Global - Italcementi Group

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Global - Italcementi Group
Global
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Più energia o più efficienza?
More Energy or Smarter Use?
di Nariman Behravesh e Emilio Rossi*
by Nariman Behravesh and Emilio Rossi*
Il potenziale esaurimento delle risorse del pianeta e gli effetti sul clima
spingono a ricercare con urgenza soluzioni innovative
The potential depletion of world resources and the impact on climate
are driving urgent calls for innovative solutions
Nariman Behravesh
Crescita della domanda di
energia, esaurimento delle
risorse del pianeta,
cambiamenti climatici, ascesa
del prezzo del petrolio, fonti
energetiche rinnovabili.
Siamo destinati a un futuro
senza oro nero?
O le apocalittiche previsioni
di un imminente picco della
curva di produzione del
greggio mascherano invece
scarsi investimenti e gravi
deficit tecnologici?
Il nucleare rappresenta
realmente la migliore
soluzione a zero emissioni?
Il dibattito è ancora aperto.
Resta il fatto che nuove
scoperte, maggiore
sfruttamento, energie
alternative e innovazione
tecnologica nulla potranno
senza una cooperazione
internazionale più ampia
ed efficace.
Growing demand for energy,
depletion of the planet’s
resources, climate change,
rising oil prices, renewable
energy sources. Are we facing
a future without oil? Or are the
apocalyptic forecasts of an
imminent peak in the crude
production curve a cover
for insufficient investment
and serious technological
shortcomings?
Is nuclear energy really the best
emission-free option? The debate
continues. The fact remains that
new discoveries, more effective
utilization, alternative sources
and technological innovation are
nothing without wider and more
constructive international
cooperation.
N
egli ultimi due decenni,
“sostenibilità” è diventata
poco a poco una parola
chiave per l’intero settore del
mercato mondiale dell’energia.
Un ampio consenso è stato
ormai raggiunto tra politici,
imprenditori e consumatori sul
fatto che le modalità con cui
l’umanità attualmente produce
e consuma energia comportano
un rischio molto elevato di
esaurimento delle risorse del
pianeta in un periodo di tempo
relativamente breve. L’energia
è essenziale per la vita umana e,
sebbene il progresso tecnologico
consenta una riduzione
significativa del contenuto
energetico per unità di prodotto,
è impensabile un mondo privo
di forme di energia sofisticate,
per lo meno allo stato delle
conoscenze tecnologiche attuali
e di quelle ipotizzabili per il
prossimo futuro. Questa
semplice considerazione però
non tocca tutti gli aspetti che si
celano dietro la parola
“sostenibilità”.
Un altro elemento chiave della
“sostenibilità” è la crescente
preoccupazione per i
cambiamenti climatici globali
e i loro effetti sulle attività
umane. In questo ambito,
gli scienziati (con l’eccezione
di alcuni scettici) sono concordi
nel ritenere che le emissioni
Emilio Rossi
di anidride carbonica che
derivano dalla produzione,
trasformazione e consumo delle
fonti energetiche stiano
alterando il normale corso dei
cicli climatici del pianeta.
Il potenziale esaurimento delle
risorse mondiali e le
conseguenze climatiche
richiedono con urgenza delle
soluzioni innovative per il futuro
dell’energia mondiale.
Il presumibile esaurimento delle
riserve di idrocarburi può ormai
essere considerato un dato di
fatto. Sarebbe meglio chiedersi,
dunque, quando avverrà. Tra un
paio di decenni? Tra un secolo?
O forse, ancora più tardi?
Qualunque sia la risposta,
dobbiamo considerare una serie
di condizioni fondamentali
relative a ciò che accadrà nel
lungo termine (diciamo tra
cinquant’anni o oltre).
• Dovrà essere adottato un
nuovo approccio al consumo
energetico. Una serie di studi,
effettuati da organismi quali
l’UN-IPCC (Panel intergovernativo
sui cambiamenti climatici delle
Nazioni Unite), la IEA dell’Ocse
(Agenzia Internazionale per
l’Energia), la Commissione
europea e l’EIA (Agenzia
statistica del Dipartimento
dell’Energia Usa), considerano
la conservazione dell’energia un
dovere di tutti e il fattore più
importante per ridurre in modo
significativo l’intensità
energetica e le emissioni di
anidride carbonica.
La conservazione delle fonti
energetiche richiede grandi
investimenti, specialmente in
impianti ed edifici di uso finale,
sebbene secondo la IEA e altri
studi, gli utili compenseranno
abbondantemente
l’investimento iniziale.
La conservazione richiede anche
un cambiamento delle abitudini
legate all’uso dell’energia,
con particolare attenzione
al comportamento del singolo
consumatore così come
ai processi di produzione
industriale, per minimizzare gli
scarti e massimizzare il recupero
dei materiali.
• Sarà necessaria una
combinazione di diverse fonti
energetiche per ridurre l’uso
dei combustibili fossili nella
produzione di energia.
Attualmente l’attenzione si
concentra in particolare sulle
fonti rinnovabili, tra le quali
il nucleare rappresenta
una possibile soluzione a zero
emissioni, sebbene manchi
ancora del necessario sostegno
popolare.
• In ogni caso, prima che
l’energia solare, l’eolica,
l’idrogeno e le biomasse possano
sostituire completamente
gli idrocarburi come fonti
energetiche poco costose sono
necessari dei progressi
tecnologici di grande portata.
Affinché queste tre condizioni si
realizzino è necessario prendere
provvedimenti e agire con
urgenza, anche se dovremo
sicuramente affrontare un lungo
periodo di transizione in cui
gli idrocarburi diventeranno
sempre meno disponibili
e di conseguenza sempre più
costosi. La maggior parte degli
studi internazionali sul futuro
energetico del pianeta
e sul potenziale esaurimento
dei combustibili fossili indicano
però che le riserve di petrolio
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e gas naturale non saranno un
problema almeno fino al 2030,
considerando che nel frattempo
si diffonderanno maggiormente
nuove tecnologie e nuovi
processi di raffinazione del
petrolio (idrocarburi liquidi
da gas naturale, petrolio
non convenzionale, bio-fuels,
nuove riserve).
Uno dei principali studi
viene dalla stessa industria
petrolifera ed è stato condotto
e recentemente pubblicato
dal NPC (National Petroleum
Council), un’organizzazione di
175 organismi che dipendono
dal governo americano, sotto
la direzione di Lee Raymond,
ex amministratore delegato
della ExxonMobil. Il gruppo
che ha prodotto il rapporto
comprendeva anche centri di
ricerca privati, istituzioni
accademiche, banche,
agenzie governative e gruppi
ambientalisti quali Resources
for the Future e Alliance
to Save Energy.
Secondo il rapporto, carbone,
petrolio e gas naturale
rimarranno indispensabili nei
prossimi decenni per rispondere
alla prevista crescita globale
della domanda di energia,
ma “l’offerta globale di petrolio
e gas naturale da fonti
convenzionali…non potrà stare
al passo…con la crescita della
richiesta nei prossimi 25 anni”.
In sintesi, la stessa industria
petrolifera sostiene la necessità
di ricercare nuove fonti
di energia. Il rapporto, che
ha richiesto quasi due anni
di lavoro, fa eco alle
preoccupazioni per l’incombente
esaurimento di petrolio e gas
naturale precedentemente
espresse dalla IEA, l’Agenzia
Internazionale per l’Energia
dell’Ocse.
Ovviamente qualsiasi stima
relativa alla domanda futura
di energia e di idrocarburi
è soggetta a supposizioni
e previsioni che implicano
un certo numero di fattori
che possono impattare
significativamente sulle
proiezioni stesse relative alla
domanda di energia e alla sua
composizione per fonti.
Il mondo dell’energia raramente
si sviluppa secondo percorsi
prevedibili ed è soggetto a
svariate influenze, che rendono
complicato determinare in che
modo ogni singolo fattore agirà
sulla situazione futura, e tanto
meno la combinazione di tutti
i fattori in gioco.
Fattori globali economici,
politici e demografici
Negli ultimi 25 anni,
l’innovazione finanziaria,
specialmente negli Stati Uniti
e in Gran Bretagna, ha prodotto
consistenti flussi di capitale
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da destinare agli investimenti,
mentre l’integrazione europea
e l’unione monetaria hanno
gettato le basi per una finanza
pubblica più sana, inflazione
contenuta e tassi di interesse più
bassi in Europa. L’avvento della
moneta unica europea ha inoltre
consentito ai paesi dell’Unione
di diversificare le proprie attività
di riserva in valuta estera,
riducendo così i rischi in ambito
finanziario. Allo stesso tempo,
la perdurante tendenza verso
la globalizzazione ha consentito
alle grandi multinazionali di
rilocalizzare le proprie attività
produttive in aree a basso costo
della manodopera e delle risorse
naturali, contribuendo
al contenimento dei prezzi
nonostante gli aumenti
sostanziali di petrolio e materie
prime. Il boom cinese basato
sul basso costo del lavoro
è solo un esempio del
sostanziale contributo alla
disinflazione mondiale fornito
dai paesi in via di sviluppo.
Per completare il quadro,
la caduta del comunismo e la
fine della Guerra fredda hanno
portato a un “dividendo
di pace”, sotto forma di una
riduzione delle spese per
la difesa e più intensi rapporti
di collaborazione e scambi
commerciali tra i blocchi un
tempo antagonisti. La fine della
Guerra fredda ha inoltre
facilitato il passaggio
all’economia di mercato in molti
paesi industriali occidentali
traducendosi in una incisiva
deregolamentazione,
privatizzazione delle proprietà
statali, maggiore flessibilità del
mercato del lavoro,
liberalizzazione commerciale, ecc.
Considerati i precedenti storici,
è possibile fare delle ragionevoli
ipotesi sui possibili scenari dei
prossimi 25 anni, fino al 2030.
I soggetti che si sono
avventurati sul terreno delle
previsioni per la domanda
futura di energia, quali
l’UN-IPCC, la EIA americana,
la IEA dell’Ocse e Global Insight,
hanno formulato ciascuno
le proprie proiezioni in materia
di crescita economica, che
differiscono però sia per
dimensioni della crescita sia per
il diverso contributo delle
singole aree del pianeta.
In generale però ci si aspetta
che la crescita annuale del
Prodotto interno lordo mondiale
si stabilizzi tra il 3,5% e il 4%,
accompagnata da un’ulteriore
progressiva liberalizzazione
dei mercati e del commercio
mondiale. Lo sviluppo del
mercato economico e finanziario
in Cina, e nell’Asia in generale,
consentirà un progressivo
aumento della produttività
totale, compensando in questo
modo il minore contributo
dei singoli fattori produttivi.
Per contro, minori e più lenti
saranno i miglioramenti di
efficienza sui mercati europei dei
capitali e del lavoro, e il
problema sarà aggravato dalla
frammentazione politica
dell’Europa e dei paesi europei:
con il risultato che l’Europa non
raggiungerà il suo pieno
potenziale di crescita. Infine,
l’instabilità politica continuerà
a frenare l’Africa e il Medio
Oriente, che rimarrà un’area
di importanza fondamentale
per il mercato del petrolio
e dell’energia.
Un altro elemento chiave
nelle previsioni relative
alla domanda energetica è la
crescita demografica. Numerosi
osservatori usano proiezioni
demografiche basate sui
rapporti delle Nazioni Unite, che
prevedono un aumento medio
annuo dell’1% fino al 2030,
per un totale di 8,1 miliardi
di persone (dai 6,4 miliardi
del 2004).
Sviluppo tecnologico
L’attuale livello di know-how
tecnologico senza precedenti
è il risultato di un processo
di evoluzione sostanzialmente
costante dall’inizio dell’era
industriale fatto di progressi
continui piuttosto che svolte
epocali. Negli ultimi 25 anni
sono state introdotte numerose
innovazioni tecnologiche
correlate all’energia, con un
significativo effetto positivo
sull’equilibrio tra domanda
e offerta. Queste innovazioni
hanno interessato
sostanzialmente tutti gli ambiti
del settore energetico:
la produzione di energia
primaria ha registrato rapidi
incrementi di produttività
nell’attività estrattiva, grazie
a piattaforme per profondità
sempre maggiori, sistemi di
trivellazione orizzontale,
miglior recupero delle riserve
di petrolio, come pure l’iniziale
sviluppo e produzione di
idrocarburi non convenzionali.
Nel campo della generazione
e trasformazione di energia,
si è ottenuto un miglioramento
dell’efficienza dal 52%
al 58% (potere calorifico
inferiore, al netto delle perdite
di calore dell’impianto);
la commercializzazione di
turbine a gas a ciclo combinato
(CCGT) ha conquistato
importanti quote di mercato e
la capacità delle turbine eoliche
è passata da meno di 100 kW
a quasi 5 MW per unità, senza
considerare l’avviamento di
turbine eoliche off-shore.
La tecnologia ha inoltre
consentito una riduzione dei
costi di trasporto del gas
naturale liquefatto (LNG)
insieme a una serie di
miglioramenti di efficienza dei
prodotti di consumo
(lampadine, elettrodomestici
bianchi, automobili, ecc.).
Non c’è alcun motivo per
ritenere che questa tendenza
debba arrestarsi. Se non altro,
il probabile aumento del prezzo
degli idrocarburi favorirà
ulteriori attività di Ricerca
& Sviluppo nel settore energia,
che probabilmente
contribuiranno a produrre una
decisa accelerazione del
progresso tecnologico.
I progressi nella scienza dei
materiali, nelle nuove
tecnologie delle batterie, nel
costo del kWh di energia solare
e nella tecnologia dei bio-fuels,
nello sviluppo commerciale
dell’energia prodotta dalle
maree e nella diffusione
capillare di contatori intelligenti
per gas ed elettricità sembrano
ormai a portata di mano.
Prevedere il prezzo del
petrolio e la domanda
globale di energia
Il primo fattore da considerare
nel tentativo di descrivere uno
scenario globale dei mercati
energetici del futuro è il prezzo
del petrolio e i suoi effetti sulla
domanda e sulla produzione
tanto dello stesso petrolio
quanto delle altre fonti
di energia che in relazione a
questo possono diventare più o
meno competitive, modificando
di conseguenza il quadro degli
investimenti in ricerca in una
o nell’altra fonte. Diversi istituti
di ricerca si sono cimentati
in previsioni sul prezzo del
petrolio raggiungendo risultati
dissimili, anche se tutti
distribuiti comunque entro una
banda di oscillazione non
troppo ampia. In particolare,
secondo le previsioni di
Global Insight il petrolio,
sostanzialmente su alti livelli
in termini nominali, registrerà
invece una lenta flessione in
termini reali. Tale ipotesi si basa
su una serie di considerazioni,
prima fra tutte il fatto che
il costo attuale del petrolio
è in qualche modo influenzato
da un “effetto paura” dettato
dalla cosiddetta sindrome
del “picco del petrolio”.
In secondo luogo, se da un lato
la produzione di greggio
convenzionale non-OPEC avrà
molto probabilmente un picco
prima del 2020, dall’altro il
greggio convenzionale OPEC, le
frazioni liquide del gas naturale
(NGL) OPEC e non-OPEC, più
l’aumento dei bio-fuels e di
altre fonti energetiche
(GTL-idrocarburi liquidi da gas
naturale, petrolio pesante,
sabbie bituminose) aiuteranno
a soddisfare la domanda.
