L`arte di partire dal proprio limite

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L`arte di partire dal proprio limite
L’arte di partire dal proprio limite
…Nel 1999, durante la stagione estiva, predicando un sabato (vigilia e quindi già anticipo del Vangelo
della domenica successiva) mi capita il Vangelo della zizzania. Dove si dice: “Non ti preoccupare, la
zizzania c’è, intanto cresce, quando sarà bella cresciuta, la prima cosa che facciamo, siccome la
riconosciamo, andiamo lì e con la falce e con il falcetto la tagliamo via e poi la bruciamo”. È quello che
dice Gesù: una parabola che non fa una grinza! Il grano buono lo metto nel granaio e invece la zizzania,
lo portiamo a bruciare.
Quante volte avevo letto questo brano, quante volte ero entrato in meditazione su queste tematiche, ma
quell’estate io ero preso dalla tematica degli inferi e scoppio a piangere, lì in chiesa! Perché, se per caso
l’odio fosse una graminacea, tanti saluti, che bruci! Ma è emblematica invece di un discorso più grosso, di
persone vive, cioè di un mio fratello che si comporta male, mio fratello che non ama, mio fratello che
compie gesti volgari, mio fratello che si mette contro la verità, la giustizia, la bellezza, la bontà, mio
fratello che “me rompe”…! Ecco è questo il punto.
Quello si chiama l’odio, zizzania nella parabola… Ora, che la parabola mi dica che la zizzania va
bruciata, tutto sommato non è che “me cambia molto”, ma il dire che quella zizzania è mio fratello, è mia
sorella e che va bruciata, io non la reggo più...! Un dolore, un pianto, un’amarezza che mi ha preso! Mi
sono giustificato dicendo: “Non abbiate paura è la fragilità dei miei bypass”, ma la realtà è che quella
maniera di vedere le cose mi aveva preso.
La domenica successiva non è stata meglio, e così a seguire perché i Vangeli che si sono succeduti erano
uno peggio dell’altro, a questo riguardo! La rete con i pesci buoni e i pesci cattivi: i pesci buoni me li
tengo e i pesci brutti e cattivi me li butto a mare. Se tu butti a mare le sardine che ti sono venute male,
pazienza, ma se tu butti a mare il fratello, la sorella che non ti vanno a genio, che non te sfagiolano, che si
sono comportati male, che sono perfidi e che meritano le pene atroci… permetti che a me non me stia per
niente bene che mio fratello vada a finire un’altra volta a mare?! E poi, uno appresso all’altro, fino ad
arrivare alla parabola delle cinque vergini stolte e delle cinque vergini sagge. Era il 23 novembre del
1999. Lo so bene perché era il sabato in cui, noi di Frosinone, avevamo ricevuto la Croce dei giovani e la
dovevamo passare alla diocesi successiva. Il Vangelo finale era questo, delle dieci vergini stolte e delle
cinque vergini sagge. E pure lì… un dramma! Perché se noi stiamo dentro e cantiamo i nostri bei
“Alleluia”, le nostre belle “Gerusalemme alzati e guarda la gloria del Signore”, è una cosa bella, ma che
fuori ci siano i poveracci che bussano e non possono entrare, mentre noi stiamo a “schitarrà” tutti i canti
possibili immaginabili… mi viene l’angoscia! Perché, a fronte di quattro che stiamo a cantare, ce ne
stanno diecimila fuori che stanno a piangere! Che se fossero cinque sciacquette… pace! Ma queste cinque
vergini stolte sono emblema: delle famiglie i cui rapporti sfilacciati sono arrivati alle estreme
conseguenze; sono i minori maltrattati; sono le violenze sui minori; sono le tragedie sui ragazzi, ragazze;
sono i ragazzi dello sballo, della droga, della devianza…
Ma come faccio io a dire: “Alleluia! Alleluia!”… e quelli di fuori “a crepa”. Ma come faccio?!
È veramente un continuo leggere in questa chiave. Il tempo non ha mitigato questa lettura e quando una
domenica è tornata la storia del fico sterile… che responsabilità per me! Per me prete. “Signore, è colpa
mia!”. Questo è il punto fondamentale! Che il fico non porti frutto non è colpa sua, per cui tu lo tagli e lo
butti al fuoco! È colpa mia! Perché se io avessi zappettato, se avessi potato, se avessi annaffiato, se avessi
curato quel fico, sarebbe venuto fuori bello, fruttuoso, rigoglioso… e io invece non ho coltivato! È colpa
mia! E mio fratello non può bruciare per colpa mia, perché io me ne sono fregato di lui!
