Non è tempo per i guru

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Non è tempo per i guru
INDICE
Prefazione. Non è tempo per i guru, di Nando Pagnoncelli
Introduzione. Persuasione o mobilitazione?, di Giovanni Diamanti
Il rebranding di Hollande
Guerrilla gardening, il segreto di Nichi
Porta a porta e manifesti: i fondamentali non tradiscono
Il taoismo che ha convinto Brera e Leoncavallo
Caricature e flash mob: la comunicazione è un gioco
Il cuore social di Napoli
Non si vince senza volontari
Un americano a Roma
I social network fanno la differenza
Le imperfezioni che fanno vincere
#quidebora, una campagna in diretta
Prefazione.
Non è tempo per i guru,
di Nando Pagnoncelli
La professione dello spin doctor si afferma tardivamente in Italia rispetto a quanto è
avvenuto nelle altre democrazie occidentali. I grandi rivolgimenti che hanno caratterizzato
la vita politica e sociale del nostro paese nella prima metà degli anni Novanta hanno
favorito la nascita del marketing politico e con esso l’affermazione di discipline non certo
nuove ma fino ad allora decisamente in ombra e poco rilevanti: mi riferisco ai sondaggi
elettorali e d’opinione e alla consulenza politica, la cui crescente importanza ha portato alla
ribalta nuove figure professionali quali i ricercatori (definiti, spesso non senza discredito,
“sondaggisti”) e gli spin doctor.
Sono molti i punti in comune tra le due attività e le due professioni e in queste righe provo
a sintetizzarne gli elementi più significativi. Partiamo dall’inizio: è proprio nei primi anni
Novanta che si osservano anche in Italia le conseguenze derivanti della caduta del muro di
Berlino (l’indebolimento del voto “ideologico” e delle appartenenze) e si verificano
cambiamenti di grandissima portata nella relazione tra gli elettori e la politica.
Mi riferisco a Tangentopoli che produsse il duplice effetto di delegittimare i partiti
tradizionali e di ridurne le risorse economiche, limitando la loro presenza sul territorio,
dove fungevano da vere e proprie antenne in grado di captare il clima sociale e di
trasmettere in ambito locale le strategie politiche dei partiti, attraverso un flusso
permanente di comunicazione a due vie tra periferia e centro. Mi riferisco anche al
profondo cambiamento dell’offerta politica che fino ad allora, era stata caratterizzata dalla
presenza negli anni degli stessi partiti: Dc, Pci e Psi in primis, con il corollario dei partiti
“laici minori” (Pli, Pri,Psdi) e delle ali estreme del Msi a destra e di sigle più variegate a
sinistra (Psiup, Dp, Nsu, a seconda delle tornate elettorali). Fino ad allora le uniche
eccezioni erano rappresentate dal Partito Radicale, protagonista della stagione
referendaria e molto innovativo quanto a modalità di comunicazione politica, i Verdi e la
Lega, in grado di intercettare i profondi cambiamenti sociali e le nuove istanze dei
cittadini. La scomparsa dei partiti tradizionali la loro parziale riproposizione sotto nuove
sigle, le scissioni e la nascita di nuove forze politiche rappresentano una vera e propria
rivoluzione agli occhi degli elettori.
E, da ultimo, mi riferisco ai cambiamenti delle leggi elettorali sia per le elezioni legislative
(l’adozione di un sistema prevalentemente maggioritario: il Mattarellum), sia per quelle
amministrative (elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province e delle regioni).
Tutto ciò ha determinato una straordinaria mobilità elettorale e la personalizzazione della
politica sia a livello nazionale che a livello locale. Ecco allora che tra i protagonisti della
politica sono emerse prepotentemente due domande:
1) conoscere gli elettori (quantificarli i generali e per segmenti – fedeli, potenziali, ecc. – e
descriverne il profilo socio-demografico e attitudinale) e le loro aspettative (l’agenda dei
cittadini in generale e per singoli segmenti sociali.
2) comunicare con loro, tradurre una proposta politica in un messaggio in grado di
convincerli e di mobilitarli; un compito reso ancor più complesso dalla presenza di
strumenti nuovi strumenti di comunicazione, dal rischio crescente di
saturazione
informativa e dalle sempre più variegate diete mediatiche dei cittadini.
La politica si nutre di consenso: il ricorso ai sondaggi e alla consulenza politica, non è stata
e continua a non essere un ubbia, ma una scelta necessitata dal contesto mutato.
Entrambe le attività, tuttavia, per tutti gli anni Novanta hanno faticato non poco ad essere
considerate adeguatamente ed apprezzate, per diversi motivi: innanzitutto l’oggettiva
difficoltà a far comprendere le loro specificità e le loro potenzialità, sia per pregiudizi
diffusi (all’epoca molti esponenti politici diffidavano di sondaggisti, consulenti politici e
comunicatori, presumendo di saperne più di loro) sia per oggettiva scarsa dimestichezza
dei politici con strumenti innovativi e metodologie di lavoro sofisticate. A tale proposito
l’aneddotica è ricca di episodi: dal politico che contesta i dati dei sondaggi contrapponendo
alle stime sulla sua popolarità altre stime decisamente più generose «perché tutte le volte
che scendo dall’auto la gente mi circonda acclamante e mi vuole abbracciare» a quello che
riteneva di avere una straordinaria capacità comunicativa «perché ho assunto un
bravissimo addetto stampa», per non tacere poi di quel leader che considerava il concetto
di marketing politico un ossimoro perché “la politica non è un pannolino”.
Una seconda difficoltà nella fase iniziale di sviluppo era costituita dall’assenza di percorsi
formativi in ambito universitario, percorsi in grado di garantire competenze e
professionalità di cui i pionieri disponevano ma che potevano essere trasferite
esclusivamente mediante processi di training on the job. Oggi l’offerta formativa è
decisamente ricca e qualificata.
Una terza difficoltà che, sebbene attenuata nel tempo, non è del tutto scomparsa, riguarda
la definizione del perimetro delle competenze e delle responsabilità: spesso si
sovrappongono i ruoli di sondaggista e spin doctor depotenziandone le rispettive
specificità. Da sempre ritengo importante tenere rigorosamente separate l’attività di
ricerca demoscopica da quella di consulenza politica, per due motivi: perché la missione
della consulenza politica è quella di far vincere un candidato laddove la ricerca è uno
strumento di conoscenza che deve attenersi a principi, a mio parere imprescindibili per un
ricercatore, di neutralità e terzietà; in altri termini: non si dovrebbero far sondaggi per far
vincere un partito o un leader, ma per fornirgli un contributo di conoscenza. Inoltre perché
si tratta di attività del tutto complementari che se svolte da un solo soggetto presentano il
rischio di un potenziale conflitto di interessi; spesso infatti si utilizza la ricerca per mettere
a punto strategie di comunicazione o per controllarne gli effetti: quis custodiet ipsos
custodes? E’una questione che in passato ha riguardato anche il rapporto tra società di
ricerche di mercato e agenzie pubblicitarie.
Per lungo tempo il rapporto era improntato al sospetto e al pregiudizio reciproco: i creativi
spesso mal sopportavano che qualcuno “censurasse” il prodotto del loro intelletto mentre i
ricercatori apparivano sordi alle argomentazioni dei creativi e spesso imponevano
apoditticamente “l’opinione del target”; la situazione oggi è molto diversa, grazie
soprattutto alle aziende-clienti che hanno legittimato e valorizzato entrambe le
professionalità tenendole separate e favorendo la loro collaborazione sinergica.
Nell’ambito della consulenza politica e dei sondaggi in Italia vi sono realtà che realizzano
entrambe le attività, sull’esempio di alcune rinomate agenzie statunitensi (PSB, Greenberg,
per citarne alcune). Più per l’ambizione di alcuni ricercatori di voler fare i consulenti
politici che non per il desiderio di questi ultimi di voler controllare il processo di ricerca. In
prospettiva credo che sarà decisivo il ruolo dei partiti-clienti nel favorire una separazione o
meno dei ruoli.
Ci sono altri aspetti che accomunano le due attività e le due figure professionali, ne cito
due:
1)
Innanzitutto il rischio di un utilizzo improprio dello strumento. Nel caso del
sondaggio mi riferisco all’utilizzo propagandistico dello stesso, quando viene realizzato non
tanto per misurare le opinioni ma per formarle o modificarle (in tal senso è emblematico il
famoso sondaggio americano della PSB in occasione delle elezioni del 2006). Nel caso della
consulenza politica mi riferisco allo scollamento tra comunicazione e realtà, tra promesse e
realizzabilità delle stesse (memorabile la frase che durante le primarie americane del 1984
il democratico Walter Mondale rivolse al rivale Gary Hart a fronte dell’evanescenza di
alcune proposte di quest’ultimo: “Where is the beef?”) e tra la modalità di
rappresentazione di un leader e la sua vera personalità (memorabile l’imbarazzo del
presidente Monti che abbraccia il cane Empy durante la trasmissione Le Invasioni
Barbariche di Daria Bignardi).
2)
La rappresentazione mediatica di sondaggisti e spin doctor. È una rappresentazione
che spesso restituisce un’immagine deformata e caricaturale conseguenza di un eccesso di
protagonismo mediatico: nel caso del sondaggista si impone l’immagine del mago che
prevede il futuro; nel caso del consulente politico l’immagine del guru che presume di esser
stato decisivo per l’affermazione del proprio candidato. Spesso vengono pubblicate
interviste a sondaggisti che dissertano sul presunto spostamento di voti causato da episodi
o vicende che in realtà risultano del tutto insignificanti in termini politici. Oppure articoli o
interviste a spin doctor (pochi per fortuna) che si intestano la vittoria di questo o quel
candidato sindaco, esibiscono consulenze, svelano “segreti” e strategie spregiudicate (non a
caso il sotto-titolo del saggio di Giancarlo Bosetti Spin recita “trucchi e tele-imbrogli della
politica”) sottovalutando l’impatto in termini di immagine distorta di questa attività.
Spin factor cerca di porre rimedio a tutto ciò restituendo un’immagine più realistica della
professione e delle sue specificità. Attraverso una carrellata di esperienze professionali
recenti, raccontate da alcuni dei principali consulenti e comunicatori politici, questo eBook
aiuta a capire la complessità di un’attività che richiede competenze di elevato livello (è
impossibile improvvisarsi spin doctor), formazione e aggiornamento continui, rigore
deontologico e caratteristiche personali non comuni: l’onestà intellettuale, il distacco
(anche psicologico) dal candidato e dal partito, e la capacità di innovare e di rimettersi in
discussione ad ogni campagna elettorale che si affronta, evitando di applicare la stessa
ricetta in ogni contesto, dimenticandosi dei successi recenti e del lusinghiero track record.
E soprattutto la capacità di “rimanere con i piedi per terra” consapevoli del fatto che una
vittoria elettorale è frutto di un lavoro di squadra, non della presenza di un vero o presunto
deus ex machina.
Nando Pagnoncelli
Introduzione.
Persuasione o mobilitazione?,
di Giovanni Diamanti
"Faccio il consulente politico, il mio mestiere consiste nell'aiutare i candidati alle alte
cariche pubbliche a essere eletti". Non esiste definizione più semplice e precisa di quella di
Joe Napolitan per descrivere lo spin doctor. Ora, qualche decennio dopo questa
spiegazione del consulente americano, in Italia è difficile pensare a campagne elettorali che
non vedano figure professionali ad affiancare i candidati alle cariche pubbliche.
Ma il consulente politico non è un mestiere definito e privo sfumature, anzi. Si possono
chiamare così tutti i professionisti impegnati nelle campagne elettorali: gli strateghi, i
pubblicitari, gli addetti stampa, i ghostwriters, gli esperti del web, i pollsters, i campaign
manager. Non è un lavoro nuovo ma una professione che parte da lontano: già Quinto
Tullio Cicerone creò per il proprio fratello, candidato alla carica di console, un breve
manuale che gli consigliava le mosse da attuare in vista delle elezioni. Nel tempo, sono stati
in molti a cimentarsi con successo nella sfida finalizzata a vincere le campagne elettorali,
ed alcuni consulenti sono diventati leggendari negli ambienti politici: da Jacques Séguéla,
il creativo che negli anni '80 coniò per François Mitterrand lo slogan perfetto e vincente
"La Forza Tranquilla", a Karl Rove, che per fare eleggere George W. Bush alla presidenza
degli Stati Uniti d'America utilizzò tattiche tanto geniali quanto spregiudicate; da Alastair
Campbell, l'uomo che reinventò il Labour, a David Axelrod, lo stratega alla base dei
successi di Barack Obama.
Con il tempo, anche le modalità di lavorare in campagna elettorale si sono evolute. Le
nuove tecnologie hanno fatto prepotentemente il loro ingresso nella scena, modificando le
strategie tradizionali e rivoluzionando gli strumenti di persuasione.
Come sempre, il luogo della nascita di queste nuove tecniche sono gli Stati Uniti
d'America. Le leggi poco restrittive sulla privacy della Terra della Libertà hanno reso gli
Usa un terreno fertile per le sperimentazioni nel campo del microtargeting più estremo:
grazie alla tracciabilità delle informazioni sulla cronologia dei siti web visitati e dei
programmi televisivi visti da ciascun americano, è oggi possibile divulgare i messaggi più
adatti alle persone sensibili alla ricezione di quelle proposte.