La Figura 1 illustra il contributo
relativo alla produzione globale
di petrolio.
Sulla base dei recenti sviluppi
economici, politici, demografici,
tecnologici, dell’aumento del
prezzo del petrolio e dello
scenario descritto
precedentemente, riteniamo
abbastanza probabile un trend
della domanda globale di
energia fino al 2030, come
descritto nella Figura 2. Bisogna
sottolineare che le proiezioni
proposte dalla IEA dell’Ocse,
dalla EIA americana, da Global
Insight e altri autorevoli
organismi si muovono
all’interno di una oscillazione
piuttosto modesta, anche se si
registrano alcune differenze,
specialmente nel contributo
relativo di alcune fonti.
Il dato più rilevante che
emerge dall’analisi delle diverse
previsioni, come risulta
chiaramente anche dalla
Figura 2, è che gas naturale,
petrolio e carbone sono le tre
fonti che aumenteranno
Figura 1 – PREVISIONI DELLA PRODUZIONE MONDIALE DI PETROLIO
(in milioni di barili al giorno)
maggiormente in termini
assoluti. In altre parole,
i combustibili fossili
continueranno a fare la parte
del leone nello scenario del
consumo energetico mondiale.
Le fonti rinnovabili (che nel
grafico comprendono anche
le biomasse) registreranno
l’incremento più sostenuto,
ma il loro contributo totale alla
copertura della domanda
energetica nel 2030
rappresenterà poco più del
10%. L’uso dell’energia
nucleare è il dato su cui le stime
discordano maggiormente,
specialmente dopo il 2015.
Se secondo la IEA e Global
Insight entrerà realmente in
funzione solo un numero
limitato degli impianti pianificati
e in fase di progetto – e il loro
contributo consisterà
prevalentemente nella
sostituzione degli impianti in via
di smantellamento – la EIA
americana ne prevede invece
una crescita più sostenuta
a partire dal 2015, pur
riconoscendo che il contributo
del nucleare rimarrà comunque
marginale.
Un’altra importante indicazione
che emerge dalla Figura 2
è che l’influenza di ciascuna
fonte sul totale non subirà
variazioni considerevoli rispetto
alla situazione odierna.
Aumenterà la contribuzione del
gas naturale, ma le fonti
rinnovabili non sembrano
raggiungere quel livello di
diffusione che potrebbe
garantire una significativa
riduzione delle emissioni di
anidride carbonica.
La sensazione è, dunque,
che, nonostante il Protocollo
di Kyoto e le preoccupazioni
che circolano tra scienziati,
politici e consumatori, gli appelli
per nuove fonti di energia pulita
e per un cambiamento nel
comportamento dei
consumatori non porteranno
a nessuna reale novità nel
mondo dell’energia…e che
in realtà stiano solo facendo
“molto rumore per nulla”.
*Nariman Behravesh è direttore
del Dipartimento di Economia Globale
e vice presidente esecutivo di
Global Insight. Prima di collaborare
con Global Insight, è stato direttore
del Dipartimento di Economia
Internazionale di Standard & Poor’s.
Emilio Rossi è direttore dell’European
Consulting per Global Insight, sede
di Milano, Italia.
Figura 2 – ANDAMENTO DELLA DOMANDA ENERGETICA
7
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I
n the last two decades,
“sustainability” has gradually
become a keyword for the
world energy markets and
stakeholders. A wide consensus
has been reached among policy
makers, business and
consumers that the way
mankind is currently producing
and using energy will lead to
a very high risk of depletion
of world resources within
a relatively short space of time.
Energy is essential to human life
and, although technological
progress has enabled
a significant reduction in energy
content per unit of production
and use, a world lacking
sophisticated forms of energy
is inconceivable, at least as far
as current and foreseeable
technological knowledge
is concerned. But this simple
consideration does not cover
all the issues behind the word
“sustainability”.
Another key element of
“sustainability” is the increasing
concern over global climate
change and its impact on
human activities. In this area,
it is the scientists (with the
exception of some skeptics)
who have reached a consensus
that carbon emissions from the
production, transformation and
consumption of energy sources
are altering the normal course
of world climate cycles.
The potential depletion of world
resources and the impact on
climate are driving urgent calls
for innovative solutions for the
future of world energy.
The eventual exhaustion of
hydrocarbon reserves can be
taken as fact. The question is,
when will it occur? In a few
decades? In a century?
Or, maybe, even later?
Whatever the answer, we need
to consider a number of key
conditions regarding the very
long term (say 50 years
or longer).
• A new approach to energy
consumption will have to be
achieved. A number of studies,
from authorities including the
UN-IPCC (United Nations
Intergovernmental Panel on
Climate Change), the OECD-IEA
(International Energy Agency),
the EC (European Commission)
and the US-EIA (Energy
Information Administration),
consider energy conservation a
must and the single most
important factor that can curb
significantly energy intensity as
well as carbon emissions.
Energy conservation requires
large investments, especially in
end-use equipment and
buildings, although, according
to the IEA and other studies,
the returns will more than
compensate for the initial
investment. Conservation also
requires a change of habits
in the use of energy, with
attention on the behavior of the
individual consumer as well as
on industrial production
processes, in order to minimize
waste and maximize recycling.
• A portfolio of different
sources will be needed to
reduce the use of fossil fuels in
the production of energy.
The current focus is on
renewable sources, with nuclear
representing a possible
emission-free solution, but
popular support needs to be
built up.
• Nevertheless, major
technological breakthroughs
will be required before solar,
wind, hydrogen and biomass
fully substitute hydrocarbons as
non-expensive energy sources.
While action is taken to put
these three conditions in place,
we shall experience a long
period of transition during
which hydrocarbons will
become less and less available
and consequently more and
more expensive. However,
the majority of international
studies on the world’s energy
future and the potential
shortage of oil and gas
conclude that oil and natural
gas reserves will actually not
become a problem until at least
2030, as new technology and
new ways to produce oil
become more common (natural
gas to liquids, unconventional
oil, bio-fuels, new reserves).
One of the main studies
comes from the oil industry
itself—it was produced and
recently released by the NPC,
the National Petroleum Council,
a body of 175 authorities that
reports to the US government,
under the direction of
Lee Raymond, former CEO
of ExxonMobil. The team that
produced the report also
included private research
centers, academic institutions,
banks, government agencies
and environmental groups like
Resources for the Future and
the Alliance to Save Energy.
According to the report, coal,
oil and natural gas will remain
indispensable in the next few
decades to meet total projected
growth in energy demand, but,
it concludes, “the global supply
of oil and natural gas from
the conventional sources ... is
unlikely to meet ... growth
in demand over the next
25 years”. In a nutshell, the oil
industry itself is advocating the
need to search for new energy
sources. The report, which took
almost two years to produce,
echoes the concern about
impending oil and natural gas
shortages previously voiced by
the International Energy Agency
of the OECD.
Naturally, any estimate of future
energy and hydrocarbon
requirements is subject to
assumptions and forecasts
regarding a number of factors
with a significant impact on
projected energy demand and
its composition by fuel.
The energy world rarely
develops in a predictable
manner and is subject to
varying influences, making it
difficult to determine how any
single factor will affect the
future, let alone the combination
of all the factors in play.
Global economic, political
and demographic drivers
Over the last 25 years, financial
innovation, especially in the
United States and the United
Kingdom, has freed up
significant amounts of capital for
investment, while European
integration and monetary union
has set the stage for healthier
public finances, lower inflation
and lower interest rates
in Europe. The advent of the
single European currency
has also allowed countries to
diversify their foreign reserve
assets, thus lowering risks in the
financial environment. At the
same time, the constant trend
toward globalization has allowed
corporations to re-locate their
production facilities to areas
where resources (both natural
and labor) are cheaper, helping
to keep prices down despite
substantial rises in oil and
commodities prices.
The Chinese boom based on
cheap labor is just one example
of how the developing
countries are contributing to
worldwide disinflation.
To complete the picture, the fall
of Communism and the end
of the Cold War has brought
a “peace dividend”, in the form
of a reduction in defense
expenditure and a higher level
of collaboration and trade
between the formerly
antagonist blocks. The end
of the Cold War has also
facilitated the shift toward
market-driven economies in
many Western industrial
countries. This has translated
into significant deregulation,
sales of state ownership in
companies, greater flexibility on
labor markets, freer trade, etc.
Given this historical
background, some reasonable
assumptions may be made
regarding the probable
economic scenario for the next
25 years, or until 2030.
The bodies that have ventured
into forecasting future energy
demand, such as the UN-IPCC,
the US-EIA, the OECD-IEA
and Global Insight, have each
formulated their own economic
growth projections, which differ
with regard both to the scale of
growth and to the contribution
of each world region to growth.
Overall, however, the
expectation is that the annual
growth in world GDP will
stabilize between 3.5% and
4%, accompanied by further
gradual liberalization of markets
and global trade. Economic and
financial market developments
in China and in Asia generally
will allow for progressive
increases in Total Factor
Productivity, thus offsetting
declining contributions from
factor inputs. On the other side
of the coin, efficiency
improvements will be slow in
coming in Europe’s capital and
labor markets, and the problem
will be exacerbated by the
political fragmentation of Europe
and European countries, with
the result that Europe will not
achieve its full growth potential.
Finally, political instability will
continue to hamper Africa
and the Middle East, which
will remain a crucial region for
the oil and energy markets.
Another key element in
forecasting energy demand
is population growth.
Most observers use population
projections based on
UN reports, which forecast
an annual average increase
of 1% until 2030, for a total
of 8.1 billion people
(from 6.4 billion in 2004).
Technological developments
The unprecedented level of
technological knowledge
currently available is the result
of a process of fairly steady
evolution since the start of the
industrial age. Evolution has
been the trend, rather than
breakthroughs. In the last
25 years, many energy-related
technological improvements
have been introduced, with
a significantly positive effect on
the demand/supply balance.
These improvements have taken
place in basically all energy
areas. Production of primary
energy has seen rapid
productivity gains in extraction,
greatly increased water depths
for platforms, horizontal drilling
and enhanced recovery for oil
reserves, as well as initial
development and production of
unconventional hydrocarbons.
In the field of power generation
and energy transformation,
an increase in efficiency from
52% to 58% (lower calorific
value, net of plant) has been
achieved, commercialization
of combined-cycle gas turbines
(CCGTs) has obtained
substantial market share and
wind-turbine capacity has
increased from less than
100 kW to nearly 5 MW
per unit, while off-shore wind
turbines have also gone into
operation. Technology has also
brought cost reductions in
transport of liquefied natural
gas (LNG), while a range of
efficiency gains has been
achieved in many consumer
goods (light bulbs, white goods,
automobiles, etc.).
There is no reason to expect
this trend to stop. If anything,
the probable increase in the
price of hydrocarbons will allow
for additional R&D in the
energy field, most likely
bringing even faster
technological progress.
Developments in materials
science, in new battery
technology, in the cost per kWh
of solar power and in bio-fuel
technology, commercial
development of tidal power and
widespread penetration of
smart meters for both gas and
power are on the cards.
Forecasting oil prices and
global energy demand
The first factor to forecast when
attempting to depict a future
global scenario of energy
markets is the price of oil,
which affects demand as well
as the production of oil and
other energy sources, the latter
becoming relatively more or less
competitive, thus changing the
picture for investment in
research in each of the sources.
Different institutions provide
different oil price forecasts,
however the range within
which the oil price path moves
is not enormous. In particular,
the Global Insight forecast
expects the oil price to stay at
high levels in nominal terms,
and so slowly decrease in real
terms. This is based on a
number of considerations.
First, that the current oil price
is somehow driven by a
“fear premium” related to the
so-called “oil peak” views.
Second, if on the one side,
non-OPEC conventional crude
oil production will most likely
peak before 2020, on the other
OPEC conventional crude oil,
OPEC and non-OPEC natural gas
liquids (NGL), plus increasing
bio-fuels and other supply
sources (gas-to-liquids—GTL,
heavy oils, tar sands) will help to
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10
meet demand. Figure 1 shows
the relative contribution to oil
production.
On the basis of recent
economic, political,
demographic, technological and
oil price developments and the
scenario outlined above, we are
looking at a foreseeable trend in
global energy demand until
2030 as illustrated in Figure 2.
It should be said that the
projections from the OECD-IEA,
the US-EIA, Global Insight and
the other most reliable
forecasters move within a
reasonably narrow range, albeit
with some differences,
especially in the relative
contribution of some sources.
The most striking evidence that
emerges from analysis of the
various forecasts, and is also
clear in Figure 2, is that natural
gas, oil and coal will be the
three sources that increase the
most in absolute terms. In other
words, fossil fuels will continue
to account for the lion’s share
of the world energy
consumption pie. Renewables
(which in the graph also include
biomass) will show the fastest
increase, but their total
contribution to meeting energy
demand in 2030 will still be
little more than 10%. Use of
nuclear power is the factor on
which estimates differ most,
especially after 2015. While the
IEA and Global Insight believe
that few of the planned plants
currently being discussed will
come into operation and that
Figure 1 – GLOBAL OIL SUPPLY OUTLOOK
(Million barrels per day)
their contribution will mostly
be a replacement for the plants
being decommissioned, the
US-EIA expects faster growth
after 2015; yet the US-EIA,
too, believes the contribution
of nuclear will remain marginal.
Another important indication
that emerges from Figure 2 is
that the share of each source
over the total will not vary
greatly with respect to today.
Natural gas will increase its
share, but renewables do not
appear to achieve the level of
penetration that could assist a
significant reduction in CO2
emissions.
It would seem then that despite
the Kyoto Protocol and
concerns over emissions among
scientists, policy makers and
consumers, the calls for new
clean sources and for a change
in consumer behavior will not
actually bring about much real
change in the energy world …
that they are in fact
“much ado about nothing”.
* Nariman Behravesh is Chief Global
Economist and Executive Vice President
for Global Insight. Before joining
Global Insight, Dr. Behravesh was
Chief International Economist for
Standard & Poor’s.
Emilio Rossi is Managing Director
European Consulting for Global Insight,
based in Milan, Italy.
Figure 2 – TREND IN ENERGY DEMAND
La prossima rivoluzione industriale nei sogni
dell’Europa
The Next Industrial Revolution in the Dreams of Europe
di Andris Piebalgs*
by Andris Piebalgs*
La Ue vuole guidare da subito la lotta mondiale al riscaldamento globale
The EU wants to take the immediate lead in the world struggle against global warming
Andris Piebalgs
C
i troviamo di fronte a un
periodo di estrema
complessità per il settore
dell’energia mondiale e per
l’umanità intera. La domanda
di energia è destinata a una
crescita superiore al 50% entro
il 2030, mentre la popolazione
mondiale dovrebbe aumentare
da 6,6 a più di 9 miliardi.
Se l’attività industriale manterrà
i ritmi attuali, il drastico
aumento della domanda
energetica finirà col costituire
una minaccia per l’economia
globale e per il clima: maggiore
consumo energetico significa
infatti aumento delle emissioni
di anidride carbonica e si stima
che entro il 2030 le emissioni
di CO2 avranno subito un
incremento del 110%.
