Bollettino Completo 1990 - Società Tarquiniese Arte e Storia

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Bollettino Completo 1990 - Società Tarquiniese Arte e Storia
POGGIO CRETONCINI: NUOVE EVIDENZE SULLO SVILUPPO
DELL’ABITATO DI TARQUINIA ANTICA
1. Descrizione del sito e storia delle ricerche
Il toponimo, oggi desueto, di “Poggio Cretoncini” designa il pianoro posto a contatto
del settore settentrionale del Pian della Regina, cui si lega tramite una breve e stretta sella 1 .
Tale pianoro - di composizione geologica (sabbie argillose, conglomerati e calcari sabbiosi
o raramente calcareniti) e di altitudine (100-130 metri s.l.m.) analoghe a quelle
dell’adiacente Pian della Regina - è delimitato su gran parte del perimetro da fianchi ripidi,
e si articola in tre lobi: uno meridionale a sommità piuttosto ampia e pianeggiante, e due di
forma allungata che si protendono verso nord-est e nord-nord-ovest. L’estensione
complessiva del pianoro si aggira intorno ai trenta ettari.
Il sito è noto nella letteratura archeologica fin dal secolo scorso per il ritrovamento
di tombe di età perlopiù romana 2) ; una generica segnalazione della presenza di ceramica
“villanoviana” ed etrusca è stata effettuata nel 1968 da H. Hencken 3) .
Nel 1989, nell’ambito della ricerca di Dottorato in Archeologia (Preistoria), è stato
effettuato da M. Pacciarelli un sopralluogo che ha permesso di verificare la presenza di
consistenti affioramenti di ceramiche protostoriche, riferibili ad insediamento, in tutta
l’area del pianoro, nonché di resti di abitazioni etrusche e di presenze dell’età del Bronzo
finale, riferite ipoteticamente a sepolture 4) .
1
Non si può escludere che la distinzione morfologica tra il pianoro di Cretoncini e il Pian della Regina sia stata
accentuata artificialmente, in concomitanza con l’edificazione della cinta muraria urbana di età etrusca. Tale sella era
percorsa comunque durante l’età storica da un tracciato viario, della cui esistenza testimoniano i resti tuttora visibili di
un muro con probabile funzione di costruzione viaria e le tracce di porta nell’area di Casale Ruggeri (Canina, Etruria
Marittima II , p. 35; P. Romanelli, Tarquinia - Scavi e ricerche nell’area della città, Not. Sc. 1948, pp. 198-199). La
probabile costruzione viaria era stata già indicata nel XVI secolo da Sangallo il Giovane in uno schizzo topografico
dell’area urbana di Tarquinii, in cui oltre al perimetro del pianoro urbano comprendente i Piani di Civita e della Regina,
è chiaramente visibile anche l’adiacente pianoro di Cretoncini; v. M. Pallottino, Tarquinia, in Monumenti Antichi dei
Lincei XXXVI, 1937, col. 92, fig. 13; B. Blasi, “Il Castello di Corneto e il suo monumento maggiore”, in Bollettino
della Società Tarquiniense di Arte e Storia, 8, 1979 (ma 1980), p. 14, tav. II.
2)
L. Pernier, “III. Corneto Tarquinia - Nuove scoperte nel territorio tarquiniese”, in Notizie Scavi, 1907, pp. 321-352, v.
in particolare p. 348.
3)
H. Hencken, Tarquinia, Villanovans and Early Etruscans, I, Cambridge (Mass.) 1968, p. 17.
4)
M. Pacciarelli, “Area di insediamento dell’età del Ferro, reperti del Bronzo finale, tracce di edifici ellenistici, a Nord
del pianoro urbano di Tarquinia”, lettera di segnalazione alla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, in
data 10-2-1989.
1
Una prima carta generale degli affioramenti di ceramiche protostoriche è stata
redatta da A. Mandolesi, nell’ambito del lavoro di tesi di Laurea sulla topografia
protostorica di Tarquinia antica 5) .
Nella primavera del 1989 è stata condotta da A. Mandolesi, M. Pacciarelli e M.R.
Varricchio, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria
Meridionale, una ricerca di superficie sistematica su un’area campione di tre ettari, situata
nel settore meridionale del pianoro, che presenta migliori condizioni per la conservazione
dei depositi archeologici; nel corso della ricerca sono state identificate notevoli aree di
concentrazione di materiali protostorici, arcaici ed ellenistici e resti di tombe costruite in
blocchi di nenfro di età orientalizzante, una delle quali, già parzialmente violata dai
clandestini, è stata esplorata dalla Soprintendenza con una breve campagna di scavo 6) .
Nell’estate del 1990 si è svolta una campagna di scavo in corrispondenza di un’area
in cui, per la notevole concentrazione dei reperti protostorici affioranti e per la presenza
consistente di argilla concotta, era ipotizzabile l’esistenza di strati di insediamento in
giacitura primaria.
Lo scavo è stato condotto da un gruppo di ricerca dell’Università “La Sapienza” di
Roma per conto della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, con il
patrocinio dell’Amministrazione Comunale e dell’Università Agraria di Tarquinia 7) .
L’indagine ha portato all’individuazione di resti di strutture di età “villanoviana” ed
etrusco-arcaica ed al ritrovamento di un notevole complesso di ceramiche domestiche
“villanoviane” e di intonaci di capanna.
In seguito ad arature profonde sono stati successivamente recuperati i resti di
alcune sepolture dell’età del Bronzo finale, dei tipi entro custodia di nenfro e forse “a
cassetta” di lastre calcaree (v. cap. 6).
5)
A. Mandolesi, L’insediamento protostorico nell’area di Tarquinia antica e nel territorio circostante, tesi di laurea
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma, (relatore prof. R. Peroni, cattedra di
Protostoria Europea; correlatore F. di Gennaro), a.a. 1989-90.
6)
A. Mandolesi, M. Pacciarelli, M.R. Varricchio, “Relazione preliminare su una ricerca di superficie sistematica
effettuata in località Cretoncini (Tarquinia)”; Eidem, “Seconda relazione sulla ricerca sistematica di superficie effettuata
in località Cretoncini (Tarquinia)”, relazioni presentate alla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale
rispettivamente il 22-11-89 e il 16-5-1990.
7)
Lo svolgimento dello scavo è stato reso possibile da contributi forniti dall’Amministrazione Comunale e
dall’Università Agraria di Tarquinia, rispettivamente per le spese di vitto ed alloggio da parte dei partecipanti; la
Soprintendenza Archeologica ha fornito l’assistenza tecnica. Si ringraziano in particolare il Sindaco G. Chiatti, la
Giunta comunale e il commissario straordinario dell’Università Agraria A. Ceccarini per la sensibilità dimostrata e per
il fattivo interessamento. Si ringraziano inoltre i Prof. G. Colonna e R. Peroni (Univ. “La Sapienza”, catt. di
Etruscologia e Antichità Italiche e catt. di Protostoria Europea), che hanno appoggiato e stimolato la ricerca in ogni sua
fase, il funzionario M. Cataldi Dini e l’assistente B. Maggi della Soprintendenza che hanno fornito una costante
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2. Topografia generale degli affioramenti relativi ad insediamento.
L’intera superficie del pianoro di Cretoncini risulta, ormai da decenni, soggetta a
regolari ed intensi lavori agricoli (le arature raggiungono oltre i 40 cm. di profondità, cosa
che in certi punti determina l’affioramento del substrato geologico) che hanno intaccato o
distrutto, con il tempo, i depositi archeologici sepolti, determinando l’emergere in
superficie dei reperti antichi in essi contenuti e una loro successiva dispersione sul terreno,
anche a causa dell’azione del dilavamento praticato dalle piogge.
Queste condizioni, se da una parte provocano un lento processo di distruzione dei
giacimenti archeologici, hanno consentito di poter posizionare, su una base cartografica di
piccola scala 8) , le principali aree di affioramento di reperti protostorici (prima età del
ferro) riferibili ad insediamento, nelle quali sono stati rinvenuti soprattutto frammenti di
ceramiche di uso domestico, tra cui vasi biconici, scodelle, tazze, grandi contenitori (olle,
dolii), fornelli, utensili domestici quali fuseruole e rocchetti, e una certa quantità di argilla
concotta (riferibile perlopiù a resti del rivestimento dell’intelaiatura lignea delle pareti
delle capanne).
Questi materiali archeologici, con diversi gradi di concentrazione, si
rinvengono in coincidenza di chiazze di terreno molto scuro, chiaramente “antropizzato”,
corrispondenti a depositi archeologici intaccati dai lavori agricoli e affioranti in superficie.
Le aree di affioramento che presentano un alto grado di concentrazione del
materiale archeologico, in buono stato di conservazione, e si trovano in coincidenza con
terreno scuro “antropizzato” facilmente delimitabile, sono probabilmente da considerare in
giacitura primaria o poco dislocata, rispetto alla posizione originaria del giacimento
archeologico di provenienza, sepolto o distrutto dalle arature. La conferma che questo
genere di affioramenti si trovi spesso in corrispondenza di strutture protostoriche sepolte,
si è avuta durante lo svolgimento dello scavo del 1990, eseguito quasi sulla sommità del
lobo meridionale del pianoro (v. cap. 4): l’indagine, praticata in un punto dove affiorava in
associazione a terreno contenente evidenti tracce di bruciato, copioso materiale
“villanoviano”, ha evidenziato la presenza, al di sotto di questa chiazza scura, di una cavità
con riempimenti della prima età del ferro.
La carta generale di Cretoncini, sulla quale sono state riportate le diverse aree di
affioramento dei reperti “villanoviani”, individuate durante l’indagine di superficie,
evidenzia la forte presenza di resti relativi ad insediamento su tutto il pianoro,
assistenza tecnica, L. Silvestri per l’amichevole cooperazione. Hanno partecipato con assiduità allo scavo R. Benedetti,
P. Cavaliere, L. Dominici, I. Gagliardi, C. Iaia, A. Mandolesi, E.. Massi, S. Sbarra, M.R. Varricchio.
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testimoniando un’intensa occupazione dell’area; nella carta risulta evidente l’alternanza tra
grandi e piccole zone di affioramento, poste a breve distanza tra loro.
Gli affioramenti 9) , che presentano una buona concentrazione di reperti
“villanoviani” e spesso una notevole estensione (tra i 1000 e 2000 mq.), si dispongono in
modo diffuso sull’intera area del pianoro, separati da brevi spazi vuoti, dove cioè tali
testimonianze sono pressoché assenti: possiamo notare come sulla sommità di ognuno dei
tre lobi in cui si articola il pianoro di Cretoncini, sia presente un consistente affioramento
di reperti protostorici, che potrebbe corrispondere a una cellula abitativa costituita da un
gruppo di strutture residenziali e/o funzionali.
Le evidenze di superficie sembrano evidenziare come l’insediamento delle prima età
del ferro nell’area di Cretoncini avesse un carattere unitario, articolato in una serie di aree
insediative, dislocate in modo da coprire l’intera superficie del pianoro, tra le quali
sembrano distinguersi i tre nuclei principali suddetti, caratterizzati dalla maggiore
concentrazione dei materiali.
3. Ricerca di superficie sistematica.
Nella primavera del 1989 è stata effettuata da A. Mandolesi M. Pacciarelli, M.R.
Varricchio un lavoro di ricerca sistematica di superficie, in collaborazione con la
Soprintendenza Archeologica ed in particolare con il funzionario di zona M. Cataldi Dini.
Un’area-campione di circa tre ettari è stata suddivisa in quadrati di m. 10 di lato, per
ognuno dei quali è stata redatta una pianta in scala 1:100 su cui è stata riportata la
posizione di ogni singolo frammento affiorante. I reperti considerati diagnostici, secondo
criteri fissi di campionatura, sono stati raccolti, numerati nella pianta e contrassegnati,
mentre i reperti considerati non diagnostici, perlopiù frammenti di parete, sono stati
segnati nella pianta con simboli diversi corrispondenti a frammenti di intonaco, di impasto
protostorico, di ceramiche di età storica o a materiali edilizi.
La metodologia seguita nella presente ricerca è finalizzata all’archiviazione
informatizzata dei dati, che quando sarà ultimata consentirà una agevole gestione della
grande massa dei dati raccolti.
Tra i principali risultati, percepibili ad una prima osservazione, si possono citare: il
riconoscimento di aree ristrette con elevate concentrazioni di frammenti ceramici e di
8)
La redazione di una carta archeologica dell’area di Cretoncini, in scala 1: 2000, è stata eseguita da A. Mandolesi,
nell’ambito della ricerca sulla topografia protostorica di Tarquinia (v. nota 5).
9)
Le aree di affioramento non corrispondono in realtà alla dimensione topografica dei depositi archeologici sepolti, in
quanto i reperti visibili sul terreno hanno subito una dispersione causata dalle arature e dal dilavamento, quindi
l’ampiezza dei giacimenti archeologici va sicuramente ridimensionata.
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concotto, in corrispondenza di chiazze di terreno fortemente “antropizzato”, quasi
certamente riferibili a giacimenti protostorici in situ di carattere abitativo; il ritrovamento
di numerosi frammenti dell’età del bronzo finale; l’individuazione di resti di tombe
dell’orientalizzante antico costruite con lastre di nenfro; la localizzazione di notevoli
concentrazioni di tegole e vasellame di età arcaica ed ellenistica in connessione con
affioramenti di blocchi squadrati di macco; il rinvenimento di un frammento di testa
maschile barbata fittile (probabile antefissa) del V. sec. a.C.
4. Scavo di un settore dell’abitato.
A continuazione della ricerca è stato intrapreso nell’estate 1990 uno scavo in una
delle aree di affioramento di materiali “villanoviani”, apparsa particolarmente significativa
per l’elevata densità dei frammenti affioranti, e per la presenza di abbondante concotto e di
terreno fortemente antropizzato.
Lo scavo, eseguito nel corso dell’estate del 1990 per conto della Soprintendenza
Archeologica per l’Etruria Meridionale, con il patrocinio del Comune e dell’Università
Agraria di Tarquinia, da un gruppo di ricerca coordinato da M. Pacciarelli, ha consentito di
portare alla luce una cavità poco profonda, di forma allungata irregolare (asse maggiore di
m. 4 c.a.), attorno ai cui margini si sviluppa un’area di acciottolato; la fossa era riempita da
un accumulo di argilla concotta (rivestimento di pareti di capanna, nel quale sono ben
visibili le impronte della struttura lignea) frammisto ad abbondanti frammenti di
vasellame (molti dei quali ipercotti), in gran parte ricongiungibili, pertinenti a numerose
scodelle, ad alcuni fornelli, tazze, olle e vasi biconici; presenti inoltre rocchetti e fusaiole e
parte di un vaso “a cestello”, eccezionale per un contesto abitativo è la presenza di un
frammento di elmo crestato fittile. Il complesso, databile probabilmente in un momento
avanzato della fase antica del primo Ferro, era sovrastato da un altro strato, caratterizzato
da abbondanti carboni ed anch’esso assai ricco di reperti ceramici (tra cui un cavalluccio,
non dissimile da esemplari presenti in corredi tombali), formatosi probabilmente nel corso
della fase successiva.
Gli strati protostorici sono tagliati da una fossa circolare, i cui riempimenti si datano
a partire dagli inizi dell’età arcaica o dalla fine dell’orientalizzante in poi.
Molto abbondanti i materiali anche nello strato arativo (dove insieme a molti
frammenti di vasi d’impasto sono stati rinvenuti una fibula ed un frammento
probabilmente di pane di bronzo).
Anche se il contesto archeologico appare nell’insieme di palese carattere abitativo,
l’interpretazione funzionale delle strutture è al momento attuale ancora sub judice.
5
5. Rinvenimento di sepolcreti “villanoviani”
Sul pianoro di Cretoncini, oltre ai consistenti affioramenti di ceramiche
“villanoviane” relative ad insediamento, si sono rinvenuti, in diversi punti dell’area, resti di
piccoli nuclei sepolcrali riferibili cronologicamente alla fase recente della prima età del
ferro, probabilmente caratterizzati dalla compresenza del rito incineratorio entro “ziro” e
di quello inumatorio in fosse costruite con blocchi di nenfro.
Le indagini di superficie svolte nell’area di Cretoncini hanno individuato finora tre
nuclei sepolcrali “villanoviani”: il gruppo di tombe più consistente (forse costituito da
alcune decine di sepolcri), spesso oggetto di scavi clandestini, sembra occupare la fascia
marginale sud ed ovest del lobo meridionale del pianoro, occupando in parte l’area
interessata precedentemente dell’abitato: la necropoli sembra costituita principalmente da
tombe a inumazione entro fosse costruite (in blocchi di nenfro o lastre calcaree), riferibili
cronologicamente ad una fase orientalizzante e forse anche ad un orizzonte avanzato della
fase recente del primo Ferro.
Gli altri due nuclei sepolcrali, di più limitate dimensioni, si dispongono, invece,
all’estremità di due propaggini. Il primo occupa la punta di una breve lingua che si distacca
dal margine occidentale del pianoro: in superficie, nei pressi di un affioramento di reperti
ellenistici riferibili ad un edificio suburbano, si sono rinvenuti i resti di una tomba a “ziro”,
costituiti dalla presenza di scheggioni di nenfro appartenuti probabilmente alla struttura
della tomba e i frammenti del grosso dolio contenente in origine la cremazione.
Presumibilmente, il nucleo sepolcrale era costituito da poche tombe (meno di una decina),
vista anche la limitata ampiezza dell’area interessata dal complesso archeologico.