Sempre negli Usa, tecniche di campagna elettorale tradizionali come il porta-a-porta sono
state rinnovate proprio grazie alle nuove tecnologie, portando alla creazione di immensi
database, come VoteBuilder. "Durante la campagna elettorale, le porte non si bussano a
caso": queste poche parole riassumono il princìpio che guida il moderno porta-a-porta. I
guru della comunicazione politica americana hanno creato delle banche dati che abbinano
a ciascun elettore americano una serie infinita di informazioni, finalizzate a individuare gli
elettori più utili da contattare per raggiungere gli obiettivi prefissi dalla strategia scelta.
Tecniche antichissime, unite alle tecnologie più recenti, per raggiungere una maggiore
efficienza ed efficacia.
Proprio queste innovazioni americane, e in particolar modo le novità organizzative e
strutturali portate dalle campagne obamiane, hanno innescato un dibattito teorico intenso
quanto interessante sulle strategie elettorali da seguire. Un dibattito nato ovviamente negli
Stati Uniti, ma arrivato fino alla nostra penisola. Si tratta del confronto tra i due grandi
paradigmi nell'ambito della campagna elettorale: persuasione o mobilitazione?
La "persuasione" è senza dubbio il paradigma dominante sulla scena italiana ed europea
negli ultimi anni. Incentrare le campagne sulla "persuasione" significa conoscere il
contesto politico e gli elettori nel dettaglio per individuare i cosiddetti swing voters, gli
indecisi, al fine di persuaderli e far quindi prevalere il proprio candidato. I sondaggi, gli
studi elettorali, il microtargeting, sono tutti strumenti straordinari per individuare il
segmento di elettorato da convincere. Altri strumenti, come i focus group (e in parte gli
stessi sondaggi) sono invece finalizzati a trovare i messaggi più adatti per persuadere
queste persone.
La bassa affluenza che ha caratterizzato, globalmente, le ultime elezioni, unita ai nuovi
strumenti di Get out the vote ha portato alcuni consulenti a contrapporre al paradigma
precedente, la supremazia della mobilitazione. Questi teorici sostengono infatti che, in un
contesto in cui l'elettore medio si reca sempre meno frequentemente alle urne, vince le
elezioni chi riesce a portare il maggior numero dei propri elettori al voto. Gli elettori incerti
e in bilico vengono sostituiti dai votanti delusi e tentati dall'astensione, i sondaggi per
individuare gli swing voters sono rimpiazzati dalle analisi dell'affluenza per selezionare le
zone con il maggior crollo di votanti. Così, il porta-a-porta targetizzato diventa
fondamentale: le porte non si bussano a caso, bisogna individuare le case degli elettori
democratici scontenti.
Il paradigma della mobilitazione porta con sé un limite enorme: non è applicabile ad ogni
elezione. In Italia, ad esempio, è impensabile per un candidato di centrosinistra vincere le
elezioni in Lombardia o in Veneto solamente portando a votare i propri elettori. Perché,
molto semplicemente, gli elettori di centrosinistra in alcune zone del paese (così come in
alcune zone del mondo) rappresentano un'esigua minoranza. In questi casi non si possono
vincere le elezioni senza convincere parte di un segmento elettorale con diverso
orientamento politico.
È tuttavia indubbia l'efficacia di alcune strategie di mobilitazione in alcuni contesti
elettorali.
Penso alle ultime elezioni politiche, e al Partito democratico. Dato in vantaggio da tutti i
sondaggi, uscito vincitore dalle ultime elezioni locali, ha subìto un tracollo il giorno del
voto. Eppure sono convinto che il porta-a-porta, in alcune zone del Paese, fatto nelle case
degli elettori più fedeli, ovvero gli elettori delle primarie, avrebbe fidelizzato una quota di
elettori delusi dalla campagna post-primarie del partito, e avrebbe rafforzato il risultato
elettorale di Pierluigi Bersani.
Ma in Italia, troppo spesso, le buone pratiche di campagna elettorale non vengono seguite.
Ci si affida troppo spesso a guru esteri catapultati all'ultimo, senza che abbiano il tempo di
studiare la nostra politica, e troppo poco a consulenti che conoscano le campagne elettorali
del nostro paese.
Spin factor nasce per questo, per promuovere le campagne elettorali vincenti, per far
conoscere le strategie e le tattiche più innovative messe in pratica negli ultimi anni in
Italia. Per capire come si vincono le elezioni. O, quantomeno, per capire come non perdere
un'elezione già vinta.
Il rebranding di Hollande
Intervista con Valerio Motta, uno dei principali consiglieri per la
comunicazione del presidente francese, responsabile della campagna web
per Francia 2012
Il Partito socialista francese veniva da diverse sconfitte elettorali consecutive:
ci può spiegare qual è stato il punto di partenza della campagna elettorale?
Come avete pensato di aggiornare il brand "PS"?
Abbiamo perso le elezioni presidenziali nel 1995, nel 2002 (senza nemmeno andare al
ballottaggio) e nel 2007. Siamo usciti dal congresso del 2008 con un partito spaccato in
due tra Martine Aubry e Ségolène Royal. Dopo la sconfitta alle elezioni europee del 2009
dove non abbiamo superato il 16%, la nuova segretaria ha lanciato un grande
rinnovamento del partito: primarie aperte, pari opportunità tra i generi, lotta contro il
cumulo di incarichi. Martine Aubry ha anche lanciato una riorganizzazione del PS, con la
creazione di un settore di comunicazione e un lavoro di rebranding e di sviluppo di
nuove tecniche e tools. Abbiamo cominciato a lavorare sul rebranding creando un nuovo
logo per il partito, coniugando l'identità e la storia del PS racchiuse nel pugno e la rosa con
una traduzione grafica più moderna. Abbiamo definito i colori da usare nell'immagine
coordinata e creato un font dedicato alla comunicazione di partito: "Jaurès". Il fine era
condividere con i circoli il materiale per conservare una coerenza grafica nazionale. Il 75
per cento del bilancio della comunicazione del partito veniva speso nella pubblicazione di
un settimanale di 24 pagine, inviato agli iscritti. L'abbiamo soppresso, utilizzando i
soldi per investire in strumenti online. Dopodiché abbiamo formato un team web di una
decina di persone che ho coordinato personalmente. Per dare a questi cambiamenti un
valore simbolico maggiore, tutte le iniziative che abbiamo avviato con la mia squadra sono
state lanciate lo stesso giorno, per gli auguri di buon anno della segretaria nel 2010.
C'è stato poi un lavoro permanente di branding: ogni evento, ogni attività di
comunicazione è un brand. In primo luogo, dovevamo ritrovare un legame affettivo col
paese. Da qui nasce "La France qu'on aime", il titolo dell'università estiva del PS del 2009,
dalla quale è partito un vero tour de France di dialogo con la gente. Abbiamo quindi
incentrato i nostri messaggi sull'idea del cambiamento ("Il est temPS de changer"). La
ripetizione e la coerenza delle azioni sono importantissime, per questo abbiamo martellato
costantemente su questo tema: abbiamo chiamato il 2011 "l'anno del cambiamento",
abbiamo descritto le primarie come "il momento per dare un nome al cambiamento" e la
campagna per portare i giovani a votare aveva come titolo "Le changement est à vous" ("Il
cambiamento sta a voi"). Quando siamo arrivati nel momento clou della campagna
presidenziale, dopo le primarie, l'agenzia BDDP, che ha curato la comunicazione di
Francois Hollande, ha avuto la strada spianata nella scelta dello slogan: dopo 17 anni di
presidenza della destra "Le changement, c'est maintenant!". L'agenzia ha creato il primo
brand presidenziale della storia francese: il logo da loro inventato prevedeva due sbarre,
una sopra e l'altra sotto "FR", a rappresentare la Francia e il concetto dell'uguaglianza.
Abbiamo proseguito ad utilizzare il tema del "cambiamento" anche dopo le presidenziali:
per le politiche di giugno 2012, abbiamo infatti chiesto ai francesi di darci "Una
maggioranza per il cambiamento".
In generale, come si comunica un partito? Quali sono le differenze tra Francia
e Italia in campagna elettorale ?
La principale differenza è il ruolo del partito: in Francia, c'è un alto livello di
personalizzazione, soprattutto nelle elezioni presidenziali. Si tratta di un tipo di campagna
molto diversa da quelle italiane. Non si vota facendo una croce sul simbolo di un partito,
non c'è voto di preferenza: per le elezioni presidenziali si vota un nome solo, con un
sistema elettorale a due turni. Il primo turno serve a mobilitare nel proprio campo. Poi, al
ballottaggio, si deve allargare il consenso per raggiungere i voti della maggioranza del
paese. Tutto ciò con spese elettorali molto controllate e limitate e con parità di condizioni
di trattamento tra tutti i candidati nei media. C'è anche un'altra differenza: noi sappiamo
sempre quando saranno le elezioni, c'è una grande stabilità, questo ci dà la possibilità di
pensare ed elaborare le campagne con anni di anticipo, mentre in Italia si è quasi sempre
in campagna elettorale. La gestione del tempo è di grande importanza: per i grandi partiti è
strategicamente utile massimizzare il vantaggio all'inizio della campagna, perché dopo, nel
periodo di "par condicio", non è facile cambiare le opinioni e i messaggi sviluppati dai
media. Noi ad ottobre abbiamo organizzato le primarie, che hanno portato i media a
inseguire i nostri temi, e che ci hanno dato una visibilità mai raggiunta prima. Quando
invece si entra nel periodo in cui vige la parità di condizioni tra partiti nei media, la
presenza sul territorio e il porta a porta sono fondamentali per parlare direttamente alla
gente. Non è il partito ad apparire durante la campagna, ma il candidato. Il lavoro del
partito è preparatorio, con la creazione e distribuzione di volantini, con il porta a porta, ma
noi non abbiamo un'organizzazione capillare come il Pd, i nostri iscritti sono tra i 150.000
e i 200mila. Quando la campagna comincia davvero, l'organizzazione prevede la creazione
di uno staff (una cinquantina di persone, un team comunicazione, una squadra web e
stampa) e una sede dedicata. Contestualmente avviene una ripartizione dei ruoli: il partito
fa il poliziotto cattivo e attacca la destra mentre il candidato sviluppa le proprie proposte.
La campagna di Francois Hollande è stata una delle prime in Europa a
importare dagli Stati Uniti le tecniche di porta a porta: che strategie di
mobilitazione avete utilizzato in campagna elettorale?
Abbiamo studiato molto la campagna di Obama. Alcuni di noi sono andati a Chicago,
compresi i nostri leader, i think tank hanno lavorato sul tema. Il porta a porta non era
sconosciuto. Lo facciamo da molto tempo, soprattutto per elezioni locali. Era l'idea di
generalizzarlo, di fare un report ogni sera, di mobilitare anche i semplici cittadini che non
avevamo mai applicato. Il fine era combattere l'astensionismo di sinistra, targetizzando le
zone ad alto tasso di astensionismo dove la maggioranza dei voti storicamente va alla
sinistra. Nel 2010 abbiamo fatto un test in una banlieue di Parigi, applicando il
programma completo: formazione, report serale, recupero degli indirizzi mail. Questo, su
un lato solo di una via divisa tra due seggi elettorali. Il risultato ci ha mostrato che queste
tecniche americane funzionano anche da noi: tra le due zone c'è stata una differenza di
quasi dieci punti di partecipazione. Abbiamo quindi generalizzato questo programma per il
partito in tutto il paese. Durante la campagna abbiamo poi migliorato la parte di reporting,
creando una piattaforma online per conoscere ogni sera il numero di porte bussate e avere
una percezione delle reazioni alla campagna. È grazie a questo programma che sappiamo
di aver bussato a più di 5 milioni di porte. Inoltre, applicando i calcoli che abbiamo fatto
nel 2010, siamo riusciti a stimare che questo sforzo ci abbia portato 300mila voti in più al
primo turno.
Parliamo ora di strumenti: come avete utilizzato il web e i social media?
Quanti voti pensa abbiano spostato?
È molto difficile fare un calcolo in termini di voti perché sul web non si fanno più
campagne distinte, ma si organizza uno spazio di campagna collegato allo spazio mediatico
ed al terreno. Il web in campagna elettorale serve a capitalizzare i contatti. E per farlo,
serve contattare tanta gente. Se consideriamo il pubblico, i cittadini, come cerchi
concentrici, immaginiamo all'esterno il militante del Front National, quello che ci odia di
più. E al centro, il perfetto militante del PS, che fa il porta a porta ogni sera, che condivide
tutto su facebook e che finanzia il partito. Tra i due, tutti gli indifferenti, poi gli elettori,
quelli che possono dare una mano in campagna, etc...
In passato, si usava soprattutto un legame indiretto, con un leader che parlava ai media o
ai sindacati, alle associazioni per far passare un messaggio alla gente.
Con un ritmo mediatico più intenso, e campagne quasi "live", con i social media che danno
un legame diretto, con un'organizzazione web di campagna integrata e strutturante, si può
immaginare un modello diverso: si tratta di creare punti di contatto quando possibile con i
cittadini, raccogliere dati e infine agire.
L'obiettivo non è trasformare un fan della Le Pen in attivista di Hollande. Ma è creare una
sfera di persone pronte a partecipare al porta a porta per andare a parlare agli
astensionisti.
Per fare questo, in America usano i soldi, la pubblicità. Più del 70 per cento del milliardo di
euro speso dalla campagna di Obama è stato investito in pubblicità televisiva e in azioni
per raccogliere dati. Noi non abbiamo queste possibilità. Abbiamo dovuto essere creativi e
Internet è stato molto utile. I database sono strategici: dal 2008 in poi, in Francia e in
America, il candidato che ha vinto le elezioni è stato quello che aveva il database più ricco.
