Il ruolo del reddito nelle decisioni di fecondità - UniFI
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Il ruolo del reddito nelle decisioni di fecondità Anna Giraldo1, Stefano Mazzuco1, Francesca Michielin2 1 2 Dipartimento di Scienze Statistiche – Università di Padova Istituto di Metodi Quantitativi – Università Bocconi di Milano 1. Introduzione Nel dibattito sulla bassa fecondità, si è spesso discusso il ruolo del reddito nella decisione di avere un figlio. Sembra infatti che la relazione tra disponibilità economica e numero di figli generati non sia lineare: evidenze empiriche mostrano una correlazione negativa tra reddito e fecondità e in particolare si è osservato che sono le famiglie a reddito medio quelle che hanno meno figli. Modelli teorici proposti in letteratura (Devaney, 1983; Heckman e Walzer, 1990) mostrano come, se da un lato un puro effetto reddito implica una relazione positiva tra reddito e fecondità (all’aumentare del reddito aumenta anche la domanda di beni e tra questi anche quella dei figli), dall’altro un effetto reddito combinato con un effetto sostituzione porta a risultati meno netti. Il reddito infatti è anche legato alla posizione della donna sul mercato del lavoro, e donne che possono aspirare ad alte occupazioni possono trovare troppo oneroso rinunciare a lavorare (anche per un breve periodo) per avere un figlio. In questi casi, quindi, l’effetto sostituzione (che fa sì che il consumo di beni troppo costosi – i figli – venga sostituito con il consumo di altri beni) può controbilanciare l’effetto reddito. In Italia la situazione sembra paradossale: tassi di fecondità tra i più bassi in Europa (con un numero medio di figli per donna pari a 1,2 nel 2001) convivono con un basso tasso di occupazione femminile (42% nel 2002). Rigidità istituzionali e del mercato del lavoro italiano non facilitano infatti la conciliazione tra il ruolo di madre e di lavoratrice (Del Boca, 2002). Il mercato del lavoro non è sufficientemente flessibile per accogliere le esigenze delle madri, sia in termini di organizzazione dei tempi di lavoro (il lavoro part-time è estremamente raro e spesso caratterizzato da un basso profilo professionale, mentre gli altri lavori in genere non consentono orari flessibili) che per la poca mobilità dello stesso (una volta abbandonato il mercato del lavoro vi sono molte difficoltà ad essere re-integrati). Il sistema di servizi per l’infanzia fornisce inoltre poca assistenza alle madri che lavorano, offrendo un numero limitato di posti disponibili e un servizio compatibile solo con gli orari di un lavoro part-time. Le donne sposate, quindi, devono scegliere tra un lavoro a tempo pieno e il non lavorare affatto. Carriera lavorativa e maternità sono dunque in forte competizione, facendo crescere il ruolo delle preferenze non osservate per i figli. In tale contesto, è cruciale interrogarsi su quali politiche possano efficacemente sostenere la natalità; in particolare, in questo lavoro ci chiediamo se e quanto un aumento del reddito che non comporti un aumento del carico lavorativo possa aiutare la fecondità delle donne italiane. Dunque, cercheremo di studiare il legame tra reddito e fecondità, tentando di separare l’effetto reddito dall’effetto sostituzione. La fecondità è perciò considerata come funzione sia del reddito del marito che del reddito “potenziale” (da lavoro) della moglie. I dati utilizzati provengono dall’European Community Household Panel (ECHP), un’indagine longitudinale condotta in Europa che, annualmente, fornisce informazioni sui nati e sulla situazione economica e occupazionale dei componenti delle famiglie intervistate. 2. Il ruolo del reddito sulla fecondità nella letteratura, e in particolare nel caso italiano Diverse evidenze empiriche (si veda ad esempio Heckman e Walker, 1990; Devaney, 1983) hanno mostrato come la fecondità sia legata in maniera diretta al reddito del marito, e in maniera indiretta al salario femminile. Per comprendere questo legame, bisogna considerare che anche la decisione di avere un figlio, come tutte le scelte, è il risultato di un processo di valutazione di costi-opportunità. I costi gravano specialmente sulla donna, che, almeno per il breve periodo di tempo a ridosso della nascita, deve lasciare il lavoro (Brewster e Rindfuss, 2000) e, anche in seguito, è maggiormente coinvolta rispetto al partner nella cura e nella crescita dei figli. Per questa ragione ci si attende che un aumento del salario maschile abbia un effetto positivo sulla fecondità; si parla in questo caso di effetto reddito: aumentando le possibilità di spesa aumentano anche i consumi di tutti i beni, e tra questi anche quello dei figli. Non è invece assicurato che