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Fondazione Bruno Kessler
Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento
Quaderni, 81
1
I lettori che desiderano informarsi
sui libri e sull’insieme delle attività
della Società editrice il Mulino
possono consultare il sito Internet:
www.mulino.it
Grazia e giustizia
Figure della clemenza
fra tardo medioevo ed età contemporanea
a cura di
Karl Härter
Cecilia Nubola
Società editrice il Mulino
Bologna
3
FBK - Istituto storico italo-germanico
LI Settimana di studio «Perdono, grazia, giustizia. Figure della
clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea»
Trento, 21-24 ottobre 2008
Comitato scientifico:
Irene Fosi, Karl Härter, Luigi Lacché, Ottavia Niccoli, Cecilia Nubola,
Monica Stronati
Traduzioni di: Lilia Cesa, Alessandro Cont, Luca Martini, Rossella
Martini, Anna Zangarini
GRAZIA
e giustizia : figure della clemenza fra tardo medioevo ed età
contemporanea / a cura di Karl Härter, Cecilia Nubola. - Bologna : Il
mulino, 2011. - 627 p. : tab., diagr. ; 22 cm. - (Annali dell’Istituto storico
italo-germanico in Trento. Quaderni ; 81)
Atti della LI Settimana di studio «Perdono, grazia, giustizia: figure della
clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea» tenuta a Trento dal
21 al 24 ottobre 2008. - Nell’occh.: Fondazione Bruno Kessler
ISBN 978-88-15-13812-5
1. Grazia (Diritto) - Storia - Congressi - Trento - 2008 I. Härter, Karl
II. Nubola, Cecilia
345.077 (DDC 22.ed.)
Composizione e impaginazione: FBK - Editoria
Scheda bibliografica: FBK - Biblioteca
ISBN 978-88-15-13812-5
Copyright © 2011 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono
riservati. Il file può essere utilizzato unicamente ad uso privato e personale,
nei termini previsti dalla legge che tutela il diritto d’autore e non può essere
caricato in siti internet.
4
Sommario
PARTE PRIMA: PERDONO, GRAZIA, GIUSTIZIA: I TERMINI
DELLA QUESTIONE
Giustizia, perdono, oblio. La grazia in Italia dall’età
p.
moderna ad oggi, di Cecilia NUBOLA
11
Grazia ed equità nella dialettica tra sovranità, diritto e
giustizia dal tardo medioevo all’età moderna, di Karl
HÄRTER
43
Lessico del perdono nel diritto romano, di Giuliano
CRIFÒ
71
Legislazione, scienza giuridica e pratica del «perdono»
tra Otto- e Novecento: continuità e mutamenti, di
Monica STRONATI
101
PARTE SECONDA: GIUSTIZIA E GRAZIA SOVRANA
Rituali della grazia a Trento nel 1477, di Diego
QUAGLIONI
127
La grazia del re di Francia alla fine del medioevo, di
Claude GAUVARD
147
5
Lettere di intercessione imperiale presso il Consiglio
p. 175
aulico, di Eva ORTLIEB
Grazia individuale e amnistia nella giurisdizione penale
della prima età moderna, di Andrea GRIESEBNER
205
La grazia come strumento di assicurazione della sussistenza. Il fenomeno delle suppliche di terzi non coinvolti (Principato Elettorale di Sassonia, secoli XVIXVII), di Ulrike LUDWIG
237
La giustizia criminale a Bologna: reati, condanne e
grazie, di Cesarina CASANOVA
261
Una lunga lotta per la giustizia? Rivolta e pacificazione
dopo i tumulti nel Salzkammergut del 1601-1602, di
Martin SCHEUTZ
295
Giustizia, politica e clemenza. La grazia nella Germania
del XIX secolo, di Sylvia KESPER-BIERMANN
323
TERZA: LA GRAZIA E IL PERDONO DIVINO IN
ETÀ MODERNA
PARTE
Grazia divina e giustizia commutativa: un confronto
tra Bañez e Lessius, di Wim DECOCK
361
Restituire, condonare. Lessico giuridico, confessione e
pratiche sociali nella prima età moderna, di Vincenzo
LAVENIA
389
La grazia e il perdono nei Rituali francesi, di Nicole
LEMAITRE
413
Atti di sottomissione e grazia davanti al giudice ecclesiastico. I «Sendgerichte» in Westfalia (1600-1800), di
Andreas HOLZEM
435
6
PARTE QUARTA: ISTITUZIONI
XX SECOLO
DELLA CLEMENZA NEL
Il volto della nazione nelle amnistie politiche del Novep. 463
cento, di Floriana COLAO
Giustizia e ragion di Stato. La punizione dei criminali
di guerra tedeschi in Italia, di Filippo FOCARDI
489
Povero piccolo Belgio? Processi a criminali di guerra
tedeschi in Belgio, 1944-1951, di Pieter LAGROU
543
Perdono e clemenza di Stato nella giustizia penale
italiana, di Guido NEPPI MODONA
575
Lo scandalo della grazia nell’orizzonte contemporaneo.
Riflessioni a margine, di Giorgia ALESSI
591
Conclusioni, di Luigi LACCHÈ
605
7
Povero piccolo Belgio?
Processi a criminali di guerra tedeschi in Belgio, 1944-1951
di Pieter Lagrou
1. Accusati e condannati
Nell’ottobre del 1945 Walter Ganshof van der Meersch, auditeur général (procuratore generale) del tribunale militare belga,
scrisse in una delle sue illuminanti relazioni trimestrali quanto
segue:
«Secondo le previsioni – inevitabilmente approssimative – il numero complessivo di individui condannati a morte per crimini contro la sicurezza dello
Stato la cui sentenza verrà eseguita oscillerà tra i 2000 e i 2500.
Questo numero non è relativamente alto se si tengono in debito conto i
seguenti elementi:
1. Il numero dei prigionieri politici morti durante la deportazione è all’incirca di 38.000 belgi, 28.000 dei quali ebrei belgi.
2. A Breendonk1 sono stati uccisi 750 patrioti e 120 corpi sono stati dissotterrati al Poligono Nazionale di tiro.
3. Le vittime dei bombardamenti e delle V.I nel 1943, 1944 e 1945 assommano
a 19.750 (delle quali 1616 nel 1943, 13.066 nel 1944 e 4888 nel 1945).
4. Più di 8000 civili belgi sono morti in Belgio e in Francia nel 1940.
5. Nel 1940 sono stati uccisi dal nemico da 7500 a 8000 soldati belgi»2.
Traduzione di Anna Zangarini
Il presente saggio è già apparso in lingua tedesca: Eine Frage der moralischen Überlegenheit? Die Ahndung deutscher Kriegsverbrechen in Belgien, in N. FREI
(ed), Transnationale Vergangenheitspolitik. Der Umgang mit deutschen Kriegsverbrechern in Europa nach dem Zweiten Weltkrieg (Beiträge zur Geschichte
des 20. Jahrhunderts, 4), Göttingen 2006, pp. 326-350.
1
La fortezza di Breendonk, ad Anversa, fu usata dai nazisti come campo di
concentramento e lavoro dal 1940 al 1944; vi furono internate circa 3.500 persone [n.d.t.].
2
Centre d’Etudes et de Documentation Guerre et Sociétés contemporaines,
Bruxelles (d’ora in poi CEGES), Rapport Justice Militaire du 1 juin au 1 octo-
543
Le relazioni trimestrali erano destinate al ministro della Giustizia; erano documenti ufficiali di politica nei quali il presidente
del tribunale militare si dilungava a spiegare, giustificare e
difendere la propria linea d’azione. L’annuncio, nell’ottobre del
1945 – ben oltre, quindi, i momenti caldi della liberazione nel
settembre del 1944 e della liberazione e rimpatrio nel maggio
del 1945 – dell’intenzione ufficiale di mettere a morte tra i
2.000 e i 2.500 individui può apparire sconvolgente. Non solo
rappresenta dieci volte il numero delle esecuzioni che vennero
effettivamente eseguite nei cinque anni seguenti (242), ma
questa dichiarazione d’intenti è contenuta in una relazione il
cui tono generale è di moderazione e di regolamento di un
processo di epurazione che era sembrato fuori controllo nel
corso della primavera e all’inizio dell’estate del 1945. Ganshof
van der Meersch si compiace del fatto che, un anno dopo la
liberazione e appena cinque mesi dopo la fine della guerra,
per 120.000 casi su 400.000 sia stato disposto il non luogo
a procedere («ordonnances de non-lieu ou décision de sans
suite») e che la situazione di carcerazione irregolare di sospetti
sia stata complessivamente ricondotta entro limiti accettabili
(meno di 15.000 individui erano ancora «mis à la disposition
de M. le Ministre de la Justice», ovvero sottoposti a regime
carcerario senza incriminazione formale, a fronte dei quasi
25.000 di tre mesi prima, mentre il numero dei detenuti in
attesa di processo era sceso a 23.500).
Ancora più interessante è l’esplicita motivazione di questa
linea di condotta contenuta nel documento, e la gerarchia che
esso stabilisce per i crimini per i quali è richiesta la condanna
alla pena capitale. Al primo posto figura la morte a seguito di
deportazione, con chiara menzione del fatto che aveva riguardato per la maggior parte «israélites belges» (in effetti, quasi
esclusivamente persone residenti in Belgio ma di nazionalità
straniera), seguita da membri della Resistenza giustiziati nel
Paese, dalle vittime dei bombardamenti (di cui 9.000, di cui
non si faceva menzione, o almeno la metà, erano state vittime
bre 1945, Auditorat Général. Notes générales concernant l’activité de la justice
militaire, 1945-1947, 8 rapporti, AA326.
