Gv 2,13-25 Non riducete ad un mercato la casa di mio Padre

Transcript

Gv 2,13-25 Non riducete ad un mercato la casa di mio Padre
III QUARESIMA
Gv 2,13-25
Non riducete ad un mercato la casa di mio Padre
Nell'ottobre del 1216 Giacomo di Vitry, vescovo di Acri, scrive da Genova e racconta della sua
visita a Perugia, dove si teneva in quel momento la corte papale e dove aveva trovato la salma di
Innocenzo III, spogliata dai ladri di tutte le vesti preziose e lasciata a decomporsi in chiesa.
Scrive:“Avendo frequentato la curia, vi ho trovato parecchie cose contrarie al mio spirito. Tutti
erano così occupati nelle cose mondane, in liti e processi che appena permettevano che si parlasse
di qualche argomento spirituale. Ho trovato però una cosa che mi è stata di grande consolazione:
delle persone che, spogliandosi di ogni proprietà per Cristo, abbandonavano il mondo. Si
chiamavano frati minori e sorelle minori. Vivono secondo la forma della Chiesa primitiva. Credo
proprio che il Signore prima della fine del mondo, vuol salvare molte anime per mezzo di questi
uomini poveri, per svergognare i prelati, divenuti ormai come cani muti, incapaci di latrare”. Oltre
ad essere questa la prima notizia storica che ci sia giunta su Francesco e sui suoi primi compagni, la
citazione del vescovo Giacomo ci induce a riflettere su cosa ostacola maggiormente da sempre
l’incontro tra l’uomo e il Dio di Gesù Cristo. E’ la riduzione di tutto a mercato, la compra-vendita
delle cose sacre, l’attaccamento alla ricchezza. Nessuno può contestare che le argomentazioni
portate da Gesù sugli intrinseci pericoli che “Mammona, dio-denaro” (Mt6, 24) inevitabilmente
genera, non lasciano spazio a disquisizioni interpretative. Già il Salmo 49,21 afferma
imperiosamente “L’uomo nell’abbondanza non capisce”, ma ancora di più i Sinottici ripropongono
quasi con le stesse espressioni l’insegnamento che il Maestro dà sulla necessità di “vendere tutto
quello che si possiede e i soldi ricavati darli ai poveri”(Mc10,21) e sulla difficoltà che i ricchi
hanno di fare parte del Regno: “Come è difficile per quelli che sono ricchi entrare nel regno di
Dio”(Mc10,23) e “Se è difficile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago, è ancora più
difficile che un ricco possa entrare nel regno di Dio”(Mc10,25). Parole di Gesù scelte tra le tante,
tutti inviti a non sprecare la ricchezza della vita nella ricerca di cose futili, vacue, inconsistenti,
appariscenti.
Vorrei ancora citare le beatitudini di Luca (Lc6,20-26) che, a differenza di quelli di Matteo (Mt5,311), sono molto più concrete. Esse evidenziano che sono “beati”non, come dice genericamente
Matteo, i “poveri in spirito”, ma “quei poveri” a cui Gesù (e Luca insieme a Lui) sta parlando.
Inoltre mentre Matteo nelle beatitudini non cita alcuna parola di Cristo sui ricchi, Luca non teme di
insistere anche sulla “disgrazia” che porta la ricchezza e che i ricchi presenti devono
ascoltare:”Guai, a voi ricchi, perché avete già la vostra ricompensa”. Certo, secondo gli ultimi
studi esegetici, il “guai a voi ricchi”, deve essere correttamente inteso non come una maledizione,
ma piuttosto come una espressione di dispiacere e di rammarico verso chi vive nell’abbondanza e
non nell’essenzialità. Possiamo quindi giustamente tradurre ”Mi dispiace per voi ricchi” ma, in ogni
caso, il giudizio di Gesù sul non-senso della vita del ricco, rimane immutato.
Troppi cristiani continuano a non credere alla “povertà” proposta da Cristo; molti ancora non osano
privarsi di tante splendide cose inutili che sono solo un peso e una vanità; una consistente fetta di
cristiani infine non si pone il problema di come riuscire a distribuire a tutti i beni della terra e di
come restituire ai derubati quanto ingiustamente sottratto. Anche nelle nostre chiese spesso le opere
d’arte sono più accudite delle persone che muoiono di sete e di fame e gli sfregi alle statue creano
infinitamente più orrore delle violenze fate agli ultimi della terra. Il teologo Pieris anni fa, nel libro
“La teologia della liberazione asiatica”, affermava:”Ci sono due tipi di povertà, una povertà forzata
e una povertà volontaria. La prima è quella dei diseredati ed è una sofferenza imposta dalle logiche
disumane di questa società disumana. L’altra, quella volontaria, è una libera scelta. Quella “forzata”
è il peccato della nostra società, l’altra è la chiave della liberazione da questo peccato”. I cristiani
sanno che Gesù, nel suo sogno di costruire un mondo “giusto” ha lottato strenuamente contro la
povertà “forzata” e ha proposto, come segno distintivo dei suoi discepoli, la povertà volontaria. Lui
è stato chiaro, ma il messaggio è stato ancora poco recepito Che non succeda ai cristiani, dopo tanti
sacramenti ricevuti e tanta Parola ascoltata, quello che riconobbe Guido Morselli, uno scrittore
morto suicida:”La mia vita è provvista del superfluo, ma è così povera delle cose essenziali”.
