Non è tempo per i guru
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Non è tempo per i guru
INDICE Prefazione. Non è tempo per i guru, di Nando Pagnoncelli Introduzione. Persuasione o mobilitazione?, di Giovanni Diamanti Il rebranding di Hollande Guerrilla gardening, il segreto di Nichi Porta a porta e manifesti: i fondamentali non tradiscono Il taoismo che ha convinto Brera e Leoncavallo Caricature e flash mob: la comunicazione è un gioco Il cuore social di Napoli Non si vince senza volontari Un americano a Roma I social network fanno la differenza Le imperfezioni che fanno vincere #quidebora, una campagna in diretta Prefazione. Non è tempo per i guru, di Nando Pagnoncelli La professione dello spin doctor si afferma tardivamente in Italia rispetto a quanto è avvenuto nelle altre democrazie occidentali. I grandi rivolgimenti che hanno caratterizzato la vita politica e sociale del nostro paese nella prima metà degli anni Novanta hanno favorito la nascita del marketing politico e con esso l’affermazione di discipline non certo nuove ma fino ad allora decisamente in ombra e poco rilevanti: mi riferisco ai sondaggi elettorali e d’opinione e alla consulenza politica, la cui crescente importanza ha portato alla ribalta nuove figure professionali quali i ricercatori (definiti, spesso non senza discredito, “sondaggisti”) e gli spin doctor. Sono molti i punti in comune tra le due attività e le due professioni e in queste righe provo a sintetizzarne gli elementi più significativi. Partiamo dall’inizio: è proprio nei primi anni Novanta che si osservano anche in Italia le conseguenze derivanti della caduta del muro di Berlino (l’indebolimento del voto “ideologico” e delle appartenenze) e si verificano cambiamenti di grandissima portata nella relazione tra gli elettori e la politica. Mi riferisco a Tangentopoli che produsse il duplice effetto di delegittimare i partiti tradizionali e di ridurne le risorse economiche, limitando la loro presenza sul territorio, dove fungevano da vere e proprie antenne in grado di captare il clima sociale e di trasmettere in ambito locale le strategie politiche dei partiti, attraverso un flusso permanente di comunicazione a due vie tra periferia e centro. Mi riferisco anche al profondo cambiamento dell’offerta politica che fino ad allora, era stata caratterizzata dalla presenza negli anni degli stessi partiti: Dc, Pci e Psi in primis, con il corollario dei partiti “laici minori” (Pli, Pri,Psdi) e delle ali estreme del Msi a destra e di sigle più variegate a sinistra (Psiup, Dp, Nsu, a seconda delle tornate elettorali). Fino ad allora le uniche eccezioni erano rappresentate dal Partito Radicale, protagonista della stagione referendaria e molto innovativo quanto a modalità di comunicazione politica, i Verdi e la Lega, in grado di intercettare i profondi cambiamenti sociali e le nuove istanze dei cittadini. La scomparsa dei partiti tradizionali la loro parziale riproposizione sotto nuove sigle, le scissioni e la nascita di nuove forze politiche rappresentano una vera e propria rivoluzione agli occhi degli elettori. E, da ultimo, mi riferisco ai cambiamenti delle leggi elettorali sia per le elezioni legislative (l’adozione di un sistema prevalentemente maggioritario: il Mattarellum), sia per quelle amministrative (elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province e delle regioni). Tutto ciò ha determinato una straordinaria mobilità elettorale e la personalizzazione della politica sia a livello nazionale che a livello locale. Ecco allora che tra i protagonisti della politica sono emerse prepotentemente due domande: 1) conoscere gli elettori (quantificarli i generali e per segmenti – fedeli, potenziali, ecc. – e descriverne il profilo socio-demografico e attitudinale) e le loro aspettative (l’agenda dei cittadini in generale e per singoli segmenti sociali. 2) comunicare con loro, tradurre una proposta politica in un messaggio in grado di convincerli e di mobilitarli; un compito reso ancor più complesso dalla presenza di strumenti nuovi strumenti di comunicazione, dal rischio crescente di saturazione informativa e dalle sempre più variegate diete mediatiche dei cittadini. La politica si nutre di consenso: il ricorso ai sondaggi e alla consulenza politica, non è stata e continua a non essere un ubbia, ma una scelta necessitata dal contesto mutato. Entrambe le attività, tuttavia, per tutti gli anni Novanta hanno faticato non poco ad essere considerate adeguatamente ed apprezzate, per diversi motivi: innanzitutto l’oggettiva difficoltà a far comprendere le loro specificità e le loro potenzialità, sia per pregiudizi diffusi (all’epoca molti esponenti politici diffidavano di sondaggisti, consulenti politici e comunicatori, presumendo di saperne più di loro) sia per oggettiva scarsa dimestichezza dei politici con strumenti innovativi e metodologie di lavoro sofisticate. A tale proposito l’aneddotica è ricca di episodi: dal politico che contesta i dati dei sondaggi contrapponendo alle stime sulla sua popolarità altre stime decisamente più generose «perché tutte le volte che scendo dall’auto la gente mi circonda acclamante e mi vuole abbracciare» a quello che riteneva di avere una straordinaria capacità comunicativa «perché ho assunto un bravissimo addetto stampa», per non tacere poi di quel leader che considerava il concetto di marketing politico un ossimoro perché “la politica non è un pannolino”. Una seconda difficoltà nella fase iniziale di sviluppo era costituita dall’assenza di percorsi formativi in ambito universitario, percorsi in grado di garantire competenze e professionalità di cui i pionieri disponevano ma che potevano essere trasferite esclusivamente mediante processi di training on the job. Oggi l’offerta formativa è decisamente ricca e qualificata. Una terza difficoltà che, sebbene attenuata nel tempo, non è del tutto scomparsa, riguarda la definizione del perimetro delle competenze e delle responsabilità: spesso si sovrappongono i ruoli di sondaggista e spin doctor depotenziandone le rispettive specificità. Da sempre ritengo importante tenere rigorosamente separate l’attività di ricerca demoscopica da quella di consulenza politica, per due motivi: perché la missione della consulenza politica è quella di far vincere un candidato laddove la ricerca è uno strumento di conoscenza che deve attenersi a principi, a mio parere imprescindibili per un ricercatore, di neutralità e terzietà; in altri termini: non si dovrebbero far sondaggi per far vincere un partito o un leader, ma per fornirgli un contributo di conoscenza. Inoltre perché si tratta di attività del tutto complementari che se svolte da un solo soggetto presentano il rischio di un potenziale conflitto di interessi; spesso infatti si utilizza la ricerca per mettere a punto strategie di comunicazione o per controllarne gli effetti: quis custodiet ipsos custodes? E’una questione che in passato ha riguardato anche il rapporto tra società di ricerche di mercato e agenzie pubblicitarie. Per lungo tempo il rapporto era improntato al sospetto e al pregiudizio reciproco: i creativi spesso mal sopportavano che qualcuno “censurasse” il prodotto del loro intelletto mentre i ricercatori apparivano sordi alle argomentazioni dei creativi e spesso imponevano apoditticamente “l’opinione del target”; la situazione oggi è molto diversa, grazie soprattutto alle aziende-clienti che hanno legittimato e valorizzato entrambe le professionalità tenendole separate e favorendo la loro collaborazione sinergica. Nell’ambito della consulenza politica e dei sondaggi in Italia vi sono realtà che realizzano entrambe le attività, sull’esempio di alcune rinomate agenzie statunitensi (PSB, Greenberg, per citarne alcune). Più per l’ambizione di alcuni ricercatori di voler fare i consulenti politici che non per il desiderio di questi ultimi di voler controllare il processo di ricerca. In prospettiva credo che sarà decisivo il ruolo dei partiti-clienti nel favorire una separazione o meno dei ruoli. Ci sono altri aspetti che accomunano le due attività e le due figure professionali, ne cito due: 1) Innanzitutto il rischio di un utilizzo improprio dello strumento. Nel caso del sondaggio mi riferisco all’utilizzo propagandistico dello stesso, quando viene realizzato non tanto per misurare le opinioni ma per formarle o modificarle (in tal senso è emblematico il famoso sondaggio americano della PSB in occasione delle elezioni del 2006). Nel caso della consulenza politica mi riferisco allo scollamento tra comunicazione e realtà, tra promesse e realizzabilità delle stesse (memorabile la frase che durante le primarie americane del 1984 il democratico Walter Mondale rivolse al rivale Gary Hart a fronte dell’evanescenza di alcune proposte di quest’ultimo: “Where is the beef?”) e tra la modalità di rappresentazione di un leader e la sua vera personalità (memorabile l’imbarazzo del presidente Monti che abbraccia il cane Empy durante la trasmissione Le Invasioni Barbariche di Daria Bignardi). 2) La rappresentazione mediatica di sondaggisti e spin doctor. È una rappresentazione che spesso restituisce un’immagine deformata e caricaturale conseguenza di un eccesso di protagonismo mediatico: nel caso del sondaggista si impone l’immagine del mago che prevede il futuro; nel caso del consulente politico l’immagine del guru che presume di esser stato decisivo per l’affermazione del proprio candidato. Spesso vengono pubblicate interviste a sondaggisti che dissertano sul presunto spostamento di voti causato da episodi o vicende che in realtà risultano del tutto insignificanti in termini politici. Oppure articoli o interviste a spin doctor (pochi per fortuna) che si intestano la vittoria di questo o quel candidato sindaco, esibiscono consulenze, svelano “segreti” e strategie spregiudicate (non a caso il sotto-titolo del saggio di Giancarlo Bosetti Spin recita “trucchi e tele-imbrogli della politica”) sottovalutando l’impatto in termini di immagine distorta di questa attività. Spin factor cerca di porre rimedio a tutto ciò restituendo un’immagine più realistica della professione e delle sue specificità. Attraverso una carrellata di esperienze professionali recenti, raccontate da alcuni dei principali consulenti e comunicatori politici, questo eBook aiuta a capire la complessità di un’attività che richiede competenze di elevato livello (è impossibile improvvisarsi spin doctor), formazione e aggiornamento continui, rigore deontologico e caratteristiche personali non comuni: l’onestà intellettuale, il distacco (anche psicologico) dal candidato e dal partito, e la capacità di innovare e di rimettersi in discussione ad ogni campagna elettorale che si affronta, evitando di applicare la stessa ricetta in ogni contesto, dimenticandosi dei successi recenti e del lusinghiero track record. E soprattutto la capacità di “rimanere con i piedi per terra” consapevoli del fatto che una vittoria elettorale è frutto di un lavoro di squadra, non della presenza di un vero o presunto deus ex machina. Nando Pagnoncelli Introduzione. Persuasione o mobilitazione?, di Giovanni Diamanti "Faccio il consulente politico, il mio mestiere consiste nell'aiutare i candidati alle alte cariche pubbliche a essere eletti". Non esiste definizione più semplice e precisa di quella di Joe Napolitan per descrivere lo spin doctor. Ora, qualche decennio dopo questa spiegazione del consulente americano, in Italia è difficile pensare a campagne elettorali che non vedano figure professionali ad affiancare i candidati alle cariche pubbliche. Ma il consulente politico non è un mestiere definito e privo sfumature, anzi. Si possono chiamare così tutti i professionisti impegnati nelle campagne elettorali: gli strateghi, i pubblicitari, gli addetti stampa, i ghostwriters, gli esperti del web, i pollsters, i campaign manager. Non è un lavoro nuovo ma una professione che parte da lontano: già Quinto Tullio Cicerone creò per il proprio fratello, candidato alla carica di console, un breve manuale che gli consigliava le mosse da attuare in vista delle elezioni. Nel tempo, sono stati in molti a cimentarsi con successo nella sfida finalizzata a vincere le campagne elettorali, ed alcuni consulenti sono diventati leggendari negli ambienti politici: da Jacques Séguéla, il creativo che negli anni '80 coniò per François Mitterrand lo slogan perfetto e vincente "La Forza Tranquilla", a Karl Rove, che per fare eleggere George W. Bush alla presidenza degli Stati Uniti d'America utilizzò tattiche tanto geniali quanto spregiudicate; da Alastair Campbell, l'uomo che reinventò il Labour, a David Axelrod, lo stratega alla base dei successi di Barack Obama. Con il tempo, anche le modalità di lavorare in campagna elettorale si sono evolute. Le nuove tecnologie hanno fatto prepotentemente il loro ingresso nella scena, modificando le strategie tradizionali e rivoluzionando gli strumenti di persuasione. Come sempre, il luogo della nascita di queste nuove tecniche sono gli Stati Uniti d'America. Le leggi poco restrittive sulla privacy della Terra della Libertà hanno reso gli Usa un terreno fertile per le sperimentazioni nel campo del microtargeting più estremo: grazie alla tracciabilità delle informazioni sulla cronologia dei siti web visitati e dei programmi televisivi visti da ciascun americano, è oggi possibile divulgare i messaggi più adatti alle persone sensibili alla ricezione di quelle proposte. Sempre negli Usa, tecniche di campagna elettorale tradizionali come il porta-a-porta sono state rinnovate proprio grazie alle nuove tecnologie, portando alla