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MATTEO DURANTE LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA Di contro alle tesi di Karl Kipka, proposte in uno studio sugli sviluppi della drammaturgia intorno a Maria di Scozia, e intorno alla codificazione del mito stuardiano, Benedetto Croce osservava: «e anche colui che chiuda in un dramma il solo episodio di Maria Stuarda, in quanto poeta non offre in nessuna misura la storia del tempo o quella di Maria Stuarda, neppure in via di accenni; ma offre soltanto la sua Maria Stuarda, cioè la propria anima poetica».1 Una acuta ed ineccepibile precisazione critica, quella del filosofo napoletano, che, muovendo saggiamente dalla premessa metodologica che «nessun poeta rende mai la storia, né in complesso né in parte» (compito che è proprio dello storico), chiariva, e per molti versi motivava, l’intricato diagramma in cui trovano collocazione le multiformi scritture drammatiche sul crudele supplizio della regina di Scozia venute alla luce lungo i secoli (di cui conosciamo la composita tradizione, o di cui – si pensi all’opera di Tommaso Campanella – sono sopravvissute isolate rivelazioni).2 1 K. KIPKA, Maria Stuart im Drama der Weltliteratur vornehmlich des 17. und 18. Jahrhunderts, Leipzig, Hesse, 1907 (in particolare, pp. 107-111); B. CROCE, Il tema ‘‘Maria Stuarda’’, «La critica», 6, 1908, pp. 188-192 (poi in ID., Problemi di estetica, Bari, Laterza, 1926, pp. 84-90 [da cui si cita]: 85-86). 2 La lunga sequenza delle opere drammatiche (Reine d’Ecosse di Anthoine de Montchrestien, La reina di Scotia di Carlo Ruggeri, Marie Stuard reine d’Ecosse di Charles Regnault, Maria Stuart of Gemartelde Majesteit di Joost van den Vondel, The Albion Queens, or the Death of Mary Queen of Scotland di John Banks, Maria Stuarda di Vittorio Alfieri, Maria Stuart di Friedrich Schiller, Marie Stuart di Pierre Lebrun, Mary Stuart di Algernon Charles Swinburne, Marie Tudor di Victor Hugo: solo per citare alcune tra le più significative testimonianze) denuncia l’indubbio esteso interesse di tragediografi – ma anche di storici, biografi, esegeti, polemisti, romanzieri, musicisti, ecc. – che ha dato corpo al mito stuardiano: va da sé, secondo punti di vista e sensibilità culturali e poetiche tanto eterogenei quanto eterogenee si mostrano le «Marie Stuarde» ‘inventate’ o ‘raccontate’. A proposito, utilissima la consultazione di M. DUCHEIN, Marie Stuart. La Femme et le mythe, Paris, Fayard, 1987 (si veda, in particolare, l’ultimo capitolo, il XXIV [En ma fin est mon commencement: pp. 533-556], che si muove, però, sul solo versante della produzione franco-tedesca); M. PITTOCK, The invention of Scotland. The Stuart myth and the Scottish identity (1638 to the present), London-New York, Routledge, 1991. Interessanti, altresı̀ (a rappresentare una duratura espansione storica e geografica del mito stuar- — 343 — MATTEO DURANTE Nelle maglie dell’intricato diagramma di quella composita tradizione, la tragedia di Federico Della Valle si distingue per la sua peculiare singolarità. Intanto per la sua qualità di archetipo, situandosi – elemento, questo, illuminante degli stessi impulsi e modalità di produzione – nei piani più alti dell’ipotetico stemma mitografico: concepita e realizzata, infatti, nel rumore degli intensi ed appassionati turbamenti che in tutta l’Europa cattolica accompagnò la morte di Maria (avvenuta nel febbraio dell’87). E per la gestione emotiva che, assorbendo nelle sue carni la piena adesione del devotissimo autore, ne ha condizionato lo svolgimento, consumato sino ai limiti della ricostruzione eroica, con l’asservimento a quelle suggestioni, e con il conseguente interessato e partecipe filtraggio dei dati oggettivi. Come mostra l’enfatizzato fervore agiografico disseminato nella superstite redazione della tragedia, giunta a noi in una copia manoscritta apografa dedicata, con la data 1 gennaio 1591, alla Signora Vittoria Solara: 3 una redazione che appare subito al lettore figlia naturale degli ambienti antiprotestanti, dei quali tradisce gli inconfondibili temperamenti etici e dottrinali.4 Il sostentamento del quadro drammatico non a caso si alimenta, al di là delle ovvie richieste scenografiche, degli stessi canovacci della più audace propaganda controriformista della Compagnia di Gesù. Una ramificata promozione che a Torino era incoraggiata, con l’interessata complicità di Carlo Emanuele, dall’influente Compagnia di San Paolo, che Della Valle frequentava diano), i risultati di una brillante indagine di E. ROTTMANN, The Mary Stuart myth in 20th century Russian literature, tesi di dottorato discussa presso la Princeton University nel 2004. 3 Il manoscritto è conservato nei fondi della Biblioteca Civica «Angelo Maj» di Bergamo, sotto la segnatura MM166 [S III 24] (= Br). A proposito, si veda B. BALDIS, Di una nuova redazione manoscritta della tragedia ‘‘La Reina di Scotia’’ di Federico Della Valle, «Aevum», 26, 1952, pp. 349-364; FEDERICO DELLA VALLE, Tutte le Opere, a cura di P. Cazzani, Milano, Mondadori, 1955, pp. 415-418 (ma Cazzani ipotizzava, in quelle pagine, con argomentazioni invero assai misere ed incerte, rispetto alle coscienziose persuasioni espresse dal Baldis, l’autografia di Br); M. DURANTE, La prima redazione della ‘‘Reina di Scotia’’ di Federico Della Valle (Bergamo, Biblioteca Civica, ms. MM166 [S III 24]), in ID., Restauri dellavalliani, Catania, Università di Catania, 1983, pp. 9-59 (già in «Siculorum Gymnasium», n.s., 34, 1981, 2, pp. 57-109). Tutte le questioni relative a quella prima superstite redazione sono ora riprese e rivagliate in F. DELLA VALLE, Opere, a cura di M. Durante (collana «Il Testo» [3] del Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici dell’Università di Messina), Messina, Sicania, 2000-2005, pp. 714-715, 717-737. 4 Il suo allestimento, da farsi risalire ai primi decenni del sec. XVII, e la sua più che probabile provenienza nella Civica bergamasca dalla biblioteca di uno dei conventi soppressi dal governo della Cisalpina, denunciano una inattesa fugace circolazione seriore (rispetto alla confezione del testo, che pure presenta ancora, nella copia che ci è giunta, i caratteri di una moderata precarietà), e in un’area geografico-culturale affatto estranea al Della Valle, e ai suoi confini biografici, qual è quella orientale (padano-veneta: a considerare le peculiarità del diasistema del suo appassionato amanuense), valicando, di fatto, le frontiere conosciute. Un dato certo significativo, questo: e per la storia della tradizione della tragedia dellavalliana, e per la consistenza dell’interesse, nella piena età postridentina, verso la letteratura di devozione (ché tale era reputato il ‘racconto’ del martirio della Stuarda). — 344 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA forse ancor prima di essere ammesso (nell’86), per il contributo del conte di Camerano, al servizio della duchessa Caterina come «ffuriel mayor de la cavalleriça», intessendovi e consolidandovi, nel tempo, rapporti intellettuali e culturali (dei quali sono indiscutibile, e convincente, prova i legami con il teologo-canonico Guglielmo Baldesano, membro attivo ed autorevole della Compagnia).5 Ed appare, allora, assai plausibile l’ipotesi che il poeta lasciasse alimentare l’orditura ideologica del suo testo dalle sollecitazioni suscitate in quell’entourage eletto a più immediato destinatario: un destinatario diremmo sostanzialmente ‘obbligato’ (del quale anche la Signora Solara, «origine e cagione» dell’impegnativo concepimento, era parte). Ed appare altrettanto plausibile l’ipotesi che egli si appoggiasse alle fonti lı̀ accessibili, piuttosto che alle informazioni diplomatiche provenienti dal pur implicato, ma indolente, ambiente della corte (peraltro avarissimo di rapporti con l’«Astegiano»), o alle vaganti relazioni apocrife prive di qualsivoglia autorità.6 Anzi, la stessa funzio5 Che i rapporti con il Baldesano fossero in certa misura confidenziali, non v’è dubbio. Non si spiegherebbe altrimenti la redditizia partecipazione dellavalliana al progetto editoriale del teologocanonico torinese, che, infatti, aveva accolto ad apertura della sua Sacra historia thebea, sin dalla prima edizione dell’89, un sonetto del nostro poeta (con i limiti, però, di un coinvolgimento allora adespoto; reso esplicito solo nella seconda edizione del volume, uscita nel 1604). Lı̀ il Della Valle – corrispondendo alle richieste della pedagogia gesuitica, sul cui fondamento era stato congegnato l’intero volume della Sacra historia (la prima e, ancor più la seconda edizione riveduta ed ampliata) – aveva voluto cantare il valore dei «santi guerrieri», perseguitati e martirizzati, in nome di quell’«alta fé» ora altrettanto necessaria per combattere i nuovi ed agguerriti nemici della Chiesa. Non può, quindi, trascurarsi il fatto che il tempo della redazione del sonetto (composto, assai verosimilmente, tra la fine dell’88 e gli inizi dell’89, chiaramente su invito del Baldesano, e dopo la lettura, – non è azzardato ritenere – sollecitata al sodale-poeta, del materiale preparato, o in via di preparazione, per la tipografia dell’«Herede del Bevilacqua»), coincida con il tempo della composizione della tragedia stuardiana, in sintonia con le tensioni e con le apprensioni che intanto andavano incentivando la non facile fatica creativa dell’«Astegiano», senza dubbio incalzata, ed apprezzata, anche dal perspicace teologo-canonico. Sul ruolo del Baldesano e della Compagnia di Gesù a Torino, cfr. A. MONTI, La Compagnia di Gesù nel territorio della provincia torinese, Chieri, Ghirardi, 1914; A. ERBA, La Chiesa sabauda tra Cinque e Seicento. Ortodossia tridentina, gallicanesimo savoiardo e assolutismo ducale (1580-1630), Roma, Herder, 1979; P.G. LONGO, Città e diocesi di Torino nella Controriforma, in Storia di Torino. Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato (1536-1630), a cura di G. Ricuperati, Torino, Einaudi, 1998, III, pp. 501-505. Opportuna, malgrado l’interesse ai fenomeni e ai problemi letterari sia spesso tangenziale, la consultazione delle pagine degli Atti del convegno La Compagnia di Gesù nella Provincia di Torino. Dagli anni di Emanuele Filiberto a quelli di Carlo Alberto (Torino, 14-15 febbraio 1997), a cura di B. Signorelli e P. Uscello, Torino, Società piemontese di Archeologia e Belle Arti, 1998: si veda, in particolare, A. GIACCARIA, Libri e raccolte di incisioni provenienti dai Gesuiti nei fondi della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, pp. 287-344 (per i riferimenti che contiene al Baldesano: pp. 288-289, passim). 6 L’utilizzazione di testimonianze domestiche è, a conti fatti, la congettura più economica, visto che le possibili fonti (affidate alle stampe tra l’87 e l’89-’90, e circolanti in quegli anni) non offrono apprezzabili indizi d’aver ispirato, più o meno direttamente, la intelaiatura narrativa, né le interne movenze (psicologiche, scenografiche, rituali) della tragedia dellavalliana. Infatti, una verifica di quelle fonti (già richiamate nelle pagine delle edizioni curate da Pietro Cazzani [F. DELLA VALLE, Tutte le Opere, cit., pp. 466-467] e da Andrea Gareffi [F. DELLA VALLE, Tragedie, Milano, Mursia, — 345 — MATTEO DURANTE ne della letteratura, acquistando, nell’ancora ingenuo e scolastico poeta, il ruolo di veicolo ancillare alla trasmissione del messaggio, spiritualmente sublime e vibrante, ripeteva – a dar credito ad una spassionata lettura di quella redazione – l’identico ruolo che, appunto, gli riconosceva con sottile pignoleria la ratio gesuitica.7 Una funzione (meglio, la consapevolezza di una funzione) assicu1988, pp. 220-221]; accessibili agli studiosi [la più parte] nella Bibliothèque Nationale di Parigi, [la minor parte] nella Biblioteca Apostolica Vaticana, nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e nella British Library) non fornisce garanzia alcuna circa l’identificazione di una sicura fonte messa a profitto dal poeta. Solo di rado si scorgono segmenti ‘convergenti’, cautamente riconducibili ad un eventuale primo esemplare che può aver influenzata l’intera trasmissione agiografica. Comunque, un materiale documentario di grande interesse, che vale la pena continuare a proporre all’attenzione degli studiosi (entro gli spazi della – a quel tempo esordiente – mitografia stuardiana). In particolare, si segnalano: Vera relatione della morte della sereniss. regina di Scotia nel lisola di Inghilterra, Perugia e Viterbo, 1587; La mort de la royne d’Escosse, douairière de France, [Paris], 1588 (è, questo, un testo redatto sulla base dei resoconti delle damigelle e di Dominique Bourgoin, medico di Maria: fondamentale sul versante della connotazione della più attendibile facies di quell’eventuale primo esemplare); A. BLACKWOOD, Martyre de la royne d’Escosse, douairière de France, proche héritier de la royne d’Angleterre, Edimbourg, 1587, 1588, 1589, Anvers, 1588, Paris, 1589 (le edizioni successive alla princeps del 1587 contengono inoltre le pagine di La mort de la royne d’Escosse..., cit.; il testo dell’Oraison funèbre de la très chrestienne, très illustre, très constante Marie, royne d’Escosse, morte pour la foy, le 18 fébvrier 1587, par la cruauté des Anglois hérétiques, ennemys de Dieu, sur le subject et discours de celle mesme qui fut faicte en mars, à Nostre Dame de Paris, au jour de ses obsèques et service, et lors prononcée par R. P. messire Renauld de Beaune, ed una raccolta di liriche in onore della stessa Maria); O. BARNESTAPOLIUS, Maria Stuarta Regina Scotiae, dotaria Franciae, haeres Angliae & Hyberniae, Martyr Ecclesiae, Innocens a coede Darleana, Ingolstadii, 1588, Paris, 1589; A. DE HERRERA, Historia de lo sucedido en Escocia y Inglaterra, en quarenta y quatro años que bivio Maria Estuarda, reyna de Escocia, Madrid, 1589, Paris, 1589, Lisboa, 1590. Un’ampia e rilevante miscellanea di attestazioni di quella trasmissione agiografica in De vita & rebus gestis Serenissimae Principis Mariae Scotorum Reginae, Franciae dotariae, quae scriptis tradidere autores sedecim in duo volumina distribuita et ad optimae fidei Codices recensita a Samuele Jebb, Londini, 1725 (nei due pregevoli volumi confluiscono, insieme ad altro materiale degno di grandissima considerazione, le citate monografie di Obertus Barnestapolius, Adam Blackwood, Antonio de Herrera, oltre alla citata lezione di La mort de la royne d’Escosse..., e dell’Oraison funèbre del Beaune). A proposito della monografia di George Conn [Coneo Scoto], Vita Mariae Stuartae Scotiae reginae, dotariae Galliae, Angliae & Hibernie haeredis, Roma, 1624, anch’essa compresa nella raccolta del Jebb, malgrado alcuni elementi narrativi concordino, non può essere reputata fonte privilegiata del nostro poeta, perché è prodotto assai tardo, risalente a periodi successivi alla costruzione della prima redazione della tragedia del ’91. 7 Del resto, ai canoni gesuiti della rinovazione della tragedia si legava già la preistorica riscrittura del testo euripideo di Ifigenia: un esperimento, quello condotto dal Della Valle nella composizione dell’Adelonda di Frigia, che trovò, in età più avanzata, un suo assestamento in vista della rappresentazione nel teatro di corte per la venuta a Torino dell’Arciduca d’Austria nella fastosa serata del 25 novembre 1595 (C. COLOMBO, Federico Della Valle a Milano, «Italia medievale e umanistica», 9, 1966, pp. 477-485). A noi, per quel che possiamo ipotizzare sulla base della postuma tradizione, è giunta solo l’antica redazione (rimasta ad un certo punto negletta sul tavolo di lavoro del poeta; ritrovata dal nipote tra le carte dello zio «defonto» e consegnata ai torchi dei Cavalleris per la stampa), e non la redazione messa in scena nel teatro di corte, sicuramente meno fragile, nella struttura e nell’interna sistemazione, di quella sopravvissuta (non si capirebbe la completa approvazione del testo dellavalliano da parte di Carlo Emanuele, né si capirebbe la diretta partecipazione dello stesso duca all’organizzazione dell’apparato coreografico e alla rielaborazione degli Intermedi approntati dal poeta: L. FASSÒ, Gli Intermedi dell’«Adelonda» di Federico Della Valle, «Rend. dell’Istit. lomb. di scienze e lettere», 88, 1955, pp. 271-300 [poi in ID., Dall’Alighieri al Manzoni. Saggi raccolti a cura — 346 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA rata dall’acutizzato intreccio di profonda moralità controriformista e di asprezza antiprotestante e antiereticale (quasi a voler, il nostro poeta, condividere l’ufficio di letterato organico che andava, in quegli anni, riconoscendo vigoroso nel Baldesano). Un fervore agiografico che ha tutto sommato resistito, nelle sue linee portanti, ben oltre la contemporaneità dell’evento e ben oltre la ‘definizione’ di quella prima redazione. Sulla strada di un tragitto elaborativo, e