I cambiamenti climatici sono già
sotto gli occhi di tutti: i segnali
che confermano l’esistenza del
problema sono inequivocabili e la
comunità scientifica è concorde.
Il Panel intergovernativo sui
cambiamenti climatici delle
Nazioni Unite (UN-IPCC)
ha lanciato messaggi molto forti
a riguardo: diventa sempre più
evidente che senza un’azione
vera ed efficace, gli effetti
sull’ambiente, sull’economia e
sul nostro stile di vita saranno
terribili. I cambiamenti climatici
sono già al centro dell’agenda
politica della maggior parte
dei paesi sviluppati, sebbene
i loro effetti colpiscano
principalmente le nazioni più
povere del mondo.
Dobbiamo renderci conto che
abbiamo a disposizione solo un
brevissimo lasso di tempo per
affrontare il problema: sarebbe
già troppo tardi anche solo se il
mondo aspettasse un decennio,
o poco più, per intervenire.
Ciò significherebbe aver lasciato
ai nostri figli e ai nostri nipoti
la pesante eredità dei
cambiamenti climatici che,
a quel punto, non potranno
più essere risolti.
Siamo giunti a una svolta
e fortunatamente sembrano
esserci discrete possibilità
che il mondo agisca all’unisono
per affrontare questa sfida.
Possiamo solo sperare che
le azioni non siano troppo
modeste e che non arrivino
troppo tardi. Ma credo che
riusciremo a vincere la battaglia,
per un motivo che è stato
espresso recentemente e molto
chiaramente da Jeffrey Sachs,
direttore dell’Earth Institute
della Columbia University,
in una serie di conferenze sul
tema. Il professor Sachs rileva
che già negli anni Novanta
il pianeta si era trovato ad
affrontare un problema simile
con i cloro-fluoro-carburi (CFC)
che stavano distruggendo lo
strato di ozono dell’atmosfera
e in quella occasione la
funzione della cooperazione
internazionale era stata
determinante. Sachs ricorda che
le azioni intraprese per risolvere
la questione dei CFC seguirono
un processo a cinque fasi. Nella
prima fase, il mondo scientifico
identificò il problema. Nella
seconda, gli interessi colpiti – in
questo caso i produttori di CFC
e aerosol – contestarono
pubblicamente e attivamente gli
scienziati. Fortunatamente la
natura e le leggi della fisica
hanno un sistema per superare
gli interessi costituiti: nel caso
dei CFC, furono le foto del buco
nello strato d’ozono scattate
dalla Nasa. La terza fase fu
dunque quella dell’accettazione
pubblica, ovvero la presa di
coscienza da parte di tutti del
fatto che il problema toccava
ognuno di noi e avrebbe avuto
effetti sulla vita dei nostri figli
e dei nostri nipoti.
Questa consapevolezza
rappresentò un primo invito
all’azione, cui seguì la
mobilitazione degli scienziati, in
cerca di soluzioni. Per giungere
così, infine, alla fase cruciale,
quando le aziende,
precedentemente scettiche,
sussurrarono all’orecchio dei
politici, “va bene, potete
raggiungere un accordo, siamo
in grado di gestire il problema”.
E a quel punto, si riuscì ad
arrivare rapidamente a un
accordo internazionale.
Il dibattito sui cambiamenti
climatici sta seguendo lo stesso
percorso. Sebbene il
riscaldamento globale sia stato
identificato per la prima volta nel
1896, solo recentemente – dopo
gli uragani, il progressivo
scioglimento dei ghiacciai e gli
allarmanti e statisticamente
significativi aumenti delle
temperature medie – è stato
accettato dalla comunità
globale. E ora si comincia a
comprendere che i cambiamenti
climatici rappresentano,
in effetti, un problema che ci
colpisce tutti personalmente.
Dopo un’iniziale reazione di
scetticismo nei confronti della
scienza, alimentata anche dagli
interessi in gioco, si sta
diffondendo finalmente in tutto
il pianeta una coscienza
pubblica della necessità di agire,
che trova concorde anche il
mondo scientifico. Credo di
poter dire che stiamo entrando
nella fase finale in cui le aziende
cominciano a sussurrare
all’orecchio dei politici “va bene,
potete raggiungere un accordo,
siamo in grado di gestire
il problema”.
L’Unione europea è determinata
ad assumersi pienamente le
proprie responsabilità nella lotta
al riscaldamento globale.
Considerato che il Vecchio
Continente è uno dei maggiori
consumatori mondiali di energia
e uno dei principali produttori di
gas a effetto serra, appare ovvia
la necessità di una nuova politica
europea in materia di energia
per affrontare questa sfida.
La Ue ha adottato un piano
d’azione globale per pilotare una
nuova politica energetica europea.
L’obiettivo è quello di garantire
la sostenibilità dell’energia
che usiamo, la sicurezza
dell’approvvigionamento e la
competitività dell’economia.
Ci siamo impegnati nella più
ampia riforma della politica
energetica europea mai
intrapresa, una riforma che
porterà a una fondamentale
inversione di rotta.
Il punto di partenza è un
obiettivo strategico: un nuovo
orientamento della politica
energetica che possa consentire
alla Ue di ridurre le proprie
emissioni di gas serra del 20%
entro il 2020 rispetto ai livelli
del 1990. Questo significa
trasformare l’Europa in
un’economia altamente
efficiente sotto il profilo
energetico e a basse emissioni
di CO2, innescando una sorta
di nuova rivoluzione industriale
11
nella politica energetica
europea. Questi sono
i provvedimenti auspicati dalla
Commissione.
• Revisione del sistema di
scambio delle quote di emissione
(ETS-Emissions Trading Scheme)
e prolungamento di questo
a oltre il 2012; integrazione di
tutti gli emendamenti necessari
a garantire l’obiettivo di
riduzione del 20% dei gas serra
entro il 2020; intensificazione
degli sforzi per il
raggiungimento di un accordo
globale sui cambiamenti
climatici.
• Presentazione della nuova
“Direttiva Ombrello sulle
Energie Rinnovabili”.
Il documento darà un contributo
concreto all’accettazione da
parte del Consiglio europeo
degli obiettivi nazionali
legalmente vincolanti in materia
di energie rinnovabili.
L’obiettivo del 20% di energie
rinnovabili entro il 2020 è molto
ambizioso e sono in parecchi
a pensare che sarà molto difficile
da raggiungere. Ma se
permettiamo a noi stessi di
accettare l’idea che un simile
livello di energia rinnovabile sia
“impossibile”, dobbiamo anche
accettare l’idea che lasceremo
ai nostri figli e ai nostri nipoti
l’eredità del riscaldamento
globale. Se tutta l’Europa
seguisse l’esempio
di Germania e Danimarca
nell’utilizzo delle energie
rinnovabili, il traguardo del 20%
sarebbe a nostra portata
di mano. Nonostante altre voci
discordanti secondo le quali sarà
comunque un obiettivo troppo
costoso, dal mio punto di vista
resta il fatto che non possiamo
permetterci di non intraprendere
questo passo.
• Implementazione di una serie
di iniziative sull’efficienza
energetica, dagli standard
minimi di produzione a una
migliore etichettatura, dai codici
di costruzione aggiornati e
migliorati a sistemi di trasporto
più efficienti nelle città europee.
Il potenziale in questo ambito
è enorme, non solo per quanto
riguarda la riduzione delle
emissioni ma anche per
l’incremento della competitività
europea. Tra i diversi progetti in
corso, la Commissione intende
inoltre gettare le basi di un
nuovo accordo internazionale
sull’efficienza energetica.
Tale accordo potrebbe consentire
all’Ocse e ad alcuni paesi chiave
tra quelli in via di sviluppo di
concordare approcci comuni per
il contenimento dei consumi di
energia. Il potenziale risparmio
energetico e la riduzione delle
emissioni di anidride carbonica
sono enormi: una maggiore
efficienza energetica potrebbe
ridurre le emissioni nella Ue
del 20% circa rispetto
allo scenario di partenza.
• Avvio dei lavori della
Commissione per rispondere
all’invito del Consiglio europeo
per il lancio di un’Iniziativa
strategica europea in materia
di tecnologie energetiche.
Questo è un aspetto
fondamentale della nuova
politica energetica europea e
personalmente ritengo possa
essere la chiave di volta per
trasformare le problematiche
connesse ai cambiamenti
climatici e alla sicurezza
energetica in un vantaggio
competitivo.
Come in tutte le rivoluzioni
industriali, il successo nella lotta
al cambiamento climatico sarà
determinato dalla tecnologia.
Questo significa una nuova
generazione di impianti a
efficienza energetica, tecnologie
di sequestro dell’anidride
carbonica e nuovi materiali per
permettere l’abbattimento
dei costi dell’energia eolica
e fotovoltaica, per citare solo
alcune delle innovazioni
tecnologiche possibili.
Non ha infatti alcun senso che
l’Europa guidi il pianeta nella
lotta ai cambiamenti climatici
ma non sia poi all’avanguardia
© European Community 2007
12
nel creare la prossima
generazione di tecnologie
a bassa emissione di anidride
carbonica. La quota di risorse
economiche messe a
disposizione per finanziare
la ricerca in materia di energia,
incluse le energie rinnovabili,
l’efficienza energetica e il
sequestro di CO2, sarà ampliata
significativamente nel
7° Programma quadro per la
ricerca e lo sviluppo tecnologico
(FP7) della Ue.
• Da ultimo, vorrei sottolineare
la necessità di una politica
estera comune in materia di
energia che accresca la capacità
dell’Unione di sostenere
e promuovere la cooperazione
con il resto del mondo.
La politica energetica è una
delle maggiori sfide che
ci troviamo ad affrontare e
in questo quadro rientra il
lancio voluto dalla Commissione
di un partenariato Ue-Africa per
l’energia. La nostra attenzione
si concentra sul rafforzamento
del dialogo tra Africa e Unione
europea sull’accesso all’energia
e sulla sicurezza energetica,
sull’aumento degli investimenti
per le infrastrutture
energetiche, compresa la
promozione dell’efficienza
energetica e delle energie
rinnovabili, e sulla creazione
di un ambiente favorevole
a integrare la questione
dei cambiamenti climatici
e dell’energia nell’agenda
di cooperazione allo sviluppo.
Il riscaldamento globale è una
sfida planetaria e la sicurezza
energetica può essere
incrementata esclusivamente
a fronte di una vera azione
internazionale. L’Unione
europea, in quanto mercato
energetico integrato più grande
del mondo, può dettare il passo
su questi temi ma deve riuscire
a conquistare altri partner.
L’interesse mostrato dall’Unesco
rispecchia la necessità della più
ampia coalizione internazionale
per affrontare problemi quali la
© European Community 2007
riduzione dei gas a effetto serra,
il miglioramento dell’efficienza
energetica, lo sviluppo di fonti
di energia sostenibili e azioni per
contrastare la scarsità di energia.
Abbiamo una responsabilità
collettiva nei confronti di tutti i
nostri concittadini per preparare
le basi a un futuro migliore.
Il mercato e le tecnologie da
sole non risolveranno tutti
i nostri problemi. Se vogliamo
invertire le attuali tendenze
abbiamo bisogno di politiche
forti e una reale volontà.
L’industria, come sempre,
non è una soluzione; ci vuole
l’azione. La nostra nuova
Politica Energetica per l’Europa
è la risposta dell’Unione
europea: una risposta
ambiziosa, un piano d’azione
per contrastare la minaccia dei
cambiamenti climatici e del
riscaldamento globale. Potrebbe
essere considerata come l’inizio
di una nuova rivoluzione
industriale nell’uso dell’energia
nei paesi dell’Unione europea.
* Andris Piebalgs ha assunto il ruolo di
commissario per l’Energia nel novembre
2004. Dall’allargamento della Ue del
1° maggio 2004, quando i commissari
dei nuovi stati membri sono entrati
a far parte della Commissione europea,
ha diretto il Gabinetto del commissario
lettone Sandra Kalniete. Prima di
entrare a far parte della Commissione
europea, ha lavorato in ambiente
diplomatico per quasi dieci anni, prima
come ambasciatore lettone in Estonia
e poi come ambasciatore lettone presso
l’Unione europea, fino al 2003.
Successivamente è stato sottosegretario
di stato per gli Affari Europei presso
il Ministero lettone degli Affari Esteri.
In Lettonia Piebalgs è stato ministro
dell’Istruzione dal 1990 al 1993 e
ministro delle Finanze dal 1994 al 1995.
T
hese are challenging times
for the world’s energy
sector and for mankind.
Demand for energy is set to
increase by more than 50%
by 2030, the global population is
expected to grow from
6.6 billion to more than 9 billion
people. If business continues
as usual, this dramatic increase
in energy demand will pose
a threat to the global economy
and to the climate, since
increased energy consumption
will be accompanied by a rise
in CO2 emissions. By 2030,
CO2 emissions would have
increased by 110%.
Climate change is already visible
to us all. Evidence about its
reality is overwhelming and the
scientific community unanimous.
The Intergovernmental Panel
on Climate Change (UN-IPCC)
has issued strong messages.
It is becoming increasingly clear
that without real and effective
action, the impact on our
environment, our economy,
and our way of life will be
tremendous. Climate change
is already at the top of the
political agenda in most
developed countries, yet its
effects are felt first of all by the
world’s poorest nations.
We have to realize that we have
only a brief window of
opportunity to deal with this
problem. If the world waits
a decade or more, it will be
too late. We will have left our
children and grandchildren the
legacy of climate change and by
that time there will be absolutely
nothing they can do about it.
We are turning a corner, and
the signs are that the world
will act together to meet this
challenge. We can only hope
that the action is not too little
nor too late. But I believe that
we will succeed, for a reason
perhaps best expressed by
Jeffrey Sachs, the Director of
the Earth Institute of Columbia
University, in a recent series
of lectures. He points out
that in the 1990s the world
dealt with a similar
problem—chlorofluorocarbons,
or CFCs, which were
destroying the Earth’s ozone
layer—through international
cooperation.
As Sachs observes, arriving
at action to deal with CFCs
was a five-stage process.
First, science identified the
problem. Second, the vested
interests—the makers of
CFCs and aerosols in this
case—publicly and actively
disputed the scientists.
But nature, the laws of physics,
has a way of overcoming vested
interests. In the case of CFCs,
it was the NASA photo of the
hole in the ozone layer.
So the third stage was public
acceptance—the realization that
the problem was a personal one
that would affect the lives
of our own children and
grandchildren. This fuelled a call
for action. Then came the
scientists, searching for
solutions. And finally, the crucial
stage, when the previously
skeptical companies whispered
to the politicians, “it’s OK,
you can reach an agreement,
we can handle this”. And from
there, an international
agreement was quickly reached.
The climate change debate is
following the same path.
Although global warming was
first identified in 1896, only
recently—after hurricanes,
glaciers melting in front of our
eyes and statistically meaningful
and worrying increases in
average temperatures—has it
been accepted by the global
community. And it is now
beginning to be widely
understood that climate change
is, indeed, a personal issue.
So, after the initially skeptical
response to science, fuelled by
vested interests, public
acceptance about the need to
act is now spreading, right across
the globe. Science has followed
and I believe that we are
entering the final phase when
business is beginning to whisper
in the ears of the politicians,
“it’s OK, you can reach an
agreement, we can handle this”.