544
di bombardamenti alleati) e vittime, sia militari che civili,
dell’invasione del maggio 1940. L’imputazione complessiva
che giustificava il fatto che questa volta le condanne a morte
andavano eseguite, ed eseguite in gran numero, nonostante il
fatto che dal 1863 in Belgio le sentenze di condanna a morte
fossero state abitualmente convertite in condanne al carcere a
vita, era un’accusa all’aggressione tedesca e alla persecuzione
tedesca. La collaborazione di cittadini belgi a questa aggressione e a questa politica criminale non viene menzionata in
questo estratto, e si potrebbe ragionevolmente pensare che la
maggior parte delle condanne a morte avrebbero riguardato
i condannati tedeschi.
Alla fine, tra il novembre del 1944 e l’agosto del 1950 sarebbero state eseguite 242 condanne a morte. Il numero totale
delle condanne a morte che vennero emanate, 2.940, superò
persino le previsioni di Ganshof van der Meersch dell’ottobre
del 1945. Il numero 242 era simbolicamente collegato al numero
di ostaggi fatti giustiziare da Alexander von Falkenhausen,
capo della Militärverwaltung tedesca in Belgio: ancora una
volta, un quadro di riferimento interamente tedesco. Eppure,
due soli dei 242 condannati a morte erano cittadini tedeschi:
Philip Schmidt, comandante del campo di internamento di
Breendonk, che fu l’ultimo ad essere giustiziato, nell’agosto del
1950, e Walter Obler, prigioniero tedesco ebreo e Kapo particolarmente brutale del suo «Block» a Breendonk, nell’aprile del
1947. Von Falkenhausen stesso venne rilasciato tre settimane
dopo la conclusione del suo processo, nel marzo del 1951;
dopo un’accanita discussione legale sullo status di ostaggio alla
luce del diritto internazionale, la corte aveva riconosciuto la
legittimità di parte almeno delle decisioni del generale.
Le condanne a morte eseguite non vanno considerate un’eccezione, se si considera il quadro generale delle indagini, dei
processi e delle sentenze. Meno dell’uno per cento dei casi
oggetto delle indagini del potere giudiziario militare in relazione a reati commessi durante la Seconda guerra mondiale
in Belgio riguardavano cittadini tedeschi. Le autorità belghe,
e più in particolare la Commissione per i crimini di guerra,
comunicarono alla Commissione per i crimini di guerra delle
545
Nazioni Unite i nomi e i dati di 4.436 individui (2.481 accusati,
1.193 sospetti e 762 testimoni)3; di questi, la giustizia militare
esaminò 3.455 casi4. Entro il marzo del 1948, quando le autorità
alleate posero fine a tutte le estradizioni, 523 individui erano
stati trasferiti in Belgio e detenuti almeno per brevi periodi5.
Tra questi, solo 314 individui erano stati estradati come sospetti;
gli altri 219 dovevano apparire in vesti di testimoni6. Come
vedremo meglio più avanti, nel corso del progetto di ricerca
tuttora in corso – sul quale è basato questo articolo – abbiamo
finora identificato 103 individui che vennero effettivamente
processati, per un totale di 37 casi (quello che vide il più alto
numero di imputati riguardò 21 persone)7. Alla fine del 1951 le
carceri belghe ospitavano solamente undici detenuti tedeschi.
2. Recidivi
Le vicende che ripercorriamo in questo contributo riguardano i
processi a carico dei criminali di guerra tedeschi in Belgio dopo
il 1944; ma il precedente – cioè i tentativi messi in atto dopo
il 1918 di portare in giudizio i criminali di guerra tedeschi –
non fu fortunato. Come hanno brillantemente dimostrato Alan
Kramer e John Horne, le «atrocità tedesche» e i loro strascichi
giocarono un ruolo di primissimo piano nella percezione del
destino del Belgio durante la prima guerra mondiale, sia nel
3
Rapport sur l’activité de la Commission d’Enquête sur les violations des
règles du droit des gens, des lois et coutumes de la guerre instituée par l’arrêté
du Régent en date du 21 décembre 1944, Brussels 1948, pp. 14-16.
4
J. GILISSEN, Étude statistique de la répression de l’incivisme, in «Revue
de Droit Pénal et de Criminologie», 31, 1951, 5, pp. 513-628.
5
Rapport sur l’activité, cit.
6
Ibidem.
7
La ricerca collettiva è stata condotta nel corso del seminario del terzo
e quarto anno dagli studenti di Storia contemporanea dell’Université Libre
de Bruxelles nel 2003-2005. Una precedente versione di questo contributo è
apparsa in tedesco: Eine Frage der moralischen Überlegenheit? Die Ahndung
deutscher Kriegsverbrechen in Belgien, in N. FREI (ed), Transnationale Vergangenheitspolitik. Der Umgang mit deutschen Kriegsverbrechern in Europa
nach dem Zweiten Weltkrieg, Göttingen 2006, pp. 326-350.
546
paese che all’estero8. Tuttavia, la mole e la precisione dei vari
rapporti pubblicati dalla Commission d’Enquête durante e dopo
la guerra contrastano nettamente con i tentativi totalmente
falliti di mettere in atto le raccomandazioni espresse in questi
documenti, cioè di arrestare, giudicare e punire i colpevoli.
Parte di questa vicenda è ben nota. Le autorità belghe in
primo luogo stilarono una lista di 1.132 persone accusate
di crimini di guerra, di cui si voleva ottenere l’estradizione
per organizzarne il processo in Belgio. A seguito di ripetute
pressioni degli alleati, questa lista venne ridotta inizialmente a
1.058, poi a 632 e infine a 334 nomi, ma, di fronte all’aperta
ostilità dei tedeschi sconfitti, gli alleati rinunciarono a inviare
in Germania commissioni rogatorie e commissioni che eseguissero i mandati d’arresto9. Entro il febbraio del 1920 gli alleati
avevano comunque rinunciato a ogni proposito di ottenere
l’estradizione, e avevano accettato il principio che sarebbero
state le stesse autorità tedesche a giudicare, all’Alta Corte
di Lipsia, i casi sottoposti alla loro attenzione dalle potenze
straniere. Le autorità belghe presentarono in prima istanza
quindici casi, in relazione a crimini commessi durante l’invasione a Aerschot e Andenne, ad atrocità messe in atto nei
confronti di bambini durante l’occupazione e a maltrattamento
di prigionieri. Il procuratore generale tedesco mandò cinque
commissioni rogatorie in Belgio, ma solo per respingere le
accuse, provocando così il solidale e indignato ritiro del Belgio
e della Francia dai procedimenti giudiziari a Lipsia.
Meno noti sono i processi effettivamente istruiti dal potere giudiziario belga. In mancanza di un’approfondita ricerca storica
su questo argomento, i dati di cui disponiamo, ancorché non
organici, offrono comunque un certo numero di informazioni.
Quattordici individui vennero arrestati in Germania e processati
in Belgio per crimini commessi in Belgio durante l’occupazione,
8
A. KRAMER - J.N. HORNE, German Atrocities 1914. A History of Denial,
New Haven CT - London 2001.
9
Ibidem, pp. 326-355 e J. WOLF, La question des ‘Crimes de Guerre’ en
Belgique, in «Journal des Tribunaux», 3 novembre 1946, n. 3700.
547
in particolare nelle zone di occupazione francese e belga10. Accusati di reati comuni come furto, incendio doloso e assassinio,
vennero rinviati alla giustizia ordinaria e, in particolare, per
i casi di omicidio, alla Corte d’assise. Il trattato di Versailles
cambiò radicalmente la situazione. In luogo dell’amnistia solitamente disposta da un trattato di pace, il trattato di Versailles
contiene vari articoli che stabiliscono la responsabilità della
Germania per il conflitto: tra questi, in particolare, gli articoli
228-230 affermano il principio dell’estradizione dell’accusato
affinché venga giudicato da tribunali militari nazionali. Come
risultato, in primo luogo, l’arresto dei sospetti di nazionalità
tedesca da parte delle autorità alleate, anziché una formale
richiesta di estradizione alle autorità tedesche, divenne illegale
non appena i Paesi che operavano gli arresti sottoscrissero il
trattato; in secondo luogo, le giurisdizioni ordinarie non erano
più legalmente competenti a giudicare gli accusati, dato che il
trattato attribuiva l’esclusiva competenza ai tribunali militari.
Tuttavia, il codice penale militare belga del 1890 non estende la
competenza legale della giustizia militare al giudizio di cittadini
stranieri, e nonostante una proposta di riforma legale del codice
da parte del futuro presidente della Corte Suprema belga, il
visconte van Iseghem, il legislatore belga non agì secondo le
sue raccomandazioni. Dopo il rifiuto tedesco di estradare i
sospetti, la questione appariva puramente accademica. Tuttavia, se il parlamento avesse riformato il codice al fine di
definire i crimini di guerra e ampliare la competenza legale
della giustizia militare, si sarebbe evitato il problema cruciale
della legislazione retroattiva, problema che il legislatore belga
si trovò a fronteggiare nel 1945.
Nel frattempo, tuttavia, solo i procedimenti che avevano avuto
inizio prima della ratifica da parte delle giurisdizioni ordinarie potevano essere portati in tribunale. Faute de mieux: in
mancanza di meglio il Belgio si impegnò allora in una serie
di processi in absentia, che nel 1937, sul totale dei 333 casi
che comparivano sulla lista finale belga, ebbero come esito 22
assoluzioni, 28 condanne a morte e due sentenze di lavori forzati
10
Ibidem, p. 3.