un aumento del salario femminile abbia un effetto positivo sulla decisione di avere un figlio. Infatti se da una parte agisce l’effetto reddito, 2 dall’altra si ha un effetto sostituzione: aumentando le possibilità di guadagno della donna (il che di per sé andrebbe ad accrescere il bilancio familiare, predicendo un effetto positivo sulle scelte di fecondità), aumenta simultaneamente anche il costo di avere un altro figlio. Infatti, abbandonare seppur momentaneamente il mercato del lavoro ha un alto costo in termini di mancati guadagni, e quindi tale scelta viene rimessa in discussione. I guadagni persi (dalle donne) a causa della maternità sono in letteratura un concetto chiave: nel modello sul capitale umano (Becker, 1993) essi vengono scomposti in tre distinti fattori. Il primo riguarda l’effetto diretto che ha l’assenza dal mercato del lavoro: mentre si rimane a casa per la cura dei bambini non si percepisce lo stipendio pieno. Inoltre, non si cumula esperienza lavorativa, alla quale in genere è associata la possibilità di carriera e, infine, si assiste ad una svalutazione delle abilità conseguite, che si traduce al momento di rientrare sul mercato in una riduzione di stipendio o comunque in una maggiore difficoltà di procedere nella carriera. A questo proposito Joshi (2002) ha sottolineato che le donne con un titolo di studio più alto sperimentano minori perdite in termini relativi, probabilmente perché hanno maggiori possibilità di trovare un lavoro flessibile che si possa conciliare con la maternità e possono permettersi di affidare i propri figli ai servizi per l’infanzia. Donne con un titolo di studio più alto o con occupazioni che richiedono lunghi tempi di training sono meno inclini a lasciare il lavoro per i figli, e quando questo accade lo lasciano per un periodo più breve (Brewster e Rindfuss, 2000). L’attenzione si sposta quindi dal reddito di per sé ai diversi effetti che può avere un aumento di salario maschile e femminile, e quindi, almeno indirettamente, la scelta delle donne di lavorare o meno assume un ruolo chiave. A questo proposito è anche doveroso ricordare che il problema di conciliare la cura dei figli con il lavoro extra domestico (Stycos e Weller, 1967) è diventato rilevante solo nelle società moderne, dove il lavoro è organizzato in modo da salvaguardare gli interessi dei datori di lavoro più che quelli delle famiglie. A differenza di società tradizionali, i bambini non sono i benvenuti sul luogo di lavoro (in ufficio, in fabbrica o nei negozi), e gli orari sono poco (o per nulla) flessibili. Di qui l’incompatibilità, che diventa un problema fondamentale soprattutto quando (come oggi) percepire due redditi è una condizione considerata necessaria per garantire ai figli stili di vita adeguati (come mostrato da Murphy, 1992, con dati sulla Svezia, Polonia, Unione Sovietica). 3 Un modo per superare queste difficoltà consiste nello scegliere lavori flessibili (come quelli part-time) o avvalersi di servizi per l’infanzia. Proprio per queste ragioni, a livello macro la relazione tra fecondità e tassi di partecipazione femminile sta cambiando, passando da negativa a positiva (Ahn e Mira, 2002; Brewster e Rindfuss, 2000; Engelhardt e Prskawetz, 2002): in società con una massiccia partecipazione femminile sul mercato del lavoro, le condizioni di lavoro sono in genere più attente alle necessità delle donne, favorendo la compatibilità tra il ruolo di madre e lavoratrice. Non sempre, però, la presenza di lavori part-time garantisce l’effettiva conciliazione tra ruoli: in Giappone, ad esempio, le donne (soprattutto quelle più istruite) preferiscono lasciare il lavoro dopo il matrimonio, nonostante potrebbero avvalersi del part-time (Retherford et al., 1996). Il fatto è che questi lavori sono in genere occupazioni di basso profilo, scarsamente remunerative e appaganti. Per di più il sistema fiscale disincentiva l’occupazione a tempo pieno delle donne sposate. E’ così che molte donne istruite preferiscono rimanere a casa a tempo pieno: chi usufruisce del part-time lo fa invece solo per guadagnare i soldi necessari per provvedere all’educazione dei figli, senza alcun guadagno dal punto di vista del soddisfacimento delle aspirazioni personali. Per quanto riguarda l’Italia, le forme di lavoro a tempo parziale sono molto poco diffuse, e spesso vengono associate a lavori di basso profilo. Le donne quindi sono costrette a scegliere tra un lavoro a tempo pieno e l’occupazione di casalinga, sapendo che se per accudire meglio i figli abbandonano la loro occupazione attuale, sarà poi molto difficile reinserirsi (Bernardi, 1999). Anche per questa ragione nonostante i tassi di partecipazione femminile siano cresciuti