The European Union is resolved
to take its responsibility in the
struggle against global warming
seriously. Given that it is one
of the world’s largest energy
consumers and a major emitter
of greenhouse gases, the need
for a new European Energy
Policy to meet these challenges
is self-evident.
The EU adopted a comprehensive
action plan to steer a new
energy policy for Europe.
It aims to ensure the
sustainability of the energy
we use, the security of supply
and the competitiveness of the
economy. We have embarked
on the widest ranging reform
of Europe’s energy policy
ever attempted, a reform that
will bring a fundamental
change of direction.
The point of departure is a
strategic objective: redirecting
our energy policy to enable the
EU to achieve a 20% reduction
in greenhouse gas emissions by
2020, compared to 1990 levels.
This means transforming Europe
into a highly energy efficient
and low CO2 energy economy,
which is nothing less than
a new industrial revolution
in the European energy policy.
These are the steps the
Commission prescribes.
13
© European Community 2007
14
• Commission’s review of the
Emissions Trading Scheme (ETS),
extending it beyond 2012 and
amending it to provide the
20% greenhouse gas cuts we
are looking to achieve by 2020.
Further commitment to redouble
its efforts to reach a global
agreement on climate change.
• Adoption of a new “Umbrella
Renewables Directive”. This will
give very concrete effect to the
European Council’s acceptance
of legally binding national
renewable energy targets.
A 20% renewable energy target
by 2020 is very ambitious.
I have heard some people say
it will be very difficult to
achieve. But if we allow
ourselves to accept that such
levels of renewable energy are
“impossible”, we also have to
accept that we will leave our
children and grandchildren the
legacy of global warming.
If the whole of Europe were to
follow Germany and Denmark’s
lead on renewable energy,
for example, we would reach
our 20% objective. I have heard
other people argue that it
will be too expensive. In my
view, we cannot afford not
to take this step.
• Implementation of a whole
series of initiatives on energy
efficiency; from minimum
product standards to better
labeling, improved building
codes, more efficient transport
systems in Europe’s cities.
The potential here is huge,
not just in terms of reducing
emissions, but equally
in improving European
competitiveness. In addition,
the Commission intends to
draw up the basis for a new
international agreement
on energy efficiency.
This could bring together the
OECD and key developing
countries to agree on common
approaches to save energy.
The potential energy saving
and CO2 reduction is
enormous—improved energy
efficiency could cut emissions
in the EU by around 20%
compared to the baseline
scenario.
• Development of a
comprehensive work plan to
respond to the call of the
European Council for
a European Strategic Energy
Technology Initiative. This is a
cornerstone of Europe’s new
Energy Policy and in my view
the key to turning the challenge
of climate change and energy
security into a competitive
advantage.
Like all industrial revolutions,
success in combating climate
change will be technology
driven. This means a
new generation of energy
efficient equipment, carbon
sequestration technologies
and new materials to bring
down the cost of wind
and photovoltaic, to name
but a few.
It makes no sense for Europe to
lead the world in dealing with
climate change but not take the
lead in developing the next
generation of low carbon
technology. The financial means
made available to fund energy
research, including renewable
energy, energy efficiency
and carbon sequestration,
will be significantly increased in
the 7th Framework Program
for Research and Development
(FP7) in the EU.
• Finally, I would like to
emphasize the need for a
common external EU energy
policy which is enhancing
the EU’s ability to engage in
cooperation with the rest
of the world. Energy Policy is
one of the greatest challenges
we face and, in this regard,
the Commission has proposed
the launch of an EU-Africa
Energy Partnership.
Our attention focuses on
strengthening EU-African
dialogue on access to energy
and energy security, increasing
investment in energy
infrastructure, including
promotion of energy efficiency
and renewable energy, placing
capacity building in the areas
of energy and climate change
high on our development
aid agenda.
Global warming is a global
challenge and energy security
can only be increased through
real international action.
As the world’s largest
integrated energy market, the
EU can set the pace on these
issues, but it needs to bring
other partners on board.
The interest shown by UNESCO
in this subject reflects the need
for the broadest international
coalition to address issues such
as reduction of greenhouse
gases, improvement of energy
efficiency, development of
sustainable energy sources and
action to tackle energy poverty.
We have a collective
responsibility toward all our
citizens to prepare a better
future. Markets and
technologies alone will not
solve all our problems. Strong
policies and a real political will
are needed to reverse the
current trends. Business as usual
is not an option. Action is
needed. Our new Energy Policy
for Europe is the European
Union’s response. It is truly
ambitious, it is an action plan to
overcome the threats of climate
change and global warming.
It could be regarded as the
beginning of a new industrial
revolution in energy use
in the EU.
* Andris Piebalgs took up the post
of Energy Commissioner in November
2004. Since the enlargement of the
EU on May 1, 2004, when the
Commissioners of the new Member
States joined the European Commission,
he has headed the Cabinet of Latvian
Commissioner Sandra Kalniete. Before
joining the European Commission, he
worked in the diplomatic community for
almost a decade, as Latvian Ambassador
to Estonia, then Latvian Ambassador
to the European Union, until 2003.
Subsequently, he was Undersecretary
of State for EU affairs at the Latvian
Ministry of Foreign Affairs. Previously,
Mr. Piebalgs was Latvia’s Minister
of Education from 1990 to 1993 and
Minister of Finance from 1994 to 1995.
Petrolio: una fiammata dura a morire
Oil: the Die-Hard Flame
di Alberto Clò*
by Alberto Clò*
I rincari non dipendono dall’esaurirsi delle riserve, ma dalla scarsità di investimenti per l’output
Price increases caused by insufficient investment in output rather than by a depletion of reserves
Alberto Clò
D
all’inizio del nuovo
millennio, il mondo
dell’energia sta
attraversando una nuova crisi
con prezzi del petrolio,
pivot nell’insieme delle fonti,
aumentati di 3-4 volte a punte
prossime ai 100 dollari al barile
(doll/bbl). Le ragioni all’origine
appaiono, tuttavia, molto più
complesse che in passato
e il percorso per porvi rimedio
molto più impervio, così che
lo spettro di un suo possibile
aggravarsi si paventa come
sempre più verosimile.
In gioco sono gli equilibri
economici, politici, ambientali
dell’intero pianeta, per tre
ragioni:
1) la biunivoca rafforzata
relazione tra energia e crescita,
col ridursi delle disuguaglianze
tra Sud e Nord del mondo;
2) le tensioni politiche che
attraversano la generalità delle
aree da cui dipende e sempre
più dipenderà l’offerta
incrementale di idrocarburi;
3) l’impatto sui cambiamenti
climatici delle fonti fossili che,
nonostante le diffuse speranze
sul contributo delle risorse
rinnovabili, sono finora le uniche
in grado di dare soddisfazione
alla fame di energia.
Il cambiamento centrale alla
dinamica dei mercati energetici
è il venir meno delle condizioni
che avevano consentito la
precedente fase di bassi e stabili
prezzi del petrolio – 16,5 doll/bbl
nella media 1986-1999 – che ha
alimentato uno dei più robusti
cicli espansivi dal secondo
dopoguerra. Tre in particolare:
netta caduta e poi lenta ripresa
della domanda di petrolio;
drastica riduzione dei costi di
produzione, per le innovazioni
tecnologiche nella ricerca,
estrazione, raffinazione di
petrolio; formarsi di un
consistente surplus di capacità
produttiva in tutte le filiere
energetiche (petrolio, metano,
elettricità), da cui originarono le
pressioni per la liberalizzazione
dei mercati.
Dall’inizio del millennio le cose si
capovolgono lungo la sequenza:
minori prezzi, minore redditività,
minori investimenti, maggior
domanda, maggiori prezzi del
petrolio, del metano (ancorati
ai primi), dell’elettricità, sempre
più prodotta col metano.
Se questi rialzi siano legati
al ciclo degli investimenti
e destinati, quindi, a rientrare
col loro auspicato ma incerto
espandersi, è l’interrogativo da
cui discende l’ampio spettro di
previsioni dei futuri prezzi reali:
tra chi ne profetizza livelli
superiori anche di molto ai 100
doll/bbl e chi un loro graduale
rientro a 35-40.
La risposta dipende
dall’intensità relativa dei
processi di aggiustamento della
domanda e dell’offerta di
petrolio (e di energia in genere)
ai più elevati prezzi reali.
Se, in sostanza, si ripeteranno
le dinamiche che consentirono
nelle passate crisi, in poco più
di un decennio (1974-1986),
un ritorno dei prezzi ai valori di
partenza. A giudicare da quanto
sta avvenendo la risposta
è negativa. A rendere il rialzo
dei prezzi strutturale va
contribuendo, infatti, una minor
elasticità dei prezzi sia della
domanda sia dell’offerta
di petrolio e di metano.
Per quanto riguarda la
domanda, i motivi sono:
• la robustezza della crescita
economica mondiale, la più
elevata da una generazione in
qua, che continua a sospingere
verso l’alto la domanda di
energia, specie dell’area
asiatica, nonostante i suoi
maggiori prezzi;
• il restringersi, nei paesi
industrializzati, degli spazi di
sostituzione del petrolio che
consentirono in passato, col
ricorso al carbone e al nucleare,
di abbatterne drasticamente la
domanda;
• il basso impatto inflazionistico
del caro-petrolio per il minor
peso dell’energia nella
formazione del reddito dei paesi
industrializzati e per i
controbilancianti effetti dei bassi
prezzi delle merci importate
dall’area asiatica.
La conclusione è che l’economia
mondiale va reggendo molto
meglio che in passato alla
nuova crisi petrolifera. Il previsto
calo della domanda, principale
deterrente all’aumento dei
prezzi, non si è verificato,
registrandosi invece un suo
aumento in soli 8 anni
(1999-2007) di oltre 10 milioni
di barili al giorno (mil. bbl/g),
più dell’intera produzione
dell’Arabia Saudita. La fame di
energia – che proietta una
crescita della sua domanda
nell’ordine del 60% tra il 2004
e il 2030 a oltre 17 miliardi di tep
(tonnellate equivalenti petrolio)
e di quella di petrolio del 40%
da 82 a 115 mil. bbl/g – appare
molto più forte dell’antidoto
degli alti prezzi. A essa il mondo
deve dare risposta, anche
perché nell’era della
globalizzazione tutti beneficiano
della crescita dell’economia
mondiale.
Alla robustezza della domanda
fa riscontro, ed è questo
il nocciolo della questione,
un’offerta che stenta a crescere.
La ragione non è riconducibile,
come sovente paventato, alla
scarsità di petrolio, ma ai bassi
investimenti per renderlo
disponibile. Come accaduto
in ogni passata crisi, anche
nell’attuale si sono
puntualmente levati timori che
il rialzo dei prezzi sia l’inevitabile
effetto del manifestarsi
della sua scarsità assoluta con
“l’inevitabile e ormai
imminente” picco della sua
curva di produzione, secondo
l’ormai famosa teoria del
geofisico americano Marion
King Hubbert. Non v’è dubbio
che ciò sia avvenuto o stia
avvenendo per un gran numero
di giacimenti e/o di paesi
produttori, ma trarne
la conclusione che questo possa
valere anche per la complessiva
produzione mondiale è
privo d’ogni fondamento
logico-fattuale.
Pochi dati ne rendono conto.
L’ammontare delle risorse ultime
di petrolio convenzionale – il
confine massimo del suo
potenziale estrattivo – è stimato
tra 2.300 e 2.900 miliardi
di barili, di cui 1.200-1.300
classificati come riserve provate,
tecnicamente ed
economicamente estraibili,
rispetto a una produzione
annua sui 32 miliardi. A queste
risorse devono poi aggiungersi
quelle non convenzionali
(sabbie e scisti bituminosi,
15
16
greggi extra-pesanti, orimulsion),
stimate tra i 1.300 miliardi di
barili tecnicamente recuperabili
e un loro confine massimo di
6.000 miliardi. Ancor più ampie
sono quelle di metano.
Conclusione: la base mineraria di
idrocarburi su cui il mondo può
fare affidamento, unitamente
agli sviluppi della tecnologia per
accrescerne il grado di
sfruttamento, consente di far
conto su un flusso potenziale
di offerta in grado di soddisfare
pienamente l’attesa crescita
della domanda.
La bassa propensione a investire
dell’industria petrolifera non
dipende, quindi, da limiti
strutturali posti dalla natura,
ma da altre motivazioni.
In primo luogo, la bassa
possibilità di accesso, per le
compagnie occidentali,
alle risorse convenzionali di
idrocarburi controllate per
l’80%-90% dalle compagnie
di Stato dei paesi produttori;
quindi, i sempre più elevati
e imprevedibili costi e tempi
dei progetti nelle aree di
frontiera verso cui le imprese
sono state costrette gioco forza
a orientarsi.
Il terzo motivo consiste nel
prevalere, nella filosofia
decisionale delle imprese
occidentali, di logiche
finanziarie più che industriali.
Da cui la preferenza verso
ottiche di ritorno di breve
periodo; politiche di crescita
lungo linee esterne, tramite
fusioni ed acquisizioni,
che bruciano enormi risorse
finanziarie senza accrescere
d’un solo barile le riserve;
generose politiche di
remunerazione degli azionisti.
Ultima ragione, non per
importanza, è lo stato di
profonda crisi in cui versa la più
parte delle compagnie di Stato
dei paesi produttori: perché
guidate da interessi politici
più che da logiche economiche;
assillate, tranne rari casi,
da grandi difficoltà tecnologiche
e manageriali; afflitte,
paradossalmente, da scarsità
finanziarie a causa del massiccio
drenaggio di risorse da parte
delle costose e inefficienti
politiche sociali interne.
Venezuela, Messico, Kuwait,
Federazione Russa, Nigeria, Iraq,
Iran, Indonesia, Gabon – che
contano per oltre 1/3 della
produzione mondiale di
idrocarburi e per la metà delle
relative riserve – vanno
registrando una
stagnazione/declino della loro
produzione, nonostante un
rapporto riserve/produzione
superiore ai 60 anni
per il petrolio e 120 anni per
il metano. La loro capacità
di espandere l’offerta attraverso
un rapido e forte aumento
degli investimenti è, allo stato
delle cose, altamente incerta
e improbabile.
Due gli effetti della bassa
propensione a investire.
Il primo è la difficoltà a
espandere la capacità produttiva
nell’intera filiera degli
idrocarburi. Quella inutilizzata
di petrolio è crollata di circa
5 volte a 2-3 mil. bbl/g,
vale a dire appena il 2%-3%
dell’offerta mondiale.
È evidente come in condizioni
di tale rigidità dell’offerta
ogni minima ragione di
tensione – reale o politica,
effettiva o anche solo
temuta – impatta sui prezzi
del petrolio in modo tanto
più esasperato quanto più le
transazioni finanziarie,
prettamente speculative,
prevalgono su quelle reali.
Il secondo effetto è l’incapacità
della più parte delle grandi
imprese petrolifere
a rimpiazzare la loro produzione:
così che la loro base mineraria
si va vieppiù restringendo.