Il secondo nucleo sepolcrale, probabilmente di poco più consistente del precedente,
occupa l’estremità del lobo nord-occidentale di Cretoncini.
Sul terreno sono visibili i resti di alcune tombe intaccate o distrutte dalle profonde
arature: sono presenti numerose schegge di nenfro relative alle strutture delle tombe
frazionate e diversi frammenti di grandi dolii (“ziri”), di vasi di corredo e scarsi frammenti
di bronzo (lamine, parti di fibule a sanguisuga). In questo sepolcreto (forse costituito da
circa una decina di tombe) il rito funebre sembra di tipo misto, con incinerazione in “ziro”
e inumazione in fossa costruita (frammenti di blocchi di nenfro e lastre di calcare).
Nel 1989 sono stati individuati, sulla sommità arrotondata di un piccolo poggio
(quota IGM 126) posto immediatamente a settentrione del lobo nord-occidentale del
pianoro di Cretoncini, gli scarsi resti - visibili lungo i fianchi e costituiti da schegge di
6
nenfro e pochi frammenti ceramici decorati con motivi “ a pettine” - di una piccola
necropoli riferibile cronologicamente a una fase antica del “villanoviano”. Il poggio, che
rientra nel toponimo “Cretoncini”, è soggetto da decenni ad intense arature che hanno
forse ormai compromesso la conservazione dei depositi funebri; la necropoli, relativa
probabilmente ad un settore dell’abitato posto sul pianoro di Cretoncini, era
verosimilmente costituita da non più di alcune decine di tombe ad incinerazione entro
pozzetto e/o custodia di nenfro.
6. Rinvenimento di sepolture dell’età del Bronzo finale.
Già durante la prima esplorazione del 1989 che ha portato all’individuazione
dell’area insediativa di Poggio Cretoncini, più avanti descritta, era stata rinvenuta una
fibula serpeggiante di bronzo con arco a coste e grande molla, riferita ipoteticamente nella
segnalazione ad una tomba dell’ultima fase del Bronzo finale. In seguito, nel corso e della
ricognizione sistematica del 1989 e dello scavo del 1990 sono stati individuati numerosi
frammenti protovillanoviani sporadici.
Le recenti arature del 1990 ed alcuni scavi clandestini hanno poi portato in luce
evidenti resti di sepolture tardo-protovillanoviane, diverse delle quali entro custodie
sferoidali di nenfro (di cui erano visibili numerosi resti in superficie) e forse anche a
cassetta di lastre calcaree 10) . In corrispondenza di un limitato scavo clandestino (forse
relativo ad una tomba a cassetta) sono stati recuperati diversi frammenti pertinenti ad un
vaso biconico d’impasto con decorazione a solcature e cordicella assai complessa, in parte
confrontabile con quello dell’ossuario della collezione Bruschi, ma che trova d’altra parte
notevolissime analogie con un esemplare da Poggio della Pozza 11) ; insieme sono stati
raccolti parte di una ciotola e un frammento di rasoio con complessa decorazione incisa 12)
7. Cenni sulle evidenze di età orientalizzante, arcaica ed ellenistica.
10)
M. Pacciarelli, “Scavi clandestini e identificazione di sepolture del Bronzo finale a Poggio Cretoncini (Tarquinia)”,
lettera di segnalazione alla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale in data 14-11-1990.
11)
Biconico coll. Bruschi: F. di Gennaro, “Contributo alla conoscenza del territorio etrusco meridionale alla fine
dell’età del bronzo”, in Atti XXI Riun. Sc. Ist. It. Preist. e Prot., Firenze 1979, 267-274, in particolare p. 270, nota 5,
fig. 3; M. Pacciarelli, Comunità protourbane dell’Italia tirrenica, tesi di dottorato di ricerca in Archeologia (Preistoria),
Roma 1990, tav. 368. L’esemplare da Cretoncini trova un confronto estremamente puntuale con uno da Poggio della
Pozza: H. Müeller Karpe, Beitrüge zur Chronologie der Urnenfelderzeit nördlich und sudlich der Alpen, Berlin 1959,
tav. 26A, 11-12; O. Toti, I Monti Ceriti nell’età del ferro, Civitavecchia 1959, fig. 54. Da notare inoltre che lo schema
decorativo a scansione metopale presente sul collo dell’urna di Cretoncini (in modo analogo che nel biconico della
collezione Bruschi) è simile a quello che nella sepoltura di Allumiere è riservato al coperchio.
12)
La decorazione visibile su entrambe le facce del frammento è probabilmente del tipo documentato in due rasoi
bitaglienti del tipo Terni, entrambi di provenienza imprecisata (V. Bianco Peroni, I rasoi nell’Italia continentale, PBF
VIII, 2, Monaco 1979, nn. 95 e 96, p. 22, tav. 8).
7
Gli unici dati riferibili alle fasi antica e media dell’orientalizzante sono quelli relativi
alle due sepolture a fossa costruite in blocchi di nenfro, venute alla luce presso i margini
sud-occidentali del pianoro.
La presenza di schegge di nenfro in superficie nel terreno arato, fa pensare che altre
sepolture dello stesso tipo potessero trovarsi sia nel medesimo settore sud-occidentale che
all’estremità nord-occidentale del pianoro. Nessuna evidenza relativa ad insediamento è
per il momento riferibile a questo spazio di tempo, compreso tra la fine dell’ottavo secolo
a.C. e i decenni centrali del settimo.
I più antichi materiali di età storica riferibili ad insediamento sono, per ora, quelli
databili tra la fine del settimo e l’inizio del sesto secolo a.C., rinvenuti nello scavo del 1990;
le evidenze di superficie databili tra l’orientalizzante recente e l’epoca alto-arcaica sono,
comunque, complessivamente per ora piuttosto scarse.
Sono, invece, state rilevate in più punti del pianoro aree di concentrazione di tegole,
coppi e ceramiche di età tardo-arcaica ed ellenistica, in corrispondenza delle quali, in
passato, sono affiorati durante le arature blocchi parallelepipedi di calcare locale,
attualmente accatastati nelle immediate vicinanze.
Nel corso della raccolta di superficie sistematica, all’interno di una di tali aree, è
stata rinvenuta parte di una terracotta architettonica raffigurante un volto barbato
(antefissa?) in impasto chiaro con tracce di pittura, databile al V secolo a.C.
Ai piedi del lobo nord-orientale del pianoro sono presenti numerosi scavi
clandestini nell’area di una necropoli costituita da tombe scavate nell’argilla sabbiosa
(quindi di struttura non facilmente definibile a causa del precario stato di conservazione)
di età probabilmente etrusco-romana: forse a tombe analoghe si riferiscono le scarne
notizie relative a scavi del 1905.
8. Conclusioni: prima valutazione del significato storico delle evidenze
archeologiche di Poggio Cretoncini.
E’ ormai noto che la formazione delle grandi concentrazioni insediative
“villanoviane” costituisce il diretto precedente storico della formazione delle principali
città etrusche. Rimane tuttavia una assai ampia ed interessante materia di indagine circa le
dinamiche storiche che hanno portato alla formazione dei grandi agglomerati
“villanoviani” (che iniziano a formarsi probabilmente già attorno o poco dopo il 1000 a.C.),
e la loro rapida trasformazione in vere città (avvenuta nel corso del VII secolo a.C.).
I dati finora raccolti nel corso delle ricerche effettuate a Cretoncini, anche se in fase
preliminare di elaborazione, permettono già di formulare alcune considerazioni di non
8
secondaria rilevanza in merito a tale problematica. Di un certo interesse appaino anche i
dati relativi all’occupazione di carattere “suburbano” dell’area, riferibile ai periodi arcaico
ed ellenistico.
Le evidenze disponibili per l’età del Bronzo finale documentano con certezza la
presenza di un sepolcreto tardo-protovillanoviano, che viene ad aggiungersi agli indizi
recentemente rinvenuti nell’area di Poggio Gallinaro 13) ed al dato problematico costituito
dai due vasi protovillanoviani della collezione Bruschi (la cui analogia con i materiali
ritrovati a Cretoncini rafforza comunque l’ipotesi di una loro provenienza dalle vicinanze di
Tarquinia).
La distribuzione degli affioramenti di ceramiche villanoviane documenta come nella
prima età del ferro l’intero pianoro di Cretoncini fosse interamente utilizzato come area di
insediamento, al pari dell’adiacente pianoro urbano, venendo a costituire insieme a
quest’ultimo un’unità morfologica di 150 ettari circa, interamente destinata ad
insediamento almeno fin dall’inizio della fase villanoviana.
Tale estensione si avvicina notevolmente del resto a quella di altri grandi centri della
prima età del ferro dell’Etruria meridionale, come quelli di Veio, Caere e Vulci 14) .
Tali ampie estensioni abitative sono naturalmente, come già esposto in altre sedi, da
intendersi occupate in queste prime fasi non in modo denso, come in un centro
propriamente urbano, ma con spazi liberi anche piuttosto ampi (adibiti verosimilmente
almeno in parte a orti e altri usi produttivi), sia tra le varie strutture abitative e non, sia tra
i vari gruppi di strutture. Non in disaccordo con tale modello ricostruttivo è del resto la
distribuzione topografica discontinua dei resti di insediamento “villanoviani”.
L’abbandono dell’area di insediamento di Cretoncini nel corso della fase recente
della prima età del ferro (approssimativamente VIII sec. a.C.), in concomitanza con altri
fenomeni di abbandono di certi abitati (in particolare quello del Calvario di Monterozzi),
documenta come il processo di formazione del vero e proprio centro urbano di Tarquinii,
incentrato sull’area unitaria dei piani di Civita e della Regina, abbia comportato una
riduzione dell’area destinata ad insediamento, verosimilmente in parallelo con una nuova
organizzazione, di carattere non più “estensivo”, dello spazio abitativo.
Il pianoro di Cretoncini nel periodo compreso tra un orizzonte avanzato della fase
recente dell’età del Ferro e l’orientalizzante antico non presenta alcuna traccia riferibile ad
insediamento, mentre al contrario sembra in più punti interessato da sepolture. Ciò
13)
A. Mandolesi, M. Pacciarelli, “Rinvenimenti dell’età dei metalli presso Tarquinia”, in Bollettino della Società
Tarquiniense d’Arte e Storia, 18, 1989, pp. 39-51, in particolare p. 44, fig. 4B, 1-2.
9
dimostra come già a partire almeno dalla fine della prima età del ferro l’insediamento fosse
già concentrato all’interno dell’area delimitata dalla cinta delle mura urbiche tardoarcaiche di Tarquinia antica.
A partire dalla fine dell’età orientalizzante o dall’inizio dell’età arcaica (fine
VII/primi decenni del VI sec. a.C.) si hanno sicure tracce della ripresa di una occupazione
insediativa, verosimilmente a carattere “suburbano”, del pianoro di Cretoncini. Più
consistenti appaiono le evidenze relative a resti di strutture residenziali coperte da tegole e
costruite in blocchi del periodo tardo-arcaico ed ellenistico. La distribuzione topografica di
tali resti permette comunque di ipotizzare una occupazione rada dell’area, inframmezzata
da ampi spazi, che sembra ragionevole immaginare occupate dagli “orti” annessi alle
singole unità residenziali.
Ad età tardo-arcaica (V sec. a.C.) si data anche il frammento di terracotta
architettonica, che costituisce un possibile indizio dell’esistenza di un luogo di culto
suburbano, ipotesi da sottoporre a verifica sulla base di ulteriori più approfondite ricerche,
ma che non appare inverosimile vista la prossimità ad una delle più importanti direttrici
viarie che si dipartono dalla città di Tarquinii.
Un affioramento consistente di materiali di età romana è stato rilevato nella lingua
nord-orientale, in un punto in cui sono presenti anche evidenze di epoca tardo-arcaica/
ellenistica, mentre l’assenza di testimonianze in gran parte del pianoro sembra
documentare l’abbandono di molti dei nuclei abitativi precedenti.
Anche
a
questo
stadio
preliminare,
l’analisi
dell’evolversi
nel
tempo
dell’utilizzazione del pianoro di Cretoncini costituisce un contributo importante per lo
studio della formazione e dello sviluppo della comunità urbana di Tarquinia antica; non
appare tra l’altro casuale il fatto che le fasi di più intensa occupazione insediativa di tale
pianoro - la fase antica del primo Ferro e le età tardo-arcaica ed ellenistica - coincidano
con quelli che vari tipi di evidenze sembrano indicare come i momenti di maggiore
sviluppo e importanza storica della comunità tarquiniese.
Alessandro Mandolesi
Marco Pacciarelli
LA BASILICA DI S. MARIA IN CASTELLO
DALLA SUA FONDAZIONE AI TEMPI DI OGGI.
14)
M. Pacciarelli, “Ricerche topografiche a Vulci: dati e problemi relativi all’origine delle città medio-tirreniche”, in
10
La basilica di Santa Maria in Castello, per noi tarquiniesi, tanto per usare un luogo
comune, è quasi una fabbrica di San Pietro; nel senso cioè che non si finisce mai di
apportarvi lavori di restauro e di consolidamento. In tutta la sua storia si sono succeduti
accidenti e avvenimenti, tutti consumati contro di essa al punto che possiamo considerare
una fortuna averla ancora e vederla là su quello sperone a sfidare il tempo.
I nostri antenati impiegarono quasi un secolo per edificarla, a partire dall’anno 1121
per finire a quello della consacrazione, nel 1208; e quando un priore quando un altro,
ciascuno si adoperò a far eseguire il portale cosmatesco, il pulpito, la tribuna dell’altare e il
fonte battesimale ad immersione; né ebbe termine l’opera musiva, dato che nella parte
d’accesso non si nota alcun lavoro da parte dei mosaicisti. Probabilmente per l’esaurirsi dei
mezzi finanziari.
Poiché la nostra Società se ne è fatto un obbligo, un motivo programmatico affinché
questo illustre monumento ritorni via via a rivestire quel ruolo che ebbe nell’alto Medioevo
e che fece convenire addirittura dieci vescovi per la cerimonia della sua consacrazione,
crediamo opportuno oggi seguitare a parlarne perché altri sappiano quello che la nostra
Società ha fatto per restituirlo al culto e alla venerazione pubblica.
Scartabellando nel nostro archivio, abbiamo rintracciato alcuni documenti che
riteniamo utile pubblicare perché i nostri Soci e i nostri lettori sappiano quanta storia è
racchiusa là dentro quelle antiche strutture.
Uno di questi venne stilato dal conte Pietro Falzacappa per incarico del cardinale
Filippo De Angelis, vescovo di Corneto, nell’anno 1841, che desiderava avere, attraverso il
quale, notizie e ragguagli su questa nostra chiesa: qui di seguito ne riportiamo il testo
integrale.
“In quella parte di Corneto ove esisteva un forte, fabbricato secondo l’architettura
delli secoli di mezzo, fu costruito ancora un sagro tempio dedicato alla Madre di Dio che
dalla sua posizione prese il nome di S. Maria in Castello. Li vari incendi delli pubblici
archivi di questa città, tanto ecclesiastici che secolari, ci hanno fatto perdere le più
interessanti memorie su di questo tempio bellissimo per la sua antica architettura, per li
sagri monumenti che ancora conserva. Tali infortuni ci impediscono di potere indicare con
precisione l’epoca della sua costruzione e solo appoggiandosi alle osservazioni od alla
intelligenza del signor D’Agincourt 1) possiamo dire che sia stato fabbricato verso la fine del
decimo secolo, sebbene una lapide esistente tuttora a sinistra della porta maggiore che
Studi Etruschi, 56, in corso di stampa.
1)
D’Agincourt - Storia dell’arte dimostrata con monumenti, edizione di Prato del 1828.
11
riporterò al nostro scritto, faccia non poco dubitare che possa essere stato costruito nel
1121.
E’ la chiesa edificata a tre navate con facciata ornata da belli mosaici come n’era
egualmente ornato il pavimento interno per circa i due terzi della sua estensione; una
cupola leggermente ellittica nella parte inferiore 2) e traforata da sei archi fra i quali
passavano altrettanti pie’ dritti per reggere una specie di tamburo di poca altezza, ha
esistito almeno fino al 25 maggio 1819, nel qual giorno un violento terremoto ondulatorio
distrusse in un momento quello che aveva esistito per secoli.
La pianta di questa chiesa è abbastanza regolare se si guarda l’epoca della sua
costruzione, ma le particolarità dei suoi andamenti hanno tutta la bizzarria dello stile
gotico che allora regnava sebbene gli archi non siano di un sesto acuto, ed i capitelli delle
colonne sono ornati nel campo con serpenti assai ingegnosamente intrecciati per sostenere
gli angoli della cimasa che sorge leggerissima: le finestre mantengono egualmente lo stile
gotico con variati ornamenti e merita riflesso la particolarità di non esistere alcuna dalla
parte di oriente senza che se ne possa precisare una sicura ragione, seppure ciò non sia
stato fatto per il motivo che facendo parte le mura di questa chiesa dell’antico castello di
Corneto, non si sia voluto indebolire l’esterna fortificazione con i vani che avrebbero
offerto le gotiche finestre, difficili insieme ad essere difese nel caso di un assalto inimico sia
per la loro forma sia per la sicura profanazione del tempio che ne sarebbe derivata.
Esistono tuttora nel principio della chiesa le colonne dei catecumeni come vi esiste il
fonte battesimale grande e nobile di figura ottagonale, ornato di marmi fini e scorniciati,
intarsiato di altre pietre colorite nel quale secondo l’antico rito si battezzava per
immersione.
