Aristofane - MediaClassica
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Aristofane RICCARDO QUAGLIA I. Il genere letterario di Aristofane: la commedia greca antica Le conoscenze dei moderni sulla commedia greca dell’Età di Pericle si fondano principalmente sulle commedie conservate di Aristofane: ne deriva una visione forzatamente parziale in cui è difficile stabilire fino a che punto le caratteristiche tipiche dell’autore fossero comuni al genere e quale, all’opposto, fossero i margini di originalità concessi alle singole personalità. Non c’è dubbio, peraltro, che la tradizione posteriore scelse Aristofane e non altri, garantendo solo ad alcuni dei suoi testi la sopravvivenza integrale, per le oggettive qualità artistiche e contenutistiche delle sue commedie. Nei casi in cui il materiale frammentario degli altri comici permette una qualche forma di confronto, tuttavia, si osserva che alcune brillanti trovate (descrizioni di «mondi alla rovescia»; visite nell’Aldilà; paradossale attività politica delle donne; satira sociale e in particolare contro i sofisti, ecc.) sembrerebbero attribuibili più alle coordinate generali del filone in sé che non alla creatività del singolo Aristofane. D’altro canto è impossibile studiare le altre testimonianze prescindendo dal confronto diretto con i pochi testi conservati per intero, che sono appunto soltanto alcuni tra quelli di Aristofane. Dal punto di vista storico egli si inserisce nel filone di quella che la successiva filologia alessandrina, proponendo una schematica divisione in tre fasi, chiamò la «commedia antica» (a)rxai/a). Tale definizione si riferiva alle produzioni comprese tra l’anno di istituzione di primi agoni comici (verosimilmente il 486 a.C.) e gli inizi del IV secolo a.C. La preistoria del genere era collegata da Aristotele (Poetica 1449a) alle processioni falliche: da esse, in modo oscuro e tardivo rispetto alla tragedia, si sarebbe sviluppata una forma di spettacolo con coro e attori (ivi, 1449b) che, importando trame e sviluppi scenici dalla tradizione siceliota, si sarebbe poi evoluta nella commedia attica propriamente detta. I maggiori esponenti dell’archaia furono, per comune consenso delle fonti, oltre allo stesso Aristofane, Cratino, la maggiore personalità della generazione precedente, ed Eupoli, il più giovane dei tre. La produzione, in ogni caso, fu ampia e la biblioteca di Alessandria conservava, pare, 365 testi dell’archaia distribuiti tra circa cinquanta autori. A quanto è dato di capire, il passaggio ad una fase successiva, detta commedia di mezzo (la me/sh, seguita poi dalla nuova, ne/a) non fu solo cronologico ma anche formale: la commedia antica, infatti, aveva una struttura interna apparentemente fissa, con una coppia di personaggi principali che interagivano con alcuni antagonisti e con un coro di cantanti-danzatori il cui ruolo venne progressivamente ridimensionato nelle epoche successive sino a scomparire. I personaggi erano numerosi, ma interpretati a turno da non più di quattro attori opportunamente mascherati. Ad essi era richiesto di saper cantare, secondo metri e melodie (me/lh) apprese direttamente dall’autore o dal regista dello spettacolo (il dida/skaloj), e di eseguire una forma di recitazione cadenzata dei metri non lirici (principalmente giambi e trochei) detta parakatalogh/. La successione delle sezioni interne alternava parti dialogate in metro giambico o trocaico a sezioni cantate (sia a solo sia corali) caratterizzate da grande creatività metrica, secondo una successione più o meno rigida: prologo (ingresso dei personaggi, generalmente il cosiddetto «eroe comico» e la sua spalla – in greco bwmolo/xoj, all’incirca «buffone» – e comunicazione delle linee generali secondo cui la vicenda si sarebbe svolta); parodo (ingresso del coro); agone (confronto tra i due personaggi principali secondo uno schema metrico ricorrente, dominato dalla cosiddetta sizigia epirrematica, cioè dall’alternanza simmetrica tra parti cantate e altre recitate1); parabasi (una articolata sezione corale, sempre fondata sulla sizigia epirrematica, in cui il coro, a volte abbandonando la finzione scenica, proponeva riflessioni che si estendevano alla poesia o alla politica2); esodo (uscita del coro, generalmente dopo uno o più episodi in trimetri giambici). Le norme 1 La struttura metrica dell’agone è propriamente la seguente: un canto (w)|dh/) introduce il confronto; segue il cosiddetto katakeleusmo/j, una esortazione del corifeo ad uno dei contendenti. Questi recita il primo e)pi/rrhma, una sezione, generalmente in tetrametri trocaici, cui può far seguito una sorta di rapida chiusura cantata che suggella il primo intervento. Lo schema si ripete per il secondo contendente e la contesa è chiusa da una sfragi/j (un «sigillo») che indica il vincitore del confronto stesso. Tale struttura, peraltro, può anche presentare modifiche o risultare incompleta. 2 La parabasi fu studiata con attenzione sin dall’antichità. Già Efestione (p. 72, 11 Consbr.), ad esempio, la identificava come una delle sezioni fondamentali della commedia, distinguendo con chiarezza le sette parti di cui era composta: compositive del genere prevedevano che la vicenda si concludesse sempre lietamente e parrebbe di poter affermare che, almeno nei drammi più antichi, era inderogabilmente prevista una lunga scena di festa e banchetto che sanciva la «vittoria» dell’eroe comico. Oltre ad una scelta delle commedie aristofanesche sopravvivono numerosi frammenti dei comici minori del medesimo periodo; raramente l’estensione del testo conservato, generalmente di tradizione indiretta, cioè citato brevemente da altri autori, permette di giudicare compiutamente gli aspetti relativi alla struttura formale del passo (è difficile cioè affermare se si tratti di una porzione di parodo, o parabasi, o agone, ecc.); ciò non di meno alcuni apporti papiracei relativi ad Eupoli e Cratino sembrano mostrare una certa libertà nei confronti della struttura-base rispetto all’autore a noi meglio noto. II. Il contesto religioso del rito teatrale Il contesto in cui la produzione comica era portata in scena era quello religioso delle due principali festività dionisiache di Atene: le Grandi Dionisie, celebrate nel mese di Elafebolione (tra marzo e aprile) e abitualmente frequentate anche da non ateniesi, e le Lenee, nel mese di Gamelione (tra gennaio e febbraio), che costituivano certamente un evento riservato più specificamente ai cittadini. Entrambe erano caratterizzate da agoni teatrali: i più importanti autori di tragedie e commedie vi si sfidavano annualmente per ottenere la vittoria assegnata da una giuria popolare. La tragedia vi aveva parte predominante (anche se per le Lenee la questione rimane incerta) ma gli agoni comici si guadagnarono comunque un posto significativo con il confronto tra cinque commedie, ridotte probabilmente a tre nel corso della guerra del Peloponneso. La connotazione dionisiaca, caratterizzata da sfrenatezza e perdita di inibizioni, fu certamente alla base del facile ricorso all’attacco personale e talvolta scurrile rintracciabile nella commedia antica. L’evento teatrale, tuttavia, svolgendosi nell’ambito di un contesto religioso, era vissuto dallo spettatore come un rito in se stesso, celebrato in uno spazio – il teatro – percepito come sacro. La comunità ateniese vi prendeva parte con il massimo coinvolgimento, praticamente senza rilevanti distinzioni tra classi sociali, soprattutto dopo che Pericle stabilì l’erogazione di un contributo statale perché tutti, compresi donne e bambini, potessero pagare il prezzo del biglietto. Come sintetizzato da Giuseppe Mastromarco, uno dei massimi studiosi italiani di Aristofane, «gli agoni dionisiaci rappresentavano una delle manifestazioni ideologicamente più significative della vita comunitaria della polis» e «il teatro si configurava come lo spazio privilegiato della mediazione del consenso» di chi si occupava di politica3. III. Aristofane: produzione e perdita Sulla vita del poeta le testimonianze non sono né ampie né sicure. Abbiamo una biografia antica, contenuta nel Codice Marciano 474, che riporta molti dati di origine autoschediastica, cioè desunti dalle opere. Una seconda biografia, detta Novati dal nome dello studioso che la pubblicò per primo, è utile soprattutto perché contiene un affidabile elenco delle commedie del poeta. Ad esse si aggiunge la tradizione scoliografica, costituita da una silloge stratificata proveniente dai numerosi commenti testuali sviluppati nei secoli in margine al testo, a partire dalla grande stagione della filologia alessandrina4. komma/tion; para/basij propriamente detta, in cui il coro «avanzava» o «sfilava» (gr. parabai/nein) rivolgendo agli spettatori le opinioni del poeta in modo più diretto: la sezione nota anche come a)na/paistoi, dato il metro ricorrente; makro/n o pni=goj (un «soffocamento», cioè una breve sezione eseguita molto rapidamente senza mai riprendere fiato); w) | d h/ ;e) p i/ r rhma; a) n tw| d h/ ; a) n tepi/ r rhma. Alcune commedie di Aristofane ne hanno una seconda, più ridotta (Cavalieri, Nuvole, Vespe, Pace, Uccelli) nella parte finale del dramma; negli ultimi anni della carriera del comico, all’opposto, la parabasi tende ad essere ridotta (Lisistrata, Rane) o a mancare del tutto (Ecclesiazuse e Pluto). 