creazione di immensi database, come VoteBuilder. "Durante la campagna elettorale, le porte non si bussano a caso": queste poche parole riassumono il princìpio che guida il moderno porta-a-porta. I guru della comunicazione politica americana hanno creato delle banche dati che abbinano a ciascun elettore americano una serie infinita di informazioni, finalizzate a individuare gli elettori più utili da contattare per raggiungere gli obiettivi prefissi dalla strategia scelta. Tecniche antichissime, unite alle tecnologie più recenti, per raggiungere una maggiore efficienza ed efficacia. Proprio queste innovazioni americane, e in particolar modo le novità organizzative e strutturali portate dalle campagne obamiane, hanno innescato un dibattito teorico intenso quanto interessante sulle strategie elettorali da seguire. Un dibattito nato ovviamente negli Stati Uniti, ma arrivato fino alla nostra penisola. Si tratta del confronto tra i due grandi paradigmi nell'ambito della campagna elettorale: persuasione o mobilitazione? La "persuasione" è senza dubbio il paradigma dominante sulla scena italiana ed europea negli ultimi anni. Incentrare le campagne sulla "persuasione" significa conoscere il contesto politico e gli elettori nel dettaglio per individuare i cosiddetti swing voters, gli indecisi, al fine di persuaderli e far quindi prevalere il proprio candidato. I sondaggi, gli studi elettorali, il microtargeting, sono tutti strumenti straordinari per individuare il segmento di elettorato da convincere. Altri strumenti, come i focus group (e in parte gli stessi sondaggi) sono invece finalizzati a trovare i messaggi più adatti per persuadere queste persone. La bassa affluenza che ha caratterizzato, globalmente, le ultime elezioni, unita ai nuovi strumenti di Get out the vote ha portato alcuni consulenti a contrapporre al paradigma precedente, la supremazia della mobilitazione. Questi teorici sostengono infatti che, in un contesto in cui l'elettore medio si reca sempre meno frequentemente alle urne, vince le elezioni chi riesce a portare il maggior numero dei propri elettori al voto. Gli elettori incerti e in bilico vengono sostituiti dai votanti delusi e tentati dall'astensione, i sondaggi per individuare gli swing voters sono rimpiazzati dalle analisi dell'affluenza per selezionare le zone con il maggior crollo di votanti. Così, il porta-a-porta targetizzato diventa fondamentale: le porte non si bussano a caso, bisogna individuare le case degli elettori democratici scontenti. Il paradigma della mobilitazione porta con sé un limite enorme: non è applicabile ad ogni elezione. In Italia, ad esempio, è impensabile per un candidato di centrosinistra vincere le elezioni in Lombardia o in Veneto solamente portando a votare i propri elettori. Perché, molto semplicemente, gli elettori di centrosinistra in alcune zone del paese (così come in alcune zone del mondo) rappresentano un'esigua minoranza. In questi casi non si possono vincere le elezioni senza convincere parte di un segmento elettorale con diverso orientamento politico. È tuttavia indubbia l'efficacia di alcune strategie di mobilitazione in alcuni contesti elettorali. Penso alle ultime elezioni politiche, e al Partito democratico. Dato in vantaggio da tutti i sondaggi, uscito vincitore dalle ultime elezioni locali, ha subìto un tracollo il giorno del voto. Eppure sono convinto che il porta-a-porta, in alcune zone del Paese, fatto nelle case degli elettori più fedeli, ovvero gli elettori delle primarie, avrebbe fidelizzato una quota di elettori delusi dalla campagna post-primarie del partito, e avrebbe rafforzato il risultato elettorale di Pierluigi Bersani. Ma in Italia, troppo spesso, le buone pratiche di campagna elettorale non vengono seguite. Ci si affida troppo spesso a guru esteri catapultati all'ultimo, senza che abbiano il tempo di studiare la nostra politica, e troppo poco a consulenti che conoscano le campagne elettorali del nostro paese. Spin factor nasce per questo, per promuovere le campagne elettorali vincenti, per far conoscere le strategie e le tattiche più innovative messe in pratica negli ultimi anni in Italia. Per capire come si vincono le elezioni. O, quantomeno, per capire come non perdere un'elezione già vinta. Il rebranding di Hollande Intervista con Valerio Motta, uno dei principali consiglieri per la comunicazione del presidente francese, responsabile della campagna web per Francia 2012 Il Partito socialista francese veniva da diverse sconfitte elettorali consecutive: ci può spiegare qual è stato il punto di partenza della campagna elettorale? Come avete pensato di aggiornare il brand "PS"? Abbiamo perso le elezioni presidenziali nel 1995, nel 2002 (senza nemmeno andare al ballottaggio) e nel 2007. Siamo usciti dal congresso del 2008 con un partito spaccato in due tra Martine Aubry e Ségolène Royal. Dopo la sconfitta alle elezioni europee del 2009 dove non abbiamo superato il 16%, la nuova segretaria ha lanciato un grande rinnovamento del partito: primarie aperte, pari opportunità tra i generi, lotta contro il cumulo di incarichi. Martine Aubry ha anche lanciato una riorganizzazione del PS, con la creazione di un settore di comunicazione e un lavoro di rebranding e di sviluppo di nuove tecniche e tools. Abbiamo cominciato a lavorare sul rebranding creando un nuovo logo per il partito, coniugando l'identità e la storia del PS racchiuse nel pugno e la rosa con una traduzione grafica più moderna. Abbiamo definito i colori da usare nell'immagine coordinata e creato un font dedicato alla comunicazione di partito: "Jaurès". Il fine era condividere con i circoli il materiale per conservare una coerenza grafica nazionale. Il 75 per cento del bilancio della comunicazione del partito veniva speso nella pubblicazione di un settimanale di 24 pagine, inviato agli iscritti. L'abbiamo soppresso, utilizzando i soldi per investire in strumenti online. Dopodiché abbiamo formato un team web di una decina di persone che ho coordinato personalmente. Per dare a questi cambiamenti un valore simbolico maggiore, tutte le iniziative che abbiamo avviato con la mia squadra sono state lanciate lo stesso giorno, per gli auguri di buon anno della segretaria nel 2010. C'è stato poi un lavoro permanente di branding: ogni evento, ogni attività di comunicazione è un brand. In primo luogo, dovevamo ritrovare un legame affettivo col paese. Da qui nasce "La France qu'on aime", il titolo dell'università estiva del PS del 2009, dalla quale è partito un vero tour de France di dialogo con la gente. Abbiamo quindi incentrato i nostri messaggi sull'idea del cambiamento ("Il est temPS de changer"). La ripetizione e la coerenza delle azioni sono importantissime, per questo abbiamo martellato costantemente su questo tema: abbiamo chiamato il 2011 "l'anno del cambiamento", abbiamo descritto le primarie come "il momento per dare un nome al cambiamento" e la campagna per portare i giovani a votare aveva come titolo "Le changement est à vous" ("Il cambiamento sta a voi"). Quando siamo arrivati nel momento clou della campagna presidenziale, dopo le primarie, l'agenzia BDDP, che ha curato la comunicazione di Francois Hollande, ha avuto la strada spianata nella scelta dello slogan: dopo 17 anni di presidenza della destra "Le changement, c'est maintenant!". L'agenzia ha creato il primo brand presidenziale della storia francese: il logo da loro inventato prevedeva due sbarre, una sopra e l'altra sotto "FR", a rappresentare la Francia e il concetto dell'uguaglianza. Abbiamo proseguito ad utilizzare il tema del "cambiamento" anche dopo le presidenziali: per le politiche di giugno 2012, abbiamo infatti chiesto ai francesi di darci "Una maggioranza per il cambiamento". In generale, come si comunica un partito? Quali sono le differenze tra Francia e Italia in campagna elettorale ? La principale differenza è il ruolo del partito: in Francia, c'è un alto livello di personalizzazione, soprattutto nelle elezioni presidenziali. Si tratta di un tipo di campagna molto diversa da quelle italiane. Non si vota facendo una croce sul simbolo di un partito, non c'è voto di preferenza: per le elezioni presidenziali si vota un nome solo, con un sistema elettorale a due turni. Il primo turno serve a mobilitare nel proprio campo. Poi, al ballottaggio, si deve allargare il consenso per raggiungere i voti della maggioranza del paese. Tutto ciò con spese elettorali molto controllate e limitate e con parità di condizioni di trattamento tra tutti i candidati nei media. C'è anche un'altra differenza: noi sappiamo sempre quando saranno le elezioni, c'è una grande stabilità, questo ci dà la possibilità di pensare ed elaborare le campagne con anni di anticipo, mentre in Italia si è quasi sempre in campagna elettorale. La gestione del tempo è di grande importanza: per i grandi partiti è strategicamente utile massimizzare il vantaggio all'inizio della campagna, perché dopo, nel periodo di "par condicio", non è facile cambiare le opinioni e i messaggi sviluppati dai media. Noi ad ottobre abbiamo organizzato le primarie, che hanno portato i media a inseguire i nostri temi, e che ci hanno dato una visibilità mai raggiunta prima. Quando invece si entra nel periodo in cui vige la parità di condizioni tra partiti nei media, la presenza sul territorio e il porta a porta sono fondamentali per parlare direttamente alla gente. Non è il partito ad apparire durante la campagna, ma il candidato. Il lavoro del partito è preparatorio, con la creazione e distribuzione di volantini, con il porta a porta, ma noi non abbiamo un'organizzazione capillare come il Pd, i nostri iscritti sono tra i 150.000 e i 200mila. Quando la campagna comincia davvero, l'organizzazione prevede la creazione di uno staff (una cinquantina di persone, un team comunicazione, una squadra web e stampa) e una sede dedicata. Contestualmente avviene una ripartizione dei ruoli: il partito fa il poliziotto cattivo e attacca la destra mentre il candidato sviluppa le proprie proposte. La campagna di Francois Hollande è stata una delle prime in Europa a importare dagli Stati Uniti le tecniche di porta a porta: che strategie di mobilitazione avete utilizzato in campagna elettorale? Abbiamo studiato molto la campagna di Obama. Alcuni di noi sono andati a Chicago, compresi i nostri leader, i think tank hanno lavorato sul tema. Il porta a porta non era sconosciuto. Lo facciamo da molto tempo, soprattutto per elezioni locali. Era l'idea di generalizzarlo, di fare un report ogni sera, di mobilitare anche i semplici cittadini che non avevamo mai applicato. Il fine era combattere l'astensionismo di sinistra, targetizzando le zone ad alto tasso di astensionismo dove la maggioranza dei voti storicamente va alla sinistra. Nel 2010 abbiamo fatto un test in una banlieue di Parigi, applicando il programma completo: formazione, report serale, recupero degli indirizzi mail. Questo, su un lato solo di una via divisa tra due seggi elettorali. Il risultato ci ha mostrato che queste tecniche americane funzionano anche da noi: tra le due zone c'è stata una differenza di quasi dieci punti di partecipazione. Abbiamo quindi generalizzato questo programma per il partito in tutto il paese. Durante la campagna abbiamo poi migliorato la parte di reporting, creando una piattaforma online per conoscere ogni sera il numero di porte bussate e avere una percezione delle reazioni alla campagna. È grazie a questo programma che sappiamo di aver bussato a più di 5 milioni di porte. Inoltre, applicando i calcoli che abbiamo fatto nel 2010, siamo riusciti a stimare che questo sforzo ci abbia portato 300mila voti in più al primo turno. Parliamo ora di strumenti: come avete utilizzato il web e i social media? Quanti voti pensa abbiano spostato? È molto difficile fare un calcolo in termini di voti perché sul web non si fanno più campagne distinte, ma si organizza uno spazio di campagna collegato allo spazio mediatico ed al terreno. Il web in campagna elettorale serve a capitalizzare i contatti. E per farlo, serve contattare tanta gente. Se consideriamo il pubblico, i cittadini, come cerchi concentrici, immaginiamo all'esterno il militante del Front National, quello che ci odia di più. E al centro, il perfetto militante del PS, che fa il porta a porta ogni sera, che condivide tutto su facebook e che finanzia il partito. Tra i due, tutti gli indifferenti, poi gli elettori, quelli che possono dare una mano in campagna, etc... In passato, si usava soprattutto un legame indiretto, con un leader che parlava ai media o ai sindacati, alle associazioni per far passare un messaggio alla gente. Con un ritmo mediatico più intenso, e campagne quasi "live", con i social media che danno un legame diretto, con un'organizzazione web di campagna integrata e strutturante, si può immaginare un modello diverso: si tratta di creare punti di contatto quando possibile con i cittadini, raccogliere dati e infine agire. L'obiettivo non è trasformare un fan della Le Pen in attivista di Hollande. Ma è creare una sfera di persone pronte a partecipare al porta a porta per andare a parlare agli astensionisti. Per fare questo, in America usano i soldi, la pubblicità. Più del 70 per cento del milliardo di euro speso dalla campagna di Obama è stato investito in pubblicità televisiva e in azioni per raccogliere dati. Noi non abbiamo queste possibilità. Abbiamo dovuto essere creativi e Internet è stato molto utile. I database sono strategici: dal 2008 in poi, in Francia e in America, il candidato che ha vinto le elezioni è stato quello che aveva il database più