Avv. Annalisa Rosiello Avv. Chiara

Transcript

Avv. Annalisa Rosiello Avv. Chiara
Avv. Annalisa Rosiello
Avv. Chiara Vannoni
[email protected]
[email protected]
Via Podgora 4, 20122 Milano Tel. 02.36522576 / 2368 Fax 02.5513770
www.studiolegalerosiello.it
ATTIVITÀ DEL CENTRO DONNA
CAMERA DEL LAVORO METROPOLITANA DI MILANO
MILANO, 1°MARZO 2013
La consulenza e l’assistenza legale in ambito giuslavoristico
PREMESSA
L’anno 2012, con la riforma introdotta dalla L. 92 (c.d. legge Fornero, 28 giugno
2012, entrata in vigore il 18 luglio 2012) ha segnato una svolta epocale nel diritto del lavoro,
a partire, tra le altre, dalla disciplina dei licenziamenti, fino ad arrivare alla alla modifica del
regime delle dimissioni. Sempre il 2012 è stato caratterizzato da una pesante riforma del
sistema pensionistico.
Questa svolta si è riverberata anche nell’ambito dell’assistenza sindacale e legale
delle donne lavoratrici, che stanno cominciando ad avanzare richieste di consulenza legate
alle novità legislative. Quelle che per il momento si sono registrate riguardano le seguenti
situazioni:
1. I licenziamenti discriminatori nel nuovo regime di tutela
2. Il mobbing e le discriminazioni legate all’età
3. Le dimissioni secondo il nuovo regime di tutela
Per il resto, le richieste di assistenza stragiudiziale o giudiziale pervenute al nostro
Studio Legale nel 2012 da parte delle utenti del Centro Donna hanno riguardato in prevalenza
le seguenti situazioni:
1. Le discriminazioni di genere al lavoro e le molestie morali (o mobbing di genere);
2. Le molestie sessuali nel luogo di lavoro;
3. Le dimissioni e risoluzioni del rapporto di lavoro.
***
Veniamo brevemente ad esaminare le richieste di consulenza ed assistenza
successive all’entrata in vigore della legge Fornero.
1. I LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI NEL NUOVO REGIME DI TUTELA
La legge Fornero ha espressamente riconfermato l’applicazione della tutela forte o
“reale” per i licenziamenti discriminatori, tra i quali quelli intimati per matrimonio o maternità;
tuttavia la procedura istituita è piuttosto farraginosa e oggetto di divergenti interpretazioni che
variano a seconda del Giudice; il giudizio va proposto nel breve termine di 180 giorni
dall’impugnazione del licenziamento, un termine che quotidianamente verifichiamo essere
eccessivamente contenuto in rapporto alla complessità dell’istruttoria che il legale ha da
svolgere; inoltre la sommarietà del rito rende normalmente difficile la prova – almeno in prima
fase – dell’origine discriminatoria del licenziamento; infine - in caso di soccombenza – spesso
la lavoratrice si scoraggia, anche perché le spese legali e quelle per il contributo unificato
(una tassa da versare per rivolgersi al Tribunale) vanno nuovamente pagate in caso di
opposizione.
Abbiamo avuto ad esempio il caso di una lavoratrice dipendente di una piccola
agenzia di servizi, licenziata al compimento dell’anno di vita del bambino dopo un periodo di
contrasti al rientro dalla maternità (contrasti consistiti in unilaterali e ingiustificati cambi di
1
orario, in una lettera di contestazione disciplinare e in una serie di richiami verbali); gli
elementi emersi, tuttavia, non sono stati dal Giudice – dopo un’istruttoria sommaria - ritenuti
sufficienti per ritenere accertata la discriminazione.