3 G. Mastromarco, Introduzione ad Aristofane, Roma-Bari 20066, pp. 6; 8. 4 La cronologia delle rappresentazioni fu codificata dalla scuola di Aristotele, che si servì delle iscrizioni conservate ad Atene, in parte note anche a noi (cfr. IG II 2318; 2319-23). Il primo ad occuparsi in qualche modo del testo di Aristofane sarebbe stato il poeta Licofrone, autore di un peri_ kwmw|di/aj. Dopo di lui mette conto menzionare almeno Callimaco, Eratostene di Cirene (soprattutto, sembra, per questioni di cronologia), Aristofane di Bisanzio (autore di interventi sulla colometria e sul testo e forse di una edizione critica di Aristofane comico), Callistrato detto «aristofaneo», allievo del precedente e Aristarco di Samotracia (certamente attivo come commentatore, mentre meno sicura è l’esistenza di una sua edizione). Esistettero personalità rilevanti anche in epoca imperiale, come Didimo detto - www.loescher.it/mediaclassica - 2 In linea di massima si può concordare sul fatto che Aristofane, figlio di un Filippo, sia nato ad Atene, nel demo di Cidatene (lo stesso del detestato politico Cleone) tra il 445 e il 440 a.C. Certa è la data dell’esordio ufficiale, avvenuto nel 427 a.C. probabilmente alle Lenee con i perduti Banchettanti (Daitalh=j5), ma è probabile un’attività precedente sotto altro nome, dovuta forse alla troppo giovane età. Sappiamo con certezza della rivalità che lo contrappose ad altri poeti, in particolare ad Eupoli: è Cratino (fr. incertae fabulae 213 K.-A.) a riferire che Aristofane aveva fatto ricorso alla collaborazione dell’altro per la stesura dei Cavalieri. Aristofane, dal canto suo, accusò Eupoli di aver imitato i Cavalieri per scrivere il Maricante e la reazione del più giovane Eupoli non si fece attendere (cfr. Eupol. fr. 89 K.-A., tratto dai Battezzatori). Non conosciamo la data della morte di Aristofane che è certamente posteriore al 388, anno in cui andò in scena l’ultima commedia, il Pluto, e che può forse essere collocata due anni dopo, intorno al 386, in quanto è noto che il poeta affidò al figlio Ararote la regia di due commedie successive al Pluto. Stando alle fonti a disposizione, Aristofane sarebbe stato l’autore di oltre 40 drammi, un numero abbastanza elevato se rapportato ai titoli noti di autori coevi. Ci sono pochi dubbi che tutta la produzione aristofanesca fosse conservati presso la biblioteca di Alessandria e che su di essa si esercitò la dottrina di grandi personalità. Successivamente, anche se non è semplice indicare una datazione precisa, come avvenne in generale per tutti i poeti scenici greci, furono operate scelte antologiche che permisero la sopravvivenza di undici commedie intere. Un solo manoscritto le conserva tutte (il Ravennate 429, del X sec.), mentre la maggioranza dei codici contiene una scelta ben più ridotta, codificata assai più tardi: la cosiddetta «triade bizantina», costituita da Pluto, Nuvole e Rane. Grazie alle didascalie contenute nei principali manoscritti, che rielaborano i dati risalenti alla tradizione alessandrina, conosciamo datazione, festival cui parteciparono e piazzamento finale di molti titoli, che devono essere cronologicamente ordinati come segue: 1. Acarnesi ('Axarnh=j, Lenee del 425 a.C.: primo premio); 2. Cavalieri ( 9Ipph=j, Lenee del 424: primo premio); 3. Nuvole (Nefe/lai, Dionisie del 423: terzo posto); 4. Vespe (Sfh=kej, Lenee del 422: secondo posto); 5. Pace (Ei0rh/nh, Dionisie del 421: secondo posto); 6. Uccelli ( 1Orniqej: Dionisie del 414: secondo posto); 7. Lisistrata (Lusistra/th, probabilmente alle Lenee del 411: non ne conosciamo l’esito); 8. Tesmoforiazuse (Qesmoforiazou/sai, ossia «Donne alle feste delle Tesmoforie», celebrate in onore di Demetra, Dionisie del 411: non ne conosciamo l’esito); 9. Rane (Ba/traxoi, Lenee del 405: primo premio); 10. Ecclesiazusae ('Ekklhsiazou/sai, ossia «Donne all’assemblea», forse 392: non sappiamo a quale festival e con quale esito); 11. Pluto (Plou=toj, 388; non sappiamo a quale festival e con quale esito). Abbiamo poi un numero elevato di frammenti (oltre 900), per lo più di tradizione indiretta, per un totale di circa 25 commedie. Di alcune di esse, come i Banchettanti, è stato possibile tentare una ricostruzione relativamente verosimile6. IV. Temi e problemi Le linee fondanti delle trame sono ravvisabili nei tentativi che il protagonista mette in opera per la realizzazione di un progetto più o meno fantastico: ad esempio la stipula della pace in un momento in cui la realtà è pesantemente condizionata dalla guerra o una qualche forma di evasione dal contesto ateniese, con la creazione di realtà alternative tra gli uccelli, nel regno dei morti, in una città dove comandano le donne, ecc. Una componente ineludibile dell’archaia è poi il cosiddetto o)nomasti\ kwmw|dei=n, cioè l’attacco personale nominale al politico o al potente di turno, che si esprime a volte con inaudita volgarità. Calcentero, attivo all’epoca dl’imperatore Claudio, e Simmaco, cui alcuni attribuiscono la selezione antologica dei poeti scenici, avvenuta forse intorno al 100 d.C. 5 Aristofane utilizza per le sezioni dialogate un attico puro, in molti casi certamente accostabile alla lingua parlata. In questo titolo, come nei successivi, oltre che in molti punti del testo, la tradizione, generalmente accolta dagli editori, attesta il ricorso al nominativo plurale in –h=j, tipicamente attico, anziché in –ei=j. 6 Cfr. Aristofane, Banchettanti (Daitalh=j). I frammenti, a cura di A.C. Cassio, Pisa 1977. - www.loescher.it/mediaclassica - 3 Con ampio margine di approssimazione si possono inoltre individuare nei drammi di Aristofane alcuni nuclei dominanti attorno ai quali riunire, per comodità espositiva, le commedie conservate. Il quadro storico generale è certamente importante per la comprensione dell’intera produzione di Aristofane, che comincia a svilupparsi nei primi anni della guerra del Peloponneso e mostra la volontà, da parte dell’autore, di attaccare causticamente alcune figure della politica contemporanea, su tutti il demagogo Cleone, presentato come un vile approfittatore della dabbenaggine popolare. I duri anni di guerra, le cui sorti saranno per Atene in costante peggioramento, spingono Aristofane a confrontarsi con la conseguente decadenza della società, la legittima volontà di evasione dai problemi della realtà, le implicazioni etiche di chi vive ad Atene nel periodo che condurrà alla sconfitta militare. I riferimenti esplicitamente politici sono ovviamente centrali in una società strutturata come democrazia diretta; a lungo la critica ha ravvisato nei costanti riferimenti polemici di Aristofane verso scelte o personalità politiche della polis una sorta di «impegno» attivo dell’intellettuale militante: non è mancato chi ha visto in tal senso in Aristofane addirittura la possibilità di garantire l’espressione delle minoranze politiche. Tuttavia, è probabilmente errato dimenticare che nella commedia entrano in gioco fenomeni rituali come quello della cosiddetta «carnevalizzazione della letteratura», ossia la libertà – concessa dal contesto dionisiaco – di eludere, almeno a parole e nella rappresentazione scenica, le norme della vita quotidiana. L’o)nomasti\ kwmw|dei=n esorcizzava, per così dire, l’ostilità diffusa contro Cleone annullando le tensioni sociali in un riso liberatorio di natura soprattutto rituale: se l’aspra polemica contro il demagogo garantì un entusiastico