ricco. La metodologia per raccogliere dati è semplice: si crea un contenuto interessante, che stimoli condivisione e interattività mirate soprattutto a persone che non militino già nel PS, poi si individua il modo migliore per conservare i contatti, attraverso iscrizioni a mailing list e like su facebook, e infine si procede contattando gli aderenti per dare loro nuove possibilità di azione. Abbiamo pensato anche ad attività collaterali, come il concorso "Un caffè con Hollande": ci sono stati migliaia di iscritti, che hanno poi ricevuto inviti a dare una mano alla campagna. La nostra è stata una campagna "live". Tutti gli eventi erano trasmessi su un canale online, che aumentava soprattutto la visibilità su Twitter. Abbiamo anche creato un servizio di hoaxbuster, per combattere le false notizie che circolavano nel web. Infine, abbiamo ideato i "party della risposta rapida". Sono stati un momento di valorizzazione forte delle comunità: quando c'era un importante dibattito in tv, gli attivisti digitali si trovavano nella sede del partito o del candidato per commentare online insieme. Ho grandi ricordi di questa campagna! Infine, che consiglio avrebbe dato a Nicolas Sarkozy se avesse lavorato alla campagna per la sua rielezione? Non l'avrei fatto! Seriamente, serve molto tempo per articolare un'organizzazione. Questa volta, l'Ump non si è impegnato in una strategia integrata se non molto tardi. Alla fine, gli 800mila voti di differenza tra noi e loro sono esattamente il numero di elettori dei quali abbiamo raccolto dati personali alle primarie. Il tempo delle campagne "blitz" mi sembra terminato. Bisogna preparare le campagne sempre con grande anticipo: per la prossima penso ad un lavoro più articolato sul porta a porta e l'elenco degli elettori. C'è ancora molto da fare. Giovanni Diamanti Guerrilla gardening, il segreto di Nichi A colloquio con Dino Amenduni, stratega della campagna di comunicazione di Vendola alle regionali 2010 1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato? La campagna elettorale è stata preceduta da una tensione politica molto forte, che ha portato Vendola a dover chiedere le primarie per potersi ricandidare alla presidenza della regione, pur essendo governatore uscente. Il Partito democratico, infatti, ha a lungo cercato di far arretrare Vendola, il quale (supportato dalla nascita delle Fabbriche di Nichi, laboratorio politico che aggregò i pugliesi disposti a sostenere il diritto di Vendola a ricandidarsi) non mollò fino al raggiungimento del suo obiettivo. Il Pd alla fine ha dovuto accettare le primarie e ha chiesto a Francesco Boccia di ricandidarsi. La campagna elettorale per le primarie vera e propria è durata due settimane, e Vendola ha di fatto avuto la certezza di potersi ricandidare a difendere i cinque anni di lavoro svolto solo tre mesi prima delle elezioni regionali (del 28 e 29 marzo 2010). La campagna elettorale è, di fatto, iniziata ancor prima della candidatura ufficiale di Vendola (che coincise con la convocazione delle Primarie), attraverso il lavoro delle Fabbriche di Nichi, gruppi di persone auto-organizzatesi sui territori cittadini, composti da persone provenienti dalle più diverse storie politiche (militanti di Sel, del Pd, dell’associazionismo, giovani senza una specifica appartenenza). Il loro lavoro, e la razionalizzazione di quello sforzo durante gli eventi pubblici (come l’evento di presentazione delle Fabbriche a novembre del 2012) ci aiutò con il posizionamento di Vendola, che di fatto fu l’unico “candidato” in campo per intere settimane, dato che anche a destra c’era molta confusione. Per tutte queste ragioni è possibile sostenere che senza le Fabbriche di Nichi avremmo vissuto una campagna elettorale molto diversa, e forse non vincente. 2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte? Nel contesto descritto, Vendola ha paradossalmente potuto giocare la sua campagna elettorale da outsider: non essendo appoggiato dalle forze politiche principali, con il Pd che annunciò un’alleanza già chiusa con l’Udc in caso di vittoria di Boccia, Nichi era “solo contro tutti” (parafrasando il Massimo D’Alema pre-primarie). Proforma ha sempre lavorato sui difetti percepiti di Vendola, tentando di rovesciarli dal punto di vista del significato. Così come nel 2005 le parole “pericoloso”, “estremista”, “sovversivo” e “diverso” furono alla base della campagna di comunicazione, così la (presunta) solitudine e la sfida contro gli apparati politici classici diventò un punto di forza. E così facemmo anche dopo aver vinto le Primarie. Vendola era accusato dalla destra di essere un parolaio, uno bravo con la “poesia” e molto meno bravo con la “prosa”, cioè con l’amministrazione della cosa pubblica. Il nostro racconto, invece, diceva altro. Come tutti gli amministratori uscenti, bisognava puntare sulle cose fatte, sul buon governo. E c’erano settori di governo su cui le politiche della regione Puglia erano eccellenze a livello nazionale: politiche giovanili, turismo, cultura. Così abbiamo deciso di raccontare il buon governo, ma con frasi in rima, su manifesti (anche i classici 6×3) senza volto di Vendola né loghi dei partiti, ma piuttosto con icone tematiche che raffiguravano i temi portanti della campagna, che poi corrispondevano ai punti di forza dei primi cinque anni di governo di Vendola. “Giù le mani dalla brocca, l’acqua è nostra e non si tocca”, per parlare della totale ripubblicizzazione dell’acquedotto pugliese. Tutta la campagna e tutte le declinazioni successive furono immaginate a partire da questo concept e da questo visual. 3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media? I recenti dati del Censis (giugno 2013) dicono che i social media possono condizionare direttamente il comportamento di voto di una quota molto limitata di italiani, circa il 7%. C’è un 43% (+25% in quattro anni) che dichiara che la sua socializzazione politica, cioè il reperimento delle informazioni utili a prendere una decisione elettorale è determinata dalle relazioni con i “pari”, ossia parenti, amici e conoscenti. Nel 2010 il peso dei social media, per quanto in grande crescita, non era paragonabile all’attuale (un esempio su tutti: il peso di twitter, ancora più limitato rispetto al presente). Nella campagna di Vendola c’era già, però, la bozza del ragionamento che poi il Censis ha confermato quest’anno, che in realtà è una riflessione che parte da più lontano, dalla campagna di Obama nel 2008. La Rete non serve a convincere direttamente qualcuno a fare qualcosa (in questo caso a votare), quanto piuttosto serve a organizzare le persone che si vogliono impegnare per sostenere un candidato. L’organizzazione consiste nella creazione di luoghi di coordinamento e nella produzione, da parte della cabina di regia, di contenuti facilmente esportabili, declinabili liberamente e adattabili al contesto di riferimento. Parlare di ambiente a Bari è diverso rispetto a parlare di ambiente in un comune di 6000 abitanti della provincia di Lecce, ad esempio. Il nostro lavoro consisteva, dunque, nella gestione di due flussi di comunicazione: le linee guida, le parole d’ordine, gli schemi comunicativi (ad esempio l’immagine coordinata) partivano dal centro in modo omogeneo, lasciando totale libertà alle “periferie” dal punto di vista dell’elaborazione politica e programmatica. Ma proprio quel processo libero di elaborazione era poi studiato, riportato al “centro” e successivamente ri-offerto alle periferie, quando ci si rendeva conto che una Fabbrica di Nichi di un determinato comune aveva fatto un buon lavoro. È il caso del guerrilla gardening, un’idea nata all’interno della rete delle Fabbriche, divenuta poi “buona azione”, coordinata dalla cabina di regia, trasformata in un format che poi è stato interpretato liberamente dai militanti sui territori. 4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte? Il momento clou, dal punto di vista politico, è stata la notizia della “separazione” del centrodestra con due candidati in competizione tra loro: Rocco Palese e Adriana Poli Bortone. Molti analisti hanno osservato che in caso di sfida a due (e in particolare, di sfida a due Vendola-Poli Bortone), Nichi non ce l’avrebbe fatta (alle elezioni regionali vince chi ha più voti, senza ballottaggio; Vendola nel 2010 è stato eletto con il 48.7%). Io non sono tra quelli che la pensavano e la pensano così, ma è indubitabile che questa notizia fu per noi un grande elemento di sollievo. 5. Che consiglio avrebbe dato al suo avversario Rocco Palese se avesse lavorato per la sua campagna? Rocco Palese ha puntato tutto sulla demolizione dell’avversario. Ha parlato in modo pressoché esclusivo di ciò che Vendola non aveva potuto o saputo fare. Ma se un candidato non dà una visione, una speranza, un’idea autonoma di governo (svincolata dal passato), è molto difficile che riesca a entrare nel cuore dei cittadini, soprattutto degli indecisi o degli scettici. 6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff? A differenza della campagna elettorale del 2009, io non sono stato fisicamente nel luogo della “war room”, ma ho seguito i lavori dalla agenzia per cui lavoro, Proforma. Dunque non so dire con precisione quante persone potessero essere considerate effettivamente nel cuore della decisione. Preferisco ragionare per funzioni: esisteva una cabina di regia politica, che traduceva le richieste di Vendola in prassi di azione politica e comunicazione, guidata da Nicola Fratoianni. C’era una parte di lavoro sulla comunicazione e sulla strategia generale (coperta da Proforma, FF3300 e da Ed Testa) e c’era la parte di organizzazione e di rapporti con le Fabbriche, guidata da Roberto Covolo. Ma la vittoria di Vendola nel 2010 ha tanti figli e tante storie fantastiche (le Fabbriche di Nichi, appunto), sarebbe sbagliato ridurre tutto ai nomi che cito qui. 7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe? Non sono state decisioni che ho preso io, ma in ogni caso se potessi tornare indietro avrei provato a tenere in vita l’esperienza delle Fabbriche di Nichi almeno fino alle politiche del 2013 e, se fosse stato impossibile farlo, avrei detto sin da subito che quell’esperienza aveva una prospettiva di crescita limitata. La politica non si fa con i se e con i ma, allo stesso tempo chiunque abbia vissuto quella campagna elettorale si è poi mangiato le mani vedendo le forme e i modi dell’avanzata di Grillo alle ultime elezioni politiche. Avevamo preso una strada, una strada virtuosa, che è stata abbandonata. Un peccato. 8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale? Per quanto mi riguarda, i modelli sono stati prevalentemente due: la campagna di Obama nel 2008, soprattutto per quello che concerne la parte di organizzazione sul web, e la campagna di Emiliano a Bari nel 2009, curata da Proforma e coordinata (anche) da me per ciò che riguardava EmiLab, il gruppo di 100 volontari under30 che hanno di fatto condotto l’intera campagna elettorale. L’aver sperimentato con successo alcune buone pratiche a Bari ci ha permesso da un lato di imparare dagli errori fatti e valorizzare ciò che di unico fu realizzato durante quella campagna elettorale, ma soprattutto l’esserci riusciti nel 2009 ci permise di poter dire: “si può fare, rifacciamolo”. Porta a porta e manifesti: i fondamentali non tradiscono Marco Cacciotto racconta i giorni della campagna di Alessandra Giudici per la riconferma a presidente della provincia di Sassari 1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato? Punto di partenza per l’elaborazione di una corretta strategia è la conoscenza del contesto competitivo e dell’avversario attraverso la raccolta del maggior numero possibile di informazioni per elaborare un piano e un messaggio coerenti con il contesto di riferimento. Il contesto di partenza non era favorevole al centrosinistra e ad un candidato uscente. Il turno amministrativo appena terminato a livello nazionale aveva segnato una sconfitta del centrosinistra che aveva perso diverse regioni e subito sconfitte in vere e proprie roccaforti (ad esempio Mantova). Berlusconi e il centrodestra avevano l’opportunità di “politicizzare” il voto per ribaltare l’esito del 2005 e distogliere l’attenzione dai temi e dai candidati locali. Nel 2005 Alessandra Giudici aveva vinto con il 60,7% e una coalizione molto ampia a sostegno con ben 11 liste. Nel 2010 lo scenario era completamente cambiato con il centrosinistra diviso, un trend nazionale sfavorevole, il passaggio dall’altra parte del Partito sardo d’azione che cinque anni prima aveva preso il 6,6%. Questa volta le liste a sostegno erano “solamente” cinque e non era stato possibile creare una lista del presidente. Allo scenario politico si aggiungeva lo scenario economico, con una provincia che stava attraversando, al di là della crisi generale, un momento terribile, forse il peggiore degli ultimi 60 anni (basti pensare allo sfacelo dell’industria chimica e all’Isola dei cassaintegrati salita proprio in quel periodo alla ribalta mediatica nazionale). Crisi e lavoro sarebbero stati al centro della campagna, ma il tono della stessa doveva essere positivo, rassicurante, orientato al futuro attraverso soluzioni concrete per uscire dalla crisi e dare un futuro al territorio del nord-ovest. 