Questo fa sì che io debba mettermi un’altra volta a lavorare per lui!
Ma il peggio viene dalla prima e seconda storiella che Gesù racconta. I galilei che scendono dalla Samaria
e che, siccome Pilato non voleva spedizione, aveva paura che questi, sotto la scusa religiosa, si
assembrassero per fare rivoluzione, li blocca per tempo e li uccide! È stata una cosa gravissima tanto che i
Samaritani andarono a parlare a Vitellio, che era il governatore della Siria e quindi superiore di tutto il
territorio del vicino Oriente del tempo, e Vitellio chiese che Pilato, nell’anno 36, lo racconta Flavio
Giuseppe in “Antichità giudaiche”, andasse a Roma a giustificarsi davanti a Tiberio per questo eccidio.
Una cosa impressionante! L’altro fenomeno: purtroppo di ripetute sciagure o dovute all’atmosfera o
dovute alla imperizia degli uomini, la torre crolla e ne uccide un bel gruppo. Come succede adesso: crolla
un palazzo, uno scontro ferroviario, dall’altra parte una violenza di una bomba messa per uccidere,
dall’altra parte un’imperizia… io mi domando se questo fosse un fattarello potrebbe anche andare, ma
quando Gesù dice: “Se non vi convertite fate la stessa fine!”, mi si stringe il cuore al pensiero che io della
mancata conversione dei miei fratelli sono responsabile.
Quello non si converte per colpa mia! Quello non si converte perché io non faccio nulla perché diventi
credibile. Io sono la causa per cui mio fratello finisce in quella maniera miserabile! Che se fosse una torre
che crolla, se fosse un treno che salta per aria, le disgrazie succedono, ma il problema è che lì il mio
fratello va a finire per sempre in un baratro, negli inferi! E questo non si può reggere!
Quindi, ci stanno due possibilità:
1) “Caino, cosa hai fatto di tuo fratello?”. E quello fa le spallucce e dice: “Che me frega a me, chi sono
io il custode di mio fratello?!”. E questo è un atteggiamento. Purtroppo, ciascuno di noi porta dentro di sé
un pezzo di Caino menefreghista dei problemi degli altri! Purtroppo ciascuno di noi ha un pezzetto di
Caino che gli fa dire: “A me che me frega!”. È evidente. C’è chi l’ha più grosso, c’è chi l’ha più piccolo,
c’è chi ha un Caino totale, c’è chi ha un pezzetto di Caino… ma tutti, a partire da me, ce lo portiamo
dentro. Ma qual è la prova che ci portiamo dentro un pezzo di Caino? Il fatto è che intorno a me i miei
fratelli soffrono e non c’è nessuno (compreso io) a dargli una mano per alleviargli la sofferenza, non c’è
nessuno accanto che gli dia una parola di speranza! Caino ha vinto ancora!
2) L’altra possibilità è quella della prima lettura, quella di Mosè, il quale sta facendo tutte cose
completamente diverse, e che da quel momento cominceranno a tormentarlo. Vede un roveto ardente e
prende l’iniziativa di andare a vedere che significa, come mai non brucia. È un paio d’ore che sta lì e per
quanta legna hanno messo a bruciare… com’è che non si è esaurito? Va a vedere e dal roveto il Signore
gli dice: “Togliti i calzari, il luogo dove tu stai è sacro!”. Si dichiara: “Io sono il Dio di Abramo, di
Isacco, di Giacobbe, dei padri tuoi. Io ho sentito il grido dei miei figli in Egitto e sono sceso a liberarli.
Quindi mando te!”.
Quindi è importante che io scelga o Mosè o Caino, non posso dire faccio un po’ qui e poi faccio un po’ lì.
O uno, o l’altro. E il motivo è che il mio fratello sta crepando, il motivo è che l’altro sta esaurendo le
batterie, che se io non gli do una mano ha chiuso. E se non lo faccio io, non lo fa nessun altro al posto
mio, perché io in quel momento sono l’essere necessario per quella situazione. Sento il grido Dio, che
prende me per dare risposta a quel grido.