notevolmente nel giro di pochi decenni, rimangono molto bassi rispetto ad altri paesi europei (Chesnais, 1996; Del Boca, 1999). Notevoli poi sono le differenze tra donne sposate e non: le single hanno tassi di occupazione abbastanza simili a quelli degli uomini, mentre le donne sposate mostrano una presenza nel mercato del lavoro molto inferiore (Bernardi, 1999). Sicuramente qualche cambiamento è avvenuto, e il lavoro femminile si è ora esteso ad altre fasi del ciclo di vita: mentre nel passato sposarsi coincideva con il lasciare la propria occupazione per dedicarsi completamente alla famiglia (sempre che si lavorasse), successivamente si è posticipato l’abbandono al momento di avere primo figlio, e oggi si fa sempre più forte l’aspettativa che le donne riescano a conciliare il ruolo di lavoratrice con quello di madre e moglie, interrompendo il lavoro solo per il periodo coperto dagli assegni di maternità (Jensen, 1995). 4 Le evidenze empiriche vanno tutte nella stessa direzione: Ongaro e Salvini (2002) analizzando dati su alcuni contesti urbani, e Drovandi (1999), Moro e Gottard (1999), e Rampichini e Salvini (1999; 2001) con dati a livello nazionale mostrano che una donna che continua a lavorare dopo aver avuto un figlio, ha una più bassa probabilità di averne un altro. Allo stesso modo, eventi come il matrimonio, una gravidanza o la nascita di un figlio sono associati, per le donne, ad un’alta probabilità di lasciare il lavoro (Bernardi, 1999). Quando però lavoro e maternità sono più compatibili, questi legami si attenuano: esemplare è il caso delle insegnanti, che, dati i notevoli livelli di flessibilità, mostrano maggiori probabilità di avere un altro figlio (Rampichini e Salvini, 1999). Altri due elementi peculiari del contesto italiano rendono poi la conciliazione tra maternità e lavoro ancora più ardua. Da una parte nidi e asili sono scarsamente presenti sul territorio offrendo così aiuto ad un numero limitato di famiglie. I servizi per l’infanzia hanno poi orari poco flessibili, compatibili solo con occupazioni a tempo parziale, e dunque le poche famiglie che vi ci accedono devono organizzarsi autonomamente o appoggiarsi a nonni e parenti (Bernardi, 1999). Dall’altra parte il persistere di un forte radicamento della divisione tradizionale dei ruoli all’interno della famiglia fa sì che siano solo le donne a dover rinunciare al proprio tempo libero per gestire casa e ufficio, mentre agli uomini spetta unicamente il compito di lavorare fuori casa. In questo contesto, quindi, ci si può aspettare un forte effetto reddito associato al salario maschile. Ongaro e Salvini (2002), concentrandosi sulla transizione tra primo e secondo figlio, mostrano che il livello di educazione del marito (che può essere considerato una proxy del reddito) ha un impatto sulle scelte di fecondità: in genere, più alto è il titolo di studio dell’uomo, più è alta la probabilità di avere un altro figlio. 3. I modelli L’obiettivo del nostro lavoro è quello di comprendere meglio le scelte di fecondità, ponendo particolare attenzione al ruolo che gioca il reddito in queste decisioni. In generale consideriamo ogni nascita come un passo di un progetto più complesso, dove le persone agiscono in maniera da realizzare i loro desideri (Becker, 5 1981). E’ perciò importante tener conto dell’evoluzione del processo: avere informazioni sul suo passato aggiunge conoscenza su come potrebbe evolvere (Yamaguchi e Ferguson, 1995; Rosina, 1998). L’evento di interesse, nel nostro studio, è costituito dall’avere un figlio in più. Dato che siamo particolarmente interessati a quale effetto abbia il reddito su questa scelta, è opportuno restringersi alle nascite successive alla prima, che sono quelle che sembrano dipendere maggiormente dalle disponibilità economiche - in Italia, quasi tutti prima o poi hanno un primo figlio, mentre avere il secondo è assai più raro (Santini, 1997). Inoltre, la prima nascita si differenzia notevolmente dalle successive, dato che rappresenta l’accesso alla maternità. Consideriamo quindi la probabilità di concepire “un altro figlio” (i.e. un figlio di qualsiasi ordine superiore al primo) come funzione del tempo di esposizione, di variabili legate alla storia passata di fecondità e di alcune variabili di contesto. L’esposizione al rischio comincia al momento della nascita del figlio precedente. Ovviamente, ci attendiamo che più si aspetta ad avere un nuovo bambino, minore è il desiderio di averlo, e quindi minori le probabilità di concepire nuovamente. Anche la stessa età della donna può essere un fattore importante, se non altro perché la fertilità diminuisce con l’età (McDonald et al., 2003): meno è giovane la donna, minori sono le