successo ai Cavalieri, non va dimenticato che poco tempo dopo il medesimo Cleone fu altrettanto entusiasticamente eletto stratega dagli stessi ateniesi. I numerosi temi affrontati dal poeta, in ogni caso, si intrecciano tra loro: nessuna commedia è monoliticamente fondata su un’unica componente. La polemica contro Cleone, ad esempio, è dominante eppure non esclusiva negli Acarnesi e nei Cavalieri. Una dura critica al demagogo compare anche nelle Vespe che, tuttavia, stigmatizzando l’esagerata inclinazione degli Ateniesi per i processi e le cause legali, si propongono anche come denuncia della decadenza della società ateniese e sono accostabili, in questo senso, alle Nuvole, in cui si criticano le conseguenze del dominio della sofistica. Istanze politiche sono alla base anche di testi come la Pace, in cui si manifesta prepotente la volontà di far cessare il conflitto contro Sparta, ma la strada prescelta è quella del disimpegno individuale, come accade anche negli Uccelli e, anni dopo, nel Pluto. La guerra, dunque la situazione politica di Atene, è sullo sfondo anche della Lisitrata che, tuttavia, offre anche il più folgorante esempio di «mondo alla rovescia» in cui, per paradosso, sono le donne a determinare le sorti della città: lo stesso espediente (quello di una «città delle donne» ante litteram) si ritrova nelle Ecclesiause e nelle Tesmoforiazuse, ma quest’ultima prende le mosse da un’aspra polemica contro la poesia e la moralità di Euripide e si può collocare anche tra i drammi che affrontano la riflessione sulla poetica, la poesia e le sue implicazioni etiche, così come accade principalmente nelle Rane. Proprio queste ultime, tuttavia, recuperano situazioni e personaggi, quelli della mitologia, frequentemente utilizzati da altri commediografi (Cratino e Ferecrate, ad esempio) ma che Aristofane aveva evitato in opere precedenti. Cautela nell’intendere con eccessivo intellettualismo e rigida serietà quanto Aristofane scrive, inoltre, è suggerita dalla natura stessa del genere che egli pratica: la commedia, in aperta opposizione con quella che la fruizione cinquecentesca di Aristotele chiamerà l’«unità di azione», è ricchissima di episodi e personaggi secondari, nonché di vere e proprie «scenette» non indispensabili allo svolgimento della trama. Vi ha peso cioè l’effetto comico tout-court, con l’ostentazione di una inesausta creatività linguistica: calembours, doppi sensi, parodia degli accenti stranieri o, per un attimo soltanto, di altri generi letterari7 o, ancora, situazioni al limite dello slapstick, baruffe, non-senses sono spesso inseriti essenzialmente perché fanno ridere, per il gusto di farlo e di dimostrare la versatilità propria e degli attori8. 7 Aristofane fu maestro nell’arte di ricreare sia parodicamente sia «seriamente» lo stile altrui. Il vecchio Cratino, apprezzando la capacità di «rifare Euripide» alla propria maniera, lo disse in grado di eu)ripidaristofani/zein (Cratin. incertae fabulae fr. 342 K.-A.), ma sono numerosi anche gli esempi di ricorso al linguaggio epico-rapsodico. Occorre però precisare che cosa si intende qui: un conto, infatti, è ricreare lo stile altrui con un criterio «artistico», come per esempio nel criticare Euripide nelle Tesmoforiazuse o nelle Rane; un altro è prendersi la libertà di variare repentinamente il registro linguistico dei personaggi con l’inserimento di un singolo verso paratragico o paraepico al solo scopo di strappare la risata. 8 Questo aspetto, nell’amplissima messe di studi sul teatro comico attico, è tutt’oggi rimasto un po’ in ombra: eppure la performance degli attori era certamente determinante per vincere l’agone comico. È indubbio che un uomo di teatro esperto come Aristofane sapesse e volesse costruire i propri testi anche per esaltare le doti dei suoi interpreti. A riprova di ciò è l’aneddoto relativo ad una «papera» sfuggita all’attore Egeloco durante la rappresentazione dell’Oreste di - www.loescher.it/mediaclassica - 4 Quale fosse il reale impatto sulla società delle critiche mosse dalla commedia è difficile dire: tanto per fare un esempio, è vero, come lascia intendere Platone (Apologia di Socrate 19 b-c), che Socrate fu condannato anche a causa di come era stato dipinto nelle Nuvole o, piuttosto, Aristofane aveva saputo intercettare un sentimento di ostilità già diffuso? Non c’è dubbio che l’eccezionale libertà del genere incorse in restrizioni di natura censoria in almeno due circostanze (tra il 440 e il 437, con il decreto detto di Morichide e nel 415/14, con quello di Siracosio) in cui furono posti limiti all’o)nomasti\ kwmw|dei=n. Neppure potrà essere negato che la cassa di risonanza offerta dalla scena teatrale avesse un peso sull’opinione pubblica, ma ancora una volta sarà prudente respingere l’idea di un Aristofane essenzialmente creatore o distruttore di consenso politico. V. Le commedie: qualche esempio di «riso alla greca»9 Letture dagli Acarnesi Il contadino ateniese Diceopoli (Dikaio/polij, il «cittadino giusto»), stanco di vedere i raccolti distrutti dalla guerra contro Sparta, si reca nella Pnice per intervenire in assemblea e proporre una tregua. Giunge nel consesso una ambasceria di ritorno dalla Persia e appare chiaro che gli ambasciatori hanno avuto cura solo di scialare il denaro assegnato per garantirsi agi e sollazzi. Ecco un breve estratto della scena (vv. 65-82), contenuta nel prologo, interamente in trimetri giambici; si tratta di una struttura drammatica in qualche modo tipica della scena aristofanesca: ai vaniloqui conditi di esotismi dell’ambasciatore, in cui fanno peraltro capolino inattese scurrilità, si contrappongono i commenti amari e pragmatici di Diceopoli, che presto evolveranno nella matura presa di posizione contro una guerra che non porta frutto alcuno. Diceopoli ricorre ad una esclamazione paratragica per designare la città di Atene (v. 75), ma sa mutare bruscamente registro, come dimostrato dalla pesante considerazione riservata ai politici ateniesi (v. 79). Il citato arcontato di Eutimene (v. 67) ebbe luogo ben undici anni prima: l’ambasceria è stata dunque la causa di uno sperpero di denaro incredibilmente prolungato nel tempo: presbu/j: e)pe/myaq’ h(ma=j w(j basile/a to_n me/gan misqo_n fe/rontaj du/o draxma_j th=j h(me/raj e)p’ Eu)qume/nouj a)/rxontoj. Dikaio/polij: oi1moi tw=n draxmw=n. pr. kai_ dh=t’ e)truxo/mesqa tw=n Kau+stri/wn pedi/wn o(doiplanou=ntej e)skhnhme/noi, e)f’a(rmamacw=n malqakw=j katakei/menoi, a)pollu/menoi Dik. sfo/dra ga_r e)sw|zo/mhn e)gw_ para_ th_n e)/palcin e)n forutw=| katakei/menoj. pr. cenizo/menoi de_ pro/j bi/an e)pi/nomen e)c u(ali/nwn e)kpwma/twn kai_ xrusi/dwn a)/kraton oi]non h(du/n. Dik. w] Kranaa_ po/lij, a]r’ ai)sqa/nei to_n kata/gelwn tw=n pre/sbewn; 65 70 75 Euripide (408 a.C.): l’episodio, capace da solo di guastare la rappresentazione, destò tale e tanta sensazione che veniva ricordato spesso (cfr. Aristoph. Ran. 303; Stratti frr. 1 e 63 K.-A.). 9 La definizione è tratta da un fortunato volume che Umberto Albini ha dedicato ai meccanismi della comicità nella commedia greca (Riso alla greca. Aristofane o la fabbrica del comico, Milano 1997). La scelta delle letture presentate qui, con minor ambizione, si è semplicemente orientata nella direzione di illustrare alcune situazioni divertenti anche per il lettore moderno. Tutte le traduzioni, con i loro limiti, sono di chi scrive. Le edizioni utilizzate sono quelle in forma elettronica disponibili all’url http://www.tlg.uci.edu/, e cioè: quello tradizionale di V. Coulon (Aristophane. Texte établi par Victor Coulon et traduit par Hilaire van Daele, Les belles letters, Paris 1962-1964, 5 voll.) per Acarnesi, Lisistrata e Rane; l’edizione di Dover per le Nuvole (K.J. Dover, Aristophanes. Clouds, Clarendon Press, Oxford 1968, rist. 1970) e quella di MacDowell per le Vespe (D.M. MacDowell, Aristophanes. Wasps, Clarendon Press, Oxford 1971). - www.loescher.it/mediaclassica - 5 pr. Dik. pr. oi( ba/rbaroi ga_r a!ndraj h(gou=ntai mo/nouj tou=j plei=sta duname/noj fagei=n te kai_ piei=n. h(mei=j de_ laikasta/j te kai_ katapu/gonaj. e!tei teta/rtw| d’ei)j ta_ basi/lei’ h!lqomen a)ll’ ei)j a)po/paton w!xeto stratia_n labw&n, ka!xezen o)ktw_ mh=naj e)pi_ xrusw=n o)rw=n. 80 Ambasciatore Ci inviaste presso il Gran Re con la paga di due dracme al giorno all’epoca dell’arcontato di Eutimene… Diceopoli Povere dracme! Amb. …e davvero ci logoravamo errando per le pianure del Caistrio, morendo sui carriaggi, mollemente adagiati… Dic. Ah, davvero me la cavavo io, adagiato… nella trincea in mezzo al fango!