548
a vita11; quasi tutti i casi erano in relazione a crimini e reati
commessi nel 1914. Le sentenze e la lista dei sospetti, che le
autorità belghe non annullarono nonostante le ripetute proteste
tedesche, costituivano soprattutto una seccatura diplomatica
e una base legale per rifiutare il visto alle persone coinvolte.
Altri casi di minor conto continuarono a creare controversie
legali e diplomatiche, in particolare il caso dell’estradizione
illegale dagli Stati Uniti al Belgio del cittadino tedesco Hermann, accusato di furto, il caso di Walther Dryver, accusato
dell’omicidio di un soldato inglese a Ville-sur-Hanaine nel
1918 e estradato in Inghilterra, o il caso di cittadini tedeschi
dell’Alsazia-Lorena arrestati per omicidio dalle autorità belghe
ed estradati in Francia in applicazione del trattato di Versailles,
che di fatto cambiò la nazionalità dei sospetti.
In breve, a fronte del clamore suscitato dalle commissioni
d’inchiesta, dalla pubblicità e dalle accese controversie sui
crimini di guerra tedeschi commessi durante la prima guerra
mondiale, i successivi procedimenti giudiziari provocarono
un forte senso di frustrazione. Paradossalmente, il trattato
di Versailles, mentre stabiliva formalmente la colpevolezza
della Germania, aveva impedito alle giurisdizioni nazionali di
processare i cittadini tedeschi responsabili di azioni criminali.
Ma il biasimo non poteva ricadere esclusivamente sul quadro
internazionale postbellico: nonostante consistenti contributi dei
giuristi belgi su tematiche riguardanti il diritto internazionale
e la prevenzione dei crimini di guerra, pubblicati per esempio nella «Revue de Droit Pénal et de Criminologie» e nel
«Journal des Tribunaux», e nonostante le concrete proposte
di una nuova legislazione che avrebbe preparato il sistema
giudiziario nazionale a un futuro conflitto, non venne intrapresa
alcuna azione. Di fronte alla necessità di giudicare i crimini
di guerra e di portare i responsabili davanti a un tribunale,
il paese non disponeva, al momento della seconda invasione
tedesca nel maggio del 1940, di strumenti migliori di quelli
che possedeva un quarto di secolo prima.
11
Ibidem.
549
3. Tardive ambizioni legislative
Tra i più discussi provvedimenti legislativi emanati dal governo
belga in esilio a Londra vi sono un certo numero di «arrêtéslois», leggi entrate in vigore o poteri legislativi speciali conferiti
al governo in tempo di guerra, e la revisione delle categorie
legali dei reati, delle procedure e delle sanzioni che riguardavano il tradimento. Definizioni più ampie, procedure più snelle
e pene più severe miravano sia ad avere un effetto dissuasivo
che a permettere un efficace e completo giudizio di crimini e
reati perpetrati in misura tale da minacciare la coesione del
Paese e la ricostruzione dello stato di diritto. Il punto critico,
derivante dalla situazione bellica, era costituito dal fatto che i
civili accusati di tradimento, di aver costituito «una minaccia
alla sicurezza dello Stato», dovevano essere deferiti esclusivamente ai tribunali militari e rischiavano la pena di morte.
Nonostante il governo belga figurasse tra i firmatari dell’accordo di St. James del giugno 1941, nel quale le nazioni alleate
affermavano solennemente il loro impegno a portare gli autori
di crimini nazisti davanti alla giustizia, e partecipasse poi alla
Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra,
facendo parte delle sottocommissioni tecniche che esaminavano
tematiche come la legislazione, l’estradizione e l’arresto, non
fu presa alcuna iniziativa legislativa complessiva che avrebbe
aggiornato l’apparato legale per quanto riguardava i crimini di
guerra in analogia con quanto previsto per il reato di tradimento
(«incivisme», o collaborazionismo) da parte di cittadini belgi.
Era evidente che all’individuazione e punizione dei complici
veniva data una priorità molto più alta di quella riservata a
coloro sui quali ricadevano le maggiori responsabilità per i
crimini commessi. Un decreto legge esecutivo del 3 agosto
1943 estendeva alle giurisdizioni belghe la competenza per
reati commessi all’estero contro cittadini belgi, senza tuttavia
risolvere il problema centrale di quale giurisdizione sarebbe
stata competente, né su quali basi lo sarebbe stata, se sulla
base del codice penale nazionale, del codice penale militare
o del diritto internazionale.
550
Nel dicembre 1944 – ovvero tre mesi dopo la liberazione del
paese – il governo creò una Commission d’Enquête sur la
violation des règles du droit des gens et des lois et coutumes
de la guerre (Commissione d’inchiesta sulla violazione delle
norme del diritto internazionale e delle leggi e consuetudini
di guerra). Indipendentemente dall’entità delle atrocità commesse e dal numero delle vittime, l’urgenza politica sembrava
molto meno pressante di quanto non lo fosse stata sulla scia
dell’agosto del 1914. Il coinvolgimento e la presenza del Belgio
al tribunale militare internazionale di Norimberga furono di
scarsa consistenza; il paese era rappresentato dalla Francia, e
a differenza dell’Olanda, le cui vicende sotto l’occupazione
tedesca ebbero un ruolo di primo piano nel processo, con
riguardo a Arthur Seyss-Inquart, nessuno dei 24 accusati, o
dei 21 che effettivamente affrontarono il processo, erano stati
direttamente coinvolti nell’occupazione del Belgio.
La commissione d’inchiesta si trovò a fronteggiare un duplice
compito: da un lato informare l’opinione pubblica nazionale
e internazionale dei crimini commessi dalle truppe germaniche in Belgio durante l’occupazione, dall’altro raccogliere
elementi probatori, identificare i responsabili e preparare i
procedimenti giudiziari. La prima parte di questo impegno
portò alla pubblicazione di una serie di relazioni – alcune
delle quali tradotte anche in inglese – uscite per la maggior
parte nel 1947 e nel 1948, concernenti reati commessi durante
l’invasione, la liberazione e l’offensiva delle Ardenne, ma
riguardanti anche le persecuzioni antisemite, l’esecuzione di
ostaggi e la deportazione di lavoratori. Guidata da Antoine
Delfosse, ex ministro della Giustizia nel governo a Londra,
la commissione portò a termine una considerevole mole di
investigazioni. Tuttavia, i risultati della sua attività sembrano
aver goduto di minor attenzione pubblica e internazionale, e
anche di un più tiepido coinvolgimento delle autorità locali
e religiose, rispetto a quanto era avvenuto dopo il 1914. E
per quanto il confronto richieda un’analisi più approfondita,
sembra anche che la raccolta delle prove non abbia raggiunto
il livello di completezza documentaria riscontrato nella precedente vicenda.
551
In parte, la spiegazione va cercata nel violento impatto delle
rivelazioni – nella primavera del 1945 – dei crimini commessi
in Germania e nella Polonia occupata, che, sottoposti a giudizio sia dal tribunale militare internazionale di Norimberga
che dai tribunali militari nazionali delle più importanti forze
di occupazione della Germania, misero fortemente in ombra
i «crimini minori» commessi in Belgio. Per quanto molti dei
crimini documentati fossero perfettamente paragonabili con
quelli commessi nel corso della prima guerra mondiale – Vinkt
e Meigem, per esempio, o Fôret-Trooz, o Bande12, mentre altri
avevano caratteristiche assolutamente nuove ed erano avvenuti su scala incommensurabilmente maggiore, a cominciare
dalla deportazione e dall’assassinio di 38.000 persone citata
da Ganshof –, le atrocità commesse in Belgio erano scivolate
dalla posizione di primo piano che avevano avuto presso l’opinione pubblica mondiale dopo il 1914 a un mero elemento di
contorno dopo il 1945, a un caso abbastanza insignificante in
una lunga lista di paesi martirizzati. Anche l’emergere di una
giustizia internazionale mise il potere giudiziario belga in una
posizione difficile: doveva dar prova di decoro ed efficienza
su un palcoscenico affollato, dimostrare che le proprie norme
e procedure erano all’altezza degli standard internazionali.
Il confronto tra le prime stesure delle relazioni conservate negli
archivi e le versioni poi pubblicate suggerisce un mutamento di
tono: le incriminazioni dirette e ad personam vennero eliminate,
e l’originario tono vendicativo, come pure le esplicite richieste
di condanna degli attori, assunsero accenti significativamente
più sommessi, e questo per varie ragioni. In primo luogo, le
indagini sui crimini di guerra erano condotte su tre binari
diversi: la commissione, che non aveva alcuna competenza
giudiziaria formale, la Sûreté de l’État, o servizi segreti, e la
giustizia militare (Auditorat Général). È del tutto ragionevole
12
Nel maggio 1940 a Vinkt vennero uccisi da soldati tedeschi almeno 86
civili (l’episodio è noto in Belgio come ‘massacro di Vinkt’) e nel vicino
villaggio di Meigem 27 persone, rinchiuse dai tedeschi nella chiesa, vennero
uccise da un’esplosione; a Fôret-Trooz, nel settembre del 1944, le vittime
furono 64 membri della Resistenza e a Bande, il 24 dicembre1944, 34 civili
furono uccisi da soldati tedeschi o collaborazionisti [n.d.t.].