possibilità che abbia un altro figlio. Ovviamente, questo ragionamento ha senso dal momento che teniamo sotto controllo il numero di figli che la donna ha. Infine, è importante tenere conto del fatto che la scelta di avere un figlio dipende anche da caratteristiche non osservate della donna – una sorta di propensione verso la maternità che rende le donne eterogenee tra loro. Tutte le variabili inserite fino ad ora riguardano la storia stessa di fecondità. Altre caratteristiche però sono (a nostro avviso) molto importanti. Il costo dei figli ad esempio deve essere tenuto in considerazione. Cruciale sarà in questo ambito una misura della diffusione sul territorio dei servizi di cura dei bambini o la disponibilità di un parente che si possa occupare dei nuovi nati. La variabile chiave sulla quale concentriamo l’attenzione è il reddito: ci interessa capire se e come il suo livello può condizionare la scelta di avere un altro figlio. Proponiamo perciò più modelli, che tengono in considerazione in modo diverso le informazioni sulle disponibilità economiche. Il primo modello prevede di inserire il reddito totale disponibile, una misura grezza che rappresenta le risorse economiche totali di cui la famiglia dispone. Il secondo modello invece differenzia famiglie 6 monoreddito dalle famiglie con due percettori: la presenza o meno della donna sul mercato del lavoro da una parte condiziona la sua disponibilità di tempo per prendersi cura della famiglia e dei figli, e dall’altra ha un impatto diretto sul reddito totale disponibile. Il terzo modello, infine, si pone lo scopo di scorporare l’effetto reddito dall’effetto sostituzione, inserendo sia l’informazione relativa al reddito non da lavoro della donna che le sue potenzialità di guadagno. Come abbiamo detto, infatti, misurare semplicemente l’effetto del reddito sulla probabilità di avere un altro figlio significa confondere le due facce di quest’effetto: da una parte abbiamo l’effetto di una maggior disponibilità economica, mentre dall’altra abbiamo un effetto cosiddetto di sostituzione dovuto al fatto che più alto è il salario della donna, più è “costoso” rinunciarvi per seguire i figli. Per scorporare i due effetti, consideriamo perciò separatamente il reddito che la donna ha (se lavora) o che potenzialmente avrebbe (se non lavora) a disposizione grazie al suo lavoro e il reddito derivante da altre fonti (quindi redditi non da lavoro e reddito del marito). Come definire per le donne che non lavorano una misura del loro guadagno potenziale? Se utilizzassimo nelle analisi il loro salario reale (nullo), terremmo in considerazione una misura che non riflette le capacità lavorative delle donne, quanto piuttosto la loro decisione di non lavorare che, tra l’altro, dipende anche dalle scelte e dai programmi di fecondità1. Considerare perciò semplicemente il salario delle donne che lavorano sarebbe distorcente per l’analisi. In alternativa, stimiamo il salario potenziale da lavoro in modo da avere anche per le donne che non lavorano una misura delle loro capacità di guadagno. Per far questo seguiamo l’approccio proposto da Mincer (1974) secondo cui è possibile stimare il salario come funzione dell’educazione, dell’esperienza lavorativa ed altre variabili che influenzano il mercato del lavoro (ad esempio il tasso di disoccupazione) riguardanti l’individuo. Tecnicamente si utilizzerà la metodologia proposta da Heckman (1979) per cui si stima dapprima la probabilità di lavorare o meno, che dipende da alcune caratteristiche fondamentali dell’individuo, e poi, per quelli che lavorano, gli effetti di altre variabili sul loro salario. Per coloro che non lavorano il salario potenziale – stimato come funzione dei parametri dell’equazione 1 In questo caso si dice che le due variabili (fecondità e partecipazione al mercato del lavoro) sono endogene: questo vuol dire che entrambe appartengono in realtà allo stesso processo decisionale. È quindi privo di senso misurare l’effetto di una sull’altra, proprio perché le decisioni riguardanti numero di figli e occupazione vengono prese simultaneamente. 7 precedente – rappresenta il reddito che avrebbero se lavorassero, date le loro caratteristiche. I modelli teorici che abbiamo sopra descritto ci suggeriscono che troveremo un effetto positivo del reddito, e un effetto negativo dei guadagni attesi della donna. 