2. IL MOBBING E LE DISCRIMINAZIONI LEGATE ALL’ETA’
Già negli anni 2010-2011 avevamo trattato i casi di donne non più giovani, licenziate
disciplinarmente in seguito a contestazioni di mancanze del tutto infondate (sottrazione di
beni aziendali di modico valore, di fatto non commesse); tutte erano state reintegrate al
lavoro ma avevano, successivamente alla sentenza, optato per un risarcimento economico;
pesanti tuttavia erano state le conseguenze sul piano psicologico per essere state accusate
ingiustamente di furto e penalizzate con la massima delle sanzioni semplicemente perché
non avevano aderito a proposte di risoluzione consensuale e/o per essere ritenute troppo
“vecchie” per il lavoro.
Il fenomeno sembra essere ancora e vieppiù presente, dato che frequenti nel corso
del 2012 e nei primi mesi del 2013, sono state le richieste di consulenza e assistenza legale
di donne non più giovani che hanno subito azioni vessatorie di vario tipo volte a indurle
all’abbandono del posto di lavoro.
Stiamo ad esempio seguendo il caso di una lavoratrice sempre non di giovane età
ed in possesso dei requisiti per andare in pensione anticipata (ma che vorrebbe continuare
l’attività dato che le forze e la volontà glielo permettono e la legge consente il lavoro fino a 70
anni senza possibilità di essere licenziate) la quale sta subendo continue pressioni, anche via
mail, per discutere di una risoluzione consensuale e sta anche ricevendo minacce di
spostamento in un ufficio angusto ed isolato qualora non accondiscenda alla risoluzione del
rapporto (mobbing/discriminazioni legate all’età).
C’è poi tutta la categoria di donne non più giovani penalizzate dalla recente riforma
pensionistica e dall’innalzamento dell’età pensionabile, che vengono licenziate per motivi
economici (ma delle quali evidentemente l’azienda non vedeva l’ora di liberarsi perché
ritenute troppo anziane) in cui il profilo discriminatorio, per le difficoltà probatorie sottese, non
sempre è agevole da far emergere; sovente si è dunque indotti a muovere la trattativa solo su
basi economiche, comunque insoddisfacenti in rapporto agli anni che mancano alla pensione.
Si può dunque ritenere che le discriminazioni legate all’età, specialmente in seguito
l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, costituiscono un fenomeno sempre più
preoccupante ed in aumento.
3. LE DIMISSIONI NEL NUOVO REGIME DI TUTELA
Va detto invece che – sul versante delle dimissioni - è stato fatto dalla legge Fornero
un passo avanti, dal momento che da un lato è stato innalzato da uno a tre anni di vita del
bambino l’obbligo di convalida delle dimissioni (e della risoluzione consensuale del rapporto)
della lavoratrice madre, e dall’altro è stato posto un argine alle dimissioni in bianco,
prevedendo per tutti i lavoratori una procedura di convalida delle dimissioni (e della
risoluzione consensuale), introducendo un diritto di revoca delle stesse.
La procedura introdotta dalla legge Fornero pone al riparo, ad esempio, quella fascia
di lavoratrici più esposte al ricatto e al rischio di discriminazioni (donne con figli piccoli, donne
non più giovani, donne che accudiscono familiari anziani o con disabilità, ecc.) che in caso di
dimissioni o risoluzione (non) consensuale hanno la possibilità, nei tempi di legge, di
ripensamento e revoca.
***
Con riguardo ai casi per dire più tipici trattati nell’ambito del centro donna nel 2012 si
può osservare, più in generale, quanto segue.
1. LE DISCRIMINAZIONI DI GENERE AL LAVORO E LE MOLESTIE MORALI (O MOBBING DI
GENERE).
Sulle tematiche delle discriminazioni di genere, le donne hanno chiesto assistenza
con particolare incidenza numerica (quantificabile intorno al 60% degli accessi del 2012) al
rientro dalla maternità e in relazione a due situazioni tipiche: a) il licenziamento al termine del
2
periodo di tutela dell’anno di età del bambino e b) il demansionamento sempre conseguente
alla maternità.
Al fianco di queste situazioni si è registrato, con crescente intensità, un uso
strumentale del potere disciplinare del datore di lavoro, riconducibile alla definizione di
“accanimento disciplinare”.