… Amb. E, ricevuti come ospiti, a forza dovevamo bere da coppe di cristallo e d’oro, puro, un dolce vino. Dic. Di Cranao cittade! Ma non ti accorgi che ti sfottono, gli ambasciatori? Amb. I barbari, infatti, ritengono uomini solo quelli capaci di mangiare e bere moltissimo Dic. Noi, invece, i ciucciapiselli e i culattoni! Amb. E poi, al giungere del quarto anno, giungemmo presso il re. Ma lui, con l’esercito, si era ritirato …al cesso E cacò otto mesi sui monti d’oro. Entra in scena poco dopo anche un fasullo persiano, dal significativo nome di Pseudartabano (dove è evidente la radice yeud-, che indica il falso), cui Aristofane attribuisce parole in una sorta di grammelot privo di reale senso ma tale da «suonare persiano». Non riuscendo a persuadere l’assemblea Diceopoli invia l’ateniese Anfiteo (lett. «il semidio») a Sparta per stringere un accordo privato: una tregua valida soltanto per lui e la famiglia. Questi ritorna poco dopo con tre proposte di tregua, comicamente simboleggiate da altrettante boccette, ma è inseguito dagli abitanti del demo di Acarne, che vorrebbero continuare a combattere. Diceopoli sceglie la tregua più duratura, che ha sapore migliore; il coro di Acarnesi tenta allora di lapidarlo. Egli riesce tuttavia a sottrarsi alla loro furia e si reca da Euripide per imparare come far valere le proprie ragioni nel pubblico dibattito grazie alla tecnica oratoria. Nel dialogo tra Diceopoli ed Euripide Aristofane introduce alcuni elementi tipici della deformazione comica presente nell’archaia. Il poeta tragico riceve considerazione solo come sofista in possesso di tecniche capaci di confondere il retto giudizio altrui. Egli viene presentato in scena vestito di stracci: un’allusione al fatto che spesso Euripide ritraeva personaggi caduti in rovina. In particolare si menzionerà il Telefo, una tragedia andata in scena anni prima, che suggerisce a Diceopoli il modo più efficace di ottenere attenzione: l’unica cosa che Euripide può insegnare, infatti, è come assumere un aspetto miserevole (agendo solo sull’apparenza) e commuovere così gli interlocutori, indipendentemente dalla validità delle argomentazioni (vv. 410-420): Dik. Eu)ripi/dh. Eu)ripi/dhj: Dik. ti/ le/lakaj; a)naba/dhn poei=j e)co_n kataba/dhn. ou)k e)to_j xwlou_j poei=j a)ta_r ti/ ta_ r(a/ki’ e)k tragw|di/aj e!xeij, - www.loescher.it/mediaclassica - 410 6 Eu). Dik. Dic. Eu. Dic. Eu. Dic. e)sqh=t’ e)leinh/n; ou)k e)to_j ptwxou_j poei=j. a)ll’ a)ntibolw= pro_j tw=n gona/twn s’ Eu)ripi/dh, do/j moi r(a/kio/n ti tou= palaiou= dra/matoj. dei= ga/r me le/cai tw|= xorw|= r(h=sin makra/n. au(/th de_ qa/naton, h)_n kakw=j le/cw, fe/rei. Ta_ poi=a tru/xh; mw=n e)n oi[j Oi)neu/j o(di_ o( du/spotmoj geraio_j h)gwni/zeto; ou)k Oi9ne/wj h]n a)ll’e)/t’ a)qliwte/rou. 415 420 Euripide! Che hai cianciato? Tu componi coi piedi in alto anche se potresti tenerli in basso: non è strano che tu faccia poi degli zoppi… Ma perché hai addosso questi stracci da tragedia, miserevole veste? Non è strano che tu faccia poi dei poveracci… Ti scongiuro, Euripide, per le tue ginocchia, dammi uno straccetto del tuo vecchio dramma: bisogna infatti che io faccia al coro un lungo discorso e se lo dirò male, mi toccherà la morte. Quale stracciume? Forse quello in cui scese in gara questo qui, (prende in mano il rotolo papiraceo contenente la tragedia), Eneo, l’infelice vecchio? Non era quello di Eneo, ma di un altro ancora più disgraziato. Euripide propone, in sequenza, l’abito di scena di Fenice, quindi quello di Filottete, infine quello di Bellerofonte, tutti provenienti da altrettante tragedie e tutti rifiutati da Diceopoli. Alla fine viene offerto il cencioso costume del Telefo, andato in scena nel 438 (vv. 430-439; 442-444): Eu). Dik. Eu. Dik. oi]d’ a)/ndra: Muso_n Th/lefon nai/, Th/lefon. tou/tou do/j, a)ntibolw= se/, moi ta_ spa/rgana. w] pai=, do_j au)tw|= Thle/fou r(akw/mata. Kei=tai d’a)/nwqen tw=n Questei/wn r(akw=n metacu_ tw=n )Inou=j. )Idou/, tauti/ labe/. w] Zeu= dio/pta kai_ kato/pta pantaxh|=. e)nskeua/sasqai/ m’ oi[on a)qliw/taton. Eu)ripi/dh, ‘peidh/per e)xari/sw tadi/, ka)kei=na/ moi do_j ta)ko/luqa tw=n r(akw=n, to_ pili/dion peri_ th=j kefalh_n to_ Mu/sion. (…) tou_j me_n qeata_j ei)de/nai m’ o#j ei)m’ e)gw/, tou_j d’ au] xoreuta_j h)liqi/ouj paresta/nai, o(/pwj a2n au)tou_j r(hmati/oij skimali/sw. 430 435 Eu. Dic. Ho capito che uomo vuoi: Telefo di Misia. Sì: Telefo. Dammi le fasce di costui, ti scongiuro! Eu. (a un servo) Ragazzo! Dagli gli stracci di Telefo: stanno sopra gli stracci di Tieste, in mezzo a quelli di Ino. (a Diceopoli) Ecco, prendi qui. Dic. O Zeus che vedi ovunque dall’alto e dal basso, sistemami nel modo più miserevole. Euripide, dato che mi hai fatto dono di questa roba, dammi anche le cose che si accompagnano a questi stracci: - www.loescher.it/mediaclassica - 7 il berretto misio da mettere intorno alla testa. (…) (occorre) che gli spettatori sappiano chi sono io, e che i coreuti stiano fermi come sciocchi, affinché io gli tasti le chiappe con certe paroline… Nei versi successivi Diceopoli ottiene da Euripide tutta un’altra serie di oggetti (un bastone da mendicante, una lucerna mezza bruciata, una ciotola e un pentolino malandati) necessari a completare il travestimento da efficace oratore. La scena si chiude con un’ultima richiesta, quella di avere della verdura, con un’allusione alla diceria, diffusa dai comici, secondo cui il poeta sarebbe stato figlio di un’erbivendola. Offeso dalle ultime richieste, Euripide esce di scena. Vestito dei cenci di Telefo, Diceopoli ritorna dagli Acarnesi ed espone le proprie ragioni, criticando la politica periclea. L’agone della commedia contrappone Diceopoli allo stratego Lamaco, che espone le ragioni dei guerrafondai. Ad avere la meglio è Diceopoli che delimita i confini di un mercato suo personale: un luogo libero in cui vige la tregua con Sparta. Ha luogo la parabasi della commedia, in cui il coro critica aspramente la politica di Cleone. Giunge quindi presso Diceopoli una teoria di personaggi e in seguito, mentre egli prepara un abbondante banchetto, un araldo comunica a Lamaco che deve partire per la guerra, e a Diceopoli che è invitato a pranzo dal sacerdote di Dioniso. Lamaco, disperato per non poter gustare il banchetto, è costretto ad uscire di scena, mentre Diceopoli, pronto per il festino conclusivo, lo sbeffeggia. Alla fine della commedia Lamaco torna dalla guerra malandato e tutto sporco e Diceopoli, di ritorno dal banchetto in compagnia di due etere, lo deride ancora una volta. Letture dalle Nuvole La commedia, andata in scena nel 423 a.C., giunse solo terza e ci sono testimonianze sicure che Aristofane, ritenendo iniquo il verdetto, attese ad una rielaborazione del testo. Quello che leggiamo oggi sembrerebbe contaminare le due versioni: se la parabasi allude all’insuccesso delle prime Nuvole, in un altro passo si allude alla morte di Cleone (v. 550), mentre altrove (vv. 581-94) si presuppone che il politico sia ancora in vita. Si scorgono dunque i segni di una non definitiva rielaborazione. È poi certo che la biblioteca di Alessandria conservasse entrambe le versioni come due testi distinti e non mancano autori posteriori che citano esplicitamente porzioni delle Nuvole I assenti nella commedia conservata per intero. Quanto le Nuvole II si discostassero dalla commedia che fallì nel 423 è difficile dire, ma la critica è orientata a ipotizzare una rielaborazione piuttosto radicale. L’anziano contadino Strepsiade lamenta i debiti contratti dal figlio Fidippide e pensa di inviarlo alla scuola di Socrate, dove si insegna come un discorso «debole» possa imporsi su quello più «forte» grazie a cavilli e sofismi. Incapace tuttavia di convincere il figlio a recarsi presso il frontisth/rion (il «pensatoio») di Socrate, Strepsiade, perseguitato dai creditori, si risolve di andarci personalmente. Un discepolo gli fornisce alcuni esempi delle questioni trattate alla scuola del maestro, come il modo di fare il calco delle orme di una pulce: la filosofia socratica, dunque, è presentata nella commedia alla stessa stregua della peggiore sofistica. Quando Strepsiade è finalmente ammesso alla presenza di Socrate, questi appare appeso in alto dentro una cesta mentre contempla il cielo. Il filosofo accetta di istruire il vecchio e invoca l’arrivo delle Nuvole che costituiscono il coro rappresentando la mutevolezza e la sottigliezza delle speculazioni filosofiche. Socrate e Strepsiade discutono sull’esistenza degli dei, quindi la «lezione» si rivolge al genere delle parole, mettendo in burla uno degli interessi più diffusi tra i sofisti (vv. 658-669): Swkra/thj: a)ll’ e3tera dei= se pro&tera tou&tou manqa&nein, tw~n tetrapo&dwn a3tt’ e0stin o)rqw~j a1rrena. Streyi/adhj: a)ll’ oi]d’ e1gwge ta1rren’, ei0 mh_ mai/nomai: krio&j, tra&goj, tau~roj, ku&wn, a)lektruw&n. Sw. o(ra|~j a4 pa&sxeij; th&n te qh&leian kalei=j a)lektruo&na kata_ tau)to_ kai\ to_n a1rrena. - www.loescher.it/mediaclassica - 660 8 Str. Sw. Str. Sw. Str. pw~j dh&, fe/re; pw~j; a)lektruw_n ka)lektruw&n. nh_ to_n Poseidw~. nu~n de\ pw~j me xrh_ kalei=n; a)lektru&ainan, to_n d’ e3teron a)le/ktora. a)lektru&ainan; eu} ge nh_ to_n 0Ae/ra: w3st’ a)nti\ tou&tou tou~ dida&gmatoj mo&nou dialfitw&sw sou ku&klw| th_n ka&rdopon. 665 Socrate Bisogna che tu impari altro, prima di questo [cioè il discorso «debole»]: quali tra i quadrupedi sono correttamente maschili. Strepsiade Ma io li so, i maschili, non sono pazzo: montone, caprone, toro, cane, pollo. So. Vedi che cosa ti capita? Chiami la femmina ‘pollo’ nello stesso modo del maschio. Str. Come, dimmi un po’? So. Come? Pollo il maschio e pollo la femmina. Str. Per Posidone! E allora come devo chiamarli? So. Pollessa. E l’altro pollone. Str. Pollessa? Bene davvero, per l’Aere! Anzi: per questo tuo insegnamento ti riempirò rasa rasa la madia. Il dialogo prosegue; l’ultimo riferimento, tipico, è alla notoria omosessualità del personaggio citato che ha per di più un nome dalla desinenza in – a, apparentemente femminile (vv. 681-693): Sw. Str. Sw. Str. Sw. Str. Sw. Str. Sw. Str. Sw. Str. So. Str. So. Str. So. Str. So. Str. e1ti de/ ge peri\ tw~n o)noma&twn maqei=n se dei=, a3tt’ a1rren’ e0sti/n, a3tta d’ au)tw~n qh&lea. a)ll’ oi]d’ e1gwg’ a4 qh&le’ e0sti/n. ei0pe\ dh&. Lu&silla, Fi/linna, Kleitago&ra, Dhmhtri/a. a1rrena de\ poi=a tw~n o)noma&twn; muri/a. Filo&cenoj, Melhsi/aj, 'Ameini/aj. a)ll’ w} po&nhre, tau~ta& g’ e1st’ ou)k a1rrena. ou)k a1rren’ u(mi=n e0sti/n; ou)damw~j g’, e0pei\ pw~j g’ a2n kale/seiaj e0ntuxw_n 0Ameini/a|; o3pwj a1n; w(di/: deu~ro deu~r’, 0Ameini/a. o(ra|~j; gunai=ka th_n 0Ameini/an kalei=j. ou1koun dikai/wj, h3tij ou) strateu&etai; a)ta_r ti/ tau~q’ a4 pa&ntej i1smen manqa&nw; 685 690 Devi ancora imparare sui nomi propri, quali sono maschili e quali femminili Ma lo so quali sono femminili! Di’ un po’. Lisilla, Filinna, Clitagora, Demetria. E i nomi maschili, quali sono? Migliaia: Filosseno, Melesia, Aminia… Ma no, disgraziato: questi non sono maschili! Non sono maschili per voi? - www.loescher.it/mediaclassica - 9 So. Str. So. Str. Niente affatto. Come lo chiameresti Aminia, incontrandolo? E come? Così: vieni un po’ qui, Aminia! Vedi? Chiami Aminia come una donna. E non faccio bene? Dato che lei non ha fatto il militare? Ma insomma: perché devo imparare quello che sanno tutti? Strepsiade, in definitiva, non riesce a comprendere ciò che gli viene insegnato e viene cacciato dalla scuola. Fidippide, incuriosito dai racconti del padre, decide di andare a sua volta al pensatoio e vi assiste all’agone tra il «Discorso Forte» e il «Discorso Debole», che si impone sul primo. Anche l’agone della commedia merita un approfondimento: la tradizione manoscritta delle Nuvole (codici Ravennate e Veneto, cui si aggiungono i codici di minor rilievo), nell’elencare i personaggi della commedia, indica i due lo/goi con i termini, totalmente fuorvianti, di di/kaioj e a)/dikoj («giusto» e «ingiusto»), ispirati ad una lettura moralistica della commedia. Nel testo si utilizza invece la coppia krei/ttwn / h#ttwn che concentra concetti diversi e più sottili: è vero, come dirà Strepsiade, che il discorso detto krei/ttwn ha il compito di «rovesciare» l’altro ta)/dika le/gwn («dicendo ciò che è ingiusto», v. 884), ma il sistema di valori espressi nella commedia è tutt’altro che solido; nelle intenzioni di Strepsiade, infatti, diviene «giusta» l’argomentazione che gli permetterà di non rifondere il denaro che legittimamente, invece, i creditori esigono da lui. Anche nell’agone la morale è rovesciata: i valori tradizionali messi in campo del discorso krei/ttwn non sono che occasioni per coltivare il vizio. È convenzionale e anzi addirittura mendace la dichiarazione di combattere ta_ di/kaia le/gwn («dicendo il giusto», v. 901). Né la virtù sta dalla parte dell’avversario: a «valori», che sono in realtà vieti luoghi comuni, vengono opposti dal Discorso h#ttwn concetti «nuovi» (cfr. vv. 896, 943) che altro non sono se non trucchi retorici. È vero che l’uso del termine kaino_j può rimandare alla sfera di quelle pericolose innovazioni che hanno corrotto la società, ma questo non rende automaticamente nobili le idee del Discorso krei/ttwn. Il vero significato della coppia krei/ttwn / h#ttwn è allora assai più complesso: da un lato allude ad una valenza morale (il «giusto» conto l’«ingiusto»), ma solo per negarla nei fatti; dall’altro sottolinea l’efficacia «tecnico-retorica» dei contendenti (uno è più ‘forte’ dell’altro indipendentemente dal fatto che dica ta)/dika o ta_ di/kaia); in terzo luogo, infine, esprime un paradosso perché il discorso che viene presentato come ‘vincente’ finirà per perdere e, per di più a causa di una argomentazione non-sense sugli omosessuali. Lo sconfitto sarà anzi prontissimo a ‘saltare sul carro del vincitore’ (v. 1104), a dimostrazione di quanto mendaci fossero i princìpi propugnati in precedenza. Nella parte conclusiva della commedia, dunque, Fidippide apprende l’arte di gabbare l’interlocutore e la applica alle discussioni con il padre. Esasperato e anche picchiato dal figlio durante un litigio, Strepsiade torna al Pensatoio per darlo alle fiamme. Letture dalle Vespe Il vecchio Filocleone (Filokle/wn, «Colui che ama Cleone») è uno dei numerosi giudici chiamati a formare i dieci tribunali ateniesi. Come evidenziato dal nome egli è un sostenitore del demagogo Cleone; questi, con un provvedimento di legge, aveva garantito ai giurati una remunerazione: un gran numero di ateniesi nullatenenti, specie tra gli anziani, finiva per mantenersi in questo modo, emettendo verdetti quasi sempre in linea con le mire politiche dello stesso Cleone. Nel prologo della commedia, tuttavia, due servi, Sosia e Xantia, informano che Filocleone è stato rinchiuso in casa dal figlio Bdelicleone (Bdelukle/wn «Colui che ha schifo di Cleone»). Il coro è costituito dai compagni di tribunale di Filocleone, mascherati da vespe, i cui pungiglioni simboleggiano gli strali di una giustizia persecutoria. Filocleone sostiene l’agone contro il figlio per dimostrare che il ruolo dei compagni nei giudizi è fondamentale per la città di Atene; Bdelicleone vincerà il confronto sostenendone invece l’inutilità poiché i vecchi giurati sono strumentalizzati dai demagoghi. Per accontentare il padre, che rimpiange il proprio ruolo nei tribunali, Bdelicleone ne organizza uno farsesco in casa propria, in cui Filocleone potrà svolgere il compito di giurato: l’imputato è il cane Labete (La/bhj da lamba/ n w, ma anche evocatore del nome di Lachete, lo stratego cui è intitolato l’omonimo dialogo platonico: costui, infatti aveva da poco subito un reale processo per appropriazione indebita durante la prima spedizione mossa dagli Ateniesi in Sicilia nel 427 a.C.). L’accusa contro il cane Labete, reo di aver mangiato un pezzo di formaggio siciliano, è sostenuta da un altro cane, proveniente del demo di Cidatene, lo stesso di Cleone: come a rendere evidente l’asservimento dei processi agli interessi dell’uomo politico. - www.loescher.it/mediaclassica - 10 La scena del processo, qui leggermente ridotta, mostra tutta la sagacia del comico: le accuse contro Labete, infatti, alludono sempre, in filigrana, alla condotta dello stratego Lachete: si noti ad esempio, al v. 911, il conio katesike/lize, letteralmente qualcosa come «si è sicelizzato via» nel senso di «ha fatto sparire», o l’ambivalenza dei vv. 924-925. L’argomentazione dell’accusa tradisce la complicità tra i due: il cane di Cidatene, infatti, lamenta di non aver ottenuto nulla dal furto, e utilizza il fatto in un ragionamento paradossale: chi non aiuta i complici – egli sostiene – non può far del bene alla città (vv. 903-930): Ku/wn au} au. Bdelukle/wn pa&restin. Filoke/wn e3teroj ou{toj au} La&bhj, Bd. a)gaqo&j g’ u(laktei=n Fi. kai\ dialei/xein ta_j xu&traj. Bd. si/ga, ka&qize. su_ d’ a)naba_j kathgo&rei. Fi. fe/re nun, a3ma th&nd’ e0gxea&menoj ka)gw_ r(ofw~. Ku. th~j me\n grafh~j h)kou&saq’ h4n e0graya&mhn, a1ndrej dikastai/, toutoni/. deino&tata ga_r e1rgwn de/drake ka)me\ kai\ to_ r(uppapai=. a)podra_j ga_r e0j th_n gwni/an turo_n polu_n katesike/lize ka)ne/plht’ e0n tw|~ sko&tw|. Fi. nh_ to_n Di/’, a)lla_ dh~lo&j e0st’: e1moige/ toi turou~ ka&kiston a)rti/wj e0nh&rugen o( bdeluro_j ou{toj. Ku. kou) mete/dwk’ ai0tou~nti/ moi. kai/toi ti/j u(ma~j eu} poiei=n dunh&setai, h2n mh& ti ka)moi/ tij proba&llh|, tw|~ kuni/; Fi. ou)de\n mete/dwken ou)de\ tw|~ koinw|~ g’, e0moi/. qermo_j ga_r a(nh_r ou)de\n h{tton th~j fakh~j. Bd. pro_j tw~n qew~n, mh_ prokatagi/gnwsk’, w} pa&ter, pri\n a1n g’ a)kou&sh|j a)mfote/rwn. Fi. a)ll’, w} ‘gaqe/, to_ pra~gma fanero&n e0stin: au)to_ ga_r boa|~. Ku. mh& nun a)fh~te/ g’ au)to&n, w(j o1nt’ au} polu_ kunw~n a(pa&ntwn a1ndra monofagi/staton, o3stij peripleu&saj th_n quei/an e0n ku&klw| e0k tw~n po&lewn to_ ski=ron e0cedh&doken. Fi. e0moi\ de/ g’ ou)k e1st’ ou)de\ th_n u(dri/an pla&sai. Ku. pro_j tau~ta tou~ton kola&sat’ ou) ga_r a1n pote tre/fein du&nait’ a2n mi/a lo&xmh kle/pta du&o, i3na mh_ kekla&ggw dia_ kenh~j a1llwj e0gw&: e0a_n de\ mh&, to_ loipo_n ou) kekla&gcomai. 905 910 915 920 925 930 Il cane di Cidatene (rispondendo all’appello di Bdelicleone) - Bau bau Bdelicleone È presente! Filocleone Questo qui è un altro Labete! Bd. Ma è bravo ad abbaiare… Fi. …e a leccare le padelle! Bd. (al padre) Taci, siediti. (al cane) E tu, sali sulla tribuna e accusalo. Fi. Dài: nel frattempo io mi verso questa [una crema di lenticchie] e me la pappo. Ca. Avete udito l’accusa che abbiamo mosso, o giudici, al qui presente. Le più terribili tra le azioni ha compiuto, sia contro di me, sia contro i marinai. Scappato nell’angolino si è sicelizzato via un sacco di formaggio - www.loescher.it/mediaclassica - 11 Fi. Ca. Fi. Bd. Fi. Ca. Fi. Ca. e se lo è sbafato nell’ombra. Per Zeus! È evidente: mi ha fatto un rutto terribile al formaggio proprio adesso, lo schifoso! Ma con me non ha condiviso nulla, quando glielo ho chiesto. E come potrà uno far del bene a voi se non butta nulla neanche a me, il cane? Nemmeno con me, un uomo pubblico, ha condiviso nulla! È una testa calda: come la crema di lenticchie. Per gli dèi, padre! Non giudicare prima di averli uditi tutti e due! Ma mio buon figliuolo, la questione è palese: parla, anzi grida da sé. Non lo assolvete, dunque, perché è l’uomo più ingordo tra tutti i cani, lui che dopo aver fatto in cerchio il periplo del mortaio ha masticato la crosta… delle città. E io non ne ho più per riparare l’orcio!10 Per questo punìtelo (e infatti una sola siepe non potrebbe nutrire …due ladri11), perché io non abbia per il resto abbaiato invano. E se no non abbaierò più. Bdelicleone prende le difese di Labete (vv. 950-959): Bd. Fi. Bd. Fi. Bd. Bd. Fi. Bd. Fi. Bd. xalepo_n me/n, w} ‘ndrej, e0sti\ diabeblhme/nou u(perapokri/nesqai kuno&j, le/cw d’ o3mwj. a)gaqo_j ga&r e0sti kai\ diw&kei tou_j lu&kouj. kle/pthj me\n ou}n ou{to&j ge kai\ cunwmo&thj. ma_ Di/’, a)ll’ a1risto&j e0sti tw~n nuni\ kunw~n, oi[o&j te polloi=j probati/oij e0festa&nai. ti/ ou}n o1feloj, to_n turo_n ei0 katesqi/ei; o3 ti; sou~ proma&xetai kai\ fula&ttei th_n qu&ran, kai\ ta1ll’ a1risto&j e0stin. ei0 d’ u(fei/leto, su&ggnwqi: kiqari/zein ga_r ou)k e0pi/statai. 950 955 È difficile, o giudici, difendere un cane calunniato, ma parlerò lo stesso. È infatti un buon cane e caccia i lupi. No: è un ladro e un congiurato. Anzi, per Zeus: è il migliore tra i cani d’oggi, capace di sorvegliare molte greggi. E qual è l’utilità se si mangia il formaggio? Quale? Combatte per te, custodisce l’uscio ed è eccellente nel resto. Se ha rubato, perdonalo: non ha imparato a suonar la cetra12. 10 Gioco di parole tra ski=ron, «crosta» e ski=roj «mastice»: l’accusa allude al formaggio ma Filocleone fraintende, pronunciando a parte questo sciocco e distratto commento. 11 Altra battuta di difficile resa: un proverbio affermava che «una sola siepe non può nutrire due pettirossi», da intendersi all’incirca come il nostro «non c’è posto per due galli in un pollaio»: Aristofane lo adatta alla situazione con il ricorso al più classico degli aprosdoketa. 12 Ossia – diremmo noi oggi – non ha potuto studiare. L’allusione dimostra la grande importanza dell’istruzione musicale nell’Atene del V secolo. - www.loescher.it/mediaclassica - 12 Bdelicleone, anche approfittando del fatto che il padre è poco presente a se stesso perché si è abbuffato di crema di lenticchie, cerca di convincerlo ad avere pietà, assolvendo Labete (vv. 985988): Bd. Fi. Bd. ou1koun a)pofeu&gei dh~ta; Bd. Fi. Bd. Non andrà mica assolto? xalepo_n ei0de/nai. i1q’, w} patri/dion, e0pi\ ta_ belti/w tre/pou. thndi\ labw_n th_n yh~fon e0pi\ to_n u3steron mu&saj para|~con ka)po&luson, w} pa&ter. 985 Difficile saperlo. Va’, papino, vòlgiti all’urna della sorte migliore: prendi questo voto, chiudi gli occhi e gettalo nella seconda urna. Liberalo, padre. Il vecchio non pare rassegnato ad emettere il verdetto di assoluzione, che è per lui del tutto inusuale. Bdelicelone allora lo raggira, facendogli deporre il voto nell’urna sbagliata, così da assolvere l’imputato. C’è chi ha visto nelle ultime parole di Filocleone (ou)de/n ei0m’ a1ra, lett. «non esisto più») un’allusione alla disperazione tipica dei grandi personaggi della tragedia di fronte alle avversità del destino. E in effetti la sua condizione è assimilabile a quella di alcuni eroi tragici: egli, infatti, ha commesso una colpa ma non ne porta responsabilità (vv. 991-997): Fi. Bd. Fi. Bd. Fi. Bd. Fi. Bd. Fi. Fi. Bd. Fi. Bd. Fi. Bd. Fi. Bd. Fi. o3d’ e1sq’ o( pro&teroj; ou{toj. au3th ‘nteuqeni/. e0chpa&thtai ka)pole/luken ou)x e9kw&n. fe/r’ e0cera&sw. pw~j a1r’ h)gwni/smeqa; dei/cein e1oiken. e0kpe/feugaj, w} La&bhj. pa&ter pa&ter, ti/ pe/ponqaj; oi1moi. pou~ ‘sq’ u3dwr; e1paire sauto&n. ei0pe/ nun e0kei=no& moi: o1ntwj a)pe/fuge; nh_ Di/’. ou)de/n ei0m’ a1ra. 995 Questa è la prima? È questa. Ecco: dentro qui. Si è fatto imbrogliare e lo ha assolto senza volere. Su, ora vuota l’urna. Come è finita? Andiamo a vedere. (al cane Labete) L’hai scampata, Labete. (Filocleone si sente male) Padre, padre! Che ti succede? Ahimé! Dov’è dell’acqua? Riprenditi! Dimmi un po’. Davvero l’ha scampata? Sì, per Zeus. Sono finito! Nella parabasi Aristofane accusava i cittadini di non aver compreso la sua arte, facendo ancora riferimento all’insuccesso delle Nuvole. Nella seconda parte del dramma Bdelicleone intende educare il padre ad una vita meno austera: a questo scopo lo conduce ad un banchetto, dove però il vecchio si comporta in modo assai - www.loescher.it/mediaclassica - 13 sconveniente, suscitando risse e sottraendo ai convitati un’avvenente prostituta. Bdelicleone tenta invano di calmare il padre che, nell’euforia generale, torna a casa a fatica. Letture da Lisitrata La commedia fu rappresentata nel 411 a.C., due anni dopo la fine della disastrosa spedizione in Sicilia condotta dagli Ateniesi durante la guerra del Peloponneso. La commedia porta sulla scena l’intraprendente donna ateniese (chiamata significativamente Lusistra/ t h, ossia «colei che scioglie gli eserciti») cui il dramma è intitolato. A lei si deve il tentativo di porre fine alla lunga guerra contro Sparta facendo leva su una delle poche forme di ritorsione che la società rigidamente maschilista concede loro: una sorta di ‘sciopero sessuale’. La scena, tratta dal prologo, è una delle più divertenti della commedia: Lisistrata vi appare come leader naturale, risoluta anche nelle decisioni impegnative; le compagne, all’opposto, sono un campionario dei luoghi comuni che la comicità talora maschilista e grossolana dell’archaia attribuiva al mondo femminile: sono irresolute nonostante le baldanzose dichiarazioni, pronte a sbronzarsi (cfr. v. 114) e, soprattutto, ontologicamente inclini al sesso. Il crescendo con cui Aristofane fa ‘deflagrare’ la scurrilità sul membro virile è un capolavoro di ritmo comico, così come assolutamente efficace e divertente è la reazione delle donne. Che cosa riscatta, dal punto di vista ideologico, una gag come questa? Il fatto che le donne riusciranno davvero a portare ad effetto il piano di Lisistrata e che la paradossale politica bellica regolata da loro riuscirà laddove la grettezza e i particolarismi degli uomini non possono che fallire. Il «mondo alla rovescia» creato da Lisistrata, cioè, guadagnerà alla Grecia la pace (vv. 111-139): Lusistra/th: e)qe/loit’ a2n ou}n, ei0 mhxanh_n eu3roim’ e0gw&, met’ e0mou~ katalu~sai to_n po&lemon; Kleoni/kh: nh_ tw_ qew_ e1gwge/ ta1n, ka2n ei1 me xrei/h tou1gkuklon touti\ kataqei=san e0kpiei=n au)qhmero&n. Murri/nh: e)gw_ de/ g’ a1n, ka2n w(sperei\ yh~ttan dokw~, dou~nai a2n e0mauth~j paratemou~sa qh1misu. Lampitw/: e)gw_n de\ kai/ ka potto_ Tau/+geton a1nw e1lsoim’ o3pa me/lloimi/ g’ ei0ra&nan i0dh~n. Lu. le/goim’ a1n: ou) dei= ga_r kekru&fqai to_n lo&gon. h(mi=n ga&r, w} gunai=kej, ei1per me/llomen a)nagka&sein tou_j a1ndraj ei0rh&nhn a1gein, a)fekte/’ e0sti\ Kl. tou~; fra&son. Lu. poh&set’ ou}n; Kl. poh&somen, ka2n a)poqanei=n h(ma~j de/h|. Lu. a)fekte/a toi/nun e0sti\n h(mi=n tou~ pe/ouj. ti/ moi metastre/fesqe; Poi= badi/zete; au{tai, ti/ moimua~te ka)naneu&ete; ti/ xrw_j te/traptai; ti/ da&kruon katei/betai; poh&set’ h2 ou) poh&set’; h)/ ti/ me/llete; Kl. ou)k a2n poh&saim’, a)ll’ o( po&lemoj e9rpe/tw. Mu. ma_ Di/’ ou)d’ e1gwg’ a1n, a)ll’ o( po&lemoj e9rpe/tw. Lu. tauti\ su_ le/geij, w} yh~tta; kai\ mh_n a1rti ge e1fhsqa sauth~j ka2n paratemei=n qh1misu. Kl. a)/ll’, a1ll’ o3 ti bou&lei. ka1n me xrh|~, dia_ tou~ puro_j e0qe/lw badi/zein. Tou~to ma~llon tou~ pe/ouj: - www.loescher.it/mediaclassica - 115 120 125 130 14 Lu. Mu. Lu. ou)de\n ga_r oi[on, w} fi/lh Lusistra&th. ti/ dai\ su&; ka)gw_ bou&lomai dia_ tou~ puro&j. w] pagkata&pugon qh)me/teron a3pan ge/noj. ou)k e0to_j a)f’ h(mw~n ei0sin ai9 tragw|di/ai: ou)de\n ga&r e0smen plh_n Poseidw~n kai\ ska&fh. 135 Lisistrata: Vorreste, se io trovassi un espediente, far cessare con me la guerra? Cleonice: Per le due dee! Io sì, anche se dovessi impegnarmi questo vestito e bermelo già oggi! Mirrina Anch’io, anche se pure ritenessi di dividermi a metà come una sogliola e di dare una parte di me stessa. Lampitò E io pure in kima al Taigheten antrei per essere sul punto di fetére la pake13. Lis. Posso dirlo: non bisogna nascondere il discorso. Bisogna che noi donne, se vogliamo costringere gli uomini a fare la pace ci teniamo lontane… Cl. Da che cosa? Dicci. Lis. Lo farete? Cl. Lo faremo, anche se dovessimo morire. Lis. Bisogna che ci teniamo lontane dalla fava. Ma… perché vi voltate? Dove andate? Voi, perché mugugnate e scuotete la testa? Perché avete cambiato colore? Perché vi scende una lacrima? Lo farete o non lo farete? O che volete? Cl. Io non potrei farlo. Che la guerra si diffonda! Mir. Neanch’io, per Zeus. Che la guerra si diffonda! Lis. Così parli proprio tu, sogliola? Non hai detto poco fa che ti saresti tagliata in due? Cl. Un’altra cosa, un’altra cosa, quella che vuoi. Se servisse voglio camminare nel fuoco. Anche questo piuttosto che la fava. Non c’è niente come quella, Lisistrata! Lis. (a Mirrina) E tu? Mir. Anch’io voglio camminare nel fuoco. Lis. Ah! veramente la nostra è la razza più svergognata di tutte! Non è strano che con noi ci facciano le tragedie! Non siamo altro che Posidone e la barca14. Nel prosieguo della commedia le donne occupano l’acropoli, sostenute da uno dei due semicori in cui Aristofane ha diviso i coreuti. Esse iniziano a dettare le proprie condizioni, rendendo insostenibile la vita dei mariti che, approfittando delle brevi licenze loro concesse, vengono allettati e sedotti ma lasciati poi senza 13 L’originale greco è un altro esempio dell’abilità mimetica di Aristofane (che, nonostante la difficoltà testuale, è stata preservata dalla tradizione manoscritta): Lampitò è una donna spartana e, di conseguenza, parla «dorico», ossia una lingua fortemente connotata con le tipicità morfologiche di quel dialetto. Seguendo una tradizione abbastanza consolidata nelle tradizioni italiane, si è impiegata qui una caricaturale patina tedesca. La scelta si fonda sull’analogia che può essere istituita tra il popolo tedesco e quello dei Dori: entrambi, nel sentire comune, erano genti ultramilitarizzate venute dal Nord. Il Tauge/ton è un monte del Peloponneso. 14 Allusione al mito di Tirò, portato sulla scena da Sofocle: la fanciulla, sedotta da Posidone, avrebbe abbandonato i figli in una barca. - www.loescher.it/mediaclassica - 15 alcuna soddisfazione. Alla fine della vicenda la strategia ha successo e Lisistrata pronuncia un discorso che, facendo riferimento alle comuni origini greche tanto degli Ateniesi quanto degli Spartani, indica che è ormai giunto il momento di una tregua. Vale la pena di rilevare l’orgogliosa rivendicazione al femminile che Aristofane pone in bocca al suo personaggio (vv. 1123-1126): Lusistra/th: e)gw_ gunh_ me/n ei0mi, nou~j d’ e1nesti/ moi. au)th_ d’ e0mauth~j ou) kakw~j gnw&mhj e1xw, tou_j d’ e0k patro&j te kai\ geraite/rwn lo&gouj pollou_j a)kou&sas’ ou) memou&swmai kakw~j. 1125 Lisistrata: «Io sono una donna, ma c’è senno in me»15. A me, grazie a me stessa, non manca il buon senso e, perché ho ascoltato i discorsi di mio padre e degli anziani, non mi manca l’istruzione. Letture dalle Rane Dioniso, dio del teatro, accompagnato dal servo Xantia, decide di scendere nell’Ade per riportare alla vita Euripide, da poco scomparso, che egli giudica il poeta più grande. Cercando di ripercorrere le orme di Eracle, l’unico che seppe scendere all’Ade e farne poi ritorno, il dio si maschera con la pelle di leone e la clava; scesi dunque nel regno dei morti i due incontrano una lunga serie di personaggi (Caronte, Eaco, una serva di Persefone e altri ancora) che danno luogo a varie situazioni comiche tra cui un duplice scambio di ruoli tra Dioniso (che continua a fingere di essere Eracle) e il suo servo, in una vera e propria «commedia degli equivoci». Le Rane del titolo costituiscono il coro della commedia e stanno nel limo della palude stigia, da dove gracidano una sorta di controcanto alle battute degli attori. La scena più importante del dramma è rappresentata dall’agone, in cui si fronteggiano il vecchio e nobile Eschilo e il più giovane Euripide, sul cui relativismo etico, troppo improntato alle doppiezze sofistiche, Aristofane ha già avuto modo di esporre le proprie critiche. Giudice della contesa sarà lo stesso Dioniso. Nella sezione presentata qui Aristofane sfoggia la propria abilità nell’analizzare e ricreare lo stile dei due grandi tragici: la tecnica con cui Eschilo fa perdere dignità alla raffinata poesia euripidea, in particolare, dimostra uno studio attento dei meccanismi del verso, spesso fondato sulla successione costituita da una subordinata implicita (un participio) completata da una reggente all’indicativo, spesso in un tempo storico. Basta sostituire la seconda metà del periodo e la costruzione diventa risibile: Aristofane «inventa» qui, per così dire, il moderno tormentone. Da ricordare anche il fatto che il dimetro trocaico catalettico con cui Eschilo, dopo la cesura pentemimera del trimetro giambico, conclude sistematicamente i versi del rivale (lhku&qion a)pw&lesen) fu definito dai metricisti antichi «lecizio», ossia «verso del lhku&qion » proprio ricordando questo passo (vv. 11971250): Eu)ripi/dhj: lhrei=j: e)gw_ de_ tou_j prolo/gouj kalou_j poiw=. Ai)sxu/loj: kai\ mh_n ma_ to_n Di/’ ou) kat’ e1poj ge/ sou kni/sw to_ r(h~m’ e3kaston, a)lla_ su_n toi=sin qeoi=j a)po_ lhkuqi/ou sou tou_j prolo&gouj diafqerw~. Eu. Ai. 15 1200 a)po_ lhkuqi/ou su_ tou_j e0mou&j; e(no_j mo&nou. poei=j ga_r ou3twj w3st’ e0narmo&zein a3pan, kai\ kw|da&rion kai\ lhku&qion kai\ qula&kion, Secondo i commentatori antichi il v. 1123 è una citazione dalla Melanippide di Euripide. - www.loescher.it/mediaclassica - 16 e0n toi=j i0ambei/oisi. dei/cw d’ au)ti/ka. Eu. i)dou&, su_ dei/ceij; Ai. fhmi/. Dio/nusoj: kai\ dh_ xrh_ le/gein. Eu. «Ai1guptoj, w(j o( plei=stoj e1spartai lo&goj, cu_n paisi\ penth&konta nauti/lw| pla&th| a)/rgoj katasxw&n» — Ai. lhku&qion a)pw&lesen. Di. touti\ ti/ h}n to_ lhku&qion; ou) klau&setai; le/g’ e3teron au)tw|~ pro&logon, i3na kai\ gnw~ pa&lin. Eu. «Dio&nusoj, o4j qu&rsoisi kai\ nebrw~n dorai=j kaqapto_j e0n peu&kh|si Parnasso_n ka&ta phda|~ xoreu&wn» — Ai. lhku&qion a)pw&lesen. Di: oi1moi peplh&gmeq’ au}qij u(po_ th~j lhku&qou. Eu. a)ll’ ou)de\n e1stai pra~gma: pro_j ga_r toutoni\ to_n pro&logon ou)x e3cei prosa&yai lh&kuqon. «ou)k e1stin o3stij pa&nt’ a)nh_r eu)daimonei=: h2 ga_r pefukw_j e0sqlo_j ou)k e1xei bi/on, h2 dusgenh_j w1n» — Ai. lhku&qion a)pw&lesen. Di. Eu)ripi/dh, Eu. ti/ e0stin; Di. u(fe/sqai moi dokei. to_ lhku&qion ga_r tou~to pneusei=tai polu&. Eu. ou)d’ a2n ma_ th_n Dh&mhtra fronti/saimi/ ge: nuni\ ga_r au)tou~ tou~to& g’ e0kkeko&yetai. Di. i)/qi dh_ le/g’ e3teron ka)pe/xou th~j lhku&qou. Eu. «Sidw&nio&n pot’ a1stu Ka&dmoj e0klipw_n 0Agh&noroj pai=j» — Ai. lhku&qion a)pw&lesen. Di. w] daimo&ni’ a)ndrw~n, a)popri/w th_n lh&kuqon, i3na mh_ diaknai/sh| tou_j prolo&gouj h(mw~n. Eu. to_ ti/; e)gw_ pri/wmai tw|~d’; Di. e)a_n pei/qh| g’ e0moi/. Eu. ou) dh~t’, e0pei\ pollou_j prolo&gouj e3cw le/gein i3n’ ou{toj ou)x e3cei prosa&yai lh&kuqon. «Pe/loy o( Tanta&leioj ei0j Pi=san molw_n qoai=sin i3ppoij» — Ai. lhku&qion a)pw&lesen. Di. o(ra|~j, prosh~yen au}qij au} th_n lh&kuqon. a)ll’, w}ga&q’, e1ti kai\ nu~n a)po&doj pa&sh| te/xnh|: lh&yei ga_r o)bolou~ pa&nu kalh&n te ka)gaqh&n. Eu. ma_ to_n Di/’ ou1pw g’: e1ti ga_r ei0si/ moi suxnoi/. «Oi0neu&j pot’ e0k gh~j» — Ai. lhku&qion a)pw&lesen. Eu. e)/ason ei0pei=n prw~q’ o3lon me to_n sti/xon. «Oi0neu&j pot’ e0k gh~j polu&metron labw_n sta&xun qu&wn a)parxa&j» — Ai. lhku&qion a)pw&lesen. Di. metacu_ qu&wn; kai\ ti/j au1q’ u(fei/leto; Eu. e)/ason, w} ta~n: pro_j todi\ ga_r ei0pa&tw. «Zeu&j, w(j le/lektai th~j a)lhqei/aj u3po» — - www.loescher.it/mediaclassica - 1205 1210 1215 1220 1225 1230 1235 1240 17 Di. Eu. a)polei=j: e0rei= ga_r «lhku&qion a)pw&lesen.» to_ lhku&qion ga_r tou~t’ e0pi\ toi=j prolo&goisi/ sou w3sper ta_ su~k’ e0pi\ toi=sin o)fqalmoi=j e1fu. a)ll’ ei0j ta_ me/lh pro_j tw~n qew~n au)tou~ trapou~. kai\ mh_n e1xw g’ oi[j au)to_n a)podei/cw kako_n melopoio_n o1nta kai\ poiou~nta tau1t’ a)ei/. 1245 1250 Euripide Dici sciocchezze, e io compongo prologhi belli. Eschilo Davvero, per Zeus non ti raschierò le parole verso a verso, ma con l’aiuto degli dèi sfascerò i tuoi prologhi con una boccetta. Eu. Con una boccetta? I miei prologhi? Esch. Con una sola. Perché tu componi in modo che tutto si adatta ai tuoi giambi: una pelliccetta, una boccetta, una sacchetta. Te lo mostro subito. Eu. Ah, me lo fai vedere? Esch. Te lo sto dicendo. Dioniso (a Euripide) Allora devi recitarli. Eu. «Egitto, come il più diffuso racconto narra, con cinquanta figli, sull’ampio naviglio sbarcando ad Argo…»16 Esch. …perse la boccetta. Dio. Che era ‘sta boccetta? Crepi. (a Euripide) Recitagli un altro prologo, perché voglio sentire di nuovo. Eu. «Dioniso, che in tirsi e di cerbiatti pelli avvolto, tra le fiaccole per il Parnaso saltava danzando…»17 Esch. …perse la boccetta. Dio. Ahimé siamo stati colpiti di nuovo dalla boccetta! Eu. Ma non darà più noie: a questo prologo qui non potrà attaccarla, la boccetta: «Non c’è uomo che in tutto abbia buona sorte, o, pur nato nobile, non ha mezzi, oppure, nato in basso loco…»18 Esch. …perse la boccetta. Dio. Euripide! Eu. Che c’è? Dio. Mi pare il caso di abbassare la vela: questa boccetta farà levare un gran vento… Eu. Non mi preoccuperei davvero, per Demetra, perché ora gliela spezzeremo, la boccetta. Dio. Su, recitane un altro e alla larga dalla boccetta. Eu. «La sidonia città un dì lasciando, Cadmo, d’Agenore il figlio…»19 Esch. …perse la boccetta. Dio. Senti, benedetto uomo: compra la boccetta, perché non scrosti più i nostri prologhi. 16 Si tratta forse del prologo dell’Archelao di Euripide (fr. 846 Sn.). Dall’Ipsipile di Euripide (fr. 752 Sn.). 18 Dalla Stenebea di Euripide (fr. 661 Sn.). 19 Dal Frisso di Euripide (fr. 819, 1-2 Sn.). 17 - www.loescher.it/mediaclassica - 18 Eu. Che cosa? Io comprargliela? Dio. Eu. Sì, se mi dai retta. No davvero, perché ho ancora da recitare molti prologhi ai quali costui non potrà attaccare la boccetta: «Pelope figlio di Tantalo, giunto a Pisa su veloci cavalle…»20 Esch. …perse la boccetta. Dio. Vedi? Ci ha attaccato di nuovo la boccetta Mio buon amico, ancora una volta: pagagliela in ogni modo; con un obolo la prenderai, bella e buona. Eu. No, per Zeus. Ne ho ancora tantissimi! «Eneo, un tempo, dalla terra…» Esch. …perse la boccetta. Eu. Lasciami recitare il verso intero! «Eneo, un tempo, dalla terra avendo preso una lunga messe, offrendola come primizia…»21 Esch. …perse la boccetta. Dio. Nel mezzo dell’offerta? E chi gliela ha portata via? Eu. Lascia, caro. Provi a dire qualcosa su questo qui: «Zeus, come si dice in verità…» Dio. Mi distruggi: dirà «perse la boccetta». ‘sta boccetta nei tuoi prologhi spunta come un orzaiolo negli occhi! Non manca una critica mirata anche alla tecnica compositiva di Eschilo, le cui parti liriche suonavano spesso tutte uguali (vv. 1249-50; 1285-1295): Eu)ripi/dhj: o(/pwj 0Axaiw~n di/qronon kra&toj, 9Ella&doj h3baj, toflattoqrat toflattoqrat, Sfi/gga, dusameria~n pru&tanin ku&na, pe/mpei, toflattoqrat toflattoqrat, cu_n dori\ kai\ xeri\ pra&ktori qou&rioj o1rnij, toflattoqrat toflattoqrat, kurei=n parasxw_n i0tamai=j kusi\n a)erofoi/toij, toflattoqrat toflattoqrat, to_ sugkline/j t’ e0p’ Ai1anti, toflattoqrat toflattoqrat. 1285 1290 1295 Euripide (imitando Eschilo e il suono della cetra) «Come degli Achei la potenza dal duplice trono, fiore dell’Ellade…»22 Frin-frin frin-frin «Sfinge, cagna signora di sventurati destini, manda…»23 Frin-frin frin-frin «con lancia e mano che agisce, ardente uccello…»24 Frin-frin frin-frin «capace di muovere alle sfrenate cagne che vagano nell’aere…»25 Frin-frin frin-frin 20 Dall’Ifigenia in Tauride di Euripide, vv. 1-2. Dal Meleagro di Euripide (fr. 516 Sn.). 22 Dall’Agamennone di Eschilo (v. 109). 23 Dalla Sfinge di Eschilo (fr. 182). 24 Dall’Agamennone di Eschilo (vv. 111-112). 25 Dal Memnone di Eschilo (fr. 198). 21 - www.loescher.it/mediaclassica - 19 «e ciò che inclina per Aiace…»26 Frin-frin frin-frin L’esito del confronto dà significato all’intero dramma, anzi compendia in qualche modo il giudizio di Aristofane sull’importanza della poesia tragica per la polis: Dioniso, chiamato a scegliere chi riportare sulla terra, si orienta su Eschilo: se Euripide «piace», l’altro è infatti più utile al bene dei cittadini (cfr. v. 1487: e)p’ a)gaqw=| me_n toi=j poli/taij). Un gioioso corteo, guidato da Plutone, conclude il dramma. INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE I testi delle undici commedie conservate sono editi e tradotti integralmente in italiano da Raffaele Cantarella, (Aristofane. Le commedie, Einaudi, Torino 1972); Benedetto Marzullo (Aristofane. Le Commedie. Traduzione scenica, testo greco integralmente rinnovato, Appendice critica di B. Marzullo, Roma 2003) e da Giuseppe Mastromarco (Aristofane. Commedie: vol. I, Torino 1983; vol. II, in collaborazione con P. Totaro, Torino 2006). Eccellenti edizioni dei singoli drammi con traduzione di Dario Del Corno si hanno nella collana «Scrittori greci e latini» della Fondazione Lorenzo Valla (Nuvole a cura di G. Guidorizzi, 1995; Uccelli a cura di G. Zanetto, 19972; Donne alle Tesmoforie a cura di C. Prato, 2001; Rane a cura di D. Del Corno, 1985; Donne all’assemblea a cura di M. Vetta, 1989). Altre edizioni sono nella BUR Classici Greci e Latini (Pace, Lisistrata, La festa delle Donne, Pluto, tutte in singoli volumi a cura di G. Paduano; Le Nuvole a cura di A. Grilli) e ne I grandi libri Garzanti (Le Vespe, Gli Uccelli a cura di G. Paduano). La quantità di studi su Aristofane è sconfinata. Il lettore italiano ha comunque a disposizione alcune trattazioni generali recenti di facile reperibilità: − G. Mastromarco, La commedia in Lo spazio letterario della Grecia antica, vol. I. La produzione e la circolazione del testo, Tomo I. La Polis, Roma 1992, pp. 335-377. − E. Corsini, voce «Aristofane» in Dizionario degli scrittori greci e latini, vol. I, Settimo Milanese 1995, pp. 143184. − U. Albini, Riso alla greca. Aristofane o la fabbrica del comico, Milano 1997. − D. Susanetti, Il teatro dei Greci. Feste e spettacoli, eroi e buffoni, Bologna 2003, pp. 131-161; 184-189. − G. Mastromarco, Introduzione ad Aristofane, Roma-Bari 1994 (6a ed. 2006). − G. Mastromarco-P.Totaro, Storia del teatro greco, Mondadori-Le Monnier, Milano 2008, pp. 192-229. 26 Dalle Tracie di Eschilo (fr. 293). - www.loescher.it/mediaclassica - 20