Ci siamo dentro a questo discorso? Questo è il panorama! Su questo panorama, ciascuno di noi deve poter
in qualche modo dare una risposta. Ecco perché mi intrigava e mi interessava questa frase di Osea: “La
prenderò e la porterò nel deserto e lì parlerò al suo cuore”. Ecco il deserto è in questo momento quel
luogo dove nel silenzio, dove avendo tolto, abbandonato ogni altra forma di interessi, anche dentro la mia
memoria, la mia fantasia, si sente il mio grido che la mia carne lancia perché mi sento in qualche modo
carente, bisognoso, affamato, allupato… quello che vi pare. Deserto anche in questa situazione. Uscirne
un momento fuori per poterne capire la verità, allora Lui mi parla e mi racconta quello che vi ho detto
poc’anzi: il Caino piccolo o grande, poco molto che c’è dentro di te, dice il Signore, deve sparire perché
al suo posto deve subentrare Mosè. Ecco questo è la prima fase.
È importante quello che stiamo per dire. Non per avere una chance in più, ma per poter condividere con
voi…
Quando ci siamo sentiti io e Chiara (Amirante n.d.r.), le ho detto: “Avrei il desiderio di fare questo
tracciato. Tu pensi che sia possibile? Tu mi consigli di portarlo avanti, c’è qualche cosa che si può
dire?”. Ci siamo confrontati e mi sembra che sia possibile. Quindi non mi sembra di gettare nel vuoto un
qualcosa di grande e di bello, perché la stima che il Signore ha di ciascuno di noi è tale che ci consente di
poter cogliere questo progetto.
Lo intitolo: “L’arte di diventare santi non nonostante i nostri peccati e difetti, ma attraverso di loro”.
Non è difficile, è un po’ insolito, però ci dobbiamo riuscire. Ciascuno di noi, se il discorso che abbiamo
fatto è chiaro, si deve domandare: “Ma in me che cos’è che funziona di più?”. Funziona di più Caino che
mi vuole sempre più possedere o Mosè che vuole liberare il popolo con tutto il suo carattere, il suo
temperamento, i suoi scoraggiamenti, le sue balbuzie, per cui sente l’incapacità, sente addirittura di non
essere all’altezza?… Dentro questo, il passaggio è: “Io ho capito chi sono, ho capito come sono fatto, ho
capito quali sono i miei limiti, ho capito qual è la mia storia, ho capito qual è la situazione dentro la
quale mi dibatto: questa situazione non è un fatto negativo che mi distrugge, ma è proprio la strada per
diventare santo!”.
Adesso vi faccio alcuni esempi: quel tale focomelico il quale avendo le braccia strette e due manine
appoggiate sopra la scapola, si ritrova ad avere solamente dei piedi. Dice: “Io voglio fare il pittore!”.
Fino a prova contraria per fare il pittore mi serve almeno la mano destra e forse pure la sinistra, ma non ce
l’ho… eppure voglio fare il pittore. E a partire dalla mia incapacità ad esprimere le mie potenzialità,
comincio a pitturare col piede. Non è una cosa straordinaria perché sono tantissimi i pittori che dipingono
usando le dita del piede!
Vi sto dicendo fatti veri.
“Io sono un ragazzo ospite al piccolo rifugio di Ferentino, mi chiamo Pino e sto su una sedia a rotelle, le
mie mani sono incapaci di alzarsi, sono addirittura incapaci di fare i gesti più semplici: se non ho
qualcuno che mi imbocca non mangio. Ma io voglio giocare col computer, io voglio lavorare col
computer… io voglio produrre col computer!”. Allora gira che ti rigira, lotta che ti rilotta si è fatto fare
un cinturone da fronte chiuso con la fibbia e dal quale spunta un perno sul quale c’è un gommino
proporzionato e lui digita con la fronte e fa dei lavori bellissimi! Ci mette una vita… come ci mette una
vita per esempio Filippo a parlare. Ma Filippo vuole comunicare la Parola di Dio, ci vogliono le mezz’ore
intere per una frasetta piccola così che è carica però di Parola di Dio! Filippo fa una fatica a muovere la
bocca… non riesce a dominarla! E dice delle cose stupende! Chi vuole sentire parlare di Dio vada a
sentire Filippo!
