not be available when power is needed; many areas with constant winds between 4 and 25 meters/second (the level needed to operate a wind turbine) are not suitable for wind farm installations. Moreover, the largest wind plants—with a rotor diameter of more than 100 meters—can supply generators with a maximum power of only 5 to 6 megawatts at most (already a major advance compared with the situation just 15 years ago) and have to be installed at a great distance one from the other to prevent each turbine acting as a barrier to its neighbor (depending on environmental conditions, a distance of between 300 and 800 meters is needed between two 2-megawatt generators). So to achieve the same installed power as a normal fossil fuel power station, you need a wind farm of hundreds of turbines installed in an area extending over dozens of kilometers. Finally, in the areas where they have been installed, wind plants have already encountered bitter opposition from environmentalists and local residents due to their visual impact, electromagnetic interference, acoustic pollution and the fact that they are death traps for many species of birds. All these difficulties represent an objective limit on wind energy’s potential to account for a significant portion of world energy consumption. Other sources that are cleaner than fossil fuel, from tides to geothermal energy, are very far from offering a significant contribution to the world energy requirement. The biomass widely used in the world today (10% of primary energy consumption) consists largely (70%) of wood, vegetable matter and even dried excrement, that is, relatively dirty raw materials, typical of poorer populations. True, there is a boom in biofuels, the leading edge of biomass, but drawbacks exist here, too. If traditional crops are used, huge stretches of land need to be cultivated to obtain even modest quantities, and require extensive application of fertilizer and water, raising doubts about the environmental sustainability of large-scale development of biological fuels. Moreover, the competition between biofuels and agricultural/food crops (cereals, for example) would have a potentially devastating effect on the cost of many foodstuffs. We have already seen the first signs of this, and the boom is only just beginning. Meanwhile, the only non-fossil alternatives that could have a significant impact on global energy are in crisis. Despite the prospects of a renaissance outlined only recently by leading international journals (from Fortune to The Economist), the contribution of nuclear power to world electricity production continues to dwindle. The resurgence seems to be on paper rather than in fact. The nuclear plants under construction around the world are insufficient to compensate for the closure of the many plants that will become obsolete over the next ten years; and even though laws may be passed to extend the working life of some of these sites, others will inevitably close. Too many factors work against nuclear, at least for the next twenty years: the opposition of many local communities to construction of new nuclear plants (especially in the industrialized nations); the failure to resolve the problem of geological storage of high level radioactive waste (no such site yet exists in the world); the very lengthy procedures for certification and commercial start-up of the first passively safe plants, together with concerns over the possible proliferation of nuclear armaments and terrorist attacks. Nor we should forget a series of factors that are often overlooked: the future generations will find themselves paying the incorrectly estimated decommissioning costs for old plants; commissioning the nuclear installations built in the last 15 years has taken an average 200 months (with the exception of Japan and China); and, in this case too, the optimistic initial budgets have proved grossly inadequate. The cost initially budgeted for the plant under construction in Finland, for example, has more than doubled in just a few years, reviving the old debate over whether or not nuclear energy is a practical option in terms of real, not hypothetical costs. That said, I believe that the century’s sustainable energy equation cannot do without nuclear: but given present circumstances, a true renaissance will only be possible after 2025-2030. Hydroelectric energy is in a poor state of health, too. Today there is widespread environmental and social opposition to construction of major dams all over the world. Most new projects are in developing nations, chiefly China and South America, while drought and low rainfall are undermining the productivity of many existing plants. The other reason why opportunities for a less carbon-intensive future are so scarce is that, contrary to many recent prophecies, our oil, coal and natural gas reserves will not dry up in the short term. In other words, we are not facing a shortage of resources. The recent apparent deficit, in oil in particular, is due simply to low investment in exploration and development during the 1980s and 1990s, a time of surplus supply and crude prices that were too low to justify new production capacity. Uranium and other raw materials have experienced similar trends, with the soaring prices of the last few years now finally driving a sharp resumption of investment activity. At the same time, the world’s most polluting energy source—coal—is very far from going into decline and reducing consumption will be difficult, for the very simple reason that almost 90% of coal use is concentrated in countries that possess large low-cost reserves (China and the USA) and, consequently, will be unwilling to do without. For this reason too, the expected rise in China’s annual CO2 emissions from now to 2020—more than 3.5 billion tonnes a year—is around 6 times greater than the very ambitious reduction the EU is targeting for 2020. Meanwhile the understandable boom in natural gas shows no sign of slackening, given its position as the most environment-friendly fossil fuel. So the real danger is that the enormous efforts being made all over the world for clean, renewable energy may only just manage to offset the problems with nuclear and hydroelectric power, and have absolutely no impact on use of fossil fuels, whose importance may indeed increase further. Realistically speaking, the energy and environment debate should focus not on the impossible goal of achieving dramatic cuts in fossil sources, but on ways to optimize their use in terms of efficiency and environmental impact. Equally, it should remain detached from the hysterical outbursts provoked by high oil and gas prices, which will evaporate should prices return to more moderate levels, putting a nail in the coffin of alternative energy sources. Short-term emotional responses are not a foundation for a real transition in energy. In practice, the best way to live with fossil fuels, and opportunities to develop alternative sources, depend on two key elements: scientific and technological research, and energy efficiency. We need a huge effort from the scientific community to develop innovative technologies that make alternatives to oil truly “alternative”—that is, competitive in terms of cost and quantity—over the medium/long-term. Their work should also focus on curbing the pernicious impact of traditional fossil fuels on the climate. And since the scientists will not be able to give us immediate results, incisive action is also needed to improve efficiency, not simply through the voluntary action of the individual, but through specific laws and restrictions. This is not a question of changing our standards of living, but of eliminating the unacceptable waste that too many years of low energy prices have accustomed us to. A few examples illustrate the possibilities of a more responsible approach to consumption: if the efficiency of American automobiles were on a par with the efficiency of European vehicles (which itself could be improved), the USA could save more than 4 million barrels of oil a day, far more than the volumes consumed today by a rapidly expanding India and more than Iran’s crude output. If China installed latest-generation coal-fired power stations, it could cut its energy consumption by 20-30 per cent. In short, advocating an immediate program for energy efficiency does not mean delaying development. It means using the most powerful and less expensive alternative source to oil, with dramatic reductions not only in greenhouse gas emissions but also in all the local pollutants that afflict our daily lives. Above all, it gives us credibility when we ask the developing countries to join us in safeguarding the planet’s environment and climate. Not forgetting that if those nations were simply to imitate the energy patterns adopted by the West in the XX century, they would condemn the Earth to a dreadful fate. * Leonardo Maugeri is ENI Vice President for Strategy & Development. One of the world’s most distinguished energy experts, he has written several books, the most recent of which, The Age of Oil, published in the USA, has been translated and published in Italy by Feltrinelli (L’Era del Petrolio, 2006). Maugeri’s articles have been published in leading international journals, from Newsweek and Foreign Affairs to Science, Forbes and Wall Street Journal. He is a leader writer for Il Sole 24 Ore newspaper, and a member of the MIT World Economic Laboratory, the International Councillors Board of the Center for Strategic & International Studies (CSIS) and the Accenture Energy Advisory Board. 27