Il cardinale Pellegrino racconta in un suo scritto-testamento: “Mi giunse dal Vaticano un
incartamento con le “norme”relative ai cardinali: abitazione, mezzi di trasporto, guardaroba. Fu
quest'ultimo articolo che mi mise in subbuglio: cappa e strascico, ferraiolone, vestito rosso e nero
filettato di rosso, mantelletta, mozzetta, scarpe rosse, calze rosse, cappello rosso con greca d'oro,
e non ricordo altro; quanto all'anello e al tricorno "d'ordinanza”, ci avrebbe pensato il papa Intanto i
giornali commentavano: due milioni di spesa. Grossa esagerazione. che mi fece comodo: un
parroco. presso il quale avevo prestato un po' di servizio festivo per tredici anni, senza ricevere in
compenso, insistette perché accettassi un dono di due milioni. Spesi per l'occorrenza circa mezzo
milione, e il resto andò a beneficio della diocesi. Ma ritornando all'incartamento, quando lo lessi,
malgrado il mio proposito d'essere obbediente, rimasi quasi esterrefatto. Telefonai a mons.
Dell'Acqua: “Preghi, scongiuri il papa di alleggerire il guardaroba. La gente o ride o si scandalizza”.
“Ma è già stato alleggerito», rispose ed era vero; «Cosa vuole togliere ancora?”. “Per esempio la
cappa con la coda”. La voce dal Vaticano replicò: “Ma ce l'hanno anche i canonici!”. E io:
“Toglietela anche ai canonici!”. A un certo momento il cerimoniere mi domandò: “E il cappello
rosso ce l'hà?”. Dovetti confessare di no. “Come farà quando va in macchina?”. “In macchina”, gli
risposi ignorando il cerimoniale, “ci salgo coi piedi non col cappello. Le scarpe rosse, usate forse
una volta nella luna di miele, aspettano a Roma l'acquirente (allora le pagai 20.000 lire), custodite
rispettosamente in una scatola di cartone. Il ferraiolone fu trasformato in una bella casula, il falso
ermellino in un copriletto, e le mozzette in gonne. A una che la indossava le amiche espressero la
loro ammirazione: «Che magnifico rosso-cardinale». Spero che la proprietaria non abbia violato il
segreto.
Sapeva quello che c'è in ogni uomo
Signore Gesù,
il Vangelo ci ricorda che
“tu sai quello che c’è in ogni uomo”.
Devo essere felice o preoccupato?
Mi hanno educato da bambino
con la minaccia del “Dio ti vede”.
Alla tua scuola ho scoperto
che Dio non è un tiranno
nè un carabiniere.
Quando vede il male magari piange,
ma rispetta la libertà delle sue creature.
Poi ho capito che potevo fidarmi,
perché anche quando altri mi contestavano
tu eri lì, dalla mia parte.
Non mi stavi giustificando,
ma vedevi le intenzioni nascoste,
i limiti che mi portavo dietro senza colpa,
le difficoltà che non riuscivo a superare
anche se ce la mettevo tutta.
Quando mi rimproveravi,
eri pronto a dirmi: “Su, puoi ricominciare!”.
E oggi, quando ho la tentazione
di nascondermi o di lasciarmi andare,
di spegnere il collegamento per
fare i miei illeciti comodi,
almeno ho imparato la sincerità
di dirti: “Scusa”
e di portare su di me
la responsabilità delle mie scelte sbagliate.
Caro Michele,
ricordo ancora quella mattina in cui col tuo fare grossolano e scanzonato avevi semidistrutto una
cartina appesa al muro. Mi hai fatto andare in bestia. Ti ho urlato addosso qualcosa di irripetibile (che il
mio inconscio ha prontamente rimosso) e mi hai visto incavolato come non mai. Tutti gli occhi della
classe erano fissi su di me, in un silenzio irreale. Sono tornato alla cattedra, mentre dicevo con ironia:
“Quando mi arrabbio sul serio ho bisogno di trenta secondi per riprendermi”. E poi ho piazzato la
zampata educativa: “Sono arrabbiato perché ti stai rovinando con le tue mani. Non vedi che in questi
giorni sei già un osservato speciale, ai limiti della sospensione?”. Sapevo che eri nervoso proprio per
quello. Soprattutto sapevo che non eri fatto per lo studio. Detieni ancora il record, sai? Sei l’unico che
è riuscito a finire una verifica in quei tre minuti in cui io leggevo e spiegavo le domande...
Mi sono sempre chiesto se ho fatto qualcosa di sbagliato. Ho ceduto all’ira, è vero! Ma non ha fatto così
anche Gesù nel tempio? Nel suo caso la cosa è stata pure meditata: ha costruito uno strumento
d’offesa, la sferza di cordicelle. Sarebbe stato incisivo senza scenata? Soprattutto, sarebbe stato se
stesso, cioè appassionato ed infervorato della giustizia e della dignità del Padre, con un carattere forte
e determinato?
Anche Gesù in qualche modo voleva far capire ai cambiavalute che “si stavano rovinando la vita e la
dignità con le proprie mani”. Costava poco lasciare a Dio quel che era di Dio, lasciare alla preghiera ed
allo studio ciò che era deputato per esso, separando le attività materiali dalle cose più importanti.
Caro Michele, so che tu da quel momento non hai più dato fastidio alla classe nelle mie ore, ti sei
controllato maggiormente. Ed io ho preso la palla al balzo, dandoti degli incarichi pratici di
responsabilità. In tre anni sei stato l’unico a cui ho concesso la gestione del mixer audio per gli
spettacoli. E sei stato l’unico a ricordarti che io non avrei fatto gli esami di fine anno, venendomi a
cercare per salutarmi l’ultimo giorno di scuola.
Ti ho visto un paio d’anni dopo. Felice e contento, un metro e novanta, apprendista muratore. Hai
dedicato un tuo sabato a farti un giro in bici (bravo!) fino alla vecchia scuola, per salutare i professori.
Cosa che i primi della classe spesso neanche si sognano.