2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte? L’essenza della strategia politica risiede nella capacità di contrapporre il proprio punto di forza al punto di maggiore debolezza dell’avversario. I messaggi dovrebbero essere basati sulle virtù e sui difetti dei candidati (l’esperienza, la competenza, l’integrità, la compassione, ecc.), sulle differenze ideologiche legate agli schieramenti di appartenenza, su situazioni di contesto generiche come il cambiamento opposto allo status quo oppure il progresso opposto alla stagnazione o, infine, su una combinazione di ciascuna delle tre possibilità precedenti. Una prima scelta da effettuare in tempi brevi per l’impostazione della campagna elettorale è legata al comunicare “la persona” o il progetto. Una campagna elettorale è un racconto che coinvolge vari aspetti: le caratteristiche del candidato, le idee e le proposte, ma soprattutto non deve mai dimenticare i cittadini. Anche la migliore storia, se non è in sintonia con i desideri e le aspirazioni degli elettori in quel momento, è destinata, infatti, a fallire. Alessandra Giudici era conosciuta e raccoglieva consensi personali, ma allo stesso tempo il suo essere fuori dai giochi politici e difficilmente inquadrabile, aveva provocato malumori e dissensi all’interno della sua stessa maggioranza. La scelta fu di accentuare la personalizzazione della comunicazione puntando sulla sua immagine, ma allo stesso tempo di puntare sulla tematica più sentita dai cittadini. La personalizzazione permetteva di puntare sul consenso dei cittadini che non avevano un giudizio elevato nei confronti dei partiti e di andare oltre la coalizione. Alessandra Giudici si candidava per completare il lavoro incominciato, per continuare a difendere gli interessi del nord ovest e non permettere che si tornasse ad una provincia lontana dai cittadini o che a governare fossero gli stessi partiti che a Cagliari avevano marginalizzato il territorio della provincia di Sassari. Nasce da queste considerazioni l’idea di un doppio messaggio nei materiali di comunicazione: un claim che rappresenta il tema della campagna e l’impegno principale che prendeva con i cittadini “Prima il Lavoro” e un pay-off “Provincia di Sassari. Secondi a nessuno” che rappresentava un elemento di orgoglio e di contrapposizione rispetto al centrodestra che governava a Cagliari. La scelta della personalizzazione era rafforzata dall’immagine in primo piano di Alessandra Giudici in tutti i materiali che prendeva impegni concreti sulle priorità da affrontare guardando negli occhi i cittadini: prima il lavoro, secondi a nessuno (difesa degli interessi del territorio, trasporti, ambiente e istruzione. Insieme diventavano le “5 buone ragioni per confermare Alessandra Giudici”. 3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media? Quanti voti sia in grado di spostare il web è ancora dibattuto (così come sono sempre stati contrastanti i dati su quanti voti sposta la televisione). Detto ciò è ormai impensabile un strategia che non contempli l’uso dei social network, ma nel 2010 l’uso e l’impatto della rete era sicuramente diverso rispetto ad oggi. Fu realizzato un sito internet e si puntò più sui video che sui social network. La campagna si basò sul porta a porta e sui manifesti. Le campagne elettorali si vincono grazie alla comprensione del contesto e all’elaborazione di una strategia efficace che va declinata su diversi mezzi e attraverso tante singole azioni. Non si vince con un manifesto o solo attraverso i social networks. 4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte? I due dibattiti televisivi che sono stati registrati nella stessa giornata. Alessandra Giudici è stata efficace al contrario del suo avversario e questo ha, a mio avviso, cambiato l’inerzia delle due campagne dando una decisa spinta alla nostra campagna. 5. Che consiglio avrebbe dato all’avversario, Romano Mameli, se avesse lavorato per la sua campagna? Avrei fatto una campagna completamente diversa. All’attacco e con slogan più diretti ed efficaci. Avrei lavorato con grande attenzione per mobilitare gli elettori nelle roccaforti elettorali (cosa che avrebbe fatto la differenza). 6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff? La war room era composta da 5 persone: due figure politico/istituzionali di assoluta fiducia del candidato, il responsabile delle relazioni con la stampa, il responsabile della comunicazione ed io, il consulente politico. Una struttura di comando ridotta, ma con compiti ben precisi e una forte condivisione del progetto di campagna. Tutti i materiali di comunicazione sono stati ideati e realizzati da Alberto Paba. Come raramente accade nei team che si formano ad hoc, ho lavorato in perfetta armonia e sintonia con Alberto che stava seguendo anche le comunali a Sassari e Porto Torres. 7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe? Ad esempio non permetterei ai partiti di impedire la realizzazione della lista del presidente. Era evidente che era una scelta rischiosa non dare agli elettori moderati e che non si riconoscevano nei partiti la possibilità di votare una lista “civica”. La mancanza di una lista del presidente metteva a rischio la vittoria al primo turno con tutti i pericoli di un secondo turno senza il traino della campagna elettorale per il comune di Sassari. Per fortuna mentre le liste si sono fermate di mezzo punto sotto la maggioranza, i voti per Alessandra Giudici hanno permesso di vincere al primo turno con il 50,70%. 8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale? Ormai si fa riferimento a quanto accade nelle elezioni precedenti americane e naturalmente anche noi studiamo attentamente quanto viene da oltreoceano (ma anche dagli altri paesi europei). Il nostro modello di riferimento è l’approccio cda che abbiamo sviluppato nel corso di decine di campagne elettorali e che continuiamo di anno in anno ad arricchire e far crescere. È basato su un’attenta analisi del contesto e sulla stesura di un piano di campagna per fasi (capire, decidere, agire). L’attività di analisi e predisposizione delle fasi della campagna è, purtroppo, uno degli aspetti più sottovalutati dai committenti politici e questo avviene a tutti i livelli. Eppure un’attenta analisi del sistema competitivo permette di ottimizzare l’impiego delle risorse e di costruire una campagna efficace. Le campagna elettorali rimangono un’arte, ma noi cerchiamo di introdurre un approccio scientifico nell’analisi e nella predisposizione di messaggi efficaci e in grado di cogliere il contesto e le aspirazioni degli elettori. Dopo l’elezione della Giudici abbiamo seguito più di 15 campagne a sindaco e il nostro metodo si è arricchito, ora vi è un crescente peso degli strumenti digital e dei social network, ma non cambia l’essenza alla base di una campagna vincente: è la strategia a fare la differenza. Il taoismo che ha convinto Brera e Leoncavallo Roberto Basso racconta la campagna di Giuliano Pisapia che nel 2011 ha tolto Milano alla Moratti a colpi di ironia e battendo lo "sconfittismo" 1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato? Lo scenario per le amministrative milanesi del 2011 era definito da un incumbent debole sul piano del gradimento ma forte di una coalizione che a Milano e in Lombardia vinceva da quasi vent’anni. Un sindaco uscente, e per questo favorito, con un tasso di notorietà al massimo livello, sostenuto da alleati al governo della Regione e del Paese. Nell’insieme, un fronte elettorale sostenuto da un budget impressionante, documentato intorno ai 12 milioni di euro, stimato da qualcuno addirittura a 20. Lo sfidante veniva da una competizione nel centrosinistra a tratti aspra. Pisapia era uscito vincente da quella competizione, che aveva visto schierarsi una parte del Pd con lui contro il candidato del partito, Stefano Boeri. Eppure veniva considerato dagli osservatori un prodotto “tipico” delle primarie: il meno adatto a competere con l’avversario di centrodestra. Chi lo pensava non conosceva Giuliano. La strategia che abbiamo adottato in questo scenario è simile a tante campagne che abbiamo visto dopo: pochi simboli di appartenenza, molte scelte basate su un quadro preciso di valori, capace di abbracciare tradizioni e sensibilità politiche distinte. È una scelta che paga se il candidato è in grado di incarnare genuinamente quei valori, se non è semplicemente l’interprete di un ruolo costruito per lui. Quindi abbiamo lavorato molto intorno alla persona, sottolineandone l’autonomia e l’indipendenza rispetto alle tessere, alle appartenenze rigide, alle carriere del professionismo politico. “Intorno”, ripeto: le campagne elettorali le vince il candidato. Non credo che a Milano ci siano altre persone capaci di coagulare giovani dei centri sociali e la migliore borghesia cittadina. 2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte? Ci erano state proposte idee pregevoli sul piano della creatività pura, professionalmente di alto livello, ma a mio giudizio potevano andare bene un po’ per chiunque. Scelsi di coinvolgere un’agenzia con la quale mi intendevo al volo e proposi loro di affrontare la sfida di elaborare un posizionamento in mezza giornata, sulla base della mia conoscenza del candidato, della strategia complessiva della campagna e di pochissimo materiale biografico. Nello spazio di un mattino nacque dalla testa e dal cuore di Paola Giulietti il claim che ancora tutti ricordano: “La forza gentile per cambiare Milano”. Calzava sul candidato come un abito fatto su misura. Lo si ricorda anche perché investimmo le poche risorse disponibili su un botto di affissioni con grande anticipo. Bisogna anche dire che si ricorda quel messaggio con tanto favore perché accompagnò la vittoria. Per il visual fummo molto criticati: avevamo poche ore per fare uno shooting, il candidato era reduce da una febbre alta e un servizio fotografico era l’ultimo dei suoi desideri. Il risultato complessivo fu però originale, diverso dai faccioni impostati che infestano le città nel corso di una campagna elettorale, con sfondi finti e sorrisoni. Parlavamo all’elettorato che ancora non lo conosceva per presentarlo: del resto la sua notorietà superava appena la metà degli elettori. Dopo il primo flight di campagna (400 poster 6 per 3 metri) la notorietà era zompata al 74%. Nella seconda fase della campagna cambiammo registro: il candidato ormai era abbastanza conosciuto, volevamo fare respirare agli elettori la speranza in un nuovo corso. Paola elaborò diverse proposte, quella che ci piacque di più segnò la primavera: “Il vento cambia davvero”. Dovevamo combattere quello che chiamai “sconfittismo“, quella sensazione degli elettori più a sinistra che ritenevano impossibile vincere a Milano. Ma la scelta creativa che ricordo con il piacere di un’emozione viva è la serie di spot elettorali: un lavoro low cost e high quality ideato ancora da Com.unico, realizzato con il contributo di due giovani videomaker, doppiato gratuitamente da una grande voce italiana. 3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media? Nell’approccio ai social media sono guidato da un istinto che mi pare taoista: l’opinione pubblica che emerge dall’interazione di tante persone non può essere guidata, devi lasciarla correre, seguire il flusso, esserne parte e meritarti così il diritto a proporre una direzione. Quindi siamo stati genuini: niente acquisto di fan e follower, tanta interazione, pubblicazione di moltissimi contenuti. Furono preziosi tanti volontari e la competenza editoriale di Hagakure. Ma anche lo sforzo di raccontare in immagini e suoni le tante iniziative di una campagna partecipatissima, animata da più di 40 comitati cittadini e decine di migliaia di volontari. La cosa fondamentale che in tanti ancora fanno fatica a capire è che non esiste il “popolo della Rete”: in rete ci confrontavamo con le stesse persone che venivano in piazza per un evento e poi volevano continuare la discussione anche nottetempo perché la passione faceva fatica a spegnersi. Questa continuità nel modo di “esserci”, sul territorio fisico della città e su quello sociale delle relazioni umane, dev’essere piaciuta a chi la Rete la frequenta di più. Era il terreno naturale del candidato. Meno per l’incumbent. 4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte? Potrebbero essere stati diversi i momenti clou: la presentazione della candidatura al Dal Verme. O le “Officine per la città”, il laboratorio di elaborazione collettiva del programma. A distanza di tempo però il ricordo più forte coincide con il confronto televisivo negli studi di Sky: a pochi giorni dal voto del primo turno Letizia Moratti fece un errore che potrebbe avere contribuito a segnare l’esito della sfida. Nessuno può sapere come sarebbe finita se quel giorno il sindaco uscente non avesse accusato il suo sfidante di essere un ladro di auto, un estremista: un proposito totalmente in contraddizione con l’idea che ciascuno poteva farsi dell’uomo che aveva di fronte. Quell’evento fece scattare una gara di solidarietà che accese la partecipazione attiva e scatenò l’ironia: da lì i “Morattiquotes”, la falsa moschea di Sucate, il video del “Favoloso mondo di Pisapie”. Lo ricordo anche per una questione di orgoglio professionale: rispondemmo così bene e soprattutto così rapidamente da creare lo spin ideale. I giornali che avrebbero dovuto raccontare una storia di sospetti, di insinuazioni, di dubbi, finirono col raccontare soltanto una storia di slealtà e di false accuse. 