La metodologia per raccogliere dati è semplice: si crea un contenuto interessante, che
stimoli condivisione e interattività mirate soprattutto a persone che non militino già nel
PS, poi si individua il modo migliore per conservare i contatti, attraverso iscrizioni a
mailing list e like su facebook, e infine si procede contattando gli aderenti per dare loro
nuove possibilità di azione. Abbiamo pensato anche ad attività collaterali, come il concorso
"Un caffè con Hollande": ci sono stati migliaia di iscritti, che hanno poi ricevuto inviti a
dare una mano alla campagna. La nostra è stata una campagna "live". Tutti gli eventi erano
trasmessi su un canale online, che aumentava soprattutto la visibilità su Twitter. Abbiamo
anche creato un servizio di hoaxbuster, per combattere le false notizie che circolavano nel
web. Infine, abbiamo ideato i "party della risposta rapida". Sono stati un momento di
valorizzazione forte delle comunità: quando c'era un importante dibattito in tv, gli attivisti
digitali si trovavano nella sede del partito o del candidato per commentare online insieme.
Ho grandi ricordi di questa campagna!
Infine, che consiglio avrebbe dato a Nicolas Sarkozy se avesse lavorato alla
campagna per la sua rielezione?
Non l'avrei fatto! Seriamente, serve molto tempo per articolare un'organizzazione. Questa
volta, l'Ump non si è impegnato in una strategia integrata se non molto tardi. Alla fine, gli
800mila voti di differenza tra noi e loro sono esattamente il numero di elettori dei quali
abbiamo raccolto dati personali alle primarie. Il tempo delle campagne "blitz" mi sembra
terminato. Bisogna preparare le campagne sempre con grande anticipo: per la prossima
penso ad un lavoro più articolato sul porta a porta e l'elenco degli elettori. C'è ancora molto
da fare.
Giovanni Diamanti
Guerrilla gardening, il segreto di Nichi
A colloquio con Dino Amenduni, stratega della campagna di comunicazione di
Vendola alle regionali 2010
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può
spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e
quali sono le linee strategiche che avete adottato?
La campagna elettorale è stata preceduta da una tensione politica molto forte, che ha
portato Vendola a dover chiedere le primarie per potersi ricandidare alla presidenza della
regione, pur essendo governatore uscente. Il Partito democratico, infatti, ha a lungo
cercato di far arretrare Vendola, il quale (supportato dalla nascita delle Fabbriche di Nichi,
laboratorio politico che aggregò i pugliesi disposti a sostenere il diritto di Vendola a
ricandidarsi) non mollò fino al raggiungimento del suo obiettivo. Il Pd alla fine ha dovuto
accettare le primarie e ha chiesto a Francesco Boccia di ricandidarsi. La campagna
elettorale per le primarie vera e propria è durata due settimane, e Vendola ha di fatto avuto
la certezza di potersi ricandidare a difendere i cinque anni di lavoro svolto solo tre mesi
prima delle elezioni regionali (del 28 e 29 marzo 2010).
La campagna elettorale è, di fatto, iniziata ancor prima della candidatura ufficiale di
Vendola (che coincise con la convocazione delle Primarie), attraverso il lavoro delle
Fabbriche di Nichi, gruppi di persone auto-organizzatesi sui territori cittadini, composti da
persone provenienti dalle più diverse storie politiche (militanti di Sel, del Pd,
dell’associazionismo, giovani senza una specifica appartenenza). Il loro lavoro, e la
razionalizzazione di quello sforzo durante gli eventi pubblici (come l’evento di
presentazione delle Fabbriche a novembre del 2012) ci aiutò con il posizionamento di
Vendola, che di fatto fu l’unico “candidato” in campo per intere settimane, dato che anche
a destra c’era molta confusione. Per tutte queste ragioni è possibile sostenere che senza le
Fabbriche di Nichi avremmo vissuto una campagna elettorale molto diversa, e forse non
vincente.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
Nel contesto descritto, Vendola ha paradossalmente potuto giocare la sua campagna
elettorale da outsider: non essendo appoggiato dalle forze politiche principali, con il Pd che
annunciò un’alleanza già chiusa con l’Udc in caso di vittoria di Boccia, Nichi era “solo
contro tutti” (parafrasando il Massimo D’Alema pre-primarie). Proforma ha sempre
lavorato sui difetti percepiti di Vendola, tentando di rovesciarli dal punto di vista del
significato. Così come nel 2005 le parole “pericoloso”, “estremista”, “sovversivo” e
“diverso” furono alla base della campagna di comunicazione, così la (presunta) solitudine e
la sfida contro gli apparati politici classici diventò un punto di forza. E così facemmo anche
dopo aver vinto le Primarie. Vendola era accusato dalla destra di essere un parolaio, uno
bravo con la “poesia” e molto meno bravo con la “prosa”, cioè con l’amministrazione della
cosa pubblica. Il nostro racconto, invece, diceva altro. Come tutti gli amministratori
uscenti, bisognava puntare sulle cose fatte, sul buon governo. E c’erano settori di governo
su cui le politiche della regione Puglia erano eccellenze a livello nazionale: politiche
giovanili, turismo, cultura. Così abbiamo deciso di raccontare il buon governo, ma con frasi
in rima, su manifesti (anche i classici 6×3) senza volto di Vendola né loghi dei partiti, ma
piuttosto con icone tematiche che raffiguravano i temi portanti della campagna, che poi
corrispondevano ai punti di forza dei primi cinque anni di governo di Vendola. “Giù le
mani dalla brocca, l’acqua è nostra e non si tocca”, per parlare della totale
ripubblicizzazione dell’acquedotto pugliese. Tutta la campagna e tutte le declinazioni
successive furono immaginate a partire da questo concept e da questo visual.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in
campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
I recenti dati del Censis (giugno 2013) dicono che i social media possono condizionare
direttamente il comportamento di voto di una quota molto limitata di italiani, circa il 7%.
C’è un 43% (+25% in quattro anni) che dichiara che la sua socializzazione politica, cioè il
reperimento delle informazioni utili a prendere una decisione elettorale è determinata
dalle relazioni con i “pari”, ossia parenti, amici e conoscenti. Nel 2010 il peso dei social
media, per quanto in grande crescita, non era paragonabile all’attuale (un esempio su tutti:
il peso di twitter, ancora più limitato rispetto al presente). Nella campagna di Vendola c’era
già, però, la bozza del ragionamento che poi il Censis ha confermato quest’anno, che in
realtà è una riflessione che parte da più lontano, dalla campagna di Obama nel 2008. La
Rete non serve a convincere direttamente qualcuno a fare qualcosa (in questo caso a
votare), quanto piuttosto serve a organizzare le persone che si vogliono impegnare per
sostenere un candidato. L’organizzazione consiste nella creazione di luoghi di
coordinamento e nella produzione, da parte della cabina di regia, di contenuti facilmente
esportabili, declinabili liberamente e adattabili al contesto di riferimento. Parlare di
ambiente a Bari è diverso rispetto a parlare di ambiente in un comune di 6000 abitanti
della provincia di Lecce, ad esempio. Il nostro lavoro consisteva, dunque, nella gestione di
due flussi di comunicazione: le linee guida, le parole d’ordine, gli schemi comunicativi (ad
esempio l’immagine coordinata) partivano dal centro in modo omogeneo, lasciando totale
libertà alle “periferie” dal punto di vista dell’elaborazione politica e programmatica. Ma
proprio quel processo libero di elaborazione era poi studiato, riportato al “centro” e
successivamente ri-offerto alle periferie, quando ci si rendeva conto che una Fabbrica di
Nichi di un determinato comune aveva fatto un buon lavoro. È il caso del guerrilla
gardening, un’idea nata all’interno della rete delle Fabbriche, divenuta poi “buona azione”,
coordinata dalla cabina di regia, trasformata in un format che poi è stato interpretato
liberamente dai militanti sui territori.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
Il momento clou, dal punto di vista politico, è stata la notizia della “separazione” del
centrodestra con due candidati in competizione tra loro: Rocco Palese e Adriana Poli
Bortone. Molti analisti hanno osservato che in caso di sfida a due (e in particolare, di sfida
a due Vendola-Poli Bortone), Nichi non ce l’avrebbe fatta (alle elezioni regionali vince chi
ha più voti, senza ballottaggio; Vendola nel 2010 è stato eletto con il 48.7%). Io non sono
tra quelli che la pensavano e la pensano così, ma è indubitabile che questa notizia fu per
noi un grande elemento di sollievo.
5. Che consiglio avrebbe dato al suo avversario Rocco Palese se avesse
lavorato per la sua campagna?
Rocco Palese ha puntato tutto sulla demolizione dell’avversario. Ha parlato in modo
pressoché esclusivo di ciò che Vendola non aveva potuto o saputo fare. Ma se un candidato
non dà una visione, una speranza, un’idea autonoma di governo (svincolata dal passato), è
molto difficile che riesca a entrare nel cuore dei cittadini, soprattutto degli indecisi o degli
scettici.
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale?
Quali competenze erano presenti nello staff?
A differenza della campagna elettorale del 2009, io non sono stato fisicamente nel luogo
della “war room”, ma ho seguito i lavori dalla agenzia per cui lavoro, Proforma. Dunque
non so dire con precisione quante persone potessero essere considerate effettivamente nel
cuore della decisione. Preferisco ragionare per funzioni: esisteva una cabina di regia
politica, che traduceva le richieste di Vendola in prassi di azione politica e comunicazione,
guidata da Nicola Fratoianni. C’era una parte di lavoro sulla comunicazione e sulla
strategia generale (coperta da Proforma, FF3300 e da Ed Testa) e c’era la parte di
organizzazione e di rapporti con le Fabbriche, guidata da Roberto Covolo. Ma la vittoria di
Vendola nel 2010 ha tanti figli e tante storie fantastiche (le Fabbriche di Nichi, appunto),
sarebbe sbagliato ridurre tutto ai nomi che cito qui.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non
rifarebbe?
Non sono state decisioni che ho preso io, ma in ogni caso se potessi tornare indietro avrei
provato a tenere in vita l’esperienza delle Fabbriche di Nichi almeno fino alle politiche del
2013 e, se fosse stato impossibile farlo, avrei detto sin da subito che quell’esperienza aveva
una prospettiva di crescita limitata. La politica non si fa con i se e con i ma, allo stesso
tempo chiunque abbia vissuto quella campagna elettorale si è poi mangiato le mani
vedendo le forme e i modi dell’avanzata di Grillo alle ultime elezioni politiche. Avevamo
preso una strada, una strada virtuosa, che è stata abbandonata. Un peccato.
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna
elettorale?
Per quanto mi riguarda, i modelli sono stati prevalentemente due: la campagna di Obama nel 2008,
soprattutto per quello che concerne la parte di organizzazione sul web, e la campagna di Emiliano a
Bari nel 2009, curata da Proforma e coordinata (anche) da me per ciò che riguardava EmiLab, il
gruppo di 100 volontari under30 che hanno di fatto condotto l’intera campagna elettorale. L’aver
sperimentato con successo alcune buone pratiche a Bari ci ha permesso da un lato di imparare dagli
errori fatti e valorizzare ciò che di unico fu realizzato durante quella campagna elettorale, ma
soprattutto l’esserci riusciti nel 2009 ci permise di poter dire: “si può fare, rifacciamolo”.
Porta a porta e manifesti: i fondamentali non tradiscono
Marco Cacciotto racconta i giorni della campagna di Alessandra Giudici per la
riconferma a presidente della provincia di Sassari
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può
spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e
quali sono le linee strategiche che avete adottato?
Punto di partenza per l’elaborazione di una corretta strategia è la conoscenza del contesto
competitivo e dell’avversario attraverso la raccolta del maggior numero possibile di
informazioni per elaborare un piano e un messaggio coerenti con il contesto di riferimento.
Il contesto di partenza non era favorevole al centrosinistra e ad un candidato uscente. Il
turno amministrativo appena terminato a livello nazionale aveva segnato una sconfitta del
centrosinistra che aveva perso diverse regioni e subito sconfitte in vere e proprie roccaforti
(ad esempio Mantova). Berlusconi e il centrodestra avevano l’opportunità di “politicizzare”
il voto per ribaltare l’esito del 2005 e distogliere l’attenzione dai temi e dai candidati locali.
Nel 2005 Alessandra Giudici aveva vinto con il 60,7% e una coalizione molto ampia a
sostegno con ben 11 liste. Nel 2010 lo scenario era completamente cambiato con il
centrosinistra diviso, un trend nazionale sfavorevole, il passaggio dall’altra parte del
Partito sardo d’azione che cinque anni prima aveva preso il 6,6%. Questa volta le liste a
sostegno erano “solamente” cinque e non era stato possibile creare una lista del presidente.