Se questa tendenza non verrà
rapidamente invertita, sarà
sempre più a rischio non tanto
il loro futuro ma, ancor prima,
quello dei sistemi energetici
nella loro globalità. Il mondo
intero si trova inerte e inerme di
fronte ai principali attori della
scena petrolifera governati
da obiettivi/decisori – politici per
le compagnie di Stato dei paesi
produttori; finanziari per quelle
internazionali – indifferenti
all’esigenza di garantire
un pieno e stabile equilibrio
dei mercati energetici nelle loro
due componenti essenziali:
petrolio e metano.
Chi e come risolvere questa
contraddizione è l’interrogativo
di fondo della crisi in cui
versiamo. L’inversione delle
tendenze in atto poggia
sul verificarsi di condizioni
interne ed esterne all’operato
delle grandi compagnie
internazionali.
Sul piano interno si imporrebbe
una profonda revisione delle
loro strategie in più direzioni.
Primo: forte impegno
nell’innovazione tecnologica,
per ridurre i costi di accesso
agli idrocarburi e accrescerne
il tasso di recupero minerario.
Secondo: maggior creatività
progettuale nel ricercare più
avanzate “piattaforme
contrattuali” con gli stati
produttori che sappiano
individuare nuovi punti di
reciproco interesse.
Terzo: recuperare una gestione
industriale e non finanziaria
del portafoglio di business,
rafforzando la propensione
al rischio storicamente
connaturata al mondo degli
idrocarburi. Solo chi avrà
il coraggio di differenziarsi dal
pensiero dominante, che
privilegia la finanza sull’industria
e l’interesse degli azionisti su
quello delle stesse aziende, avrà
un solido e duraturo futuro.
Gli altri soccomberanno o ne
saranno spinti ai margini.
Di non minore rilevanza sono
le condizioni esterne all’operato
delle grandi imprese.
In particolare: la possibilità,
a oggi invero scarsa, che si
realizzino le condizioni politiche
per un massiccio ritorno dei
capitali, delle tecnologie, delle
risorse professionali
dell’industria occidentale nei
paesi produttori, specie del
Medio Oriente, necessitando
il mondo intero sempre più di
quel petrolio. La cooperazione
internazionale è la prima
risposta alle criticità e alle sfide
energetiche che il mondo
si trova ad affrontare.
La contrapposizione è per tutti
perdente e costosa, anche se
di ciò non pare esservi una
coerente consapevolezza tra
i governi del mondo.
* Alberto Clò è professore straordinario
di Economia Industriale presso
l’Università di Bologna. Ha fondato
nel 1980 la rivista Energia di cui
è direttore responsabile. Ha scritto
numerosi libri e oltre 100 saggi e articoli
sulle problematiche dell’economia
industriale ed energetica e collabora con
diversi quotidiani e riviste economiche.
Negli anni 1995-1996 è stato ministro
dell’Industria e ad interim del
Commercio con l’Estero, e presidente
del Consiglio dei ministri dell’Industria
e dell’Energia dell’Unione europea
durante il semestre di presidenza
italiana. Nel 1996 è stato insignito
del titolo di Cavaliere di Gran Croce
al Merito della Repubblica italiana.
È attualmente consigliere indipendente
di Eni, ASM Brescia, Società Autostrade,
Italcementi e De Longhi.
S
ince the start of the new
millennium, the energy
industry has been in the
throes of a new crisis: the price
of oil, the world’s pivotal
source of energy, has tripled
or quadrupled to close on
100 dollars per barrel (doll/bbl).
The underlying causes of the
present crisis, however, are far
more complex than in the past
and the way toward a solution
far more arduous, suggesting
that a possible worsening of the
crisis looks increasingly likely.
The economic, political and
environmental equilibriums of
the entire planet are at stake,
for three reasons:
1) the closer bilateral relationship
between energy and growth,
and the gradual disappearance
of the inequalities between
North and South;
2) the political tensions in the
areas on which the incremental
supply of hydrocarbons depends
and increasingly will depend;
3) the impact on climate change
of fossil fuels, which so far,
despite the widespread hopes
resting on renewable sources,
are the only sources able to
satisfy our hunger for energy.
The fundamental change in the
dynamics of the energy market
is the disappearance of
the conditions underpinning
the previous period of stable
low oil prices—an average
of 16.5 doll/bbl from
1986-1999—which drove one
of the most vigorous growth
cycles of the postwar years.
Three conditions in particular:
a rapid fall in oil demand
followed by a slow recovery;
a sharp reduction in production
costs as a result of advances in
oil prospecting, extraction and
refining technology; the creation
of significant surplus production
capacity in all energy sectors
(oil, gas, electricity), leading to
growing pressure for market
deregulation.
With the new century this
situation has reversed as the
result of the following sequence
of trends: lower prices, lower
profitability, lower investment,
higher demand, higher prices
for oil, for gas (linked to oil
prices) and for electricity, whose
production depends increasingly
on gas. Whether or not these
higher prices are tied to the
investment cycle and will
therefore fall when, hopefully
but not certainly, investments
increase, is the question on
which the broad spectrum of
real price forecasts hangs: from
the predictions of prices well
above 100 doll/bbl to those that
expect a gradual downturn
to 35-40 doll/bbl.
The answer depends on the
degree to which oil demand
and supply (and energy demand
and supply in general) adjust
to higher real prices. In other
words, on whether we can
expect a repetition in the
dynamics that, in the previous
crisis, brought prices back down
to their original levels in just
over ten years (1974-1986).
Judging by current events, the
answer is no. The upward trend
in prices is turning into a
structural phenomenon, due to
the lower price elasticity of both
oil and gas demand and supply.
The reasons for this, as far as
demand is concerned,
are as follows:
• the strength of world
economic growth, the highest
for a generation, which
continues to push up demand
for energy, especially in Asia,
despite higher prices;
• the increasingly limited
opportunities, in the
industrialized nations, to use
alternatives to oil, such as coal
and nuclear power, which
in the past produced significant
reductions in oil demand;
• the low inflationary impact
of high oil prices due to
the lower incidence of energy
in income creation in the
industrialized nations and the
counterbalancing effects of the
low prices of Asian imports.
The conclusion is that the world
economy is withstanding the
new oil crisis much better today
than in the past. The expected
drop in demand, the main
deterrent against higher prices,
has not happened, indeed
demand has risen in just 8 years
(1999-2007) by more than
10 million barrels/day (mil. bbl/d),
more than the entire output of
Saudi Arabia. The thirst for
energy—with a projected
growth in demand in the order
of 60% between 2004 and
2030 to more than 17 billion
toe (tonnes of oil equivalent)
and in oil of 40% from 82 to
115 mil. bbl/d—seems to be
much stronger than the antidote
of high prices. The world needs
to find an answer to this, given
that in our age of globalization
we all benefit from world
economic growth.
Although demand is strong,
supply, and this is the real
problem, is struggling to grow.
The cause is not an oil shortage,
as is often claimed, but the low
level of investment in making
oil available. As in every
previous crisis, commentators
have promptly voiced fears that
the price rise is the inevitable
consequence of an absolute
shortage in reserves and
“the inevitable and now
imminent” peaking of the
production curve notably
theorized by US geophysicist
Marion King Hubbert.
Unquestionably, this has
happened or is happening in
many oil fields and/or producer
countries, but there is no logical
or factual justification for
concluding that it applies to
world production as a whole.
A few figures illustrate the point.
Ultimate resources of
conventional oil—the
maximum limit of extractable
potential—are estimated at
between 2,300 and 2,900 billion
barrels, of which 1,200-1,300
are classified as proven reserves,
17
18
whose extraction is technically
and economically feasible.
This compares with annual
production of around 32 billion
barrels. In addition to these
resources, non-conventional
sources (tar sands, oil shale,
extra-heavy oil, orimulsion)
are estimated at a technically
extractable 1,300 billion barrels,
with a maximum limit of 6,000
billion. Methane gas resources
are even larger. In conclusion:
the world’s workable mineral
base of hydrocarbons, together
with the technological advances
enhancing exploitation, mean
potential supply is sufficient
to meet the expected rise in
demand in full.
So the oil industry’s low
propensity to invest does not
spring from natural structural
limits, but from other
considerations. First, Western
industry’s low level of access to
conventional hydrocarbon
resources, controlled 80%-90%
by the state-owned companies of
the producer countries; second,
the growing and unpredictable
project times and costs in the
frontier areas where the
West necessarily has to focus.
The third reason is that in
Western business, financial
considerations tend to take
priority over industrial
considerations. This produces
a preference for short-term
returns; for growth policies
through external lines, through
mergers and acquisitions that
consume huge financial
resources without expanding
reserves by a single barrel;
for generous shareholder
remuneration policies.
The last and equally important
reason is the profound crisis
troubling the majority of the
state companies in the producer
countries: companies run
according to political rather
than economic criteria; plagued,
except in rare cases,
by enormous technological and
managerial difficulties;
hampered, paradoxically,
by financial shortages as a result
of the massive drain on
resources of expensive and
inefficient domestic social
policies. Venezuela, Mexico,
Kuwait, the Russian Federation,
Nigeria, Iraq, Iran, Indonesia,
Gabon—who account for more
than 1/3 of world hydrocarbon
production and for half of world
reserves—are all reporting
stagnating or declining
production, despite a
reserves/production ratio of
more than 60 years for oil and
120 years for gas. Their ability
to increase supply through rapid
and significant investment
hikes is extremely uncertain
and unlikely in the present
circumstances.
The low propensity to invest has
two results. One is the difficulty
of the entire hydrocarbon
industry to expand production
capacity. Unused oil production
capacity has fallen five-fold to
2-3 mil. bbl/d, a bare 2%-3% of
worldwide supply. Clearly, with
such limited room for maneuver,
even the smallest tension—real
or political, actual or even just
feared—has an impact on oil
prices whose effect is directly
proportional to the degree to
which financial speculation
prevails over real finance.
The second result of low
investment is that the majority
of the major oil companies
are unable to replace their
production, and consequently
their mineral base is gradually
drying up.
Without rapid action to reverse
this trend, these companies, but
above all our energy systems as
a whole, face an uncertain
future. An inert world watches
helplessly as the main players on
the oil stage are driven by goals
and decision makers—political
for the state companies of the
producer countries, financial
for the international
corporations—who are
indifferent to the need to ensure
a full and stable equilibrium
in the two key sectors of the
energy markets: oil and gas.
Who can resolve this
contradiction, and how, is the
question at the root of today’s
crisis. A reversal in current
trends depends on a series of
internal and external conditions
impacting the operations of the
large multinationals.
Internally, a sweeping strategy
review is needed on many fronts.
First: a serious commitment
to technological innovation to
cut the cost of sourcing
hydrocarbons and enhance
the mineral recovery rate.
Second: greater creativity in
stipulating more advanced types
of “contractual platform”
that identify new areas of
mutual interest with the
producer states.
Third: a return to industrial
rather than financial
management of business
portfolios, strengthening the risk
propensity historically associated
with the hydrocarbons industry.
Only players with the courage
to abandon the mainstream
where finance takes precedence
over industry, shareholder
interests over those of the
companies themselves,
will have a solid, lasting future.
Everyone else will go under
or find themselves relegated
to the sidelines.
Equally important are the
external conditions needed to
influence the large companies.
Specifically, the development
of political conditions for
a full-scale return of western
capital, technology and
professional resources to the
producer countries, especially in
the Middle East, given that the
entire world has increasing need
of their oil; although it has to be
said that today the possibility
of this happening is remote.
International cooperation is the
first step toward resolving the
critical issues and energy
challenges facing the world.
The alternative for everyone
is negative and costly,
even though the world’s
governments do not all seem
to be aware of this.
* Alberto Clò is an Adjunct Professor
of Industrial Economics at Bologna
University. In 1980 he founded Energia
magazine, of which he is Editor
in Chief. He is author of many books
and more than 100 essays and articles
dealing with industrial and energy
economy issues and writes for
a number of daily newspapers and
business journals. From 1995-1996
he was Italian Minister of Industry and
Interim Minister of Foreign Trade, and
President of the EU Council of Industry
and Energy Ministers during Italy’s
six-month term of presidency. In 1996
he was decorated with the Order
of Merit of the Italian Republic with
the rank of Cavaliere di Gran Croce.
He is currently an independent director
of ENI, ASM Brescia, Società
Autostrade, Italcementi and De Longhi.
Quale strada per il futuro
Which Way Forward?
di Luis E. Echávarri*
by Luis E. Echávarri*
Il fascino sottile dell’energia nucleare in Europa
The subtle charm of nuclear energy in Europe
Luis E. Echávarri
N
egli ultimi anni,
la crescente dipendenza
economica dell’Unione
europea dalle importazioni di
energia è diventata una delle
principali preoccupazioni
dei responsabili delle politiche
energetiche. Secondo i dati
forniti dall’Agenzia Internazionale
dell’Energia dell’Ocse (IEA)
e dalla Commissione europea,
questa dipendenza è destinata
a crescere dal 50% di oggi
a circa il 75% entro il 2030.
In questo scenario, molti paesi
hanno avviato politiche
energetiche volte ad aumentare
la sicurezza degli
approvvigionamenti e a diminuire
la dipendenza energetica.
È chiaro che conservazione ed
efficienza energetica rivestiranno
un ruolo fondamentale
nell’implementazione di tali
politiche, insieme allo sviluppo di
fonti di energia pulita, tra cui le
energie rinnovabili e il nucleare.
Ridurre il consumo e utilizzare
l’energia in modo più efficiente
sono i due fattori chiave per la
sicurezza futura degli
approvvigionamenti, considerato
che l’elevata domanda dei
mercati internazionali provoca
significativi rialzi dei prezzi
e in alcuni casi particolari può
addirittura mettere a rischio la
garanzia di accesso a forniture
adeguate. Anche un maggior
utilizzo di fonti domestiche
rinnovabili aiuta a ridurre questa
dipendenza.
Un altro fattore chiave delle
politiche energetiche del futuro
è rappresentato dal
cambiamento climatico.
La concentrazione di CO2
nell’atmosfera continua ad
aumentare costantemente
raggiungendo, secondo molti
osservatori, livelli di criticità:
si tratta di un elemento da
tenere in grande considerazione
nella corsa alla conservazione
e all’efficienza energetica come
pure nel crescente ricorso alle
fonti rinnovabili e al peso sempre
più rilevante che queste vanno
acquistando nell’abbattimento
delle emissioni di CO2 del settore
energetico, largamente
responsabile delle concentrazioni
globali dei gas a effetto serra.
Nonostante gli sforzi dei governi
dei paesi Ocse per implementare
politiche di conservazione ed
efficienza energetica aggressive,
si prevede tuttavia che la
domanda di energia continuerà
ad aumentare, in particolare
sotto la spinta di paesi in via di
sviluppo come la Cina e l’India,
dove l’impiego di energie
rinnovabili sarà più lento rispetto
all’area dell’Ocse. Secondo
le previsioni della IEA, anche se
i governi adotteranno politiche
migliorative dell’efficienza nella
produzione e nell’utilizzo di
energia, la domanda energetica
mondiale aumenterà di oltre
il 50% da oggi al 2030 e la
domanda di elettricità crescerà di
oltre il 70% nello stesso periodo.
