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UNO
All’ora della pausa pranzo staccai il telefono e mi alzai
in piedi. Pancia in dentro, petto in fuori: ero il capo
dei ribelli dell’ufficio Marketing. Metro dopo metro,
il mio esercito avrebbe scalato l’organigramma fino a
insidiarne la parte nobile. Dirigenti di Livello Uno,
Consiglieri dell’Organo di Vigilanza, Direttore Generale: tutti arrestati e fucilati; poi avrei destituito il
Presidente K e mi sarei guadagnato la gloria.
Per vincere c’era da elaborare un piano d’attacco.
Stampai l’organigramma e su un angolo del foglio
formato A4 scrissi Scala Uno:1000: ecco il campo di
battaglia espandersi per chilometri. Salii sull’elicottero e ordinai una perlustrazione. Quando arrivammo
abbastanza in alto, quasi all’altezza del lampadario,
decisi il percorso di guerra. Avrei iniziato dall’ufficio
Tesoreria, che si trovava in posizione isolata. Scattai
un centinaio di fotografie e chiesi al pilota di atterrare.
Di nuovo alla scrivania-quartier generale, presi le
forbici dal barattolo portapenne. Dall’organigramma
ritagliai il rettangolo dell’ufficio Marketing e lo con-
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vertii in un carro armato disegnando un cannone sul
lato corto e una fila di ruote cingolate per ciascun lato
lungo.
Tutto era pronto.
Recitai il testo di una dichiarazione di guerra scaricata da internet e, alla guida del blindato, aggredii
la Tesoreria che contrattaccò con un aereo-spillatrice
munito di puntine-bomba. Sparavo raffiche di missili-pallini di carta quando qualcuno bussò alla porta. La magia della battaglia svanì. Ripiegai l’organigramma e lo riposi in un cassetto.
«Avanti», dissi.
La dottoressa P entrò, sorrise e si venne a sedere
sulle mie gambe. Era una predatrice temuta e ammirata. In soli due anni era salita da stagista a quadro di
terzo livello. Sedurre un superiore per ricattarlo era la
sua strategia di lotta. Adesso era il mio turno, ma io
sapevo come non farmi intrappolare: scartati i luoghi
canonici del sesso da ufficio – i bagni e il parcheggio
sotterraneo – condussi la dottoressa P in un’ala del palazzo svuotata da un recente licenziamento di massa.
«Dopo di te», le dissi sulla soglia di una stanza
dove i segni dell’abbandono erano già visibili: polvere sui mobili, scatoloni sul pavimento, computer con
i cavi elettrici staccati, cattivo odore.
La dottoressa P spalancò la finestra, sollevò la gonna e appoggiò le palme delle mani su una scrivania
ricoperta di faldoni.
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Chiusi la porta dall’interno, e la penetrai.
«Fa caldo. Se riapri circola un po’ d’aria», disse lei
dopo soltanto pochi affondi.
Non ero così ingenuo: era facile immaginare che
sul corridoio si tenesse pronto il suo complice, al solito armato di macchina fotografica. «La porta resta
chiusa», dissi.
La dottoressa P si voltò. Era visibilmente contrariata. «Allora finisci da solo.» Si sistemò la gonna e uscì.
Tirai su i pantaloni e mi affacciai sul corridoio. La
guardai allontanarsi con passo nervoso e sgraziato,
dunque mi avviai anch’io: avevo una riunione alle
quindici e il Presidente K apprezzava la puntualità.
***
I dottori R e S erano i miei rivali per il ruolo di
Coordinatore Aziendale. Erano già arrivati. Li salutai, ma loro continuarono a fissare il vuoto e non
risposero. Scostai una sedia dal tavolo e mi sedetti.
Presto il pene iniziò a bruciarmi. Maledii la dottoressa P e con la scusa di prendere una bottiglietta d’acqua andai in sala break, dove mi sfregai velocemente.
Rientrai appena in tempo.
«Buongiorno», esordì il Presidente K, la cui testa
riempiva il monitor installato sulla parete.
«Buongiorno Presidente», dicemmo in coro.
«Come forse sapete», disse lui con voce piatta, «la
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sede di Firenze è stata rasa al suolo. I dipendenti sopravvissuti saranno qui già domani. In attesa di nuove disposizioni, dividerete con loro le vostre stanze.»
Ancora un coro: «Sì, Presidente».
Lui fece segno di alzarci. «E adesso al lavoro. C’è
da fatturare.» La sua immagine si sgranò in un’infinità di pixel. Lo schermo tornò nero.
Salutai i dottori R e S e corsi nel bagno più vicino.
Mi sciacquai e uscii quando il bruciore al pene si fu
attenuato. Fuori c’era il dottor R che aspettava il suo
turno. Era curvo e con le mani strette sui genitali.
«Hai scopato con la dottoressa Pace», dissi.
Lui cambiò espressione. «Che cosa?»
«Sei arrossito come il tuo uccello.»
«Te l’ha detto lei?»
Mi indicai il basso ventre. «Anche il mio brucia.»
Il dottor R si rasserenò. «Quella ci sta scopando
tutti», disse ridendo.
Forzai una risata.
Lui si girò e si chiuse in bagno.
La confidenza cui mi ero lasciato andare mi sorprese, ma non mi preoccupò; anche il dottor R aveva
una moglie e un figlio della stessa età di Raniero:
ciascuno avrebbe mantenuto il segreto dell’altro per
non svelare il proprio.
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DUE
Rincasai tardi.
Sfilai le scarpe e salii in camera. Mi spogliai nella
penombra. Le lenzuola erano fresche e odoravano di
limone, e Giorgia emetteva un lieve, godibile sibilo a
ogni espirazione: un’immagine d’immacolata intimità domestica corrotta dal bruciore che mi impediva di
prendere sonno. Tentai di pensare a qualcosa di rassicurante, ma finii per chiedermi da chi la dottoressa P
avesse preso l’infezione e a chi io, di rimando, l’avrei
trasmessa. Più tardi avrei sognato di scopare la dottoressa P a turno con i miei rivali: chi avesse dimostrato
maggior perversione sarebbe stato premiato dal Presidente K con la nomina di Coordinatore Aziendale.
***
Come sempre accadeva, mi svegliai di pessimo
umore. Mi lavai il viso e scesi in cucina.
La tavola era apparecchiata per la colazione. Giorgia indossava un completo giacca-pantalone e mi
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dava le spalle: impegnata allo spremiagrumi elettrico, non mi aveva sentito arrivare.
Mi sedetti.
Lei spense lo spremiagrumi, si voltò e il suo profumo troppo dolce mi fece arricciare il naso.
«Buongiorno», disse.
«Uhm», bofonchiai. Accesi il televisore, misi il telegiornale e addentai il toast, che era completamente
bruciato.
«È ancora caldo?» domandò Giorgia mentre versava
nel mio bicchiere il succo d’arancia.
«Uhm.»
«La mattina non fai che mugugnare.»
«Parla quanto vuoi, ma non mi chiedere di interagire.»
Giorgia escluse l’audio con il telecomando. «Ascolti
me o ascolti il telegiornale?»
Sbuffai; sapevo che non ci sarebbe stato modo di
zittirla.
«Stanotte hai avuto un incubo.»
Finsi indifferenza. «Che incubo?»
«Come posso saperlo?»
«…»
«Martedì ne parlerai con Silvano?»
Non risposi. Fosse stato per Giorgia, nei cinquanta
minuti di terapia di coppia avremmo discusso anche
dei dettagli più insignificanti della nostra vita. «Ho
urlato?» domandai.
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«Al solito.»
«Spero che Raniero non si sia spaventato.»
«Ormai è abituato.»
Attraverso la grande vetrata che apriva la cucina sul
giardino, fondendo i due spazi in un unico ambiente,
il mio sguardo si posò sulla piscina, che mi fece ripensare al tempo felice di quando il piccolo Raniero nuotava fino all’altro capo della vasca per abbracciarmi.
«Oggi l’accompagno io», dissi.
«Ha già preso lo scuolabus», disse Giorgia, mentre
sciacquava lo spremiagrumi.
Tornai a guardare la piscina. «Raniero mi manca
moltissimo.»
«Stronzate», disse Giorgia alzando la voce sopra lo
scroscio dell’acqua corrente.
«Perché dici così?»
«Se ti manca, esci prima dall’ufficio.»
«Sto dicendo che mi manca il Raniero di qualche
anno fa», precisai.
Giorgia mollò lo spremiagrumi, chiuse il rubinetto
e si girò.
«È così introverso, chissà dove abbiamo sbagliato»,
dissi.
«Non essere melodrammatico. È soltanto un po’
orso.»
«Dici?»
«Non lo dico io, lo dice Silvano.»
«Questa non la ricordo.»
«Tu non c’eri.»
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«Che significa?»
«Ho cominciato anche con la terapia individuale»,
disse Giorgia.
«Da quando?»
«Due settimane. Dovresti farla anche tu.»
«La facevo prima che ti intromettessi fra me e il
mio terapeuta», protestai.
«Geloso?» mi punzecchiò Giorgia. «Parli di Silvano
come se fosse il tuo fidanzato.»
«Ma se sei stata tu a trasformare la mia terapia
individuale in una seduta di coppia.»
«Non scaricare su di me decisioni che sono di entrambi», mi ammonì Giorgia.
Per soffocare il battibecco aumentai il volume del
televisore. Sullo schermo, un vigile del fuoco rispondeva alle domande di una giornalista. «Non è andata
come speravamo. Ne abbiamo intrappolati appena tre.
Gli altri hanno lasciato Firenze e si dirigono a sud.
Qui non è rimasto nulla da distruggere.»
Giorgia cercò il sostegno del tavolo. «Si stanno
avvicinando.»
«Sì», dissi a bassa voce.
Continuammo a guardare il telegiornale in silenzio.
***
Eravamo vicini alla fine e per ricucire il rapporto
con Giorgia rimaneva poco tempo. Fra noi andava
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male; le tregue duravano poco, eravamo sempre sul
punto di litigare. Bloccato nel traffico lungo la strada
per l’ufficio, fantasticai di tornare a essere innamorati
come agli inizi.
Fin da piccola, Giorgia aveva seguito gli spostamenti del padre: un alto dirigente delle assicurazioni che
non aveva mai smesso di considerarla la sua bambina.
Quando la conobbi, stava recuperando gli anni perduti; finalmente emancipata, in un appartamento con il
frigo vuoto e il materasso sul pavimento, sperimentava
una tardiva adolescenza bohémienne nella forma e
borghese nel portafogli cui la strappai presto. Dopo
soltanto due mesi, le chiesi di sposarmi.
La amavo, eppure temevo di aver commesso un
azzardo. Il matrimonio mi avrebbe potuto rivelare
una donna opposta a quella di cui mi ero innamorato.
Sbagliavo. Nella nostra villa con piscina, generoso
regalo di nozze di mio suocero, lo sconosciuto ero io
e, quel che è peggio, lo ero a me stesso. Fino a quel
momento ero stato un ragazzo educato, istruito e
sollevato dalle responsabilità, ma dopo l’ubriacatura
del viaggio di nozze fui introdotto alla vita di uomo
sposato, con il suo impegnativo corollario di dover
essere fedele nella gioia e nel dolore, nella salute e
nella malattia, chiamato a sostenere Giorgia per il
resto dei nostri giorni.
Le discussioni cominciarono subito. Non vi era
occasione in cui, anche per fortunata combinazione,
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fossimo in sintonia. Diversi in tutto, tutto si faceva
campo di battaglia. Ci furono litigate atroci. Io reagivo male. Al culmine della frustrazione, ovunque mi
trovassi, scappavo: da casa, dal supermercato, dall’automobile ferma al semaforo. Spesso Giorgia mi veniva
a cercare, ma senza illudersi: nonostante l’amore, non
riuscivamo a comprenderci.
Anni dopo, in seguito a una lite furibonda in cui fui
ripetutamente accusato di non saper fare autocritica,
telefonai a decine di studi psicoterapici e fissai a mio
nome un appuntamento con quello dalla parcella più
onerosa: ecco il dottor Silvano Deschi entrare nella
mia vita.
La psicoterapia fu uno shock. Più Silvano mi mostrava a me stesso, più io rimuovevo ogni sua parola.
Terminata la seduta, guidavo fino a casa tentando di
fissare nella memoria anche un solo scampolo della
nostra conversazione da duecento euro. Aperta la porta,
Giorgia mi veniva incontro: «Oggi com’è andata?»
domandava ogni volta con rinnovata speranza. Io la
guardavo e non dicevo nulla. Lei, secondo l’umore,
mi rinfacciava scarso impegno, oppure si chiudeva in
un silenzio carico di sottintesi. Non si capacitava di
come potessi dimenticare tanto in fretta. Fu così che
per indagare iniziò ad accompagnarmi. Al principio
mi aspettava in automobile, ingannando l’attesa con
un libro; il mese successivo, si trasferì a sfogliare riviste
nel più comodo soggiorno della villa-studio di Silvano;
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come ultima tappa, varcò la Soglia trasformando le
mie sedute individuali in una terapia di coppia. Un
cambiamento che accolsi con favore per spirito di vendetta: la terapia era dolore, umiliazione e sottomissione
intellettuale. E adesso il metodo Silvano sarebbe stato
inflitto a lei. Non andò così. Fra Silvano e Giorgia vi
fu immediata sintonia e io fui messo in minoranza.
«Stiamo facendo progressi, non trovi?» mi chiedeva
Giorgia non appena risalivamo in automobile per
tornare a casa. Aveva ragione. La sua presenza teneva
alta la tensione e io – miracolo – ricordavo quanto
Silvano mi invitava a fare: superare l’infantilismo e
impegnarmi nel matrimonio in modo adulto.
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TRE
Lasciai l’automobile nel parcheggio sotterraneo dell’ufficio e andai all’ascensore. Spinsi il tasto di chiamata.
Mentre aspettavo, il telefono vibrò. Era un sms di
Giorgia. “Invece di lamentarti a vuoto se davvero ti
manca Raniero oggi vai a riprenderlo tu.”
“Ok vado”, risposi.
“Sempre se ti ricordi dov’è la scuola”, scrisse Giorgia.
Il suo sarcasmo era insopportabile. Le avrei voluto
rispondere con una frecciata, ma non mi venne in
mente nulla e intascai il telefono.
Qualcuno starnutì. Mi voltai. Era la dottoressa P.
Nonostante i tacchi non l’avevo sentita avvicinarsi.
Aveva gli occhi lucidi e un fazzoletto appallottolato
fra le mani.
Scambiammo un sorriso di cortesia.
L’ascensore arrivò e le cedetti il passo.
Entrammo.
Spinsi il pulsante del nono piano.
«Con chi hai scopato?» chiese lei dopo che le porte
si furono chiuse.
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«Che cosa?»
«Nel parcheggio sotterraneo si va per scopare.»
«Non per parcheggiare?»
«Non fare l’ingenuo. Qui, a quest’ora, si scopa.»
«Allora anche tu…»
«Ah, lo ammetti finalmente.»
«Arrivo adesso. Ho fatto tardi per seguire il telegiornale. Si stanno avvicinando, è notizia di stamattina.»
«Non giustificarti, non sono tua moglie.»
«…»
«Senza raffreddore mi basterebbe annusarti per
sapere con chi hai scopato.»
«È un brutto raffreddore», dissi per cambiare argomento.
La dottoressa P fece una smorfia. «Mi sono dovuta
spogliare in una stanza con l’aria condizionata al
massimo.»
Le porte si aprirono. Salutai la dottoressa P e
imboccai il corridoio. Sulla soglia della mia stanza,
un uomo mi ostruì l’ingresso. Indossava una stinta
maglietta blu con la scritta Facchinaggio impressa
all’altezza del petto; aveva una penna infilata dietro
l’orecchio e nelle mani stringeva una cartella con un
elenco di nomi.
«Lei come si chiama?»
Glielo dissi.
L’uomo trascinò un dito lungo l’elenco della sua
cartella. «Il suo nome non c’è.»
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«Possibile?» domandai pur non sapendo a che cosa
la lista si riferisse.
L’uomo si asciugò la fronte con un fazzoletto. «Lei
ha avuto tutto?»
«Tutto cosa?»
Il facchino elencò: «Scrivania, sedia, cassettiera,
lampada, portapenne, computer e la roba personale
che viene da Firenze».
Entrai nella mia stanza e vi trovai sette colleghi di
cui avevo un vago ricordo, forse risalente a una cena
aziendale di chissà quanto tempo prima. Nonostante
la targhetta con il mio nome sulla porta, sembrarono
sorpresi di vedermi. Fu un brutto momento, come
se, rientrando in casa, vi avessi scoperto uno sconosciuto con le mani nel cassetto della biancheria. «La
violazione di domicilio è un reato, sapete?» dissi per
sciogliere l’imbarazzo in una risata. I fiorentini con
un inquadramento inferiore al mio si sentirono in
dovere di sorridere. Seguirono i convenevoli, la buona
educazione, le mie condoglianze per i colleghi sepolti
sotto le macerie e, infine, il silenzio e la concentrazione da dedicare al lavoro, sull’altare del quale anche il
periodo del lutto andava sacrificato.
***
All’ora di pranzo mi alzai e andai in sala break.
Inserii qualche moneta nel distributore e selezionai
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una Coca senza zucchero e un panino al formaggio
confezionato in un doppio strato di cellophane.
Addentai il panino, ma era andato a male e lo gettai.
Bevvi un sorso di Coca per pulirmi la bocca dal sapore
di muffa e uscii sul corridoio. La porta dell’ufficio
della dottoressa C era accostata. Entrai senza bussare.
Lei mi sorrise. Sfilai dietro la scrivania e le poggiai le
mani sulle spalle nude e muscolose.
La dottoressa C sospirò e arcuò la schiena.
Passai a massaggiarle il collo. «Hai mangiato?»
«Sì, e tu?»
Ignorai la domanda. «Andiamo, altrimenti perdiamo la prenotazione.»
In ascensore, la dottoressa C parlava e io le guardavo
le braccia. Indossava vestiti senza maniche e, dopo
l’ufficio, pompava i bicipiti in palestra. Le accarezzai
le braccia nel senso della lunghezza. La pelle era tesa
e la muscolatura grossa, sproporzionata rispetto al
corpo minuto. Vedermi insidiare la dottoressa C nello
specchio dell’ascensore mi eccitò. «Il tuo uomo avrà
paura a farsi masturbare», dissi ammiccando.
«A te piacerebbe rischiare?» disse lei con un tono
scherzoso che io, arbitrariamente, volli interpretare
come un invito.
***
Mi svestii nel piccolo spogliatoio ed entrai nella
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cabina della doccia abbronzante. Inforcai gli occhiali
protettivi e chiamai con l’interfono.
«Sono Giulia, dica pure.»
«Lo spogliatoio dodici, grazie.»
«Caro, sei tu?» disse dopo alcuni istanti la dottoressa C.
«Sì.»
«Ti stavo per chiamare. Dopo la doccia facciamo
un massaggio?»
«Non posso, ho una riunione», mentii – detestavo
i massaggi.
«Una riunione importante?»
«Non così importante.»
«Ci sarà anche il Presidente?»
«Non lo so.»
«Come si comporta in riunione?»
L’idea di parlare del Presidente K mi nauseava e
non risposi.
«Sei ancora lì?»
«Sì.»
«Ti chiedevo del Presidente.»
«Non ho voglia di parlare del Presidente.»
La dottoressa C si indispettì. «Mi hai fatto chiamare
per startene zitto?»
«Qui non è come parlare in azienda. Qui siamo
nudi.»
Lei rise imbarazzata.
«Accarezzarti le braccia mi è piaciuto», dissi per
adularla. «Sei in splendida forma.»
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«Ti piacciono le mie braccia?»
«Ne sono turbato.»
«Turbato?»
«Sono grosse quanto le mie.»
«Spero non altrettanto pelose.»
«Non scherzare, ho voglia di essere serio.»
«…»
«Oppure scherziamo a modo mio.»
«…»
«Facciamo che le mie braccia sono le tue.»
«…»
«Facciamo che le mie mani sono le tue.»
«…»
Persi la ragione. Iniziai a masturbarmi e ad ansimare
nell’interfono.
«…»
«Brava, così, non ti fermare», dissi per coinvolgerla.
«…»
«Sei molto brava.»
«…»
«Ti stai masturbando anche tu?»
«…»
«Sei ancora lì?»
«Vado più veloce?» cedette finalmente lei.
«Sì, accelera», risposi con il fiato grosso.
«Ti piace andare veloce?»
«Per me non è mai abbastanza veloce», dissi prima
di godere. Spensi l’interfono e uscii dalla cabina abbronzante.
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Mi sciacquai e mi rivestii. Qualcuno bussò alla porta.
«Sì?»
«Sono io.»
«Ecco, sono pronto», dissi. Infilai le scarpe e aprii
la porta.
La dottoressa C mi aspettava con le braccia conserte,
in una postura vagamente minacciosa. «Sei più lento di
una donna», disse, mi afferrò per le spalle e mi ricacciò
dentro. Chiuse la porta, si tirò sui fianchi il vestito
e abbassò le mutandine. Piegò la schiena e afferrò i
montanti della cabina abbronzante. Si voltò. Aveva gli
occhi iniettati di sangue e ai lati della bocca si erano
formati grumi di bollicine lucenti. «Scopami forte.»
La guardai senza dire nulla.
«Coraggio.»
«Sono appena venuto.»
«Ho detto scopami.»
Mi sbottonai i pantaloni. Non ero così eccitato, ma
riuscii comunque a penetrarla. La dottoressa C si issò
sulla traversa della cabina abbronzante. Senza sforzo si
calava sul mio pene per poi, daccapo, tirarsi su. Il suo
corpo era una macchina e i movimenti veloci, fluidi,
apparentemente identici. Le vene dei bicipiti, gonfie
di sangue, divennero grosse come dita. Non avevo mai
assistito a niente di simile. Sperai che i suoi grugniti
non attirassero l’attenzione del personale. Quando
provai a sfilarmi, la dottoressa C mi cinse la vita con
le gambe. Aveva una presa d’acciaio. Non potei far
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altro se non sperare che si sfiancasse, ma lei era superallenata e forse avrebbe continuato per sempre.
***
Si fermò a mezz’aria.
Rilassò i muscoli e si dondolò per sciogliere le
vertebre.
Mi atterrò davanti.
Ci ritrovammo uno di fronte all’altra, lei con il
vestito arricciato sui fianchi, io con i pantaloni alle
caviglie. Notai la patina di sudore che le si era formata
all’attaccatura dei capelli: anche lei era umana.
Distolsi lo sguardo. La consuetudine prevedeva che
il più basso in grado si concedesse in cambio di ferie,
permessi, straordinari retribuiti e orari più flessibili.
Scopare fra colleghi di pari livello era una pratica
inusuale e mi fece pensare all’incesto.
Mi rivestii e corsi fuori.
Al distributore automatico della reception selezionai una Evian. Passai la bottiglia sulla fronte e bevvi a
piccoli sorsi, in apnea, senza che la sete si placasse. Mi
sentii osservato. Incrociai lo sguardo della ragazza alla
cassa e lei arrossì. Aveva lineamenti marcati e capelli
scuri acconciati con la frangia. Sulla camicia a maniche
corte che indossava era spillata una targhetta con il suo
nome: Giulia. Immaginai che avesse sentito i grugniti
della dottoressa C e arrossii anch’io.
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Mi avvicinai e pagai in contanti.
Mentre ricevevo il resto entrò la dottoressa C. Le
dissi che avevo pagato per entrambi e lei mi ringraziò
con un sorriso di circostanza.
Uscimmo nella calura del primo pomeriggio.
«Qualche collega potrebbe vederci», disse lei.
«Vederci fare che cosa?»
La dottoressa C indicò i nostri piedi: «Questo», disse.
«Camminare?»
«Camminare insieme.»
«…»
«Non cercarmi più, non voglio finire nel tritacarne
del gossip aziendale», disse; poi cambiò marciapiede
e io ne fui sollevato.
***
Tornai in ufficio e subito squillò il telefono sulla
scrivania.
«Ha già suonato molte volte», disse infastidito uno
dei fiorentini, il dottor O.
Risposi. Era Giorgia.
«Dov’eri finito?»
«Perché?»
«Ti ho chiesto dov’eri finito.»
«In pausa pranzo.»
«Ecco, bravo. A riprendere Raniero sono dovuta
andare io.»
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«…»
«Sei ancora lì oppure sei di nuovo in pausa pranzo?»
«Sono qui.»
«Proprio stamattina ti sei lamentato di non vederlo
abbastanza.»
«Mi dispiace, me ne sono scordato.»
«Ma dov’eri?»
«Te l’ho detto, in pausa pranzo.»
«Con chi?»
«Da solo.»
«Da quando stacchi il telefonino per pranzare da
solo?»
«Non era staccato.»
«Ti ho chiamato ed era staccato.»
«Forse non prendeva.»
«…»
«Giorgia?»
«Ho una telefonata di lavoro. Ti richiamo.»
I fiorentini non potevano non aver ascoltato;
quando Giorgia ritelefonò, lasciai squillare: non avrei
continuato a discutere in pubblico. I fiorentini mi
fissarono esasperati.
«Non rispondi?» disse il dottor O.
Mi allentai il nodo della cravatta e respirai come
Silvano mi aveva insegnato, con il diaframma. «Hanno lasciato Firenze e avanzano nella nostra direzione,
sapete? Si direbbe che vi stiano seguendo», dissi per
distrarli dal telefono con una battuta di spirito.
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La dottoressa D eruppe in un brutto pianto e corse
in Sala Decompressione: prima che la porta insonorizzata si chiudesse alle sue spalle, la sentimmo urlare.
«A Firenze ha perso la sorella durante l’attacco», mi
redarguì il dottor O.
«Mi dispiace.»
Il telefono tacque.
***
Uscii dalla stanza per avere un po’ di privacy. Il
corridoio era vuoto. Le macchine fotocopiatrici e le
stampanti emettevano un ronzio sinistro.
Accesi il cellulare e richiamai Giorgia. «Eccomi.»
«Tutti quei discorsi su Raniero e poi te lo scordi
a scuola?»
«Non succederà più», mi affrettai a dire.
«Ti ho fatto cento telefonate.»
«Te l’ho già detto e ridetto, ero in pausa pranzo.»
«Con chi?»
«Con nessuno, quante volte lo devo ripetere?»
«Con nessuno o con qualche collega troia?»
«Adesso non fare la paranoica.»
«…»
«Giorgia?»
«Ci vediamo a casa.»
Rientrai in stanza, la attraversai e andai in Sala Decompressione. La dottoressa D era ancora dentro che
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urlava il nome della sorella. Sbatteva i pugni contro il
rivestimento imbottito della parete. Il rimmel le era
colato sulle guance e il rossetto le impiastricciava gli
angoli della bocca. Così conciata assomigliava a un
clown e per un istante dimenticai perché mi trovassi
lì. Tolsi le scarpe e scalciai in ogni direzione, come
un cavallo imbizzarrito. Mi fermai quando le gambe
cedettero. Con la mente sgombra, restai sdraiato sul
pavimento in gomma. Ci fu un grido di guerra: la dottoressa D devastava a morsi la guaina che tappezzava
le pareti. Quando crollò esausta, i denti mantennero
salda la presa su un lacerto del rivestimento.
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