Si è potuto anche nel corso di quest’anno constatare come il fenomeno delle
discriminazioni incida maggiormente sulle alte professionalità (generalmente lavoratrici
divenute madri all’età di circa 40 anni) che purtroppo subiscono - oltre alla drammatica
estromissione dal posto di lavoro - la conseguenza ulteriore di restare prive di occupazione in
una “zona grigia”, anagraficamente e “socialmente” parlando.
Questo fenomeno si è registrato sia con riferimento alle aziende di più grandi
dimensioni, che nelle realtà più piccole.
Ciò che accomuna queste esperienze è la gravità del demansionamento al momento
del rientro sul posto di lavoro dopo l’astensione per maternità: la totalità delle lavoratrici
racconta infatti di “non avere più le proprie mansioni”, situazione generalmente
accompagnata da una diversa e marginale collocazione fisica all’interno degli spazi aziendali:
cambiamento di ufficio, privazione o limitazione degli strumenti di lavoro, estromissione dai
flussi comunicativi effettuata anche tramite “rimozione” del relativo contatto da elenchi
telefonici e/o mail, ecc.
I casi più eclatanti riguardano lavoratrici che, al rientro, si sono viste assegnare
scrivanie piccole e scomode, senza telefono né materiale di lavoro, relegate a fare fotocopie
o scansioni di documenti laddove prima rivestivano mansioni di coordinamento di altro
personale o comunque mansioni di elevata responsabilità e complessità.
A fianco del demansionamento, e in genere prima del licenziamento (quindi nell’arco
di tempo che va dal rientro in azienda, intorno al 9° mese di età del bambino o poco prima,
sino all’anno di età del figlio) si è registrato un incremento dell’accanimento disciplinare,
ovvero del potere disciplinare utilizzato come strumento volto a precostituire una “giusta
causa” di licenziamento; in altre parole, improvvisamente, al rientro dalla maternità “si scopre”
che la lavoratrice non svolge più correttamente il proprio lavoro ed ogni pretesto diventa
valido per bersagliarla di contestazioni a distanza di tempo molto ravvicinata e per fatti
inesistenti o marginali, con l’obiettivo di fiaccarne la resistenza e indurla alle dimissioni.
Ancora, caso peculiare sempre di quest’anno è quello di una lavoratrice che dopo
l’astensione per maternità, limitata solo al periodo dell’obbligatoria, ha subito un pesante
accanimento disciplinare (nell’ordine di cinque o sei contestazioni nell’arco di pochi mesi), e si
è trovata inoltre completamente demansionata (emblematico un avviso esposto sul computer
e prontamente fotografato, che recitava “non accendere”).
L’intervento legale in queste situazioni mira ad evidenziare la discriminazione attuata
dal datore di lavoro e viene pertanto richiesto il ripristino della situazione precedente;
purtroppo però la conservazione del posto di lavoro è il risultato più arduo sia per resistenze
“datoriali”, che – come spesso si è registrato - per un profondo scoramento da parte della
lavoratrice interessata, che vive quanto accaduto come una profonda ingiustizia.
2. LE MOLESTIE SESSUALI NEL LUOGO DI LAVORO
Numerose richieste di intervento ed assistenza richieste hanno riguardato, anche nel
2012, i casi di molestie e in particolare di molestie a sfondo sessuale al lavoro.
Queste situazioni si sono riscontrate maggiormente nelle ipotesi di maggiore
debolezza contrattuale della lavoratrice legate a condizioni personali (per esempio lavoratrici
straniere) o soggette a una condizione di precarietà contrattuale: ipotesi cioè in cui la
lavoratrice è “ricattabile” in ragione del contratto “atipico” (contratto a progetto,
somministrazione, ecc.) o a termine.