Sebbene non sarà certo l’Unione
europea a guidare l’aumento
della domanda di elettricità,
si prevede che il suo fabbisogno
crescerà di circa il 17% entro
il 2030 e, se si considera la
necessità di sostituire le centrali
elettriche obsolete che nel 2030
saranno giunte al termine del
loro ciclo di vita, va da sé la
necessità di sviluppare nuove
capacità di produzione.
Copertura del carico base
Per quanto riguarda il settore
dell’elettricità, le nuove politiche
devono tenere in considerazione
le richieste di carichi base
e di punta. Anche se le fonti
rinnovabili ricoprono già
una quota importante della
produzione totale di energia
elettrica e, come si è visto,
rivestiranno un ruolo ancor
più significativo in futuro,
le loro caratteristiche, come
l’intermittenza e la distribuzione,
le rendono inadatte alla
produzione di elettricità per
i carichi base; fa eccezione
l’energia da biomassa, ma non
rappresenta l’opzione preferibile
in Europa, dove la disponibilità
di cereali da utilizzare come
combustibili è limitata.
L’energia idroelettrica potrebbe
essere utilizzata per il carico
base, ma le possibilità di
espansione nell’Unione europea
sono molto limitate. Pertanto,
in termini pratici, la vera partita
per l’investimento in elettricità di
carico base si gioca tra carbone,
gas naturale ed energia nucleare.
Stando agli studi della IEA
e della NEA (Agenzia per
l’Energia Nucleare) dell’Ocse, e
nella prospettiva della sicurezza
degli approvvigionamenti,
il carbone è molto appetibile
e competitivo. Il problema
è rappresentato dal fatto che
emette grandi quantità di
anidride carbonica, tra i 1000 g
e i 1200 g di CO2 equivalente
per kWh, il che significa che
un maggior ricorso al carbone
porterebbe a un aumento
delle emissioni di CO2, a meno
di rendere commercialmente
disponibili tecnologie di cattura
e sequestro dell’anidride
carbonica attualmente non
presenti sul mercato.
Per quanto riguarda il gas
naturale, gli studi indicano che,
nonostante sia preferibile al
carbone in termini di emissioni
(circa 400 g di CO2 equivalente
per kWh), il fatto che il suo
prezzo sia legato in certa misura
a quello del petrolio pone
molte incertezze sui costi
dell’elettricità generata nel
medio e lungo termine.
Inoltre, un maggior ricorso
al gas naturale accrescerebbe
la dipendenza dai paesi
non-Ocse, una prospettiva
certo non allettante dal punto
di vista della sicurezza degli
approvvigionamenti.
Come conseguenza, l’energia
nucleare sembra essere
la soluzione migliore per fornire
il carico base di elettricità.
Innanzitutto è già presente
un’industria forte e matura:
oltre il 30% dell’elettricità totale
prodotta nell’Unione europea
proviene dalle centrali nucleari,
nonostante negli ultimi 20 anni
non sia stato praticamente
costruito nessun nuovo
impianto. L’energia nucleare
è poi essenzialmente una fonte
domestica: il combustibile
rappresenta meno del 20%
del costo totale della
produzione di elettricità
nucleare e la stessa materia
prima, l’uranio, ne rappresenta
il 5%. In termini di sicurezza
degli approvvigionamenti,
secondo l’Agenzia di
Approvvigionamento
dell’Euratom, oltre il 50% degli
approvvigionamenti di uranio
dell’Unione europea e il 70%
dei suoi approvvigionamenti del
19
20
servizio di arricchimento sono
forniti da paesi Ocse: l’uranio
è disponibile in abbondanza
e i suoi principali produttori
sono due paesi dell’Ocse,
Australia e Canada. In termini
di impatto sui cambiamenti
climatici, anche considerando
l’intero ciclo del combustibile,
le emissioni sono pari a solo
8 g di CO2 eq/kWh. Per quanto
riguarda i costi, infine, gli studi
dell’Ocse indicano che, anche
con un prezzo del petrolio
(che incide sul prezzo del gas
naturale) di circa $40/45 al
barile, l’elettricità nucleare resta
molto competitiva, nonostante
gli elevati costi di investimento.
Un futuro nucleare?
Data la necessità di ridurre
le emissioni di CO2 e un elevato
prezzo del petrolio, si sta
diffondendo in tutta Europa un
rinnovato interesse per l’energia
nucleare. Il primo paese
a tornare all’energia nucleare
è stata la Finlandia, che ha
deciso qualche anno fa di
costruire un nuovo reattore con
tecnologia franco/tedesca.
I suoi 1600 MWe di capacità
installata saranno operativi
nel 2011 e il suo esempio
dovrebbe essere seguito di lì
a breve da un’unità simile già
in costruzione in Francia.
Questi due paesi hanno rotto
il ghiaccio che circonda la
costruzione di nuovi reattori
in Europa, aprendo la strada
ad altri paesi interessati.
La Repubblica Slovacca ha
deciso di completare la
costruzione dei due impianti
di Mochovce, interrotta alcuni
anni addietro, la Romania
sta completando Cernavoda,
mentre la Bulgaria ha definito
di recente la costruzione di
quattro nuovi reattori con
tecnologia russa. Ci sono poi
altri paesi che stanno
prendendo seriamente in
considerazione l’installazione
di nuovi impianti; tra questi in
particolare il Regno Unito,
le cui riserve di gas sono state
intensamente sfruttate e i cui
vecchi reattori nucleari,
che forniscono circa il 20%
dell’elettricità del paese,
dovranno essere sostituiti nei
prossimi dieci anni.
Tutto ciò significa che l’energia
nucleare, che già costituisce una
forte realtà industriale e
commerciale a livello europeo,
potrà rivestire un ruolo anche
più significativo in futuro,
riducendo la vulnerabilità degli
approvvigionamenti di energia
della Ue e le emissioni di gas
a effetto serra. Lo sviluppo
dell’energia nucleare
solleva tuttavia questioni
e preoccupazioni di tipo sociale
che hanno bisogno di essere
affrontate. La comunità politica
deve coinvolgere la società civile
nel dibattito sulle scelte
energetiche e creare un “level
playing field” (condizioni e
regole uniformi) su cui valutare
ogni tecnologia e fonte
energetica. Se si è concordi
sul fatto che l’energia è una
necessità fondamentale per
il benessere sociale, la crescita
industriale e un futuro
sostenibile, e tutte le fonti
disponibili dovranno essere
impiegate per soddisfarne
la domanda, è allora di vitale
importanza che venga avviato
un ampio e aperto dibattito sul
ruolo dell’energia nucleare
perché la società ne comprenda
con chiarezza rischi e benefici
rispetto alle altre alternative.
Preoccupazioni sociali
La società deve essere
consapevole delle implicazioni
di ogni scelta energetica e della
conseguente necessità di
assumere tutte le decisioni atte
a rendere queste scelte fattibili
e sostenibili. Nel caso
dell’energia nucleare, lo
smaltimento definitivo dei rifiuti
ad alta attività e a lungo ciclo di
vita sembra essere una delle
principali preoccupazioni sociali.
Da un punto di vista tecnico,
la ricerca condotta dai paesi
dell’Ocse negli ultimi 30 anni
indica chiaramente che la
soluzione è già nota. Sia nel
caso dei cicli del combustibile
nucleare aperti, senza
rigenerazione o riciclaggio,
sia nel caso dei cicli chiusi,
con rigenerazione e riciclaggio,
la presenza di depositi geologici
profondi garantisce che la
popolazione locale e le
generazioni future non siano
esposte a nessun eccessivo
pericolo. La metodologia per
valutare la sicurezza di questi
depositi, in aree con formazioni
geologiche stabili e con l’ausilio
di un appropriato sistema di
barriere ingegneristiche,
è già disponibile. Inoltre,
la riutilizzabilità e recuperabilità
delle scorie depositate negli
appositi siti consentono un
controllo nel lungo periodo e
l’opportunità di trarre vantaggio
dai progressi della tecnologia
per un uso più efficiente dei
materiali e/o per l’eliminazione
definitiva dei rifiuti.
La Finlandia rappresenta un
chiaro esempio di approccio
vincente a questo problema.
Prima di decidere di costruire
un nuovo reattore, governo
e parlamento hanno condotto
lunghe e approfondite
consultazioni con tutte le parti
sociali, vagliando con attenzione
ogni passaggio/intervento
necessario alla costruzione di
un deposito per il combustibile
nucleare esaurito, il primo
di questo tipo in Europa e nel
mondo.
Altre importanti questioni
collegate all’energia nucleare
sono la sicurezza e la
proliferazione di armi nucleari.
Per quanto riguarda la sicurezza,
i dati relativi ai paesi dell’Ocse
(con oltre 350 reattori in
funzione) sono ragguardevoli,
a dimostrazione dell’efficace
combinazione di industria
responsabile e sistema di
regolamentazione indipendente.
La non-proliferazione non
è un problema che riguarda
direttamente i paesi europei,
considerato il loro forte sostegno
al Trattato di Non-proliferazione.
Va inoltre sottolineato che
il rafforzamento del sistema
internazionale di controllo
dell’Agenzia Internazionale per
l’Energia Atomica (IAEA)
e i nuovi approcci al ciclo del
combustibile, con garanzie di
approvvigionamento per i paesi
del terzo mondo, offrono una
maggiore assicurazione che
i materiali commerciali e la
tecnologia saranno accessibili
a tutti, ma non verranno
utilizzati per scopi non civili.
Un dibattito europeo sulle
scelte energetiche con
il coinvolgimento e la
partecipazione di tutti gli
stakeholder è uno strumento
fondamentale per discutere
delle alternative possibili,
esaminandole dalla prospettiva
dello sviluppo sostenibile
e considerando i fattori sociali,
ambientali ed economici
all’interno di una cornice
globale. Un tale dibattito
rappresenta un passo
fondamentale verso
l’implementazione di una forte
politica energetica europea in
grado di garantire la sicurezza
degli approvvigionamenti
e di affrontare con successo
le questioni climatiche globali.
Il nucleare ha dimostrato
la propria efficacia tecnica ed
economica in diversi decenni
di sviluppo industriale
e commerciale offrendo al
contempo interessanti vantaggi
ambientali. La società dovrà
mettere sul piatto della bilancia
rischi e benefici di tutte
le alternative possibili per
delineare infine il mix
energetico del futuro in grado
di soddisfare appieno le sue
necessità.
* Luis E. Echávarri è direttore generale
dell’Agenzia per l’Energia Nucleare
(NEA) dell’Ocse. Prima di entrare nella
NEA, è stato direttore generale del
Forum spagnolo sull’Industria Nucleare.
In precedenza, ha occupato diverse
posizioni di responsabilità come
direttore tecnico e poi commissario
presso il Consiglio di Sicurezza Nucleare
spagnolo (CSN). Ha lavorato diversi anni
per la Divisione Nucleare della
Westinghouse Electric di Madrid ed è
stato successivamente project manager
delle centrali nucleari di Lemóniz,
Sayago e Almaraz. Dal 1997 ha
rappresentato la NEA/Ocse al Consiglio
Direttivo dell’Agenzia Internazionale per
l’Energia (IEA) e nel 2003 è diventato
membro del Consiglio consultivo
sulla sicurezza nucleare dell’Agenzia
Internazionale per l’Energia Atomica
(IAEA).
I
n recent years, the increasing
dependence of the European
Union economy on energy
imports has become one of the
main concerns of energy policy
makers. According to data from
the International Energy Agency
(OECD-IEA) and from the
European Commission, this
dependence is set to grow
from 50% today to about 75%
in the year 2030.
In this situation, many countries
are pursuing energy policies
designed to increase the
security of their energy supplies
and diminish their energy
dependency. It is very clear that
energy conservation and
efficiency are going to be
essential for implementing such
policies, together with the
development of carbon-free
energy sources including
renewable and nuclear
energies. Reducing
consumption and using energy
more efficiently are key factors
for the future security of supply,
since high demand on the
international markets raises
prices significantly, and in some
specific cases may even
jeopardize guaranteed access to
adequate supply. Greater use
of renewable domestic sources
also helps reduce dependency.
Another key factor in future
energy policies is climate
change, given that the
concentration of CO2 in the
atmosphere is rising
continuously and, according
to many observers, reaching
critical levels. This is another
element in the drive for energy
conservation and efficiency
as well as for increased reliance
on renewable sources,
an important element in
reducing the CO2 emissions of
the energy sector, which
account for such a significant
portion of global greenhouse
gas emissions.
Yet despite the efforts of OECD
member country governments
to implement aggressive energy
conservation and efficiency
policies, it is expected that
energy demand will continue to
grow, driven in particular by the
developing countries such as
China and India, where
deployment of renewable
energies will be slower than in
the OECD area. According
to IEA forecasts, even if
governments adopt policies to
improve efficiency in energy
production and use, world
energy demand will grow
by more than 50% from now
to the year 2030 and electricity
demand will grow more than
70% over the same period.
Although the European Union
will clearly not be leading the
rise in demand for electricity,
its requirement is expected to
grow by at least 17% by 2030.
Taking into account the need
to replace obsolete power
plants that reach the end of
their useful life by 2030, this
implies a significant need for
new generation capacity.
Base load needs
As far as the electricity sector is
concerned, new policies
should consider both base and
peak load requirements.
While renewable sources
already cover an important
share of total power production
and, as we have seen,
will play a still more significant
role in the future, their
characteristics—intermittence
and distribution—make them
unsuitable for base load
electricity production; biomass
is the exception, but is not a
major option in Europe where
land availability for energy crops
is limited. Hydropower could be
used for base load, but the
possibilities for its expansion in
the European Union are very
limited. Thus, in practical terms,
the real contest for investment
in base load electricity is
between coal, natural gas and
nuclear power.
Based on the studies of the
OECD’s IEA and NEA
(Nuclear Energy Agency), and
from the security of supply
standpoint, coal is very
attractive and competitive.
It is, however, a large CO2
emitter—between 1000g and
1200g CO2 equivalent per
kWh—implying that increased
reliance on coal leads to
increased CO2 emissions, unless
carbon capture and sequestration
is commercially available, which is
not the case today.
As regards natural gas, the
studies indicate that although
it is better than coal in terms
of emissions—around 400g
CO2 equivalent per kWh—the
fact that its price is linked to
some extent to the price of oil
introduces many uncertainties
regarding gas-generated
electricity costs in the medium
and long term. Furthermore,
increased reliance on natural
gas raises dependence on
non-OECD countries, not an
attractive prospect from the
security of supply standpoint.
Therefore nuclear power
appears very well placed for
providing base load electricity.
First, a strong, mature industry
is already in place. More than
30% of total electricity
produced in the European
Union comes from nuclear
21
22
power plants, in spite of the fact
that almost no new facilities
have been built in the last
20 years. Nuclear energy is
essentially a domestic source.
Fuel accounts for less than
20% of total nuclear electricity
generation cost and the raw
material itself, uranium,
accounts for some 5%. In terms
of security of supply, according
to the Euratom Supply Agency
more than 50% of the EU
uranium supply and 70% of its
enrichment service supply are
provided by OECD countries.
Uranium is plentiful and its main
producers are two OECD
countries, Australia and Canada.
In terms of impact on climate
change, even considering the
whole fuel cycle, emissions are
a mere 8g CO2 eq/kWh.