Allo scenario politico si aggiungeva lo scenario economico, con una provincia che stava
attraversando, al di là della crisi generale, un momento terribile, forse il peggiore degli
ultimi 60 anni (basti pensare allo sfacelo dell’industria chimica e all’Isola dei cassaintegrati
salita proprio in quel periodo alla ribalta mediatica nazionale). Crisi e lavoro sarebbero
stati al centro della campagna, ma il tono della stessa doveva essere positivo, rassicurante,
orientato al futuro attraverso soluzioni concrete per uscire dalla crisi e dare un futuro al
territorio del nord-ovest.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
L’essenza della strategia politica risiede nella capacità di contrapporre il proprio punto di
forza al punto di maggiore debolezza dell’avversario. I messaggi dovrebbero essere basati
sulle virtù e sui difetti dei candidati (l’esperienza, la competenza, l’integrità, la
compassione, ecc.), sulle differenze ideologiche legate agli schieramenti di appartenenza,
su situazioni di contesto generiche come il cambiamento opposto allo status quo oppure il
progresso opposto alla stagnazione o, infine, su una combinazione di ciascuna delle tre
possibilità precedenti. Una prima scelta da effettuare in tempi brevi per l’impostazione
della campagna elettorale è legata al comunicare “la persona” o il progetto. Una campagna
elettorale è un racconto che coinvolge vari aspetti: le caratteristiche del candidato, le idee e
le proposte, ma soprattutto non deve mai dimenticare i cittadini.
Anche la migliore storia, se non è in sintonia con i desideri e le aspirazioni degli elettori in
quel momento, è destinata, infatti, a fallire. Alessandra Giudici era conosciuta e raccoglieva
consensi personali, ma allo stesso tempo il suo essere fuori dai giochi politici e
difficilmente inquadrabile, aveva provocato malumori e dissensi all’interno della sua stessa
maggioranza. La scelta fu di accentuare la personalizzazione della comunicazione
puntando sulla sua immagine, ma allo stesso tempo di puntare sulla tematica più sentita
dai cittadini.
La personalizzazione permetteva di puntare sul consenso dei cittadini che non avevano un
giudizio elevato nei confronti dei partiti e di andare oltre la coalizione.
Alessandra Giudici si candidava per completare il lavoro incominciato, per continuare a
difendere gli interessi del nord ovest e non permettere che si tornasse ad una provincia
lontana dai cittadini o che a governare fossero gli stessi partiti che a Cagliari avevano
marginalizzato il territorio della provincia di Sassari. Nasce da queste considerazioni l’idea
di un doppio messaggio nei materiali di comunicazione: un claim che rappresenta il tema
della campagna e l’impegno principale che prendeva con i cittadini “Prima il Lavoro” e un
pay-off “Provincia di Sassari. Secondi a nessuno” che rappresentava un elemento di
orgoglio e di contrapposizione rispetto al centrodestra che governava a Cagliari. La scelta
della personalizzazione era rafforzata dall’immagine in primo piano di Alessandra Giudici
in tutti i materiali che prendeva impegni concreti sulle priorità da affrontare guardando
negli occhi i cittadini: prima il lavoro, secondi a nessuno (difesa degli interessi del
territorio, trasporti, ambiente e istruzione. Insieme diventavano le “5 buone ragioni per
confermare Alessandra Giudici”.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in
campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
Quanti voti sia in grado di spostare il web è ancora dibattuto (così come sono sempre stati
contrastanti i dati su quanti voti sposta la televisione). Detto ciò è ormai impensabile un
strategia che non contempli l’uso dei social network, ma nel 2010 l’uso e l’impatto della
rete era sicuramente diverso rispetto ad oggi. Fu realizzato un sito internet e si puntò più
sui video che sui social network. La campagna si basò sul porta a porta e sui manifesti. Le
campagne elettorali si vincono grazie alla comprensione del contesto e all’elaborazione di
una strategia efficace che va declinata su diversi mezzi e attraverso tante singole azioni.
Non si vince con un manifesto o solo attraverso i social networks.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
I due dibattiti televisivi che sono stati registrati nella stessa giornata. Alessandra Giudici è
stata efficace al contrario del suo avversario e questo ha, a mio avviso, cambiato l’inerzia
delle due campagne dando una decisa spinta alla nostra campagna.
5. Che consiglio avrebbe dato all’avversario, Romano Mameli, se avesse
lavorato per la sua campagna?
Avrei fatto una campagna completamente diversa. All’attacco e con slogan più diretti ed
efficaci. Avrei lavorato con grande attenzione per mobilitare gli elettori nelle roccaforti
elettorali (cosa che avrebbe fatto la differenza).
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale?
Quali competenze erano presenti nello staff?
La war room era composta da 5 persone: due figure politico/istituzionali di assoluta
fiducia del candidato, il responsabile delle relazioni con la stampa, il responsabile della
comunicazione ed io, il consulente politico. Una struttura di comando ridotta, ma con
compiti ben precisi e una forte condivisione del progetto di campagna. Tutti i materiali di
comunicazione sono stati ideati e realizzati da Alberto Paba. Come raramente accade nei
team che si formano ad hoc, ho lavorato in perfetta armonia e sintonia con Alberto che
stava seguendo anche le comunali a Sassari e Porto Torres.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non
rifarebbe?
Ad esempio non permetterei ai partiti di impedire la realizzazione della lista del
presidente. Era evidente che era una scelta rischiosa non dare agli elettori moderati e che
non si riconoscevano nei partiti la possibilità di votare una lista “civica”. La mancanza di
una lista del presidente metteva a rischio la vittoria al primo turno con tutti i pericoli di un
secondo turno senza il traino della campagna elettorale per il comune di Sassari. Per
fortuna mentre le liste si sono fermate di mezzo punto sotto la maggioranza, i voti per
Alessandra Giudici hanno permesso di vincere al primo turno con il 50,70%.
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna
elettorale?
Ormai si fa riferimento a quanto accade nelle elezioni precedenti americane e
naturalmente anche noi studiamo attentamente quanto viene da oltreoceano (ma anche
dagli altri paesi europei). Il nostro modello di riferimento è l’approccio cda che abbiamo
sviluppato nel corso di decine di campagne elettorali e che continuiamo di anno in anno ad
arricchire e far crescere. È basato su un’attenta analisi del contesto e sulla stesura di un
piano di campagna per fasi (capire, decidere, agire). L’attività di analisi e predisposizione
delle fasi della campagna è, purtroppo, uno degli aspetti più sottovalutati dai committenti
politici e questo avviene a tutti i livelli.
Eppure un’attenta analisi del sistema competitivo permette di ottimizzare l’impiego delle
risorse e di costruire una campagna efficace. Le campagna elettorali rimangono un’arte,
ma noi cerchiamo di introdurre un approccio scientifico nell’analisi e nella predisposizione
di messaggi efficaci e in grado di cogliere il contesto e le aspirazioni degli elettori. Dopo
l’elezione della Giudici abbiamo seguito più di 15 campagne a sindaco e il nostro metodo si
è arricchito, ora vi è un crescente peso degli strumenti digital e dei social network, ma non
cambia l’essenza alla base di una campagna vincente: è la strategia a fare la differenza.
Il taoismo che ha convinto Brera e Leoncavallo
Roberto Basso racconta la campagna di Giuliano Pisapia che nel 2011 ha tolto
Milano alla Moratti a colpi di ironia e battendo lo "sconfittismo"
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può
spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e
quali sono le linee strategiche che avete adottato?
Lo scenario per le amministrative milanesi del 2011 era definito da un incumbent debole
sul piano del gradimento ma forte di una coalizione che a Milano e in Lombardia vinceva
da quasi vent’anni. Un sindaco uscente, e per questo favorito, con un tasso di notorietà al
massimo livello, sostenuto da alleati al governo della Regione e del Paese. Nell’insieme, un
fronte elettorale sostenuto da un budget impressionante, documentato intorno ai 12
milioni di euro, stimato da qualcuno addirittura a 20. Lo sfidante veniva da una
competizione nel centrosinistra a tratti aspra.
Pisapia era uscito vincente da quella competizione, che aveva visto schierarsi una parte del
Pd con lui contro il candidato del partito, Stefano Boeri. Eppure veniva considerato dagli
osservatori un prodotto “tipico” delle primarie: il meno adatto a competere con l’avversario
di centrodestra. Chi lo pensava non conosceva Giuliano. La strategia che abbiamo adottato
in questo scenario è simile a tante campagne che abbiamo visto dopo: pochi simboli di
appartenenza, molte scelte basate su un quadro preciso di valori, capace di abbracciare
tradizioni e sensibilità politiche distinte. È una scelta che paga se il candidato è in grado di
incarnare genuinamente quei valori, se non è semplicemente l’interprete di un ruolo
costruito per lui. Quindi abbiamo lavorato molto intorno alla persona, sottolineandone
l’autonomia e l’indipendenza rispetto alle tessere, alle appartenenze rigide, alle carriere del
professionismo politico. “Intorno”, ripeto: le campagne elettorali le vince il candidato. Non
credo che a Milano ci siano altre persone capaci di coagulare giovani dei centri sociali e la
migliore borghesia cittadina.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
Ci erano state proposte idee pregevoli sul piano della creatività pura, professionalmente di
alto livello, ma a mio giudizio potevano andare bene un po’ per chiunque. Scelsi di
coinvolgere un’agenzia con la quale mi intendevo al volo e proposi loro di affrontare la
sfida di elaborare un posizionamento in mezza giornata, sulla base della mia conoscenza
del candidato, della strategia complessiva della campagna e di pochissimo materiale
biografico. Nello spazio di un mattino nacque dalla testa e dal cuore di Paola Giulietti il
claim che ancora tutti ricordano: “La forza gentile per cambiare Milano”. Calzava sul
candidato come un abito fatto su misura. Lo si ricorda anche perché investimmo le poche
risorse disponibili su un botto di affissioni con grande anticipo. Bisogna anche dire che si
ricorda quel messaggio con tanto favore perché accompagnò la vittoria. Per il visual fummo
molto criticati: avevamo poche ore per fare uno shooting, il candidato era reduce da una
febbre alta e un servizio fotografico era l’ultimo dei suoi desideri. Il risultato complessivo
fu però originale, diverso dai faccioni impostati che infestano le città nel corso di una
campagna elettorale, con sfondi finti e sorrisoni. Parlavamo all’elettorato che ancora non lo
conosceva per presentarlo: del resto la sua notorietà superava appena la metà degli
elettori. Dopo il primo flight di campagna (400 poster 6 per 3 metri) la notorietà era
zompata al 74%. Nella seconda fase della campagna cambiammo registro: il candidato
ormai era abbastanza conosciuto, volevamo fare respirare agli elettori la speranza in un
nuovo corso. Paola elaborò diverse proposte, quella che ci piacque di più segnò la
primavera: “Il vento cambia davvero”. Dovevamo combattere quello che chiamai
“sconfittismo“, quella sensazione degli elettori più a sinistra che ritenevano impossibile
vincere a Milano. Ma la scelta creativa che ricordo con il piacere di un’emozione viva è la
serie di spot elettorali: un lavoro low cost e high quality ideato ancora da Com.unico,
realizzato con il contributo di due giovani videomaker, doppiato gratuitamente da una
grande voce italiana.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in
campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
Nell’approccio ai social media sono guidato da un istinto che mi pare taoista: l’opinione
pubblica che emerge dall’interazione di tante persone non può essere guidata, devi
lasciarla correre, seguire il flusso, esserne parte e meritarti così il diritto a proporre una
direzione. Quindi siamo stati genuini: niente acquisto di fan e follower, tanta interazione,
pubblicazione di moltissimi contenuti. Furono preziosi tanti volontari e la competenza
editoriale di Hagakure. Ma anche lo sforzo di raccontare in immagini e suoni le tante
iniziative di una campagna partecipatissima, animata da più di 40 comitati cittadini e
decine di migliaia di volontari. La cosa fondamentale che in tanti ancora fanno fatica a
capire è che non esiste il “popolo della Rete”: in rete ci confrontavamo con le stesse
persone che venivano in piazza per un evento e poi volevano continuare la discussione
anche nottetempo perché la passione faceva fatica a spegnersi. Questa continuità nel modo
di “esserci”, sul territorio fisico della città e su quello sociale delle relazioni umane,
dev’essere piaciuta a chi la Rete la frequenta di più. Era il terreno naturale del candidato.
Meno per l’incumbent.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
Potrebbero essere stati diversi i momenti clou: la presentazione della candidatura al Dal
Verme. O le “Officine per la città”, il laboratorio di elaborazione collettiva del programma.
A distanza di tempo però il ricordo più forte coincide con il confronto televisivo negli studi
di Sky: a pochi giorni dal voto del primo turno Letizia Moratti fece un errore che potrebbe
avere contribuito a segnare l’esito della sfida. Nessuno può sapere come sarebbe finita se
quel giorno il sindaco uscente non avesse accusato il suo sfidante di essere un ladro di
auto, un estremista: un proposito totalmente in contraddizione con l’idea che ciascuno
poteva farsi dell’uomo che aveva di fronte. Quell’evento fece scattare una gara di solidarietà
che accese la partecipazione attiva e scatenò l’ironia: da lì i “Morattiquotes”, la falsa
moschea di Sucate, il video del “Favoloso mondo di Pisapie”. Lo ricordo anche per una
questione di orgoglio professionale: rispondemmo così bene e soprattutto così
rapidamente da creare lo spin ideale. I giornali che avrebbero dovuto raccontare una storia
di sospetti, di insinuazioni, di dubbi, finirono col raccontare soltanto una storia di slealtà e
di false accuse.
5. Che consiglio avrebbe dato a Letizia Moratti se avesse lavorato per la sua
campagna?