5. Che consiglio avrebbe dato a Letizia Moratti se avesse lavorato per la sua campagna? Come diceva De Andrè? Chi non sa più dare il cattivo esempio diventa prodigo di buoni consigli. Solo per stare al gioco posso fare una considerazione: dall’esterno avevamo la sensazione che lo staff del sindaco fosse affollato di prime donne, ricco di consiglieri di professione e non. E al tempo stesso, cosa che non è affatto una contraddizione, privo di guida. Se dovessi tradurre questa considerazione in un consiglio direi: scegli un cavallo, magari anche un asino, purché non sia quello di Buridano. Magari non correrà ma reggerà il peso di una campagna. Meglio di tanti destrieri in lite tra loro. 6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff? La war room era ristretta a quattro persone: il candidato, il consigliere politico, il portavoce e il direttore della campagna. Facevamo molte riunioni allargate, per tenere dentro le sensibilità di tutti. Lo staff stabile era molto ampio: dagli specialisti degli eventi e dei concerti all’ufficio stampa agli sherpa politici. Con il supporto di videomaker, fotografi, web master, community manager, online editor, microblogger. E i comitati, da quelli territoriali a quelli creativi, organizzati dagli ottimi Paolo Limonta e Federico Robbiati. 7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe? Chissà. Una campagna è frutto di un equilibrio molto delicato: una macchina complessa costruita in pochissimo tempo, che continua a crescere mentre il pilota accelera. Cambiando qualcosa, rischi di compromettere l’assetto e di portarla fuori strada. Il coinvolgimento di tante persone è stato molto faticoso. Però più che a errori da correggere il pensiero corre alle mancanze, alle cose in più che avremmo potuto fare. Bisogna fare di tutto e di più. 8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale? Fino a poco tempo fa in Italia e in Europa il dibattito sul campaigning coincideva con la funzione creativa. Adesso finalmente emergono modelli di impostazione più orientati all’analisi, alla pianificazione strategica, all’organizzazione. Io mi ispiro a David Plouffe, il campaign manager di Obama, piuttosto che a Jacques Séguéla, per intenderci. Credo che il coordinamento sia la chiave su cui investire per tenere insieme il tutto e farlo marciare nella direzione giusta. Anche in questo caso si trattò di una intuizione del candidato, che con l’investitura di un direttore per la campagna fece una scelta molto chiara. Oggi sono sempre più convinto che la comunicazione sia più di una funzione estetica, ma anche più di una funzione “relazionale”: certo le emozioni mettono in relazione le persone. Ma credo che in alcuni casi la comunicazione sia una leva per l’attuazione di un disegno strategico. Se disegni un prodotto pensando alle modalità con le quali l’utente ne ricaverà un beneficio avrai più probabilità di conseguire la sua soddisfazione. Allo stesso modo, soltanto se disegni una strategia pensando che tante persone ne dovranno essere una parte attiva e non un target riuscirai a coinvolgerle. Ottenendo non solo il loro consenso, ma la loro adesione convinta. Caricature e flash mob: la comunicazione è un gioco Aldo Tanchis, consigliere per la comunicazione di Massimo Zedda, racconta la campagna elettorale di Cagliari: «Si deve sempre partire dalla personalità del candidato» 1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può spiegare qual era il contesto in cui è nata l'elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato? Eravamo nella tipica (e vantaggiosa) situazione di outsider. Massimo Zedda combatteva alle primarie contro un pezzo da novanta del PD e della politica regionale, Antonello Cabras. Non c'era storia, in apparenza. Chiesi a Massimo, quando mi coinvolse nella campagna, se pensava di avere qualche possibilità o se si trattava di una candidatura di testimonianza. Lui rispose che era convinto di potercela fare. In quel momento il PD sardo era in difficoltà ma il divario tra loro e SEL appariva tanto grande da non consentire speranze di sorta. Il quadro generale sembrava deteriorato al massimo in campo politico, il sentimento diffuso era quello di una richiesta di cambiamento. 2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte? Lo slogan ORA TOCCA A NOI nacque pensando alla necessità del ricambio e alla possibilità che la figura di Zedda potesse incarnarlo, soprattutto se avessimo giocato su un NOI collettivo, allargato, che coinvolgesse per le primarie anche il "popolo" PD, stanco dei suoi leader regionali. Per le primarie non avemmo neanche il tempo di scattare una foto di Massimo. Quando lavoriamo su un candidato - come ci è successo per esempio anche per Pisapia o per Soru nel 2004 - partiamo sempre dalla sua personalità, mai da un progetto astratto. Il candidato incarna il progetto, non il contrario, ovviamente. Scegliemmo una grafica molto fresca, giocata sul rosso e il blu di Cagliari, anche se alleggeriti e in sostanza su un mood di novità, il più possibile lontano dalla vecchia politica. In sostanza stavamo dicendo: "i vecchi leader hanno con ogni evidenza fallito. Basta. Ora tocca a noi, tocca a chi ha energie, freschezza, vivacità e non è compromesso col vecchio sistema...". Tutto questo anche se Massimo in realtà era già un navigato politico! Il candidato del PD decise di non aspettare il risultato delle Primarie a Cagliari ma andò negli USA per un impegno istituzionale, credo, e là venne raggiunto dalla notizia della clamorosa sconfitta. 3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media? Allora il web era ancora una discreta novità, in politica. La giovane età di Zedda ci permetteva di puntare parecchio sulla rete. Chiedemmo la collaborazione di tutta la sinistra. Il regista Enrico Pau, per esempio, produsse delle esilaranti caricature del candidato avversario che furono cliccatissime ma soprattutto contribuirono a motivare i volontari che facevano campagna per noi. Sicuramente il web riuscì a mobilitarne parecchi, e questo fu evidente quando confrontavamo i click tra i nostri video e quelli dell'avversario, che fece addirittura nascere una web tv che però nessuno andava a vedere. I flash mob, poi, sono stati una parte importante perché innovativa, creativa, ludica. Tanto da essere stati poi "esportati" a Milano per la campagna di Pisapia e più recentemente ad Alghero, per un'altra campagna comunale vinta. 4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte? C'è un momento quasi magico, nelle campagna elettorali, nel quale capisci che sei riuscito a far partire una massa di persone che faranno campagna per te: se questo non avviene, o avviene in modo insufficiente, la valanga si ferma subito. Ma se parte (penso anche all'esperienza con Pisapia) allora diventa inarrestabile. Collegato a questo, c'è un altro momento magico: quando il candidato stesso si trasforma, si convince intimamente che può e che vuole vincere (e anche questo non è scontato). 5. Che consiglio avrebbe dato all'avversario di Zedda, Massimo Fantola, se avesse lavorato per la sua campagna? La sua coalizione sulla carta era da 60%, se non di più. Anche Fantola era un "nuovo" candidato per la carica di Sindaco, ma questa "novità" non è mai realmente uscita in campagna. E' sempre stato visto come uno mandato avanti dal gruppo di famiglie che tradizionalmente ha governato Cagliari. Sicuramente l'avrei mandato da un ottimo fotografo, come abbiamo fatto noi: lo scatto di Daniela Zedda ha tirato fuori da Massimo Zedda la gioventù, la bellezza, la disponibilità. Quella di Fantola era quasi una caricatura. A parte questo, avrebbe avuto bisogno di almeno una proposta forte, unica, tipo il "Teniamo in Lombardia il 75% delle tasse" di Maroni. 6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff? Oltre alla mia agenzia, com.unico, venne coinvolta Be Tools di Cagliari con Barbara Argiolas coordinatrice e organizzatrice della campagna, e FXStudio, agenzia web di Cagliari di PierFrancesco Borghero che curava anche la fondamentale parte produttiva. Insieme, una quindicina di giovani attivissimi, che faceva capo al Circolo di via Puccini, più un paio di persone fidatissime di Zedda, giovani come lui. 7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe? Come dice un mio amico, "per uno che applaude, 99 prendono la mira". Ci spararono addosso in parecchi, soprattutto quando aprimmo la campagna contro Fantola scrivendo "Ora tocca a tutte le Cagliari che ci sono". Volevamo conquistare almeno il 50,1% dei consensi e quello fu il primo segnale verso commercianti, impiegati statali e le altre aree che costituivano il serbatoio tradizionale del centro-destra. Forse sopravvalutammo le nostre forze, infatti il tentativo di dialogare con i quartieri per far nascere ulteriore volontariato non riuscì come avremmo voluto. Ma alla chiusura della campagna c'era un mare di gente. 8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale? Una campagna elettorale NON è una normale campagna pubblicitaria. Trovo inutile ispirarsi a Obama, buttarsi sul web, circondarsi di intellettuali… E' qualcosa che sta a metà, ed è questo il motivo per cui si vedono campagne elettorali fatte da professionisti pubblicitari meno efficaci di quelle dei "rozzi" comunicatori elettorali. Le devi trattare in modo differente. Noi abbiamo sviluppato una certa metodologia ma è importante che sia molto aperta perché ogni candidato è diverso e particolare, così come ogni città. La cosa fondamentale, ripeto, è la conoscenza e il rispetto dell'identità del candidato, oltre che la conoscenza della situazione cittadina. Se vuoi far diventare simpatica e alla mano Letizia Moratti, come provarono a fare contro Pisapia - sei condannato a perdere perché è contronatura (con tutto il rispetto per la signora Moratti). Non credo che la Thatcher potesse far campagna cercando di far venir fuori il suo lato umano. A Milano spesero non so quanti soldi per il fotografo ma quella bonaria signora sui manifesti non somigliava neanche lontanamente alla Moratti. Io avrei cercato di far passare un messaggio del genere "Non sarà simpatica, ma è efficiente, capace ecc.". Quella volta furono loro ad essere presi da un attacco di tafazzismo. Il cuore social di Napoli Alessio Postiglione, consigliere per la comunicazione di Luigi de Magistris, racconta la campagna elettorale del 2011: «Questa è la città più giovane d'Italia, un cittadino su due era su Facebook» 1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può spiegare qual era il contesto in cui è nata l'elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato? La nostra campagna elettorale è nata in un clima di grande disaffezione e delusione dell'elettorato rispetto ai partiti principali: non soltanto sul fronte della qualità dell'offerta politica, com'è avvenuto e sta avvenendo in tutta Italia. Ma anche rispetto ad una crisi del sistema clientelare, più specifico del contesto politico del Mezzogiorno e proprio di Napoli. L'opinione pubblica qualificata era delusa sia da una destra rappresentata, a livello locale, da Nicola Cosentino, travolto da infamanti inchieste giudiziarie, che dalla sinistra incarnata da Antonio Bassolino, ritenuto responsabile della crisi rifiuti e percepito come il dominus di un sistema clientelare non dissimile a quello doroteo di Antonio Gava e della Prima Repubblica; e che ha portato il Comune di Napoli all'attuale situazione di predissesto, che oggi stiamo gestendo. Il contesto in cui de Magistris ha vinto è stato anche fortemente caratterizzato dall'erosione di quello “zoccolo duro” clientelare, radicato fra consulenze e società partecipate, indebolitosi per la mancanza di risorse pubbliche da impiegare, da parte della “cattiva politica”, nella cattura del voto. Sulla scena politica, particolarmente grave era la situazione del Pd, le cui primarie si erano concluse con l'accusa di brogli. Di conseguenza, anche quella porzione di elettorato quantitativamente esiguo ma qualitativamente pregiato, fatto di intellettuali che hanno sempre votato a sinistra, era “sul mercato” e permeabile all'offerta di cambiamento proposta da de Magistris. 2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte? Decidevamo sempre attraverso brainstorming, proponendo varie bozze o idee a de Magistris, che aveva l'ultima parola. Importantissimo era il ruolo di Claudio, il fratello di de Magistris, che viene dal mondo della comunicazione e degli eventi, e che metteva a disposizione dello staff le sue competenze. 3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media? Quanti voti sposta il web? Forse pochi. Ma le elezioni si vincono anche per un voto. Di certo, a febbraio 2011, i napoletani presenti su Facebook erano 280.000, circa il 50% dei 600.000 napoletani che in media si recano alle urne. La nostra comunicazione si è basata su freschezza, novità, cambiamento. Non solo perché l'elettore cercava una novità rispetto al duopolio Cosentino-Bassolino, ma soprattutto perché Napoli è la città più giovane d'Italia e con la maggior classe di elettori che si sarebbero recati alle urne per la prima volta in occasione della amministrative (18/21 anni). Per questo, elaborammo una campagna di banner per Google e Fb targetizzata sui giovani, con parole chiave come “cambiamento”. I banner che ebbero più successo, infatti, furono “La prima volta fallo con il cuore”, con immagini che rimandavano al primo voto, e “Apri gli occhi, cambia Napoli”, sempre per blandire i più giovani. De Magistris, già come europarlamentare, riscuoteva parecchio successo in una classe di elettorato giovane, culturalmente elevata e a cui piace informarsi, anche attraverso internet e i canali “alternativi”. Nostri cavalli di battaglia erano e sono temi come i beni comuni, il consumo consapevole, la democrazia diretta, la lotta alle mafie e - tema particolarmente sentito a Napoli -, un piano alternativo dei rifiuti, non basato su discariche ed inceneritori, ma su compostaggio e riciclo. Gli altri banner che progettammo riguardavano, dunque, proprio il programma elettorale, in modo da solleticare l'attenzione di questo pubblico esiguo ma informato. Nei banner, facemmo largo uso di dati e numeri. In sintesi, attraverso il web abbiamo approcciato una platea giovane ed informata: lasciando alla campagna tradizionale “porta a porta” e casa per casa il compito di mobilitare l'elettorato più tradizionale, meno formato ed anziano. 