As for cost, OECD studies
indicate that even with the price
of oil (which affects the price
of natural gas) at about
$40/45 per barrel, nuclear
electricity is very competitive,
despite a high capital
investment cost requiring
considerable financial outlay.
A nuclear future?
Given the need to reduce
CO2 emissions and the high price
of oil, renewed interest in nuclear
power is spreading throughout
Europe. The first country to
return to nuclear energy was
Finland, which decided a few
years ago to build a new reactor
with French/German technology.
Its 1600 MWe of installed
capacity could be in operation
in 2011; it should be followed
soon afterwards by a similar
unit already under construction
in France.
These two countries have broken
the ice surrounding new reactor
construction in Europe, paving
the way for other interested
countries. The Slovak Republic
has decided to complete
construction of the two
Mochovce units, halted some
years back; Romania is
completing Cernavoda; and
Bulgaria decided recently to
build four new reactors with
Russian technology. Other
countries are also seriously
considering the construction of
new units, notably the United
Kingdom whose gas reserves
have been significantly depleted
and whose old nuclear reactors,
which provide close to 20%
of its electricity, will need to be
replaced in the next ten years.
All this means that nuclear
power, a robust industrial and
commercial reality in Europe,
could play an even more
significant role in the future in
reducing the vulnerability of the
EU’s energy supply and
greenhouse gas emissions.
However, the development of
nuclear power raises social
issues and concerns that need
to be addressed. The political
community must involve civil
society in the debate about
energy choices, and create a
level playing field for evaluation
of each technology and source.
Recognizing that energy is an
absolute requirement for social
welfare, industrial growth and
a sustainable future, and that
all sources will be necessary
to meet demand, a broad, open
debate on the role of nuclear
energy is essential to develop
society’s understanding of its
risks and benefits as compared
to alternatives.
Societal concerns
Society should be aware of the
implications of each energy
choice and of the need to take
the corresponding decisions to
make those choices viable and
sustainable. In the case of
nuclear power, ultimate disposal
of long-lived, high-level waste
appears to be one of society’s
main concerns. From a technical
viewpoint, the research
conducted by OECD countries
over the past 30 years indicates
clearly that the solution is
already known. In the case of
both open nuclear fuel cycles,
without reprocessing or
recycling, and closed cycles,
with reprocessing and recycling,
deep geological repositories
guarantee that the surrounding
population and future
generations will not be subject
to any undue risk.
The methodology to evaluate
the safety of these repositories,
in areas with stable geological
formations and using
appropriately engineered
barriers, is already available.
Furthermore, retrievability
and/or recuperability of waste
deposited in the repositories
allows for long-term control
and opportunities to take
advantage of technological
progress for more efficient use
of materials and/or the ultimate
disposal of waste.
Finland exemplifies a successful
approach in this area. Before
deciding whether to construct
a new reactor, the Government
and Parliament held lengthy
and very comprehensive
consultations with all
stakeholders in society, which
also considered the steps
involved in construction of a
repository for commercial spent
nuclear fuel, the first of its type
in Europe and the world.
Other important issues raised by
nuclear power are safety and
proliferation of nuclear
weapons. Regarding safety, the
record of the OECD countries
(with more than 350 reactors
in operation) is very impressive,
and the combination of a
responsible industry and an
independent regulatory system
has proved highly effective.
Non-proliferation is not a direct
problem for European countries
since they are firm supporters
of the Non-Proliferation Treaty.
It should also be stressed
that the reinforcement
of the international system of
safeguards though the
International Atomic Energy
Agency (IAEA) and the new
approaches to the fuel cycle,
with fuel supply guarantees
for third countries, provide
enhanced assurance that
commercial materials and
technology will be accessible
to everyone, but will not be
diverted for non-civilian uses.
A European debate on energy
choices with the participation
of all stakeholders in society
is a fundamental tool for
discussing options, examining
them from the perspective
of sustainable development,
and considering social,
environmental and economic
factors within a comprehensive
assessment framework.
Such a debate is an essential
step toward implementation
of a robust European energy
policy guaranteeing security of
supply and addressing global
climate issues. Nuclear power
has demonstrated its technical
and economic performance
over several decades of
industrial and commercial
development and offers
significant environmental
benefits. Society will need to
balance the risks and benefits
of alternatives and ultimately
decide on future energy mixes
to meet its needs.
* Luis E. Echávarri is Director-General
of the Organization for Economic
Co-operation and Development Nuclear
Energy Agency (NEA). Before joining the
NEA, Mr. Echávarri was Director-General
of the Spanish Nuclear Industry Forum.
Previously, he held several senior
positions, as Technical Director and then
Commissioner, at the Spanish Nuclear
Safety Council (CSN). Mr. Echávarri
spent several years at the Madrid
Westinghouse Electric nuclear office,
and was later appointed Project
Manager of the Lemóniz, Sayago and
Almaraz nuclear power plants.
Mr. Echávarri has represented the
OECD/NEA on the Governing Board
of the International Energy Agency (IEA)
since 1997 and became a member
of the IAEA-International Atomic Energy
Agency’s International Nuclear Safety
Advisory Group in 2003.
La difficile equazione dell’energia sostenibile
The Problematic Sustainable Energy Equation
di Leonardo Maugeri*
by Leonardo Maugeri*
La soluzione è negli investimenti in efficienza e tecnologia
Solving the problem by investing in efficiency and technology
Leonardo Maugeri
L’
obiettivo di tendere a
un’economia a minor
contenuto di fonti fossili
è possibile, ma non facile.
E passa per una porta stretta.
Perché la ragione per cui le
fonti fossili coprono ancora oggi
più dell’80% dei consumi di
energia primaria del mondo
è talmente solida da sfidare
ogni più rosea aspettativa sulle
fonti alternative: le fonti fossili
sono in grado di offrire enormi
quantità di energia a prezzi
relativamente bassi.
E nessun’altra fonte fino a oggi
si è dimostrata in grado di fare
altrettanto. Di tutti i loro
vantaggi, questi sono
sicuramente quelli essenziali
e dirimenti. Ce ne sono altri,
comunque, che non possono
essere trascurati. Le fonti fossili
sono disponibili quando ve ne è
necessità, possono essere
comprate e accumulate in
attesa dell’uso futuro, possono
essere trasportate da un paese
all’altro. Inoltre, sono
sufficientemente duttili da
fornire più forme di energia:
dal calore per il riscaldamento
all’elettricità, ai carburanti
per il trasporto. Tutto ciò senza
menzionare la loro importanza
nella petrolchimica di cui
costituiscono le materie prime
di riferimento. Il petrolio
è la fonte in cui queste doti
risultano impareggiabili
e per questo è diventato
il “re” dell’energia.
Niente di simile è alla portata
delle fonti alternative a
quelle fossili. Con l’eccezione
del nucleare e – in misura
minore – dell’idroelettrico, il
primo problema di queste fonti
è quello di produrre quantità di
energia limitate, sia per i vincoli
posti dalle tecnologie e dalle
conoscenze disponibili, sia per
fattori oggettivi – su cui tornerò
tra poco. Ciò prescinde dal
problema del loro costo
specifico, pure assai più alto per
la maggior parte delle fonti
alternative rispetto a quello delle
fonti fossili. In altri termini,
anche assumendo che si dia
molto più spazio alle fonti
alternative per ragioni di
sensibilità ambientale e che
il costo maggiore di queste fonti
debba essere pagato
dalla comunità – di per sé una
linea d’azione condivisibile – il
problema di fondo rimane:
le quantità di energia che oggi
possono fornirci sono
relativamente modeste.
Sicuramente non in grado di
rispondere ai bisogni di energia
di cui l’umanità avrà bisogno nel
corso dei prossimi due decenni.
Se l’energia solare copre oggi
lo 0,4 per mille dei consumi
mondiali di energia primaria,
non è solo perché non si
è ancora riusciti a portarla a un
livello di economicità tale
da renderla conveniente.
Tra i principali problemi
dell’energia solare vi sono la sua
“bassa densità” e la modesta
efficienza dei pannelli disponibili
oggi e per il prossimo futuro
(per i migliori pannelli
fotovoltaici commerciali si arriva
al 15%, anche se alcune società
sembrano aver raggiunto
pannelli commerciali con
efficienza superiore al 20%).
Pertanto per produrre con
il solare quantità significative
di energia elettrica occorrono
spazi enormi: in zone a
insolazione favorevole, come
per esempio il Sud dell’Europa,
una centrale da 500 MW
a gas naturale richiede 6 ettari
di terreno; una a solare
fotovoltaico, richiederebbe
600-1000 ettari!
Un discorso analogo vale per
l’energia eolica, utilizzata per
generare elettricità, che nel
mondo copre meno dello 0,1%
dei consumi primari di energia
e lo 0,6% della produzione
di elettricità. Oggi in termini
di costo è molto più
conveniente di quella solare
e sta attraversando un
boom mondiale che sembra far
ben sperare. Il vento – come il
sole – è una fonte intermittente
di energia, che può mancare
quando l’elettricità serve;
le zone caratterizzate da venti
costanti compresi tra
i 4 e i 25 metri al secondo
(quelli compatibili con il
funzionamento di una turbina
eolica) sono in molti casi non
adatte all’installazione di
impianti eolici. Inoltre, i più
grandi di questi – quelli con
rotori di diametro superiore ai
100 metri – possono alimentare
generatori con potenza
massima di pochi megawatt,
5 o 6 al massimo (ed è già un
grande balzo in avanti rispetto
ad appena 15 anni fa) e devono
essere molto distanziati tra loro,
per evitare che ogni impianto
faccia da barriera a quello
successivo (tra 2 generatori
da 2 megawatt è necessaria
una distanza “di rispetto” tra
300 e 800 metri a seconda
delle condizioni ambientali).
Ne consegue che per ottenere la
stessa potenza installata in una
comune centrale elettrica
alimentata da fonti fossili è
necessario costruire parchi eolici
con centinaia di impianti lungo
distese di molte decine di
chilometri. Infine gli impianti
eolici sono già incorsi negli strali
di gruppi ambientalisti o di
comunità che li hanno dovuti
ospitare, a causa del loro
impatto visivo, delle interferenze
elettromagnetiche che
determinano, dell’inquinamento
acustico e delle trappole mortali
che costituiscono per molti
uccelli. Tutti questi problemi
costituiscono un limite oggettivo
alla possibilità dell’energia eolica
di incidere in maniera adeguata
sul mix dei consumi energetici
mondiali.
Altre fonti di energia più pulita
di quella fossile, da quella delle
maree alla geotermia, sono
lontanissime dal poter offrire un
contributo significativo al
paniere energetico mondiale.
Le biomasse che il mondo
consuma oggi in maniera
massiccia (10% dei consumi di
energia primaria) sono costituite
per la gran parte (70%) da
legno, residui vegetali e perfino
sterco essiccato, ovvero materie
prime relativamente sporche,
tipiche di popolazioni povere.
La frontiera più avanzata delle
biomasse, i biocarburanti,
sta sì registrando un grande
boom, ma con tante ombre
e nubi che si stagliano
all’orizzonte. Utilizzando colture
tradizionali, occorrono enormi
spazi coltivati per ottenere
quantità modeste di
biocarburanti e un impiego
massiccio di fertilizzanti e acqua
che renderebbe lo sviluppo
di carburanti biologici su larga
23
24
scala problematico sotto
il profilo della sostenibilità
ambientale. Inoltre, la
concorrenza dei biocarburanti
con gli usi agro-alimentari
dei terreni e delle colture
(es. cereali) avrebbe un effetto
potenzialmente devastante sui
costi di tanti generi alimentari.
Le prime avvisaglie si sono
già avvertite, e siamo solo
all’inizio di un boom.
Nel frattempo, le uniche fonti
alternative a quelle fossili
in grado di incidere in modo
significativo sul paniere
energetico globale sono in crisi.
Lo è il nucleare che, nonostante
le prospettive di un rinascimento
rilanciate anche di recente da
importanti testate internazionali
(da Fortune all’Economist),
continua a recedere nel
contributo alla produzione di
energia elettrica del mondo.
E il rinascimento di cui si parla
sembra più scritto sulla carta
che destinato a materializzarsi.
I siti in costruzione nel mondo
non bastano a compensare
le chiusure di impianti ormai
vecchi, che nel prossimo
decennio saranno molti; e per
quanto la vita di molti di essi
possa essere allungata per
legge, altri dovranno
inevitabilmente chiudere.
Troppi fattori, poi, giocano
contro il nucleare, almeno per
i prossimi due decenni:
l’opposizione di molte comunità
locali (soprattutto nel mondo
industrializzato) alla costruzione
di nuove centrali, la mancata
soluzione del problema
dello stoccaggio geologico
delle scorie ad alta radioattività
(nel mondo non esiste ancora
un sito del genere), i lunghissimi
tempi necessari per la
certificazione e l’avvio
commerciale delle prime centrali
a sicurezza passiva, unitamente
ai timori di proliferazione di
armamenti nucleari e di attacchi
terroristici. Non ultimi, fattori
spesso dimenticati: le future
generazioni si troveranno a
pagare i costi non contabilizzati
correttamente dello
smantellamento delle vecchie
centrali; le centrali costruite
negli ultimi 15 anni hanno
richiesto in media 200 mesi per
essere avviate alla produzione
(con l’eccezione di Giappone
e Cina); e, ancora una volta,
i budget ottimistici sulla base
dei quali sono stati avviati
i lavori si sono dimostrati irrisori.
La centrale in costruzione in
Finlandia, per esempio, ha visto
il suo budget iniziale più che
raddoppiare in pochi anni,
riproponendo il dilemma se il
nucleare – a costi reali (e non
ipotetici) – sia conveniente
o meno. Ciò detto, penso che
l’equazione dell’energia
sostenibile del nostro secolo
non potrà fare a meno del
nucleare: ma, visto lo stato delle
cose, un vero rinascimento non
potrà che trovare spazio dopo
il 2025-2030.
Anche l’energia idroelettrica non
è in buona salute. La costruzione
di grandi dighe è ormai sotto
attacco in vaste aree del pianeta
per motivi ambientali e sociali.
I nuovi progetti si concretizzano
in paesi in via di sviluppo,
prevalentemente in Cina
e America Latina, mentre siccità
e pioggia insufficiente minano
la produttività di molti impianti
esistenti.
L’altro motivo per cui la porta
di un futuro a minore intensità
di carbonio è stretta è che
petrolio, carbone e gas naturale
non sono destinati a esaurirsi in
tempi brevi, come molti hanno
vaticinato negli ultimi tempi.
In altri termini, non c’è alcun
problema di risorse. L’apparente
deficit di questi anni, soprattutto
del petrolio, è frutto soltanto
degli scarsi investimenti
nell’esplorazione e nello
sviluppo che ha caratterizzato
gli anni 80 e 90, sull’onda
di un eccesso di offerta e di
prezzi del greggio così bassi
da non giustificare la creazione
di nuova capacità produttiva.
Un fenomeno del genere,
d’altra parte, ha caratterizzato
anche l’uranio e altre materie
prime, la cui esplosione di
prezzo nei primi anni di questo
decennio ha infine avviato un
forte rilancio di investimenti.