4. I dati Per poter indagare meglio i legami tra fecondità e reddito utilizziamo i dati provenienti dall’European Community Household Panel (ECHP). Questa indagine, condotta a partire dal 1994, coinvolge 15 paesi europei ed ha cadenza annuale. Per quanto riguarda l’Italia un campione rappresentativo di circa 7000 famiglie è stato intervistato per la prima volta nel 1994 e viene ricontattato annualmente. Le informazioni raccolte riguardano sia la famiglia nel suo complesso (domande sull’abitazione, reddito familiare, numero di componenti, possesso di beni durevoli, etc.) sia ogni singolo individuo di oltre 16 anni di età (stato civile, stato occupazionale, storia lavorativa, reddito personale, educazione, salute, relazioni sociali, soddisfazione in vari ambiti, etc.). Per i componenti sotto i 16 anni si conoscono semplicemente le date di nascita e grado di parentela con gli altri componenti della famiglia. È importante notare che se alcuni membri di una famiglia si separano, formando così nuove famiglie, quest’ultime diventano parte del campione così come tutti i membri che vi appartengono (compresi coloro che prima non facevano parte del campione). Ad esempio, quando un individuo del campione si sposa e va a vivere con il coniuge, quest’ultimo verrà “acquisito” dall’indagine e verrà quindi intervistato ogni anno da quel momento in poi. Attualmente sono disponibili i dati delle interviste effettuate dal 1994 al 1998. Proprio la natura panel delle rilevazioni e lo spirito economico del questionario rendono questa base dati una fonte particolarmente appetibile per indagare aspetti legati al reddito: le informazioni sono dettagliate, raccolte di anno in anno (così da tenere sotto controllo i mutamenti nel tempo), non retrospettive ma prospettive. Un po’ più complesso è invece ricostruire la storia passata di fecondità, che viene rilevata solo indirettamente. Il confronto tra una rilevazione e la successiva in termini di composizione della famiglia ci informa comunque sulle nuove nascite, che costituiscono l’oggetto della nostra indagine. 8 Il campione che consideriamo è composto da circa 3000 donne sposate, sotto i 45 anni. Per ogni donna abbiamo a disposizione i dati personali su istruzione, episodi lavorativi e redditi da lavoro, quelli relativi al marito (del quale consideriamo sostanzialmente solo il reddito) e naturalmente informazioni sulla fecondità (precedente al 1994 o realizzata nel periodo in esame). 5. I risultati Per meglio comprendere la relazione tra reddito e fecondità, un primo passo consiste nell’analizzare il nostro campione secondo tali caratteristiche, incrociando le informazioni disponibili. Può ad esempio essere utile comprendere se famiglie con un solo figlio hanno una distribuzione del reddito molto diversa da famiglie che hanno molti figli. Per far questo dividiamo (in base ai terzili della distribuzione del reddito familiare) il campione delle donne in tre fasce di reddito: alto, medio e basso e osserviamo la distribuzione di tale reddito, per occasione d’indagine (riportiamo solo i risultati della prima e della quinta occasione) in relazione al numero di figli. Tabella 1 mostra che le famiglie con tre o più figli sono per la maggior parte quelle che hanno un reddito pro capite minore, mentre quelle con un figlio solo sono più concentrate nella categoria di reddito più elevata. Da questa prima analisi, quindi, viene confermata una relazione negativa tra reddito familiare equivalente2 e numero di figli. -----------------------------tabella 1 circa qui ------------------------------ In Tabella 2 notiamo inoltre una netta relazione negativa tra il numero di figli e la partecipazione lavorativa delle donne: al crescere del primo cala drasticamente la seconda fino ad arrivare al punto che solo un terzo delle donne con tre o più figli lavora (tra le donne con 1 solo figlio, invece, circa una su due ha un’occupazione). Non solo, a parità di condizione lavorativa, chi ha più figli percepisce un salario orario minore, mentre non c’è una chiara relazione col numero di ore lavorative settimanali (cfr. Tabella 3). 2 Il reddito familiare è stato diviso per un coefficiente, cosiddetto di equivalenza, che permette di confrontare redditi di famiglie di diversa numerosità. 9 -----------------------------tabella 2 circa qui ------------------------------ L’impressione quindi è che effettivamente carriera lavorativa e carriera “riproduttiva” siano in notevole competizione. -----------------------------tabella 3 circa qui ------------------------------ Un’ulteriore variabile interessante per capire il legame tra reddito e fecondità è il titolo di studio della donna, che rappresenta da una parte le opportunità di lavoro (e di successo) che la donna ha (il suo cosiddetto “capitale umano”), e dall’altra quanto ha investito nella propria carriera. -----------------------------tabella 4 circa qui ------------------------------ I dati a disposizione (Tabella 4) mostrano che chi possiede un titolo di studio elevato3, ha relativamente meno figli mentre un titolo di