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Fondazione Bruno Kessler Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento Quaderni, 81 1 I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it Grazia e giustizia Figure della clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea a cura di Karl Härter Cecilia Nubola Società editrice il Mulino Bologna 3 FBK - Istituto storico italo-germanico LI Settimana di studio «Perdono, grazia, giustizia. Figure della clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea» Trento, 21-24 ottobre 2008 Comitato scientifico: Irene Fosi, Karl Härter, Luigi Lacché, Ottavia Niccoli, Cecilia Nubola, Monica Stronati Traduzioni di: Lilia Cesa, Alessandro Cont, Luca Martini, Rossella Martini, Anna Zangarini GRAZIA e giustizia : figure della clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea / a cura di Karl Härter, Cecilia Nubola. - Bologna : Il mulino, 2011. - 627 p. : tab., diagr. ; 22 cm. - (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Quaderni ; 81) Atti della LI Settimana di studio «Perdono, grazia, giustizia: figure della clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea» tenuta a Trento dal 21 al 24 ottobre 2008. - Nell’occh.: Fondazione Bruno Kessler ISBN 978-88-15-13812-5 1. Grazia (Diritto) - Storia - Congressi - Trento - 2008 I. Härter, Karl II. Nubola, Cecilia 345.077 (DDC 22.ed.) Composizione e impaginazione: FBK - Editoria Scheda bibliografica: FBK - Biblioteca ISBN 978-88-15-13812-5 Copyright © 2011 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Il file può essere utilizzato unicamente ad uso privato e personale, nei termini previsti dalla legge che tutela il diritto d’autore e non può essere caricato in siti internet. 4 Sommario PARTE PRIMA: PERDONO, GRAZIA, GIUSTIZIA: I TERMINI DELLA QUESTIONE Giustizia, perdono, oblio. La grazia in Italia dall’età p. moderna ad oggi, di Cecilia NUBOLA 11 Grazia ed equità nella dialettica tra sovranità, diritto e giustizia dal tardo medioevo all’età moderna, di Karl HÄRTER 43 Lessico del perdono nel diritto romano, di Giuliano CRIFÒ 71 Legislazione, scienza giuridica e pratica del «perdono» tra Otto- e Novecento: continuità e mutamenti, di Monica STRONATI 101 PARTE SECONDA: GIUSTIZIA E GRAZIA SOVRANA Rituali della grazia a Trento nel 1477, di Diego QUAGLIONI 127 La grazia del re di Francia alla fine del medioevo, di Claude GAUVARD 147 5 Lettere di intercessione imperiale presso il Consiglio p. 175 aulico, di Eva ORTLIEB Grazia individuale e amnistia nella giurisdizione penale della prima età moderna, di Andrea GRIESEBNER 205 La grazia come strumento di assicurazione della sussistenza. Il fenomeno delle suppliche di terzi non coinvolti (Principato Elettorale di Sassonia, secoli XVIXVII), di Ulrike LUDWIG 237 La giustizia criminale a Bologna: reati, condanne e grazie, di Cesarina CASANOVA 261 Una lunga lotta per la giustizia? Rivolta e pacificazione dopo i tumulti nel Salzkammergut del 1601-1602, di Martin SCHEUTZ 295 Giustizia, politica e clemenza. La grazia nella Germania del XIX secolo, di Sylvia KESPER-BIERMANN 323 TERZA: LA GRAZIA E IL PERDONO DIVINO IN ETÀ MODERNA PARTE Grazia divina e giustizia commutativa: un confronto tra Bañez e Lessius, di Wim DECOCK 361 Restituire, condonare. Lessico giuridico, confessione e pratiche sociali nella prima età moderna, di Vincenzo LAVENIA 389 La grazia e il perdono nei Rituali francesi, di Nicole LEMAITRE 413 Atti di sottomissione e grazia davanti al giudice ecclesiastico. I «Sendgerichte» in Westfalia (1600-1800), di Andreas HOLZEM 435 6 PARTE QUARTA: ISTITUZIONI XX SECOLO DELLA CLEMENZA NEL Il volto della nazione nelle amnistie politiche del Novep. 463 cento, di Floriana COLAO Giustizia e ragion di Stato. La punizione dei criminali di guerra tedeschi in Italia, di Filippo FOCARDI 489 Povero piccolo Belgio? Processi a criminali di guerra tedeschi in Belgio, 1944-1951, di Pieter LAGROU 543 Perdono e clemenza di Stato nella giustizia penale italiana, di Guido NEPPI MODONA 575 Lo scandalo della grazia nell’orizzonte contemporaneo. Riflessioni a margine, di Giorgia ALESSI 591 Conclusioni, di Luigi LACCHÈ 605 7 Povero piccolo Belgio? Processi a criminali di guerra tedeschi in Belgio, 1944-1951 di Pieter Lagrou 1. Accusati e condannati Nell’ottobre del 1945 Walter Ganshof van der Meersch, auditeur général (procuratore generale) del tribunale militare belga, scrisse in una delle sue illuminanti relazioni trimestrali quanto segue: «Secondo le previsioni – inevitabilmente approssimative – il numero complessivo di individui condannati a morte per crimini contro la sicurezza dello Stato la cui sentenza verrà eseguita oscillerà tra i 2000 e i 2500. Questo numero non è relativamente alto se si tengono in debito conto i seguenti elementi: 1. Il numero dei prigionieri politici morti durante la deportazione è all’incirca di 38.000 belgi, 28.000 dei quali ebrei belgi. 2. A Breendonk1 sono stati uccisi 750 patrioti e 120 corpi sono stati dissotterrati al Poligono Nazionale di tiro. 3. Le vittime dei bombardamenti e delle V.I nel 1943, 1944 e 1945 assommano a 19.750 (delle quali 1616 nel 1943, 13.066 nel 1944 e 4888 nel 1945). 4. Più di 8000 civili belgi sono morti in Belgio e in Francia nel 1940. 5. Nel 1940 sono stati uccisi dal nemico da 7500 a 8000 soldati belgi»2. Traduzione di Anna Zangarini Il presente saggio è già apparso in lingua tedesca: Eine Frage der moralischen Überlegenheit? Die Ahndung deutscher Kriegsverbrechen in Belgien, in N. FREI (ed), Transnationale Vergangenheitspolitik. Der Umgang mit deutschen Kriegsverbrechern in Europa nach dem Zweiten Weltkrieg (Beiträge zur Geschichte des 20. Jahrhunderts, 4), Göttingen 2006, pp. 326-350. 1 La fortezza di Breendonk, ad Anversa, fu usata dai nazisti come campo di concentramento e lavoro dal 1940 al 1944; vi furono internate circa 3.500 persone [n.d.t.]. 2 Centre d’Etudes et de Documentation Guerre et Sociétés contemporaines, Bruxelles (d’ora in poi CEGES), Rapport Justice Militaire du 1 juin au 1 octo- 543 Le relazioni trimestrali erano destinate al ministro della Giustizia; erano documenti ufficiali di politica nei quali il presidente del tribunale militare si dilungava a spiegare, giustificare e difendere la propria linea d’azione. L’annuncio, nell’ottobre del 1945 – ben oltre, quindi, i momenti caldi della liberazione nel settembre del 1944 e della liberazione e rimpatrio nel maggio del 1945 – dell’intenzione ufficiale di mettere a morte tra i 2.000 e i 2.500 individui può apparire sconvolgente. Non solo rappresenta dieci volte il numero delle esecuzioni che vennero effettivamente eseguite nei cinque anni seguenti (242), ma questa dichiarazione d’intenti è contenuta in una relazione il cui tono generale è di moderazione e di regolamento di un processo di epurazione che era sembrato fuori controllo nel corso della primavera e all’inizio dell’estate del 1945. Ganshof van der Meersch si compiace del fatto che, un anno dopo la liberazione e appena cinque mesi dopo la fine della guerra, per 120.000 casi su 400.000 sia stato disposto il non luogo a procedere («ordonnances de non-lieu ou décision de sans suite») e che la situazione di carcerazione irregolare di sospetti sia stata complessivamente ricondotta entro limiti accettabili (meno di 15.000 individui erano ancora «mis à la disposition de M. le Ministre de la Justice», ovvero sottoposti a regime carcerario senza incriminazione formale, a fronte dei quasi 25.000 di tre mesi prima, mentre il numero dei detenuti in attesa di processo era sceso a 23.500). Ancora più interessante è l’esplicita motivazione di questa linea di condotta contenuta nel documento, e la gerarchia che esso stabilisce per i crimini per i quali è richiesta la condanna alla pena capitale. Al primo posto figura la morte a seguito di deportazione, con chiara menzione del fatto che aveva riguardato per la maggior parte «israélites belges» (in effetti, quasi esclusivamente persone residenti in Belgio ma di nazionalità straniera), seguita da membri della Resistenza giustiziati nel Paese, dalle vittime dei bombardamenti (di cui 9.000, di cui non si faceva menzione, o almeno la metà, erano state vittime bre 1945, Auditorat Général. Notes générales concernant l’activité de la justice militaire, 1945-1947, 8 rapporti, AA326. 