552
che la commissione separasse il proprio ruolo di informazione
storica ed educativa dal proprio ruolo nella preparazione del
processo giudiziario, e che non volesse interferire con i futuri
procedimenti penali. Una seconda ragione pertiene al clima
internazionale, che andava rapidamente mutando. Entro il
marzo del 1948 gli alleati occidentali, e in particolare gli Stati
Uniti e la Gran Bretagna, avevano pubblicamente annunciato
la sospensione di tutte le estradizioni di cittadini tedeschi che
avrebbero dovuto subire un processo nei Paesi precedentemente
occupati: una decisione motivata dal disagio anglo-americano
di fronte alla prospettiva di estradare cittadini tedeschi perché
fossero processati nei paesi del blocco sovietico, dove i partiti
comunisti avevano preso saldamente in mano il potere giudiziario. Ma la questione toccava nella stessa misura i Paesi
dell’Europa occidentale e quelli dell’Europa orientale. Il programma alleato di processi ai criminali di guerra era sempre
più criticato dai politici come incompatibile con gli interessi
strategici dell’Occidente, e vennero esercitate pressioni per
mitigare le sentenze e sospendere la preparazione di nuove
incriminazioni. A meno di tre anni dalla fine della guerra,
la Guerra Fredda proiettava la sua ombra sulla Vergangenheitsbewältigung e stabiliva nuove priorità, in particolare per
quanto riguardava l’esercito tedesco. Quando la commissione
ridusse le proprie pretese di portare i responsabili tedeschi di
fronte alla giustizia, questo avvenne perché, già all’inizio del
1948, si sapeva benissimo che c’erano ben poche possibilità
di attuazione concreta, a parte le poche centinaia di cittadini
tedeschi – quelli detenuti nel carcere di St. Gilles – che erano
già nelle mani dei belgi. La terza ragione ci riporta alla questione, irrisolta, di quale legislazione fosse idonea a giudicare
i tedeschi accusati di crimini di guerra.
Si potrebbe sostenere che questa volta il potere giudiziario
belga non era ostacolato dalle speciose disposizioni del trattato
di Versailles e che avrebbe benissimo potuto portare a termine
l’originario progetto del 1918, di giudicare gli accusati tedeschi davanti a giurisdizioni ordinarie; ma l’opinione generale
che questa opzione fosse impraticabile fu quasi immediata. I
processi in Court d’Assises erano estremamente impegnativi,
553
e valevano in questo caso le stesse ragioni per le quali per
i casi di tradimento da parte di cittadini belgi si chiedeva
l’esclusiva attribuzione di competenza ai tribunali militari:
un’imponente operazione una tantum, che richiedeva una
giustizia rapida esperita attraverso un’operazione centralizzata.
Il legislatore belga avrebbe offerto ai criminali tedeschi quelle
stesse garanzie procedurali che negava ai suoi compatrioti? Le
ragioni in favore di una ‘militarizzazione’ dei procedimenti
contro i criminali tedeschi erano ancora più fondate di quanto
lo fossero per i loro corrispettivi belgi: mentre questi ultimi
erano quasi esclusivamente civili, i primi appartenevano per
lo più al personale militare. Soltanto una corte militare poteva
affrontare la particolarissima sfida di determinare le responsabilità individuali all’interno di un’organizzazione basata sulla
disciplina e sull’esecuzione incondizionata degli ordini superiori.
L’irrisolta situazione legale dei criminali di guerra tedeschi
portò a situazioni paradossali, come nel processo riguardante
il campo di tortura di Breendonk: il personale civile belga del
campo fu processato nel 1946 da un tribunale militare, mentre
il comandante militare tedesco del campo, Schmitt, poté solo
essere giudicato da una giurisdizione civile. E comportò anche
pressanti problemi di ordine pratico: fintanto che la questione
della competenza legale rimaneva irrisolta, i sospetti tedeschi
estradati non potevano essere incriminati formalmente. La
loro detenzione e la loro estradizione erano quindi irregolari;
erano, secondo la dizione allora in uso, «a disposizione del
Ministro della Giustizia»: un fatto che gli avvocati della difesa
e i gruppi di sostegno non mancarono di pubblicizzare, insieme
alle autorità alleate che avevano la responsabilità legale delle
estradizioni.
La legge del giugno 1947 aveva lo scopo di risolvere questi
problemi, e venne anche presentata come un capolavoro di
abilità giuridica, che stabiliva nuovi standard internazionali e
costituiva una fonte di legittimo orgoglio per il Belgio. Non
era soltanto di gran lunga superiore alle norme arbitrarie e
illegali del regime che intendeva mettere sotto processo: era
anche giuridicamente molto più solida delle sbrigative soluzioni
della legge francese, promulgate ad Algeri nell’agosto del 1944
554
e basate esclusivamente sull’ordinamento penale e militare
interno francese, e apparve come il modello della legislazione
adottata qualche mese più tardi dall’Olanda e dal Lussemburgo.
Il legislatore belga affermava insistentemente che la nuova
legge riguardava esclusivamente gli elementi procedurali e
giurisdizionali, stabilendo semplicemente la competenza legale
dei tribunali e organizzando i processi in applicazione delle
leggi vigenti. L’assenza di una legislazione retroattiva era
motivo di orgoglio giuridico e di rigoroso rispetto dei sacri
principi dello Stato di diritto. L’innovazione fondamentale
della legge era il principio della doppia incriminazione: per
essere considerato crimine di guerra, un reato doveva configurarsi sia come violazione del codice penale belga che come
violazione delle leggi internazionali e delle norme e regole
della condotta di guerra. La competenza legale era attribuita
ai tribunali militari regolari, con le stesse procedure e la stessa
composizione dei tribunali che avrebbero giudicato i cittadini
belgi accusati di tradimento. In confronto alle proposte formulate precedentemente dal ministro della Giustizia e a una
proposta che non aveva avuto seguito del 1945, i diritti degli
accusati risultarono singolarmente rafforzati dai membri delle
commissioni parlamentari. Il diritto d’appello, soppresso dal
ministro, venne reintrodotto, e venne riaffermato il diritto ad
avere un avvocato difensore. Diversamente che in Olanda,
dove gli accusati potevano essere assistiti solamente da avvocati
olandesi, i criminali di guerra tedeschi potevano ricorrere sia
ad avvocati tedeschi che ad avvocati belgi.
L’organizzazione pratica del ricorso ad avvocati difensori
tedeschi creò inizialmente un grave ostacolo, costringendo a
rinviare il primo e altamente simbolico processo sui crimini di
guerra contro la popolazione civile di Stavelot13. Le autorità
belghe avevano inizialmente formulato alle autorità di occu13
Il 18 dicembre 1944, a Stavelot, 130 civili (67 uomini, 47 donne e 23 bambini), accusati di aver offerto protezione a soldati americani, vennero giustiziati
da un’unità delle SS [n.d.t.]. Cfr. F. DUSSART, Les conditions de détention des
témoins et suspects allemands détenus pour crimes de guerre en Belgique de
1945 à 1952, research paper, Université Libre de Bruxelles, 2005.
555
pazione americane in Germania la richiesta di stilare una lista
di avvocati tedeschi disposti a recarsi in Belgio per difendere
i loro compatrioti. Le autorità americane, sulla base delle
proprie esperienze precedenti, avevano tentato fermamente di
dissuadere il governo belga dall’appellarsi ad avvocati tedeschi,
e avevano rifiutato ogni partecipazione alle spese di viaggio e
ogni tipo di assistenza logistica all’operazione; solo in seconda
istanza il ministero della giustizia belga avrebbe trovato presso
le autorità britanniche la disponibilità a stilare una lista di
avvocati residenti nella loro zona di occupazione e a concordare
le modalità del viaggio con l’esercito belga di stanza nella zona
britannica; per garantirne l’incolumità, gli avvocati sarebbero
stati ospitati nelle locali caserme della Gendarmerie. Infine,
nel novembre del 1948 il Landesministerium per la Giustizia
del Rheinland-Westfalen acconsentì a finanziare le spese e gli
oneri degli avvocati tedeschi che difendevano i compatrioti
processati in Belgio per crimini di guerra. Alla fine, il Ministero della Giustizia calcolò che il ricorso ad avvocati tedeschi
si era rivelato molto meno oneroso di altre alternative, cioè
del reclutamento di traduttori a spese dei contribuenti belgi.
Questa legge rappresentò per i tribunali militari un’ardua sfida.
L’apparato della giustizia militare era stato più che decuplicato:
da 4 sezioni prima del 1940 a 134 nel 1947, e da poche dozzine di magistrati inquirenti a più di 600. Questa forza lavoro
giovane e priva di esperienza si trovava a fronteggiare continuamente innovazioni legali e giudiziarie, poiché la maggior
parte delle imputazioni non avevano precedenti, o risultavano
sostanzialmente modificate dagli emendamenti introdotti nel
periodo della guerra. In assenza di una giurisprudenza alla
quale far riferimento, i servizi centrali della giustizia militare,
l’Auditorat Général, producevano serie complete di istruzioni
pratiche, circolari, statistiche: una sorta di pacchetti fai-date, un «prêt-à-juger» per i magistrati di Ypres, o di Tournai,
località dove mai prima di allora era stata esercitata la giustizia
militare. Questi «pacchetti» specificavano quali articoli di legge
corrispondevano a quali reati e quali sentenze erano congrue,
per esempio, per i volontari delle SS, per le infermiere militari nella Croce Rossa tedesca, per i delatori e via dicendo.
556
In questo contesto, il compito di determinare la colpevolezza
alla luce del diritto nazionale e internazionale, di fronte ad
avvocati tedeschi estremamente agguerriti e con forti pressioni
dall’alto perché venissero rispettati gli standard internazionali
di giustizia, diventava pressoché impraticabile.
I problemi legali erano molteplici. La prima difficoltà era quella
di individuare un corpus di convenzioni e giurisprudenza
internazionali che permettesse di stabilire che gli atti commessi
rientravano tra le violazioni di norme generalmente accettate.