In particolare, c’è stato il caso di una lavoratrice assunta con contratto di
somministrazione che ha subito pesanti molestie e approcci sessuali dal responsabile del
punto vendita che peraltro le faceva capire che “avrebbe trovato il modo di farle confermare”
(o – indirettamente – non confermare) il contratto.
Naturalmente, situazioni di questo genere sono molestie sessuali (che vanno dalle
avances, ad approcci gestuali o verbali con ricadute sessuali, fino ad arrivare a tipologie di
aggressione per toccare la lavoratrice).
3
Diversi sono stati anche i casi in cui si è registrato il cosiddetto stalking
occupazionale, ovvero una vera e propria persecuzione che si esplicita anche al di fuori del
luogo di lavoro.
Detti casi hanno normalmente riguardato situazioni in cui colleghi di lavoro hanno
avuto una relazione successivamente conclusasi e tuttavia l’ex compagno (normalmente
dirigente/superiore gerarchico) non si è rassegnato alla conclusione del rapporto ed ha
cominciato a perseguitare sia al lavoro che al di fuori la lavoratrice.
In tali circostanze la tutela richiesta dalla donna è volta a comprendere se e come di
denunciare (al datore di lavoro, ma anche - eventualmente - alla Procura della Repubblica) le
condotte di molestie subite.
La contestazione nei confronti del datore di lavoro è fondata su una specifica
responsabilità che deriva direttamente da previsioni normative (art. 2087 cod.civ. e artt. 25 e
26 D. Lgs. 196/2006, Codice delle Pari Opportunità) che impongo al datore datore di lavoro
l’attuazione di tutte le precauzioni idonee a garantire la tutela della lavoratrice. Nei casi di
molestie sessuali e stalking occupazionale viene chiamato a rispondere, naturalmente, anche
l’autore dei fatti, in solido con l’azienda.
Stiamo osservando, a fianco di un numero di segnalazioni di questo genere
sensibilmente superiore, una maggiore sensibilità al tema da parte delle aziende,
specialmente quelle più grandi e maggiormente strutturate, che difatti prendono
provvedimenti anche gravi contro gli autori delle molestie e/o comunque compiono
approfondita ed ampia istruttoria volta ad accertare i fatti denunciati.
Come per le discriminazioni però, anche queste segnalazioni scontano poi l’ambiente
culturale nel quale le molestie si sviluppano, nel senso che più facilmente vengono ancora
negate (o peggio, vengono sorrette le posizioni dell’autore) in contesti piccoli e “familiari”.
3. LE DIMISSIONI E LE RISOLUZIONI DEL RAPPORTO.
A fianco delle richieste sopra indicate, ma talvolta anche come “via d’uscita ultima”, le
lavoratrici chiedono di essere informate sui propri diritti per quanto riguarda le ipotesi di
dimissioni o di risoluzione consensuale del rapporto.
Come è stato osservato, la Legge Fornero è intervenuta introducendo maggiori forme
di tutela in questi ambiti. Spesso, infatti, le dimissioni o le risoluzioni consensuali non erano
una manifestazione libera della volontà, ma erano estorte sotto violenza o minaccia.
Di recente abbiamo ad esempio depositato un ricorso in fattispecie di dimissioni
(purtroppo rassegnate prima dell’entrata in vigore della Legge Fornero) estorte. La
lavoratrice, madre di due bambini, è stata “chiusa” in uno stanzino con i responsabili e
direttori del personale che le hanno prospettato due soluzioni. La lettera di dimissioni, con
una modesta “buonuscita”, o il licenziamento a fronte del quale c’era il rischio di non
percepire neppure le spettanze di fine rapporto, dovute per legge.
La lavoratrice, impossibilitata a chiedere aiuto, o consiglio, o assistenza, ha scritto
sotto dettatura le dimissioni, senza sapere peraltro che così avrebbe perso il diritto alla
indennità di disoccupazione; a distanza di soli tre giorni si è rivolta al Centro Donna per
chiedere una consulenza e, attualmente, siamo in attesa di andare di fronte al giudice.
4