Come diceva De Andrè? Chi non sa più dare il cattivo esempio diventa prodigo di buoni
consigli. Solo per stare al gioco posso fare una considerazione: dall’esterno avevamo la
sensazione che lo staff del sindaco fosse affollato di prime donne, ricco di consiglieri di
professione e non. E al tempo stesso, cosa che non è affatto una contraddizione, privo di
guida. Se dovessi tradurre questa considerazione in un consiglio direi: scegli un cavallo,
magari anche un asino, purché non sia quello di Buridano. Magari non correrà ma reggerà
il peso di una campagna. Meglio di tanti destrieri in lite tra loro.
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale?
Quali competenze erano presenti nello staff?
La war room era ristretta a quattro persone: il candidato, il consigliere politico, il
portavoce e il direttore della campagna. Facevamo molte riunioni allargate, per tenere
dentro le sensibilità di tutti. Lo staff stabile era molto ampio: dagli specialisti degli eventi e
dei concerti all’ufficio stampa agli sherpa politici. Con il supporto di videomaker, fotografi,
web master, community manager, online editor, microblogger. E i comitati, da quelli
territoriali a quelli creativi, organizzati dagli ottimi Paolo Limonta e Federico Robbiati.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non
rifarebbe?
Chissà. Una campagna è frutto di un equilibrio molto delicato: una macchina complessa
costruita in pochissimo tempo, che continua a crescere mentre il pilota accelera.
Cambiando qualcosa, rischi di compromettere l’assetto e di portarla fuori strada. Il
coinvolgimento di tante persone è stato molto faticoso. Però più che a errori da correggere
il pensiero corre alle mancanze, alle cose in più che avremmo potuto fare. Bisogna fare di
tutto e di più.
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna
elettorale?
Fino a poco tempo fa in Italia e in Europa il dibattito sul campaigning coincideva con la
funzione creativa. Adesso finalmente emergono modelli di impostazione più orientati
all’analisi, alla pianificazione strategica, all’organizzazione. Io mi ispiro a David Plouffe, il
campaign manager di Obama, piuttosto che a Jacques Séguéla, per intenderci. Credo che
il coordinamento sia la chiave su cui investire per tenere insieme il tutto e farlo marciare
nella direzione giusta. Anche in questo caso si trattò di una intuizione del candidato, che
con l’investitura di un direttore per la campagna fece una scelta molto chiara. Oggi sono
sempre più convinto che la comunicazione sia più di una funzione estetica, ma anche più di
una funzione “relazionale”: certo le emozioni mettono in relazione le persone. Ma credo
che in alcuni casi la comunicazione sia una leva per l’attuazione di un disegno strategico.
Se disegni un prodotto pensando alle modalità con le quali l’utente ne ricaverà un beneficio
avrai più probabilità di conseguire la sua soddisfazione. Allo stesso modo, soltanto se
disegni una strategia pensando che tante persone ne dovranno essere una parte attiva e
non un target riuscirai a coinvolgerle. Ottenendo non solo il loro consenso, ma la loro
adesione convinta.
Caricature e flash mob: la comunicazione è un gioco
Aldo Tanchis, consigliere per la comunicazione di Massimo Zedda, racconta la
campagna elettorale di Cagliari: «Si deve sempre partire dalla personalità del
candidato»
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può
spiegare qual era il contesto in cui è nata l'elaborazione della campagna e
quali sono le linee strategiche che avete adottato?
Eravamo nella tipica (e vantaggiosa) situazione di outsider. Massimo Zedda combatteva
alle primarie contro un pezzo da novanta del PD e della politica regionale, Antonello
Cabras. Non c'era storia, in apparenza. Chiesi a Massimo, quando mi coinvolse nella
campagna, se pensava di avere qualche possibilità o se si trattava di una candidatura di
testimonianza. Lui rispose che era convinto di potercela fare. In quel momento il PD sardo
era in difficoltà ma il divario tra loro e SEL appariva tanto grande da non consentire
speranze di sorta. Il quadro generale sembrava deteriorato al massimo in campo politico, il
sentimento diffuso era quello di una richiesta di cambiamento.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
Lo slogan ORA TOCCA A NOI nacque pensando alla necessità del ricambio e alla
possibilità che la figura di Zedda potesse incarnarlo, soprattutto se avessimo giocato su un
NOI collettivo, allargato, che coinvolgesse per le primarie anche il "popolo" PD, stanco dei
suoi leader regionali. Per le primarie non avemmo neanche il tempo di scattare una foto di
Massimo. Quando lavoriamo su un candidato - come ci è successo per esempio anche per
Pisapia o per Soru nel 2004 - partiamo sempre dalla sua personalità, mai da un progetto
astratto. Il candidato incarna il progetto, non il contrario, ovviamente.
Scegliemmo una grafica molto fresca, giocata sul rosso e il blu di Cagliari, anche se
alleggeriti e in sostanza su un mood di novità, il più possibile lontano dalla vecchia politica.
In sostanza stavamo dicendo: "i vecchi leader hanno con ogni evidenza fallito. Basta. Ora
tocca a noi, tocca a chi ha energie, freschezza, vivacità e non è compromesso col vecchio
sistema...". Tutto questo anche se Massimo in realtà era già un navigato politico! Il
candidato del PD decise di non aspettare il risultato delle Primarie a Cagliari ma andò negli
USA per un impegno istituzionale, credo, e là venne raggiunto dalla notizia
della clamorosa sconfitta.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in
campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
Allora il web era ancora una discreta novità, in politica. La giovane età di Zedda ci
permetteva di puntare parecchio sulla rete. Chiedemmo la collaborazione di tutta la
sinistra. Il regista Enrico Pau, per esempio, produsse delle esilaranti caricature del
candidato avversario che furono cliccatissime ma soprattutto contribuirono a motivare i
volontari che facevano campagna per noi. Sicuramente il web riuscì a mobilitarne parecchi,
e questo fu evidente quando confrontavamo i click tra i nostri video e quelli dell'avversario,
che fece addirittura nascere una web tv che però nessuno andava a vedere. I flash mob, poi,
sono stati una parte importante perché innovativa, creativa, ludica. Tanto da essere stati
poi "esportati" a Milano per la campagna di Pisapia e più recentemente ad Alghero, per
un'altra campagna comunale vinta.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
C'è un momento quasi magico, nelle campagna elettorali, nel quale capisci che sei riuscito
a far partire una massa di persone che faranno campagna per te: se questo non avviene, o
avviene in modo insufficiente, la valanga si ferma subito. Ma se parte (penso anche
all'esperienza con Pisapia) allora diventa inarrestabile. Collegato a questo, c'è un altro
momento magico: quando il candidato stesso si trasforma, si convince intimamente che
può e che vuole vincere (e anche questo non è scontato).
5. Che consiglio avrebbe dato all'avversario di Zedda, Massimo Fantola, se
avesse lavorato per la sua campagna?
La sua coalizione sulla carta era da 60%, se non di più. Anche Fantola era un "nuovo"
candidato per la carica di Sindaco, ma questa "novità" non è mai realmente uscita in
campagna. E' sempre stato visto come uno mandato avanti dal gruppo di famiglie che
tradizionalmente ha governato Cagliari. Sicuramente l'avrei mandato da un ottimo
fotografo, come abbiamo fatto noi: lo scatto di Daniela Zedda ha tirato fuori da Massimo
Zedda la gioventù, la bellezza, la disponibilità. Quella di Fantola era quasi una caricatura. A
parte questo, avrebbe avuto bisogno di almeno una proposta forte, unica, tipo il "Teniamo
in Lombardia il 75% delle tasse" di Maroni.
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale?
Quali competenze erano presenti nello staff?
Oltre alla mia agenzia, com.unico, venne coinvolta Be Tools di Cagliari con Barbara
Argiolas coordinatrice e organizzatrice della campagna, e FXStudio, agenzia web di
Cagliari di PierFrancesco Borghero che curava anche la fondamentale parte produttiva.
Insieme, una quindicina di giovani attivissimi, che faceva capo al Circolo di via Puccini,
più un paio di persone fidatissime di Zedda, giovani come lui.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non
rifarebbe?
Come dice un mio amico, "per uno che applaude, 99 prendono la mira". Ci spararono
addosso in parecchi, soprattutto quando aprimmo la campagna contro Fantola scrivendo
"Ora tocca a tutte le Cagliari che ci sono". Volevamo conquistare almeno il 50,1% dei
consensi e quello fu il primo segnale verso commercianti, impiegati statali e le altre aree
che costituivano il serbatoio tradizionale del centro-destra. Forse sopravvalutammo le
nostre forze, infatti il tentativo di dialogare con i quartieri per far nascere ulteriore
volontariato non riuscì come avremmo voluto. Ma alla chiusura della campagna c'era un
mare di gente.
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna
elettorale?
Una campagna elettorale NON è una normale campagna pubblicitaria. Trovo inutile
ispirarsi a Obama, buttarsi sul web, circondarsi di intellettuali… E' qualcosa che sta a metà,
ed è questo il motivo per cui si vedono campagne elettorali fatte da professionisti
pubblicitari meno efficaci di quelle dei "rozzi" comunicatori elettorali. Le devi trattare in
modo differente. Noi abbiamo sviluppato una certa metodologia ma è importante che sia
molto aperta perché ogni candidato è diverso e particolare, così come ogni città. La cosa
fondamentale, ripeto, è la conoscenza e il rispetto dell'identità del candidato, oltre che la
conoscenza della situazione cittadina. Se vuoi far diventare simpatica e alla mano Letizia
Moratti, come provarono a fare contro Pisapia - sei condannato a perdere perché è contronatura (con tutto il rispetto per la signora Moratti). Non credo che la Thatcher potesse far
campagna cercando di far venir fuori il suo lato umano. A Milano spesero non so quanti
soldi per il fotografo ma quella bonaria signora sui manifesti non somigliava neanche
lontanamente alla Moratti. Io avrei cercato di far passare un messaggio del genere "Non
sarà simpatica, ma è efficiente, capace ecc.". Quella volta furono loro ad essere presi da un
attacco di tafazzismo.
Il cuore social di Napoli
Alessio Postiglione, consigliere per la comunicazione di Luigi de Magistris,
racconta la campagna elettorale del 2011: «Questa è la città più giovane
d'Italia, un cittadino su due era su Facebook»
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può
spiegare qual era il contesto in cui è nata l'elaborazione della campagna e
quali sono le linee strategiche che avete adottato?
La nostra campagna elettorale è nata in un clima di grande disaffezione e delusione
dell'elettorato rispetto ai partiti principali: non soltanto sul fronte della qualità dell'offerta
politica, com'è avvenuto e sta avvenendo in tutta Italia. Ma anche rispetto ad una crisi del
sistema clientelare, più specifico del contesto politico del Mezzogiorno e proprio di Napoli.
L'opinione pubblica qualificata era delusa sia da una destra rappresentata, a livello locale,
da Nicola Cosentino, travolto da infamanti inchieste giudiziarie, che dalla sinistra
incarnata da Antonio Bassolino, ritenuto responsabile della crisi rifiuti e percepito come il
dominus di un sistema clientelare non dissimile a quello doroteo di Antonio Gava e della
Prima Repubblica; e che ha portato il Comune di Napoli all'attuale situazione di predissesto, che oggi stiamo gestendo.
Il contesto in cui de Magistris ha vinto è stato anche fortemente caratterizzato dall'erosione
di quello “zoccolo duro” clientelare, radicato fra consulenze e società partecipate,
indebolitosi per la mancanza di risorse pubbliche da impiegare, da parte della “cattiva
politica”, nella cattura del voto.
Sulla scena politica, particolarmente grave era la situazione del Pd, le cui primarie si erano
concluse con l'accusa di brogli. Di conseguenza, anche quella porzione di elettorato
quantitativamente esiguo ma qualitativamente pregiato, fatto di intellettuali che hanno
sempre votato a sinistra, era “sul mercato” e permeabile all'offerta di cambiamento
proposta da de Magistris.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
Decidevamo sempre attraverso brainstorming, proponendo varie bozze o idee a de
Magistris, che aveva l'ultima parola. Importantissimo era il ruolo di Claudio, il fratello di
de Magistris, che viene dal mondo della comunicazione e degli eventi, e che metteva a
disposizione dello staff le sue competenze.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in
campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
Quanti voti sposta il web? Forse pochi. Ma le elezioni si vincono anche per un voto. Di
certo, a febbraio 2011, i napoletani presenti su Facebook erano 280.000, circa il 50% dei
600.000 napoletani che in media si recano alle urne.
La nostra comunicazione si è basata su freschezza, novità, cambiamento. Non solo perché
l'elettore cercava una novità rispetto al duopolio Cosentino-Bassolino, ma soprattutto
perché Napoli è la città più giovane d'Italia e con la maggior classe di elettori che si
sarebbero recati alle urne per la prima volta in occasione della amministrative (18/21
anni). Per questo, elaborammo una campagna di banner per Google e Fb targetizzata sui
giovani, con parole chiave come “cambiamento”. I banner che ebbero più successo, infatti,
furono “La prima volta fallo con il cuore”, con immagini che rimandavano al primo voto, e
“Apri gli occhi, cambia Napoli”, sempre per blandire i più giovani. De Magistris, già come
europarlamentare, riscuoteva parecchio successo in una classe di elettorato giovane,
culturalmente elevata e a cui piace informarsi, anche attraverso internet e i canali
“alternativi”. Nostri cavalli di battaglia erano e sono temi come i beni comuni, il consumo
consapevole, la democrazia diretta, la lotta alle mafie e - tema particolarmente sentito a
Napoli -, un piano alternativo dei rifiuti, non basato su discariche ed inceneritori, ma su
compostaggio e riciclo.