Gli archivi dell’Auditorat Général mostrano, attraverso l’abbondanza della giurisprudenza internazionale raccolta e analizzata,
che questo compito era stato affrontato molto seriamente. In
questo lavoro di analisi legale senza precedenti è possibile
vedere le premesse all’emergere di una giustizia internazionale, mentre il riferimento alla giurisprudenza straniera, si
tratti del Tribunale Militare internazionale di Norimberga,
delle conseguenti corti militari nazionali alleate, dei tribunali
olandesi, italiani o lussemburghesi, diventa il quadro centrale,
all’interno del quale tracciare le linee di condotta dei giudici
nazionali. Lungi da un trionfante e vendicativo discorso legale,
il tono è difensivo e persino, talvolta, esitante. I criteri esposti
nella legge erano estremamente ambiziosi dal punto di vista
intellettuale, il compito completamente senza precedenti e lo
staff del pubblico ministero inizialmente non sufficientemente
attrezzato per affrontarlo.
Alcuni dei problemi centrali riguardavano il diritto internazionale, che non era – e tuttora non è – un corpus coerente,
consensuale ed esaustivo. Alcuni dei crimini di maggior rilievo
non erano codificati come violazioni del diritto internazionale,
in particolare la tortura, che sarebbe stata menzionata solo
nella Convenzione di Ginevra del 1949. Inoltre, le pene previste nel codice penale nazionale sembravano assolutamente
inadeguate nei casi di tortura sistematica praticata dagli agenti
delle SS, dato che la pena massima per «coups et blessures»
(percosse e lesioni, artt. 398-400 del codice penale) poteva
solo, in mancanza di lesioni permanenti, essere raddoppiata
in caso di reiterazione, e la condanna a morte poteva essere
comminata solo nei casi in cui le torture avessero causato il
557
decesso della vittima: la pena prevista per la tortura, in breve,
non era sostanzialmente diversa da quella prevista per una rissa
in un bar. La fucilazione di ostaggi fu un altro caso cruciale.
Il Tribunale militare americano paradossalmente riaffermò la
legittimità di questa pratica nel cosiddetto «Caso degli ostaggi».
Il comando della Wehrmacht nei Balcani, non fu condannato per
l’esecuzione di per sé, ma perché fu giudicata sproporzionata
la natura delle rappresaglie e non provata la «responsabilità
solidale» tra gli autori di «attacchi terroristici» e le vittime
delle azioni di rappresaglia. Nel caso delle Fosse Ardeatine
la giustizia italiana pervenne a una conclusione analoga. La
«moderazione» di Alexander von Falkenhausen nella scelta e
nel numero degli ostaggi apparve, per contrasto, meritevole
di rispetto.
Un’ulteriore complicazione fu il ricorso da parte degli avvocati
difensori al concetto di «ordine del superiore», molto più
esteso nel diritto e nella giurisprudenza belgi di quanto non
lo fosse, per esempio, nello statuto di Norimberga. Solamente
nel caso di «flagranti violazioni» un ufficiale, un sottufficiale o
un soldato potevano essere ritenuti responsabili dell’esecuzione
di un ordine, cioè quando l’ordine, al di là di ogni possibile
dubbio, costituiva una trasgressione delle norme elementari del
diritto internazionale e dell’elementare senso di umanità. In
poche parole, la difesa poteva contare sull’arsenale pressoché
illimitato sia del diritto belga che del diritto internazionale,
sfruttando in particolare le incompatibilità esistenti tra i due
sistemi.
Le Corti d’appello e la Corte Suprema spesso annullavano le
sentenze, in particolare invalidando il ricorso all’articolo 118bis.
Questo articolo, che definiva il «tradimento» e l’«intelligenza
col nemico», era una categoria onnicomprensiva alla quale si
faceva quasi sistematicamente ricorso come base legale per
configurare come reato un’ampia gamma di atti commessi
da cittadini belgi, e sarebbe dovuta servire come espediente
legale anche in molti casi di crimini di guerra. Tuttavia, il
«tradimento» vi è definito come «rottura del dovere di lealtà
verso lo Stato» e nessuno avrebbe potuto pretendere da un
suddito del nemico dimostrazioni di lealtà nei confronti dello
558
Stato belga14. L’argomentazione giuridica grazie alla quale Raoul
Hayoit de Termicourt, primo avvocato generale, invalidò, nel
luglio del 1949, l’applicazione di questo articolo nei riguardi
di cittadini di nazioni nemiche venne poi citato come un caso
esemplare, e mise in luce la giustizia belga agli occhi della
giurisprudenza internazionale15. Di conseguenza, solo i cittadini
stranieri che fossero stati residenti in Belgio prima del maggio
del 1940 potevano essere incriminati in base all’articolo 118bis,
in forza della considerazione che, in quanto residenti, avevano
contratto un obbligo di fedeltà.
4. Il procedimento giudiziario
Come già si è detto, il Belgio ottenne l’estradizione di 513 cittadini tedeschi – come sospetti (314) o come testimoni (219) –
per sottoporli a processo per crimini di guerra. I primi detenuti vennero consegnati alle carceri belghe entro la fine del
1945, più di un anno e mezzo prima che il legislatore belga
disponesse di una normativa idonea a giudicarli16. Entro l’agosto del 1946 più di un centinaio di cittadini tedeschi – erano
stati una dozzina nel dicembre del 1945 – risultavano detenuti
irregolarmente, non essendo stati correttamente incriminati in
base a un preciso capo d’accusa; il numero più alto di detenuti
in relazione a crimini di guerra fu raggiunto nel febbraio del
1948 – 390 individui –, ma decrebbe rapidamente nei mesi
seguenti: meno di 300 entro aprile e meno di 200 alla fine
d’agosto dello stesso anno. Nel settembre del 1949 il loro
numero era sceso al di sotto delle 100 unità, per poi rimanere
relativamente stabile fino agli inizi del 1951. Un anno dopo,
tuttavia, erano solo undici i detenuti tedeschi nelle carceri
belghe, e due erano stati giustiziati.
14
Cass. (2° Ch.), 4 luglio 1949, in «Revue de Droit Pénal et de Criminologie», 10, 1948-1949, pp. 986-1000.
15
J. VERHAEGEN, La répression des crimes de guerre en droit belge. Aléas
et perspectives, in Th. VOGLER (ed), Festschrift für Hans-Heinrich Jescheck
zum 70. Geburtstag, Berlin 1985, pp. 1441-1452.
16
Cfr. F. DUSSART, Les conditions de détention, cit.
559
Il numero più alto di estradizioni in Belgio venne concesso
dalle autorità britanniche: 370 su un totale di poco più di 500;
gli americani estradarono 92 individui, e le autorità francesi
circa 5017. L’evoluzione nella presenza di detenuti tedeschi nelle
carceri belghe non fu tuttavia determinato principalmente dalla
rapidità dei procedimenti giudiziari. I primi detenuti estradati
furono rilasciati nell’aprile del 1946, un anno prima del voto
della normativa che avrebbe permesso l’organizzazione dei
processi. Entro il giugno del 1947, quando fu votata la legge,
56 tedeschi estradati erano già stati rimpatriati. La giustizia
belga scoprì un certo numero di errori di identificazione relativi a individui omonimi dei sospetti ma che non erano mai
stati di stanza in Belgio durante l’occupazione, e, quel che
più conta, l’ufficio del procuratore fu costretto ad archiviare
numerosi casi per mancanza di prove, o perché la normativa
non consentiva sentenze accettabili al sistema penale belga
o al pubblico. Le difficoltà intrinseche del diritto belga, nel
momento in cui si trattò di ricondurre crimini eccezionali
commessi in tempi eccezionali nei termini del codice penale
ordinario, furono un ostacolo cruciale.
Per la legge belga, i periodi di carcerazione preventiva venivano
conteggiati il doppio, e andavano sottratti dalla pena detentiva
finale. Dato che i processi erano stati rinviati fino al voto della
legge nel giugno del 1947 ed erano iniziati solo nel corso del
1948, l’ufficio del procuratore fu costretto ad archiviare tutti i
casi in cui i capi d’accusa avrebbero comportato una sentenza
massima inferiore ai sei anni: in questi casi, infatti, la detenzione
preventiva avrebbe rappresentato più della metà della pena
detentiva finale, e il detenuto avrebbe potuto intraprendere un
procedimento per ottenere dallo Stato belga un risarcimento
per ingiusta detenzione. La decisione della Corte Suprema di
invalidare il ricorso all’art. 118bis, che prevedeva la condanna
a morte per alto tradimento, privò gli accusatori di una delle
uniche strategie per evitare questo dilemma.
17
Ibidem.
560
Dei 370 individui estradati dalle autorità britanniche, soltanto
39 vennero effettivamente processati in Belgio18. Dopo aver
preteso per anni l’estradizione di sospetti e testimoni, le autorità
belghe si trovarono quindi di fronte a un problema di segno
opposto quando tentarono di accelerare il rimpatrio di sospetti
i cui casi erano stati archiviati. Dal luglio del 1949 le autorità
americane sospesero per quattro mesi i rimpatri dal Belgio alla
loro zona di occupazione, richiedendo adeguate informazioni
sui motivi del rilascio e sulla natura dei capi d’accusa che erano
stati ritirati19. Il risultato fu che un certo numero di individui
avevano trascorso fino a tre anni nelle carceri belghe per poi
essere rilasciati senza essere mai stato nemmeno formalmente
incriminati o rinviati a giudizio.
Un’analisi più dettagliata dei processi organizzati in Belgio
nei quattro anni tra il 1947 e il 1951 rivela quale grandissima
sfida rappresentassero questi procedimenti per il potere giudiziario belga20. Nel nostro progetto di ricerca abbiamo finora
individuato 34 casi giudiziari per un totale di 103 individui.