rielaborativo, variegato, di cui si sono conservati gli esiti affidati all’autografa copia di dedica a Ranuccio Farnese, datata 1 gennaio 1595 (una nuova redazione, di soli quattro anni più tarda; 8 ancora immersa nella medesima atmosfera ideale da cui aveva preso avvio la primogenita lezione), e alla princeps, dedicata a papa Urbano VIII, edita per i tipi dei milanesi «Heredi di Melchior Malatesta», raffinati «stampatori regij et ducali», nel 1628 (una rinnovata redazione, uscita trentasette anni dopo la lezione destinata alla Signora Solara, nei mesi che immediatamente precedettero – o con molta probabilità seguirono – la scomparsa del poeta; 9 licenziata per essere data alle stampe quando ormai l’atmosfera ideale era, e da più o meno un ventennio, radicalmente mutata nella coscienza dellavalliana, rispetto ai convincimenti, politici etici e religiosi, che avevano sorretto larga parte degli ormai lontani anni torinesi).10 dei discepoli, Firenze, Le Monnier, 1955, pp. 161-189]). Ma la nostra valutazione critica, pur condizionata dalla natura vacillante e transitoria di quel testo, acquista un motivo in più di riflessione proprio per la opportunità che ci dona di penetrare il substrato scolastico che fu alla base di quel remoto impianto e dell’adolescenza letteraria dell’«Astegiano». A proposito, considerazioni metodologiche preliminari nelle pagine dedicate alla vicenda editoriale della «tragicomedia» dal Cazzani (F. DELLA VALLE, Tutte le Opere, cit., pp. 420-421) e dal Fassò (nel suo volume miscellaneo Teatro del Seicento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, pp. 470-471). Meno affrettato l’esame dei problemi e delle proposte ecdotiche in M. DURANTE, Per una nuova edizione dell’‘‘Adelonda di Frigia’’ di Federico Della Valle, in ID., Restauri dellavalliani, cit., pp. 61-82 (già in Studi di Letteratura italiana in memoria di Calogero Colicchi, Messina, Edas, 1983, pp. 127-149), ripresi, anche con aggiornate motivazioni, in F. DELLA VALLE, Opere, cit., pp. 745-756. 8 Il manoscritto è conservato nei fondi della Biblioteca Nazionale di Napoli, proveniente dalla biblioteca parmense dei Farnese, sotto la segnatura XIII E 2 (= Nr). A proposito, si veda B. CROCE, Ancora della ‘‘Reina di Scotia’’ di Federigo Della Valle, «La critica», 34, 1936, pp. 389-393 (ora in ID., Aneddoti di varia letteratura, II, Bari, Laterza, 19532, pp. 19-25); B. BALDIS, Di una nuova redazione..., cit., passim; F. DELLA VALLE, Tutte le Opere, cit., pp. 415-418; ID., Opere, cit., pp. 715-716, 737-742. 9 Della emissione milanese – l’unica emissione della tragedia (= Mr) – si rintracciano esemplari nella Biblioteca Apostolica Vaticana (due) e nella British Library (uno); perduti gli esemplari conservati nell’Ambrosiana e nella Braidense. Per più dettagliate notizie, si rimanda ancora a F. DELLA VALLE, Opere, cit., pp. 716-717, 742-745. 10 Di quei nuovi convincimenti, politici etici e religiosi, maturati negli ultimissimi anni novanta e progrediti agli inizi del secolo seguente (che avevano determinato da un lato la rottura con Carlo Emanuele e con l’ambiente della corte sabauda; dall’altro una visione ottimistica e provvidenzialistica dell’Uomo e della Storia, che si era andata contrapponendo alla visione pessimistica del pieno pe- — 347 — MATTEO DURANTE Un tragitto elaborativo, e rielaborativo, variegato, si diceva; che si è concretamente andato assestando nel corso di quelle tre fasi (le sole che conosciamo; privati come siamo degli scartafacci che le hanno generate, e di eventuali altri consanguinei testimoni): un tragitto condotto tra rinunce, ripensamenti, correzioni, aggiornate acquisizioni. Se si guarda la moltitudine di micro e macrovarianti, che sono andate inseguendosi dalla prima alla seconda redazione, e, ancor più, dalla seconda alla terza. In ispecie le macrovarianti strutturali, le più ‘clamorose’, perché le più agevolmente identificabili dal lettore persino ad una sbrigativa collazione (rispetto alle pur numerose altre che si muovono sul più letterario versante stilistico linguistico e retorico, rintracciabili, facendo ricorso a una meno sbrigativa collazione, in numerose, ma più delimitate, porzioni di testo); le quali hanno provocato la chirurgica abiura, oltre che di antiquati squarci encomiastici,11 di scene e segmenti che erano stati di proposito innestati nel circuito degli intrecci al fine di creare una più forte e vigorosa suspense, preliminare alla inesorabile conclusione del dramma, che però avevano finito per inceppare – agli occhi via via più maturi ed addomesticati dell’autore – la lineare amministrazione della fabula, a dismisura dilatata tra pause ed intoppi dialogici e scenografici.12 riodo torinese, da cui avevano preso vigore le pagine stuardiane), sono decisive attestazioni le redazioni delle due tragedie bibliche Iudit ed Ester, dedicate ed offerte al duca, con intenti tutt’altro che indulgenti, in due apografe raffinate copie di dedica, e pubblicate insieme, dal poeta, nel 1627, con la dedica all’«Altissima Reina de’ cieli». Ubbidiva allora il poeta alle linee di un progetto editoriale che non contemplava la collocazione, in quel volume, dell’antica tragedia consacrata al martirio della regina di Scozia, emarginata nello stesso momento in cui veniva stabilita, per essa, a fortiori, una sistemazione autonoma che ne qualificasse, dinanzi al lettore, la peculiarità: data la dissonante connotazione dei materiali tragici, e la oggettiva distanza tra le premesse ideologiche che le avevano intimamente condizionate. Per una aggiornata riflessione sulla biografia dell’«Astegiano» si rimanda a F. DELLA VALLE, Opere, cit.: in particolare, alle pagine introduttive al volume (Per una biografia culturale: 7-43), orientate a riconoscere e definire i tratti distintivi della personalità politica, culturale, artistica del nostro poeta. Quelle pagine fanno tesoro, riconsiderandoli convenientemente, dei risultati delle indagini condotte dagli studiosi, lungo i decenni del Novecento: da Carlo Filosa (Contributo allo studio della biografia di Federigo Della Valle [1560?-1628], «Giornale storico della letteratura italiana», 17, 1938, pp. 161-210), Luigi Firpo (nella fondamentale apposita appendice della sua edizione delle Prose dell’«Astegiano», Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1964), Cesare Colombo (Federico Della Valle a Milano, cit.), e, più recentemente, Cesare Greppi (Un documento per la biografia di Federico Della Valle e altri per Cristobál de Virués e Cesare Negri, «Lettere italiane», 32, 1980, pp. 244-247; e Il viaggio in Spagna di Federico Della Valle, in Da Carlo Emanuele I a Vittorio Amedeo II, Atti del convegno [San Salvatore Monferrato, 20-22 settembre 1985], a cura di G. Ioli, San Salvatore Monferrato, [s.e.], 1987, pp. 103-111). Di indubbio interesse il saggio di M.L. DOGLIO, Intellettuali e cultura letteraria (1562-1630), in Storia di Torino..., cit., III, pp. 629-632. 11 Si guardi la scena prima del IV atto di Br con quella celebrazione delle virtù di Emanuele Filiberto («pietoso | e forte e grande che Savoia resse | formidabile e pio»), attraverso la citazione delle abilità del suo diplomatico, il conte di Molfetta (vv. 1737 sgg.); e contestualmente dell’altro piemontese Davide Rizzio, scaltro cortigiano di Maria. Un segmento convenientemente (e definitivamente) espunto già nella fase di ricomposizione del testo per Ranuccio Farnese. 