Bello è il pulpito o sia ambone fatto di marmo finissimo intarsiato da pietre di
porfido e di mosaico, aperto alli due lati con vari gradini per salirvi e leggere il santo
Vangelo nelle messe solenni secondo la primitiva regola di Santa Chiesa.
Sopra di quattro gradini sorge la Tribuna con altare staccato per celebrarvi i Santi
Misteri verso il popolo, quale tribuna fu già ornata da quattro nobilissime colonne, tra le
quali le due prime di “verde antico” tutte di un pezzo di lunghezza e grossezza
sproporzionata, e co’ i suoi architravi di marmo scorniciato con altre colonnette e marmi
sopra che formano tabernacolo, furono in tempo di Clemente X 3) fatte levare dal cardinale
2)
3)
Id, pagine 206, 235, 285.
Clemente X. Altieri romano creato sommo pontefice nel 1670 governò la chiesa anni 6 mesi 3 e giorni 24.
12
Altieri 4) vescovo di Corneto, e poste al suo Palazzo, ed ora ve ne sono quattro di marmo
“semplice non corrispondenti alle tolte né con la proporzione delle basi e capitelli, né
adattate alla finezza di quelli scelti marmi da’ quali si vede decorata l’antica chiesa 5) , per
cui i voti pubblici domandano da molto tempo che sia supplito in qualche maniera alle
tolte colonne con altre che se non potranno pareggiare le antiche non deturpino almeno,
come le presenti, con la loro bruttezza questo rispettabile edifizio.
Lo smarrimento delli antichi documenti non mi permette di accennare con
precisione cosa fosse e da chi servita questa chiesa avanti i principii del secolo decimoterzo
e sappiamo solo con certezza l’epoca della sua consagrazione, avvenuta con tutta
munificenza l’anno 1208 come apparisce nella marmorea iscrizione posta vicino alla porta
principale alla destra, e che riporterò in fine con altre iscrizioni lapidarie che ornano anche
oggi questo monumento. La seconda memoria è del 1226 allorché il papa Onorio III,
dirigendo al vescovo di Toscanella una bolla per la riscossione delle tasse dovute alla
camera apostolica, nomina tra li procuratori in varie chiese di quella diocesi “apud
Cornetum priorem S. Mariae de Castello” 6) .
E’ innegabile insieme che sino al citato secolo XIII esisteva quivi eretta una
collegiata, con cappellani, canonici ed un priore, e che questa dignità fosse contraddistinta
nelli atti pubblici col titolo di “Prior majoris Ecclesiae Cornetanae” 7) e nel 1285 Lituardo
Cerruti di famiglia cornetana e Priore di S. Maria in Castello da uditore di Rota fu innalzato
alla sede vescovile di Cagli (Calliensis) sotto il pontificato di Bonifacio VIII 8) .
Continuò ad essere officiata in questa maniera sino al 1435, allorché piacque al
sommo pontefice Eugenio IV, ad intercessione del nostro celebre cardinale Giovanni
Vitelleschi, erigere in cattedrale la chiesa cornetana unendola a quella di Montefiascone e
formando un solo capitolo con la riunione delle due collegiate che in quell’epoca esistevano
a Corneto 9) .
Pare che da questo tempo sia cominciato il decadimento della nostra Chiesa di
Castello, e forse perché, non avendo più una collegiata a se sola, non si officiava più come
per il passato da quei sacerdoti che prima vi erano addetti e forse ancora perché posta
4)
Paluzio Paluzi romano cardinale del titolo dei SS. Apostoli ebbe il Vescovato di Montefiascone e Corneto li 29
Maggio 1666 dal papa Alessandro VII e lo ritenne sino al maggio 1670 nel quale anno innalzato al pontificato
Clemente X, Altieri lo dichiarò suo nipote e gli accordò la sua arma ed il suo cognome: così l’Arcidiacono Polipori
nelle sue Croniche Manoscritte di Corneto, ed il De Novaes, Elementi di Storia, Tom. X pag. 155.
5)
Cronaca Manoscritta di Francesco Valesio conservata nell’archivio segreto di Campidoglio, e Memoria istorica di
Corneto, manoscritto nell’Archivio Falzacappa.
6)
Nell’Archivio Vaticano e Turrioni, Memoria di Toscanella - Roma 1778, pag. 49.
7)
Codice Membranaceo nell’Archivio della Cattedrale di Corneto, passim.
8)
Ughelli - Italia sacra - tom. II, Col. 90 n. 27 - Episcopi Callienses.
13
quasi fuori la città i cui abitanti avevano cominciato già a ritirarsi dalle antiche abitazioni
per riscoprire i nuovi quartieri, restò come abbandonata a qualche mano mercenaria.
Sono notevoli peraltro le distinzioni che a questo sacro tempio professarono sempre
i nostri maggiori. L’antico Statuto di Corneto della cui origine non si può fissare una data
precisa, ma che sicuramente non è posteriore al secolo dodicesimo, tra le altre disposizioni
prescrive doversi osservare come feriato il giorno della consacrazione di questa chiesa 10) e
per una maggiormente devota distinzione si ordina dallo stesso Statuto 11) che nelle festività
di Natale, Pasqua di Resurrezione e dell’Assunta si offra dalli priori in questa chiesa un
carcerato a pena pecuniaria restando con ciò pienamente assoluto, e qualmente vi si
stabilisce che la Magistratura debba officiare in questa chiesa con l’offerta di due cerei 12)
nel giorno dell’Annunziata, nel quale giorno era anche decorata con l’intero capitolo che vi
si portava per la messa cantata, e che altro cereo si presentasse nel giorno di S. Agata alla
quale era anticamente dedicato un altare 13) .
Come ho di sopra accennato ad onta che la nostra Comune facesse il possibile per
sostenere lo splendore di S. Maria in Castello nonostante decadendo ogni giorno, si prese
la risoluzione nel 1566 di chiamarvi i Padri Carmelitani quali si portarono ad abitarla, ma
poco tempo vi dimorarono per dissensioni accadute fra loro 14) . Questo abbandono la fece
sempre più cadere in modo tale che nel 1569 era senza il Sagramento aperta e derelitta
talmente che il Vicario Generale di quel tempo nel fare la visita, ordinò “ostia eius de
clauderi pro honore divini cultus” 15) .
Tale disgraziata situazione mosse il vescovo monsignor Bentivoglio 16) “a procurare
di porvi un riparo e si rivolse alla magistratura di Corneto con sua lettera delli 25 maggio
1583 17) pregandola a tenere un consiglio perché questa chiesa fosse data alli Padri
9)
Bolle di Eugenio IV delli 5 dicembre 1435 che incominciano “In supremae dignitatis” e “Sacrosanta Romana
Ecclesia”.
10)
Statutum Corneti, Lib. II cap. LXXXVI.
11)
Id Lib. V cap. XXXII.
12)
Id. Lib. I. cap. II.
13)
Speculum ab anno 1487 ad annos 1495, pag. 206 conservato in Segreteria Communitativa.
14)
Cronache Manoscritte del Polidori e del Valesio.
15)
Visita Vescovile del 1569 pag. 24 v. in Cancelleria Vescovile.
16)
Mons. Girolamo de’ conti Bentivoglio di Gubbio fu fatto vescovo di Corneto e Montefiascone nel 1580 da Gregorio
XIII e resse queste chiese sino alli 12 aprile 1601 nel qual giorno morì in Montefiascone.
17)
Tra le lettere di quell’anno in Segreteria Communitativa e nell’archivio Falzacappa. Filza di lettere dal 1579 al 1592.
Fuori - Alli magnifici Signori e figli amatissimi cittadini Priori della Comunità di Corneto. Dentro - Molto magnifici
Signori e figli amatissimi. Questi Priori della Cong. di Viterbo desiderano essere risoluti del luogo di S. Maria in
Castello, e perché mi pare sia cosa molto utile per molti rispetti, e particolarmente acciò quella Chiesa non habitandovi,
non vadi a rovina, la prego si contentino di fare Consiglio e deliberare quel tanto parerà alla Communità potersi fare, et
essere più espediente per servizio di Dio, et honore della Città per il che non mancherò pagare S.D.M. tà le... sempre in
q.ta ed in ogni altra loro esecuzione, e di cuore mi offro e rassegno. Di Montefiascone li 25 maggio 1583. Bentivoglio
vescovo di Montefiascone e Corneto.
14
Conventuali: confermò questo medesimo con altra lettera 18) delli 17 giugno 1585 nella
quale ripeté che trovandosi abbandonata la chiesa di S. Maria in Castello si è risoluto darla
alli frati di S. Giacomo 19) se la magistratura medesima “non sente cosa alcuna in contrario”
e desiderando che tutto sia “con loro soddisfazione”. Da queste lettere sembra chiarissimo
che la nostra Commune vi avesse un Gius-patronato, il quale diritto trascurato in seguito si
è perduto o usurpato.
Piacque sicuramente alli Cornetani la domanda del loro pastore ed in quel
medesimo anno (1583) li Padri Conventuali ne presero possesso accordandoglisi dal
consiglio tutto il locale dell’antico Castello perché con le rendite del medesimo potessero
mantenere la chiesa e loro stessi 20) .
Dopo questa epoca nulla più si rinviene di rimarchevole che possa riferirsi a questo
bel monumento di Corneto e scorsero più di due secoli senza che ci si presenti alcuna cosa
notabile: non saprei se attribuire questo silenzio o alla deficienza di fatti degni di memoria
o alla mancanza di chi siasi dato la pena di registrarli. Due sole piccole cose in così lungo
spazio di tempo ho potuto rinvenire né tralasciar voglio di riportarle, sebbene non siano di
molta entità.
La prima è del 1619 allorché si dovettero dividere le imposizioni camerali fra le
corporazioni religiose di Corneto. Vale la pena di registrarsi che questa chiesa con il suo
convento ed i suoi beni nel riparto generale fu tassata per soli bajocchi novantasei 21) . Qual
differenza rimarchevole fra quel tempo e questo in cui viviamo!
L’altra è la consagrazione del suo altare maggiore fatta nel 1639 dal Vescovo di
quell’epoca mons. Cecchinelli 22) la di cui memoria ci viene conservata dall’iscrizione posta
nella Tribuna, e che riporto insieme alle altre.
Dopo queste notizie bisogna giungere sino al secolo XIX per riportare che nel 1809
restò di nuovo abbandonata questa chiesa per l’espulsione dei Padri Conventuali che
furono sottoposti a quella generale proscrizione ordinata da colui che regnava in questa
parte d’Italia in luogo del nostro legittimo Sovrano, finché riordinatesi le cose pubbliche e
ristabilito l’ordine nel 1814 furono i beni di questa chiesa uniti al Conservatorio delle
18)
Vos supra in omnibus. Perché ho visto che la chiesa di S. Maria in Castello era abbandonata, mi risolvei per quanto
comportava il mio consenso di darla, come feci a quel frate di S. Giacomo, che sta in Corneto, et così ho scritto al mio
vicario che lo metta in possesso per la sua religione. Se poi le SS.VV. con la mag. Communità sente cosa alcuna in
contrario, mia dia avviso acciò si possa provvedere a quanto farà bisogno, desiderando il tutto sia con soddisfazione
loro, e quali di cuore da Dio prego ogni vera contentezza. Di Montefiascone li 17 giugno 1585. Bentivoglio.
19)
Li frati Conventuali abitavano in Corneto l’antica chiesa di S. Giacomo, ora il Cimiterio vecchio.
20)
Memorie manoscritte di Corneto, nell’archivio Falzacappa.
21)
Libro delle Congregazioni Capitolari di quest’anno pag. 56 nell’archivio della Cattedrale di Corneto.
22)
Gaspare Cecchinelli da Vezzano, nepote del cardinale Zacchia, vescovo di Corneto e Montefiascone, ottenne per
rinuncia dello zio queste sedi li 22 aprile 1630 e le resse sino alli 7 marzo 1666. Morì in Montefiascone.
15
Orfane di Corneto 23) , non essendovi stati ripristinati li Religiosi Francescani per il loro
scarso numero a conseguenza del quale erano anche i pochissimi individui che si
ritenevano prima che ne fossero scacciati.
Un infausto giorno portò a questo vecchio tempio l’anno 1819 poiché alli 26 maggio
per violenza di forte terremoto cadde quella bella cupola che per la sua arditezza di
costruzione ne formava uno dei principali ornamenti.
Dopo quel disgraziato anno restò quasi abbandonata la nostra Chiesa, e gli amanti
delle cose sagre e delle cose Patrie vedevano con dispiacere avanzarsi ogni giorno la totale
rovina di questo monumento. Per secondare i voti pubblici l’Eminentissimo Velzi,
degnissimo vescovo di Corneto, vi dié tutto l’impegno per ridare al culto cattolico questa
chiesa e nel 1834 con la sua paterna premura ed attività secondato anche dal nostro
Comune che assegnò a questo fine 200 scudi 24) non che dalle altre corporazioni religiose
che con piacere concorsero a sì bell’opera, benedisse di nuovo e ricoperto con tetto il vano
lasciatovi dalla caduta cupola poté di nuovo celebrarvi messa solenne con sincero applauso
di tutta la città.
Non terminarono però con la nuova riapertura li desideri de’Cornetani e sempre ci
siamo lusingati vederla restituita all’antico onore. Sorge una nuova speranza nella provvida
cura che ne assunse l’odierno vescovo, il cardinale Filippo De Angelis. Sotto il suo valevole
patrocinio ci lusinghiamo, anzi siamo sicuri di veder conservato alla Chiesa un suo tempio,
all’Italia uno dei suoi più belli tra li sagri monumenti, ed a Corneto questa bellissima antica
chiesa che mentre fa fede della devozione de’ nostri antenati dà anche oggi continuo lustro
alla Patria.
Possono compirsi quanto prima i nostri desideri e possa il nostro degnissimo
Pastore condurre a termine quanto ha ideato per l’onore di questo tempio e della nostra
città e possa la divina Provvidenza concedergli lunghissima vita per l’onore del Sacro
Collegio e di questa diocesi, il che sinceramente desidera l’estensore di queste piccole
memorie”.
Altre notizie ci dicono che nel 1479, certo Tommaso Strazulli lasciò alla chiesa di S.
Maria in Castello ducati 50; e che nel 1487 certa Emilia di Giovannuzio, moglie di
Luchetta, lasciò alla chiesa di Castello due moggia di terra in contrada Torrone.
Dagli Statuti della Città di Corneto, del 1545, veniamo a sapere che “li Priori ossia
Magistrati della nostra città dovevano ogni semestre fare, in onore della Chiesa di S. Maria
in Castello, un palio del valore di 16 carlini”.
23)
Li beni della chiesa di Castello furono uniti al Conservatorio delle Orfane con rescritto pontificio.
16
Infatti il capitolo V del Libro I riporta testualmente:
“Sia anche tenuto per ogni semestre a confezionare per la Chiesa di S. Maria in
Castello un palio del valore di 16 carlini per ogni palio che viene offerto attualmente alla
detta Chiesa, al tempo del sindacato del Podestà, dai predetti Magnifici Signori Priori.
Altrimenti incorrano nella pena di sedici ducati di carlini da togliere ad essi di fatto e da
convertirsi nel detto palio ad opera dei loro successori nell’ufficio”.
Sempre negli stessi Statuti, al Libro V capitolo 32, si legge ancora: “... come luoghi
d’altra parte nei quali si possano e debbano gettarsi le immondizie, destiniamo quelli fin
qui di seguito elencati, e cioè: dall’immondezzaio fuori la Porta di S. Maria Maddalena;
ancora fuori la porta di S. Maria in Castello, vicino all’orto dei Cerrini...”
Da parte loro, i Padri Conventuali B. Theuli e A. Coccia, hanno pubblicato un
volume dal titolo “La Provincia Romana” dalle origini ai nostri giorni. Da questa
monografia stralciamo la parte che al capitolo VI riguarda il Convento di Corneto e la
Chiesa di S. Maria in Castello.
CAP. VI
CONVENTO DI CORNETO
Questo convento è sotto il titolo di S. Maria in Castello. Fu dato alla Religione nostra
al tempo di Sisto V, Sommo Pontefice, nel primo anno del suo Pontificato, che fu nel 1585,
e fu a petizione della pietosa Comunità per la devozione che aveva e conserva all’abito
francescano. Di tal concessione fu fatto un pubblico strumento, rogato dal notaio Vincenzo
Vincenzi.
Non voglio lasciar sotto silenzio che, come si dirà più sotto, noi avemmo un altro
convento e Chiesa in questa città, come dimostrano i Padri insigni che vi sono stati e
l’ordine dei conventi registrato nelle conformità 25) ; dal quale non so perché e quando
partissimo. A quella Chiesa il Papa Nicolò IV concesse l’indulgenza per alcune feste nel
1291, anno quarto del suo Pontificato 26) . In quel primo convento albergò il Papa Urbano V,
quando partì dalla Francia per Roma, e giunse in convento con tre Galere, dove fu accolto e
ricevuto con molta allegrezza. Anzi nello stesso convento l’amoroso Pontefice vi ricevé
benignamente il B. Giovanni Colombini, istitutore dei Padri Gesuiti.
24)
Risoluzione consiliare delli 23 febbraio 1834.
Pisano B., Op. cit., fructus XI, pars 2, p. 515. Scrive: “locum de Corneto ubi B. Franciscus post suam mortem
puerum a valvis ecclesiae oppressum et conquassatum resuscitavit”.
26)
Sbaralea H., Bull. Franc., t. IV, p. 305.