In questa fase, non possiamo escludere che vi siano stati altri,
minori, processi a tedeschi accusati di crimini di guerra, ma
verosimilmente la scoperta di nuovi dati non modificherebbe in
modo sostanziale il quadro tracciato fino ad ora. La stragrande
maggioranza dei sospetti, 83, erano cittadini tedeschi; 4 erano
austriaci, 3 polacchi, uno rumeno, uno lussemburghese. Quattordici tra i detenuti erano cittadini belgi accusati di crimini
in stretta relazione con crimini commessi da sospetti tedeschi.
L’età media dei sospetti al momento del loro processo era di
45 anni: di certo all’epoca dei fatti non erano reclute. Il primo
anno in cui si tennero processi, il 1948, fu anche l’anno che
vide il più alto numero di individui sottoposti a procedimento
penale (37), specialmente nei processi collettivi per i massacri
18
Ibidem.
19
Ibidem.
20
Le analisi statistiche e i grafici sono tratti da Ch. BLAIRON - D. MAHILLON J.-N. LEFÈVRE, Études statistiques et de l’instruction et de la répression des
criminels de guerre allemands en Belgique, research paper, Université Libre
de Bruxelles, 2005.
561
di Stavelot e per la Sicherheitspolizei 21 di Charleroi. Nel corso
del 1949 il numero dei processi raddoppiò, ma il numero degli
imputati si ridusse della metà. Nel 1950 e 1951 vennero processati rispettivamente 25 e 12 persone, dopo di che i processi
cassarono del tutto e presero avvio le liberazioni accelerate.
Tab. 1. Processi per crimini di guerra 1948-951
anno
processi
imputati
1948
1949
1950
1951
6
12
9
4
37
17
25
12
31
91
totale
Fonte: elaborazione dell’autore.
La selezione preliminare dei casi (sono stati considerati solo
quelli che verosimilmente avrebbero comportato condanne
gravi) è evidente nelle sentenze emesse; nel nostro esempio,
solo 8 degli accusati vennero prosciolti, mentre altri 7 subirono condanne di lieve entità, inferiori ai 5 anni. Nel grafico
sottostante sono illustrate le pene erogate:
Tab. 2. Sentenze erogate dai consigli di guerra
sentenze
sentenziati
pena di morte
ergastolo
15-25 anni
10-15 anni
5-10 anni
meno di 5 anni
assoluzione
21
5
16
23
11
7
8
totale
91
Fonte: elaborazione dell’autore.
21
La Sicherheitspolizei, formata dalle forze della polizia segreta e della
polizia criminale, venne istituita nel 1934 e cessò formalmente di esistere
nel 1939 confluendo nel Reichssicherheitshauptamt; il termine restò però
correntemente in uso fino alla fine del Terzo Reich [n.d.t.].
562
La maggioranza (61%) dei condannati dai Conseils de Guerre
ricorsero in appello alla corte superiore, il tribunale militare
(tra questi, un terzo su istanza dell’ufficio della Procura). Tolti
dal computo i prosciolti e i condannati a pene lievi dai consigli
di guerra, e immediatamente scarcerati, il rimanente rappresenta la quasi totalità dei condannati alla pena di morte e di
quelli condannati a periodi di detenzione che superavano del
doppio la detenzione preventiva. L’intervallo tra il processo di
primo grado e l’appello era mediamente breve: entro il 1952
tutti i processi d’appello si erano conclusi. In un terzo dei
casi i giudici aumentarono la pena; una ristretta minoranza
di procedimenti si concluse con il proscioglimento, mentre
la maggior parte degli appelli risultarono a favore degli accusati, per i quali vennero emesse sentenze più miti. Tra quanti
presentarono appello contro la sentenza di primo grado, la
metà circa proseguì fino alla Corte Suprema, una procedura
costosa e, per gli avvocati della difesa, molto impegnativa. Solo
in tre casi l’appello fu respinto e il caso rinviato al tribunale
militare per un nuovo processo, ma il tasso eccezionalmente
alto di ricorsi alla Corte Suprema evidenzia la misura e la
determinazione degli avvocati difensori tedeschi a sostegno
degli imputati.
Al di là del processo di revisione giudiziaria, la precoce liberazione dei criminali di guerra tedeschi va messa in relazione
con misure individuali di rilascio anticipato e di commutazione
della pena di morte in carcere a vita. In parte la spiegazione
risiede nella particolare cronologia di questi processi, organizzati
dopo la prima fase di rigorosi e rapidi procedimenti contro i
collaborazionisti belgi negli anni 1944-1947. I tribunali militari
erano in quel momento impegnati in un’attività di massiccia
revisione delle precedenti sentenze, con significative diminuzioni
delle pene e proscioglimenti. Inoltre, entro il 1947, il sistema
giudiziario belga riprese la consuetudine – adottata sin dal
1863 in tempo di pace – di convertire le condanne a morte
in condanne all’ergastolo e di liberare i detenuti che avevano
scontato un terzo della pena in caso di buona condotta, come
stabilito dalla legge Lejeune del 1888. I criminali di guerra
tedeschi trassero così profitto da uno sforzo coordinato di
563
moderazione nei procedimenti e di riduzione della popolazione
carceraria cresciuta durante quella prima fase di grande severità alla quale erano sfuggiti a causa del vuoto legale che era
esistito fino al giugno del 1947. Sotto questo profilo, il loro
caso non è eccezionale. Tuttavia, il fatto che in applicazione
di quella legge solo un individuo accusato di aver commesso
crimini particolarmente atroci nel campo di Breendonk fosse
stato giustiziato, e che alla fine del 1952 solo undici individui
fossero ancora detenuti in Belgio, non si spiega con un mero
ritorno alle usuali procedure di clemenza. Vi furono due ulteriori fattori che innegabilmente giocarono un ruolo rilevante:
in primo luogo le pressioni politiche esercitate dalle autorità
della Germania Ovest, testimoniate da numerosi interventi
presso il ministero degli Affari Esteri, e in secondo luogo la
perdurante eredità del sacrosanto principio di sovranità, che
collocava il giudizio nei confronti di cittadini stranieri in un
ambito chiaramente diverso da quello di un Paese che giudicava quelli, tra i propri cittadini, che avevano tradito la patria.
Questi due aspetti richiedono ovviamente ulteriori ricerche.
5. I principali processi
Il primo processo organizzato in Belgio sulla base della legge
del giugno 1947 si svolse a Liegi nel giugno e luglio del 194822.
Due ufficiali e otto soldati della Divisione SS Leibstandarte Adolf
Hitler vennero accusati di una serie di crimini commessi nella
regione di Stavelot, nelle Ardenne belghe, durante l’offensiva di
Von Rundstedt, nel corso della quale, tra il 18 e il 20 dicembre del 1944, avevano perso la vita 60 uomini, 47 donne e 23
bambini. L’importanza simbolica di questo processo era ovvia.
Nel luglio del 1946, un tribunale militare americano a Dachau
aveva condannato a morte per impiccagione 43 tra soldati e
ufficiali della stessa unità, 22 all’ergastolo e altri 8 a lunghe
pene detentive, con l’accusa principale di aver assassinato un
centinaio di prigionieri di guerra americani. Il processo e la
22
Cfr. N. VERSCHUEREN, Le Procès du massacre de Stavelot, research paper,
Université Libre de Bruxelles, 2005.
564
severità della condanna avevano suscitato vivaci polemiche negli
Stati Uniti. L’avvocato difensore americano, Everett, subito
rincalzato dal senatore McCarthy, aveva accusato l’ufficio del
procuratore di aver fatto ricorso alla tortura per estorcere
confessioni, e aveva insinuato che i giudici ebrei del processo
avessero nutrito pregiudizi antitedeschi.
La sfida per la corte belga era quindi non solo di riparare alla
scarsa attenzione prestata dal Tribunale militare americano ai
crimini commessi contro civili belgi, ma anche, sulla scia della
controversia, a dimostrare la capacità della giustizia belga di
rispettare tutte le procedure del diritto di fronte all’opinione
pubblica mondiale. Questo spiega, ad esempio, il rinvio
dell’inizio del processo per permettere agli avvocati difensori
tedeschi di essere presenti, il che era in sé una dimostrazione
di superiorità legale se confrontato con la procedura militare
americana. Nei fatti, questo processo senza precedenti servì in
primo luogo e soprattutto a mostrare la scrupolosità del sistema
giudiziario belga, prestando attenzione alle obiezioni degli
avvocati difensori a proposito del valore legale della confessione
‘forzata’ resa durante il periodo di custodia presso gli americani
e riconoscendo in parte la validità dell’argomento dell’‘ordine
superiore’, tanto più in quanto otto dei dieci accusati erano
stati soldati semplici, tre dei quali non ancora diciottenni al
tempo dei fatti. Uno dei dieci venne rilasciato, mentre gli altri
vennero condannati a pene tra i dieci e i quindici anni di
lavori forzati. Computando la detenzione preventiva e applicando la legge Lejeune, vennero tutti rilasciati entro l’aprile
del 1952. Nessuno di loro presentò appello contro la sentenza
e l’ufficio del procuratore, che aveva chiesto sentenze molto
più severe, ricevette dai vertici della Giustizia militare l’ordine
di non ricorrere alla corte superiore, con la motivazione che
quella corte, sulla base delle prove disponibili, avrebbe potuto
emettere sentenze ancora più miti.