12 Si segnala, a proposito, la rimozione in Mr dell’intera scena seconda del primo atto di Br (viva — 348 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA Un tragitto in ogni modo rispettoso di copiose aree di acquisita stabilità (ed è un ingrediente niente affatto fortuito; e, per questo, altrettanto ‘clamoroso’), visto che è stata mantenuta nel suo primitivo aspetto – nonostante alcuni aggiustamenti, che non compromettono punto il solco originario – gran parte dei luoghi del tessuto tragico accolti nella redazione dedicata alla Solara, e volti, con risoluta premeditazione, già allora, a rappresentare ed a caratterizzare la fisionomia del personaggio «Maria di Scozia».13 Con un doppio perspicuo obiettivo, è da ritenere: sicuramente stimato ancora valido negli anni che seguirono, se ha una ragione la loro uniforme conservazione. Da un lato, avallare la tesi di una Stuarda martire esemplare della fede cattolica, e testimone obbediente a Dio, alla Chiesa, al Papa di Roma, fino al sacrificio della vita. E dall’altro, condurre il lettore, dinanzi all’ineluttabile fine, ingiusta e vile, della Reina, ad essere, d’istinto, conquistato dalla tenacia morale e spirituale vissuta e dichiarata dalla protagonista, e, insieme, ad essere, d’istinto, (ancor più) invaso da una robusta e risoluta reazione antiprotestante ed antiereticale: cioè da un incondizionato consenso ai principı̂ e ai precetti del cattolicesimo; più propriamente, come previsto dalle intenzioni gesuitiche, del cattolicesimo tridentino.14 Entro un clima complessivo in Nr [lı̀ accorpata, per interne modificazioni, in una nuova scena terza]); delle prime tre scene del secondo atto (vive in Nr, ma divenute, per l’accorpamento di due scene, la prima e la seconda), e dell’intera scena seconda e dell’intera scena ultima del quinto atto (cassate pure in Nr). Ancora, l’abbandono in Mr di estese zone della scena seconda del terzo atto di Br (scampate alla morte nella confezione di Nr); e della scena prima del quarto atto di Br (rimaste indenni in Nr); e delle scene prima, terza e quinta del quinto atto (parzialmente recuperate in Nr: scene terza e quarta). Per dare comunque una complessiva indicazione accessoria (di per sé congrua) degli effetti degli interventi chirurgici dell’autore, valga il freddo computo dei versi delle tre redazioni: si va dai 3655 della prima, ai 3360 della seconda, ai 2558 della princeps. 13 La passione più prudente e controllata che si nota nell’insieme del tessuto tragico di Mr, rispetto alle prime due redazioni, sembra giustificata almeno da due elementi contigui. Intanto dall’oggettivo affievolimento (quarantuno anni dopo) del rumore degli intensi ed appassionati turbamenti seguiti alla morte della regina di Scozia. E poi dalla coscienza del concreto allargamento del proprio pubblico: un fatto che imponeva al poeta, anche per l’affievolimento di quel lontano rumore, rinfrescati criteri di narrazione e rappresentazione. 14 Si giustificano, in tal senso, gli evidentissimi debiti dellavalliani verso il senechismo moderato (e non solo di temperamento tecnico-scenografico), apprezzato come il metodo più idoneo a rappresentare sulla scena lo storico scontro di idealità. Sui tempi e sulle metodologie del teatro gesuitico si rimanda alle stimolanti analisi consegnate agli Atti del convegno I Gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa (Roma-Anagni, 26-30 ottobre 1994), a cura di M. Chiabò e F. Doglio, Viterbo, Centro studi sul teatro medioevale e rinascimentale, 1995. Rimane ancora utilissima la consultazione di E. BOYSSE, Le Théâtre de Jésuites, Paris, Vaton, 1880 (anast.: Genève, Slatkine, 1970), come pure lo studio (pubblicato postumo) di W.H. MCCABE, Introduction to the Jesuit theater, a cura di L.J. Oldani, St. Louis, Institute of Jesuit Sources, 1983. Opportuno, altresı̀ (nonostante la ‘limitata’ area di osservazione), il rimando a G. ZANLONGHI, Teatri di formazione. Actio, parola e immagine nella scena gesuitica del Sei-Settecento a Milano, Milano, Vita e Pensiero, 2002; A. CASCETTA, La «spiritual tragedia» e l’«azione devota». Gli ambienti e le forme, in La scena della — 349 — MATTEO DURANTE tetro e grave (rimasto inevitabilmente immutato nelle sopravvissute fasi di revisione), che incombe pesante sul corso del lento incalzare degli eventi, privo com’è di speranzose lusinghe mondane (dissimulate; salvo qualche rarissimo effimero sussulto), e che sfocia nello smisurato dolore della sconfitta capace di distruggere – nella Stuarda, e nel lettore – ogni certezza legata al divenire contingente e transitorio (lo stesso Prologo, affidato all’Ombra di Francesco II, re di Francia e primo marito di Maria, introdotto nella princeps milanese, si sarebbe, infatti, adeguato senza esitazioni, pur con dissonanti requisiti tecnici e ritmici, a quel clima complessivo).15 gloria. Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola, a cura di A. Cascetta e R. Carpani, Milano, Vita e Pensiero, 1995, pp. 115-218; e (significativo sul contiguo piano delle scenografie teatrali) B. FILIPPI, Il teatro degli argomenti. Gli scenari seicenteschi del teatro gesuitico romano. Catalogo analitico, Roma, Institutum Historicum Societatis Iesu, 2001. Sui rapporti tra il teatro tragico italiano e gli exempla classici, sono ancora fondamentali strumenti di lavoro: Les Tragédies de Sénèque et le théâtre de la Renaissance, a cura di J. Jacquot, Paris, CNRS, 1964; E. PARATORE, L’influenza della letteratura latina da Ovidio ad Apuleio nell’età del Manierismo e del Barocco, in Manierismo Barocco e Rococò, Atti del convegno (Roma, 21-24 aprile 1960), Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1962, pp. 239-301 (ora in ID., Antico e nuovo, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1965, pp. 243-355); ID., Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico nel ’500, in Il teatro classico italiano nel ’500, Atti del convegno (Roma, 9-12 febbraio 1969), Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1971, pp. 9-95 (ora in ID., Dal Petrarca all’Alfieri. Saggi di letteratura comparata, Firenze, Leo S. Olschki, 1975, pp. 105-262). Nella più specifica direzione della tragedia stuardiana, opportuno, altresı̀, il rinvio a R. MERCURI, ‘‘La reina di Scozia’’ di Federico Della Valle e la forma della tragedia gesuitica, «Calibano», 4, 1979, pp. 142-161; e al più recente saggio di J. DYESS, La creazione di una martire: l’uso del corpo femminile ne ‘‘La reina di Scozia’’, «Carte italiane. Journal of Italian Studies», 16, 1999, pp. 54-70. 15 La composizione del Prologo è da ascriversi, assai verosimilmente, agli stessi tempi, o ai tempi immediatamente successivi alla composizione dei due Prologhi inseriti nella prima consolidata struttura della Ester (come la conosciamo dalla copia di dedica a Carlo Emanuele, conservata nella Nazionale di Torino) e in quella della Iudit (che, allo stesso modo, ne era priva: come si ricava dalla descrizione del manoscritto, pur esso conservato nella Nazionale di Torino, registrata nei cataloghi di Josephus Pasinus [Codices manuscripti Bibliothecae Regii Taurinensis Athenaei, Taurini, Typographia Regia, 1749, p. 416] e di Bernardino Peyron [Codices italici manu exarati qui in Bibliotheca Taurinensis Athenaei ante diem XXVI januarii MCMIV asservabantur, Taurini, apud C. Clausen, 1904, pp. 62-63], prima della sua irrimediabile perdita nell’incendio che nel 1904 distrusse – o rese più o meno parzialmente impraticabile – gran parte dei materiali custoditi in quell’ala della biblioteca). Tuttavia, a leggere i tre segmenti introduttivi, che tendono a recuperare la classica costruzione d’apertura del dramma greco e romano (Euripide e Seneca, anzitutto: entrambi auctores vivissimi e durevoli per l’«Astegiano»), sulla strada già percorsa del resto da illustri settori della tradizione tragica cinquecentesca, ora però entro gli ammodernati margini del poema tragico, per l’assenza di distribuzione della fabula in atti e scene; tuttavia, si diceva, a leggere i tre segmenti introduttivi, non è arduo constatare la loro invece discorde pianificazione, rispetto alla sincronica loro costruzione metrica e ritmica, tutt’altro che soffocata, per l’elevato numero di settenari che riescono a dare una cadenza complessiva tenuemente armoniosa. Nel Prologo della Reina l’autore riporta alla luce il suo più esasperato pessimismo controriformista, tutelando, in quel modo, le tonalità fosche che solo avevano giustificato l’elaborazione del testo sin dal suo primo prendere forma sulla pagina bianca. Ben diversa la scansione dei Prologhi della Iudit e della Ester, che rispondeva, appunto, alla nuova dimensione religiosa dell’autore (la quale riempiva larga parte degli anni milanesi). — 350 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA Ma entriamo in quelle copiose aree di acquisita stabilità, quantomeno per una verifica introduttiva (condotta, di necessità, per specimina): 16 utile, in ogni modo, a tentare di individuare gli sfondi prevalenti del disegno dellavalliano.17 E l’accesso nel terreno movimentato degli intrecci, anche se discreto, permette di toccare con mano la omogeneità psicologica che, non senza qualche inevitabile défaillance, sorregge (sin dalla prima redazione) il personaggio della protagonista: spia, vuoi della sensibilità creativa dell’autore e della sua abilità nell’intessere apprensioni e commozioni; vuoi della sua capacità di trapiantare