Potrei continuare… io in carcere, io in ospedale, io con una moglie, io con un marito che mi tradisce, io
con dei genitori che mi maltrattano, io con una situazione di fallimento economico… perché dovrei
ripiegarmi su me stesso e dire: “Oh me infelice non ho le mani per digitare su un computer! Oh me
infelice che non posso pitturare! Oh me infelice che sono in carcere! Oh me infelice che c’ho una moglie,
un marito che me tradisce!”. Perché dovrei passare il tempo così quando potrei partire dal limite entro il
quale mi dibatto per fare un qualcosa di grande di meraviglioso che, guarda caso, proprio perché lo voglio
e lo voglio profondamente e lo pago e lo pago caramente, diventa un qualcosa di grande e di bello che
non ci sarebbe stato se non ci fossero stati questi iniziali problemi di sballo che mi hanno impedito di
realizzare il mio desiderio!
Questo è il punto fondamentale: l’arte di partire dal proprio limite per fare da quello un progetto
grandioso di salvezza per tutti!
Questo mi sembrava un punto sul quale lavorare… non ho capito perché un disgraziato che va a finire in
carcere debba dire: “Devo stare qui otto anni… io non ho capito perchè devo stare qui”. C’è lo studio
delle lingue! Dentro ci sono africani che parlano inglese, ci sono spagnoli… perché non potrei imparare la
lingua spagnola, perché non poteri imparare l’inglese… in otto anni, ma sai quanta lingua io posso
imparare? Non ho capito per quale motivo io non posso essere un uomo che legge un libro che lo forma e
lo costruisce! Per quale motivo io non potrei essere uno che fa letture? Perché il carcere mi dovrebbe
avvilire e imbestialire? Per quale motivo io non potrei essere un uomo che a partire dalla condizione di
carcerato costruisce una personalità, una dignità che guarda caso non avrebbe mai avuto se non fosse
passato per quell’esperienza e uscendo non potrebbe dare proprio niente. Invece uscendo…
Ho una lettera proprio bella: “Lettera dal carcere” di Antonio Gramsci, ucciso poi nel carcere Regina
Cieli. Ora non mi interessa dal punto di vista politico, ma dal punto di vista umano è una figura
splendida! Il figlio gli manda una lettera che dice: “Papà nella nostra casa di campagna ho visto un
tasso, l’ho preso e l’ho messo in una gabbietta, quando tu torni te lo farò trovare”. Allora Antonio scrive
al figlio: “Caro ragazzo, carissimo, mi fa piacere che tu abbia fatto questa esperienza con la natura, però
ti prego quel piccolo tasso mettilo in libertà, tuo padre sa quanto è duro e quanto è difficile stare
rinchiuso in una gabbia e quanto invece lui abbia un anelito di libertà… pensa alla sua famiglia, agli
altri piccoli tassi che cercano il loro fratello che tu hai catturato e messo in una gabbia…”. Questa è
umanità, è alta umanità, questa è dignità, è educazione altissima!
Perché io potrei avere questa maniera di esprimermi e invece mi abbrutisco e invece divento quello che in
carcere fa il fregarolo e fa il perditempo?! Perché io dovrei essere il malato ripiegato su me stesso a dire
quanto sono infelice perché: “Ho un cancro che mi se sta portando via e adesso che farò…!”, e non
essere per esempio come il medico di cui si narra nella “Città della gioia” che avendo saputo che aveva
otto mesi di vita dice: “Che mi vado a rovinare questi otto mesi a stare a fare il malato?”, e si butta a
fare il medico in mezzo alla gente dicendo: “C’ho ‘sto cancro? Otto mesi? E me li vivo tutti in mezzo alla
gente aiutandola e servendo…”. Finchè non è morto. Per quale motivo devo stare con la borsa dell’acqua
calda sullo stomaco quando poteri essere…
Tutto questo è difficile farlo capire alla nostra gente, è difficile farlo capire a me vescovo, a me prete. E
allora la stima altissima che io sento di avere nei vostri confronti mi porta a dirvi: «E perché voi che avete
queste vocazioni e queste chiarezze interiori alte, a partire da ciò che siete, ciò che sperimentate, ciò che
vivete, non potete diventare capaci di una cosa grande e bella che solo io, perché ci sono passato, so che
significa? “Proprio perché io ci sono passato, so quello che devo fare per te”. Caino finisce, aumenta
Mosè. “Ti porterò nel deserto, parlerò al tuo cuore” e ti dirò: “Aiutami, ho sete, ho bisogno di te!”. E
allora non c’è più nessuno che possa dire: “Io sono talmente povero da non poter fare niente!”, non c’è
nessuno che può dire: “Io sono talmente disabile da non poter fare niente!”, non c’è nessuno che possa
dire: “Io non ho delle capacità”. Nessuno! Perché tutti noi, abbiamo quel pezzettino di vita, quella
scintilla da cui si parte per essere qualcosa di grande e di bello al servizio del fratello.