studio basso è associato a un alto numero di figli. Se però consideriamo anche la posizione lavorativa della donna (vedi Tabella 5), la relazione non è così netta: tra le donne che lavorano, infatti, la percentuale di chi possiede un titolo di studio elevato aumenta con il numero di figli esattamente come la percentuale di chi possiede un basso titolo di studio. Per le donne che non lavorano, invece, l’andamento è simile a quello della tabella precedente. Ancora una volta la relazione tra titolo di studio, lavoro e fecondità appare molto complessa, e difficilmente riassumibile tramite tabelle. -----------------------------tabella 5 circa qui ------------------------------ 3 Abbiamo tre livelli di titolo di studio: laurea o post-laurea, licenza media superiore e licenza media inferiore. 10 Conviene perciò analizzare i risultati dei modelli logistici che considerano simultaneamente l’effetto di tutte le variabili che influenzano il “rischio”4 delle donne di concepire un (altro) figlio. A questo proposito consideriamo alcune informazioni relative alla situazione attuale del processo di fecondità (numero di figli già avuti dalla donna, tempo passato dall’ultima nascita, età della donna stessa), così come la locazione geografica (nord, centro o sud Italia), la diffusione nel territorio dei servizi per l’infanzia e la presenza o meno dei “nonni” che si prendono cura dei figli già nati. Rivolgiamo poi un interesse particolare alle variabili di reddito, che vengono considerate in modi distinti nei tre modelli proposti. Il primo modello, infatti, prevede di inserire il reddito totale disponibile, una misura grezza che rappresenta le risorse economiche totali di cui la famiglia dispone. Il secondo modello invece differenzia famiglie monoreddito dalle famiglie con due percettori, inserendo come predittore anche la condizione occupazionale della donna. Il terzo modello, infine, si pone lo scopo di scorporare l’effetto reddito dall’effetto sostituzione, inserendo sia l’informazione relativa al reddito non da lavoro della donna che le sue potenzialità di guadagno. In tale modello abbiamo perciò definito una misura del salario potenziale delle donne, stimando prima la probabilità di lavorare, che dipende da alcune caratteristiche dell’individuo (i parametri dell’equazione sono riportati in Tabella 6) e poi, per quelle che lavorano, gli effetti di altre variabili sul loro salario (Tabella 7). Il salario predetto è infine stimato, per ogni individuo, sulla base delle proprie caratteristiche. -----------------------------tabella 6 circa qui ------------------------------ Dalla tabella 6 è evidente che diverse caratteristiche della donna influenzano la sua propensione a partecipare o meno al mercato del lavoro: l’età ha chiaramente un effetto non lineare, mentre l’effetto dell’istruzione è positivo: più istruite sono le donne maggiore è la loro propensione a lavorare. Un reddito del coniuge elevato disincentiva, invece, la partecipazione femminile: se il marito è in grado di provvedere da solo al sostentamento economico della famiglia la donna può scegliere se lavorare o meno, mentre se il reddito del marito è modesto, il doppio reddito diviene quasi una necessità. Altri fattori scoraggiano poi il lavoro femminile: essere in cattivo stato di salute, aver 4 Il termine “rischio” indica la propensione di un individuo a sperimentare un evento qualsiasi, senza voler connotare tale evento come negativo o pericoloso. 11 sperimentato un episodio di disoccupazione nei 5 anni precedenti all’intervista o vivere in una regione ad alto tasso di disoccupazione influenzano negativamente la partecipazione al mercato del lavoro. Si noti inoltre che al netto dell’effetto del tasso di disoccupazione, comunque, vivere al centro o nel sud dell’Italia diminuisce la probabilità di lavorare. È probabile che questo sia un effetto delle norme sociali, che differiscono in aree diverse5. Il passo successivo è stato quello di stimare il salario orario. Le caratteristiche che fanno aumentare o diminuire il salario delle donne che lavorano, o, per la precisione, il logaritmo6 del loro salario orario, sono raccolte in tabella 7. Possiamo considerare il salario orario come una misura del costo di un’ora di lavoro a cui una donna dovrebbe rinunciare per rimanere a casa con i figli. -----------------------------tabella 7 circa qui ------------------------------ L’età è questa volta considerata linearmente ed ha un effetto positivo: al suo crescere cresce anche il salario orario. Analogamente anche l’istruzione ha un effetto positivo, attribuendo salari più elevati a chi ha più titoli o più esperienza in termini di corsi di attivazione professionali (stages, corsi di