nel tessuto letterario, con la dovuta mediazione, temi e contenuti digeriti negli anni della più assidua frequentazione del Baldesano e della Compagnia di San Paolo (e, in fondo, mai ripudiati; vivissimi proprio in quelle aree della tragedia rimaste, appunto, ‘indenni’ da ripensamenti). Maria, pagina dopo pagina, – e non avrebbe il nostro poeta potuto tradire quella soluzione: lo si dica con franchezza – si rivela donna forte, indomita, austera. Pur nella condizione dolorosa e sventurata che subisce dentro le «mura anguste» del castello di Fotheringay: Reina prigioniera, vedova sconsolata, madre d’inutil figlio, signora d’infedeli e di rubelli, donna senza consiglio e senza aita, povera, inferma, et in età cadente.18 16 La segnalazione di tutti i luoghi dellavalliani rimanda alla lezione adottata in F. DELLA VALLE, Opere, cit. I versi della tragedia, che si citano, di seguito, nel testo (e che richiamano zone di quelle aree di acquisita stabilità, di cui si diceva), riprendono la lezione di Br. In nota, oltre all’indicazione della sequenza numerica dei versi nelle tre redazioni, si registrano le eventuali varianti evolutive di Nr e Mr. 17 Per una più esaustiva valutazione dell’articolato diagramma genetico ed evolutivo della tragedia, il lettore leggerà la lezione di Mr nel primo tomo del volume, nelle pp. 121-187; la lezione di Br e Nr nel secondo tomo, nelle pp. 438-653 della Appendice I, dove è data la opportunità di seguire, sinotticamente, passo passo, il tracciato delle due prime superstiti redazioni: un tracciato già proposto, nelle pagine della sua edizione, dal Cazzani (F. DELLA VALLE, Tutte le Opere, cit., pp. 484-593), ma con molte lacune, fraintendimenti, errori di lettura degli originali manoscritti, arbitrari interventi sulla più autentica lezione dell’autore. Sul piano critico, doveroso il rinvio alle sagge e intense analisi – esemplari e assolutamente imprescindibili – (che coinvolgono l’intero corpus del teatro dellavalliano, entro i cui margini trovano spazio le riflessioni dedicate alla Reina): quelle condotte, in particolare, da G. TROMBATORE , Le tragedie di Federico Della Valle, in ID., Saggi critici, Firenze, La Nuova Italia, 1955, pp. 167192; G. GETTO, Il teatro barocco di Federico Della Valle, «Il Verri», 2, 1958, pp. 14-52 (poi in ID., Barocco in prosa e poesia, Milano, Rizzoli, 1969, pp. 217-260; Milano, 2000, pp. 165-199); F. CROCE, Federico Della Valle, Firenze, La Nuova Italia, 1965 (qui lo scandaglio interviene, con metodologica pertinenza, sulle tre redazioni della tragedia). Altrettanto doveroso il rinvio ai produttivi accertamenti di semantica dellavalliana (tra cui trovano amplissimo spazio i riferimenti alla Reina), offerti, in un fertilissimo volume, da S. RAFFAELLI, Semantica tragica di Federico Della Valle, Padova, Liviana, 1973. 18 Br, vv. 59-64; Nr, vv. 40-45 e Mr, vv. 117-122 (59 prigioniera] prigionera Nr 60 sconsolata,] — 351 — MATTEO DURANTE Una condizione che lo spazio di quelle mura accentua a dismisura, creando, lungo l’intero svolgimento, ampi stralci di visioni antitetiche, esasperate al fine di esaltarne gli effetti, secondo una gradatio che lascia presagire, sin dalle primissime battute, la soglia del supplizio finale: già reina adorna di duo chiare corone e di duo scettri che resser ad un tempo e Franchi e Scoti, figlia di re, moglie di re possente, discesa per lungo ordine da regi, e di re madre ancora, or chiusa in mura anguste, or prigioniera, senza vittoria vinta, legata a l’altrui forza, a l’altrui voglia, sotto il giudicio di nemica ingiusta, priva non dirò già di maestade o d’imperio real, ché di ciò ’l nome a pena mi rimembra, ma priva anco di quel che dà natura, aere sereno, a nodrir quanto vive e quanto spira, passo le notti e i dı̀ fra i dubbi e i rischi e di morte e di vita.19 Ed in quelle visioni antitetiche, il persistente sottile raffronto tra il felicissimo passato e l’assai tenebroso presente genera e potenzia un’opprimente angoscia, cui, implicitamente, è chiamato a partecipare lo stesso lettore (il lettore-cattolico, culturalmente educato, reso, per questo, dal poeta interlocutore tutt’altro che secondario, attraverso un ininterrotto ed allusivo dialogo che con lui instaura e con lui tiene vivo, rendendolo, di fatto, partecipe attivo dell’intero panorama drammatico, con stimoli – dal sottile intento educativo – sempre più invadenti); ora indotto a riflettere, accompagnando il flusso insistente degli accadimenti, sulla «misera e trista» avventura di Maria, in quanto metafora della avvilente caducità dell’esperienza umana: Ahi come crudo splendesti, o sol, quel dı̀ che l’empio lido, sconsolata, abbandonata, Mr 62 d’infedeli e di ribelli] di ribella infida gente Mr 63 senza — aita,] senza consiglio, Mr). 19 Br, vv. 14-30; Nr, vv. 8-21 e Mr, vv. 86-101 (18-20 da regi, — or chiusa] da regi, | or chiusa Nr 22-24 voMr 20-22 or prigioniera, — legata] or prigioniera [prigionera Nr], | legata Nr Mr 26 mi — anco] mi rimembra, glia, — priva] voglia, | priva Nr Mr 25 d’imperio] d’impero Mr | misera, ma priva anco Mr 28 vive — spira,] ha vita, Mr 29 fra — rischi] fra i rischi e i mali Nr fra i rischi e i danni Mr). — 352 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA empio lido e spergiura infame arena d’Inghilterra toccò l’infausta nave che me traea con nome di reina, e con destin di serva! Io dunque nacqui, nacqui figlia di re, fui poscia erede d’antichissimo regno; io fui congiunta in moglie a re maggior, son madre or anco di legittimo re che da me prende nome e titol real, scettro e corona. A sı̀ gran stato alzar mi devea ’l Cielo, perch’io cadendo poi precipitassi a non esser più donna n’anco di me medesma, e da mano tiranna ricever questa vita quasi grazia e mercede d’un’empia mia nemica. Ahi sorte, ahi fato, ahi Cielo, ahi mio giusto dolore, come non spezzi il core! 20 Un raffronto inquietante tra il passato ed il presente che supera i confini familiari, coinvolgendo (con l’esasperazione dell’intento educativo) personaggi antagonisti. Come avviene al Conte di Pembrocia che, incontrando Maria a distanza di anni (gli anni della cattività «ingiusta», «acerba» e «grave»), non può esimersi da commenti ‘benevoli’; intenzionali nel gioco dei contrasti preordinati, per suscitare la risposta della Reina, solo a prima vista troppo sentenziosa, carica, al contrario, di forte tensione emotiva: CONTE DI PEMBROCIA REINA Come ci aggiri, o Ciel, come travolvi queste cose mortali! In quale stato ti riveggio or, o donna; in qual ti vidi ha già molt’anni! E questo essempio sia a chi vive, a chi regna; e miri quanto 20 Br, vv. 68-89; Nr, vv. 49-70 e Mr, vv. 129-153 (68-69 Ahi — splendesti] Deh come oscuro e crudo | rotasti Mr 71-73 l’infausta — nacqui] l’infausto piede | che me portò con nome di reina, 75-79 d’an| coronata, onorata, | e con destin di serva, | rapita, catenata! | Lassa me! Dunque nacqui Mr tichissimo — Cielo] d’antichissimo regno, | d’eccelso re fui moglie, e son madre anco | di re che da me prende | manto e scettro e corona. | A tanto colmo alzar mi volse il Cielo Mr 75 d’antichis82 n’anco — medesma] né anco di me stessa Nr Mr 84 ricever] simo] d’antiquissimo Nr ritener Nr Mr 87-88 Ahi — dolore] Ahi ria sorte, ahi sventura, | ahi affanno, ahi dolore Mr). — 353 — 25 MATTEO DURANTE sia sdrucciolo il terreno ove s’imprime l’orma del piede umano. È mobil cerchio la vita che corriamo, ove ci aggira mano or placida or dura, or alto or basso. CONTE DI PEMBROCIA Di quel che dici, tal imagin veggio, che non più vivo può mostrarsi il vivo.21 Tuttavia, la vera congenita antitesi, che attraversa e scandisce l’intero ordito drammatico (e su cui vieppiù è indotto a riflettere il lettore), è tra Maria (che finisce per incarnare il Bene) ed Elisabetta/Isabella (che finisce per incarnare il Male). Tra i loro contrapposti modi di vivere la propria regalità e la propria dignità di donna e di regina. Lo stesso uso ricorrente di un lessico affatto ‘negativo’ riferito alla protestante Tudor ed al suo mondo altrettanto compromesso, privo com’è di più neutre oscillazioni, diviene procedimento stilistico anch’esso assai fruttuoso per commentare, accentuandone i connotati, la scellerata e perfida immagine della regina d’Inghilterra (un lessico caricato, spessissimo, entro un sistema di legamenti ritmici e fonici che ne arricchiscono la portata semantica). Elisabetta è, allora, donna dal «voler maligno» che