25)
17
La Chiesa presente è grande, bella, antica, con pilastri, con una tribuna, a tre navate,
e con pavimento a mosaico. Vi è un’immagine della Beatissima Vergine con il titolo delle
Grazie, che è di grandissima devozione. Era la Chiesa Cattedrale dei Preti, come si scopre
dal fonte battesimale e da un bellissimo pulpito di pietre fine similmente lavorato a
mosaico. Fu consacrata al tempo di Innocenzo III, Sommo Pontefice, come appare da una
pietra di marmo posta nel muro, nella quale si legge la seguente memoria:
IN NOMINE XPI AM. A.D.M. CC.VIII
INDICTIONE X. TEMPORIBUS DNI INNOCENTII,
PP. III, XIII KL. IUN. HOC. TEMPLUM
B.M. DICATUM IN CUIUS DEDICATIONE
X. ADFUERUNT EPI. PERSONALITER,
TUSCANENSIS, AMELIENSIS,
BALNORIENSIS, CASTRENSIS, SUANENSIS,
ORBEVETANUS, ORTANUS,
CIVITONICUS, NEPESINUS, SUTRINUS,
ET CUM ESSENT XII INVITATI
DUO Q. VENIRE N. POTERANT, NARNIENSIS,
ET GROSSETANUS ASSENSUM REMISSIONIS
PER LITERAS DIREXERENUNT, IDCIRCO
IN PRIMO ANNO HUIUS DEDICATIONIS XII ANNOS
HIS QUI VENERANT REMISERUNT ANNUATIM
VERO DE INIUNCTA POENITENTIA
IIII ANNOS REALXARUNT HIS QUI DEVOTE
AD HANC DOMUM VENIENT CUM SPIRITUALI IUCUNDATIONE
ITEM HUI. ECCLE. VOCABULO
UNUM ANNUM CONDONARUNT
FACTA SUNT HAEC SUPRADICTA ACTORE
DNO PER ANGELUM PRIOREM Q. HUIC TUNC PRAEERAT
ECCLESIAE 27)
27)
In nome di Cristo, così sia.
Nell’anno del Signore 1208, indizione decima, al tempo del signore Innocenzo Papa III, il 13 di giugno, questo tempio
venne dedicato alla beata Vergine Maria; nel giorno della dedicazione, furono presenti di persona dieci vescovi, il
Tuscanese, l’Ameliense, il Bagnorese, il Castrense, il Soanese, l’Orvietano, l’Ortano, il Civitonico, il Nepesino, il
Sutrino: due che non poterono venire, il Narniense e il Grossetano, inviarono per lettera il loro assenso. Per la qual cosa
nel primo anno di questa dedicazione furono concesse indulgenze di dodici anni a coloro che erano venuti. Furono
condonati poi annualmente quattro anni della ingiunta penitenza a coloro che, con spirituale esultanza, fossero venuti
18
E di questo Angelo vi è la testa della sua effige in pietra. Attorno al pulpito suddetto
vi stanno scolpite le seguenti parole: A.G.B. DNI INNOCEN. PP. III. EGO ANGEL. PRIOR
HUIUS ECCLESIAE HOC. OP. NITIDUM AURO, ET MARMORE DIVERSO FIERI FECI
PER MANUS MAGISTRI IOHNIS GUITTONIS CIVIS R.M.N. 28)
Vi sono alcuni corpi di Santi, come per lettere longobarde appare negli stipiti della
porta maggiore della Chiesa e sono le seguenti: Non obediunt isti, passi pro nomine Xi.
Ecce Saturninus Sisinius, et Thimoteus, hic bene cum caro requiescunt Simphoriano.
Dalla qual memoria si cava che questi martiri siano Saturnino, Sisinio, Timoteo e
Sinforiano. Non si sa però dove siano sepolti. Nella stessa pietra sono intagliati i seguenti
versi leonini:
VIRGO TUAM PROLEM ROGITA DEPELLERE MOLEM
VULGUS UT HOC LAETUM CORNETI IURE QUIETUM
DET IUGIT. VOTUM VIGEAT SIBI CRIMINE LOTUM
QUODQ. SUA LAUDE TEMPLUM PARAT HOC SINE FRAUDE. 29)
Nell’architrave della stessa porta si leggono intagliati i seguenti versi:
HIC ADITUS VALVAE MARIAE VIRGINIS ALMAE
DUM SIC SPLENDESCIT MILLENUS CIRCULUS EXIT
ET CUM CENTENIS, TENEAS TRES BISQ. VICENIS
TUMQUE. PRIORATUS PANVINUM SEDE LOCATUS
ISTE DEO CARUS MERITIS ET NOMINE CLARUS
INSIGNIS VITAE VIXIT SINE CRIMINE RITE.
AD LAUDEM XPI STUDUIT SUA MOENIA SISTI
ADIUVAT HINC FACTIS VENERANDUS PBR. ACTIS
NON PIGUIT SENSUM GEORGIUS, ET DARE CENSUM. 30)
devotamente in questa chiesa. Similmente fu concesso un anno al nome di questo tempio. Le cose suddette furono fatte
per grazia del Signore dal priore Angelo che allora presiedeva a questa chiesa.
28)
Al tempo del Signore Innocenzo Papa III, io Angelo feci eseguire per questa chiesa quest’opera in oro puro e marmi
diversi par mano del maestro Giovanni Guittone, cittadino romano.
29)
O Vergine, prega il tuo Figlio che protegga questo tempio affinché questo popolo di Corneto, felice a buon diritto,
compia sicuro e a lungo il voto: e questa basilica che esso con sincerità erige in tua lode, si conservi per mezzo di lui
pura da ogni delitto.
30)
Questo splendido ornato delle porte dell’almo tempio di Maria Vergine fu compiuto nell’anno 1143 per cura di
Parvino, priore della Chiesa. Egli, caro a Dio per le sue buone azioni, e illustre per rinomanza di una vita intemerata, si
prese cura perché la sua fabbrica si eseguisse a lode di Cristo, coadiuvato con fatti ed opere dal reverendo presbitero
Giorgio che non esitò a dare il parere e il denaro.
19
E sono questi due versi gli stessi accennati sopra. Quando sia stata fabbricata questa
Chiesa, si cava da una memoria in versi, scolpita in marmo nella porta piccola della Chiesa
a man sinistra, e sono questi:
IMPERAT HENRIC. CALIST. FIT. PP. PETITUS
ANNO MILLENO CENTUM PMOQ. VICENO
NATALIS XI DOMUS HAEC PRIMORDIA FIXIT
GUIDO PRIOR DIGNUS PIUS PROBUS ATQ. BENIGNUS
ANNO CI POSTQUAM NOVUM FECIT HOC SCULPERE METRUM 31)
In un’altra pietra, posta nella facciata della Chiesa, si vede intagliata la seguente
memoria:
IN N. XI.AM. EX. H. SCRIPTURAE MEMORIA PSENTIBUS POSTERIS
CLAREAT MANIFESTE, Q. CAPLM PERPETUO
VALITARUM EDITUM FUIT PER MODULATORES TEMPORE
DNI BOIFAT. POT. CORNET. ANN. D.
con altre parole che io non ho potuto leggere. Dalla quale si argomenta una
convenzione tra la Comunità, essendo Podestà della Città un tal Bonifacio, e i Preti. 32)
Da tutto questo chiaramente apparisce che questa fosse una Chiesa antica dei Preti,
e poi conceduta alla nostra religione, come si è detto sopra.
Vi si celebra solennemente la festa della Annunciazione di N. Signora, nel qual
giorno Mons. Vescovo vi fa Cappella, e dal Predicatore ordinario vi si predica con
grandissimo concorso di popolo. Vi si celebra ancora con solennità la festa di S. Agata il 5
Febbraio, concorrendovi tutta la città con il clero alla Messa cantata, portando il velo della
Santa processionalmente con molta devozione; e lo stesso si fa la vigilia dell’Assunzione di
Maria sempre vergine. Anzi per antica consuetudine, i Signori del Magistrato nella
rinnovazione del governo, ogni principio di trimestre van a sentire la Messa in questa
31)
Questa Chiesa fu iniziata nell’anno 1121 dell’era di Cristo, essendo re Enrico e papa Calisto. Guido, priore degno
pio, probo, benigno, dopo 101 anni fece scolpire questo nuovo distico.
32)
Nel nome di Cristo.
Da questa memoria scritta sia manifestamente noto ai presenti e ai futuri che questo Capitolo, da valere in perpetuo, fu
amato dai Rettori, al tempo del signore Bonifacio, podestà di Corneto, affinché l’anno del Signore non si scriva in
Corneto negli Istrumenti secondo il tempo dell’Incarnazione di Gesù Cristo (cioè dal 25 marzo) ma si tenga il costume
della Romana Chiesa in Corneto, e si scrive negli Istrumenti l’anno del millesimo secondo la Natività di Gesù Cristo,
figlio di Dio (cioè del 25 dicembre). Gli Istrumenti poi fatti precedentemente, siano validi sempre. A conservazione
della quale memoria questa lapide marmorea fu scritta, eretta e posta in evidenza. Anno della natività del Signore 1230,
il 4 aprile. Questa lapide venne scolpita al tempo del consolato di Tommaso di Rogerio e di Bonifacio Boccavitelli.
20
Chiesa; nella quale come in Chiesa principale vi son sepolti molti della nobil famiglia
Vitelleschi e d’altre famiglie illustri, come si scorge per l’armi che in essa si vedono.
Il convento però è piccolo, senza chiostro, con poche comodità religiose, sebbene
per la pietà dei cittadini si alimentano da sei ad otto Frati.
Non vi sono stati molti Padri insigni. Non voglio tacere quello, il cui nome ci vien
tolto dal tempo, il quale giocando a scacchi contro il voto fatto, tre volte ne rimase cieco.
Ma comparendogli il Santo Padre, restò illuminato, pigliò l’abito francescano e vi divenne
famoso per bontà di vita. Il fatto avvenne nel 1282, come registra il Pisano.
Nel 1387 viveva Fra Colaccio d’Angeli, che fu Visitatore di questa Provincia, fatto il
22 d’Aprile, il quale è da pensare, che fosse persona virtuosa prudente, perché simil carica
non si suol conferire che a persona di qualità virtuose. Nel 1408 viveva il P.M. Francesco
Scarpellotti; e nel 1451 il P.M. Giovanni Urbani che, per il suo buon talento, fu Vicario della
Provincia. Vi è stato ultimamente il P.M. Marco Bellacci, che era a buon predicatore e
molto capace ancora nell’economia, come ha dimostrato il governo di alcuni conventi della
Provincia. Vi sono al presente due Baccellieri, che con l’aiuto di Dio potranno onorare il
convento. Vi si è celebrato un Capitolo Provinciale il 20 Maggio 1600, nel quale fu eletto
Presidente il Rev.mo P.M. Filippo Gesualdo, Ministro Generale, e vi fu eletto Ministro
Provinciale il .P.M. Giovannelli di Rieti.
***
Corneto, dal 1922 chiamata Tarquinia, città antichissima e piena di monumenti, fu
nuovamente elevata a sede episcopale e decorata dal titolo di città da Eugenio IV, il 5
dicembre 1435, e poi, nel 23 luglio 1854, unita alla diocesi di Civitavecchia.
Il nostro convento di S. Maria in Castello si trovava in una incantevole posizione in
uno degli estremi limiti della città, vicino al Castello attribuito alla Contessa Matilde di
Canossa. Essendovi una numerosa comunità dotata da sufficienti redditi non fu incluso nel
numero dei conventi da sopprimersi. Nel 1658 vi era come superiore il P. Bacc. Antonio di
Canino. Il 22 novembre 1691 fu concesso ad Antonio Paolucci di farvi l’anno di noviziato 33) .
Tra i padri che in questo convento hanno dato occasione a delle critiche troviamo il
P. Benedetto Antonio Donati, religioso buono ma che era forse eccessivamente
preoccupato della salute e della povertà del suo padre che si trovava a Civitavecchia, ove
voleva andare; il che dovette essere l’occasione di incomprensioni. Di lui il guardiano P.
Biagio Spadoni scrive nel 1768 che era “religiosus bonis moribus, plenus pietate,
33)
S. Cong. Discipl. Regul. Decreta, vol. 43, f. 171.
21
obedentia, humanitate et mansuetudine...” 34) . Il P.M. Francescantonio Tomaini guardiano
nel 1786 35) ed il P. Pietro Owiller, che nel 1787 chiede d’essere esonerato dall’ufficio di
guardiano 36) .
Nel 1800 vi fu fatto guardiano il P. Giuseppe Bizzarri, ma vi restò poco, perché
l’anno seguente vi fu eletto il P. Francesco Cortona di Proceno, anche gli altri non vi
restarono più di un anno ciascuno. L’ultimo guardiano fu il P. Antonio Garibaldi, eletto nel
1807.
Soppresso nel 1810 lo Stato Pontificio e gli ordini religiosi, il convento venne
occupato dalle truppe francesi e la chiesa dissacrata. Nelle colonne che si elevano
sull’altare maggiore sono ancora incisi nomi di soldati francesi. I religiosi non vi tornarono
più, e nel convento fu eretto un Orfanotrofio per le ragazze, tenuto dalle figlie di S.
Vincenzo di Paoli. Nel 1819, il 26 maggio, crollò la cupola della chiesa per una scossa di
terremoto. Ne abbiamo una relazione fatta dal Vescovo nel 1858: <<Olim collegiata...
suppresso autem collegiali capitulo, ad Minores Conventuales cum adnexis aedibus transiit
excolenda, quibus per intrusum Gallicum Gubernium expulsis Orphanotrophio puellarum
una cum possessionibus et redditibus, revera paucis, fuit assegnata>>. La chiesa continua:
<<Est vetustissimum magnificumque aedificium, marmoribus etiam variis et opere
musivo, sed temporum iniuria labefactata, tum in facie externa, tum in pavimento,
exornatum, cuius sublimis Tholus terraemotus vi haud multis abhinc annis concidit,
fuitque simplici suppletus cornice. Septem in hoc templo erecta sunt altaria, sed unum
tantummodo sacris mysteriis ex devotorum cura excolitur dicatum B.M. Virgini titulo
Sacratissimi Rosarii; coetera sunt penitus neglecta. Integer heic prospicitur vas lapideum
praegrande, in quo per immersionem antiquitus baptizabantur infantes... Dolet plurimum
quod templum hoc deterius fiat in dies ob mediorum deficentiam pro illius manutensione.
Legitur in pariete prope maiorem ianuam inscriptio, quae eiusdem ecclesiae
consecrationem memorat, pluribus episcopis assistentibus, peractam sub anno 1021>> 37)
34)
Religioso di buoni costumi, pieno di pietà, obbedienza, umanità e mansuetudine.
Ibid., voll. 251 e 267.
36)
Ibid., voll. 240 e 272.
37)
Una volta collegiata... soppresso poi il capitolo della collegiata, passò per essere venerata dai Minori Conventuali
con annessa abitazione, espulsi i quali per intervento del governo francese, venne assegnata in realtà all’Orfanotrofio
Femminile con la proprietà e i redditi, ben pochi in realtà. E’ un antichissimo e magnifico edificio, ricco di vari marmi e
di opere musive, ma deteriorato dall’ingiuria del tempo, abbellito nella facciata e nel pavimento, la cui sublime cupola
venne abbattuta dalla violenza di un terremoto non molti anni fa, e riparata con una semplice copertura. Attualmente
esistono sette altari, ma uno solo per i sacri misteri, è dedicato a cura dei fedeli, alla Beata Maria Vergine del
Santissimo Rosario: tutto il resto all’interno è abbandonato. Si vede tuttora integra una grandissima vasca di marmo
nella quale in passato si battezzavano i bambini mediante immersione. Dispiace assai che questo tempio si deteriori
sempre più per mancanza di mediatori per la sua manutensione. Sulla parete prossima alla porta maggiore si legge una
iscrizione che rammemoria la consacrazione di questa chiesa con la presenza di molti vescovi, avvenuta nell’anno
1208.
35)
22
Nel 1864 si era corso ai ripari, erano stati incominciati i restauri della chiesa: <<Suscepta
iam fuit instauratio perinsignis templi S. Mariae in Castello, quod pervetustum et olim
cathedrale, denique per Minores Conventuales excultum>> 38) .
Da una relazione del 1753 conosciamo oltre il nome degli altari anche le famiglie alle
quali appartenevano. Ricordiamo solo gli altari: l’altare maggiore, con quattro colonne di
marmo, è dedicato a S. Francesco. Poi l’altare del SS. Sacramento, con la statua della
Madonna con il bambino, vestita di manto ed abito di seta. L’altare di S. Antonio di
Padova. L’altare di S. Agata. L’altare della SS. Concezione. L’altare della SS.ma Annunziata,
l’altare del Crocefisso e quello di S. Omobono. Nella stessa relazione si parla di vari beni
che possedeva il convento 39) . Notiamo che a Corneto la Procura Generale dell’Ordine in S.
Salvatore in Onda possedeva i beni dell’Abbazia di S. Giacomo, dei quali uno dei religiosi di
S. Maria in Castello era amministratore 40) .
Attualmente la chiesa, la visitammo il 23 luglio 1966, è chiusa e per visitarla bisogna
rivolgersi al custode. Il Sig. Giuseppe Volpini, portalettere a riposo e terziario francescano,
che conosceva meravigliosamente la storia di Tarquinia ci venne ad aprire e ci fece da
cicerone. La faccita imponente nella semplicità ha un bellissimo portale con colonnine in
mosaico che fu fatto da Pietro Ranuccio romano nel 1143, come si legge nell’architrave. Sul
portale vi è lo stemma francescano. L’interno è grandioso a tre navate. Nella navata
centrale, in fondo vi è l’altare maggiore, con quattro colonne che sorreggono un padiglione,
come nelle antiche basiliche romane. A sinistra vi è un ambone, che è un gioiello, fatto da
Giovanni Guittone romano nel 1208. A destra entrando vi è una vasca ottagonale che
serviva per il battesimo ad immersione. Il pavimento è cosmatesco e disseminato da circa
150 iscrizioni latine ed etrusche.