Gli altri banner che progettammo riguardavano, dunque, proprio il programma elettorale,
in modo da solleticare l'attenzione di questo pubblico esiguo ma informato. Nei banner,
facemmo largo uso di dati e numeri.
In sintesi, attraverso il web abbiamo approcciato una platea giovane ed informata:
lasciando alla campagna tradizionale “porta a porta” e casa per casa il compito di
mobilitare l'elettorato più tradizionale, meno formato ed anziano.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
L'inaugurazione del comitato elettorale. Fu una grande festa. Accorsero tantissimi giovani
e volontari per darci una mano. Capii plasticamente come i nostri messaggi di
cambiamento, speranza e rottura, rispetto ad un sistema clientelare o corrotto a cui
avevano contribuito i massimi partiti nostri competitor di destra e sinistra, potevano fare
veramente breccia nel cuore dei napoletani.
Tanti giovani affluirono al comitato grazie alla nostra campagna sul web e ai flash mob che
organizzammo. Il segreto fu il coinvolgimento. La gente voleva essere parte del
cambiamento. Richiedemmo, tramite il nostro blog, contributi ai cittadini per il
programma della città. Quei contributi furono inseriti nel nostro programma elettorale,
con il nome e cognome dei cittadini. Nel programma, dunque, c'erano gli endorsement e le
proposte di personaggi pubblici affianco alla proposta del cittadino qualunque.
5. Che consiglio avrebbe dato a Morcone se avesse lavorato per la sua
campagna?
Scegliersi una sede diversa. La nostra era fronte strada-piano terra: per aprirsi alla città. La
sua al primo piano, raggiunta solo dagli addetti ai lavori.
In definitiva, Morcone ha puntato troppo sulla medietas e sulla sua biografia di uomo delle
istituzioni, responsabile ed equilibrato: i cittadini volevano energia e cambiamento. Parole
chiare e nette, non mediazione e burocratese.
Proforma, che ha curato la campagna per Morcone, cercò di “rinfrescarne” l'immagine con
il claim “Il cambiamento è Mo'”. Ma non era facile rendere quella biografia interprete del
cambiamento...
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale?
Quali competenze erano presenti nello staff?
Una decina: giornalisti, politologi, informatici, esperti di grafica, comunicazione ed eventi.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non
rifarebbe?
Direi che la campagna è andata bene...
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna
elettorale?
Abbiamo cercato di leggere Napoli, con una lente moderna e 2.0. I social media non hanno
sostituito la campagna elettorale fatta di strette di mano e di creazione di rapporti
personali fra politico e cittadini. Abbiamo battuto la città palmo a palmo, e siamo finiti
addirittura a cena a casa di una famiglia delle Vele, a Scampia. Abbiamo dimostrato che
quando la politica propone offerte credibili, anche l'elettorato più popolare, e in passato
oggetto di scambi politico-clientelari, si può “liberare”.
Abbiamo puntato ad esaltare la netta differenza di de Magistris rispetto al professionismo
politico dei nostri competitor, in ogni modo. Niente auto blu. Luigi si muoveva in
bicicletta, coi mezzi pubblici, o a piedi.
Niente claque in giacca e cravatta. In giro per la città eravamo sempre con i giovani, look
casual e niente incontri blindati con business-man, ma tavole rotonde, bar-camp e ascolto
con la gente comune e i comitati. Niente burocratese. Anzi, abbiamo osato anche la licenza
di utilizzare il vernacolo: come il famoso “amma scassà”, che simboleggiava la voglia di
rompere con quel sistema bipartisan di consorterie che c'era a Napoli.
Alessio Postiglione
Non si vince senza volontari
La conferma a Vicenza di Achille Variati nelle parole dello spin doctor della
campagna Jacopo Rodeghiero e di Valentina Di Leo, responsabile web
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Potete
spiegarci qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e
quali sono le linee strategiche che avete adottato?
Vicenza non è mai stata una città politicamente schierata a sinistra e le elezioni di febbraio
hanno confermato il dato. Per vincere, Achille Variati doveva riuscire a rivolgersi, come e
più di cinque anni fa, anche all’elettorato che non vota Pd. Ecco perché abbiamo scelto di
puntare sulle caratteristiche del candidato più capaci di attrarre consensi trasversali. Un
posizionamento quindi molto civico e costruito ”su misura”.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
In tempi di rottamazione e boom di Grillo, dovevamo riuscire a far capire che il vero
cambiamento, per Vicenza, era quello iniziato cinque anni prima, che ora si trattava di
portare avanti, confermando il voto per Variati. Achille Variati è stato un sindaco
concentrato sui problemi della città, ha gestito sfide difficili (ad esempio la questione Dal
Molin) ed emergenze gravi (l’alluvione del 2010). L’idea che Variati sia stato un sindaco
presente e concreto è emersa come la tesi più condivisibile e meno contestabile anche dagli
elettori a lui avversi. Abbiamo puntato su questo. Ecco da dove nasce lo slogan. «Il sindaco
per Vicenza… C’è»: linguaggio semplice, rafforzato dalla concretezza dei numeri e delle
infografiche che hanno raccontato i risultati di cinque anni di lavoro. Visual senza
immagine del candidato, per sottolineare che un sindaco realmente presente non aveva
bisogno di puntare sull’apparenza.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in
campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
A mio avviso il web è uno strumento che, da solo, non è in grado di spostare voti da uno
schieramento all’altro oppure di portare alle urne persone intenzionate a non farlo. È
piuttosto uno strumento che, se unito a quelli considerati “tradizionali”, può rafforzare la
strategia complessiva di una campagna elettorale. Citando von Clausewitz: «Se la strategia
è sbagliata, la situazione non migliora aumentando i mezzi e le truppe».
Tuttavia, se consideriamo che il passaparola e le discussioni con familiari e amici sono
ancora di importanza fondamentale come mezzo di informazione politica (l’ultima indagine
Censis parla di un 43,9%), possiamo attribuire al web una forza che va ben al di là
dell’online: spesso ciò che leggiamo, ad esempio, sui social network diventa argomento di
discussione al bar o in famiglia, diventa oggetto di notizia per i media tradizionali. Il web in
campagna elettorale, inoltre, rafforza opinioni già costituite e le polarizza: i sostenitori
cercano la conferma delle proprie convinzioni e la possibilità di esibirle pubblicamente,
mentre i detrattori trovano in luogo in cui manifestare, anche aspramente, il proprio
dissenso.
Ma veniamo a Vicenza. La strategia di comunicazione di Achille Variati ha assegnato fin
dall’inizio un ruolo importante al web, avviando già a febbraio una fase di recruiting che
consentisse di entrare in contatto con i sostenitori da coinvolgere sia per le attività on line
che per quelle off line. Insieme a sito e newsletter abbiamo utilizzato in maniera sinergica
facebook, twitter, instagram, youtube. Qualsiasi azione comunicativa veniva ripresa e
spesso anche lanciata direttamente dal web, dopo essere stata ottimizzata per ogni singolo
canale. La stesura del piano di comunicazione quotidiano partiva spesso dalla selezione dei
contenuti per le pagine Facebook “Achille Variati” e “Vicenza per Variati” (pagina creata a
supporto delle attività comunicative dirette del sindaco), ognuna con una vocazione
editoriale diversa. Grandissimo spazio è stato dato, com’è nella logica naturale dei media
sociali, al dialogo e all’interazione con gli utenti, attività culminata nella gestione continua
dei flussi informativi nel corso dell’allarme meteo (a 10 giorni dal voto del primo turno).
Le attività on line sono state poi fondamentali per veicolare in maniera semplice e
immediata i risultati del mandato amministrativo 2008-2013 di Achille Variati e le idee
per il futuro: abbiamo scelto di dare molto più spazio al web che alla carta, trasformando in
cartoline virtuali appositamente pensate per facebook risultati e idee della politica di
Variati. A “volontari web” e semplici sostenitori il compito di scatenare il passaparola in
rete e rendere virali le informazioni anche offline. Abbiamo utilizzato il web non solo per
“attaccare”, ma anche per difenderci da eventuali situazioni problematiche e per sentire il
polso dei cittadini-elettori. È stata infatti dedicata molta attenzione al monitoraggio degli
avversari e all’analisi delle attività on line dei vicentini, in particolare sui canali web delle
testate locali.
In conclusione, più che spostare voti, credo che il web serva ad entrare in contatto con
particolari segmenti di elettorato, ad influenzare talvolta l’agenda dei media, a tenere sotto
controllo gli umori della città, ad entusiasmare i sostenitori e a dare loro strumenti
informativi atti a far circolare visione e idee del candidato secondo lo spin strategico che si
è scelto di dare ai contenuti.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
C’è stata un’emergenza autentica, quando a dieci giorni dal voto Vicenza ha sfiorato di
nuovo il rischio alluvione. La campagna è stata sospesa per 48 ore, ma il concetto di un
sindaco che «c’è» non è mai stato così evidente come in quelle ore.
5. Che consiglio avrebbe dato a Manuela Dal Lago se avesse lavorato per la sua
campagna?
Evitare il ricorso ad approcci di comunicazione artefatti: l’immagine ritoccata del
candidato nel manifesto di campagna o il ricorso a espressioni retoriche che l’elettore
riconosce come false (il candidato «tra la gente»). In generale comunque il nodo era
politico: era difficile risultare credibili quando la candidatura a sindaco era solo il piano B
dopo la mancata riconferma a Roma.
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale?
Quali competenze erano presenti nello staff?
L’agenzia Alias ha fornito il direttore della campagna, Jacopo Bulgarini d’Elci, e uno staff
di oltre una dozzina di elementi, guidando tutti gli aspetti della campagna: dalla strategia
alla creatività, dall’ufficio stampa ai video, dall’organizzazione dei volontari alla
pianificazione del budget, dai social media agli eventi. Uno sforzo complesso, ma che ha
dato al candidato il vantaggio di un interlocutore unico.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non
rifarebbe?
Ci sono tre fattori su cui non si lavora mai abbastanza: partire per tempo (noi ci siamo
mossi a ottobre 2012), costruire un budget adeguato e mobilitare i volontari. Su questo si
può sempre fare meglio.
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna
elettorale?
Ci piace sempre guardare agli esempi migliori: molti spunti americani, dai candidati Usa
alle primarie Gop a Obama, gli approcci social di alcune esperienze italiane (da Nichi
Vendola a Matteo Renzi). Ma poi ci piace anche seguire il nostro istinto: come abbiamo
fatto nella scelta dei mezzi. Avevamo riservato tutti gli strumenti più costosi al secondo
turno, quando avrebbero sortito l’effetto maggiore. Ma Achille ha preso un terzo dei voti in
più del 2008, superando di molto i voti assoluti del centrosinistra alle politiche. Non ci ha
permesso di usare tutto ciò che avevamo in serbo: ha vinto direttamente al primo turno.
Un americano a Roma
Il racconto di Paolo Guarino, lo spin doctor che ha guidato la campagna di
Ignazio Marino per il Campidoglio
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può
spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e
quali sono le linee strategiche che avete adottato?
Siamo partiti con la campagna a metà marzo, nemmeno un mese dopo le elezioni politiche.
Eravamo senza vincitori e senza governo, con il M5s lanciatissimo (seconda forza a Roma
alle politiche) e il Pd in difficoltà (ma con buona tenuta alle Regionali nel Lazio, grazie
anche alla candidatura di Zingaretti). Avevamo da contrastare l’antipolitica ed evidenziare
i difetti e le mancanze della gestione Alemanno. Ci serviva quindi un posizionamento molto
aperto, civico, capace di attrarre elettori al di fuori delle solite contrapposizioni. Tenere tra
quelli del centrosinistra, conquistare elettori liberi o che avevano optato per la protesta,
non chiudere alla parte di città più moderata o di destra. Ed avevamo la persona giusta: per
storia personale, professionale e per sua più recente esperienza politica Marino si prestava
naturalmente a questo tipo di posizonamento.
Così quando abbiamo proposto “Non è politica. È Roma.”, lo slogan principale della
campagna, l’ha sentito suo. Pensavamo poi che fosse decisivo non farci trascinare dalle
polemiche, dallo scontro tra candidati, dal botta e risposta, e abbiamo impostato una
strategia in positivo e tra la gente, per parlare di Roma e incontrare le persone, ascoltare i
problemi e costruire le soluzioni. Una strategia tutta puntata sul guidare l’agenda, sullo
stare al centro della scena, senza distrarsi, come troppo spesso è capitato al centrosinistra e
come questa volta si è trovato a fare Alemanno, a parlare o attaccare l’avversario.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
Di “Non è politica. È Roma” ho detto. A questo si aggiunge l’uso del “Daje!”, che nasce
come titolo del primo evento, come esortazione alla città e allo stesso candidato, cui era
stato rivolto in qualche incontro. Poi diventa grido dei volontari e solo alla fine, dopo aver
respirato la città per tutta la campagna, diventa anche tormentone ripetuto da Marino. Il
payoff che ha accompagnato la campagna è poi stato “Roma è vita”: ancora una volta una
scelta di linguaggio coerente con la storia e l’esperienza medica di Marino e una cornice
larga dentro cui declinare il programma di rinascita della città. Per quanto riguarda la
parte visiva, abbiamo mirato a caratterizzare e rendere riconoscibile la campagna,
rompendo gli schemi tradizionali e le abitudini di formato, sia per i colori, con una fascia
multicolor e una dominanza di magenta, sia per l’uso della foto, con Marino inquadrato
con un cartello in cui c’erano scritti i diversi messaggi. Siamo tornati ad una impaginazione
più tradizionale per il ballottaggio, con lo slogan – anch’esso meno originale – “Liberiamo
Roma”, che sottolineo però non è stato declinato in senso ideologico ma concreto (ad es.