4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte? L'inaugurazione del comitato elettorale. Fu una grande festa. Accorsero tantissimi giovani e volontari per darci una mano. Capii plasticamente come i nostri messaggi di cambiamento, speranza e rottura, rispetto ad un sistema clientelare o corrotto a cui avevano contribuito i massimi partiti nostri competitor di destra e sinistra, potevano fare veramente breccia nel cuore dei napoletani. Tanti giovani affluirono al comitato grazie alla nostra campagna sul web e ai flash mob che organizzammo. Il segreto fu il coinvolgimento. La gente voleva essere parte del cambiamento. Richiedemmo, tramite il nostro blog, contributi ai cittadini per il programma della città. Quei contributi furono inseriti nel nostro programma elettorale, con il nome e cognome dei cittadini. Nel programma, dunque, c'erano gli endorsement e le proposte di personaggi pubblici affianco alla proposta del cittadino qualunque. 5. Che consiglio avrebbe dato a Morcone se avesse lavorato per la sua campagna? Scegliersi una sede diversa. La nostra era fronte strada-piano terra: per aprirsi alla città. La sua al primo piano, raggiunta solo dagli addetti ai lavori. In definitiva, Morcone ha puntato troppo sulla medietas e sulla sua biografia di uomo delle istituzioni, responsabile ed equilibrato: i cittadini volevano energia e cambiamento. Parole chiare e nette, non mediazione e burocratese. Proforma, che ha curato la campagna per Morcone, cercò di “rinfrescarne” l'immagine con il claim “Il cambiamento è Mo'”. Ma non era facile rendere quella biografia interprete del cambiamento... 6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff? Una decina: giornalisti, politologi, informatici, esperti di grafica, comunicazione ed eventi. 7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe? Direi che la campagna è andata bene... 8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale? Abbiamo cercato di leggere Napoli, con una lente moderna e 2.0. I social media non hanno sostituito la campagna elettorale fatta di strette di mano e di creazione di rapporti personali fra politico e cittadini. Abbiamo battuto la città palmo a palmo, e siamo finiti addirittura a cena a casa di una famiglia delle Vele, a Scampia. Abbiamo dimostrato che quando la politica propone offerte credibili, anche l'elettorato più popolare, e in passato oggetto di scambi politico-clientelari, si può “liberare”. Abbiamo puntato ad esaltare la netta differenza di de Magistris rispetto al professionismo politico dei nostri competitor, in ogni modo. Niente auto blu. Luigi si muoveva in bicicletta, coi mezzi pubblici, o a piedi. Niente claque in giacca e cravatta. In giro per la città eravamo sempre con i giovani, look casual e niente incontri blindati con business-man, ma tavole rotonde, bar-camp e ascolto con la gente comune e i comitati. Niente burocratese. Anzi, abbiamo osato anche la licenza di utilizzare il vernacolo: come il famoso “amma scassà”, che simboleggiava la voglia di rompere con quel sistema bipartisan di consorterie che c'era a Napoli. Alessio Postiglione Non si vince senza volontari La conferma a Vicenza di Achille Variati nelle parole dello spin doctor della campagna Jacopo Rodeghiero e di Valentina Di Leo, responsabile web 1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Potete spiegarci qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato? Vicenza non è mai stata una città politicamente schierata a sinistra e le elezioni di febbraio hanno confermato il dato. Per vincere, Achille Variati doveva riuscire a rivolgersi, come e più di cinque anni fa, anche all’elettorato che non vota Pd. Ecco perché abbiamo scelto di puntare sulle caratteristiche del candidato più capaci di attrarre consensi trasversali. Un posizionamento quindi molto civico e costruito ”su misura”. 2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte? In tempi di rottamazione e boom di Grillo, dovevamo riuscire a far capire che il vero cambiamento, per Vicenza, era quello iniziato cinque anni prima, che ora si trattava di portare avanti, confermando il voto per Variati. Achille Variati è stato un sindaco concentrato sui problemi della città, ha gestito sfide difficili (ad esempio la questione Dal Molin) ed emergenze gravi (l’alluvione del 2010). L’idea che Variati sia stato un sindaco presente e concreto è emersa come la tesi più condivisibile e meno contestabile anche dagli elettori a lui avversi. Abbiamo puntato su questo. Ecco da dove nasce lo slogan. «Il sindaco per Vicenza… C’è»: linguaggio semplice, rafforzato dalla concretezza dei numeri e delle infografiche che hanno raccontato i risultati di cinque anni di lavoro. Visual senza immagine del candidato, per sottolineare che un sindaco realmente presente non aveva bisogno di puntare sull’apparenza. 3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media? A mio avviso il web è uno strumento che, da solo, non è in grado di spostare voti da uno schieramento all’altro oppure di portare alle urne persone intenzionate a non farlo. È piuttosto uno strumento che, se unito a quelli considerati “tradizionali”, può rafforzare la strategia complessiva di una campagna elettorale. Citando von Clausewitz: «Se la strategia è sbagliata, la situazione non migliora aumentando i mezzi e le truppe». Tuttavia, se consideriamo che il passaparola e le discussioni con familiari e amici sono ancora di importanza fondamentale come mezzo di informazione politica (l’ultima indagine Censis parla di un 43,9%), possiamo attribuire al web una forza che va ben al di là dell’online: spesso ciò che leggiamo, ad esempio, sui social network diventa argomento di discussione al bar o in famiglia, diventa oggetto di notizia per i media tradizionali. Il web in campagna elettorale, inoltre, rafforza opinioni già costituite e le polarizza: i sostenitori cercano la conferma delle proprie convinzioni e la possibilità di esibirle pubblicamente, mentre i detrattori trovano in luogo in cui manifestare, anche aspramente, il proprio dissenso. Ma veniamo a Vicenza. La strategia di comunicazione di Achille Variati ha assegnato fin dall’inizio un ruolo importante al web, avviando già a febbraio una fase di recruiting che consentisse di entrare in contatto con i sostenitori da coinvolgere sia per le attività on line che per quelle off line. Insieme a sito e newsletter abbiamo utilizzato in maniera sinergica facebook, twitter, instagram, youtube. Qualsiasi azione comunicativa veniva ripresa e spesso anche lanciata direttamente dal web, dopo essere stata ottimizzata per ogni singolo canale. La stesura del piano di comunicazione quotidiano partiva spesso dalla selezione dei contenuti per le pagine Facebook “Achille Variati” e “Vicenza per Variati” (pagina creata a supporto delle attività comunicative dirette del sindaco), ognuna con una vocazione editoriale diversa. Grandissimo spazio è stato dato, com’è nella logica naturale dei media sociali, al dialogo e all’interazione con gli utenti, attività culminata nella gestione continua dei flussi informativi nel corso dell’allarme meteo (a 10 giorni dal voto del primo turno). Le attività on line sono state poi fondamentali per veicolare in maniera semplice e immediata i risultati del mandato amministrativo 2008-2013 di Achille Variati e le idee per il futuro: abbiamo scelto di dare molto più spazio al web che alla carta, trasformando in cartoline virtuali appositamente pensate per facebook risultati e idee della politica di Variati. A “volontari web” e semplici sostenitori il compito di scatenare il passaparola in rete e rendere virali le informazioni anche offline. Abbiamo utilizzato il web non solo per “attaccare”, ma anche per difenderci da eventuali situazioni problematiche e per sentire il polso dei cittadini-elettori. È stata infatti dedicata molta attenzione al monitoraggio degli avversari e all’analisi delle attività on line dei vicentini, in particolare sui canali web delle testate locali. In conclusione, più che spostare voti, credo che il web serva ad entrare in contatto con particolari segmenti di elettorato, ad influenzare talvolta l’agenda dei media, a tenere sotto controllo gli umori della città, ad entusiasmare i sostenitori e a dare loro strumenti informativi atti a far circolare visione e idee del candidato secondo lo spin strategico che si è scelto di dare ai contenuti. 4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte? C’è stata un’emergenza autentica, quando a dieci giorni dal voto Vicenza ha sfiorato di nuovo il rischio alluvione. La campagna è stata sospesa per 48 ore, ma il concetto di un sindaco che «c’è» non è mai stato così evidente come in quelle ore. 5. Che consiglio avrebbe dato a Manuela Dal Lago se avesse lavorato per la sua campagna? Evitare il ricorso ad approcci di comunicazione artefatti: l’immagine ritoccata del candidato nel manifesto di campagna o il ricorso a espressioni retoriche che l’elettore riconosce come false (il candidato «tra la gente»). In generale comunque il nodo era politico: era difficile risultare credibili quando la candidatura a sindaco era solo il piano B dopo la mancata riconferma a Roma. 6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff? L’agenzia Alias ha fornito il direttore della campagna, Jacopo Bulgarini d’Elci, e uno staff di oltre una dozzina di elementi, guidando tutti gli aspetti della campagna: dalla strategia alla creatività, dall’ufficio stampa ai video, dall’organizzazione dei volontari alla pianificazione del budget, dai social media agli eventi. Uno sforzo complesso, ma che ha dato al candidato il vantaggio di un interlocutore unico. 7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe? Ci sono tre fattori su cui non si lavora mai abbastanza: partire per tempo (noi ci siamo mossi a ottobre 2012), costruire un budget adeguato e mobilitare i volontari. Su questo si può sempre fare meglio. 8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale? Ci piace sempre guardare agli esempi migliori: molti spunti americani, dai candidati Usa alle primarie Gop a Obama, gli approcci social di alcune esperienze italiane (da Nichi Vendola a Matteo Renzi). Ma poi ci piace anche seguire il nostro istinto: come abbiamo fatto nella scelta dei mezzi. Avevamo riservato tutti gli strumenti più costosi al secondo turno, quando avrebbero sortito l’effetto maggiore. Ma Achille ha preso un terzo dei voti in più del 2008, superando di molto i voti assoluti del centrosinistra alle politiche. Non ci ha permesso di usare tutto ciò che avevamo in serbo: ha vinto direttamente al primo turno. Un americano a Roma Il racconto di Paolo Guarino, lo spin doctor che ha guidato la campagna di Ignazio Marino per il Campidoglio 1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato? Siamo partiti con la campagna a metà marzo, nemmeno un mese dopo le elezioni politiche. Eravamo senza vincitori e senza governo, con il M5s lanciatissimo (seconda forza a Roma alle politiche) e il Pd in difficoltà (ma con buona tenuta alle Regionali nel Lazio, grazie anche alla candidatura di Zingaretti). Avevamo da contrastare l’antipolitica ed evidenziare i difetti e le mancanze della gestione Alemanno. Ci serviva quindi un posizionamento molto aperto, civico, capace di attrarre elettori al di fuori delle solite contrapposizioni. Tenere tra quelli del centrosinistra, conquistare elettori liberi o che avevano optato per la protesta, non chiudere alla parte di città più moderata o di destra. Ed avevamo la persona giusta: per storia personale, professionale e per sua più recente esperienza politica Marino si prestava naturalmente a questo tipo di posizonamento. Così quando abbiamo proposto “Non è politica. È Roma.”, lo slogan principale della campagna, l’ha sentito suo. Pensavamo poi che fosse decisivo non farci trascinare dalle polemiche, dallo scontro tra candidati, dal botta e risposta, e abbiamo impostato una strategia in positivo e tra la gente, per parlare di Roma e incontrare le persone, ascoltare i problemi e costruire le soluzioni. Una strategia tutta puntata sul guidare l’agenda, sullo stare al centro della scena, senza distrarsi, come troppo spesso è capitato al centrosinistra e come questa volta si è trovato a fare Alemanno, a parlare o attaccare l’avversario. 2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte? Di “Non è politica. È Roma” ho detto. A questo si aggiunge l’uso del “Daje!”, che nasce come titolo del primo evento, come esortazione alla città e allo stesso candidato, cui era stato rivolto in qualche incontro. Poi diventa grido dei volontari e solo alla fine, dopo aver respirato la città per tutta la campagna, diventa anche tormentone ripetuto da Marino. Il payoff che ha accompagnato la campagna è poi stato “Roma è vita”: ancora una volta una scelta di linguaggio coerente con la storia e l’esperienza medica di Marino e una cornice larga dentro cui declinare il programma di rinascita della città. Per quanto riguarda la parte visiva, abbiamo mirato a caratterizzare e rendere riconoscibile la campagna, rompendo gli schemi tradizionali e le abitudini di formato, sia per i colori, con una fascia multicolor e una dominanza di magenta, sia per l’uso della foto, con Marino inquadrato con un cartello in cui c’erano scritti i diversi messaggi. Siamo tornati ad una impaginazione più tradizionale per il ballottaggio, con lo slogan – anch’esso meno originale – “Liberiamo Roma”, che sottolineo però non è stato declinato in senso ideologico ma concreto (ad es. “Liberiamo Roma da buche e traffico”) o evocativo (“Liberiamo Roma per i nostri figli”), con una campagna multisoggetto nell’ultima settimana. 