So che è un discorso difficile, l’arte di partire dalle proprie debolezze, dai propri peccati, dai propri
fallimenti, dalle proprie situazioni nelle quali uno vive per costruire la propria dignità, la propria
personalità!
C’è un libro intitolato in inglese, dice: “Born to win”, “Nato per vincere”. Questo libro all’inizio fa un
elenco di quelli che sono nati per essere perdenti, ma sono perdenti unicamente perché perdono il tempo a
ripiegarsi su loro stessi dicendo: “Oh come sono infelice! Oh se io avessi avuto un padre diverso, se
avessi avuto una madre diversa, certo se io fossi stato figlio unico, se fossi stato con quattro fratelli, se a
scuola avessi avuto una maestra, se avessi potuto andare in una scuola superiore… e tutta la vita la
passano a dire: “Se io avessi avuto, se avessi fatto, se non avessi fatto…” e alla fine della vita si
ritrovano piagnoni, ripiegati su loro stessi, falliti! Sono i perdenti sono nati per perdere, nati per essere
scartati da loro stessi per primi! Ma non è possibile che io con una infinità di potenzialità mi vada a
ripiegare su me stesso e a dire: “Se io avessi…”. Dovremmo cominciare a partire dalle potenzialità. Ho
questa potenzialità piccola piccola e io la faccio crescere.
Vi ricordate la storia di Pieret con la ricottina? Pieret non aveva un’idea sbagliata, diceva una cosa giusta:
“Io prendo questa ricottina, la vado a vendere, ci faccio due soldi, ci compro altre due ricottine, le vado
a vendere e ci faccio quattro ricottine e quando avrò fatto tanta ricottina e avrò venduto tante ricottine,
avrò i soldi per comprarmi una pecora. La pecora mi fa il latte, io ci faccio la ricottina e la vendo e
intanto riuscirò ad avere un’altra pecora e faccio e i pecorini e le pecorelle e avrò un gregge…” e
quando ebbe fatto il gregge sognava, tutte le possibilità e disse: “Diventerò una grande signora! E tutte
passeranno davanti a me e faranno: “Madame Pierret”… e pà, la ricottina che aveva sulla testa le cadde
per terra e addio a sogni di gloria! Quindi non riuscì neanche ad andare al mercato perché, povera figlia,
si era fatta una capoccia di ubriacature da se stessa.
Non è questa la strada. Io credo che la strada non sia quella: “Se io… Se io… Se io…”, ma: “Che cosa
ho?” e su quello che ho, costruire subito, non con la fantasia, ma con la realtà aprendo una relazione con
l’altro. Io credo che questo potrebbe essere estremamente utile perché (mi permettente, che sono
crudele?), uno degli elementi terribili che uccidono la speranza sono quegli elementi che il mio vicino, o
per crudeltà o per scemenza, me butta addosso: “Ma va che te sei messo in testa!”. Finito! Perché io già
stavo in debolezza e questo me ce mette sopra il carico da dodici e io me scarico! Non c’è niente di
peggio, ma non c’è niente di meglio di uno che mi stia vicino e mi dica: “Insieme ce la facciamo!”.
È un po’ una mia illusione. Quando la domenica dico alla gente: “Scambiatevi un segno di pace”, io
abitualmente dico: “Scambiatevi una promessa di pace!”, cioè: “Io e te ce la facciamo”, “Io e te ce la
possiamo fare a costruire la pace”. È la comunità cristiana, è la comunità.
Quindi Caino è anche quello che butta giù, Mosè è quello che dà la speranza.
Mons. Salvatore Boccaccio, Vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino, 16 marzo 2004