Un mese più tardi, nell’agosto del 1948, il Consiglio di guerra
di Mons pronunciò le condanne nel processo che aveva visto
il più alto numero di imputati: 18 membri del personale della
Sicherheitspolizei a Charleroi, una cittadina nella regione mine565
raria dell’Hainaut23. Il processo di Stavelot e quello di Charleroi a carico di membri della Sicherheitspolizei riguardarono,
insieme, un terzo dei cittadini tedeschi processati per crimini di
guerra. Il processo SIPO di Charleroi rappresentò un diverso
tipo di sfida; si sarebbe stabilito, in quella sede, un precedente:
sarebbero stati giudicati ufficiali delle forze di polizia tedesche
nel paese occupato e il loro ruolo nella repressione della
resistenza e nelle persecuzioni politiche, nell’uso sistematico
della tortura, nelle esecuzioni e nelle deportazioni: in azioni,
dunque, che non trovavano corrispondenza nella tradizionale
definizione di crimini di guerra. Otto degli accusati vennero
condannati a morte e altre quattro condanne a morte vennero
emesse in contumacia, il che costituì un caso eccezionale nei
processi belgi. Gli altri sei imputati vennero condannati al
carcere a vita, ai lavori forzati e a pene detentive minori (in un
caso a due anni). Nel luglio 1949 la Corte Suprema avrebbe
invalidato l’accusa di alto tradimento (art. 118bis), annullando
in tal modo il precedente che il processo intendeva stabilire e
rinviando il caso al tribunale militare, che non poté che emettere condanne più lievi. In seguito, processi a ufficiali della
Sicherheitspolizei ad Anversa, Dinant, Liège-Arlon e Bruxelles e
processi a membri della Geheime Feldpolizei a Liegi, Gand e
Bruxelles misero ulteriormente in luce la difficoltà di formulare
incriminazioni per torture e deportazioni in termini di diritto
penale belga, nonché il problema di qualificare in termini di
diritto internazionale la fucilazione di ostaggi.
Senza lasciarsi scoraggiare da queste difficoltà, il potere giudiziario belga si avventurò persino nell’ambizioso progetto di
mettere alla prova i limiti della giustizia extraterritoriale. Nel
1946 e nel 1948 il legislatore belga aveva affermato la propria
autorità legale a perseguire gli autori di crimini commessi al
di fuori dei confini nazionali contro cittadini belgi o cittadini
di nazioni alleate. Un primo processo nel novembre del 1948
condannò a morte Richard Winter, guardia nel campo di
Missburg. Altri due processi svoltisi nel 1950 riguardarono
23
Cfr. G. GILBERT, Le Procès SIPO Charleroi, research paper, Université
Libre de Bruxelles, 2005.
566
crimini commessi da sei guardie carcerarie a Wolfenbüttel, e
un altro il capo della Lagerunion di Dortmund. Era evidente
che le autorità belghe miravano a completare l’azione giudiziaria degli alleati concentrando la propria attenzione su campi
e carceri di minor importanza che erano sfuggiti alla loro
attenzione. Se al centro di questi processi erano le vittime di
nazionalità belga, essi riguardavano nondimeno crimini commessi ai danni di vittime russe, francesi o danesi. E proprio
questi processi mostrarono quanto fosse arduo configurare sotto
il profilo penale reati come il trattamento crudele o l’inadeguata fornitura di cibo e vestiario24, oltre a mettere in luce la
forte resistenza al principio di extraterritorialità da parte degli
avvocati tedeschi. È abbastanza significativo il fatto che, nel
caso della Lagerunion di Dortmund, l’avvocato difensore di
Ernst Köppelmann riuscì a far invalidare l’accusa di omicidio
colposo ai danni del cittadino danese Hansen obiettando, del
tutto fondatamente, che all’epoca del crimine la Danimarca non
era alleata del Belgio25. È evidente che, con tre processi che
riguardavano campi e prigioni minori, e un totale complessivo
di otto accusati, il giudizio belga di fronte ai crimini commessi
in Germania si trovò costretto a ridimensionare le ambizioni
espresse dal legislatore, e entro il 1951 anche questa parte del
programma, come le altre, venne abbandonata.
In breve, i procedimenti giudiziari contro i crimini di guerra
tedeschi in Belgio misero a fuoco soprattutto due tipi di
crimini. In primo luogo, c’erano i «crimini di guerra tradizionali», i massacri di civili come «danni collaterali» degli scontri
armati, che riguardavano tre episodi: l’invasione (in particolare
col processo ai sospetti autori del massacro di un centinaio di
civili a Vinkt e Meigem il 28 maggio); la liberazione; l’offensiva
delle Ardenne, con il processo di Stavelot. La configurazione
di questi crimini come violazioni del diritto internazionale era
semplice, ma l’identificazione degli autori, che nella maggior
parte dei casi erano solo di passaggio in Belgio nel quadro
24
Cfr. A. DUELZ, Le procès de Ernst Köppelmann, research paper, Université
Libre de Bruxelles, 2005.
25
Ibidem, p. 21.
567
di operazioni militari su vasta scala, si rivelò invece molto
complessa. Il secondo tipo di crimini riguardava l’apparato
delle forze di sicurezza e di polizia dell’occupante tedesco:
mentre in questi casi l’identificazione degli autori risultava
più agevole, dato che la maggior parte degli ufficiali rimaneva
nella stessa sede per parecchi mesi, se non per anni, la configurazione dei crimini da loro commessi come violazioni del
diritto internazionale era molto più difficile, e diede luogo a
minuziose discussioni sul carattere legale o illegale della diffusa
pratica del cosiddetto «interrogatorio rinforzato» (verschärfte
Vernehmung), rendendo quasi impossibile sostenere un’accusa
di torture quando queste non avevano provocato la morte
o una menomazione permanente delle vittime. Il Belgio era
riuscito ad ottenere l’estradizione di notori criminali nazisti,
come Eduard Strauch, condannato da un tribunale militare
americano per il suo ruolo nell’assassinio di 55.000 ebrei in
Bielorussia, che alla fine morì in un carcere belga nel 1956
dove era stato rinchiuso per la sua posizione di ufficiale della
Sicherheitspolizei negli ultimi mesi dell’occupazione del Belgio,
o di Julius Lippert, già Oberbürgermeister di Berlino, riconosciuto colpevole di complicità in assassinio nelle sue funzioni di
Kreiskommandant di Arlon26, ma la maggior parte degli accusati
erano ‘pesci piccoli’, che avevano rivestito ruoli subordinati o,
al più, posizioni di comando solo a livello regionale. Inoltre,
in entrambi i tipi di criminalità di guerra sopra indicati quello
che era in discussione era la violazione di certe regole e norme,
non la legalità del regime di occupazione in sé.
Due processi di particolare rilievo che chiudono la serie dei
processi per crimini di guerra nel 1951 costituiscono un’eccezione all’interno di questo quadro: il processo a Constantin
Canaris, capo della Sicherheitspolizei e del Sicherheitsdienst nei
primi due anni dell’occupazione, e il processo ai capi della
Militärverwaltung stessa, Alexander von Falkenhausen, Eggert
Reeder, Bernard von Claerr e Georg Bertram, il cosiddetto
26
Un anno prima della morte Lippert pubblicò le sue polemiche memorie
con il titolo Lächle und verbirg die Tränen: Erlebnisse und Bemerkungen
eines deutschen «Kriegsverbrechers», Leoni am Starnberger See 1955.
568
«processo dei generali». Von Falkenhausen in particolare finì
per diventare il simbolo di molte delle contraddizioni del
programma del Belgio contro i crimini di guerra, e, al di là
di questo, delle relazioni tra Belgio e Germania negli anni tra
il 1940 e il 1960.
6. Quella «brava persona» di Alexander von Falkenhausen
Nel settembre del 1960 un abitante della cittadina industriale
di Verviers rimase stupefatto nel leggere una pubblicazione di
matrimonio affissa, come previsto dalle norme sul matrimonio
civile, nella bacheca del municipio27: l’annuncio riguardava il
matrimonio tra Alexander von Falkenhausen, di 82 anni, e
Cécile Vent, di 54. Ma qualcosa di più della differenza anagrafica separava i protagonisti di queste nozze.
Alexander von Falkenhausen (29 ottobre 1878 - 31 luglio
1966) aveva percorso una considerevole carriera come ufficiale
tedesco. Nel 1900-1901 aveva prestato servizio nel corpo di
spedizione tedesco durante la rivolta dei Boxer in Cina, e
in seguito, nel 1912, era stato nominato addetto militare in
Giappone28. Durante la Prima guerra mondiale era stato
promosso capo di stato maggiore della 7a Armata turca e
inviato nel Caucaso e in Palestina. Dal 1934 al 1938 era stato
consigliere militare di Chiang Kai-Shek. Richiamato alle armi
dell’esercito tedesco nel luglio del 1938, nel maggio del 1940
era stato nominato comandante militare del Belgio e assegnato
di stanza a Bruxelles. La sua partecipazione alla cospirazione
del 20 luglio 1944 aveva portato al suo congedo dall’esercito
e all’arresto. Aveva trascorso l’ultimo anno della guerra negli
alloggiamenti speciali per personalità di rilievo a Buchenwald
e Dachau, dove si era guadagnato la simpatia e il rispetto di
un certo Léon Blum, che intervenne in suo favore dopo la
guerra.
27
Cfr. il dossier della rassegna stampa, CEGES, BD KD 2271.
28
Cfr. H.-H. LIANG, The Sino-German Connection. Alexander von Falkenhausen between China and Germany 1900-1941, Assen - Amsterdam 1978.