“Liberiamo Roma da buche e traffico”) o evocativo (“Liberiamo Roma per i nostri figli”),
con una campagna multisoggetto nell’ultima settimana.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in
campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
Dipende. In linea di massima pochi o nessuno. Ma in una città come Roma, grande, con
molto voto d’opinione, e tanta gente connessa, il ruolo del web e dei social può essere
molto importante. Per definire e diffondere il profilo di candidatura, per motivare, per
attivare comunità, per allargare la conoscenza. Avevamo un diario quotidiano degli
impegni di Marino, dai suoi profili Facebook, Twitter e Instagram, cui si aggiungevano
valori, proposte, idee, racconti, in forma di video, cartoline, semplici post testuali. E poi
con gli account del comitato – con uno staff interno e un supporto di professionisti esterni
– e con i volontari digitali abbiamo fatto un lavoro di amplificazione, risposta, contrasto,
diffusione. Nell’insieme abbiamo consolidato il vantaggio su tutti gli avversari su Twitter e
abbiamo recuperato una distanza di circa 30.000 fan su Facebook rispetto ad Alemanno,
riuscendo alla fine a superarlo.
Ovviamente sono dati per nulla significativi in termini statistici o previsionali, ma sono un
segno della credibilità che Marino ha saputo esprimere e che gli ha permesso di
raggiungere target potenziali che in termini numerici iniziano ad essere significativi e più
consistenti di quelli che si raggiungono con mezzi più tradizionali. Ci tengo poi a citare due
cose specifiche. Un generatore di manifesti che abbiamo lasciato libero per gli utenti, con
cui ciascuno poteva crearsi il proprio messaggio e condividerlo dove voleva, con risultati
anche esilaranti. E una mappa, con relativa app, in cui i cittadini potevano segnalare, con
foto georeferenziate, problemi diffusi e idee.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
Da un punto di vista della strategia comunicativa, aiutati dal conoscere e lavorare con
Marino da molto tempo, abbiamo prodotto quasi tutte le idee di fondo, quelle che hanno
costituito la traccia narrativa della campagna, in un primo brain-storming, appena ricevuto
l’ok si parte. Pensando alla campagna in generale, ci sono stati alcuni snodi, diciamo uno
per ogni fase, primarie, primo e secondo turno, di forte presa di consapevolezza delle
possibilità concrete di vittoria. Momenti spesso a tarda sera, talvolta con qualche positiva
tensione, qualche altra con un bicchiere di vino in mano.
5. Che consiglio avrebbe dato ad Alemanno se avesse lavorato per la sua
campagna?
La sfida per lui era di collegare le cose fatte, appena accennandole, e le proposte per il
futuro. Tanto è sempre sul futuro che si vince. Invece ha rendicontato con sfilze di numeri
e nessun riferimento esperienziale i suoi presunti risultati, limitandosi, per le proposte, a
generiche affermazioni deboli per un sindaco uscente. Gli avrei poi consigliato di parlare
meno di Marino.
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale?
Quali competenze erano presenti nello staff?
Rispondo rispetto all’ufficio comunicazione. Abbiamo creato uno staff di 15 persone, che
garantiva almeno 10 persone sempre presenti. Competenze diversificate che ci hanno
permesso di curare l’ideazione dei messaggi, la produzione creativa, copy e grafica, dei
materiali – dall’affissione ai materiali cartacei ai video – la realizzazione e gestione del sito,
la gestione dei social network, la gestione dei database e l’invio delle newsletter, la
produzione di schede tematiche, l’editing finale del programma, le relazioni con gli istituti
di sondaggi, la pianificazione mezzi, il marketing diretto, con la collaborazione di una
società che ci ha permesso un lavoro approfondito di emersione di target attraverso una
mappa Gis molto accurata. Poi la strategia comunicativa generale, e la partecipazione al
board strategico, che riuniva intorno al candidato e alla coordinatrice del comitato le
diverse aree di lavoro.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non
rifarebbe?
Ci sono sicuramente cose che potevano essere sviluppate meglio, ma non dico quali. Non
vedo singole scelte decisive che sono risultate sbagliate e che cambierei.
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna
elettorale?
Abbiamo cercato di non cadere in nessuno degli errori classici delle campagne del
centrosinistra. E in una visione sicuramente ex-post più che di obiettivo iniziale, siamo
riusciti in qualche modo a ripetere un modello di campagna all’americana, con un forte
protagonismo del candidato, un messaggio costruito in relazione alla sua storia personale,
uno scarso o nullo peso delle ideologie, un messaggio in positivo, una forte motivazione da
trasformare in elemento contagioso di consenso.
I social network fanno la differenza
Patrizia Carrarini racconta la difficile campagna elettorale di Roberto Maroni
per la Lombardia: «Per settimane abbiamo utilizzato Facebook, Twitter e il
sito per raccogliere spunti per il programma»
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può
spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e
quali sono le linee strategiche che avete adottato?
Il contesto da cui partivamo era per certi aspetti sfavorevole: la concomitanza politicheregionali evidenziava una forte sfiducia per i partiti, specialmente per la coalizione di
centrodestra, e in particolare la “questione lombarda”, ovvero le vicende di cronaca a tutti
note sulla Giunta guidata da Formigoni ci mettevano in grande difficoltà. D’altro canto,
bisogna ammetterlo, la situazione lombarda è storicamente di centrodestra, Formigoni nel
2010 raggiunse il 63% di preferenze, tuttavia c’era una fascia di elettorato scontenta e
tentata da alternative elettorali, come il non voto o il voto ad altri partiti.
Il centrodestra si trovava in ritardo nella scelta del candidato e nella definizione della
coalizione: Lega e Pdl sono stati divisi fino all’ultimo, l’alleanza è stata molto difficile, con il
partito di via Bellerio a sostenere Maroni e il partito berlusconiano diviso e tentato da
Gabriele Albertini. La nostra strategia è stata tutta incentrata sulla persona. Maroni era
indubbiamente il nostro punto di forza, conosciutissimo, ministro apprezzato anche a
sinistra. Per questo abbiamo creato subito la Lista Maroni: per raggiungere elettori delusi
storicamente di centrodestra disposti a votare Maroni ma non la Lega. Abbiamo quindi
incentrato la campagna su uno storytelling semplice e chiaro sul candidato.
Contestualmente, abbiamo avviato una strategia d’ascolto iniziata con gli Stati generali del
Nord, volta ad aprire e avvicinare nuovi target, imprenditori e tecnici in primis, elettori
moderati che si erano allontanati dal centrodestra dopo gli scandali degli ultimi mesi.
Siamo partiti con questa strategia molto presto, prima della definizione del puzzle di
alleanze: era fondamentale partire in anticipo.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
Il claim della campagna, “La Lombardia in testa” nasce dalla volontà di comunicare una
visione. Volevamo dare un doppio senso di lettura allo slogan: da un lato, il messaggio era
“La Lombardia prima di tutto”, dall’altro volevamo trasmettere che Maroni aveva la
Lombardia in testa, era il suo chiodo fisso. Nella foto del manifesto, il candidato non
guarda l’obiettivo, ha uno sguardo proteso verso l’alto. Si tratta appunto di una “fotovisione”, che ci sembrava più efficace per comunicare il messaggio. Abbiamo poi scelto uno
sfondo blu, era un messaggio per gli elettori moderati di centrodestra, per recuperare i voti
perduti dalla coalizione. Il voto è una scelta emotiva, il blu serviva a evocare agli elettori i
messaggi e la tradizione del centrodestra.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in
campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
Partiamo da uno scenario, quello lombardo, caratterizzato da dati di connessione molto
alti. E il candidato, Maroni, è un social media entusiasta: ci crede, conosce il mezzo, twitta
molto e in prima persona.
Non possiamo ancora dire che il web sposti voti ma è necessario per creare una strategia
completa. Nel nostro caso, i social media sono stati fondamentali per concretizzare la
strategia di ascolto che avevamo ideato. Per settimane abbiamo utilizzato Facebook,
Twitter, il sito, ogni mezzo di comunicazione per raccogliere spunti per il programma,
raccogliendo 2mila proposte. E la conclusione della prima parte della campagna, ovvero di
questa fase d’ascolto, è stata un evento, “Dillo a Maroni”, dove il candidato si è confrontato
col pubblico presente e col pubblico online che ha potuto fare domande attraverso la
piattaforma Google Hangout. Maroni, al centro di un ring, ha risposto ad ogni sorta di
domande, un vero e proprio Town hall Meeting all’americana, potenziato dal web.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
Il momento clou è stata la definizione ufficiale della coalizione. Per noi è stata la fine
dell’incertezza, dato che eravamo partiti presto ma senza sapere se avremmo fatto una
campagna in solitaria o assieme al Pdl. Ha dato un cambio di marcia a tutta la campagna
elettorale, a livello di efficacia ed efficienza.
5. Che consiglio avrebbe dato a Umberto Ambrosoli se avesse lavorato per la
sua campagna?
Mi aspettavo bissassero la campagna di Pisapia, colorando la Lombardia di arancione. In
ogni caso, avrei consigliato di seguire in modo più lineare un’unica strategia, a volte è
sembrato non avesse una strategia, si muoveva in modo apparentemente incoerente: in
alcuni momenti Ambrosoli si poneva in modo meno aggressivo e abbassava i toni, in altri
era all’attacco e utilizzava un linguaggio più diretto. Poi non ho capito perché la sua
campagna sia iniziata all’insegna dell’ambientalismo, con il candidato che girava con una
macchina elettrica per finire poi con una serie di comizi e viaggi sui Tir, i mezzi più
inquinanti in assoluto. Avrebbe dovuto seguire la strategia in modo più convinto.
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale?
Quali competenze erano presenti nello staff?
La war room era composta da 5-6 persone, alcuni membri e dirigenti interni alla Lega e
l’agenzia Pubblica Comunicazione, che rappresentavo. È stata la prima volta che la Lega si
è affidata a un’agenzia esterna, ed è stato un esperimento positivo. Siamo riusciti a
raggiungere un equilibrio tra gli elementi interni e il supporto dell’agenzia, tra la loro
esperienza e conoscenza del candidato e la professionalità di pubblica comunicazione. Era
importante non creare “doppioni” all’interno dello staff, ad esempio noi non ci siamo
occupati di media planning perché era una competenza di cui disponeva già lo staff di Via
Bellerio.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non
rifarebbe?
Le campagne vincenti si analizzano molto poco di solito, ed è una cosa sbagliata.
Difficilmente non rifarei qualcosa. Penso però a una nostra idea degli ultimi giorni, “Adotta
un indeciso”. Fu una campagna molto condivisa, anche se la lanciammo pochissimi giorni
prima del voto. Ecco, tornando indietro l’avrei lanciata prima: la viralità che abbiamo
raggiunto sarebbe stata molto più efficace.
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna
elettorale?
C’è qualcuno che può non rispondere Obama a questa domanda? Ovviamente per noi il
confronto veniva spontaneo, l’elezione diretta del presidente della Regione è più simile alle
elezioni americane rispetto al nostro voto politico. Inoltre noi eravamo particolarmente
affascinati dalle loro strategie e azioni di microtargeting: sono perfettamente coerenti con
l’ispirazione della Lega e con le sue campagne territoriali. Non siamo riusciti a replicarle in
modo preciso, anche per la mancanza di database adeguati, ma sono sicuramente un
modello a cui ci siamo ispirati.
Le imperfezioni che fanno vincere
La campagna elettorale di Giovanni Manildo, sindaco di Treviso, raccontata
da Marco Marturano. Dove anche una foto sfocata può risultare vincente
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può
spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e
quali sono le linee strategiche che avete adottato?
Treviso era ed è una città prevalentemente moderata. Una città con valori forti e che non
desiderava segnali di cambiamento eccessivamente rivoluzionari. In questa città il
centrosinistra aveva scelto attraverso primarie aperte e vere un candidato sindaco,
Giovanni Manildo, che associava tante caratteristiche del cambiamento civico (dalla forza
della propria professione alla storia di rapporti positivi con tanti pezzi della città e con
molti cittadini fino al particolare non irrilevante dell’età) a tante della buona politica (per
esempio da ex segretario cittadino del Pd). Il centrodestra aveva scelto il candidato
oggettivamente più forte e più stimato in città, il già sindaco e poi prosindaco Giancarlo
Gentilini. Infine lo sfondo si completava con una diffusa percezione di un benessere che
c’era e che nel 2013 sembra sfuggire e di un’amministrazione, quella uscente di Gobbo e
Gentilini, non esattamente trainante per consentire alla città di reggere meglio la crisi
economica del Veneto e dell’Italia.
Da questo contesto nasceva una strategia molto articolata sia sul piano delle scelte generali
e di squadra per la coalizione sia di quelle specifiche per il candidato.