3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media? Dipende. In linea di massima pochi o nessuno. Ma in una città come Roma, grande, con molto voto d’opinione, e tanta gente connessa, il ruolo del web e dei social può essere molto importante. Per definire e diffondere il profilo di candidatura, per motivare, per attivare comunità, per allargare la conoscenza. Avevamo un diario quotidiano degli impegni di Marino, dai suoi profili Facebook, Twitter e Instagram, cui si aggiungevano valori, proposte, idee, racconti, in forma di video, cartoline, semplici post testuali. E poi con gli account del comitato – con uno staff interno e un supporto di professionisti esterni – e con i volontari digitali abbiamo fatto un lavoro di amplificazione, risposta, contrasto, diffusione. Nell’insieme abbiamo consolidato il vantaggio su tutti gli avversari su Twitter e abbiamo recuperato una distanza di circa 30.000 fan su Facebook rispetto ad Alemanno, riuscendo alla fine a superarlo. Ovviamente sono dati per nulla significativi in termini statistici o previsionali, ma sono un segno della credibilità che Marino ha saputo esprimere e che gli ha permesso di raggiungere target potenziali che in termini numerici iniziano ad essere significativi e più consistenti di quelli che si raggiungono con mezzi più tradizionali. Ci tengo poi a citare due cose specifiche. Un generatore di manifesti che abbiamo lasciato libero per gli utenti, con cui ciascuno poteva crearsi il proprio messaggio e condividerlo dove voleva, con risultati anche esilaranti. E una mappa, con relativa app, in cui i cittadini potevano segnalare, con foto georeferenziate, problemi diffusi e idee. 4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte? Da un punto di vista della strategia comunicativa, aiutati dal conoscere e lavorare con Marino da molto tempo, abbiamo prodotto quasi tutte le idee di fondo, quelle che hanno costituito la traccia narrativa della campagna, in un primo brain-storming, appena ricevuto l’ok si parte. Pensando alla campagna in generale, ci sono stati alcuni snodi, diciamo uno per ogni fase, primarie, primo e secondo turno, di forte presa di consapevolezza delle possibilità concrete di vittoria. Momenti spesso a tarda sera, talvolta con qualche positiva tensione, qualche altra con un bicchiere di vino in mano. 5. Che consiglio avrebbe dato ad Alemanno se avesse lavorato per la sua campagna? La sfida per lui era di collegare le cose fatte, appena accennandole, e le proposte per il futuro. Tanto è sempre sul futuro che si vince. Invece ha rendicontato con sfilze di numeri e nessun riferimento esperienziale i suoi presunti risultati, limitandosi, per le proposte, a generiche affermazioni deboli per un sindaco uscente. Gli avrei poi consigliato di parlare meno di Marino. 6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff? Rispondo rispetto all’ufficio comunicazione. Abbiamo creato uno staff di 15 persone, che garantiva almeno 10 persone sempre presenti. Competenze diversificate che ci hanno permesso di curare l’ideazione dei messaggi, la produzione creativa, copy e grafica, dei materiali – dall’affissione ai materiali cartacei ai video – la realizzazione e gestione del sito, la gestione dei social network, la gestione dei database e l’invio delle newsletter, la produzione di schede tematiche, l’editing finale del programma, le relazioni con gli istituti di sondaggi, la pianificazione mezzi, il marketing diretto, con la collaborazione di una società che ci ha permesso un lavoro approfondito di emersione di target attraverso una mappa Gis molto accurata. Poi la strategia comunicativa generale, e la partecipazione al board strategico, che riuniva intorno al candidato e alla coordinatrice del comitato le diverse aree di lavoro. 7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe? Ci sono sicuramente cose che potevano essere sviluppate meglio, ma non dico quali. Non vedo singole scelte decisive che sono risultate sbagliate e che cambierei. 8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale? Abbiamo cercato di non cadere in nessuno degli errori classici delle campagne del centrosinistra. E in una visione sicuramente ex-post più che di obiettivo iniziale, siamo riusciti in qualche modo a ripetere un modello di campagna all’americana, con un forte protagonismo del candidato, un messaggio costruito in relazione alla sua storia personale, uno scarso o nullo peso delle ideologie, un messaggio in positivo, una forte motivazione da trasformare in elemento contagioso di consenso. I social network fanno la differenza Patrizia Carrarini racconta la difficile campagna elettorale di Roberto Maroni per la Lombardia: «Per settimane abbiamo utilizzato Facebook, Twitter e il sito per raccogliere spunti per il programma» 1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato? Il contesto da cui partivamo era per certi aspetti sfavorevole: la concomitanza politicheregionali evidenziava una forte sfiducia per i partiti, specialmente per la coalizione di centrodestra, e in particolare la “questione lombarda”, ovvero le vicende di cronaca a tutti note sulla Giunta guidata da Formigoni ci mettevano in grande difficoltà. D’altro canto, bisogna ammetterlo, la situazione lombarda è storicamente di centrodestra, Formigoni nel 2010 raggiunse il 63% di preferenze, tuttavia c’era una fascia di elettorato scontenta e tentata da alternative elettorali, come il non voto o il voto ad altri partiti. Il centrodestra si trovava in ritardo nella scelta del candidato e nella definizione della coalizione: Lega e Pdl sono stati divisi fino all’ultimo, l’alleanza è stata molto difficile, con il partito di via Bellerio a sostenere Maroni e il partito berlusconiano diviso e tentato da Gabriele Albertini. La nostra strategia è stata tutta incentrata sulla persona. Maroni era indubbiamente il nostro punto di forza, conosciutissimo, ministro apprezzato anche a sinistra. Per questo abbiamo creato subito la Lista Maroni: per raggiungere elettori delusi storicamente di centrodestra disposti a votare Maroni ma non la Lega. Abbiamo quindi incentrato la campagna su uno storytelling semplice e chiaro sul candidato. Contestualmente, abbiamo avviato una strategia d’ascolto iniziata con gli Stati generali del Nord, volta ad aprire e avvicinare nuovi target, imprenditori e tecnici in primis, elettori moderati che si erano allontanati dal centrodestra dopo gli scandali degli ultimi mesi. Siamo partiti con questa strategia molto presto, prima della definizione del puzzle di alleanze: era fondamentale partire in anticipo. 2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte? Il claim della campagna, “La Lombardia in testa” nasce dalla volontà di comunicare una visione. Volevamo dare un doppio senso di lettura allo slogan: da un lato, il messaggio era “La Lombardia prima di tutto”, dall’altro volevamo trasmettere che Maroni aveva la Lombardia in testa, era il suo chiodo fisso. Nella foto del manifesto, il candidato non guarda l’obiettivo, ha uno sguardo proteso verso l’alto. Si tratta appunto di una “fotovisione”, che ci sembrava più efficace per comunicare il messaggio. Abbiamo poi scelto uno sfondo blu, era un messaggio per gli elettori moderati di centrodestra, per recuperare i voti perduti dalla coalizione. Il voto è una scelta emotiva, il blu serviva a evocare agli elettori i messaggi e la tradizione del centrodestra. 3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media? Partiamo da uno scenario, quello lombardo, caratterizzato da dati di connessione molto alti. E il candidato, Maroni, è un social media entusiasta: ci crede, conosce il mezzo, twitta molto e in prima persona. Non possiamo ancora dire che il web sposti voti ma è necessario per creare una strategia completa. Nel nostro caso, i social media sono stati fondamentali per concretizzare la strategia di ascolto che avevamo ideato. Per settimane abbiamo utilizzato Facebook, Twitter, il sito, ogni mezzo di comunicazione per raccogliere spunti per il programma, raccogliendo 2mila proposte. E la conclusione della prima parte della campagna, ovvero di questa fase d’ascolto, è stata un evento, “Dillo a Maroni”, dove il candidato si è confrontato col pubblico presente e col pubblico online che ha potuto fare domande attraverso la piattaforma Google Hangout. Maroni, al centro di un ring, ha risposto ad ogni sorta di domande, un vero e proprio Town hall Meeting all’americana, potenziato dal web. 4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte? Il momento clou è stata la definizione ufficiale della coalizione. Per noi è stata la fine dell’incertezza, dato che eravamo partiti presto ma senza sapere se avremmo fatto una campagna in solitaria o assieme al Pdl. Ha dato un cambio di marcia a tutta la campagna elettorale, a livello di efficacia ed efficienza. 5. Che consiglio avrebbe dato a Umberto Ambrosoli se avesse lavorato per la sua campagna? Mi aspettavo bissassero la campagna di Pisapia, colorando la Lombardia di arancione. In ogni caso, avrei consigliato di seguire in modo più lineare un’unica strategia, a volte è sembrato non avesse una strategia, si muoveva in modo apparentemente incoerente: in alcuni momenti Ambrosoli si poneva in modo meno aggressivo e abbassava i toni, in altri era all’attacco e utilizzava un linguaggio più diretto. Poi non ho capito perché la sua campagna sia iniziata all’insegna dell’ambientalismo, con il candidato che girava con una macchina elettrica per finire poi con una serie di comizi e viaggi sui Tir, i mezzi più inquinanti in assoluto. Avrebbe dovuto seguire la strategia in modo più convinto. 6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff? La war room era composta da 5-6 persone, alcuni membri e dirigenti interni alla Lega e l’agenzia Pubblica Comunicazione, che rappresentavo. È stata la prima volta che la Lega si è affidata a un’agenzia esterna, ed è stato un esperimento positivo. Siamo riusciti a raggiungere un equilibrio tra gli elementi interni e il supporto dell’agenzia, tra la loro esperienza e conoscenza del candidato e la professionalità di pubblica comunicazione. Era importante non creare “doppioni” all’interno dello staff, ad esempio noi non ci siamo occupati di media planning perché era una competenza di cui disponeva già lo staff di Via Bellerio. 7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe? Le campagne vincenti si analizzano molto poco di solito, ed è una cosa sbagliata. Difficilmente non rifarei qualcosa. Penso però a una nostra idea degli ultimi giorni, “Adotta un indeciso”. Fu una campagna molto condivisa, anche se la lanciammo pochissimi giorni prima del voto. Ecco, tornando indietro l’avrei lanciata prima: la viralità che abbiamo raggiunto sarebbe stata molto più efficace. 8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale? C’è qualcuno che può non rispondere Obama a questa domanda? Ovviamente per noi il confronto veniva spontaneo, l’elezione diretta del presidente della Regione è più simile alle elezioni americane rispetto al nostro voto politico. Inoltre noi eravamo particolarmente affascinati dalle loro strategie e azioni di microtargeting: sono perfettamente coerenti con l’ispirazione della Lega e con le sue campagne territoriali. Non siamo riusciti a replicarle in modo preciso, anche per la mancanza di database adeguati, ma sono sicuramente un modello a cui ci siamo ispirati. Le imperfezioni che fanno vincere La campagna elettorale di Giovanni Manildo, sindaco di Treviso, raccontata da Marco Marturano. Dove anche una foto sfocata può risultare vincente 1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato? Treviso era ed è una città prevalentemente moderata. Una città con valori forti e che non desiderava segnali di cambiamento eccessivamente rivoluzionari. In questa città il centrosinistra aveva scelto attraverso primarie aperte e vere un candidato sindaco, Giovanni Manildo, che associava tante caratteristiche del cambiamento civico (dalla forza della propria professione alla storia di rapporti positivi con tanti pezzi della città e con molti cittadini fino al particolare non irrilevante dell’età) a tante della buona politica (per esempio da ex segretario cittadino del Pd). Il centrodestra aveva scelto il candidato oggettivamente più forte e più stimato in città, il già sindaco e poi prosindaco Giancarlo Gentilini. Infine lo sfondo si completava con una diffusa percezione di un benessere che c’era e che nel 2013 sembra sfuggire e di un’amministrazione, quella uscente di Gobbo e Gentilini, non esattamente trainante per consentire alla città di reggere meglio la crisi economica del Veneto e dell’Italia. Da questo contesto nasceva una strategia molto articolata sia sul piano delle scelte generali e di squadra per la coalizione sia di quelle specifiche per il candidato. La scelta centrale è sicuramente stata quella di costruire con il candidato e con la coalizione una campagna a misura della personalità di Manildo e della domanda che veniva dalla città. Una domanda di cambiamento discreto e condiviso con i cittadini e di un sindaco che avesse la serenità di confrontarsi con chi ambiva a rappresentare e il coraggio e la credibilità per assumere decisioni concrete e forti dopo aver gestito il confronto. 