formazione, etc). Coerentemente con le teorie sul capitale umano poi il salario dipende anche dalla esperienza diretta acquisita sul mercato del lavoro (che qui abbiamo considerato come durata totale della partecipazione, al cui aumento corrispondono generalmente stipendi più alti) e dalla continuità della presenza (se sussistono episodi di disoccupazione negli ultimi 5 anni, lo stipendio che si percepisce è più basso). Una volta stimato il salario potenziale nel modo appena descritto, possiamo introdurre i tre modelli proposti per la fecondità (vedi tabella 8) e commentarli. -----------------------------tabella 8 circa qui ------------------------------ 5 Possiamo pensare che, infatti, al centro e al sud la divisione dei ruoli all’interno della famiglia (l’uomo che si dedica al lavoro e la donna che si dedica all’accudimento dei figli e della casa) sia più rigida rispetto al nord Italia. 6 L’utilizzo del logaritmo del salario invece che il salario semplice ha motivazioni puramente tecniche e non di sostanza. 12 I risultati7 mostrano che esistono 3 variabili che hanno un forte impatto sulla probabilità di avere un figlio o meno: il numero di figli già avuti, il numero di mesi dalla nascita dell’ultimo figlio, l’età della donna, e ciò vale per tutte e tre le specificazioni. Un debole effetto c’è anche per la variabile regionale “Sud”. Questo vuol dire che più è alto il numero dei figli, più tempo è passato dalla nascita dell’ultimo figlio o più vecchia è la donna, minore è il rischio di un ulteriore concepimento. Avere, invece, i genitori o i suoceri che siano disponibili ad aiutare nella cura dei figli è un fattore che facilita la maternità (anche se questo effetto risulta debole). Le variabili sul reddito hanno un impatto non significativo, anche se nel primo modello emerge che chi ha un reddito alto ha probabilità di avere un figlio più alta rispetto a chi ha reddito basso8 (controllando per tutte le altre caratteristiche). La significatività di quest’effetto sparisce sia se, come nel secondo modello, aggiungiamo la variabile sul lavoro (“Lei lavora”) sia se, come nel terzo modello, consideriamo il salario orario potenziale. Quest’ultimo, in particolare, sembra avere un effetto negativo ma non significativo: di fatto il “curriculum” della donna ha un effetto nella direzione prevista ma senza essere statisticamente rilevante. 5. Le conclusioni Recenti analisi (Coppola, 2003) hanno mostrato che la propensione a sposarsi e la propensione a partecipare al mondo del lavoro sono, per le donne italiane, fortemente correlate. Quello che sembra emergere dalla presente analisi è che questo valga anche per la propensione a generare figli e la partecipazione al mondo del lavoro, anche se non è facile capire la natura di questa relazione. Nel nostro campione, poco meno della metà delle donne tra i 15 e i 45 anni non lavora ed emerge chiaramente come ci sia una certa differenza tra questo gruppo di donne e quello costituito dalle lavoratrici. Per giudicare opportunamente il ruolo del reddito nelle decisioni di fecondità delle donne, bisognerà tenere conto di questo fattore. Infatti, nella relazione lavoro-fecondità entra forzatamente una terza variabile in gioco, che forse ha un peso determinante, più del 7 Nei modelli stimati finali sono presenti solo le variabili che sono risultate significative in almeno una delle tre specificazioni alternative. La variabile “presenza di servizi per l’infanzia nel territorio”, non essendo mai risultata significativa, viene omessa in tutti i modelli. 8 In questo caso il reddito familiare non è stato diviso per la scala di equivalenza, come fatto nella tabella 1. Questo perché già nel modello, si tiene conto del numero di figli e di altri componenti presenti nella famiglia. 13 reddito stesso: il tempo. È vero che il “non lavoro” determina un costo in denaro, in virtù del salario non percepito, ma è altrettanto vero che il lavoro determina un costo in tempo che può essere determinante nella decisione di mettere al mondo un figlio o meno. L‘evidenza empirica sembra mostrare che il tempo conta di più del denaro, e questo è anche confermato dall’importanza rivestita dalla presenza dei “nonni”: i genitori o i suoceri della donna possono, prendendosi carico di parte degli impegni che l’allevamento di un figlio comporta, aumentare considerevolmente la quantità di tempo a disposizione della figlia (o nuora) permettendole così di avere, in caso, un altro figlio. Dunque, il reddito ha certamente un ruolo ma meno forte di quanto avevamo inizialmente ipotizzato. Quali sono le conseguenze in termini di politiche? Se volessimo attuare degli interventi legislativi pronatalisti, avrebbe senso intervenire sul reddito