gestisce «imperio ingiusto e rio»; è «cruda/crudele», «empia», «iniqua», «maligna», «ria», «aspra tiranna», «femina imbelle», «furia coronata», «mente infedele», «alma cruda»; e «crudele» è il suo Consigliero e «crudeli» i Conti, «crudi» ed «empi» i ministri, «crudo» il tribunale che giudica Maria, «crudele» la sala del martirio, «crudo» il carnefice, «crudele» il ferro che le dà la morte, «crudele» il colpo che la uccide, «cruda» la schiera che porta il suo cadavere, «indegne e crudeli» le spalle che sostengono «cosı̀ onorato incarco», «ampie e crude» le genti inglesi e «scelerate le loro menti», «empia» la religione riformata («nemica al Cielo»), ecc. Una fisionomia che prende corpo, senza alcuna illusoria deferenza, abbozzando immagini mirabilmente disposte in una sequenza dalla marcata icasticità: Breve pena è ’l mio danno di vent’anni a l’insaziabil voglia di chi mi tiene in forza. E certo m’ebbe già per nemica un tempo; or m’ha per scherzo. Ma scherzo fie d’aspro leon che tiene tra gli artigli cervietta, 21 Br, vv. 2062-2072; Nr, vv. 1984-1994 e Mr, vv. 1366-1376 (Br = Nr Mr). — 354 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA ch’or glieli stringe al fianco, or gli rallenta, e la volge e rivolge; or due o tre passi sciolta la lascia, e quinci a lei s’aventa, e ratto la ghermisce; al fin la squarcia, e di sangue empie le voraci canne.22 E di quella congenita antitesi vanno ancor più citati almeno due singolari segmenti, ché incalzano il lettore a percepire e ad assecondare, tra i tanti distribuiti nel tessuto tragico, lo spessore della insofferenza cattolica, fatta propria dal Della Valle (in armonia, nei toni e nella sostanza, con i suoi modelli ideologici). Si legga il primo dei due segmenti, che è una porzione del dialogo tra il Conte di Pembrocia e Maria (di cui abbiamo già citato l’incipit: dialogo spietato, quello, che conduce al lacerante conclusivo annuncio della condanna a morte della Stuarda): REINA CONTE DI PEMBROCIA REINA CONTE DI PEMBROCIA REINA CONTE DI PEMBROCIA REINA CONTE DI PEMBROCIA REINA CONTE DI PEMBROCIA Errai, confesso, e mille colpe e mille aggravan l’alma; ma chi mi condanna non è innocente forse. È giusta, è pia. In me si vede: io testimon ne sono, e son giudice e reo. Cosı̀ mi pesa dirti ch’anco sei tu la condennata. Già di molt’anni il son, pur troppo il sento. Dove cresce l’error, cresca la pena. È giusta la sentenza, io la confermo. Fallo ostinato è doppio, e doppio aggrava. E cresce quanto ostinazion s’invecchia. Cosı̀ in te crebbe, o donna, a cui molt’anni, durissimi a portarsi, e prigion lunga non han potuto l’indurata mente o smover o piegar; anzi indurata più neghi alor che più conceder devi. 22 Br, vv. 1685-1695; Nr, vv. 1666-1676 e Mr, vv. 1102-1112 (1685 danno] strazio Nr 1690 tra gli artigli] fra gli artigli Nr Mr tiene in forza] m’have in sua forza Nr — rallenta] la constringe [cost- Nr] al fianco, or la rallenta Nr Mr). — 355 — 1687 mi 1691 glieli MATTEO DURANTE REINA CONTE DI PEMBROCIA REINA CONTE DI PEMBROCIA REINA CONTE DI PEMBROCIA REINA Nulla negh’io che consentir si possa da mente giusta e pia. Ma contradici a dimanda real d’alta reina, cui sconviensi negar non quel che chiede, ma quel che accenna o pensa. Ove la real voce ha giusto impero, questa legge s’osservi. Chi fortuna nascer fe’ servo, serva et ubidisca; chi nacque re commandi, e sol soggiaccia a le leggi et al dritto. Io servo chiamo chi è in altrui poter, e di se stesso sol può quel ch’altrui vuole. Anzi chi vuole quel che non deve è servo. Anima torta è catenata e schiava; e la corona porta re ingiusto in capo; al collo, a i piedi ha ’l capestro, ha le stinche. E pur ha forza d’assolver e punir com’a lui pare. Tal ha forza anco masnadiero in selva, che puote armato tòrre e scettro e vita al maggior re, se disarmato e solo ne le sue insidie cade.23 E si legga il secondo segmento, che è una porzione dell’estrema difesa di Maria, proclamata (fuori dello spazio scenico) a quanti, nella sala del patibolo, assistevano al rovinoso epilogo della sua vita; svelata (dentro lo spazio scenico) dall’afflitto Maggiordomo: – Credo, – ha detto la mia cara reina – credo – ha detto – che qui, fra tanti e tanti uniti a rimirar la morte mia, 23 Br, vv. 2081-2117; Nr, vv. 2003-2039 e Mr, vv. 1384-1419 (2082 mi condanna] me condanna Nr 2084 testimonne sono] testimonio sono Mr 2095 inMr 2083 giusta, è pia] giusta e pia Nr 2106 a le durata] ostinata Nr Mr 2103-2105 s’osservi. — chi] s’osservi e s’ubidisca. | Chi Mr leggi et al dritto] a la legge del dritto Nr 2108 ch’altrui] ch’altri Nr Mr 2112 ha — stinche] ha catena, ha capestro Mr 2115 scettro e vita] manto e vita Mr). — 356 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA alcun v’avrà che con pietà risguardi la tragedia crudel de la mia vita, e lo stato terribile et indegno ov’io sono condotta, ov’è condotta una donna innocente, una reina e di Scozia e di Francia, e giusta erede d’Inghilterra ov’io moro. A ciò m’han tratta la poca fede altrui e la mia molta credulità, se credula può dirsi donna che crede a donna la qual prega e scongiura, e reina a reina la qual promette e giura, e nepote che crede ad una zia non offesa giamai, ma sempre amata et onorata sempre. E veramente non ha la fé luogo sicuro in terra, poich’a me manca quella fé in quel petto ch’a me sı̀ ferma la promise.24 Sono, soprattutto, le dichiarazioni di fedeltà a Dio, alla Chiesa e al Romano Pontefice che vengono dal poeta esaltate, onorando una prassi alquanto consolidata in ambienti controriformisti (doveroso viatico, oltretutto, per ‘motivare’ il sacrificio della Stuarda ed il suo conseguente accesso nel moderno martyrologium romanum). E la congenita antitesi tra le due donne e regine torna prepotentemente a lusingare il lettore con la stessa audace spudoratezza che riconosciamo, senza ambiguità, nei propositi dellavalliani. Si legga, ad esempio (ed è un esempio oltremodo emblematico), la parte più concitata del dialogo tra il Consigliero di Elisabetta e Maria. Vale la pena trascriverne entrambi i tempi, per saper intendere, nel dettaglio del gioco retorico, lo stuzzicante movimento che illustra l’acuto contrasto dei due universi, etici e politici. Il primo tempo è dato dall’intervento del Consigliero (intensificato nella sostanza ritmica: e l’abuso dell’endecasillabo vuole segnare la gravità del delicatissimo passaggio narrativo). Le pretese della Tudor, descritte da quel suo «messaggero», appaiono – o, almeno, al lettore tali dovevano apparire (nei propositi dell’autore: conformemente al cliché reclamizzato in area cattolica per demolire l’autorità di Elisabetta) – come una brutale ostentazione della forza, tracotante e boriosa senza limiti, del ‘Potere privo di legittimità’: 24 Br, vv. 3260-3281; Nr, vv. 3069-3090 e Mr, vv. 2291-2312 (3260 mia cara reina] cara mia reina Mr). — 357 — MATTEO DURANTE [CONSIGLIERO] La mia reina, mossa da l’affanno de le miserie tue, dove t’addusse colpa di voler troppo, et ostinata e falsa opinı̈on, onde traevi teco mill’alme e mille a i ciechi abissi de le tenebre eterne, a te mi manda. E prima, com’è dritto e com’è giusto, chiede e vuole che ’l titolo d’erede del regno d’Inghilterra, che presumi a te deversi, ti sia tolto, e sia da te negato, rinunziando al dritto che ’n ciò pretendi. E quinci che ti spogli del nome di reina, e lasci al figlio la corona e lo scettro e ’l regio manto, sı̀ ch’egli senza te regga e governi, e tu viva soggetta a quelle leggi che ’l consiglio imporrà, consiglio eletto da la reina mia. Poscia vuol anco che tu confermi le passate cose in Scozia fatte, e già colà introdotte con nuova religione e nuovo culto ne i misteri divini, promettendo tu per te, per tuo figlio, e per lo regno, ch’osservate saranno, illese, intatte; anzi che quanto tocca a i sacri riti, a le sacre persone, a i sacri uffici, tanto fie sol, quanto fie voglia e legge di chi tiene o terrà titolo giusto di rege d’Inghilterra, conoscendo solo il seggio real de i regi inglesi per legitimo seggio onde proceda la vera autorità del sacro culto; e si pronunzii Roma empia e fallace ne i secoli a venir a i re scozzesi, a i popoli, a le genti, a Scozia tutta.25 La replica di Maria è, dinanzi alle pretese di Elisabetta, coraggiosamente ripiena di granitica fermezza e appassionato risentimento (ed è il coraggio di 25 Nr Nr Br, vv. 1486-1520; Nr, vv. 1436-1470 e Mr, vv. 918-952 (1492 com’è giusto] come è