La scelta centrale è sicuramente stata quella di costruire con il candidato e con la
coalizione una campagna a misura della personalità di Manildo e della domanda che
veniva dalla città. Una domanda di cambiamento discreto e condiviso con i cittadini e di un
sindaco che avesse la serenità di confrontarsi con chi ambiva a rappresentare e il coraggio e
la credibilità per assumere decisioni concrete e forti dopo aver gestito il confronto.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
È così che nasce un’idea creativa semplice e, come sempre, non replicabile in nessuna
situazione simile perché nessun candidato ritroverà mai le stesse caratteristiche di
contesto e di personalità dei candidati di questa campagna. La semplicità della scelta
creativa fatta a Treviso è stata quella di reinventare il ruolo del sindaco come portavoce dei
trevigiani che se ne fa materialmente l’interprete delle domande reali di cambiamento. E
che viene corrisposto da cittadini che hanno poi scelto di farsi portavoce a loro volta delle
sue proposte di governo per rispondere alle loro domande. “Il Sindaco con il quale tutti i
trevigiani saranno il Sindaco”, “Scegli il Sindaco tuo” o la maglietta stile Superman con la
M di Manildo pensata perché tutti i trevigiani possono come Manildo avere il potere di
contribuire a cambiare le cose sono solo alcune delle tante soluzioni creative scelte. Sullo
sfondo di colori che restituissero movimento ad una città che si sentiva rimasta
monocolore per vent’anni, diventando, come ha sempre detto Manildo, la bella
addormentata.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in
campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
Saltiamo le generalizzazioni mai utili a vincere le campagne elettorali o a gestire il
consenso dei cittadini. Il web è stato parte integrante di questa campagna perché nessuno
era ossessionato del suo potere di spostare voti. È stato (per esempio attraverso il sito di
Treviso bene comune che teneva unita la coalizione sia nella costruzione del programma
che nella narrazione della campagna) uno strumento di fortissima attivazione e gestione
della partecipazione in una campagna che tanto ha puntato sul giusto protagonismo dei
cittadini. La gestione ironica e insieme aperta sia del sito che dei social ha consentito una
campagna sempre guidata e mai subita e gestito la perfetta integrazione con una campagna
che ha sempre tenuto la rotta sia quando il principale avversario cercava di addormentare
la città sia quando nel ballottaggio ha cercato di dare una svolta aggressiva.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
Momenti clou in una campagna in cui il candidato e la sua squadra di governo devono
cambiare la prospettiva della città rispetto al centrosinistra (ancora di più dopo il flop delle
elezioni politiche di febbraio) ce ne sono stati troppi per approfondirli tutti. E a volte sono i
piccoli particolari a far diventare clou un momento apparentemente normale nel flusso di
una campagna così particolare. Mi piace ricordare però uno di quelli che di sicuro ha
contribuito a rafforzare definitivamente il cambiamento di prospettiva sia rispetto alla
forza che all’intraprendenza di un candidato senza paura come Manildo. La scelta last
minute concepita scientificamente nel corso del caldissimo pomeriggio dell’ultimo giorno
di campagna del ballottaggio di andare a sorpresa in diretta alla trasmissione televisiva
dove il candidato del centrodestra Gentilini aveva costruito la sua chiusura di campagna
con tanto di proiezione in piazza. Un vero colpo da Manildo, che ha saputo dimostrare
ancora una volta perché il suo cartone animato preferito è Kung Fu Panda.
5. Che consiglio avrebbe dato a Gentilini se avesse lavorato per la sua
campagna?
Per correttezza professionale e soprattutto per rispetto di chi ha affiancato gli altri
candidati e in particolare Gentilini e del candidato stesso non mi piace dare consigli.
Tantomeno post risultato. Sarebbe alquanto arrogante. E chi fa questo lavoro tutto
dovrebbe essere tranne che arrogante. In generale penso che la campagna di Giancarlo
Gentilini sia stata una bellissima campagna, la migliore che abbia visto fare al mitico Genti.
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale?
Quali competenze erano presenti nello staff?
Eravamo sempre in sei. Dal candidato al coordinatore della campagna, dal web all’ufficio
stampa a noi due di GM&P (io e Matteo Bellomo). A seconda dei temi delle war room
naturalmente si integravano le altre professionalità o i rappresentanti delle forze della
coalizione.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non
rifarebbe?
Proprio perché non esiste la perfezione in politica (come nella vita, per fortuna) esiste una
scienza esatta come la comunicazione politica. Che fonda la sua esattezza tanto sui metodi
quanto (molto di più) sulla capacità di saper capire lo scenario per costruire una strategia e
sulla flessibilità per adattarsi ai cambiamenti e alle emergenze. Una cosa che per esempio
si poteva teoricamente cambiare? La qualità della foto del manifesto del ballottaggio,
bellissima e efficacissima ma in una risoluzione che la sgranava come se fosse fatta con un
cellulare neanche tanto eccezionale. Ma, proprio perché nulla è perfetto e anche le cose
imperfette hanno un loro lato positivo a seconda delle scelte di una campagna, anche una
minaccia di un’immagine apparentemente sfuocata è diventata un’opportunità. La
sensazione di artigianalità che emergeva da quella foto (scattata peraltro a Manildo in una
condizione di assoluta spontaneità e senza pose) è diventata la chiusura perfetta di una
campagna che ha fatto della sincerità e della verità il suo segno. Evviva le imperfezioni!
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna
elettorale?
Torniamo alla questione generalizzazioni e modelli. Il bello della scienza esatta della
comunicazione politica è non poter replicare mai scelte fatte in altri contesti sempre e
comunque diversi. Penso per esempio alle mie tre esperienze con Flavio Zanonato a
Padova. Nessuna delle tre recuperava qualcosa dalla precedente. Come gioco però a
posteriori direi che se ci fossero alcuni spunti che possono avvicinarsi ad alcune delle tante
scelte ad hoc fatte nella campagna di Treviso li cercherei fuori confine tra gli stimoli della
seconda campagna presidenziale di Bill Clinton del 1996, quelli della prima campagna per
il senato di Hillary Clinton del 2000 e quelli della prima presidenziale di Obama del 2008.
E poi, ancora di più per gioco, tra alcune delle centinaia di campagne che abbiamo fatto nel
corso di questi anni. Tutte talmente diverse da quella di Treviso da poter offrire qualche
spunto distante e vicino. Da quella di Piero Fassino come sindaco di Torino nel 2011 a
quella di Massimo Cacciari come sindaco di Venezia nel 2005, da quella di Filippo Penati
come presidente della provincia di Milano del 2004 a quella di Andrea Ballarè come
sindaco di Novara nel 2011, da quella di Maurizio Martina alle primarie per la segreteria
regionale del Pd nel 2009 a quelle di Piero Fassino a Torino. E qualche suggestione
sicuramente ci è venuta anche da imprese impossibili rimaste tali pur con risultati
eccezionali. Penso alla campagna di Massimo Carraro nel 2005 per la presidenza della
regione Veneto contro Giancarlo Galan oppure a quella di Giovanni Galli contro Matteo
Renzi nel 2009 a Firenze. E poi sempre nel gioco ci sono tanti spunti dati da molte altre
bellissime campagne (da quella di Pisapia per Milano 2011 a quella di Emiliano per Bari
2004, da quella di Illy per il Friuli 2003 a quella della Moratti per Milano 2006 a quella di
Tosi per Verona 2007). Dopodiché tra le tante best practis uniche di una esperienza come
quella di Treviso c’è un concerto memorabile di Roger Waters condiviso con un ex
candidato e oggi Sindaco che non a caso aveva scelto come come sede del suo straordinario
comitato elettorale un negozio che si chiamava Compact Disc. Un’altra best practise
impareggiabile.
#quidebora, una campagna in diretta
Rinnovamento e competenza: il profilo di Debora Serracchiani per la vittoria
in Friuli
La campagna elettorale di Debora Serracchiani è stata costruita sul territorio, giorno per
giorno, grazie a un lavoro sistematico. E Debora Serracchiani, il suo profilo, il messaggio, il
lavoro di Eggers 2.0 (l’agenzia che ha curato la comunicazione dall’inizio), dello staff e dei
volontari, sono stati decisivi per il successo finale. Il lavoro di Proforma, con la
collaborazione di Quorum, è iniziato i primi giorni di marzo. In questa sede ci
concentriamo su due fasi della campagna, rivolte, la prima, all’analisi dell’opinione
pubblica e al messaggio della campagna; la seconda sui social media. Cercheremo, ora, di
delinearne i principali aspetti e risultati. Anzitutto, si è cercato di definire il profilo di
Debora Serracchiani di fronte all’opinione pubblica. Come in ogni campagna elettorale
abbiamo iniziato dall’analisi dello scenario, dei punti di forza e debolezza del candidato e
degli avversari. Abbiamo, quindi, iniziato dallo studio analitico dei dati emersi dal
sondaggio che la campagna aveva commissionato a gennaio: un’indagine quindi datata, ma
molto approfondita. Ne emergeva una competizione incerta, di parità tra la candidata del
centrosinistra e il presidente uscente Renzo Tondo. Tondo era considerato più preparato e
vicino alla gente, concreto e moderato. Debora Serracchiani aveva un posizionamento
marcato a sinistra, che rischiava di alienare alcuni elettori moderati. Dimostrava, però, una
grande capacità di esprimere il cambiamento. E di rispondere, così, a una domanda molto
diffusa fra gli elettori. In questo modo la Serracchiani appariva in grado di intercettare il
consenso sui temi tradizionalmente cavalcati dai grillini. Da una parte, emergeva quindi la
necessità di investire sul tema del rinnovamento. Dall’altra, andava recuperato il forte gap
sulla competenza che i cittadini percepivano tra Tondo e lei.
Debora Serracchiani si è quindi proposta come la candidata del cambiamento, ma, al
tempo stesso, ha dimostrato la propria conoscenza del Friuli Venezia Giulia, con una serie
di proposte specifiche. Declinando il suo messaggio con proposte specifiche e cercando il
confronto con i candidati. A cui, invece, si sono spesso sottratti gli avversari. Negli ultimi
mesi di campagna, per questo, più che sulla polemica con gli altri, si è dedicato molto
tempo e impegno alle proposte della candidata. Evitando di alzare i toni del discorso, per
non allontanare l’elettorato moderato, determinante per vincere in Friuli Venezia Giulia.
Così la Serracchiani ha tranquillizzato e convinto gli elettori moderati, che hanno
apprezzato la sua concretezza e preparazione. E, al tempo stesso, ha dimostrato agli elettori
di Grillo di rappresentare davvero il cambiamento “possibile”. Il lavoro di strategia sui
social media (e non solo) ha avuto obiettivi precisi: esaltare i punti di forza, ridurre
l’impatto dei punti di debolezza, aiutare il resto dello staff senza limitarsi al “compitino”. Il
lavoro svolto si è concentrato sulla gestione di due anomalie. Da un lato era evidente lo
sbilanciamento della popolarità di Debora Serracchiani sui social media, conquistata in
anni di parlamento europeo e di presenza sui media nazionali. Il “pubblico” dei profili
Facebook e Twitter era dunque molto diverso, per composizione socio-demografica,
rispetto all’effettivo elettorato, cioè i cittadini residenti nel Friuli Venezia Giulia.
La prima attività eseguita è stata la produzione di nuovi contenuti sui social media, dando
risalto e attenzione molto maggiori a elementi di interesse per l’elettorato friulano.
Ovviamente senza rinunciare del tutto a commenti sui temi nazionali, anche perché erano
funzionali a costruire il posizionamento politico generale di Serracchiani e a garantirle una
buona esposizione sui media nazionali. Inoltre era oggettivamente impossibile, se non
addirittura controproducente, ignorare il dibattito di marzo e aprile, tra difficoltà a
formare il governo e la disastrosa settimana pre-elettorale per il Pd, con le candidature
bruciate di Marini e Prodi per il Quirinale.
In parallelo, è stata lanciata una pre-campagna su Facebook orientata ad aggregare nuovi
“mi piace” di utenti residenti in Friuli Venezia Giulia mentre su Twitter sono state
inaugurate delle “dirette” con Debora Serracchiani protagonista, utilizzando l’hashtag
#quidebora, per raccogliere domande relative alla campagna. Successivamente queste
sessioni interattive sono state introdotte anche su Facebook.
Una volta messa a posto la prima anomalia, si è scelta una strategia figlia della seconda
anomalia: comunicare in modo sistematico, utilizzando post sponsorizzati su Facebook, ai
tempi dell’antipolitica. Sono state quindi realizzate, grazie a Eggers, dodici infografiche
(pubblicate a cadenza quotidiana negli ultimi giorni) con i dati più significativi del
programma elettorale della candidata,senza utilizzare il budget per comunicare con gli
utenti Facebook del Friuli Venezia Giulia, rischiando di attirare commenti adirati
(soprattutto da parte di utenti che consideravano questi messaggi come “spam”). La
campagna si è rivolta solo alle persone già connesse con la pagina Facebook di
Serracchiani, più motivate a ricevere (e condividere) quel tipo di messaggi.
Il ragionamento di fondo è stato: gli utenti Facebook del Friuli Venezia Giulia che erano
interessati a ricevere messaggi da Debora Serracchiani hanno avuto l’occasione di iscriversi
alla pagina durante la pre-campagna. Tutti gli altri, evidentemente, non volevano essere
disturbati. Ed è questo l’insegnamento maggiore che, dal nostro punto di vista, questa
esperienza ci lascia: la comunicazione politica “pubblicitaria” sui social media deve essere
rivolta solo ai tuoi sostenitori, almeno finché i tassi di sfiducia nella politica sono così alti.
Dino Amenduni (Proforma)
Giovanni Diamanti (Quorum)