569
Tenuto in stato di custodia dall’esercito inglese, e poi da quello
americano, era stato estradato in Belgio nel 1948. L’offerta
americana di estradare von Falkenhausen aveva colto in qualche
modo la giustizia belga di sorpresa. All’inizio del 1948 l’ufficio
della Procura non aveva ancora istruito alcun caso specifico
contro il generale e, per analogia, contro la Militärverwaltung
in quanto tale. Nei due anni tra la sua estradizione e il processo, l’istruzione del caso fu oggetto di notevoli pressioni.
Nelle sue memorie von Falkenhausen afferma che i suoi
avvocati gli avevano annunciato, agli inizi del 1949, che il
caso sarebbe stato archiviato e i sospetti rilasciati. Il processo
ebbe invece effettivamente inizio il 25 settembre 1950 e finì,
dopo 61 udienze, il 9 marzo 1951. Von Falkenhausen e Reeder
furono condannati a 12 anni di lavori forzati, Bertram a 10
anni e von Clear fu prosciolto. I reati ascritti ai primi due
comprendevano la complicità nell’arresto e deportazione di
ebrei, l’organizzazione di lavori forzati, la caccia ai renitenti
al lavoro obbligatorio e l’esecuzione di ostaggi. Le udienze
furono caratterizzate dal comportamento cortese e rispettoso
tenuto nei confronti degli accusati da parte dei giudici, che
talvolta sembrarono persino intimiditi dalla statura professionale
degli avvocati della difesa; si ricorda ad esempio una frase del
pubblico ministero: «Naturalmente, maestro, io sono solo un
piccolo magistrato di provincia»29. Puntigliose disquisizioni
legali e una quota sproporzionata della durata del procedimento
furono dedicate alla questione della fucilazione di ostaggi. Di
fronte alla recente giurisprudenza – riguardante il «Caso degli
ostaggi» americano contro l’alto comando tedesco nei Balcani
e quello delle Fosse Ardeatine – non era facile per il pubblico
ministero dimostrare che la fucilazione di ostaggi costituisse una
«manifesta violazione» del diritto internazionale. Il dibattito si
concentrò quindi sulla fucilazione di ostaggi non quando questa
rappresentava una rappresaglia a seguito di attacchi alle forze
29
H. VAN NUFFEL, Belgisch Nuremberg. De vervolging van Duitse Oorlogsmisdadigers in België, Antwerp 1997, p. 35. Il contributo di Van Nuffel,
basato sugli archivi dei giornali, è peraltro una presentazione fortemente
tendenziosa di tedeschi perbene, vittime di un sistema giudiziario belga
tutt’altro che imparziale, con l’intento non dichiarato di screditare i processi
belgi contro i collaborazionisti fiamminghi.
570
militari tedesche, ma quando la Militärverwaltung aveva ordinato
la fucilazione di ostaggi come rappresaglia contro gli attacchi
a collaborazionisti belgi: la protezione degli alleati politici non
era parte dell’interesse vitale nazionale dell’occupante né della
sicurezza delle sue truppe, e non poteva essere giustificato
sul piano del mantenimento dell’ordine pubblico, dato che
scatenava appunto, con la rappresaglia, una spirale di violenza.
Il verdetto poteva anche non essere il risultato di una
mediazione, ma parve comunque ad entrambe le parti un
compromesso accettabile. Criticato per la sua severità in
Germania, e considerato incomprensibilmente mite da ampi
strati dell’opinione pubblica belga, consentì la scarcerazione
immediata di von Falkenhausen e il suo rimpatrio tre settimane
dopo l’emanazione della sentenza. Ma quel che più conta è il
fatto che, nell’accettare la scarcerazione, il generale rinunciò a
presentare appello, spianando così la strada a una liquidazione
senza clamore dell’intera vicenda dei processi ai criminali di
guerra tedeschi in Belgio; e non fu certo un caso se nello
stesso mese di marzo del 1951 il Belgio ristabilì le relazioni
diplomatiche con la Repubblica Federale Tedesca.
von Falkenhausen era diventato un eroe tedesco, emblema
dell’onore e della resistenza militare contro Hitler grazie alla
parte avuta nella cospirazione del 20 luglio, che sarebbe sempre
più diventata il simbolo condiviso dell’«altra Germania» negli
anni di Adenauer30. La sua condanna era stata aspramente
denunciata dalla stampa tedesca, ma perfino in Belgio il processo a suo carico aveva suscitato sentimenti contrastanti, e i
suoi avvocati avevano organizzato una difesa di alto profilo. Né
il generale intendeva compiere un atto di contrizione durante
il processo o in occasione della scarcerazione. Al momento del
passaggio della frontiera tedesca dopo il suo rilascio scrisse
cerimoniosamente, su un improvvisato ‘albo d’oro’, «Ingrata
Belgia non possidebis ossa mea» (Ingrato Belgio, non avrai
le mie ossa)31. In seguito concesse varie interviste sulla situa30
Cfr. G. ÜBERSCHÄR (ed), Der 20. Juli. Das «andere Deutschland» in der
Vergangenheitspolitik nach 1945, Berlin 1998.
31
Cfr. il dossier della rassegna stampa, CEGES, BD KD 2271.
571
zione mondiale, denunciando la messa sotto accusa di ufficiali
tedeschi nel momento in cui il destino dell’Europa dipendeva
dalla rinascita dell’esercito tedesco, e aggiungendo anche, in
linea col personaggio:
«Oggi i francesi sono soldati peggiori di quanto lo erano nel 1940. Non
dovremmo nemmeno dimenticare che in tempo di guerra l’esercito è costituito da civili che vestono un’uniforme, e limitarci qui a ricordare che dal
30 al 40 per cento dei francesi sono comunisti»32.
Nel 1974 Jo Gérard, un pubblicista belga di destra, ne pubblicò, scrivendone la prefazione, le apologetiche memorie in
traduzione francese33.
Cécile Vent (16 settembre 1906) era stata una delle poche
donne a rivestire il ruolo di comandante regionale all’interno
del movimento belga di resistenza, la rete di informazioni
Tégal34. Arrestata dalla Gestapo nel 1943, aveva trascorso
otto mesi nella prigione di St. Gilles, a Bruxelles. Dopo la
guerra era stata insignita della croce al merito di guerra con
menzione («croix de guerre avec palmes») per i suoi meriti
resistenziali. La Vent, che sin dal 1933 era separata dal marito,
un industriale del settore tessile, venne poi nominata nella
commissione amministrativa delle carceri di Verviers. Queste
commissioni rivestivano un ruolo importante nella sorveglianza,
nella rieducazione e nel rilascio anticipato degli ex collaborazionisti. Dopo la prima ondata di pesanti condanne emesse
dai tribunali militari nei primi anni dopo la liberazione, le
commissioni amministrative, composte in gran parte da patrioti
al di sopra di ogni sospetto, ovvero da veterani della resistenza,
formulavano raccomandazioni sulla liberazione anticipata dei
detenuti35. Nella veste di membro di una di queste commis32
Agence France-Presse, Bonn, 13 agosto 1952; CEGES, BD KD 2271.
33
A. VON FALKENHAUSEN, Mémoires d’outre-guerre. Comment j’ai gouverné
la Belgique de 1940 à 1944, Bruxelles 1974.
34
Cfr. E. DEBRUYNE, C’était Tégal. Un réseau de renseignements en Belgique
occupée, 1940-1944, Bruxelles 2003, in particolare pp. 131 e 155.
35
Cfr. L. HUYSE - S. DHONT, Onverwerkt verleden. Collaboratie en repressie
in België, 1942-1952, Leuven 1991.
572
sioni, la Vent si recava molto spesso a visitare i detenuti nelle
carceri di Verviers e di Liegi. Fu in occasione di queste visite
che incontrò von Falkenhausen, che nel 1948 soffriva di una
grave forma di depressione. La moglie di von Falkenhausen
morì nel marzo del 1950, dopo una lunga malattia, e al generale
venne concessa un’ultima visita all’inferma. La love story che
nel frattempo era sbocciata in carcere era destinata a durare,
e a condurre il generale e la Vent, quasi dieci anni dopo la
scarcerazione di lui, al matrimonio.
La coppia avrebbe desiderato mantenere il massimo riserbo sulla
vicenda, ma ben presto la stampa si impadronì della notizia e
la pubblicò con grande evidenza. «Le Soir Illustré» e «Libre
Belgique» uscirono con articoli in prima pagina sull’evento, e
«France Soir» mandò addirittura il suo inviato speciale Philippe
Labro a casa della coppia in Germania, attribuendo erroneamente a von Falkenhausen il titolo di Gauleiter del Belgio (una
funzione riservata ai territori annessi), e intitolando «Lei: eroina
dell’ombra – Lui: generale antihitleriano»36. Il matrimonio
forniva un’occasione perfetta per celebrare la riconciliazione
della Germania con quelle che erano state le sue vittime: il
Belgio, la Francia e oltre a queste, in misura diversa, l’Italia,
l’Olanda, la Danimarca e la Norvegia. La storia, però, non era
quella di una vittima che, con un atto d’amore, perdonava il
suo aguzzino; gli articoli mettevano in risalto la condivisione di
esperienze e di valori: entrambi erano stati eroi della resistenza
contro Hitler ed entrambi erano stati in carcere. Per questo,
la Vent e von Falkenhausen diventavano la personificazione
di una nuova interpretazione della guerra come esperienza
comune a tutta l’Europa occidentale, una guerra onorevole,
tra nazioni rispettose del diritto: una versione dei fatti a cui il
processo contro von Falkenhausen aveva contribuito non poco.
36
«Le Soir Illustré», 8 settembre 1960; «France-Soir», 3 settembre 1960;
CEGES, BD KD 2271.
573