giusto 1509 saranno, illese, intatte] saranno illese e intatte 1508 per tuo figlio] per lo figlio Nr 1512 fie — fie] fia sol, quanto fia Mr). — 358 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA una fede tormentata a dar voce orgogliosa a quella replica). Un tracciato studiatissimo – come il precedente, del resto – che il poeta ha costruito con immutata sapiente ridondanza (ancora, la gran parte del segmento è in versi endecasillabi: e le sporadiche occorrenze di settenari non rompono l’equilibrio complessivo, incastonandosi, anzi, nell’insieme, portatrici come sono di microtasselli astutamente ‘posti in rilievo’): E chi manda e chi viene e quel che dice egualmente è crudel, cosı̀ fie ingiusto quel che n’ha da seguir. Ma s’è crudele e chi manda e chi parla, io che l’ascolto misera sono, e misera altrettanto quanto più vivo or mi ritorna a l’alma il gravissimo error commesso alora ch’io diedi fede a chi la fede nega anco a Chi la creò. Fui sciocca alora; or sarò condennata, i’ me n’accorgo. Ma sia che può. Tu, ch’a ricever vieni le mie parole, ascolta e riferisci. Tòrre a me stessa quel che Dio mi diede, né ’l debbo, né ’l consento. Ei, sua mercede, nascer mi fe’ reina; anco reina mi riceva morendo: il regio segno segua l’anima sciolta. S’altri stima di potermen privar, venga e se ’l tolga. Lasciar il regno al figlio, opra è devuta e bramata anco, ma lasciarlo alora ch’imporrà Dio ch’io lasci e regno e vita; egli se l’abbia alor, egli se ’l regga con fortuna miglior, ma con virtute pari a quella ch’io volsi; e s’ei fie saggio e forte eguale a gli avi, assai gran cura avrà la tua reina in ritrovarsi per sé ’l consiglio, senza darlo a lui. Né cosı̀ imbelle è Scozia, o cosı̀ stolta, che non basti a produr regi a se stessa. Che d’Inghilterra erede i’ mi pretenda, negar no ’l voglio: il sangue, onde son carne, a quel regno mi chiama. Pur se fia voler comun del popolo ch’io lasci il mio dritto, ecco, ’l lascio: egli s’elegga re di stirpe miglior, se la ritrova miglior de la Stüarda. — 359 — MATTEO DURANTE Ma ch’io confermi poi il culto rinovato de la religı̈on nel regno mio, o ch’io consenta ch’egli prenda altronde fuor che dal roman seggio ordini e riti ne i sacri uffici, è empia la dimanda, e sciocca la speranza d’impetrarla. E se ’l mio contradir ha da pagarsi co ’l sangue, eccoti ’l sangue, ecco la gola: non sı̀ amica son io di questa vita o del regno, ch’io brami o l’una o l’altro con l’impietà congiunta. Queste cose rapporta tu a chi devi; e più soggiungi a la reina tua ch’a passo tale, ch’a udir dimande niquitose et empie, a viver vita prigioniera e indegna, m’han tratto quella fé ch’ella mi diede e le promesse sue.26 Il fatto poi che quelle dichiarazioni di fedeltà a Dio, alla Chiesa e al Romano Pontefice vengano dal poeta fatte ribadire nell’area finale della tragedia (nello stesso racconto, affidato alla bocca del Maggiordomo, degli ultimi momenti di vita della Reina), manifesta ancora il suo bisogno di tornare a ribadire, nel momento forse più esaltante della tragedia (ancora in versi endecasillabi, dal tono austero, sciolti come sono dalle rime, intrecciati solo da scompigliate assonanze e consonanze), i contenuti forti del controriformismo cattolico, sperimentando, in questo, quel ruolo di letterato organico che, evidentemente, sentiva a sé assai congeniale: io sodisfatta moro e contenta, poiché so che vera cagion de la mia morte è l’esser io fedele al mio Signor. La fé promessa ne l’acque sacre, ov’ogni macchia lava Grazia celeste, pura e intiera serbo; e somma autorità confesso in terra il santo seggio onde ’l roman pastore e scioglie e lega, et apre e chiude il cielo. 26 Mr Br, vv. 1543-1596; Nr, vv. 1493-1546 e Mr, vv. 961-1012 (1560 e se ’l tolga] e ’l si tolga 1573 son carne] son donna Mr). 1564-1566 egli — saggio] e s’egli sarà saggio Mr — 360 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA In questa fede vissi, in questa moro. Ciò protesto e confermo; e ’l sangue mio bramo, e m’è car che testimon ne sia. Cosı̀ moro ben lieta. Voi, s’alcuno v’è pur fra voi ch’abbia ’l medesmo senso, preghi, prego, per me, e ’n ogni luogo, in ogni tempo testimonio renda che Marı̈a Stüarda muor reina, ubidı̈ente a quel ch’impera e insegna Roma sacrata et il signor suo santo: questa sia voce mia ultima estrema. Et eccomi a morire. – 27 Si diceva del clima cupo che attraversa l’intero tessuto tragico, modulato da un pessimismo esorbitante, che riempie financo i rarissimi, e fuggevoli, momenti in cui l’illusione (fiduciosa) di una prossima liberazione s’affaccia, ingannevolmente, sulla scena del dramma. Come quando il Servo, inviato dal capitano della prigione, informa Maria dell’inatteso arrivo dei Conti mandati da Elisabetta per predisporre – era il presentimento del capitano – la sua liberazione, dischiudendo un barlume di speranza che il cauto buon senso della protagonista riesce, quantomeno, a mitigare: Spero, lassa, o non spero? o che creder debb’io de la novella dolcissima bramata, dolce e bramata insieme, quanto fra i duri mali a i miseri mortali dolce e cara è la speme? La qual da lunge or si dimostra al core, et ei voglioso la vagheggia e mira; ma non sa l’arte il petto di darle in sé ricetto: la lunghezza del male toglie la fede al bene che frettoloso viene.28 27 Br, vv. 3309-3329; Nr, vv. 3118-3137 e Mr, vv. 2340-2359 (3317 et apre e chiude] e chiude et apre 3320 e m’è car] et ho car Nr 3323 prego, preghi, prego,] Nr 3318 in questa] e ’n questa Nr prego, preghi, Mr 3324 testimonio renda] testimonio dia Nr 3327-3328 suo santo. — estrema.] suo santo: Nr Mr). 28 Br, vv. 1204-1217; Nr, vv. 1161-1174 e Mr, vv. vv. 752-765 (1207 insieme] insieme Mr). — 361 — MATTEO DURANTE E il cauto buon senso di Maria, che la lunga prigionia e la memoria degli inganni della sua rivale hanno fatto prosperare, non si allontana dal divenire amaro disincanto: ’l mal, che preme, a la memoria toglie il ben che può venir; e ne la vita infelice, ch’io passo, provo che male a male malamente succede, tal ch’io non ho di ben né di speranza più memoria né fede.29 Sı̀ che si spiega la sua sagacia nel rendere innocui (tranne qualche rapidissimo assenso) 30 gli ingannevoli convincimenti della Cameriera e delle damigelle, incredule che fosse possibile una conclusione cruenta, e, per questo, disponibili a leggere eventi, polemiche, messaggi, presentimenti alla luce di un esasperante ottimismo: una tecnica impeccabile per assecondare i ritmi di un conflitto che pervade, pur esso, molte pagine – tra le lusinghe calorose della Cameriera e delle damigelle e lo scetticismo razionale di Maria – e si dilunga sino all’annuncio estremo della condanna della Reina; un conflitto amorevole, questo, rispetto a quello alquanto severo tra Maria ed Elisabetta (funzionali, entrambi, però, all’autore per imbastire un gioco di chiaroscuri ed imprimere appropriate tonalità contrastanti). E proprio la percezione di quel disincanto, dinanzi alle fallaci promesse e ai vuoti silenzi della cugina, rende la Stuarda (oltre che forte, indomita ed austera) avversa ai sogni vacui (agli ingannevoli convincimenti, la risposta continua ad essere teneramente indulgente: «Vuoi tu dunque ch’io speri?», «Speri l’alma al voler de l’altrui voglia | s’al mio voler non puote», «Pasciamci pur d’imaginate larve!»); e, ad un certo punto, cosciente di dover corrispondere ad una giusta ‘missione’ («Mia vittoria sarà la sepoltura! | Ivi alzerò il trofeo | de l’altrui crudeltà e del mio danno | con poca terra oscura»). Cosı̀, quando l’ostinata Cameriera vagheggia che le tassative richieste del Consigliero dovevano interpretarsi come l’ultimo inganno di Elisabetta (ormai rassegnata alla imminente offensiva «di duo regni | possenti insieme uniti» per liberare Maria), dinanzi al nuovo invitante barlume di speranza, la Reina si limitava a rispondere – come nelle altre occasioni – con commovente affetto: Br, vv. 309-315; Nr, vv. 279-285 e Mr, vv. 335-341 (Br = Nr Mr). Quel rapidissimo assenso (peraltro di squisita sfumatura elegiaca) è possibile leggerlo ai vv. 13361370 «O se fia mai ch’io giunga | a riveder i campi | de la mia patria amata, | [...] | come in lieve speranza | or fra dolci et acerbe | a l’alma mi tornate!» (Nr, vv. 1293-1327 e Mr, vv. 856-880 [con varianti]). 