544 di bombardamenti alleati) e vittime, sia militari che civili, dell’invasione del maggio 1940. L’imputazione complessiva che giustificava il fatto che questa volta le condanne a morte andavano eseguite, ed eseguite in gran numero, nonostante il fatto che dal 1863 in Belgio le sentenze di condanna a morte fossero state abitualmente convertite in condanne al carcere a vita, era un’accusa all’aggressione tedesca e alla persecuzione tedesca. La collaborazione di cittadini belgi a questa aggressione e a questa politica criminale non viene menzionata in questo estratto, e si potrebbe ragionevolmente pensare che la maggior parte delle condanne a morte avrebbero riguardato i condannati tedeschi. Alla fine, tra il novembre del 1944 e l’agosto del 1950 sarebbero state eseguite 242 condanne a morte. Il numero totale delle condanne a morte che vennero emanate, 2.940, superò persino le previsioni di Ganshof van der Meersch dell’ottobre del 1945. Il numero 242 era simbolicamente collegato al numero di ostaggi fatti giustiziare da Alexander von Falkenhausen, capo della Militärverwaltung tedesca in Belgio: ancora una volta, un quadro di riferimento interamente tedesco. Eppure, due soli dei 242 condannati a morte erano cittadini tedeschi: Philip Schmidt, comandante del campo di internamento di Breendonk, che fu l’ultimo ad essere giustiziato, nell’agosto del 1950, e Walter Obler, prigioniero tedesco ebreo e Kapo particolarmente brutale del suo «Block» a Breendonk, nell’aprile del 1947. Von Falkenhausen stesso venne rilasciato tre settimane dopo la conclusione del suo processo, nel marzo del 1951; dopo un’accanita discussione legale sullo status di ostaggio alla luce del diritto internazionale, la corte aveva riconosciuto la legittimità di parte almeno delle decisioni del generale. Le condanne a morte eseguite non vanno considerate un’eccezione, se si considera il quadro generale delle indagini, dei processi e delle sentenze. Meno dell’uno per cento dei casi oggetto delle indagini del potere giudiziario militare in relazione a reati commessi durante la Seconda guerra mondiale in Belgio riguardavano cittadini tedeschi. Le autorità belghe, e più in particolare la Commissione per i crimini di guerra, comunicarono alla Commissione per i crimini di guerra delle 545 Nazioni Unite i nomi e i dati di 4.436 individui (2.481 accusati, 1.193 sospetti e 762 testimoni)3; di questi, la giustizia militare esaminò 3.455 casi4. Entro il marzo del 1948, quando le autorità alleate posero fine a tutte le estradizioni, 523 individui erano stati trasferiti in Belgio e detenuti almeno per brevi periodi5. Tra questi, solo 314 individui erano stati estradati come sospetti; gli altri 219 dovevano apparire in vesti di testimoni6. Come vedremo meglio più avanti, nel corso del progetto di ricerca tuttora in corso – sul quale è basato questo articolo – abbiamo finora identificato 103 individui che vennero effettivamente processati, per un totale di 37 casi (quello che vide il più alto numero di imputati riguardò 21 persone)7. Alla fine del 1951 le carceri belghe ospitavano solamente undici detenuti tedeschi. 2. Recidivi Le vicende che ripercorriamo in questo contributo riguardano i processi a carico dei criminali di guerra tedeschi in Belgio dopo il 1944; ma il precedente – cioè i tentativi messi in atto dopo il 1918 di portare in giudizio i criminali di guerra tedeschi – non fu fortunato. Come hanno brillantemente dimostrato Alan Kramer e John Horne, le «atrocità tedesche» e i loro strascichi giocarono un ruolo di primissimo piano nella percezione del destino del Belgio durante la prima guerra mondiale, sia nel 3 Rapport sur l’activité de la Commission d’Enquête sur les violations des règles du droit des gens, des lois et coutumes de la guerre instituée par l’arrêté du Régent en date du 21 décembre 1944, Brussels 1948, pp. 14-16. 4 J. GILISSEN, Étude statistique de la répression de l’incivisme, in «Revue de Droit Pénal et de Criminologie», 31, 1951, 5, pp. 513-628. 5 Rapport sur l’activité, cit. 6 Ibidem. 7 La ricerca collettiva è stata condotta nel corso del seminario del terzo e quarto anno dagli studenti di Storia contemporanea dell’Université Libre de Bruxelles nel 2003-2005. Una precedente versione di questo contributo è apparsa in tedesco: Eine Frage der moralischen Überlegenheit? Die Ahndung deutscher Kriegsverbrechen in Belgien, in N. FREI (ed), Transnationale Vergangenheitspolitik. Der Umgang mit deutschen Kriegsverbrechern in Europa nach dem Zweiten Weltkrieg, Göttingen 2006, pp. 326-350. 546 paese che all’estero8. Tuttavia, la mole e la precisione dei vari rapporti pubblicati dalla Commission d’Enquête durante e dopo la guerra contrastano nettamente con i tentativi totalmente falliti di mettere in atto le raccomandazioni espresse in questi documenti, cioè di arrestare, giudicare e punire i colpevoli. Parte di questa vicenda è ben nota. Le autorità belghe in primo luogo stilarono una lista di 1.132 persone accusate di crimini di guerra, di cui si voleva ottenere l’estradizione per organizzarne il processo in Belgio. A seguito di ripetute pressioni degli alleati, questa lista venne ridotta inizialmente a 1.058, poi a 632 e infine a 334 nomi, ma, di fronte all’aperta ostilità dei tedeschi sconfitti, gli alleati rinunciarono a inviare in Germania commissioni rogatorie e commissioni che eseguissero i mandati d’arresto9. Entro il febbraio del 1920 gli alleati avevano comunque rinunciato a ogni proposito di ottenere l’estradizione, e avevano accettato il principio che sarebbero state le stesse autorità tedesche a giudicare, all’Alta Corte di Lipsia, i casi sottoposti alla loro attenzione dalle potenze straniere. Le autorità belghe presentarono in prima istanza quindici casi, in relazione a crimini commessi durante l’invasione a Aerschot e Andenne, ad atrocità messe in atto nei confronti di bambini durante l’occupazione e a maltrattamento di prigionieri. Il procuratore generale tedesco mandò cinque commissioni rogatorie in Belgio, ma solo per respingere le accuse, provocando così il solidale e indignato ritiro del Belgio e della Francia dai procedimenti giudiziari a Lipsia. Meno noti sono i processi effettivamente istruiti dal potere giudiziario belga. In mancanza di un’approfondita ricerca storica su questo argomento, i dati di cui disponiamo, ancorché non organici, offrono comunque un certo numero di informazioni. Quattordici individui vennero arrestati in Germania e processati in Belgio per crimini commessi in Belgio durante l’occupazione, 8 A. KRAMER - J.N. HORNE, German Atrocities 1914. A History of Denial, New Haven CT - London 2001. 9 Ibidem, pp. 326-355 e J. WOLF, La question des ‘Crimes de Guerre’ en Belgique, in «Journal des Tribunaux», 3 novembre 1946, n. 3700. 547 in particolare nelle zone di occupazione francese e belga10. Accusati di reati comuni come furto, incendio doloso e assassinio, vennero rinviati alla giustizia ordinaria e, in particolare, per i casi di omicidio, alla Corte d’assise. Il trattato di Versailles cambiò radicalmente la situazione. In luogo dell’amnistia solitamente disposta da un trattato di pace, il trattato di Versailles contiene vari articoli che stabiliscono la responsabilità della Germania per il conflitto: tra questi, in particolare, gli articoli 228-230 affermano il principio dell’estradizione dell’accusato affinché venga giudicato da tribunali militari nazionali. Come risultato, in primo luogo, l’arresto dei sospetti di nazionalità tedesca da parte delle autorità alleate, anziché una formale richiesta di estradizione alle autorità tedesche, divenne illegale non appena i Paesi che operavano gli arresti sottoscrissero il trattato; in secondo luogo, le giurisdizioni ordinarie non erano più legalmente competenti a giudicare gli accusati, dato che il trattato attribuiva l’esclusiva competenza ai tribunali militari. Tuttavia, il codice penale militare belga del 1890 non estende la competenza legale della giustizia militare al giudizio di cittadini stranieri, e nonostante una proposta di riforma legale del codice da parte del futuro presidente della Corte Suprema belga, il visconte van Iseghem, il legislatore belga non agì secondo le sue raccomandazioni. Dopo il rifiuto tedesco di estradare i sospetti, la questione appariva puramente accademica. Tuttavia, se il parlamento avesse riformato il codice al fine di definire i crimini di guerra e ampliare la competenza legale della giustizia militare, si sarebbe evitato il problema cruciale della legislazione retroattiva, problema che il legislatore belga si trovò a fronteggiare nel 1945. Nel frattempo, tuttavia, solo i procedimenti che avevano avuto inizio prima della ratifica da parte delle giurisdizioni ordinarie potevano essere portati in tribunale. Faute de mieux: in mancanza di meglio il Belgio si impegnò allora in una serie di processi in absentia, che nel 1937, sul totale dei 333 casi che comparivano sulla lista finale belga, ebbero come esito 22 assoluzioni, 28 condanne a morte e due sentenze di lavori forzati 10 Ibidem, p. 3. 548 a vita11; quasi tutti i casi erano in relazione a crimini e reati commessi nel 1914. Le sentenze e la lista dei sospetti, che le autorità belghe non annullarono nonostante le ripetute proteste tedesche, costituivano soprattutto una seccatura diplomatica e una base legale per rifiutare il visto alle persone coinvolte. Altri casi di minor conto continuarono a creare controversie legali e diplomatiche, in particolare il caso dell’estradizione illegale dagli Stati Uniti al Belgio del cittadino tedesco Hermann, accusato di furto, il caso di Walther Dryver, accusato dell’omicidio di un soldato inglese a Ville-sur-Hanaine nel 1918 e estradato in Inghilterra, o il caso di cittadini tedeschi dell’Alsazia-Lorena arrestati per omicidio dalle autorità belghe ed estradati in Francia in applicazione del trattato di Versailles, che di fatto cambiò la nazionalità dei sospetti. In breve, a fronte del clamore suscitato dalle commissioni d’inchiesta, dalla pubblicità e dalle accese controversie sui crimini di guerra tedeschi commessi durante la prima guerra mondiale, i successivi procedimenti giudiziari provocarono un forte senso di frustrazione. Paradossalmente, il trattato di Versailles, mentre stabiliva formalmente la colpevolezza della Germania, aveva impedito alle giurisdizioni nazionali di processare i cittadini tedeschi responsabili di azioni criminali. Ma il biasimo non poteva ricadere esclusivamente sul quadro internazionale postbellico: nonostante consistenti contributi dei giuristi belgi su tematiche riguardanti il diritto internazionale e la prevenzione dei crimini di guerra, pubblicati per esempio nella «Revue de Droit Pénal et de Criminologie» e nel «Journal des Tribunaux», e nonostante le concrete proposte di una nuova legislazione che avrebbe preparato il sistema giudiziario nazionale a un futuro conflitto, non venne intrapresa alcuna azione. Di fronte alla necessità di giudicare i crimini di guerra e di portare i responsabili davanti a un tribunale, il paese non disponeva, al momento della seconda invasione tedesca nel maggio del 1940, di strumenti migliori di quelli che possedeva un quarto di secolo prima. 11 Ibidem. 549 3. Tardive ambizioni legislative Tra i più discussi provvedimenti legislativi emanati dal governo belga in esilio a Londra vi sono un certo numero di «arrêtéslois», leggi entrate in vigore o poteri legislativi speciali conferiti al governo in tempo di guerra, e la revisione delle categorie legali dei reati, delle procedure e delle sanzioni che riguardavano il tradimento. Definizioni più ampie, procedure più snelle e pene più severe miravano sia ad avere un effetto dissuasivo che a permettere un efficace e completo giudizio di crimini e reati perpetrati in misura tale da minacciare la coesione del Paese e la ricostruzione dello stato di diritto. Il punto critico, derivante dalla situazione bellica, era costituito dal fatto che i civili accusati di tradimento, di aver costituito «una minaccia alla sicurezza dello Stato», dovevano essere deferiti esclusivamente ai tribunali militari e rischiavano la pena di morte. Nonostante il governo belga figurasse tra i firmatari dell’accordo di St. James del giugno 1941, nel quale le nazioni alleate affermavano solennemente il loro impegno a portare gli autori di crimini nazisti davanti alla giustizia, e partecipasse poi alla Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra, facendo parte delle sottocommissioni tecniche che esaminavano tematiche come la legislazione, l’estradizione e l’arresto, non fu presa alcuna iniziativa legislativa complessiva che avrebbe aggiornato l’apparato legale per quanto riguardava i crimini di guerra in analogia con quanto previsto per il reato di tradimento («incivisme», o collaborazionismo) da parte di cittadini belgi. Era evidente che all’individuazione e punizione dei complici veniva data una priorità molto più alta di quella riservata a coloro sui quali ricadevano le maggiori responsabilità per i crimini commessi. Un decreto legge esecutivo del 3 agosto 1943 estendeva alle giurisdizioni belghe la competenza per reati commessi all’estero contro cittadini belgi, senza tuttavia risolvere il problema centrale di quale giurisdizione sarebbe stata competente, né su quali basi lo sarebbe stata, se sulla base del codice penale nazionale, del codice penale militare o del diritto internazionale. 550 Nel dicembre 1944 – ovvero tre mesi dopo la liberazione del paese – il governo creò una Commission d’Enquête sur la violation des règles du droit des gens et des lois et coutumes de la guerre (Commissione d’inchiesta sulla violazione delle norme del diritto internazionale e delle leggi e consuetudini di guerra). Indipendentemente dall’entità delle atrocità commesse e dal numero delle vittime, l’urgenza politica sembrava molto meno pressante di quanto non lo fosse stata sulla scia dell’agosto del 1914. Il coinvolgimento e la presenza del Belgio al tribunale militare internazionale di Norimberga furono di scarsa consistenza; il paese era rappresentato dalla Francia, e a differenza dell’Olanda, le cui vicende sotto l’occupazione tedesca ebbero un ruolo di primo piano nel processo, con riguardo a Arthur Seyss-Inquart, nessuno dei 24 accusati, o dei 21 che effettivamente affrontarono il processo, erano stati direttamente coinvolti nell’occupazione del Belgio. La commissione d’inchiesta si trovò a fronteggiare un duplice compito: da un lato informare l’opinione pubblica nazionale e internazionale dei crimini commessi dalle truppe germaniche in Belgio durante l’occupazione, dall’altro raccogliere elementi probatori, identificare i responsabili e preparare i procedimenti giudiziari. La prima parte di questo impegno portò alla pubblicazione di una serie di relazioni – alcune delle quali tradotte anche in inglese – uscite per la maggior parte nel 1947 e nel 1948, concernenti reati commessi durante l’invasione, la liberazione e l’offensiva delle Ardenne, ma riguardanti anche le persecuzioni antisemite, l’esecuzione di ostaggi e la deportazione di lavoratori. Guidata da Antoine Delfosse, ex ministro della Giustizia nel governo a Londra, la commissione portò a termine una considerevole mole di investigazioni. Tuttavia, i risultati della sua attività sembrano aver goduto di minor attenzione pubblica e internazionale, e anche di un più tiepido coinvolgimento delle autorità locali e religiose, rispetto a quanto era avvenuto dopo il 1914. E per quanto il confronto richieda un’analisi più approfondita, sembra anche che la raccolta delle prove non abbia raggiunto il livello di completezza documentaria riscontrato nella precedente vicenda. 551 In parte, la spiegazione va cercata nel violento impatto delle rivelazioni – nella primavera del 1945 – dei crimini commessi in Germania e nella Polonia occupata, che, sottoposti a giudizio sia dal tribunale militare internazionale di Norimberga che dai tribunali militari nazionali delle più importanti forze di occupazione della Germania, misero fortemente in ombra i «crimini minori» commessi in Belgio. Per quanto molti dei crimini documentati fossero perfettamente paragonabili con quelli commessi nel corso della prima guerra mondiale – Vinkt e Meigem, per esempio, o Fôret-Trooz, o Bande12, mentre altri avevano caratteristiche assolutamente nuove ed erano avvenuti su scala incommensurabilmente maggiore, a cominciare dalla deportazione e dall’assassinio di 38.000 persone citata da Ganshof –, le atrocità commesse in Belgio erano scivolate dalla posizione di primo piano che avevano avuto presso l’opinione pubblica mondiale dopo il 1914 a un mero elemento di contorno dopo il 1945, a un caso abbastanza insignificante in una lunga lista di paesi martirizzati. Anche l’emergere di una giustizia internazionale mise il potere giudiziario belga in una posizione difficile: doveva dar prova di decoro ed efficienza su un palcoscenico affollato, dimostrare che le proprie norme e procedure erano all’altezza degli standard internazionali. Il confronto tra le prime stesure delle relazioni conservate negli archivi e le versioni poi pubblicate suggerisce un mutamento di tono: le incriminazioni dirette e ad personam vennero eliminate, e l’originario tono vendicativo, come pure le esplicite richieste di condanna degli attori, assunsero accenti significativamente più sommessi, e questo per varie ragioni. In primo luogo, le indagini sui crimini di guerra erano condotte su tre binari diversi: la commissione, che non aveva alcuna competenza giudiziaria formale, la Sûreté de l’État, o servizi segreti, e la giustizia militare (Auditorat Général). È del tutto ragionevole 12 Nel maggio 1940 a Vinkt vennero uccisi da soldati tedeschi almeno 86 civili (l’episodio è noto in Belgio come ‘massacro di Vinkt’) e nel vicino villaggio di Meigem 27 persone, rinchiuse dai tedeschi nella chiesa, vennero uccise da un’esplosione; a Fôret-Trooz, nel settembre del 1944, le vittime furono 64 membri della Resistenza e a Bande, il 24 dicembre1944, 34 civili furono uccisi da soldati tedeschi o collaborazionisti [n.d.t.]. 552 che la commissione separasse il proprio ruolo di informazione storica ed educativa dal proprio ruolo nella preparazione del processo giudiziario, e che non volesse interferire con i futuri procedimenti penali. Una seconda ragione pertiene al clima internazionale, che andava rapidamente mutando. Entro il marzo del 1948 gli alleati occidentali, e in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, avevano pubblicamente annunciato la sospensione di tutte le estradizioni di cittadini tedeschi che avrebbero dovuto subire un processo nei Paesi precedentemente occupati: una decisione motivata dal disagio anglo-americano di fronte alla prospettiva di estradare cittadini tedeschi perché fossero processati nei paesi del blocco sovietico, dove i partiti comunisti avevano preso saldamente in mano il potere giudiziario. Ma la questione toccava nella stessa misura i Paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’Europa orientale. Il programma alleato di processi ai criminali di guerra era sempre più criticato dai politici come incompatibile con gli interessi strategici dell’Occidente, e vennero esercitate pressioni per mitigare le sentenze e sospendere la preparazione di nuove incriminazioni. A meno di tre anni dalla fine della guerra, la Guerra Fredda proiettava la sua ombra sulla Vergangenheitsbewältigung e stabiliva nuove priorità, in particolare per quanto riguardava l’esercito tedesco. Quando la commissione ridusse le proprie pretese di portare i responsabili tedeschi di fronte alla giustizia, questo avvenne perché, già all’inizio del 1948, si sapeva benissimo che c’erano ben poche possibilità di attuazione concreta, a parte le poche centinaia di cittadini tedeschi – quelli detenuti nel carcere di St. Gilles – che erano già nelle mani dei belgi. La terza ragione ci riporta alla questione, irrisolta, di quale legislazione fosse idonea a giudicare i tedeschi accusati di crimini di guerra. Si potrebbe sostenere che questa volta il potere giudiziario belga non era ostacolato dalle speciose disposizioni del trattato di Versailles e che avrebbe benissimo potuto portare a termine l’originario progetto del 1918, di giudicare gli accusati tedeschi davanti a giurisdizioni ordinarie; ma l’opinione generale che questa opzione fosse impraticabile fu quasi immediata. I processi in Court d’Assises erano estremamente impegnativi, 553 e valevano in questo caso le stesse ragioni per le quali per i casi di tradimento da parte di cittadini belgi si chiedeva l’esclusiva attribuzione di competenza ai tribunali militari: un’imponente operazione una tantum, che richiedeva una giustizia rapida esperita attraverso un’operazione centralizzata. Il legislatore belga avrebbe offerto ai criminali tedeschi quelle stesse garanzie procedurali che negava ai suoi compatrioti? Le ragioni in favore di una ‘militarizzazione’ dei procedimenti contro i criminali tedeschi erano ancora più fondate di quanto lo fossero per i loro corrispettivi belgi: mentre questi ultimi erano quasi esclusivamente civili, i primi appartenevano per lo più al personale militare. Soltanto una corte militare poteva affrontare la particolarissima sfida di determinare le responsabilità individuali all’interno di un’organizzazione basata sulla disciplina e sull’esecuzione incondizionata degli ordini superiori. L’irrisolta situazione legale dei criminali di guerra tedeschi portò a situazioni paradossali, come nel processo riguardante il campo di tortura di Breendonk: il personale civile belga del campo fu processato nel 1946 da un tribunale militare, mentre il comandante militare tedesco del campo, Schmitt, poté solo essere giudicato da una giurisdizione civile. E comportò anche pressanti problemi di ordine pratico: fintanto che la questione della competenza legale rimaneva irrisolta, i sospetti tedeschi estradati non potevano essere incriminati formalmente. La loro detenzione e la loro estradizione erano quindi irregolari; erano, secondo la dizione allora in uso, «a disposizione del Ministro della Giustizia»: un fatto che gli avvocati della difesa e i gruppi di sostegno non mancarono di pubblicizzare, insieme alle autorità alleate che avevano la responsabilità legale delle estradizioni. La legge del giugno 1947 aveva lo scopo di risolvere questi problemi, e venne anche presentata come un capolavoro di abilità giuridica, che stabiliva nuovi standard internazionali e costituiva una fonte di legittimo orgoglio per il Belgio. Non era soltanto di gran lunga superiore alle norme arbitrarie e illegali del regime che intendeva mettere sotto processo: era anche giuridicamente molto più solida delle sbrigative soluzioni della legge francese, promulgate ad Algeri nell’agosto del 1944 554 e basate esclusivamente sull’ordinamento penale e militare interno francese, e apparve come il modello della legislazione adottata qualche mese più tardi dall’Olanda e dal Lussemburgo. Il legislatore belga affermava insistentemente che la nuova legge riguardava esclusivamente gli elementi procedurali e giurisdizionali, stabilendo semplicemente la competenza legale dei tribunali e organizzando i processi in applicazione delle leggi vigenti. L’assenza di una legislazione retroattiva era motivo di orgoglio giuridico e di rigoroso rispetto dei sacri principi dello Stato di diritto. L’innovazione fondamentale della legge era il principio della doppia incriminazione: per essere considerato crimine di guerra, un reato doveva configurarsi sia come violazione del codice penale belga che come violazione delle leggi internazionali e delle norme e regole della condotta di guerra. La competenza legale era attribuita ai tribunali militari regolari, con le stesse procedure e la stessa composizione dei tribunali che avrebbero giudicato i cittadini belgi accusati di tradimento. In confronto alle proposte formulate precedentemente dal ministro della Giustizia e a una proposta che non aveva avuto seguito del 1945, i diritti degli accusati risultarono singolarmente rafforzati dai membri delle commissioni parlamentari. Il diritto d’appello, soppresso dal ministro, venne reintrodotto, e venne riaffermato il diritto ad avere un avvocato difensore. Diversamente che in Olanda, dove gli accusati potevano essere assistiti solamente da avvocati olandesi, i criminali di guerra tedeschi potevano ricorrere sia ad avvocati tedeschi che ad avvocati belgi. L’organizzazione pratica del ricorso ad avvocati difensori tedeschi creò inizialmente un grave ostacolo, costringendo a rinviare il primo e altamente simbolico processo sui crimini di guerra contro la popolazione civile di Stavelot13. Le autorità belghe avevano inizialmente formulato alle autorità di occu13 Il 18 dicembre 1944, a Stavelot, 130 civili (67 uomini, 47 donne e 23 bambini), accusati di aver offerto protezione a soldati americani, vennero giustiziati da un’unità delle SS [n.d.t.]. Cfr. F. DUSSART, Les conditions de détention des témoins et suspects allemands détenus pour crimes de guerre en Belgique de 1945 à 1952, research paper, Université Libre de Bruxelles, 2005. 555 pazione americane in Germania la richiesta di stilare una lista di avvocati tedeschi disposti a recarsi in Belgio per difendere i loro compatrioti. Le autorità americane, sulla base delle proprie esperienze precedenti, avevano tentato fermamente di dissuadere il governo belga dall’appellarsi ad avvocati tedeschi, e avevano rifiutato ogni partecipazione alle spese di viaggio e ogni tipo di assistenza logistica all’operazione; solo in seconda istanza il ministero della giustizia belga avrebbe trovato presso le autorità britanniche la disponibilità a stilare una lista di avvocati residenti nella loro zona di occupazione e a concordare le modalità del viaggio con l’esercito belga di stanza nella zona britannica; per garantirne l’incolumità, gli avvocati sarebbero stati ospitati nelle locali caserme della Gendarmerie. Infine, nel novembre del 1948 il Landesministerium per la Giustizia del Rheinland-Westfalen acconsentì a finanziare le spese e gli oneri degli avvocati tedeschi che difendevano i compatrioti processati in Belgio per crimini di guerra. Alla fine, il Ministero della Giustizia calcolò che il ricorso ad avvocati tedeschi si era rivelato molto meno oneroso di altre alternative, cioè del reclutamento di traduttori a spese dei contribuenti belgi. Questa legge rappresentò per i tribunali militari un’ardua sfida. L’apparato della giustizia militare era stato più che decuplicato: da 4 sezioni prima del 1940 a 134 nel 1947, e da poche dozzine di magistrati inquirenti a più di 600. Questa forza lavoro giovane e priva di esperienza si trovava a fronteggiare continuamente innovazioni legali e giudiziarie, poiché la maggior parte delle imputazioni non avevano precedenti, o risultavano sostanzialmente modificate dagli emendamenti introdotti nel periodo della guerra. In assenza di una giurisprudenza alla quale far riferimento, i servizi centrali della giustizia militare, l’Auditorat Général, producevano serie complete di istruzioni pratiche, circolari, statistiche: una sorta di pacchetti fai-date, un «prêt-à-juger» per i magistrati di Ypres, o di Tournai, località dove mai prima di allora era stata esercitata la giustizia militare. Questi «pacchetti» specificavano quali articoli di legge corrispondevano a quali reati e quali sentenze erano congrue, per esempio, per i volontari delle SS, per le infermiere militari nella Croce Rossa tedesca, per i delatori e via dicendo. 556 In questo contesto, il compito di determinare la colpevolezza alla luce del diritto nazionale e internazionale, di fronte ad avvocati tedeschi estremamente agguerriti e con forti pressioni dall’alto perché venissero rispettati gli standard internazionali di giustizia, diventava pressoché impraticabile. I problemi legali erano molteplici. La prima difficoltà era quella di individuare un corpus di convenzioni e giurisprudenza internazionali che permettesse di stabilire che gli atti commessi rientravano tra le violazioni di norme generalmente accettate. Gli archivi dell’Auditorat Général mostrano, attraverso l’abbondanza della giurisprudenza internazionale raccolta e analizzata, che questo compito era stato affrontato molto seriamente. In questo lavoro di analisi legale senza precedenti è possibile vedere le premesse all’emergere di una giustizia internazionale, mentre il riferimento alla giurisprudenza straniera, si tratti del Tribunale Militare internazionale di Norimberga, delle conseguenti corti militari nazionali alleate, dei tribunali olandesi, italiani o lussemburghesi, diventa il quadro centrale, all’interno del quale tracciare le linee di condotta dei giudici nazionali. Lungi da un trionfante e vendicativo discorso legale, il tono è difensivo e persino, talvolta, esitante. I criteri esposti nella legge erano estremamente ambiziosi dal punto di vista intellettuale, il compito completamente senza precedenti e lo staff del pubblico ministero inizialmente non sufficientemente attrezzato per affrontarlo. Alcuni dei problemi centrali riguardavano il diritto internazionale, che non era – e tuttora non è – un corpus coerente, consensuale ed esaustivo. Alcuni dei crimini di maggior rilievo non erano codificati come violazioni del diritto internazionale, in particolare la tortura, che sarebbe stata menzionata solo nella Convenzione di Ginevra del 1949. Inoltre, le pene previste nel codice penale nazionale sembravano assolutamente inadeguate nei casi di tortura sistematica praticata dagli agenti delle SS, dato che la pena massima per «coups et blessures» (percosse e lesioni, artt. 398-400 del codice penale) poteva solo, in mancanza di lesioni permanenti, essere raddoppiata in caso di reiterazione, e la condanna a morte poteva essere comminata solo nei casi in cui le torture avessero causato il 557 decesso della vittima: la pena prevista per la tortura, in breve, non era sostanzialmente diversa da quella prevista per una rissa in un bar. La fucilazione di ostaggi fu un altro caso cruciale. Il Tribunale militare americano paradossalmente riaffermò la legittimità di questa pratica nel cosiddetto «Caso degli ostaggi». Il comando della Wehrmacht nei Balcani, non fu condannato per l’esecuzione di per sé, ma perché fu giudicata sproporzionata la natura delle rappresaglie e non provata la «responsabilità solidale» tra gli autori di «attacchi terroristici» e le vittime delle azioni di rappresaglia. Nel caso delle Fosse Ardeatine la giustizia italiana pervenne a una conclusione analoga. La «moderazione» di Alexander von Falkenhausen nella scelta e nel numero degli ostaggi apparve, per contrasto, meritevole di rispetto. Un’ulteriore complicazione fu il ricorso da parte degli avvocati difensori al concetto di «ordine del superiore», molto più esteso nel diritto e nella giurisprudenza belgi di quanto non lo fosse, per esempio, nello statuto di Norimberga. Solamente nel caso di «flagranti violazioni» un ufficiale, un sottufficiale o un soldato potevano essere ritenuti responsabili dell’esecuzione di un ordine, cioè quando l’ordine, al di là di ogni possibile dubbio, costituiva una trasgressione delle norme elementari del diritto internazionale e dell’elementare senso di umanità. In poche parole, la difesa poteva contare sull’arsenale pressoché illimitato sia del diritto belga che del diritto internazionale, sfruttando in particolare le incompatibilità esistenti tra i due sistemi. Le Corti d’appello e la Corte Suprema spesso annullavano le sentenze, in particolare invalidando il ricorso all’articolo 118bis. Questo articolo, che definiva il «tradimento» e l’«intelligenza col nemico», era una categoria onnicomprensiva alla quale si faceva quasi sistematicamente ricorso come base legale per configurare come reato un’ampia gamma di atti commessi da cittadini belgi, e sarebbe dovuta servire come espediente legale anche in molti casi di crimini di guerra. Tuttavia, il «tradimento» vi è definito come «rottura del dovere di lealtà verso lo Stato» e nessuno avrebbe potuto pretendere da un suddito del nemico dimostrazioni di lealtà nei confronti dello 558 Stato belga14. L’argomentazione giuridica grazie alla quale Raoul Hayoit de Termicourt, primo avvocato generale, invalidò, nel luglio del 1949, l’applicazione di questo articolo nei riguardi di cittadini di nazioni nemiche venne poi citato come un caso esemplare, e mise in luce la giustizia belga agli occhi della giurisprudenza internazionale15. Di conseguenza, solo i cittadini stranieri che fossero stati residenti in Belgio prima del maggio del 1940 potevano essere incriminati in base all’articolo 118bis, in forza della considerazione che, in quanto residenti, avevano contratto un obbligo di fedeltà. 4. Il procedimento giudiziario Come già si è detto, il Belgio ottenne l’estradizione di 513 cittadini tedeschi – come sospetti (314) o come testimoni (219) – per sottoporli a processo per crimini di guerra. I primi detenuti vennero consegnati alle carceri belghe entro la fine del 1945, più di un anno e mezzo prima che il legislatore belga disponesse di una normativa idonea a giudicarli16. Entro l’agosto del 1946 più di un centinaio di cittadini tedeschi – erano stati una dozzina nel dicembre del 1945 – risultavano detenuti irregolarmente, non essendo stati correttamente incriminati in base a un preciso capo d’accusa; il numero più alto di detenuti in relazione a crimini di guerra fu raggiunto nel febbraio del 1948 – 390 individui –, ma decrebbe rapidamente nei mesi seguenti: meno di 300 entro aprile e meno di 200 alla fine d’agosto dello stesso anno. Nel settembre del 1949 il loro numero era sceso al di sotto delle 100 unità, per poi rimanere relativamente stabile fino agli inizi del 1951. Un anno dopo, tuttavia, erano solo undici i detenuti tedeschi nelle carceri belghe, e due erano stati giustiziati. 14 Cass. (2° Ch.), 4 luglio 1949, in «Revue de Droit Pénal et de Criminologie», 10, 1948-1949, pp. 986-1000. 15 J. VERHAEGEN, La répression des crimes de guerre en droit belge. Aléas et perspectives, in Th. VOGLER (ed), Festschrift für Hans-Heinrich Jescheck zum 70. Geburtstag, Berlin 1985, pp. 1441-1452. 16 Cfr. F. DUSSART, Les conditions de détention, cit. 559 Il numero più alto di estradizioni in Belgio venne concesso dalle autorità britanniche: 370 su un totale di poco più di 500; gli americani estradarono 92 individui, e le autorità francesi circa 5017. L’evoluzione nella presenza di detenuti tedeschi nelle carceri belghe non fu tuttavia determinato principalmente dalla rapidità dei procedimenti giudiziari. I primi detenuti estradati furono rilasciati nell’aprile del 1946, un anno prima del voto della normativa che avrebbe permesso l’organizzazione dei processi. Entro il giugno del 1947, quando fu votata la legge, 56 tedeschi estradati erano già stati rimpatriati. La giustizia belga scoprì un certo numero di errori di identificazione relativi a individui omonimi dei sospetti ma che non erano mai stati di stanza in Belgio durante l’occupazione, e, quel che più conta, l’ufficio del procuratore fu costretto ad archiviare numerosi casi per mancanza di prove, o perché la normativa non consentiva sentenze accettabili al sistema penale belga o al pubblico. Le difficoltà intrinseche del diritto belga, nel momento in cui si trattò di ricondurre crimini eccezionali commessi in tempi eccezionali nei termini del codice penale ordinario, furono un ostacolo cruciale. Per la legge belga, i periodi di carcerazione preventiva venivano conteggiati il doppio, e andavano sottratti dalla pena detentiva finale. Dato che i processi erano stati rinviati fino al voto della legge nel giugno del 1947 ed erano iniziati solo nel corso del 1948, l’ufficio del procuratore fu costretto ad archiviare tutti i casi in cui i capi d’accusa avrebbero comportato una sentenza massima inferiore ai sei anni: in questi casi, infatti, la detenzione preventiva avrebbe rappresentato più della metà della pena detentiva finale, e il detenuto avrebbe potuto intraprendere un procedimento per ottenere dallo Stato belga un risarcimento per ingiusta detenzione. La decisione della Corte Suprema di invalidare il ricorso all’art. 118bis, che prevedeva la condanna a morte per alto tradimento, privò gli accusatori di una delle uniche strategie per evitare questo dilemma. 17 Ibidem. 560 Dei 370 individui estradati dalle autorità britanniche, soltanto 39 vennero effettivamente processati in Belgio18. Dopo aver preteso per anni l’estradizione di sospetti e testimoni, le autorità belghe si trovarono quindi di fronte a un problema di segno opposto quando tentarono di accelerare il rimpatrio di sospetti i cui casi erano stati archiviati. Dal luglio del 1949 le autorità americane sospesero per quattro mesi i rimpatri dal Belgio alla loro zona di occupazione, richiedendo adeguate informazioni sui motivi del rilascio e sulla natura dei capi d’accusa che erano stati ritirati19. Il risultato fu che un certo numero di individui avevano trascorso fino a tre anni nelle carceri belghe per poi essere rilasciati senza essere mai stato nemmeno formalmente incriminati o rinviati a giudizio. Un’analisi più dettagliata dei processi organizzati in Belgio nei quattro anni tra il 1947 e il 1951 rivela quale grandissima sfida rappresentassero questi procedimenti per il potere giudiziario belga20. Nel nostro progetto di ricerca abbiamo finora individuato 34 casi giudiziari per un totale di 103 individui. In questa fase, non possiamo escludere che vi siano stati altri, minori, processi a tedeschi accusati di crimini di guerra, ma verosimilmente la scoperta di nuovi dati non modificherebbe in modo sostanziale il quadro tracciato fino ad ora. La stragrande maggioranza dei sospetti, 83, erano cittadini tedeschi; 4 erano austriaci, 3 polacchi, uno rumeno, uno lussemburghese. Quattordici tra i detenuti erano cittadini belgi accusati di crimini in stretta relazione con crimini commessi da sospetti tedeschi. L’età media dei sospetti al momento del loro processo era di 45 anni: di certo all’epoca dei fatti non erano reclute. Il primo anno in cui si tennero processi, il 1948, fu anche l’anno che vide il più alto numero di individui sottoposti a procedimento penale (37), specialmente nei processi collettivi per i massacri 18 Ibidem. 19 Ibidem. 20 Le analisi statistiche e i grafici sono tratti da Ch. BLAIRON - D. MAHILLON J.-N. LEFÈVRE, Études statistiques et de l’instruction et de la répression des criminels de guerre allemands en Belgique, research paper, Université Libre de Bruxelles, 2005. 561 di Stavelot e per la Sicherheitspolizei 21 di Charleroi. Nel corso del 1949 il numero dei processi raddoppiò, ma il numero degli imputati si ridusse della metà. Nel 1950 e 1951 vennero processati rispettivamente 25 e 12 persone, dopo di che i processi cassarono del tutto e presero avvio le liberazioni accelerate. Tab. 1. Processi per crimini di guerra 1948-951 anno processi imputati 1948 1949 1950 1951 6 12 9 4 37 17 25 12 31 91 totale Fonte: elaborazione dell’autore. La selezione preliminare dei casi (sono stati considerati solo quelli che verosimilmente avrebbero comportato condanne gravi) è evidente nelle sentenze emesse; nel nostro esempio, solo 8 degli accusati vennero prosciolti, mentre altri 7 subirono condanne di lieve entità, inferiori ai 5 anni. Nel grafico sottostante sono illustrate le pene erogate: Tab. 2. Sentenze erogate dai consigli di guerra sentenze sentenziati pena di morte ergastolo 15-25 anni 10-15 anni 5-10 anni meno di 5 anni assoluzione 21 5 16 23 11 7 8 totale 91 Fonte: elaborazione dell’autore. 21 La Sicherheitspolizei, formata dalle forze della polizia segreta e della polizia criminale, venne istituita nel 1934 e cessò formalmente di esistere nel 1939 confluendo nel Reichssicherheitshauptamt; il termine restò però correntemente in uso fino alla fine del Terzo Reich [n.d.t.]. 562 La maggioranza (61%) dei condannati dai Conseils de Guerre ricorsero in appello alla corte superiore, il tribunale militare (tra questi, un terzo su istanza dell’ufficio della Procura). Tolti dal computo i prosciolti e i condannati a pene lievi dai consigli di guerra, e immediatamente scarcerati, il rimanente rappresenta la quasi totalità dei condannati alla pena di morte e di quelli condannati a periodi di detenzione che superavano del doppio la detenzione preventiva. L’intervallo tra il processo di primo grado e l’appello era mediamente breve: entro il 1952 tutti i processi d’appello si erano conclusi. In un terzo dei casi i giudici aumentarono la pena; una ristretta minoranza di procedimenti si concluse con il proscioglimento, mentre la maggior parte degli appelli risultarono a favore degli accusati, per i quali vennero emesse sentenze più miti. Tra quanti presentarono appello contro la sentenza di primo grado, la metà circa proseguì fino alla Corte Suprema, una procedura costosa e, per gli avvocati della difesa, molto impegnativa. Solo in tre casi l’appello fu respinto e il caso rinviato al tribunale militare per un nuovo processo, ma il tasso eccezionalmente alto di ricorsi alla Corte Suprema evidenzia la misura e la determinazione degli avvocati difensori tedeschi a sostegno degli imputati. Al di là del processo di revisione giudiziaria, la precoce liberazione dei criminali di guerra tedeschi va messa in relazione con misure individuali di rilascio anticipato e di commutazione della pena di morte in carcere a vita. In parte la spiegazione risiede nella particolare cronologia di questi processi, organizzati dopo la prima fase di rigorosi e rapidi procedimenti contro i collaborazionisti belgi negli anni 1944-1947. I tribunali militari erano in quel momento impegnati in un’attività di massiccia revisione delle precedenti sentenze, con significative diminuzioni delle pene e proscioglimenti. Inoltre, entro il 1947, il sistema giudiziario belga riprese la consuetudine – adottata sin dal 1863 in tempo di pace – di convertire le condanne a morte in condanne all’ergastolo e di liberare i detenuti che avevano scontato un terzo della pena in caso di buona condotta, come stabilito dalla legge Lejeune del 1888. I criminali di guerra tedeschi trassero così profitto da uno sforzo coordinato di 563 moderazione nei procedimenti e di riduzione della popolazione carceraria cresciuta durante quella prima fase di grande severità alla quale erano sfuggiti a causa del vuoto legale che era esistito fino al giugno del 1947. Sotto questo profilo, il loro caso non è eccezionale. Tuttavia, il fatto che in applicazione di quella legge solo un individuo accusato di aver commesso crimini particolarmente atroci nel campo di Breendonk fosse stato giustiziato, e che alla fine del 1952 solo undici individui fossero ancora detenuti in Belgio, non si spiega con un mero ritorno alle usuali procedure di clemenza. Vi furono due ulteriori fattori che innegabilmente giocarono un ruolo rilevante: in primo luogo le pressioni politiche esercitate dalle autorità della Germania Ovest, testimoniate da numerosi interventi presso il ministero degli Affari Esteri, e in secondo luogo la perdurante eredità del sacrosanto principio di sovranità, che collocava il giudizio nei confronti di cittadini stranieri in un ambito chiaramente diverso da quello di un Paese che giudicava quelli, tra i propri cittadini, che avevano tradito la patria. Questi due aspetti richiedono ovviamente ulteriori ricerche. 5. I principali processi Il primo processo organizzato in Belgio sulla base della legge del giugno 1947 si svolse a Liegi nel giugno e luglio del 194822. Due ufficiali e otto soldati della Divisione SS Leibstandarte Adolf Hitler vennero accusati di una serie di crimini commessi nella regione di Stavelot, nelle Ardenne belghe, durante l’offensiva di Von Rundstedt, nel corso della quale, tra il 18 e il 20 dicembre del 1944, avevano perso la vita 60 uomini, 47 donne e 23 bambini. L’importanza simbolica di questo processo era ovvia. Nel luglio del 1946, un tribunale militare americano a Dachau aveva condannato a morte per impiccagione 43 tra soldati e ufficiali della stessa unità, 22 all’ergastolo e altri 8 a lunghe pene detentive, con l’accusa principale di aver assassinato un centinaio di prigionieri di guerra americani. Il processo e la 22 Cfr. N. VERSCHUEREN, Le Procès du massacre de Stavelot, research paper, Université Libre de Bruxelles, 2005. 564 severità della condanna avevano suscitato vivaci polemiche negli Stati Uniti. L’avvocato difensore americano, Everett, subito rincalzato dal senatore McCarthy, aveva accusato l’ufficio del procuratore di aver fatto ricorso alla tortura per estorcere confessioni, e aveva insinuato che i giudici ebrei del processo avessero nutrito pregiudizi antitedeschi. La sfida per la corte belga era quindi non solo di riparare alla scarsa attenzione prestata dal Tribunale militare americano ai crimini commessi contro civili belgi, ma anche, sulla scia della controversia, a dimostrare la capacità della giustizia belga di rispettare tutte le procedure del diritto di fronte all’opinione pubblica mondiale. Questo spiega, ad esempio, il rinvio dell’inizio del processo per permettere agli avvocati difensori tedeschi di essere presenti, il che era in sé una dimostrazione di superiorità legale se confrontato con la procedura militare americana. Nei fatti, questo processo senza precedenti servì in primo luogo e soprattutto a mostrare la scrupolosità del sistema giudiziario belga, prestando attenzione alle obiezioni degli avvocati difensori a proposito del valore legale della confessione ‘forzata’ resa durante il periodo di custodia presso gli americani e riconoscendo in parte la validità dell’argomento dell’‘ordine superiore’, tanto più in quanto otto dei dieci accusati erano stati soldati semplici, tre dei quali non ancora diciottenni al tempo dei fatti. Uno dei dieci venne rilasciato, mentre gli altri vennero condannati a pene tra i dieci e i quindici anni di lavori forzati. Computando la detenzione preventiva e applicando la legge Lejeune, vennero tutti rilasciati entro l’aprile del 1952. Nessuno di loro presentò appello contro la sentenza e l’ufficio del procuratore, che aveva chiesto sentenze molto più severe, ricevette dai vertici della Giustizia militare l’ordine di non ricorrere alla corte superiore, con la motivazione che quella corte, sulla base delle prove disponibili, avrebbe potuto emettere sentenze ancora più miti. Un mese più tardi, nell’agosto del 1948, il Consiglio di guerra di Mons pronunciò le condanne nel processo che aveva visto il più alto numero di imputati: 18 membri del personale della Sicherheitspolizei a Charleroi, una cittadina nella regione mine565 raria dell’Hainaut23. Il processo di Stavelot e quello di Charleroi a carico di membri della Sicherheitspolizei riguardarono, insieme, un terzo dei cittadini tedeschi processati per crimini di guerra. Il processo SIPO di Charleroi rappresentò un diverso tipo di sfida; si sarebbe stabilito, in quella sede, un precedente: sarebbero stati giudicati ufficiali delle forze di polizia tedesche nel paese occupato e il loro ruolo nella repressione della resistenza e nelle persecuzioni politiche, nell’uso sistematico della tortura, nelle esecuzioni e nelle deportazioni: in azioni, dunque, che non trovavano corrispondenza nella tradizionale definizione di crimini di guerra. Otto degli accusati vennero condannati a morte e altre quattro condanne a morte vennero emesse in contumacia, il che costituì un caso eccezionale nei processi belgi. Gli altri sei imputati vennero condannati al carcere a vita, ai lavori forzati e a pene detentive minori (in un caso a due anni). Nel luglio 1949 la Corte Suprema avrebbe invalidato l’accusa di alto tradimento (art. 118bis), annullando in tal modo il precedente che il processo intendeva stabilire e rinviando il caso al tribunale militare, che non poté che emettere condanne più lievi. In seguito, processi a ufficiali della Sicherheitspolizei ad Anversa, Dinant, Liège-Arlon e Bruxelles e processi a membri della Geheime Feldpolizei a Liegi, Gand e Bruxelles misero ulteriormente in luce la difficoltà di formulare incriminazioni per torture e deportazioni in termini di diritto penale belga, nonché il problema di qualificare in termini di diritto internazionale la fucilazione di ostaggi. Senza lasciarsi scoraggiare da queste difficoltà, il potere giudiziario belga si avventurò persino nell’ambizioso progetto di mettere alla prova i limiti della giustizia extraterritoriale. Nel 1946 e nel 1948 il legislatore belga aveva affermato la propria autorità legale a perseguire gli autori di crimini commessi al di fuori dei confini nazionali contro cittadini belgi o cittadini di nazioni alleate. Un primo processo nel novembre del 1948 condannò a morte Richard Winter, guardia nel campo di Missburg. Altri due processi svoltisi nel 1950 riguardarono 23 Cfr. G. GILBERT, Le Procès SIPO Charleroi, research paper, Université Libre de Bruxelles, 2005. 566 crimini commessi da sei guardie carcerarie a Wolfenbüttel, e un altro il capo della Lagerunion di Dortmund. Era evidente che le autorità belghe miravano a completare l’azione giudiziaria degli alleati concentrando la propria attenzione su campi e carceri di minor importanza che erano sfuggiti alla loro attenzione. Se al centro di questi processi erano le vittime di nazionalità belga, essi riguardavano nondimeno crimini commessi ai danni di vittime russe, francesi o danesi. E proprio questi processi mostrarono quanto fosse arduo configurare sotto il profilo penale reati come il trattamento crudele o l’inadeguata fornitura di cibo e vestiario24, oltre a mettere in luce la forte resistenza al principio di extraterritorialità da parte degli avvocati tedeschi. È abbastanza significativo il fatto che, nel caso della Lagerunion di Dortmund, l’avvocato difensore di Ernst Köppelmann riuscì a far invalidare l’accusa di omicidio colposo ai danni del cittadino danese Hansen obiettando, del tutto fondatamente, che all’epoca del crimine la Danimarca non era alleata del Belgio25. È evidente che, con tre processi che riguardavano campi e prigioni minori, e un totale complessivo di otto accusati, il giudizio belga di fronte ai crimini commessi in Germania si trovò costretto a ridimensionare le ambizioni espresse dal legislatore, e entro il 1951 anche questa parte del programma, come le altre, venne abbandonata. In breve, i procedimenti giudiziari contro i crimini di guerra tedeschi in Belgio misero a fuoco soprattutto due tipi di crimini. In primo luogo, c’erano i «crimini di guerra tradizionali», i massacri di civili come «danni collaterali» degli scontri armati, che riguardavano tre episodi: l’invasione (in particolare col processo ai sospetti autori del massacro di un centinaio di civili a Vinkt e Meigem il 28 maggio); la liberazione; l’offensiva delle Ardenne, con il processo di Stavelot. La configurazione di questi crimini come violazioni del diritto internazionale era semplice, ma l’identificazione degli autori, che nella maggior parte dei casi erano solo di passaggio in Belgio nel quadro 24 Cfr. A. DUELZ, Le procès de Ernst Köppelmann, research paper, Université Libre de Bruxelles, 2005. 25 Ibidem, p. 21. 567 di operazioni militari su vasta scala, si rivelò invece molto complessa. Il secondo tipo di crimini riguardava l’apparato delle forze di sicurezza e di polizia dell’occupante tedesco: mentre in questi casi l’identificazione degli autori risultava più agevole, dato che la maggior parte degli ufficiali rimaneva nella stessa sede per parecchi mesi, se non per anni, la configurazione dei crimini da loro commessi come violazioni del diritto internazionale era molto più difficile, e diede luogo a minuziose discussioni sul carattere legale o illegale della diffusa pratica del cosiddetto «interrogatorio rinforzato» (verschärfte Vernehmung), rendendo quasi impossibile sostenere un’accusa di torture quando queste non avevano provocato la morte o una menomazione permanente delle vittime. Il Belgio era riuscito ad ottenere l’estradizione di notori criminali nazisti, come Eduard Strauch, condannato da un tribunale militare americano per il suo ruolo nell’assassinio di 55.000 ebrei in Bielorussia, che alla fine morì in un carcere belga nel 1956 dove era stato rinchiuso per la sua posizione di ufficiale della Sicherheitspolizei negli ultimi mesi dell’occupazione del Belgio, o di Julius Lippert, già Oberbürgermeister di Berlino, riconosciuto colpevole di complicità in assassinio nelle sue funzioni di Kreiskommandant di Arlon26, ma la maggior parte degli accusati erano ‘pesci piccoli’, che avevano rivestito ruoli subordinati o, al più, posizioni di comando solo a livello regionale. Inoltre, in entrambi i tipi di criminalità di guerra sopra indicati quello che era in discussione era la violazione di certe regole e norme, non la legalità del regime di occupazione in sé. Due processi di particolare rilievo che chiudono la serie dei processi per crimini di guerra nel 1951 costituiscono un’eccezione all’interno di questo quadro: il processo a Constantin Canaris, capo della Sicherheitspolizei e del Sicherheitsdienst nei primi due anni dell’occupazione, e il processo ai capi della Militärverwaltung stessa, Alexander von Falkenhausen, Eggert Reeder, Bernard von Claerr e Georg Bertram, il cosiddetto 26 Un anno prima della morte Lippert pubblicò le sue polemiche memorie con il titolo Lächle und verbirg die Tränen: Erlebnisse und Bemerkungen eines deutschen «Kriegsverbrechers», Leoni am Starnberger See 1955. 568 «processo dei generali». Von Falkenhausen in particolare finì per diventare il simbolo di molte delle contraddizioni del programma del Belgio contro i crimini di guerra, e, al di là di questo, delle relazioni tra Belgio e Germania negli anni tra il 1940 e il 1960. 6. Quella «brava persona» di Alexander von Falkenhausen Nel settembre del 1960 un abitante della cittadina industriale di Verviers rimase stupefatto nel leggere una pubblicazione di matrimonio affissa, come previsto dalle norme sul matrimonio civile, nella bacheca del municipio27: l’annuncio riguardava il matrimonio tra Alexander von Falkenhausen, di 82 anni, e Cécile Vent, di 54. Ma qualcosa di più della differenza anagrafica separava i protagonisti di queste nozze. Alexander von Falkenhausen (29 ottobre 1878 - 31 luglio 1966) aveva percorso una considerevole carriera come ufficiale tedesco. Nel 1900-1901 aveva prestato servizio nel corpo di spedizione tedesco durante la rivolta dei Boxer in Cina, e in seguito, nel 1912, era stato nominato addetto militare in Giappone28. Durante la Prima guerra mondiale era stato promosso capo di stato maggiore della 7a Armata turca e inviato nel Caucaso e in Palestina. Dal 1934 al 1938 era stato consigliere militare di Chiang Kai-Shek. Richiamato alle armi dell’esercito tedesco nel luglio del 1938, nel maggio del 1940 era stato nominato comandante militare del Belgio e assegnato di stanza a Bruxelles. La sua partecipazione alla cospirazione del 20 luglio 1944 aveva portato al suo congedo dall’esercito e all’arresto. Aveva trascorso l’ultimo anno della guerra negli alloggiamenti speciali per personalità di rilievo a Buchenwald e Dachau, dove si era guadagnato la simpatia e il rispetto di un certo Léon Blum, che intervenne in suo favore dopo la guerra. 27 Cfr. il dossier della rassegna stampa, CEGES, BD KD 2271. 28 Cfr. H.-H. LIANG, The Sino-German Connection. Alexander von Falkenhausen between China and Germany 1900-1941, Assen - Amsterdam 1978. 569 Tenuto in stato di custodia dall’esercito inglese, e poi da quello americano, era stato estradato in Belgio nel 1948. L’offerta americana di estradare von Falkenhausen aveva colto in qualche modo la giustizia belga di sorpresa. All’inizio del 1948 l’ufficio della Procura non aveva ancora istruito alcun caso specifico contro il generale e, per analogia, contro la Militärverwaltung in quanto tale. Nei due anni tra la sua estradizione e il processo, l’istruzione del caso fu oggetto di notevoli pressioni. Nelle sue memorie von Falkenhausen afferma che i suoi avvocati gli avevano annunciato, agli inizi del 1949, che il caso sarebbe stato archiviato e i sospetti rilasciati. Il processo ebbe invece effettivamente inizio il 25 settembre 1950 e finì, dopo 61 udienze, il 9 marzo 1951. Von Falkenhausen e Reeder furono condannati a 12 anni di lavori forzati, Bertram a 10 anni e von Clear fu prosciolto. I reati ascritti ai primi due comprendevano la complicità nell’arresto e deportazione di ebrei, l’organizzazione di lavori forzati, la caccia ai renitenti al lavoro obbligatorio e l’esecuzione di ostaggi. Le udienze furono caratterizzate dal comportamento cortese e rispettoso tenuto nei confronti degli accusati da parte dei giudici, che talvolta sembrarono persino intimiditi dalla statura professionale degli avvocati della difesa; si ricorda ad esempio una frase del pubblico ministero: «Naturalmente, maestro, io sono solo un piccolo magistrato di provincia»29. Puntigliose disquisizioni legali e una quota sproporzionata della durata del procedimento furono dedicate alla questione della fucilazione di ostaggi. Di fronte alla recente giurisprudenza – riguardante il «Caso degli ostaggi» americano contro l’alto comando tedesco nei Balcani e quello delle Fosse Ardeatine – non era facile per il pubblico ministero dimostrare che la fucilazione di ostaggi costituisse una «manifesta violazione» del diritto internazionale. Il dibattito si concentrò quindi sulla fucilazione di ostaggi non quando questa rappresentava una rappresaglia a seguito di attacchi alle forze 29 H. VAN NUFFEL, Belgisch Nuremberg. De vervolging van Duitse Oorlogsmisdadigers in België, Antwerp 1997, p. 35. Il contributo di Van Nuffel, basato sugli archivi dei giornali, è peraltro una presentazione fortemente tendenziosa di tedeschi perbene, vittime di un sistema giudiziario belga tutt’altro che imparziale, con l’intento non dichiarato di screditare i processi belgi contro i collaborazionisti fiamminghi. 570 militari tedesche, ma quando la Militärverwaltung aveva ordinato la fucilazione di ostaggi come rappresaglia contro gli attacchi a collaborazionisti belgi: la protezione degli alleati politici non era parte dell’interesse vitale nazionale dell’occupante né della sicurezza delle sue truppe, e non poteva essere giustificato sul piano del mantenimento dell’ordine pubblico, dato che scatenava appunto, con la rappresaglia, una spirale di violenza. Il verdetto poteva anche non essere il risultato di una mediazione, ma parve comunque ad entrambe le parti un compromesso accettabile. Criticato per la sua severità in Germania, e considerato incomprensibilmente mite da ampi strati dell’opinione pubblica belga, consentì la scarcerazione immediata di von Falkenhausen e il suo rimpatrio tre settimane dopo l’emanazione della sentenza. Ma quel che più conta è il fatto che, nell’accettare la scarcerazione, il generale rinunciò a presentare appello, spianando così la strada a una liquidazione senza clamore dell’intera vicenda dei processi ai criminali di guerra tedeschi in Belgio; e non fu certo un caso se nello stesso mese di marzo del 1951 il Belgio ristabilì le relazioni diplomatiche con la Repubblica Federale Tedesca. von Falkenhausen era diventato un eroe tedesco, emblema dell’onore e della resistenza militare contro Hitler grazie alla parte avuta nella cospirazione del 20 luglio, che sarebbe sempre più diventata il simbolo condiviso dell’«altra Germania» negli anni di Adenauer30. La sua condanna era stata aspramente denunciata dalla stampa tedesca, ma perfino in Belgio il processo a suo carico aveva suscitato sentimenti contrastanti, e i suoi avvocati avevano organizzato una difesa di alto profilo. Né il generale intendeva compiere un atto di contrizione durante il processo o in occasione della scarcerazione. Al momento del passaggio della frontiera tedesca dopo il suo rilascio scrisse cerimoniosamente, su un improvvisato ‘albo d’oro’, «Ingrata Belgia non possidebis ossa mea» (Ingrato Belgio, non avrai le mie ossa)31. In seguito concesse varie interviste sulla situa30 Cfr. G. ÜBERSCHÄR (ed), Der 20. Juli. Das «andere Deutschland» in der Vergangenheitspolitik nach 1945, Berlin 1998. 31 Cfr. il dossier della rassegna stampa, CEGES, BD KD 2271. 571 zione mondiale, denunciando la messa sotto accusa di ufficiali tedeschi nel momento in cui il destino dell’Europa dipendeva dalla rinascita dell’esercito tedesco, e aggiungendo anche, in linea col personaggio: «Oggi i francesi sono soldati peggiori di quanto lo erano nel 1940. Non dovremmo nemmeno dimenticare che in tempo di guerra l’esercito è costituito da civili che vestono un’uniforme, e limitarci qui a ricordare che dal 30 al 40 per cento dei francesi sono comunisti»32. Nel 1974 Jo Gérard, un pubblicista belga di destra, ne pubblicò, scrivendone la prefazione, le apologetiche memorie in traduzione francese33. Cécile Vent (16 settembre 1906) era stata una delle poche donne a rivestire il ruolo di comandante regionale all’interno del movimento belga di resistenza, la rete di informazioni Tégal34. Arrestata dalla Gestapo nel 1943, aveva trascorso otto mesi nella prigione di St. Gilles, a Bruxelles. Dopo la guerra era stata insignita della croce al merito di guerra con menzione («croix de guerre avec palmes») per i suoi meriti resistenziali. La Vent, che sin dal 1933 era separata dal marito, un industriale del settore tessile, venne poi nominata nella commissione amministrativa delle carceri di Verviers. Queste commissioni rivestivano un ruolo importante nella sorveglianza, nella rieducazione e nel rilascio anticipato degli ex collaborazionisti. Dopo la prima ondata di pesanti condanne emesse dai tribunali militari nei primi anni dopo la liberazione, le commissioni amministrative, composte in gran parte da patrioti al di sopra di ogni sospetto, ovvero da veterani della resistenza, formulavano raccomandazioni sulla liberazione anticipata dei detenuti35. Nella veste di membro di una di queste commis32 Agence France-Presse, Bonn, 13 agosto 1952; CEGES, BD KD 2271. 33 A. VON FALKENHAUSEN, Mémoires d’outre-guerre. Comment j’ai gouverné la Belgique de 1940 à 1944, Bruxelles 1974. 34 Cfr. E. DEBRUYNE, C’était Tégal. Un réseau de renseignements en Belgique occupée, 1940-1944, Bruxelles 2003, in particolare pp. 131 e 155. 35 Cfr. L. HUYSE - S. DHONT, Onverwerkt verleden. Collaboratie en repressie in België, 1942-1952, Leuven 1991. 572 sioni, la Vent si recava molto spesso a visitare i detenuti nelle carceri di Verviers e di Liegi. Fu in occasione di queste visite che incontrò von Falkenhausen, che nel 1948 soffriva di una grave forma di depressione. La moglie di von Falkenhausen morì nel marzo del 1950, dopo una lunga malattia, e al generale venne concessa un’ultima visita all’inferma. La love story che nel frattempo era sbocciata in carcere era destinata a durare, e a condurre il generale e la Vent, quasi dieci anni dopo la scarcerazione di lui, al matrimonio. La coppia avrebbe desiderato mantenere il massimo riserbo sulla vicenda, ma ben presto la stampa si impadronì della notizia e la pubblicò con grande evidenza. «Le Soir Illustré» e «Libre Belgique» uscirono con articoli in prima pagina sull’evento, e «France Soir» mandò addirittura il suo inviato speciale Philippe Labro a casa della coppia in Germania, attribuendo erroneamente a von Falkenhausen il titolo di Gauleiter del Belgio (una funzione riservata ai territori annessi), e intitolando «Lei: eroina dell’ombra – Lui: generale antihitleriano»36. Il matrimonio forniva un’occasione perfetta per celebrare la riconciliazione della Germania con quelle che erano state le sue vittime: il Belgio, la Francia e oltre a queste, in misura diversa, l’Italia, l’Olanda, la Danimarca e la Norvegia. La storia, però, non era quella di una vittima che, con un atto d’amore, perdonava il suo aguzzino; gli articoli mettevano in risalto la condivisione di esperienze e di valori: entrambi erano stati eroi della resistenza contro Hitler ed entrambi erano stati in carcere. Per questo, la Vent e von Falkenhausen diventavano la personificazione di una nuova interpretazione della guerra come esperienza comune a tutta l’Europa occidentale, una guerra onorevole, tra nazioni rispettose del diritto: una versione dei fatti a cui il processo contro von Falkenhausen aveva contribuito non poco. 36 «Le Soir Illustré», 8 settembre 1960; «France-Soir», 3 settembre 1960; CEGES, BD KD 2271. 573