delle famiglie (in particolare delle donne)? Dalle analisi qui riportate sembrerebbe che l’effetto di un provvedimento di questo genere (come ad esempio l’assegno familiare) avrebbe un debole impatto sulla fecondità Più efficace potrebbe invece essere un provvedimento che aumenti il tempo libero della donna, mantenendone costante il reddito piuttosto che un provvedimento che aumenti il reddito della donna mantenendone costante il tempo libero. A nostro avviso, quindi, una politica pronatalista volta ad alleggerire i carichi di “lavoro” della donna potrebbe avere un certo impatto sulla fecondità. Bibliografia N. Ahn, P. Mira 2002, A note on the changing relationship between fertility and female employment rates in developed countries, «Journal of population economics», 15, 667682. G. Becker 1981, A treatise on the family, Harvard University Press, Cambridge. G. Becker 1993, Human capital, University Chicago Press, Chicago. F. Bernardi 1999, Donne fra famiglia e carriera. 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Percentuale di lavoratrici per numero di figli Figli 1 2 3 o più Totale Wave 1 54 45 33 1028 Wave 2 53 45 34 968 Wave 3 54 45 32 907 Wave 4 52 43 30 780 Wave 5 51 45 33 752 Tabella 3. Numero medio di ore lavorative e salario orario per numero di figli Wave 1 Wave 5 Figli 1 2 3 o più Totale 1 2 3 o più Totale Ore settimanali di lavoro 34.19 35.08 35.09 33.38 34.27 34.12 33.63 34.11 Salario orario (lire) 9467.99 9542.81 8947.08 9439.23 11951.64 10814.99 10571.46 11211 Totale donne 412 489 127 1028 283 371 98 752 Tabella 4. Distribuzione del livello d’istruzione per numero di figli Figli Wave1 Wave 5 1 2 3 Totale 1 2 3 Totale Laurea o post-laurea 7.71 7.47 5.45 7.21 8.32 7.07 5.94 7.27 Licenza media superiore 40.52 36.83 24.16 35.91 47.39 42.67 26.92 41.37 Meno della licenza media superiore 51.63 54.88 67.27 55.90 44.29 50.13 67.13 51.30 Totale(n=100) 765 1097 385 2247 517 778 286 1581 18 Tabella 5. Distribuzione del titolo di studio per numero di figli e condizione lavorativa delle donne Donne che lavorano Titolo di studio Wave 1 Figli Alto Medio Basso 1 10.05 47.49 42.16 2 12.97 47.70 39.12 3 o più 13.71 41.94 43.55 Totale 11.88 47.03 40.89 Wave 5 Figli Alto Medio Basso 1 14.01 54.09 31.91 2 13.24 54.71 32.06 3 o più 13.83 44.68 41.49 Totale 13.60 53.11 33.29 Totale (n=100) Donne che non lavorano Titolo di studio Totale (n=100) 408 478 124 1010 Alto 5.04 3.23 1.53 3.40 Medio 32.21 28.43 15.71 26.84 Basso 62.46 67.04 78.54 68.15 357 619 261 1237 257 340 94 691 Alto 2.69 2.28 2.08 2.36 Medio 40.77 33.33 18.23 32.25 Basso 56.54 64.16 79.69 65.28 260 438 192 890 Tabella 6. Stima dei parametri dell’equazione di lavoro e non lavoro Working Coefficiente Età Età .005 *** Età al quadrato -.0008 *** Livello educazione Educazione media .714 *** Educazione elevata 1.375 *** Reddito Reddito del marito -.012 *** Condizione di salute Cattiva salute -.265 *** Caratteristiche occupazione Disoccupata 5 anni prima -.275 *** Tasso di disoccupazione regionale -.028 *** Regione di provenienza Centro -.238 *** Sud -.389 *** Costante .525 *** Std. Err. Z .0017 .0002 2.865 -3.955 .0247 .0479 28.943 28.697 .0008 -14.845 .0610 -4.349 .0272 .0058 -10.106 -4.867 .0356 .0935 .0497 -6.692 -4.155 10.566 * = livello di significatività 10% ** = livello di significatività 5% *** = livello di significatività 1% 19 Tabella 7. Stima dei parametri dell’equazione del salario per chi lavora Ln(salario) Coefficiente Correzione di Heckman -.358 ** Età Età .009 *** Livello di istruzione Livello medio .222 *** Livello alto .433 *** Corsi di esperienza professionale Sì .195 *** Reddito del marito Reddito .005 *** Episodi disoccupazione negli ultimi 5 anni Sì .016 Ripartizione geografica Centro -.112 *** Sud .055 Costante Std. Err. .143 Z -2.504 .001 6.242 .067 .115 3.341 3.771 .033 5.839 .001 4.614 .033 0.475 .034 .073 -3.286 0.753 .098 92.009 9.062 *** * = livello di significatività 10% ** = livello di significatività 5% *** = livello di significatività 1% Tabella 8. Stima dei parametri dell’equazione di fecondità Variabili Modello 1 Modello 2 Numero di figli -0.519*** -0.519*** N° mesi dall’ultima nascita -0.020*** -0.020*** Età della donna -0.053*** -0.054*** Lei lavora ------0.079 Salario orario potenziale ------------Effetto del reddito familiare (riferimento: reddito basso) Reddito medio 0.166 0.150 Reddito alto 0.298* 0.258 Presenza di nonni 0.343* 0.324 Effetto della locazione geografica (riferimento: nord) Centro -0.172 -0.169 Sud 0.338** 0.348* Modello 3 -0.569*** -0.021*** -0.045*** -------0.076 -0.051 0.056 0.378* -0.208 0.245* * = livello di significatività 10% ** = livello di significatività 5% *** = livello di significatività 1% 20