Allo stesso tempo, la più
inquinante delle fonti di
energia – il carbone – è
tutt’altro che in declino e sarà
difficile ridimensionarne il
consumo per un motivo molto
semplice: esso è utilizzato
prevalentemente (quasi per
il 90%) da paesi che ne
detengono grandi riserve a
basso costo sul territorio
(è il caso di Cina e Stati Uniti).
Che per queste ragioni, ne
faranno difficilmente a meno.
Anche per questo, l’aumento
di emissioni annuali di CO2
previsto per la Cina al 2020
rispetto a oggi – oltre
3,5 miliardi di tonnellate
all’anno – è di circa 6 volte
superiore all’obiettivo di
riduzione, molto ambizioso,
che l’Unione europea si sta
dando per il 2020. Il gas
naturale, poi, sta vivendo un
boom meritato che non si
ferma, forte del fatto di essere
la fonte fossile migliore sotto
il profilo ambientale.
Il vero rischio che stiamo
correndo, quindi, è che il
grande sforzo in corso in tutto il
mondo sulle energie rinnovabili
e pulite rischi di compensare
appena i problemi del nucleare
e dell’idroelettrico, senza
intaccare minimamente il peso
delle fonti fossili. Che, anzi,
potrebbero crescere ancora.
Una nuova sensibilità energetica
e ambientale, pertanto, deve
fondarsi realisticamente non
sull’obiettivo impossibile di
tagliare drasticamente l’uso
delle fonti fossili, ma su come
utilizzarle al meglio sia in
termini di efficienza sia sotto
il profilo ambientale. Allo stesso
tempo, essa deve prescindere
dalle ondate di isteria provocate
dai prezzi alti del petrolio e del
gas, destinate a svanire nel
momento in cui quei prezzi
tornassero su livelli più moderati
mettendo una pietra tombale
sulle energie alternative. Non è
con le spinte emotive di breve
periodo che si può sviluppare
una vera transizione energetica.
In realtà, sia il modo migliore
per convivere con le fonti fossili,
sia la possibilità di sviluppo delle
fonti a esse alternative, posano
su due grandi pilastri: la ricerca
scientifica e tecnologica e
l’efficienza energetica.
Occorre uno sforzo gigantesco
della ricerca scientifica per
puntare a tecnologie innovative
che rendano le fonti alternative
al petrolio effettivamente
“alternative” – ovvero
competitive in termini di costo
e di quantità – nel medio-lungo
periodo. Ma tale sforzo
deve essere orientato anche
a rendere meno inquinanti
e perniciose per il clima le
tradizionali fonti fossili.
E poiché i risultati della ricerca
scientifica non potranno essere
immediati, è necessaria in
parallelo un’azione incisiva sul
fronte dell’efficienza energetica,
che non potrà essere lasciata al
volontarismo dei singoli, ma
dovrà essere puntellata da leggi
e vincoli precisi.
Non si tratta di cambiare
il nostro tenore di vita, ma di
eliminare sprechi assurdi a cui
ci hanno abituato prezzi
dell’energia bassi per troppi
decenni. Pochi esempi danno il
senso di quello che potrebbero
comportare consumi più
responsabili: se gli statunitensi
avessero un parco auto
con la stessa efficienza di quello
europeo (che pure non è
eccelso) potrebbero risparmiare
oltre 4 milioni di barili
di petrolio al giorno, molto più
di quanto oggi consumi
un paese in forte crescita come
l’India oppure più di quanto
greggio produce l’Iran.
Se la Cina avesse centrali a
carbone di ultima generazione
potrebbe tagliare del 20-30
per cento i propri consumi
di energia.
Sposare l’efficienza energetica
come programma da attuare
subito, in sostanza, non
significa riportare indietro le
lancette dello sviluppo.
Significa ricorrere alla più
potente e meno costosa fonte
alternativa al petrolio, tagliando
drasticamente non solo le
emissioni di gas serra, ma anche
di tutti gli inquinanti locali
che affliggono il nostro vivere
quotidiano. Ma è soprattutto
un prerequisito per poter
chiedere in modo credibile
ai paesi in via di sviluppo
di partecipare allo sforzo di
salvaguardia ambientale
e climatica del nostro pianeta.
Senza dimenticare che se
questi si limitassero a imitare
i comportamenti energetici
seguiti dall’Occidente nel
XX secolo, condannerebbero
il pianeta a una sorte infausta.
* Leonardo Maugeri è direttore
Strategie e Sviluppo dell’Eni. Tra i più
noti esperti mondiali di energia,
ha scritto diversi libri, tra cui l’ultimo,
The Age of Oil, pubblicato negli Usa,
è stato tradotto e pubblicato in Italia
da Feltrinelli (L’Era del Petrolio, 2006).
I suoi articoli sono stati pubblicati sulle
più prestigiose testate internazionali,
da Newsweek a Foreign Affairs,
da Science a Forbes e al Wall Street
Journal. È editorialista del Sole 24 Ore,
e membro del World Economic
Laboratory del MIT, dell’International
Councillors Board del Center for
Strategic & International Studies (CSIS)
e dell’Energy Advisory Board (Consiglio
consultivo sull’energia) di Accenture.
A
chieving an economy
with a lower fossil fuel
content is possible, but
not easy. And the window of
opportunity is very narrow.
The reason why fossil fuels
continue to account for more
than 80% of world primary
energy consumption is so solid
that it withstands even the most
optimistic expectations regarding
alternative fuels: fossil sources
offer enormous quantities of
energy at relatively low prices.
And so far no other source has
been able to match them.
These are certainly the two
absolute advantages offered by
fossil sources. Yet there are
others we should not neglect.
Fossil fuels are available when
we need them, they can be
purchased and stored for future
use, they can be transported
from one country to another.
They are sufficiently ductile to
support different forms of
energy: heating, electricity,
transport fuel. Not to mention
their importance in the
petrochemicals industry, where
they are the primary raw
material. For all these reasons,
oil is incomparable, and this is
why it “reigns” supreme.
No such benefits are offered by
non-fossil sources. With the
exception of nuclear and—to
a lesser extent—hydroelectric
power, the first problem with
the alternatives is that they
produce limited quantities of
energy, due both to
technological constraints and
limited available knowledge,
and to a series of objective
factors, of which more later.
Then there is the question of the
alternatives’ specific cost, which,
in the majority of cases, is very
much higher than the cost of
fossil fuels. In other words, even
assuming that far greater space
is given to alternative sources for
environmental reasons and that
their higher cost will be paid
by the community—an
assumption that would find
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a consensus—the basic problem
remains: the quantities of
energy they can deliver today
are relatively modest, and
certainly not sufficient to meet
the world’s energy requirement
over the next twenty years.
If solar energy today covers
0.04% of world primary energy
consumption, it is not only
because we have not attained
a sufficient level of
cost-effectiveness. One of the
main problems with solar
energy is its “low density” and
the modest efficiency of the
panels available today and in
the near future (the best
photovoltaic panels on the
market offer 15% efficiency,
although some companies seem
be marketing panels offering
more than 20%). Consequently,
huge amounts of space are
needed to produce sufficient
quantities of solar power:
in areas with high levels of
sunlight like Southern Europe,
a 500 MW natural gas station
takes up 6 hectares;
a photovoltaic solar plant would
require from 600-1000 hectares!
The same applies to use of wind
energy for electric power
generation; worldwide, wind
power accounts for less than
0.1% of primary energy
consumption and 0.6% of
electricity production. In cost
terms, it is far more competitive
than solar energy and is
enjoying a promising world
boom. The wind—like the
sun—is an intermittent source
of energy and may not be
available when power is
needed; many areas with
constant winds between 4 and
25 meters/second (the level
needed to operate a wind
turbine) are not suitable for
wind farm installations.
Moreover, the largest wind
plants—with a rotor diameter
of more than 100 meters—can
supply generators with a
maximum power of only 5 to
6 megawatts at most (already
a major advance compared with
the situation just 15 years ago)
and have to be installed at a
great distance one from the
other to prevent each turbine
acting as a barrier to its
neighbor (depending on
environmental conditions, a
distance of between 300 and
800 meters is needed between
two 2-megawatt generators).
So to achieve the same installed
power as a normal fossil fuel
power station, you need a wind
farm of hundreds of turbines
installed in an area extending
over dozens of kilometers.
Finally, in the areas where they
have been installed, wind plants
have already encountered
bitter opposition from
environmentalists and local
residents due to their visual
impact, electromagnetic
interference, acoustic pollution
and the fact that they are death
traps for many species of birds.
All these difficulties represent
an objective limit on wind
energy’s potential to account
for a significant portion of
world energy consumption.
Other sources that are cleaner
than fossil fuel, from tides to
geothermal energy, are very far
from offering a significant
contribution to the world energy
requirement. The biomass
widely used in the world today
(10% of primary energy
consumption) consists largely
(70%) of wood, vegetable matter
and even dried excrement, that
is, relatively dirty raw materials,
typical of poorer populations.
True, there is a boom in
biofuels, the leading edge of
biomass, but drawbacks exist
here, too. If traditional crops
are used, huge stretches of land
need to be cultivated to obtain
even modest quantities, and
require extensive application of
fertilizer and water, raising
doubts about the environmental
sustainability of large-scale
development of biological fuels.
Moreover, the competition
between biofuels and
agricultural/food crops (cereals,
for example) would have a
potentially devastating effect on
the cost of many foodstuffs.
We have already seen the first
signs of this, and the boom is
only just beginning.
Meanwhile, the only non-fossil
alternatives that could have a
significant impact on global
energy are in crisis. Despite the
prospects of a renaissance
outlined only recently by leading
international journals (from
Fortune to The Economist),
the contribution of nuclear
power to world electricity
production continues to
dwindle. The resurgence seems
to be on paper rather than in
fact. The nuclear plants under
construction around the world
are insufficient to compensate
for the closure of the many
plants that will become obsolete
over the next ten years; and
even though laws may be
passed to extend the working
life of some of these sites,
others will inevitably close.
Too many factors work against
nuclear, at least for the next
twenty years: the opposition of
many local communities to
construction of new nuclear
plants (especially in the
industrialized nations); the failure
to resolve the problem of
geological storage of high level
radioactive waste (no such site
yet exists in the world);
the very lengthy procedures for
certification and commercial
start-up of the first passively safe
plants, together with concerns
over the possible proliferation of
nuclear armaments and terrorist
attacks. Nor we should forget
a series of factors that are often
overlooked: the future
generations will find themselves
paying the incorrectly estimated
decommissioning costs for
old plants; commissioning the
nuclear installations built in
the last 15 years has taken an
average 200 months (with the
exception of Japan and China);
and, in this case too, the
optimistic initial budgets have
proved grossly inadequate.
The cost initially budgeted for
the plant under construction in
Finland, for example, has more
than doubled in just a few
years, reviving the old debate
over whether or not nuclear
energy is a practical option in
terms of real, not hypothetical
costs. That said, I believe that
the century’s sustainable energy
equation cannot do without
nuclear: but given present
circumstances, a true
renaissance will only be possible
after 2025-2030.
Hydroelectric energy is in a poor
state of health, too. Today there
is widespread environmental and
social opposition to construction
of major dams all over the
world. Most new projects are in
developing nations, chiefly
China and South America, while
drought and low rainfall are
undermining the productivity
of many existing plants.
The other reason why
opportunities for a less
carbon-intensive future are so
scarce is that, contrary to many
recent prophecies, our oil, coal
and natural gas reserves will
not dry up in the short term.
In other words, we are not
facing a shortage of resources.
The recent apparent deficit, in
oil in particular, is due simply to
low investment in exploration
and development during the
1980s and 1990s, a time of
surplus supply and crude prices
that were too low to justify new
production capacity. Uranium
and other raw materials have
experienced similar trends,
with the soaring prices of the
last few years now finally
driving a sharp resumption of
investment activity.
At the same time, the world’s
most polluting energy
source—coal—is very far from
going into decline and reducing
consumption will be difficult,
for the very simple reason that
almost 90% of coal use is
concentrated in countries that
possess large low-cost reserves
(China and the USA) and,
consequently, will be unwilling
to do without. For this reason
too, the expected rise in China’s
annual CO2 emissions from now
to 2020—more than 3.5 billion
tonnes a year—is around
6 times greater than the very
ambitious reduction the EU is
targeting for 2020. Meanwhile
the understandable boom
in natural gas shows no sign of
slackening, given its position as
the most environment-friendly
fossil fuel.
So the real danger is that the
enormous efforts being made all
over the world for clean,
renewable energy may only just
manage to offset the problems
with nuclear and hydroelectric
power, and have absolutely no
impact on use of fossil fuels,
whose importance may indeed
increase further.
Realistically speaking, the energy
and environment debate should
focus not on the impossible goal
of achieving dramatic cuts
in fossil sources, but on ways to
optimize their use in terms
of efficiency and environmental
impact. Equally, it should remain
detached from the hysterical
outbursts provoked by high oil
and gas prices, which will
evaporate should prices return
to more moderate levels,
putting a nail in the coffin
of alternative energy sources.
Short-term emotional responses
are not a foundation for a real
transition in energy.
In practice, the best way to live
with fossil fuels, and
opportunities to develop
alternative sources, depend
on two key elements: scientific
and technological research,
and energy efficiency.
We need a huge effort from
the scientific community to
develop innovative technologies
that make alternatives to oil
truly “alternative”—that is,
competitive in terms of cost
and quantity—over the
medium/long-term. Their work
should also focus on curbing
the pernicious impact of
traditional fossil fuels on the
climate.
And since the scientists will not
be able to give us immediate
results, incisive action is also
needed to improve efficiency,
not simply through the voluntary
action of the individual,
but through specific laws and
restrictions.
This is not a question of
changing our standards of living,
but of eliminating the
unacceptable waste that too
many years of low energy prices
have accustomed us to.
A few examples illustrate the
possibilities of a more responsible
approach to consumption:
if the efficiency of American
automobiles were on a par with
the efficiency of European
vehicles (which itself could be
improved), the USA could save
more than 4 million barrels of oil
a day, far more than the
volumes consumed today by
a rapidly expanding India
and more than Iran’s crude
output. If China installed
latest-generation coal-fired
power stations, it could cut
its energy consumption
by 20-30 per cent.
In short, advocating an
immediate program for energy
efficiency does not mean
delaying development. It means
using the most powerful and
less expensive alternative source
to oil, with dramatic reductions
not only in greenhouse gas
emissions but also in all the
local pollutants that afflict our
daily lives. Above all, it gives us
credibility when we ask the
developing countries to join us
in safeguarding the planet’s
environment and climate.
Not forgetting that if those
nations were simply to imitate
the energy patterns adopted by
the West in the XX century,
they would condemn the Earth
to a dreadful fate.
* Leonardo Maugeri is ENI Vice President
for Strategy & Development. One of the
world’s most distinguished energy
experts, he has written several books,
the most recent of which, The Age of Oil,
published in the USA, has been
translated and published in Italy by
Feltrinelli (L’Era del Petrolio, 2006).
Maugeri’s articles have been published
in leading international journals, from
Newsweek and Foreign Affairs to
Science, Forbes and Wall Street Journal.
He is a leader writer for Il Sole 24 Ore
newspaper, and a member of the
MIT World Economic Laboratory,
the International Councillors Board of
the Center for Strategic & International
Studies (CSIS) and the Accenture Energy
Advisory Board.
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