La chiesa è stata restaurata, benché i restauri non siano ancora terminati, liberata
da tutta la soprastruttura posteriore e riportata all’originale. Sono stati quindi tolti tutti gli
altari, che erano stati costruiti posteriormente. Del convento resta parte del chiostro con le
camere abitate da privati”.
Da qualche tempo si andava rafforzando l’ipotesi che sotto la chiesa di S. Maria in
Castello dovesse esistere un castello etrusco, come avamposto e scolta dell’antica città
etrusca di Tarquinia, che già aveva edificato, secondo Tito Livio, due castelli di protezione e
38)
Venne intrapresa l’opera di restauro dell’insigne tempio di S. Maria in Castello, antichissimo e una volta cattedrale,
finalmente abbellito per opera dei Minori Conventuali.
39)
Arch. Prov., Busta: Corneto.
40)
Arch. della Prec. Gene. SS. Apostoli, Busta I.
23
difesa, a nord e a est, all’interno del territorio dell’Etruria verso monte, cioé verso la Selva
Cimina, chiamati Cortuosa e Contenebra 41) .
Difatti con un contributo dell’Amministrazione Comunale, la Società Tarquiniense
d’Arte e Storia, ha restaurato il muro di difesa fuori Porta Castello e fatto sgombrare tutte
le piante ed il terriccio e quant’altro si trovava fra la parete settentrionale della chiesa e il
muro castellano. Da questo scavo sono emersi una lastra di nenfro con una iscrizione
etrusca e altri piccoli reperti che sono stati consegnati alla Soprintendenza, nonché un
sarcofago etrusco in macco, debitamente saccheggiato. Dallo scavo, sotto le fondazioni
della Chiesa, e con la presenza di personale specializzato, sono venuti alla luce, oltre a
numerosissimi scheletri umani, anche delle strutture murarie, risalenti ad epoca
villanoviana. Lo scavo venne sospeso in attesa che la Soprintendenza riesca a superare altri
fondi per portare a termine lo scavo.
Nello stesso anno 1989, la nostra Società, grazie anche ai generosi contributi della
Cassa di Risparmio di Civitavecchia, ha voluto ricollocare nelle asole del campanile a vela,
le tre campane mancanti. Dove reperirle? Due vennero ritirate nei magazzini del Museo di
Palazzo Vitelleschi e se ne fece richiesta alla Soprintendenza di Roma che non mancò di
accogliere la nostra domanda; la terza ci fu donata dalla stessa Cassa di Risparmio che la
teneva in deposito nei suoi magazzini.
Le tre campane vennero ritirate e ne fu eseguito il restauro, prima che venissero
poste in sito, provvedendo altresì, con la Ditta Lucenti di Roma, a dotarle di un sistema di
elettrificazione. Abbiamo trascritto ciò che si legge attorno ad esse. La prima, la più
piccola, pesa Kg. 80 e porta la seguente iscrizione latina che si traduce per comodità del
lettore:
“Questa campana con animo spontaneo (venne fusa) in onore a Dio e per la
liberazione della patria”. Pare che fosse stata rimossa in passato e depositata nei magazzini
del Palazzo Vitelleschi per il timore che venisse rubata.
La seconda campana pesa Kg. 240 e porta la seguente iscrizione:
“Questa scampana della beata Vergine Maria del Suffragio è dedicata dai confratelli
della Società alle anime dei fedeli defunti, condannati alle fiamme espiatrici.
I Soci viterbesi Valentino Belli e Giacinto Scacciaricci fusero felicemente questo
bronzo a gloria di Dio santissimo. Anno del Signore 1766”.
La terza campana era situata nella chiesa dell’Immacolata di Civitavecchia, passata
poi in deposito alla Cassa di Risparmio di Civitavecchia che ne aveva donata una nuova alla
41)
Vedi Bollettino della S.T.A.S. dell’anno 1979, pagg. 9-25 - G. Claudio Traversi - TARQUINIA - Anno 1985.
24
chiesa suddetta; e da questa, donata al nostro Sodalizio. Essa pesa Kg. 280 e porta la
seguente iscrizione:
“Al beato Francesco di Assisi, 1891, (fusa) a cura e con le elemosine dei fedeli.
Fonderia Bastanzetti - Arezzo - Udine”.
Le tre campane vennero collocate nel campanile a vela della Chiesa di S. Maria in
Castello il giorno 31 luglio 1989, a cura e spese della Società Tarquiniense d’Arte e Storia.
Nella cerimonia inaugurale venne collocata una lapide in marmo a fianco della cinta
muraria interna, nel piazzale della chiesa, a ricordo e a memoria dei posteri: mentre
all’interno venne eseguito un grande concerto sinfonico e vocale alla presenza del cardinale
Sergio Guerri, del Presidente della Cassa di Risparmio, dott. Vittorio Enrico Tito, delle
maggiori autorità del paese, dei consiglieri della S.T.A.S. e di molto pubblico.
25
VINCENZO CARDARELLI
LA PROSA DEI “PROLOGHI”
I Prologhi si aprono con i Dati biografici che costituiscono la presentazione dell’autore e
della propria arte e mettono subito in campo la persona morale del protagonista che
domina con la prepotenza dell’io ogni pagina della sua opera.
Questo creatore si attribuisce subito una dote eccessiva, definendosi dall’inizio
come una persona con qualcosa in più, con un eccesso di energia.
La litote successiva (non ho mai potuto compiere un atto che non fosse ostacolato
da un’immancabile contrarietà) è la prima di una lunga serie di espressioni negative che si
accumulano con frequenza impressionante in tutto il testo, negazione rafforzata in questo
caso dall’aggettivo mancabile. Solo in questa pagina troviamo questa costruzione altre due
volte:
“Non sono vittorioso che in certe fulminee ricapitolazioni.
La mia lirica... non suppone che sintesi”.
La litote, come negazione che si annulla e come affermazione derivabile dal suo
contrario, indica, nell’uso che ne fa Cardarelli, un marcato esclusivismo, cioè
un’affermazione netta di ciò che è espresso e una negazione o esclusione categorica di tutto
ciò che non lo è.
“All’innocenza ci son dovuto arrivare. Mi sono sempre alzato da una disfatta. La
mia fiducia di creatore sta nei molti e profondi errori che ho da riparare”.
La prima affermazione, fatta da Cardarelli come per scuotere il lettore con la
dissonanza creata dal dichiarare che lui non parte ma arriva all’innocenza, crea uno di quei
26
contrasti che ci induce a riflettere su quel che leggiamo e provoca uno stridore che tiene
sveglia la nostra attenzione.
Questa volontà di raggiungere l’innocenza può far pensare all’aspirazione
dell’autore allo stile, al possesso pieno della parola purificata dagli eccessi e dagli
sperimentalismi giovanili. Ma forse, in sintonia con quell’itinerario interiore tracciato nei
Prologhi, l’aspirazione è verso la verità, la certezza, la presa di coscienza e di possesso di sè,
conquistata attraverso continue cadute: cadute dolorose ma feconde, perché da esse egli si
è sempre alzato e perché gli hanno miracolosamente aperta la strada alla creatività.
Dunque la sua sicurezza, la sua fiducia di creatore egli l’ha conquistata
faticosamente percorrendo fino in fondo un cammino irto di difficoltà e ostacoli, tramite
l’esperienza del mondo e dei suoi errori. Questa partenza dal negativo, il fatto di averlo
affrontato totalmente, gli dà la certezza di vincere e il suo atteggiamento da vincente è
ribadito da una scrittura verticale, dove l’io è al vertice e il resto sotto di lui, dove l’io
domina e filtra la realtà disponendola nei suoi schemi.
Anche la struttura del periodo risponde a delle precise esigenze dell’autore. Le frasi
brevi sono incastrate in versi più lunghi e articolati e se nelle prime il ritmo si fa più veloce
e incalzante, nei secondi si allenta e si distende. Questo serve a dare il massimo di incisività
a quelle affermazioni centrali che assomigliano in questo modo a delle massime, a delle
sentenze, e alle quali Cardarelli affida maggior ricchezza di significati, il nucleo del suo
discorso.
“La mia forza è quando mi ripiego. La mia massima musicalità quando mi
giustifico. Non sono vittorioso che in certe fulminee ricapitolazioni”.
Ed ecco altri tre esempi di frasi brevi, veloci e pregnanti a cui ora l’autore dà anche
un nome; le chiama fulminee ricapitolazioni e rappresentano il fulcro di questa sua
dichiarazione poetica.
La coscienza esasperata dell’io di Cardarelli, come l’ha definita Gargiulo 1) , il suo
atteggiamento superomistico è qui messo in evidenza, oltre che dalle dichiarazioni di forza
e di vittoria, dall’uso continuo della prima persona e dal ripetuto impiego di aggettivi
possessivi e pronomi riflessivi.
Anche la presenza di verbi come ripiegarsi e giustificarsi, che potrebbero suggerire
un Cardarelli in un tono più dimesso, sono da lui usati con un significato particolare.
Ripiegarsi non nel senso di arrendersi, cedere, ma in quello figurato di ri-piegare in sè, di
volgersi di nuovo al proprio io dopo aver osservato la realtà esterna, per filtrarla,
27
analizzarla e tirarci fuori dei significati. Anche quando si giustifica non vuole né scusarsi,
né discolparsi per ciò che dice ma dimostrare che le sue affermazioni sono giuste, sono
verità indiscutibili.
Nel fare ciò gli argomenti che porta danno musicalità e a questo concetto già
definito (perché un’espressione o è musicale, o non lo è) egli aggiunge l’aggettivo massima
attribuendo così a sé il superlativo della grandezza e sottolineando ancora una volta quanta
più risonanza hanno le sue parole rispetto a quelle degli altri.
La terza affermazione non fa che riconfermare l’atteggiamento costante di
Cardarelli; lui si sente appunto vittorioso e usa la litote proprio per dar risalto a questo
aggettivo. Vittorioso soprattutto nelle fulminee ricapitolazioni che, abbiamo detto,
costituiscono il nucleo del suo processo conoscitivo; egli ricapitola, cioè riassume,
ripercorre le varie fasi, poi tira le fila del discorso e raggiunge il significato in sintesi
rapidissime, fulminee appunto.
“E dipende soltanto dai significati che son capace d’inventare dalle conseguenze
che ho il coraggio di riconoscere, che la mia vita non sia un ammasso orrendo di
combinazioni”.
Questi significati lui li ricava, come abbiamo visto, non li trova pronti, li inventa
perché ne ha la capacità, ne parla e se ne assume la responsabilità perché ha coraggio. Con
questo ribadisce la sua unicità, il suo valore e la sua abilità nel tirar fuori dagli elementi
casuali, caotici e disordinati delle esperienze della sua vita qualcosa che abbia un senso, nel
combinare questi elementi in modo da originare quelle conoscenze contenute nelle
fulminee ricapitolazioni.
A questo punto Cardarelli enuncia la teorizzazione del limite come principio di
conoscenza:
“Il segreto delle mie conoscenze è l’insoddisfazione. Di ogni cosa vedo l’ombra in
cui culmina. Affermo il limite, principio dalla negazione: la realtà è l’eterno sottinteso.”
L’insoddisfazione diventa il fattore dinamico della conoscenza. E’ l’insoddisfazione
per ciò che ha già scoperto che lo porta a cercare ancora, e non perché le conoscenze già
ottenute non siano valide, ma perché la luce che l’autore ha gettato sulla realtà grazie ad
esse proietta più in là una zona d’ombra che lo incuriosisce.
Ogni cosa culmina in un’ombra perché questa per l’autore è la parte più alta, più
importante ed anche quella più difficile da raggiungere come lo è la cima di una montagna.
1)
Alfredo Gargiulo, “Vincenzo Cardarelli”, in Letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1958, p. 435.
28
La realtà tutta è un insieme di conoscenze (luce) e di mistero (ombra), una serie di dati
raccolti e definiti a cui bisogna però sempre aggiungere un’incognita, l’eterno sottinteso, la
zona d’ombra, il non-conosciuto.
E se questo vale come principio fondamentale per il processo conoscitivo di
Cardarelli è anche un avvertimento per il suo lettore a far attenzione al non-detto, al
significato nascosto degli enunciati.
Cardarelli afferma il limite nel senso che lo fissa, lo pone come dato
imprescindibile. Parte dal negativo (dall’insoddisfazione, dall’ombra, dalla disfatta) e lo
esalta perché non lo considera l’esatto e l’astratto opposto della verità, ma la strada per
arrivare ad essa.
E’ interessante notare l’uso del verbo principiare invece dei più comuni iniziare o
cominciare, dovuto forse alla volontà dell’autore di dar risalto al ruolo attivo di creatore
che lui assume in questo processo (in latino, infatti, principiare deriva da prior, primus,
princeps).
“Gli uomini che tengono un poco alla mia compagnia bisogna che si preparino a
lasciarsi annullare. Io divoro i fatti”.
Egli annulla gli uomini nello stesso senso in cui divora i fatti: il divorare non
implica l’idea di distruzione totale, ma quella di trasformazione e di assimilazione.
“La mia lirica (attenti alle pause e alle distanze) non suppone che sintesi”.
L’avvertimento tra le parentesi è stavolta diretto in modo esplicito al lettore per
richiamarlo sul significato dello spazio bianco che sembra ricordare il rischio incessante
del silenzio, ma soprattutto perché non sottovaluti l’importanza delle pause e dei ritmi più
o meno veloci nella sua prosa spezzata e metallica.
La conclusione dei Dati biografici offre la chiave di lettura per l’intero volume:
Cardarelli dichiara di dare in questi scritti solo immagini folgoranti e concentrate, le
illuminazioni finali dei suoi pensieri e non l’intero procedimento attraverso il quale le ha
elaborate. In queste sintesi egli offrirà il massimo della concentrazione e del rigore
espressivo e le darà come essenza, in senso metafisico.
“Luce senza colore, esistenze senza attributo, inni senza interiezione, impassibilità
e lontananza, ordini e non figure, ecco quel che vi posso dare”.
La sintesi in quanto assoluta è di per sé autosufficiente e completa, così come la luce
vera non ha bisogno dei colori che creino il contrasto necessario a farla vedere, l’esistenza
29
non ha bisogno di attributi che la qualifichino e come l’inno non ha bisogno di interiezioni
che ne mettano in risalto la solennità.
Egli ci dà ordini e non figure nel senso che ci offre la struttura e non gli elementi che
l’hanno composta, il culmine del percorso e non gli accidenti che ha dovuto affrontare, la
parola poetica già purificata e non il diario interno del suo supplizio. Egli esige
impassibilità e lontananza dalla sua lirica perché solo il distacco dalle esperienze rende
possibile la vittoria delle ricapitolazioni e respinge così la forte moralità e la tensione
vociana.
Le ultime parole di questa pagina (ecco quel che vi posso dare) contengono
l’ennesima dichiarazione della sua grandezza di autore e un’ulteriore conferma del
sentimento mitico della propria eccezione. Esse non indicano una carenza di risultati anzi,
al contrario, visto che la realtà è piena di zone d’ombra ed è inconoscibile nella sua
interezza, le sue verità offrono molto e comunque sicuramente di più di quanto possano
offrire gli altri autori.
I temi trattati da Cardarelli nei Dati biografici sono sviluppati e ripresi in tutte le
altre pagine del libro, ripetuti ossessivamente in una prosa lapidaria, pausata tra un
capoverso e l’altro, che l’autore usa per dimostrare la ferma convinzione nei suoi
proponimenti e nei suoi ragionamenti stringenti, energici e precisi.
Sentiamo viva all’interno di quest’opera la personalità dell’autore, tanto che sembra
siano la forza, la capacità risolutiva, la tensione, il vigore polemico del suo carattere a dare
il ritmo e il tono alla sua prosa.
Infatti, come ha già notato Mario Luzi in un saggio che analizza i rapporti tra la vita
psicologica e l’opera del poeta 2) , nel nostro autore l’attività letteraria ha avuto origine
come esercizio indispensabile della sua personalità. E sono proprio la personalità di
Cardarelli e le riflessioni sulla propria arte le protagoniste incontrastate di Prologhi, un
libro che potremmo analizzare come una sorta di glorioso autoritratto.
Per prima cosa vediamo ribaditi con perentorietà e sicurezza gli atteggiamenti
superumani di uomo d’eccezione:
“Io sono un uomo forte. Se penso che ho potuto aver paura di qualcuno, piegarmi a
qualche intimidazione! Se penso che a me, che non mi son mai fatto indicare una strada...
ha potuto farmi paura la vita!”.
30
Si sente superiore a tal punto da rifiutare le vittorie ottenute con troppa facilità e il
riconoscimento palese del suo valore:
“io non ero uomo da potermi prendere soddisfazioni volgari... Ho persino difficoltà
a compiacermi, anche silenziosamente, se un fatto viene a dimostrare quanto le mie
opinioni fossero indovine. Non mi piace che la realtà sia con me”.
“La rivelazione della mia potenza mi turba e mi corrompe. La lode mi contraria e
mi disinganna”.
Nella polemica con gli altri la sua voce mantiene questo timbro d’eroismo
accompagnato da una buona dose di aggressività e di presunzione:
“Io so in coscienza di aver fatto tutto per voi... Io mi posso vantare d’aver sempre
saputo bene dove sarei riuscito più doloros quando vi battevo; voi no”.
“Non vi fidate di me. Non avrò pietà del vostro affetto. Io non ho nessuna ragione
di rispettare un uomo soltanto perché l’ho conosciuto... vi presenterò dei conti che non
immaginate. Vi ricorderò dei particolari da meravigliarvi come io abbia potuto notarli...
Le mie ultime parole saranno tempestate di verità. - Avreste per caso la forza di resistere
ancora?”
E vede gli altri come esseri mediocri che sono costretti ad assistere alla sua
grandezza e lo odiano per questo:
“quello che meno ci riuscì di tollerare in lui era la sua presenza...
Non gli potevamo perdonare di averci messo in questa infelice condizione di spettatori
della sua esistenza... Che proprio noi ci fossimo trovati ad essere i contemporanei di
qualcuno!”.
“troppe velleità inconsolabili si sentono offese quando io mi esprimo”.
La celebrazione di se stesso e l’affermazione della sua superiorità è accompagnata
dalla ripetizione continua del calvario sofferto, delle esperienze negative che hanno
scandito le fasi della sua vita. Il male affrontato e sconfitto gli ha dato questa posizione di
forza:
“Ho esplorato tutti i mali”, “ho sempre dormito nei disagi”, “Mi appoggio ai miei
errori”, “Ho fatto più esperienze che non ne avessi obbligo e intenzione, “ho ecceduto nella
2)
Mario Luzi, “La personalità e la poesia in Cardarelli”, in L’inferno e il limbo, Firenze, Casa editrice Marzocco, 1949,
31
carne fino all’ironia... so cosa vuol dire far esperienza d’una tentazione e liberarsi dal
male a prezzo di tante cadute”.
Il rapporto con gli altri è ostacolato da questa sua diversità. E quando egli ha
provato a superare questa difficoltà e a costruire un legame più profondo con i suoi simili,
non ha ottenuto che delusione e dolore. La sua fede nell’amicizia era in contrasto con gli
interessi degli altri (“E quelli che mi hanno toccato non s’erano lavate le mani e le
intenzioni”, “E’ stato un matrimonio d’interesse”), che non hanno mai veramente
compreso le sue più acute intuizioni (“L’uomo s’accorge presto.... di dover sostenere le sue
verità suscettibili e delicate in mezzo a ben sordide compagnie”), che gli hanno fatto del
male senza nemmeno accorgersene (“Le ferite più stridenti me le avete fatte senza
saperlo”) e che lo hanno costretto ad annullarsi per essere accettato (“Mi son tradito, mi
son dimenticato... Mi son smarrito nelle vostre parole, umiliato nelle nostre virtù. Mi son
disprezzato nel vostro potere”, “ho preferito coprirmi d’ombra”).
L’accusa che Cardarelli con più frequenza lancia agli uomini è di essere indifferenti
nei suoi confronti:
“il loro amore non era senza indifferenze profonde e disumane”,”Voi non vi siete
mai curati di me; neppure per assestarmi un bel colpo”.
La cosa che non tollera è la loro reticenza, la mancanza di una presa di posizione.
Lui che con coraggio si è sempre e comunque schierato, ha dato giudizi, ha pagato le
conseguenze di ogni affermazione fatta assumendone la paternità, si trova circondato da
troppa vigliaccheria:
“Se oggi ritornasse Gesù Cristo, credete che si troverebbe almeno un Giuda
disposto ad impiccarsi per lui? - Tutt’al più qualche Ponzio Pilato, che era romano e uomo
d’ordine, e indifferente alle epoche quanto alle opinioni”. “Giudizi oculati, adesioni
ristrette, inviti ad assuefarsi, aspettative senza brivido dei camerati: ecco quel che si
trova”. “Dove troverò un canto fermo, un uomo che mi faccia l’onore di non mentire?”
Egli esige almeno una negazione, preferisce essere negato piuttosto che ignorato
(“spesso la semplice constatazione è il peggiore giudizio che si possa fare d’un uomo”). La
solitudine e l’orgoglio, due caratteristiche negative, almeno quelle chiede gli siano
riconosciute come fatti reali.
p. 88.
32
All’impossibilità dello scambio sociale, alle contraddizioni della comunicazione
interpersonale (“la verità è quella che non riusciamo a dire”, “io non so conversare”, “La
parola scorre come un polline che ciascuno riceve secondo il suo impulso generatore. Il
linguaggio degli uomini più comprensivi è sempre stato quanto di più allusivo e favoloso
si possa immaginare”) l’unico sbocco sembra essere la solitudine.
“E’ dunque scritto che io me ne debba star solo”, “non me lo impedirete... che io mi
riduca ogni volta sempre più silenziosamente in me stesso”, “La sua periodica necessità di
nascondersi... quella sua maniera perfida di star lontano... la sua orgogliosa infelicità nei
contatti”.
L’immagine è quella di Narciso che, condannato alla solitudine e nell’attesa della
morte, si ripiega e discorre con se stesso. L’isolamento è orgogliosamente esibito e difeso
da Cardarelli il quale, d’ora in poi, non tollererà dagli altri che rare apparizioni e fuggevoli
presenze:
“L’amore non ammetto ormai più che mi si dichiari... Mi piace la simpatia che
arrossisce di sé e scappa borbottando. Gradisco le attestazioni presupposte e dimenticate.
Non tollero che rare apparenze”. “ho... accostato il mio simile... rompendo a tempo la
consuetudine e sapendomi guardare dalle intimità che mortificano tutto quel che ci può
essere di straordinario in una relazione”.
Egli soffre tanto per questi travagliati rapporti che gli diventa necessario troncare
ogni legame con il prossimo e allontanarsi dal mondo:
“ora bisogna che ci separiamo”, “Me ne andrò... Non scriverò e non riceverò più
lettere da nessuno”, “Non c’è amore che non riconosca l’inevitabilità di certi abbandoni”,
“Siamo noi che dobbiamo capire. Toccate certe verità, all’uomo non rimane che prendere,
in silenzio e da buon traditore, la decisione che più gli conviene. La mia è sempre quella.
Partire”.
La solitudine gli è indispensabile anche per adempiere alla sua missione di creatore.
La sua moralità consiste infatti nell’assolvere il compito che si è assunto, nell’obbedire a
quel comando che si è dettato. Come per i simbolisti, per Cardarelli il poeta è un veggente,
le cui visioni logiche, che paiono un momentaneo effetto della nostra ottica mentale...
sono invece il nostro reale domani che si annunzia.
Queste visioni logiche (che se da una parte fanno pensare a delle rivelazioni
incontrollabili, a delle illuminazioni percepite sensorialmente, dall’altro aggettivo logiche
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le definisce come cose razionali a cui si arriva con procedimenti ordinati) diventano delle
previsioni, annunciano la realtà futura. E il poeta deve rendersi conto dell’enorme
responsabilità che si è assunto con l’esprimere le sue visioni logiche, perché le parole si
combinano, prendono vita propria e ad un certo punto diventano atti, si realizzano.
“Guai a scordarsi delle proprie parole. Quello che ci si è presentato una volta come
una candida invenzione della fantasia, tornerà a presentarcisi immancabilmente nella
forma dolorosa d’un fatto da accettare. Guai a non averci pensato. L’uomo non è un
mago, e i sistemi ch’egli suscita non sono spettacoli che si contentano di finire”.
“Le parole vogliono farsi atto. Gli scrupoli non possono trattenere la realtà dal
divenire”.
La parola perde il carattere di candida invenzione, la forma con cui la si è usata
inizialmente, per assumere quella dolorosa nel futuro. Essa quindi non può essere
adoperata per giuoco, ma impegna totalmente lo scrittore che deve assumerla come fatto
etico:
“Bisogna stare attenti a discorrere. Ogni affermazione è un giuramento che
facciamo, un impegno d’onore che ci accolliamo. Le parole non si dicono, si dànno. Si
procede da quel che si è detto. In principio erat verbum. La vita d’un uomo può essere più
o meno grave secondo che egli si sia più o meno permesso di parlare”.
La consapevolezza dell’impegno che l’atto della parola comporta, la parola come
gesto e che si identifica con il fatto: concetti che stabiliscono certamente una relazione tra
Cardarelli e movimento vociano. Ma non possiamo limitare ad un generico appello
moralistico quello che appare invece come una professione di fede nella forza attiva della
parola 3) . Essa diventa per il nostro autore l’atto istitutivo di qualsiasi processo e, con
questa rivalutazione prioritaria della parola, egli capovolge il principio realistico per il
quale prima c’è la cosa che poi viene definita dal linguaggio. La letteratura diventa
struttura.
C’è qualcosa di diverso in Cardarelli rispetto al vocianesimo, qualcosa che ci fa
intravedere il futuro rondista: c’è il valore oggettuale e insostituibile della parola, un valore
sacro e irriducibile che non ammette abusi e che costringe il discorso ad essere esecuzione
ed obbedienza ad essa. E’ la certezza della parola che definisce il limite:
“Se c’è una cosa ch’io rispetti è il limite. Se c’è una cosa ch’io non conosca è il
limite”.
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L’aspirazione all’esattezza definitoria, alla compostezza e al possesso completo del
linguaggio gli impone dei limiti e lo porta a rifiutare le salienze espressive e l’esposizione
violenta delle poetiche moderne che questo limite invece ignoravano: infatti mentre
futuristi e vociani operavano per una rottura del linguaggio, lui propone il ritorno ad un
classico equilibrio.
Ma la seconda affermazione rimette subito in discussione quello che poco prima
aveva assertito con una forte pronuncia di verità. Atteggiamento tipico in Cardarelli che,
nel momento in cui afferma perentoriamente una cosa, per cui si ha quasi l’impressione
che l’abbia scolpita nel marmo, immediatamente la rimette in dubbio.
Il limite per lui, invece di essere un confine di ciò che non può essere superato,
diventa uno spazio, un’apertura nuova. Egli sembra fissare dei limiti solo per provocarli
continuamente, come dice lui stesso: carattere tipico degli scrittori di questo secolo e segno
della modernità di Cardarelli, autore che mentre mette in evidenza alcuni segni molto netti
e verticali lascia dietro un immenso territorio che bisogna esplorare.
Ritornando al limite linguistico che egli si era proposto, vediamo che l’aspirazione
ad una scrittura razionale viene ostacolata da elementi di irrazionalità che si inseriscono
nell’organizzazione formale della sua prosa (e per questo contrasto quando Cardarelli parla
di pazzi logici sembra alludere a se stesso). Il suo impulso e la sua passione non conoscono
limite e ciò che ha da dire ha bisogno qualche volta di essere urlato.
Rappresenta una trasgressione al limite la fisicità di espressioni come questa, la
brutalità dell’immagine che essa richiama:
“Ci sono giorni che lo sforzo della vita mi sradica alle gengive”.
E d’altra parte è la parola stessa a contenere l’elemento di irrazionalità che
contraddice la sua certezza e rende impossibile un uso preciso e un dominio completo di
essa. Anche la parola, come la realtà, ha la sua zona d’ombra, il suo corrispettivo taciuto, il
sottinteso:
“le parole, se hanno qualche valore, è solo in virtù dei loro sottintesi”.
3)
Bice Mortara Garavelli, “L’articolazione interna del discorso di Cardarelli”, in Atti delle giornate di studio su
Vincenzo Cardarelli, Tarquinia 25-27 settembre 1981, pp. 3-4.
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Questa impossibiltà di dominio completo della materia, l’oscura sofferenza del
limite sconosciuto e insieme trasgredito, la mancanza di certezza e il senso del dubbio in
Cardarelli, sempre teso verso la verità e che fa delle affermazioni il punto d’arrivo della sua
poetica, provocano a volte uno stato di disperazione totale.
“Teso sul letto, sospeso e quasi inesistente, oscillo come un ago calamitato”.
Lui di solito così verticale è ora in una posizione orizzontale (teso sul letto), lui di
solito impetuoso e sicuro di sé ora si sente sospeso e inesistente, un ago calamitato in una
tempesta magnetica.
L’inerzia a cui si abbandona è vissuta come malattia e resa e i momenti di pausa
(Pausa è anche il titolo di una prosa che descrive appunto la sofferenza causata all’autore
dal senso di sconfitta che lo fa astenere dalla lotta) li definisce angosce letargiche che
rappresentano per lui veri anticipi di morte, durante i quali diventa predominante la
tendenza a tacere e incombe su di lui la minaccia del silenzio.
“Bisogna che io non oda, non veda, non esista più. Una tremenda impossibilità mi
accompagna”.
Ma il tacere non è l’approdo ultimo di quest’opera, caratterizzata invece dallo sforzo
continuo dell’autore per vincere il silenzio. Prologhi vive del dramma e della tensione del
poeta alle prese con le proprie contraddizioni, dell’urto fra disperazione e speranza e della
tormentata avventura del suo personaggio che, come un eroe, perdendo le singole battaglie
prepara la vittoria finale.
E gli ultimi due testi del libro, Saggezza e Silenzio della creazione, probabilmente
fra gli ultimi anche in ordine di composizione, sembrano proprio suggerire una
conclusione ed aprire una prospettiva positiva. Il titolo della prosa Saggezza ci riporta ad
un atteggiamento peculiare del Cardarelli dei Prologhi, quello del maestro impegnato a
scandire le sue sentenze e le sue definizioni, e se questo atteggiamento rimane, cambia
però il soggetto delle sue affermazioni che non è più l’io ma il noi. Egli non parla più di sé
ma dell’uomo e in questo tentativo di innalzare il privato ad assoluto, in questa volontà
d’astrazione e di leggi universali, Cardarelli assomiglia di più al nicciano Zarathustra,
spinto verso il divenire e non più ripiegato sulle angosce e sulle sofferenze del passato, la
cui grandezza non sta solo nel conoscere ma soprattutto nell’effetto della sua conoscenza
sugli uomini.
Inoltre, come un vero saggio, lo scrittore nelle due prose conclusive sembra volersi
liberare da ogni sicurezza immanente e aprirsi al dubbio, accettare l’esistenza delle
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contraddizioni ed il consumarsi della nostra vita in mezzo ad esse. Le stesse affermazioni,
punti saldi della sua poetica, paiono messe in discussione perché se parlare è compiere
un’infrazione, allora nelle affermazioni, dove si arriva a delle apparenti certezze, la
trasgressione sarà ancora più grande (quel che si conosce è che c’è qualcosa d’intollerabile
in tutte le affermazioni); e infatti gli uomini più comprensivi, quelli che hanno capito di
più, parlano in maniera allusiva e non per affermazioni.
Cardarelli riconosce inoltre il suo destino di passione, la presenza continua nelle sue
sentenze di quella passione che aveva dichiarato nei Dati biografici voler annullare e
respingere dalla sua lirica e prende coscienza della propria imperdonabile superfluità e
inutilità.
Neanche l’opera può consolare l’autore perché essa, una volta conclusa, appartiene a
se stessa e la sua sopravvivenza presuppone la scomparsa del poeta al quale oramai non
rimane che assiste in silenzio alla sua performance:
“Esprimere è restituirsi. L’opera che esce dalle nostre mani segue un suo destino.
Giudicarlo non ci appartiene. Non hanno valore, del resto, se non le opere e le azioni
dimenticate. Come è vero che la grandezza di un’offerta si può giudicare dalla facoltà di
distacco e di oblio che è nel donatore. L’eterno silenzio succede all’estrema donazione”.
Alla consapevolezza di questo irrimediabile destino egli non reagisce con la
rassegnazione ma propone qualcosa di più:
“Distrutti gl’idoli e smesso di chiederci le ragioni; abbandonata in un’esperienza
indiscutibilmente amara ogni innocenza carnale; restituito alle antipatie il loro diritto,
esaurite le impossibilità, provocati tutti i limiti; pieni d’ironia verso ogni promessa,
diffidenti contro ogni suggestione: coscienza, implacabilità, resistenza - tutte queste alla
fine non sono che superbe e necessarie premesse, ben lungi dall’escludere una dominante
fiducia nell’avvenire”.
Con uno scarto della volontà Cardarelli supera il dramma e si proietta nel futuro. E
nell’interpretare la conclusione del libro come promessa di un superamento, concordiamo
con Adele Dei, secondo la quale i “Prologhi”, compiuto un percorso ristretto ma intenso,
sperimentata la fecondità delle plurime negazioni, si chiudono con un dissimulato scarto
positivo, che giustifica allora la spinta in avanti del titolo, apre a un “dopo” oltre i rifiuti e
gli addii... Le negazioni, assaporate all’estremo con irritante insistenza, si identificano
37
allora con le premesse - i “prologhi” appunto - di un futuro diverso ma conseguente, che
non si può alla fine non attendere con disincantata speranza 4) .
A questo punto, per evidenziare la peculiarità di un’opera come Prologhi nell’ambito
della produzione cardarelliana, ci sembra opportuno analizzare l’atteggiamento dell’autore
nei confronti del suo primo libro. Esso emerge chiaramente in un tardo intervento dello
scrittore sulla rivista “Rotosei” del 16 maggio 1958 5) , dove sono ribadite la validità della
svolta stilistica compiuta dopo Prologhi e la necessità del distacco dall’intellettualismo
iniziale:
“Ancor oggi si discute se il meglio di quanto ho scritto sia rappresentato da quel
primo, mitico volume, o dalle mie opere successive. Chi è rimasto attaccato ad una
visione complicata e artificiosa dell’arte, parteggia per Prologhi senza esitazione, ma io
non sono dello stesso parere. In questo senso posso dire che quel primo successo contribuì
a chiarirmi le idee, e mi aiutò a capire che in arte il vero progresso non ha direzioni
intellettualistiche, ma consiste nell’aderire sempre più alla pratica, al quotidiano, alla
realtà oggettiva. Un paesaggio in effetti è più importante del pensiero. Così, dopo
Prologhi, compresi che dovevo distruggere quanto vi era in me di cerebrale, e
distaccarmene subito anche se ciò significava sforzo, fatica e lotta contro le proprie
abitudini spirituali”.
Si capisce la preoccupazione di Cardarelli di trovarsi imprigionato dentro il volume
di esordio. Per lui, nel ‘58, essere solo l’autore di Prologhi è meno di niente. Quel giudizio
che esalta la sua prima opera tende ad annullare le successive, le quali poi sono quelle che
più gli interessano, quelle a cui lo scrittore crede di aver consegnato l’immagine di un
autore originale, unico e inimitabile.
Da tale punto di vista si capisce meglio la polemica contro Prologhi, relegato dentro
una visione complicata e artificiosa dell’arte, dove i due aggettivi complicata e artificiosa
stanno proprio a rappresentare quell’arte moderna che si era cercata una propria
fisionomia da contrapporre all’arte classica. Quel mitico volume agli occhi del neoclassico
appare come una resa al nemico.
Non gli potevano più piacere la temperatura, il forte cromatismo, l’esasperato
individualismo, le violenze di una soggettività, magari in catene, ma urlante. Cardarelli
cioè rinnega Prologhi in nome di tutta la sua storia successiva, non essendo fra l’altro il
tipo da ammettere che in lui ci possano essere due poeti diversi.
4)
Adele Dei, “Cadute e resurrezioni nei “Prologhi” cardarelliani del 1916”, in Atti delle giornate di studio su Vincenzao
Cardarelli, Tarquinia, 25-27 settembre 1981, pp. 11-2.
5)
ora nell’ “Introduzione” di Clelia Martignoni, in Vincenzo Cardarelli, Opere, Milano, Mondadori, 1987, p. XXXIV.
38
Contro il dongiovannismo degli sperimentali egli sa che ad un poeta viene assegnata
in sposa una sola forma: il resto è libertinaggio e non può essere fecondo. E’ come se
Cardarelli rinnegasse un figlio illegittimo. Non avrebbe mai tollerato di essere ricordato
come un prosatore espressionista, quale appare nell’opera dell’esordio.
Tuttavia a questo punto, senza sottovalutare ma anzi con la massima considerazione
per il lirico e per il prosatore degli anni successivi, Prologhi risulta segnato vittoriosamente
dal linguaggio che all’inizio del Novecento sembra aver avuto una delega di rappresentanza
culturale dell’epoca. Erano a loro modo e in modo diverso espressionisti, per testimonianza
di Debenedetti, Pirandello e Tozzi nonché Gadda e, magari contro l’opinione dello stesso
Debenedetti, scrittori formatisi dentro “La Voce” come Savinio, Jahier, Rebora. Con
qualche forzatura potremmo dire che anche Prologhi è l’opera di un espressionista e pare
destinato a tenere compagnia alle poesie, quando si dovessero indicare le opere migliori
dello scrittore di Tarquinia.
Malgrado il suo parere contrario, potremmo ipotizzare una specie di percorso
carsico dell’opera prima di Cardarelli. Alcuni suoi ingredienti ideologici e formali
riaffiorano successivamente e vanno ad irrigare l’attività del poeta, specialmente quello del
tempo vociano, e straripano nel polemista culturale e letterario del saggista e del critico.
Roberta Ciurluini
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SPORT, GIOCHI, MUSICA E DANZA NELL TOMBE ETRUSCHE DI
TARQUINIA.
Il popolo etrusco, che si mostra estremamente versatile nelle varie manifestazioni
della sua civiltà, manifesta nei molti reperti giunti sino a noi, un notevole interesse per lo
sport, i giochi, la danza e la musica.
Questo, però, non deve meravigliare in quanto, se noi ricerchiamo attentamente,
possiamo vedere come, in particolar modo, quella attività che oggi indichiamo come
sportiva, sia stata presente anche nei popoli dell’Asia Minore e del bacino del Mediterraneo
sin dal 3000 a.C.. Testimonianze sono state ritrovate tra i resti della civiltà sumera,
babilonese, egizia, cretese ecc.
Le prime prove sicure di questo interesse da parte degli Etruschi, ci presentano
figure di guerrieri muscolosi, che possiamo considerare come “sportivi”, perché per
diventare guerrieri bisognava raggiungere un certo tipo fisico, che era possibile avere solo
dopo una lunga serie di esercizi atletici per sviluppare nel modo giusto la muscolatura.
Tali figure sono sia a piedi (stele funeraria di Avile Feluska, ritrovata a Vetulonia e
ora nel Museo Archeologico di Firenze, nella quale è possibile vedere un guerriero dal
grande torace e dalle gambe tozze e muscolose), che a cavallo di animali fantastici (askos
della Tomba Benucci I-Bologna).
Nei reperti dell’VIII secolo si hanno raffigurazioni sempre a carattere bellicoso, forse
perché è il tempo in cui gli Etruschi stanno spandendosi tanto sul mare che sulla
terraferma. La figura del guerriero è perciò estremamente attuale.
Verso il VII sec. a.C. comincia a manifestarsi l’amore per l’attività ludica quindi non
si hanno più rappresentazioni solo a carattere bellicoso e forse, si possono considerare tra
le prime immagini di scene di caccia, quelle della “Tazza d’Argento Dorato” (metà VII
sec.a.C.) ritrovata nella Tomba Bernardini a Preneste. E’ possibile infatti seguire, negli
ornamenti di questa “Tazza”, tanto un inseguimento di cavalli ed uccelli, quanto alcuni
momenti di una battuta di caccia del principe Cinira.
Durante il periodo che va dalla fine del VII sec. a.C. alla fine del VI sec. a.C., poi, c’è
la massima espressione della civiltà etrusca, ed è quindi logico che, in questo momento di
progresso economico, ci sia un cambiamento anche nelle abitudini. Poco alla volta,
l’attività fisica passa dall’essere essenzialmente propedeutica alle arti belliche, ad un tipo di
attività per diletto proprio e degli altri (spettatori).
Da quanto ci ha tramandato Tito Livio, sappiamo che in occasione delle cerimonie
per la fine dell’anno, presso il Fanum Voltumnae (la cui collocazione è ancora incerta), si
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svolgevano i cosiddetti “Giochi Panetruschi”, che avevano inizio con l’atto di piantare un
chiodo sul Sacrario di Norchia da parte del sommo dignitario, in segno dell’inarrestabile
passare del tempo.
Infatti, come scrive l’annalista Cincio Alimento, era questo il modo in cui venivano
contati gli anni. La nazione etrusca sarebbe durata dieci secoli e, anno dopo anno, la sacra
parete del Tempio, che si riempiva sempre più, rendeva ancora più evidente lo scorrere del
tempo e l’avvicinarsi della fine del “Nomen Etruscum”. A questi giochi partecipavano atleti
di tutte e dodici le lucumonie etrusche. Tutto avveniva in modo spettacolare.
In tali solenni manifestazioni non si affrontavano solo gli atleti o gli artisti per
manifestare la loro abilità o la loro forza, ma, insieme a quella, che poteva essere
un’affermazione personale, era in gioco anche l’importanza della lucumonia che
rappresentavano, in quanto tra i lucumoni c’era quasi una sfida a chi avesse i campioni più
potenti ed i musici e danzatori più abili. Le gare avvenivano tra “l’agitazione rumorosa e
disordinata della fiera che si teneva accanto e gli intrighi politici che si annodavano
all’ombra dei boschi sacri” (Heurgon), dato che durante queste assemblee veniva eletto tra
i dodici lucumoni il capo supremo della lega, lo “zilath mechl rasnal” (magistrato supremo
della nazione etrusca). Era una manifestazione di vigoria e di amore per la vita, un modo di
affrontare l’ineluttabilità del destino e l’imperscrutabilità dei voleri degli dei.
Anche Minerva, però aveva delle gare atletiche che si svolgevano in un periodo
dell’anno che dovrebbe corrispondere al nostro mese di marzo e precisamente cinque
giorni dopo le idi. Venivano designate queste feste, con il nome di “Quinquatrus”. Accolte
dai Romani, venivano celebrate queste “Quinquatri” in onore di Minerva, dal 13 al 23
marzo le “maiores”, e il 13 di giugno le “Minores”.
Non sempre però i giochi avevano il solo scopo di onorare gli dei, infatti Erodoto ci
dice che dal 537 a.C. vennero celebrate nella zona di Pyrgi (dove erano stati massacrati
dagli Agyllei, davanti al tumulo dei principes etruschi di Montetosto, tutti i prigionieri
focesi presi nella battaglia di Alalia, persa dagli Etruschi), pratiche espiatorie richieste
dalla Pizia, sacerdotessa di Apollo Delfico, per far cessare infausti e misteriosi avvenimenti
che si manifestavano sul luogo dell’eccidio.
Dice a questo proposito Erodoto: “... I Ceretani ebbero un numero di prigionieri
superiore a quello degli altri (popoli d’Etruria), li portarono via e li lapidarono. Oltre ai
Ceretani, quanti passavano per il luogo in cui giacevano i Focesi lapidati, animali da
pascolo per il luogo in cui giacevano i Focesi lapidati, animali da pascolo o da tiro e uomini,
diventavano storpi e mutilati e colpiti. I Ceretani, volendo riparare l’errore, inviarono a
Delfi una delegazione a interrogare l’oracolo. La Pizia disse che i Ceretani facessero ciò che
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anche ora fanno: essi infatti compiono grandi sacrifici funebri e organizzano ludi ginnici ed
equestri”. Si svolgevano quindi “corse di cavalli, gare atletiche, danze e sacrifici”.
Infine c’erano i giochi che venivano disputati in onore dei defunti. Nelle tombe di
Tarquinia, nelle pitture murarie, scene di danze, di corse e di lotta, eseguite in onore dei
morti e facenti parte spettacolare dei riti funebri, ci dimostrano quali siano stati i costumi
etruschi in questo campo. Tali testimonianze poi, sono state rinvenute non solo nelle
tombe, ma anche scolpite nei cippi e nei sarcofagi. Dalla forza vitale che si sprigiona dalle
pitture delle varie tombe, ci si può rendere che le manifestazioni che si facevano in onore
del defunto, quasi per esorcizzare l’idea della morte ineluttabile, non differivano molto da
quelle che, “nelle feste di campagna, all’epoca delle semine e dei raccolti, tendevano ad
eccitare magicamente le energie della natura, o nelle cerimonie cittadine ad assicurare la
protezione divina ai loro Campidogli. Ch’esse fossero votate ai mani o agli dei non
cambiava nulla nel loro programma” (Heurgon). La connessione delle competizioni
sportive con il rituale funerario la possiamo però avere solo relativamente alla classe
aristocratica. “Gli atleti o erano servi del defunto o erano impegnati e pagati; nell’uno o
nell’altro caso qualificano il defunto come ricco” (Camporeale).
Queste celebrazioni ci esprimono la grande vitalità del popolo etrusco nel campo
della musica, della danza, delle rappresentazioni teatrali e nell’attività prettamente
sportiva.
Da
quanto
si
può
stabilire
e
conoscere
dell’attività
ludica,
attraverso
rappresentazioni pittoriche che si trovano nelle tombe, si può anche seguire l’evoluzione di
questa civiltà dal primo stadio (VIII-VII sec. a.C.), in cui primeggiano figure di guerrieri e
di atleti, all’ultimo (dal IV sec. in poi) in cui invece sembra prevalere un tipo fisico più
pingue, nel quale molti hanno voluto vedere e vedono l’immagine di un popolo in
decadenza che non riuscirà, ad un certo momento, a trovare la forza per resistere alla
pressione romana. G. Camporeale, però, afferma... “in verità i personaggi grassi sono
pochissimi nella grande quantità di quelli rappresentati sdraiati su sarcofagi o urnette. E’
molto probabile che qualche tratto di obesità debba essere inteso come una connotazione
individualistica, in modo da ritrarre più efficacemente il defunto, piuttosto che un
carattere generale riguardante il popolo nella sua totalità o quasi”.
Quelli che si possono indicare come “giochi atletici” (lontani parenti dei Giochi
Olimpici greci), cominciano ad apparire nel VI sec. a.C., segno di una civiltà, ormai giunta
al suo apice, che può permettersi di dedicarsi allo sport e alla danza per puro piacere e
divertimento.
42
Nel V sec. a.C. questa situazione ha un brusco cambiamento, infatti c’è la sconfitta di
Cuma (474 a.C.) subita dagli Etruschi ad opera dei Siracusani di Gerone, mentre Roma sta
crescendo sempre più, e i terreni lungo il litorale, poco alla volta, tornano paludosi ed i
porti cominciano ad insabbiarsi (colpa del bradisismo?). In questo momento, la vita si
svolge con pieno rigoglio solo nelle città poste sulle colline e circondate da una ricca
agricoltura. Sembra quasi che i nobili Etruschi di tale periodo vogliano circondardi di
musici, danzatori e atleti per godere appieno ogni istante della vita.
Diodoro Siculo scriverà: “.... (gli Etruschi) hanno perso in genere l’antico valore e,
trascorrendo il tempo in banchetti e feste, a ragione non conservano più la gloria dei propri
antenati di fronte ai nemici...”.
Appartengono a tali periodi numerose tombe dipinte di Tarquinia, le pareti delle
quali mostrano artisti ed atleti nell’atto di manifestare la loro abilità e la loro forza.
Le vicende storiche, però, precipitano: nel 396 a.C. cadde Veio, nel 353 Caere e
anche Tarquinia è costretta nel 351 a C., dopo essere stata sconfitta, ad accettare un
armistizio quarantennale con Roma. Sarà poi definitivamente sottomessa nel 308 a.C..
In questo clima di incertezza, gli Etruschi seguitano, dentro le mura delle città, a
vivere al meglio delle loro possibilità, quasi come se volessero non pensare, assistendo a
spettacoli vari e partecipando a banchetti, all’incerto futuro che si preparava per la loro
civiltà.
Per alcuni il tipico rappresentante di questa epoca, per quanto riguarda il
“guerriero”, è il bronzetto votivo (prima metà del V secolo), che probabilmente rappresenta
il dio Maris (Marte), in cui si notano gambe robuste sì, ma braccia quasi prive di
muscolatura. Non è l’immagine tradizionale del focoso e irruente dio della guerra, ma
quella di un guerriero pensieroso. Gli Etruschi, quindi, non soono più sicuri di poter
concludere vittoriosamente i vari scontri. E’ un periodo di crisi e le pitture ci presentano
uomini, che, poco o niente, hanno a che vedere con i forti atleti del passato. Anche le
movenze dei danzatori sono meno decise, più “morbide” e presentano una dolcezza quasi
femminea.
Lo sport viene nuovamente alla ribalta nel periodo ellenistico (fine III, II, I sec.
a.C.). C’è poi la romanizzazione, che ripropone le “palestre” (non per niente molti legionari
di Cesare ed Augusto proveranno proprio dall’Etruria). Pugilato e pancrazio (un esercizio
sportivo in cui si fondevano il pugilato e la lotta, di cui erano ammesse tutte le figure)
ritorneranno in auge con i “collegia iuvenum” voluti da Augusto. E tutto questo verrà
fissato con espressioni artistiche plastiche e pittoriche.
43
***
Da quello che si è detto fin qui, risulta evidente che è possibile dividere l’attività
fisica degli Etruschi in un gruppo più rude, più a carattere bellicoso, ed in uno a sfondo
prettamente ludico. Possiamo però prendere anche un altro parametro per dividerla e
precisamente quella presente già in Grecia (pugilato, lotta, lancio del disco, lancio del
giavellotto, corsa podistica, corsa dei carri ecc.) e quella tipicamente etrusca (gioco del
Phersu, giochi di Troia, gioco del candelabro ecc.). Comunque una cosa sembra
sicuramente affermabile ossia che, mentre nelle raffigurazioni etrusche accanto agli atleti
si trovano dei musici, flautisti in modo particolare, questi non sono mai presenti in quelle
greche.
Dato che le tombe dipinte di Tarquinia sono ricche di raffigurazioni di tutte queste
manifestazioni, è possibile seguire, attraverso la loro osservazione, l’evoluzione e gli sport
privilegiati nel corso dei vari secoli.
E’ opportuno però, prima di iniziare a trattare questo argomento, ricordare quanta
importanza veniva data da questo popolo, alla musica, che si può considerare una
componente essenziale del loro modus vivendi.
Come dice l’Heurgon “.... ciò che doveva essere più difficile da scovare in una città
etrusca era il silenzio”. Tutto infatti era scandito ed accompagnato da una cadenza
musicale. Nella Tomba “Golini” (Orvieto) si scorge uno schiavo che mescola, trita
energicamente gli ingredienti, al suono del flautista che accompagna con la melodia i suoi
movimenti decisi e forti.
Altri schiavi, che stanno preparando della carne, del pesce da cucinare o le spezie
macinate necessarie per le varie pietanze, si muovono con movenze ritmiche; nella
punizione corporale di un servo, la verga per la sua fustigazione, scende rapida, ma con
regolare cadenza, al ritmo di un suonatore.
Al di là di quanto raffigurato in tale tomba, pure i pastori di porci guidavano i loro
animali, abituandoli al suono della musica, che ritmava il tempo nei loro movimenti e gli
ordini di chi li conduceva al pascolo. La musica quindi, accompagnava ogni atto della vita
privata o sociale: matrimoni, funerali, semina e raccolta del farro, banchetti, vendemmia
ecc. Eliano nella sua “Storia degli animali”, scrive che gli Etruschi catturavano i cinghiali e i
cervi attirandoli nelle reti con l’aiuto della musica. Aristotele però, che non comprende
bene il compito che questa svolgeva, la ritiene fonte di pigro languore; non si rende conto
che spesso imprimeva il ritmo, la cadenza ad azioni violente. Se oggi si pensa ad un
incontro di pugilato a suon di musica, forse si può restare sconcertati, ma il fatto che i
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pugni fossero scanditi e che gli atleti si muovessero come in una danza ritmica, non
toglieva violenza e brutalità al loro scontro.
Non esisteva infatti un solo tipo di musica, ma tanti quante erano le attività umane.
Lo strumento principe per gli Etruschi era il flauto doppio con due imboccature. Di
questo strumento però, conoscevano tutte le varietà: da quello semplice a quello doppio già
ricordato, al clarinetto e all’oboe.
Diodoro Siculo afferma che anche la tromba da guerra, che è detta “tirrenica” era
stata inventata da questo popolo. “Il suo limpido squillo accompagnava le truppe, ma
poteva anche avere un altro, più profondo significato: poiché anche i celesti, si credeva,
annunciavano la loro irrevocabile volontà con uno squillo di tromba. Quando fosse
risuonato argentino nel cielo, era segno infallibile che si chiudeva un periodo nell’esistenza
del popolo etrusco e iniziava un nuovo saeculum” (Keller). Accanto alla “tyrrhenica tuba”
ce ne erano altre. Un tipo, ad esempio, aveva l’estremità curva come il lituus degli auguri,
un altro ancora era circolare e rassomigliava al nostro corno da caccia. La presenza di
queste trombe si ritrova specialmente durante le battaglie e le sfilate militari. Per tutto ciò,
per questa loro presenza continua nella società etrusca, non ci si deve quindi meravigliare
se i suonatori sono continuamente raffigurati sulle pareti dipinte delle tombe.
***
Terminata questa breve parentesi, iniziamo la nostra analisi relativa, appunto, alle
attività fisiche che, nel corso dei secoli, sono state testimoniate dagli antichi pittori, che
avevano il compito di rendere più bella l’ultima dimora dei ricchi dell’epoca.
La prima attività fisica di cui ci occuperemo, sarà la danza, attività più legata alla
musica ieri come oggi. La danza, poi, può essere considerata indispensabile per un
banchetto. Banchetto che, in un primo tempo, è rappresentato come una semplice scena
familiare, nella quale usualmente marito e moglie vengono presentati sdraiati sulla kliné,
attorniati da servi, da ancelle, dai figli ecc. Poi sarà più articolato in quanto sono riuniti
parenti ed amici per banchettare in onore del defunto. Sin dal VII secolo a.C. si trovano
testimonianze della danza che, secondo le sue gestualità può essere “armata”, “bacchica” e
“sacra”. La più antica è sicuramente la prima. Sulle sue origini gli studiosi sono quasi tutti
d’accordo: dovrebbero essere orientali. In Grecia, infatti, già nell’VIII secolo era abitudine
di presentare, durante le feste religiose dei Dioscuri a Sparta, le Panatee ad Atene ecc., un
tipo particolare di danza “armata” che riproduceva a tempo di musica i movimenti e le fasi
di una battaglia. Questo falso combattimento, che veniva indicato come “pirrico” (dal nome
del leggendario inventore, Pirrico, che era stato ispirato al dio Marte) era usualmente
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accompagnata dal suono del flauto. Una traccia di questa danza è possibile vederla: nelle
pitture della Tomba delle Bighe (490 a.C.), dove c’è un giovane danzatore (o corridore?)
armato, con elmo, scudo, lancia, che sta in procinto di scattare, attendendo il via di un
giudice alla corsa; nel giovane danzatore armato (elmo, scudo, schinieri e lancia) della
Tomba del Guerriero (prima metà del IV sec. a.C.); nella figura di guerriero danzante della
Tomba della Caccia al Cervo (450 a.C.); in quella di danzatore armato con mantello rosso,
elmo, scudo e lancia della Tomba del Letto Funebre (460 a.C.); nei tre danzatori nudi,
armati con elmo, scudo e lancia della Tomba dei Pirrichisti (500/490 a.C.) ecc. ecc.
Raymond Bloch, quasi a testimonianza dell’esistenza di questa danza nel periodo
anteriore alla vera fioritura della civiltà etrusca, ha trovato in una tomba villanoviana di
Bolsena, un piccolo scudo votivo bilobato, caratteristica questa che sarà propria degli
anciles, che, a Roma, venivano battuti uno contro l’altro dai danzatori Salii, durante le loro
cerimonie sacre. Nel Museo Archeologico di Firenze, è possibile vedere in un bassorilievo
due Salii che portano l’ancile. I movimenti della danza salica venivano indicati come
“amptruare” e “redamptruare”. Il primo significava il salto che il direttore del ballo
(praesul) faceva mentre girava (amptruabat), mentre il secondo la ripetizione di questo
movimento da parte degli altri danzatori (redamptruabat).
La radicale “truare” sembra proprio che abbia origine etrusca, dato che la parola
“truia” dovrebbe significare o una specie di danza armata o il luogo, l’arena in cui si
svolgeva. Il “lusus Troiae”, al quale, sotto Augusto, partecipavano nel Campo di Marte, tre
gruppi di giovani nobili cavalieri armati, che non avevano superato i diciassette anni di età,
dovrebbe quindi derivare il suo nome da tale gioco o danza armata etrusca. Virgilio però,
nel V libro dell’Eneide, descrivendo la sfilata della “Troiae iuventus” in occasione dei
funerali di Anchise, ci presenta le evoluzioni “dei cavalieri i cui giri e controgiri gli
ricordano il labirinto di Creta” e quindi le fa risalire al popolo troiano per accreditare
maggiormente la leggenda delle origini troiane di Roma. “Lusus Troiae” veniva quindi
inteso dai Romani come il “Gioco di Troia”. “I tre plotoni al galoppo si suddividevano
formando gruppi separati: a un nuovo comando operano una conversione correndo con la
lancia in testa gli uni contro gli altri. Seguono altre evoluzioni in avanti e indietro, sempre
fronteggiantesi, ma a distanza, circoli che si intersecano e “simulacri di battaglia” con le
armi “ (Heurgon). La “truia” etrusca invece doveva svolgersi in un labirinto, tenendo
presente la scena graffita sui fianchi di una oinochoé (VII sec. a.C.) scoperta a Tragliatella,
presso Bracciano, in cui ci sono due cavalieri armati che, preceduti da sette soldati che
ballano una danza guerriera, stanno uscendo appunto da un labirinto. Proprio nelle volute
di questo si può leggere la parola “truia” scritta in etrusco.
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Nelle tombe di Tarquinia sono numerose le scene in cui danzatori e danzatrici si
abbandonano alla danza “bacchica”, anche se è difficile segnare con un confine ben
delineato il punto dove la danza “sacra” è “bacchica” e viceversa. Si può dire però che non
solo la pittura, ma anche qualsiasi altra manifestazione artistica, porti esempi di questo
tipo di danza. Infatti Sileni e Menadi, fermati nel movimento indiavolato del ballo, ornano
lebes, candelabri, treppiedi ecc. ecc.. Dalle ricostruzioni dei vari movimenti di tali danze
orgiastiche, si è voluto trarre un significato drammatico: le varie azioni mimavano il
rapimento della Menade da parte del Sileno. Sileni e Menadi erano al seguito di Dioniso ed
è proprio a questo dio che tale danza etrusca si ricollega. Nei dipinti delle tombe di
Tarquinia, specialmente in quelli delle Tombe delle Leonesse (520 a.C.), dei Baccanti
(510/500 a.C.) e del Triclinio (470 a.C.) si può notare come nel breve lasso di tempo che
separa la prima dalla terza, si sia modificata la gestualità di questa danza. Nella Tomba
delle Leonesse, nella parete di fondo, al centro c’è un grande cratere “coronato” di edera
(pianta sacra a Dioniso) alla destra e alla sinistra del quale ci sono due suonatori, uno di
flauto e uno di cetra. Sempre nella stessa parete, a destra, una coppia di danzatori, che si
fronteggiano, sta seguendo il ritmo del “tripudium” (con questa parola viene ad essere
indicato un ballo a tre tempi, una danza saltellante). Ambedue i danzatori, la donna
ricoperta da una tunica trasparente e l’uomo nudo dal corpo color rosso mattone, stanno
eseguendo lo stesso passo, saltellando, con le braccia uno in aria e l’altro lungo il corpo. Si
muovono a “specchio”: l’uomo solleva il braccio e la gamba destra, la donna il braccio e la
gamba sinistra (movimento tipico della danza “bacchica”). Nella parte sinistra della parete,
un’altra danzatrice, che è però completamente e pesantemente vestita, ben pettinata e con
ai piedi i calcei repandi, sta compiendo un passo “scivolato”, girando su se stessa. Anche le
sue braccia sono uno alzato e l’altro piegato verso il basso. Particolarmente interessante è
osservare il movimento delle mani di questi danzatori. La “chironomia” è infatti elemento
essenziale della danza etrusca che, si può dire, si basa più sulla gestualità delle mani che
sui movimenti delle gambe. Nella Tomba dei Baccanti le grandi figure dei danzatori sono
fissate nella loro ebbrezza, che viene esaltata dai gesti della danza. Nella Tomba del
Triclinio l’atmosfera è più composta. I movimenti denotano un sommesso senso
drammatico, anche quando c’è l’abbandono più completo alla musica, rappresentato
quest’ultimo visivamente dalla danzatrice della parete di destra che, con la testa rovesciata
all’indietro, le labbra socchiuse, un braccio ripiegato sul capo, sta muovendosi nel passo di
danza con grazia e dignità. Anche il citareda ed il suonatore di flauto partecipano alla
danza, separati da alberelli che rendono l’idea dell’ambiente, in cui si svolge la scena, pieno
di pace e tranquillità. Forse in questa tomba i movimenti più delicati e più raccolti di alcuni
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danzatori, e l’abbigliamento più sobrio denotano come ti stia partecipando ad una
cerimonia a sfondo religioso; però al di là di questa apparente “compostezza”, si vede bene
come tutti siano in preda all’ebbrezza dionisiaca. E’ la più bella raffigurazione di danza che
si abbia per la grazia, la varietà e la misura dei gesti. Altra Tomba di Tarquinia in cui la
frenesia bacchica è presente, è quella della Caccia e della Pesca (520 a.C. circa). Infatti
nella prima camera, quella dedicat alla caccia, lungo tutte le pareti, si snoda una animata
danza dionisiaca, interpretata da danzatori e danzatrici che seguono il ritmo della musica,
facendo dei movimenti molto accentuati.
L’evidente muscolatura dei loro corpi, forse potrebbe testimoniare una intensa
attività fisica preparatoria, giacché queste prestazioni richiedevano un grande dispendio di
energie sia per il tipo di movimenti che per la lunghezza della esecuzione.
***
Nella Tomba degli Auguri (520/510 a.C.) che, dice L. Banti, “è forse il più antico
esempio di gare “etrusche”, ossia non influenzate completamente dalla Grecia”, il pittore,
padrone della tecnica a grandi figure (megalografia), fondendo elementi stilistici ionici
con elementi e soggetti prettamente etruschi, presenta gare atletiche, cerimonie e giochi in
onore del defunto. Nella parete di destra due lottatori, sullo sfondo di tre lebeti (il premio
per il vincitore), si sono già saldamente presi per gli avambracci in attesa che il giudice
arbitro, l’agonoteca, che è vicino a loro, dia il segnale per l’inizio del combattimento. I due
atleti sono nudi e presumibilmente unti di olio di oliva, per rendere la presa più difficile.
Da quello che si conosce, questo sport ebbe molta fortuna presso gli antichi. I greci, ad
esempio, fin dal 708 a.C. (diciottesima olimpiade) lo avevano inserito tra le cinque gare del
pentathlon. Gli Etruschi, con molta probabilità, dovrebbero aver praticato un tipo di lotta
che aveva degli addentellati con quella ellenica chiamata “acrochiria”, nella quale i
contendenti si prendevano solo per gli avambracci. I due lottatori nella tomba sono indicati
con nomi etruschi: Teitu e Latithe, ma le loro caratteristiche somatiche sono orientali. I
capelli e la barba sono nerissimi, gli occhi sono ornati da ciglia lunghissime ed il profilo
presenta delle labbra molto carnose.
La muscolatura è possente ed il peso del corpo è
saldamente equilibrato sulle gambe; I due atleti stanno attentamente studiantosi per
captare il punto debole dell’altro, cosa questa che potrà agevolare la vittoria. I due sono
sotto l’attento sguardo di un tevarath con il lituo in mano. Quando sarà terminato il
combattimento? Forse quando uno dei due sarà stato costretto a toccare con le spalle la
terra. Altri lottatori sono presenti nella Tomba delle Iscrizioni (520 a.C.), dove, sulla parete
di sinistra, tra le altre figure ci sono quelle di due lottatori impegnati nel combattimento
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(uno di loro ha sollevato il rivale sulle proprie spalle e sta accingendosi a gettarlo a terra).
Purtroppo tale tomba non è accessibile e le sue pitture non si possono più vedere. Esistono
però dei disegni dello Stackelberg, che sono molto fedeli agli originali. Una situazione
analoga si rileva nei riguardi delle pitture della Tomba delle Bighe (490 a.C.), distaccate ed
ora al Museo Archeologico di Tarquinia. Il loro stato di conservazione è precario ed in
alcuni punti sono poco leggibili, però anche per esse ci sono dei lucidi dello Stackleberg
(scopritore della tomba stessa), che presentano chiaramente tutti i contorni delle varie
figure. Tale tomba presenta il più grande ciclo etrusco con raffigurazione di gare atletiche,
e quindi per questo è particolarmente importante conoscere le varie attività sportive
praticate da questo popolo. Un gruppo che raffigura una coppia di lottatori si trova nel
piccolo fregio della parete di fondo. Gli atleti stanno all’inizio della loro lotta e uno cerca di
liberarsi da una presa al collo operata dall’altro, bloccando nello stesso tempo il polso
dell’avversario. I gesti sono fissati con grande vivacità e precisione.
***
Altro sport, che richiedeva una notevole forza fisica, era il pugilato, le cui origini si
perdono nella notte dei tempi. Già è presente, infatti, nella protostoria. In Grecia, inserito
nei Giochi Olimpici dalla XXIIII Olimpiade, ossia dal 688 a.C., vi restò fino a quando
l’imperatore Teodosio non soppresse i giochi nel 394-393 a.C.. I pugili non rendevano
meno pericolosi i loro pugni con guantoni, come fanno i moderni loro emuli, ma
ricoprivano tanto le loro mani che gli avambracci con delle strisce di cuoio (cesti), con
l’intento di rendere ancora più temibili i loro colpi. Spesso questi cesti avevano delle
borchie di piombo, cosa che peggiorava ancora più l’effetto dei pugni. Nelle
rappresentazioni di pugili, presenti nelle pitture delle tombe tarquiniesi, non si notano
queste borchie e quindi ciò lascia supporre che i combattimenti, che si svolgevano in
queste circostanze, non dovevano concludersi in modo molto cruento. Doveva essere solo
uno spettacolo di forza e agilità.
Scene che riguardano tale sport si possono ammirare nella già citata Tomba degli
Auguri, nella cui parete sinistra, tra le altre figure, ci sono anche due di questi atleti nudi,
che stanno lottando sopra un lebete. Nel piccolo fregio della parete di fondo della Tomba
delle Bighe, un’altra coppia sta lottando: uno dei due pugili è “in guardia” (in un modo che
rassomiglia molto a quello di un suo emulo moderno), l’altro invece è in procinto di
portare un colpo oggi “proibito” dall’alto in basso, a “martello”.
Sempre su questa parete altri due stanno portando avanti il loro scontro. Sulla
parete sinistra invece, sempre nel piccolo fregio, altri due pugili (con le mani senza cesti ed
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i pugni chiusi) sono nel pieno della loro gara, che si svolge sotto lo sguardo di un epistates.
Uno dei due è a terra e l’altro sta cercando di approfittare di questa sua momentanea
superiorità.
Delle figure un po' particolari di pugilatori, sono quelle che si trovano nella Tomba
Cardarelli (510/500 a.C.), infatti sono stati raffigurati con un certo gusto per la cultura.
Anche nella Tomba delle Iscrizioni è possibile vederne altri due, che stanno nel
mezzo del loro combattimento (anche se la pittura è molto rovinata). Nella parete destra
della Tomba del Letto Funebre (460 a.C.), un pugilatore sta cercando sollievo alle sue
ferite, portandosi una spugna al volto, che reca visibili tracce di sangue. Di altri due non si
riesce a vedere che pochi resti pittorici. Di quelli presenti nella Tomba delle Olimpiadi (510
a.C.), si scorge solo una parte del corpo di uno, mentre è completamente scomparso l’altro.
***
Altri sport e giochi sono quelli che vedevano gli atleti impegnati nel lancio del
giavellotto e del disco. Discipline anche queste che gli Etruschi avevano recepito dei Greci.
Sia il primo che il secondo erano molto praticati oltre che nel campo sportivo anche in
quello militare dato che, sia l’uno che l’altro potevano trasformarsi in armi di offesa. Il
giavellotto lo si vedrà poi trasformato dai Romani in “pilum” (arma d’attacco dei cavalieri e
dei fanti) ed in “hasta” (arma degli hastati, più pesante e più grande del “pilum”). