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http://scrivi.10righedailibri.it/ leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it UNO All’ora della pausa pranzo staccai il telefono e mi alzai in piedi. Pancia in dentro, petto in fuori: ero il capo dei ribelli dell’ufficio Marketing. Metro dopo metro, il mio esercito avrebbe scalato l’organigramma fino a insidiarne la parte nobile. Dirigenti di Livello Uno, Consiglieri dell’Organo di Vigilanza, Direttore Generale: tutti arrestati e fucilati; poi avrei destituito il Presidente K e mi sarei guadagnato la gloria. Per vincere c’era da elaborare un piano d’attacco. Stampai l’organigramma e su un angolo del foglio formato A4 scrissi Scala Uno:1000: ecco il campo di battaglia espandersi per chilometri. Salii sull’elicottero e ordinai una perlustrazione. Quando arrivammo abbastanza in alto, quasi all’altezza del lampadario, decisi il percorso di guerra. Avrei iniziato dall’ufficio Tesoreria, che si trovava in posizione isolata. Scattai un centinaio di fotografie e chiesi al pilota di atterrare. Di nuovo alla scrivania-quartier generale, presi le forbici dal barattolo portapenne. Dall’organigramma ritagliai il rettangolo dell’ufficio Marketing e lo con- 11 vertii in un carro armato disegnando un cannone sul lato corto e una fila di ruote cingolate per ciascun lato lungo. Tutto era pronto. Recitai il testo di una dichiarazione di guerra scaricata da internet e, alla guida del blindato, aggredii la Tesoreria che contrattaccò con un aereo-spillatrice munito di puntine-bomba. Sparavo raffiche di missili-pallini di carta quando qualcuno bussò alla porta. La magia della battaglia svanì. Ripiegai l’organigramma e lo riposi in un cassetto. «Avanti», dissi. La dottoressa P entrò, sorrise e si venne a sedere sulle mie gambe. Era una predatrice temuta e ammirata. In soli due anni era salita da stagista a quadro di terzo livello. Sedurre un superiore per ricattarlo era la sua strategia di lotta. Adesso era il mio turno, ma io sapevo come non farmi intrappolare: scartati i luoghi canonici del sesso da ufficio – i bagni e il parcheggio sotterraneo – condussi la dottoressa P in un’ala del palazzo svuotata da un recente licenziamento di massa. «Dopo di te», le dissi sulla soglia di una stanza dove i segni dell’abbandono erano già visibili: polvere sui mobili, scatoloni sul pavimento, computer con i cavi elettrici staccati, cattivo odore. La dottoressa P spalancò la finestra, sollevò la gonna e appoggiò le palme delle mani su una scrivania ricoperta di faldoni. 12 Chiusi la porta dall’interno, e la penetrai. «Fa caldo. Se riapri circola un po’ d’aria», disse lei dopo soltanto pochi affondi. Non ero così ingenuo: era facile immaginare che sul corridoio si tenesse pronto il suo complice, al solito armato di macchina fotografica. «La porta resta chiusa», dissi. La dottoressa P si voltò. Era visibilmente contrariata. «Allora finisci da solo.» Si sistemò la gonna e uscì. Tirai su i pantaloni e mi affacciai sul corridoio. La guardai allontanarsi con passo nervoso e sgraziato, dunque mi avviai anch’io: avevo una riunione alle quindici e il Presidente K apprezzava la puntualità. *** I dottori R e S erano i miei rivali per il ruolo di Coordinatore Aziendale. Erano già arrivati. Li salutai, ma loro continuarono a fissare il vuoto e non risposero. Scostai una sedia dal tavolo e mi sedetti. Presto il pene iniziò a bruciarmi. Maledii la dottoressa P e con la scusa di prendere una bottiglietta d’acqua andai in sala break, dove mi sfregai velocemente. Rientrai appena in tempo. «Buongiorno», esordì il Presidente K, la cui testa riempiva il monitor installato sulla parete. «Buongiorno Presidente», dicemmo in coro. «Come forse sapete», disse lui con voce piatta, «la 13 sede di Firenze è stata rasa al suolo. I dipendenti sopravvissuti saranno qui già domani. In attesa di nuove disposizioni, dividerete con loro le vostre stanze.» Ancora un coro: «Sì, Presidente». Lui fece segno di alzarci. «E adesso al lavoro. C’è da fatturare.» La sua immagine si sgranò in un’infinità di pixel. Lo schermo tornò nero. Salutai i dottori R e S e corsi nel bagno più vicino. Mi sciacquai e uscii quando il bruciore al pene si fu attenuato. Fuori c’era il dottor R che aspettava il suo turno. Era curvo e con le mani strette sui genitali. «Hai scopato con la dottoressa Pace», dissi. Lui cambiò espressione. «Che cosa?» «Sei arrossito come il tuo uccello.» «Te l’ha detto lei?» Mi indicai il basso ventre. «Anche il mio brucia.» Il dottor R si rasserenò. «Quella ci sta scopando tutti», disse ridendo. Forzai una risata. Lui si girò e si chiuse in bagno. La confidenza cui mi ero lasciato andare mi sorprese, ma non mi preoccupò; anche il dottor R aveva una moglie e un figlio della stessa età di Raniero: ciascuno avrebbe mantenuto il segreto dell’altro per non svelare il proprio. 14 DUE Rincasai tardi. Sfilai le scarpe e salii in camera. Mi spogliai nella penombra. Le lenzuola erano fresche e odoravano di limone, e Giorgia emetteva un lieve, godibile sibilo a ogni espirazione: un’immagine d’immacolata intimità domestica corrotta dal bruciore che mi impediva di prendere sonno. Tentai di pensare a qualcosa di rassicurante, ma finii per chiedermi da chi la dottoressa P avesse preso l’infezione e a chi io, di rimando, l’avrei trasmessa. Più tardi avrei sognato di scopare la dottoressa P a turno con i miei rivali: chi avesse dimostrato maggior perversione sarebbe stato premiato dal Presidente K con la nomina di Coordinatore Aziendale. *** Come sempre accadeva, mi svegliai di pessimo umore. Mi lavai il viso e scesi in cucina. La tavola era apparecchiata per la colazione. Giorgia indossava un completo giacca-pantalone e mi 15 dava le spalle: impegnata allo spremiagrumi elettrico, non mi aveva sentito arrivare. Mi sedetti. Lei spense lo spremiagrumi, si voltò e il suo profumo troppo dolce mi fece arricciare il naso. «Buongiorno», disse. «Uhm», bofonchiai. Accesi il televisore, misi il telegiornale e addentai il toast, che era completamente bruciato. «È ancora caldo?» domandò Giorgia mentre versava nel mio bicchiere il succo d’arancia. «Uhm.» «La mattina non fai che mugugnare.» «Parla quanto vuoi, ma non mi chiedere di interagire.» Giorgia escluse l’audio con il telecomando. «Ascolti me o ascolti il telegiornale?» Sbuffai; sapevo che non ci sarebbe stato modo di zittirla. «Stanotte hai avuto un incubo.» Finsi indifferenza. «Che incubo?» «Come posso saperlo?» «…» «Martedì ne parlerai con Silvano?» Non risposi. Fosse stato per Giorgia, nei cinquanta minuti di terapia di coppia avremmo discusso anche dei dettagli più insignificanti della nostra vita. «Ho urlato?» domandai. 16 «Al solito.» «Spero che Raniero non si sia spaventato.» «Ormai è abituato.» Attraverso la grande vetrata che apriva la cucina sul giardino, fondendo i due spazi in un unico ambiente, il mio sguardo si posò sulla piscina, che mi fece ripensare al tempo felice di quando il piccolo Raniero nuotava fino all’altro capo della vasca per abbracciarmi. «Oggi l’accompagno io», dissi. «Ha già preso lo scuolabus», disse Giorgia, mentre sciacquava lo spremiagrumi. Tornai a guardare la piscina. «Raniero mi manca moltissimo.» «Stronzate», disse Giorgia alzando la voce sopra lo scroscio dell’acqua corrente. «Perché dici così?» «Se ti manca, esci prima dall’ufficio.» «Sto dicendo che mi manca il Raniero di qualche anno fa», precisai. Giorgia mollò lo spremiagrumi, chiuse il rubinetto e si girò. «È così introverso, chissà dove abbiamo sbagliato», dissi. «Non essere melodrammatico. È soltanto un po’ orso.» «Dici?» «Non lo dico io, lo dice Silvano.» «Questa non la ricordo.» «Tu non c’eri.» 17 «Che significa?» «Ho cominciato anche con la terapia individuale», disse Giorgia. «Da quando?» «Due settimane. Dovresti farla anche tu.» «La facevo prima che ti intromettessi fra me e il mio terapeuta», protestai. «Geloso?» mi punzecchiò Giorgia. «Parli di Silvano come se fosse il tuo fidanzato.» «Ma se sei stata tu a trasformare la mia terapia individuale in una seduta di coppia.» «Non scaricare su di me decisioni che sono di entrambi», mi ammonì Giorgia. Per soffocare il battibecco aumentai il volume del televisore. Sullo schermo, un vigile del fuoco rispondeva alle domande di una giornalista. «Non è andata come speravamo. Ne abbiamo intrappolati appena tre. Gli altri hanno lasciato Firenze e si dirigono a sud. Qui non è rimasto nulla da distruggere.» Giorgia cercò il sostegno del tavolo. «Si stanno avvicinando.» «Sì», dissi a bassa voce. Continuammo a guardare il telegiornale in silenzio. *** Eravamo vicini alla fine e per ricucire il rapporto con Giorgia rimaneva poco tempo. Fra noi andava 18 male; le tregue duravano poco, eravamo sempre sul punto di litigare. Bloccato nel traffico lungo la strada per l’ufficio, fantasticai di tornare a essere innamorati come agli inizi. Fin da piccola, Giorgia aveva seguito gli spostamenti del padre: un alto dirigente delle assicurazioni che non aveva mai smesso di considerarla la sua bambina. Quando la conobbi, stava recuperando gli anni perduti; finalmente emancipata, in un appartamento con il frigo vuoto e il materasso sul pavimento, sperimentava una tardiva adolescenza bohémienne nella forma e borghese nel portafogli cui la strappai presto. Dopo soltanto due mesi, le chiesi di sposarmi. La amavo, eppure temevo di aver commesso un azzardo. Il matrimonio mi avrebbe potuto rivelare una donna opposta a quella di cui mi ero innamorato. Sbagliavo. Nella nostra villa con piscina, generoso regalo di nozze di mio suocero, lo sconosciuto ero io e, quel che è peggio, lo ero a me stesso. Fino a quel momento ero stato un ragazzo educato, istruito e sollevato dalle responsabilità, ma dopo l’ubriacatura del viaggio di nozze fui introdotto alla vita di uomo sposato, con il suo impegnativo corollario di dover essere fedele nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, chiamato a sostenere Giorgia per il resto dei nostri giorni. Le discussioni cominciarono subito. Non vi era occasione in cui, anche per fortunata combinazione, 19 fossimo in sintonia. Diversi in tutto, tutto si faceva campo di battaglia. Ci furono litigate atroci. Io reagivo male. Al culmine della frustrazione, ovunque mi trovassi, scappavo: da casa, dal supermercato, dall’automobile ferma al semaforo. Spesso Giorgia mi veniva a cercare, ma senza illudersi: nonostante l’amore, non riuscivamo a comprenderci. Anni dopo, in seguito a una lite furibonda in cui fui ripetutamente accusato di non saper fare autocritica, telefonai a decine di studi psicoterapici e fissai a mio nome un appuntamento con quello dalla parcella più onerosa: ecco il dottor Silvano Deschi entrare nella mia vita. La psicoterapia fu uno shock. Più Silvano mi mostrava a me stesso, più io rimuovevo ogni sua parola. Terminata la seduta, guidavo fino a casa tentando di fissare nella memoria anche un solo scampolo della nostra conversazione da duecento euro. Aperta la porta, Giorgia mi veniva incontro: «Oggi com’è andata?» domandava ogni volta con rinnovata speranza. Io la guardavo e non dicevo nulla. Lei, secondo l’umore, mi rinfacciava scarso impegno, oppure si chiudeva in un silenzio carico di sottintesi. Non si capacitava di come potessi dimenticare tanto in fretta. Fu così che per indagare iniziò ad accompagnarmi. Al principio mi aspettava in automobile, ingannando l’attesa con un libro; il mese successivo, si trasferì a sfogliare riviste nel più comodo soggiorno della villa-studio di Silvano; 20 come ultima tappa, varcò la Soglia trasformando le mie sedute individuali in una terapia di coppia. Un cambiamento che accolsi con favore per spirito di vendetta: la terapia era dolore, umiliazione e sottomissione intellettuale. E adesso il metodo Silvano sarebbe stato inflitto a lei. Non andò così. Fra Silvano e Giorgia vi fu immediata sintonia e io fui messo in minoranza. «Stiamo facendo progressi, non trovi?» mi chiedeva Giorgia non appena risalivamo in automobile per tornare a casa. Aveva ragione. La sua presenza teneva alta la tensione e io – miracolo – ricordavo quanto Silvano mi invitava a fare: superare l’infantilismo e impegnarmi nel matrimonio in modo adulto. 21 TRE Lasciai l’automobile nel parcheggio sotterraneo dell’ufficio e andai all’ascensore. Spinsi il tasto di chiamata. Mentre aspettavo, il telefono vibrò. Era un sms di Giorgia. “Invece di lamentarti a vuoto se davvero ti manca Raniero oggi vai a riprenderlo tu.” “Ok vado”, risposi. “Sempre se ti ricordi dov’è la scuola”, scrisse Giorgia. Il suo sarcasmo era insopportabile. Le avrei voluto rispondere con una frecciata, ma non mi venne in mente nulla e intascai il telefono. Qualcuno starnutì. Mi voltai. Era la dottoressa P. Nonostante i tacchi non l’avevo sentita avvicinarsi. Aveva gli occhi lucidi e un fazzoletto appallottolato fra le mani. Scambiammo un sorriso di cortesia. L’ascensore arrivò e le cedetti il passo. Entrammo. Spinsi il pulsante del nono piano. «Con chi hai scopato?» chiese lei dopo che le porte si furono chiuse. 22 «Che cosa?» «Nel parcheggio sotterraneo si va per scopare.» «Non per parcheggiare?» «Non fare l’ingenuo. Qui, a quest’ora, si scopa.» «Allora anche tu…» «Ah, lo ammetti finalmente.» «Arrivo adesso. Ho fatto tardi per seguire il telegiornale. Si stanno avvicinando, è notizia di stamattina.» «Non giustificarti, non sono tua moglie.» «…» «Senza raffreddore mi basterebbe annusarti per sapere con chi hai scopato.» «È un brutto raffreddore», dissi per cambiare argomento. La dottoressa P fece una smorfia. «Mi sono dovuta spogliare in una stanza con l’aria condizionata al massimo.» Le porte si aprirono. Salutai la dottoressa P e imboccai il corridoio. Sulla soglia della mia stanza, un uomo mi ostruì l’ingresso. Indossava una stinta maglietta blu con la scritta Facchinaggio impressa all’altezza del petto; aveva una penna infilata dietro l’orecchio e nelle mani stringeva una cartella con un elenco di nomi. «Lei come si chiama?» Glielo dissi. L’uomo trascinò un dito lungo l’elenco della sua cartella. «Il suo nome non c’è.» 23 «Possibile?» domandai pur non sapendo a che cosa la lista si riferisse. L’uomo si asciugò la fronte con un fazzoletto. «Lei ha avuto tutto?» «Tutto cosa?» Il facchino elencò: «Scrivania, sedia, cassettiera, lampada, portapenne, computer e la roba personale che viene da Firenze». Entrai nella mia stanza e vi trovai sette colleghi di cui avevo un vago ricordo, forse risalente a una cena aziendale di chissà quanto tempo prima. Nonostante la targhetta con il mio nome sulla porta, sembrarono sorpresi di vedermi. Fu un brutto momento, come se, rientrando in casa, vi avessi scoperto uno sconosciuto con le mani nel cassetto della biancheria. «La violazione di domicilio è un reato, sapete?» dissi per sciogliere l’imbarazzo in una risata. I fiorentini con un inquadramento inferiore al mio si sentirono in dovere di sorridere. Seguirono i convenevoli, la buona educazione, le mie condoglianze per i colleghi sepolti sotto le macerie e, infine, il silenzio e la concentrazione da dedicare al lavoro, sull’altare del quale anche il periodo del lutto andava sacrificato. *** All’ora di pranzo mi alzai e andai in sala break. Inserii qualche moneta nel distributore e selezionai 24 una Coca senza zucchero e un panino al formaggio confezionato in un doppio strato di cellophane. Addentai il panino, ma era andato a male e lo gettai. Bevvi un sorso di Coca per pulirmi la bocca dal sapore di muffa e uscii sul corridoio. La porta dell’ufficio della dottoressa C era accostata. Entrai senza bussare. Lei mi sorrise. Sfilai dietro la scrivania e le poggiai le mani sulle spalle nude e muscolose. La dottoressa C sospirò e arcuò la schiena. Passai a massaggiarle il collo. «Hai mangiato?» «Sì, e tu?» Ignorai la domanda. «Andiamo, altrimenti perdiamo la prenotazione.» In ascensore, la dottoressa C parlava e io le guardavo le braccia. Indossava vestiti senza maniche e, dopo l’ufficio, pompava i bicipiti in palestra. Le accarezzai le braccia nel senso della lunghezza. La pelle era tesa e la muscolatura grossa, sproporzionata rispetto al corpo minuto. Vedermi insidiare la dottoressa C nello specchio dell’ascensore mi eccitò. «Il tuo uomo avrà paura a farsi masturbare», dissi ammiccando. «A te piacerebbe rischiare?» disse lei con un tono scherzoso che io, arbitrariamente, volli interpretare come un invito. *** Mi svestii nel piccolo spogliatoio ed entrai nella 25 cabina della doccia abbronzante. Inforcai gli occhiali protettivi e chiamai con l’interfono. «Sono Giulia, dica pure.» «Lo spogliatoio dodici, grazie.» «Caro, sei tu?» disse dopo alcuni istanti la dottoressa C. «Sì.» «Ti stavo per chiamare. Dopo la doccia facciamo un massaggio?» «Non posso, ho una riunione», mentii – detestavo i massaggi. «Una riunione importante?» «Non così importante.» «Ci sarà anche il Presidente?» «Non lo so.» «Come si comporta in riunione?» L’idea di parlare del Presidente K mi nauseava e non risposi. «Sei ancora lì?» «Sì.» «Ti chiedevo del Presidente.» «Non ho voglia di parlare del Presidente.» La dottoressa C si indispettì. «Mi hai fatto chiamare per startene zitto?» «Qui non è come parlare in azienda. Qui siamo nudi.» Lei rise imbarazzata. «Accarezzarti le braccia mi è piaciuto», dissi per adularla. «Sei in splendida forma.» 26 «Ti piacciono le mie braccia?» «Ne sono turbato.» «Turbato?» «Sono grosse quanto le mie.» «Spero non altrettanto pelose.» «Non scherzare, ho voglia di essere serio.» «…» «Oppure scherziamo a modo mio.» «…» «Facciamo che le mie braccia sono le tue.» «…» «Facciamo che le mie mani sono le tue.» «…» Persi la ragione. Iniziai a masturbarmi e ad ansimare nell’interfono. «…» «Brava, così, non ti fermare», dissi per coinvolgerla. «…» «Sei molto brava.» «…» «Ti stai masturbando anche tu?» «…» «Sei ancora lì?» «Vado più veloce?» cedette finalmente lei. «Sì, accelera», risposi con il fiato grosso. «Ti piace andare veloce?» «Per me non è mai abbastanza veloce», dissi prima di godere. Spensi l’interfono e uscii dalla cabina abbronzante. 27 Mi sciacquai e mi rivestii. Qualcuno bussò alla porta. «Sì?» «Sono io.» «Ecco, sono pronto», dissi. Infilai le scarpe e aprii la porta. La dottoressa C mi aspettava con le braccia conserte, in una postura vagamente minacciosa. «Sei più lento di una donna», disse, mi afferrò per le spalle e mi ricacciò dentro. Chiuse la porta, si tirò sui fianchi il vestito e abbassò le mutandine. Piegò la schiena e afferrò i montanti della cabina abbronzante. Si voltò. Aveva gli occhi iniettati di sangue e ai lati della bocca si erano formati grumi di bollicine lucenti. «Scopami forte.» La guardai senza dire nulla. «Coraggio.» «Sono appena venuto.» «Ho detto scopami.» Mi sbottonai i pantaloni. Non ero così eccitato, ma riuscii comunque a penetrarla. La dottoressa C si issò sulla traversa della cabina abbronzante. Senza sforzo si calava sul mio pene per poi, daccapo, tirarsi su. Il suo corpo era una macchina e i movimenti veloci, fluidi, apparentemente identici. Le vene dei bicipiti, gonfie di sangue, divennero grosse come dita. Non avevo mai assistito a niente di simile. Sperai che i suoi grugniti non attirassero l’attenzione del personale. Quando provai a sfilarmi, la dottoressa C mi cinse la vita con le gambe. Aveva una presa d’acciaio. Non potei far 28 altro se non sperare che si sfiancasse, ma lei era superallenata e forse avrebbe continuato per sempre. *** Si fermò a mezz’aria. Rilassò i muscoli e si dondolò per sciogliere le vertebre. Mi atterrò davanti. Ci ritrovammo uno di fronte all’altra, lei con il vestito arricciato sui fianchi, io con i pantaloni alle caviglie. Notai la patina di sudore che le si era formata all’attaccatura dei capelli: anche lei era umana. Distolsi lo sguardo. La consuetudine prevedeva che il più basso in grado si concedesse in cambio di ferie, permessi, straordinari retribuiti e orari più flessibili. Scopare fra colleghi di pari livello era una pratica inusuale e mi fece pensare all’incesto. Mi rivestii e corsi fuori. Al distributore automatico della reception selezionai una Evian. Passai la bottiglia sulla fronte e bevvi a piccoli sorsi, in apnea, senza che la sete si placasse. Mi sentii osservato. Incrociai lo sguardo della ragazza alla cassa e lei arrossì. Aveva lineamenti marcati e capelli scuri acconciati con la frangia. Sulla camicia a maniche corte che indossava era spillata una targhetta con il suo nome: Giulia. Immaginai che avesse sentito i grugniti della dottoressa C e arrossii anch’io. 29 Mi avvicinai e pagai in contanti. Mentre ricevevo il resto entrò la dottoressa C. Le dissi che avevo pagato per entrambi e lei mi ringraziò con un sorriso di circostanza. Uscimmo nella calura del primo pomeriggio. «Qualche collega potrebbe vederci», disse lei. «Vederci fare che cosa?» La dottoressa C indicò i nostri piedi: «Questo», disse. «Camminare?» «Camminare insieme.» «…» «Non cercarmi più, non voglio finire nel tritacarne del gossip aziendale», disse; poi cambiò marciapiede e io ne fui sollevato. *** Tornai in ufficio e subito squillò il telefono sulla scrivania. «Ha già suonato molte volte», disse infastidito uno dei fiorentini, il dottor O. Risposi. Era Giorgia. «Dov’eri finito?» «Perché?» «Ti ho chiesto dov’eri finito.» «In pausa pranzo.» «Ecco, bravo. A riprendere Raniero sono dovuta andare io.» 30 «…» «Sei ancora lì oppure sei di nuovo in pausa pranzo?» «Sono qui.» «Proprio stamattina ti sei lamentato di non vederlo abbastanza.» «Mi dispiace, me ne sono scordato.» «Ma dov’eri?» «Te l’ho detto, in pausa pranzo.» «Con chi?» «Da solo.» «Da quando stacchi il telefonino per pranzare da solo?» «Non era staccato.» «Ti ho chiamato ed era staccato.» «Forse non prendeva.» «…» «Giorgia?» «Ho una telefonata di lavoro. Ti richiamo.» I fiorentini non potevano non aver ascoltato; quando Giorgia ritelefonò, lasciai squillare: non avrei continuato a discutere in pubblico. I fiorentini mi fissarono esasperati. «Non rispondi?» disse il dottor O. Mi allentai il nodo della cravatta e respirai come Silvano mi aveva insegnato, con il diaframma. «Hanno lasciato Firenze e avanzano nella nostra direzione, sapete? Si direbbe che vi stiano seguendo», dissi per distrarli dal telefono con una battuta di spirito. 31 La dottoressa D eruppe in un brutto pianto e corse in Sala Decompressione: prima che la porta insonorizzata si chiudesse alle sue spalle, la sentimmo urlare. «A Firenze ha perso la sorella durante l’attacco», mi redarguì il dottor O. «Mi dispiace.» Il telefono tacque. *** Uscii dalla stanza per avere un po’ di privacy. Il corridoio era vuoto. Le macchine fotocopiatrici e le stampanti emettevano un ronzio sinistro. Accesi il cellulare e richiamai Giorgia. «Eccomi.» «Tutti quei discorsi su Raniero e poi te lo scordi a scuola?» «Non succederà più», mi affrettai a dire. «Ti ho fatto cento telefonate.» «Te l’ho già detto e ridetto, ero in pausa pranzo.» «Con chi?» «Con nessuno, quante volte lo devo ripetere?» «Con nessuno o con qualche collega troia?» «Adesso non fare la paranoica.» «…» «Giorgia?» «Ci vediamo a casa.» Rientrai in stanza, la attraversai e andai in Sala Decompressione. La dottoressa D era ancora dentro che 32 urlava il nome della sorella. Sbatteva i pugni contro il rivestimento imbottito della parete. Il rimmel le era colato sulle guance e il rossetto le impiastricciava gli angoli della bocca. Così conciata assomigliava a un clown e per un istante dimenticai perché mi trovassi lì. Tolsi le scarpe e scalciai in ogni direzione, come un cavallo imbizzarrito. Mi fermai quando le gambe cedettero. Con la mente sgombra, restai sdraiato sul pavimento in gomma. Ci fu un grido di guerra: la dottoressa D devastava a morsi la guaina che tappezzava le pareti. Quando crollò esausta, i denti mantennero salda la presa su un lacerto del rivestimento. 33