29 30 — 362 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA Deh quai cose ti fingi, e quali agogni! Tal nel sonno vaneggia mendico a cui colma appresenti il sogno mensa di gemme e d’oro. Ma concedasi ad alma, travagliata da durissimi affanni, sollevarsi con l’ombre di dilettosi inganni. Spera pur, fingi, amica. S’altro dar non ti posso in tua mercede, fingerò quel che credi; ma nel vero a venire solo la gloria sia del mio Signor, non mia.31 Ma di quel clima cupo è formulazione alta l’invocazione del Maggiordomo, posta ad avvio della zona la più coinvolgente dell’intera tragedia (nelle prime due redazioni, ad apertura del lungo quinto atto). Una invocazione accorata: in essa la fede in Dio, Giudice supremo, si scontra con la sofferta incapacità dell’uomo di penetrare la sua volontà, specialmente quando essa appare traumatica e contraddittoria (ripetendo un modulo che nei libri dell’Antico Testamento aveva avuto la sua matrice escatologica); con quel distico conclusivo che ispira rabbia e scoramento: MAGGIORDUOMO Signor, io so che là su regni e vivi, e sei dovunque è vita, ovunque spira. Questo credo; et è ver che giusto e pio volvi le cose umane, e premi e pene libri con lance a le nostr’opre eguale. E pur veggio sovente oppresso e vinto l’innocente cader, e la sua sorte sı̀ bassa e vil, che, co ’l terren congiunta, pur quasi fango si calpesta e preme; e d’altra parte sorge, e con le nubi mesce l’altiera testa, e vuole e impetra e dice e impera, e volge il dritto e ’l torto con man forte e superba, e chiede, e toglie l’ingiusto e l’empio, e come di sua voglia fa de la voglia e de la vita altrui. 31 Nr Mr Br, vv. 1947-1960; Nr, vv. 1869-1883 e Mr, vv. 1259-1273 (1952 durissimi affanni] verissimi affanni 1957 fingerò — credi;] fingerò quel che fingi, | crederò quel che credi; Nr Mr). — 363 — MATTEO DURANTE Che poss’io dir? se non che i tuoi giudı̀ci e le leggi con cui l’opre governi son altissimi abissi al cui profondo virtù nostra non giunge, et è superba, e stolta cade se poggiarvi tenta? Muore Maria di Scozia, et Isabella d’Inghilterra l’occide! 32 Una contraddittoria condizione – davvero faticosa da accogliere – che trova un’eco blasfema nel grido del Carnefice dinanzi alla testa mozzata di Maria: Viva Isabella altissima reina, e lungo corso regni! E caggia e pera in questa forma chi d’oprar presume contra lei, contra i suoi giusti decreti e le sue giuste leggi! 33 E quei cinque versi, affidati al grido trionfante del Carnefice, tracciano il culmine dell’intero percorso narrativo. Ma, di fatto, sono il grido di avvilimento del poeta dinanzi all’iniqua rovina della «martire reina»; e del lettore compartecipe attivo dei suoi turbamenti. Un segmento che diviene il manifesto urlato di una palese prepotenza. Non a caso sono bilanciati con cura, proprio per la rilevanza che ad essi è data, al fine di creare, sfruttando gli elementi ritmici, una più forte tensione: si guardi la loro costruzione, in cui spiccano anafore che ripetono voci concordi (contra lei ... contra i suoi giusti ... e le sue giuste), con le clausole sinonimiche dell’ultimo distico congiunte anche da cadenza assonanzata [decreti/leggi], ed enjambements che ne accelerano l’andatura (dal quinario a chiusura del secondo verso fino all’apertura del quarto verso, e, ancora, dal quarto al quinto verso), quasi a voler riprodurre, amplificandola, l’ostinata cantilena del «tristo» annuncio. E la memoria corre all’ultimo distico della preghiera del Maggiordomo («Muore Maria di Scozia, et Isabella | d’Inghilterra l’occide»: contrappunto del grido trionfante del Carne32 Br, vv. 2386-2407; Nr, vv. 2350-2370 e Mr vv. 1674-1699 (2387 vita, ovunque spira.] vita. 2390 con — eguale] con lance Mr 2388 et è — pio] et è vero | che giusto insieme e pio Mr 2395-2396 eguale Nr 2391-2392 veggio — cader] vidi sovente | oppresso l’innocente | cader Mr sorge, — impetra] sorge, | e con le nubi mesce | l’altera testa, e vuole e chiama e impetra Mr 2398 2399 e l’empio] et empio Nr 2400 de — vita] de la vita e forte — e toglie] superba e forte Mr 2403-2404 son — superba,] sono de la voglia Nr Mr 2401-2402 giudı̀ci — governi] giudı̀ci Nr altissimi abissi, | al cui sacro profondo | virtù nostra non giunge, Mr). 33 Br, vv. 2900-2904; Nr, vv. 2761-2765 e Mr, vv. 1993-1997 (Br = Nr Mr). — 364 — LA MARIA STUARDA DELLAVALLIANA fice), ed a quella martellante ripresa anaforica del nome della «cruda» regina, collocato in posizioni assolutamente equidistanti. Ma il culmine del dramma, a dispetto della sua pervertita enunciazione, dischiude (per il lettore) un’ansietà tutta spirituale, preludio a quell’incontro con Dio, che, solo, dinanzi ai mali del mondo, può soddisfare l’uomo e il suo anelito di Giustizia e di Verità. E Maria (negli intendimenti dellavalliani) torna a riproporsi come metafora fortemente rappresentativa. Per lei quelle «mura anguste» hanno finito per rappresentare, nel corso dei vent’anni lı̀ trascorsi, oltre che un desolato ed affliggente carcere, un vero e proprio luogo di espiazione, abilitato ad una lenta redenzione vissuta «in durissimi affanni»; uno spazio purgatoriale che, lungo la strada, le ha permesso di prendere coscienza – certo con tormentata disponibilità – del divino progetto salvifico che da lei avrebbe preteso la prova estrema della immolazione di sé. Un ammonimento, questo, che coinvolge – ancora – il lettore, il quale, giorno dopo giorno, verificando la tirannica vittoria del Male sul Bene, è invitato, per sanare la propria apprensione e la propria frustrazione, a trascinarsi umilmente attraverso il sentiero di un privatissimo spazio purgatoriale, per sapersi orientare nella benignissima ottica di Dio, e scoprire che il Bene trova comunque il suo definitivo riscatto in quei «cieli nuovi» e «terra nuova» promessi agli eletti, dove l’Amore vincerà su ogni umana perfidia ed empietà. E, infatti, alle soglie del martirio, la meditazione sul proprio stato d’animo di donna prossima alla morte si muove, senza cedimenti, proprio nel senso previsto da quel progetto salvifico (compreso ed accettato appieno da Maria), alleviando, in buona misura, con la incondizionata adesione alla divina volontà, la intensa dimensione tragica: Già lungo spazio veggio pender su ’l capo mio l’acuta punta di cosı̀ ingiusto ferro e sı̀ crudele. E quasi peregrin, ch’al far de l’alba si consigli lasciar notturno albergo, fra le tenebre ancor s’adatta, e veste il duro piede, et a l’incurve spalle impone il picciol fascio ove ravvolte porta le sue fortune; indi, ripresa la sua compagna verga, solo attende che s’apra l’orı̈ente, tale anch’io ne la notte acerbissima et indegna de le sventure mie, solo aspettando al mio estremo camin l’ora prescritta, di sofferenza l’anima vestita, — 365 — MATTEO DURANTE e posto il fascio de i miei gravi errori sopra gli omeri amici di Chi volse sopra sé tòrlo, con la verga forte de la speranza nata in mezzo al mare d’infinita pietade, apparecchiato ho ’l piede al duro passo che m’ascrivi.34 E nella stessa direzione si muove l’ultimo pacatissimo congedo di Maria alla sua «trista» famiglia: Io me ne vo a morir, io vo a finire l’aspra miseria mia; men vo contenta e lieta 35 O figlie, a Dio! A rivedervi altrove, in più libera stanza e più serena, a rivedervi in cielo! 36 Insomma, in quel suo modo di consegnarci – come osservava Croce – «soltanto la sua Maria Stuarda», frutto della «propria anima poetica», Della Valle ha inteso svelare il suo mondo interiore (che è, in ultima analisi, il mondo interiore di una generazione cresciuta sul sostegno della cultura postridentina): invero mirabile rivelazione, oltre che delle sue virtù letterarie (cresciute sapientemente nei lunghi tempi della sua attività poetica), della sua mistica religiosa, che avrebbe trovato nuovo esito, senza dissipare il copioso patrimonio della sua antica intensa devozione (e senza rinunciare a progredire nei suoi propositi tecnici e retorici), dapprima nella progettazione – come frutto maturo di una aggiornata riflessione teologica – e, quindi, nella stesura delle due tragedie bibliche; senza mai rinunciare a quella sua prima creatura. Una vicenda definitivamente compiuta solo con la sua morte. 34 Br, vv. 2224-2244; Nr, vv. 2146-2166 e Mr, vv. 1526-1546 (2226 ingiusto — crudele.] ingiusto 2241 sopra sé] sovra sé Nr). ferro. Nr Mr 2240 sopra gli omeri] sovra gli omeri Mr 35 Br, vv. 2296-2298; Nr, vv. 2218-2220 e Mr, vv. 1584-1586 (Br = Nr Mr). 36 Br, vv. 2378-2381; Nr, vv. 2002-2299 e Mr, vv. 1666-1669 (2379 rivedervi] rivederci Nr Mr 2381 rivedervi] rivederci Nr Mr). — 366 —