2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte? È così che nasce un’idea creativa semplice e, come sempre, non replicabile in nessuna situazione simile perché nessun candidato ritroverà mai le stesse caratteristiche di contesto e di personalità dei candidati di questa campagna. La semplicità della scelta creativa fatta a Treviso è stata quella di reinventare il ruolo del sindaco come portavoce dei trevigiani che se ne fa materialmente l’interprete delle domande reali di cambiamento. E che viene corrisposto da cittadini che hanno poi scelto di farsi portavoce a loro volta delle sue proposte di governo per rispondere alle loro domande. “Il Sindaco con il quale tutti i trevigiani saranno il Sindaco”, “Scegli il Sindaco tuo” o la maglietta stile Superman con la M di Manildo pensata perché tutti i trevigiani possono come Manildo avere il potere di contribuire a cambiare le cose sono solo alcune delle tante soluzioni creative scelte. Sullo sfondo di colori che restituissero movimento ad una città che si sentiva rimasta monocolore per vent’anni, diventando, come ha sempre detto Manildo, la bella addormentata. 3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media? Saltiamo le generalizzazioni mai utili a vincere le campagne elettorali o a gestire il consenso dei cittadini. Il web è stato parte integrante di questa campagna perché nessuno era ossessionato del suo potere di spostare voti. È stato (per esempio attraverso il sito di Treviso bene comune che teneva unita la coalizione sia nella costruzione del programma che nella narrazione della campagna) uno strumento di fortissima attivazione e gestione della partecipazione in una campagna che tanto ha puntato sul giusto protagonismo dei cittadini. La gestione ironica e insieme aperta sia del sito che dei social ha consentito una campagna sempre guidata e mai subita e gestito la perfetta integrazione con una campagna che ha sempre tenuto la rotta sia quando il principale avversario cercava di addormentare la città sia quando nel ballottaggio ha cercato di dare una svolta aggressiva. 4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte? Momenti clou in una campagna in cui il candidato e la sua squadra di governo devono cambiare la prospettiva della città rispetto al centrosinistra (ancora di più dopo il flop delle elezioni politiche di febbraio) ce ne sono stati troppi per approfondirli tutti. E a volte sono i piccoli particolari a far diventare clou un momento apparentemente normale nel flusso di una campagna così particolare. Mi piace ricordare però uno di quelli che di sicuro ha contribuito a rafforzare definitivamente il cambiamento di prospettiva sia rispetto alla forza che all’intraprendenza di un candidato senza paura come Manildo. La scelta last minute concepita scientificamente nel corso del caldissimo pomeriggio dell’ultimo giorno di campagna del ballottaggio di andare a sorpresa in diretta alla trasmissione televisiva dove il candidato del centrodestra Gentilini aveva costruito la sua chiusura di campagna con tanto di proiezione in piazza. Un vero colpo da Manildo, che ha saputo dimostrare ancora una volta perché il suo cartone animato preferito è Kung Fu Panda. 5. Che consiglio avrebbe dato a Gentilini se avesse lavorato per la sua campagna? Per correttezza professionale e soprattutto per rispetto di chi ha affiancato gli altri candidati e in particolare Gentilini e del candidato stesso non mi piace dare consigli. Tantomeno post risultato. Sarebbe alquanto arrogante. E chi fa questo lavoro tutto dovrebbe essere tranne che arrogante. In generale penso che la campagna di Giancarlo Gentilini sia stata una bellissima campagna, la migliore che abbia visto fare al mitico Genti. 6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff? Eravamo sempre in sei. Dal candidato al coordinatore della campagna, dal web all’ufficio stampa a noi due di GM&P (io e Matteo Bellomo). A seconda dei temi delle war room naturalmente si integravano le altre professionalità o i rappresentanti delle forze della coalizione. 7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe? Proprio perché non esiste la perfezione in politica (come nella vita, per fortuna) esiste una scienza esatta come la comunicazione politica. Che fonda la sua esattezza tanto sui metodi quanto (molto di più) sulla capacità di saper capire lo scenario per costruire una strategia e sulla flessibilità per adattarsi ai cambiamenti e alle emergenze. Una cosa che per esempio si poteva teoricamente cambiare? La qualità della foto del manifesto del ballottaggio, bellissima e efficacissima ma in una risoluzione che la sgranava come se fosse fatta con un cellulare neanche tanto eccezionale. Ma, proprio perché nulla è perfetto e anche le cose imperfette hanno un loro lato positivo a seconda delle scelte di una campagna, anche una minaccia di un’immagine apparentemente sfuocata è diventata un’opportunità. La sensazione di artigianalità che emergeva da quella foto (scattata peraltro a Manildo in una condizione di assoluta spontaneità e senza pose) è diventata la chiusura perfetta di una campagna che ha fatto della sincerità e della verità il suo segno. Evviva le imperfezioni! 8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale? Torniamo alla questione generalizzazioni e modelli. Il bello della scienza esatta della comunicazione politica è non poter replicare mai scelte fatte in altri contesti sempre e comunque diversi. Penso per esempio alle mie tre esperienze con Flavio Zanonato a Padova. Nessuna delle tre recuperava qualcosa dalla precedente. Come gioco però a posteriori direi che se ci fossero alcuni spunti che possono avvicinarsi ad alcune delle tante scelte ad hoc fatte nella campagna di Treviso li cercherei fuori confine tra gli stimoli della seconda campagna presidenziale di Bill Clinton del 1996, quelli della prima campagna per il senato di Hillary Clinton del 2000 e quelli della prima presidenziale di Obama del 2008. E poi, ancora di più per gioco, tra alcune delle centinaia di campagne che abbiamo fatto nel corso di questi anni. Tutte talmente diverse da quella di Treviso da poter offrire qualche spunto distante e vicino. Da quella di Piero Fassino come sindaco di Torino nel 2011 a quella di Massimo Cacciari come sindaco di Venezia nel 2005, da quella di Filippo Penati come presidente della provincia di Milano del 2004 a quella di Andrea Ballarè come sindaco di Novara nel 2011, da quella di Maurizio Martina alle primarie per la segreteria regionale del Pd nel 2009 a quelle di Piero Fassino a Torino. E qualche suggestione sicuramente ci è venuta anche da imprese impossibili rimaste tali pur con risultati eccezionali. Penso alla campagna di Massimo Carraro nel 2005 per la presidenza della regione Veneto contro Giancarlo Galan oppure a quella di Giovanni Galli contro Matteo Renzi nel 2009 a Firenze. E poi sempre nel gioco ci sono tanti spunti dati da molte altre bellissime campagne (da quella di Pisapia per Milano 2011 a quella di Emiliano per Bari 2004, da quella di Illy per il Friuli 2003 a quella della Moratti per Milano 2006 a quella di Tosi per Verona 2007). Dopodiché tra le tante best practis uniche di una esperienza come quella di Treviso c’è un concerto memorabile di Roger Waters condiviso con un ex candidato e oggi Sindaco che non a caso aveva scelto come come sede del suo straordinario comitato elettorale un negozio che si chiamava Compact Disc. Un’altra best practise impareggiabile. #quidebora, una campagna in diretta Rinnovamento e competenza: il profilo di Debora Serracchiani per la vittoria in Friuli La campagna elettorale di Debora Serracchiani è stata costruita sul territorio, giorno per giorno, grazie a un lavoro sistematico. E Debora Serracchiani, il suo profilo, il messaggio, il lavoro di Eggers 2.0 (l’agenzia che ha curato la comunicazione dall’inizio), dello staff e dei volontari, sono stati decisivi per il successo finale. Il lavoro di Proforma, con la collaborazione di Quorum, è iniziato i primi giorni di marzo. In questa sede ci concentriamo su due fasi della campagna, rivolte, la prima, all’analisi dell’opinione pubblica e al messaggio della campagna; la seconda sui social media. Cercheremo, ora, di delinearne i principali aspetti e risultati. Anzitutto, si è cercato di definire il profilo di Debora Serracchiani di fronte all’opinione pubblica. Come in ogni campagna elettorale abbiamo iniziato dall’analisi dello scenario, dei punti di forza e debolezza del candidato e degli avversari. Abbiamo, quindi, iniziato dallo studio analitico dei dati emersi dal sondaggio che la campagna aveva commissionato a gennaio: un’indagine quindi datata, ma molto approfondita. Ne emergeva una competizione incerta, di parità tra la candidata del centrosinistra e il presidente uscente Renzo Tondo. Tondo era considerato più preparato e vicino alla gente, concreto e moderato. Debora Serracchiani aveva un posizionamento marcato a sinistra, che rischiava di alienare alcuni elettori moderati. Dimostrava, però, una grande capacità di esprimere il cambiamento. E di rispondere, così, a una domanda molto diffusa fra gli elettori. In questo modo la Serracchiani appariva in grado di intercettare il consenso sui temi tradizionalmente cavalcati dai grillini. Da una parte, emergeva quindi la necessità di investire sul tema del rinnovamento. Dall’altra, andava recuperato il forte gap sulla competenza che i cittadini percepivano tra Tondo e lei. Debora Serracchiani si è quindi proposta come la candidata del cambiamento, ma, al tempo stesso, ha dimostrato la propria conoscenza del Friuli Venezia Giulia, con una serie di proposte specifiche. Declinando il suo messaggio con proposte specifiche e cercando il confronto con i candidati. A cui, invece, si sono spesso sottratti gli avversari. Negli ultimi mesi di campagna, per questo, più che sulla polemica con gli altri, si è dedicato molto tempo e impegno alle proposte della candidata. Evitando di alzare i toni del discorso, per non allontanare l’elettorato moderato, determinante per vincere in Friuli Venezia Giulia. Così la Serracchiani ha tranquillizzato e convinto gli elettori moderati, che hanno apprezzato la sua concretezza e preparazione. E, al tempo stesso, ha dimostrato agli elettori di Grillo di rappresentare davvero il cambiamento “possibile”. Il lavoro di strategia sui social media (e non solo) ha avuto obiettivi precisi: esaltare i punti di forza, ridurre l’impatto dei punti di debolezza, aiutare il resto dello staff senza limitarsi al “compitino”. Il lavoro svolto si è concentrato sulla gestione di due anomalie. Da un lato era evidente lo sbilanciamento della popolarità di Debora Serracchiani sui social media, conquistata in anni di parlamento europeo e di presenza sui media nazionali. Il “pubblico” dei profili Facebook e Twitter era dunque molto diverso, per composizione socio-demografica, rispetto all’effettivo elettorato, cioè i cittadini residenti nel Friuli Venezia Giulia. La prima attività eseguita è stata la produzione di nuovi contenuti sui social media, dando risalto e attenzione molto maggiori a elementi di interesse per l’elettorato friulano. Ovviamente senza rinunciare del tutto a commenti sui temi nazionali, anche perché erano funzionali a costruire il posizionamento politico generale di Serracchiani e a garantirle una buona esposizione sui media nazionali. Inoltre era oggettivamente impossibile, se non addirittura controproducente, ignorare il dibattito di marzo e aprile, tra difficoltà a formare il governo e la disastrosa settimana pre-elettorale per il Pd, con le candidature bruciate di Marini e Prodi per il Quirinale. In parallelo, è stata lanciata una pre-campagna su Facebook orientata ad aggregare nuovi “mi piace” di utenti residenti in Friuli Venezia Giulia mentre su Twitter sono state inaugurate delle “dirette” con Debora Serracchiani protagonista, utilizzando l’hashtag #quidebora, per raccogliere domande relative alla campagna. Successivamente queste sessioni interattive sono state introdotte anche su Facebook. Una volta messa a posto la prima anomalia, si è scelta una strategia figlia della seconda anomalia: comunicare in modo sistematico, utilizzando post sponsorizzati su Facebook, ai tempi dell’antipolitica. Sono state quindi realizzate, grazie a Eggers, dodici infografiche (pubblicate a cadenza quotidiana negli ultimi giorni) con i dati più significativi del programma elettorale della candidata,senza utilizzare il budget per comunicare con gli utenti Facebook del Friuli Venezia Giulia, rischiando di attirare commenti adirati (soprattutto da parte di utenti che consideravano questi messaggi come “spam”). La campagna si è rivolta solo alle persone già connesse con la pagina Facebook di Serracchiani, più motivate a ricevere (e condividere) quel tipo di messaggi. Il ragionamento di fondo è stato: gli utenti Facebook del Friuli Venezia Giulia che erano interessati a ricevere messaggi da Debora Serracchiani hanno avuto l’occasione di iscriversi alla pagina durante la pre-campagna. Tutti gli altri, evidentemente, non volevano essere disturbati. Ed è questo l’insegnamento maggiore che, dal nostro punto di vista, questa esperienza ci lascia: la comunicazione politica “pubblicitaria” sui social media deve essere rivolta solo ai tuoi sostenitori, almeno finché i tassi di sfiducia nella politica sono così alti. Dino Amenduni (Proforma) Giovanni Diamanti (Quorum)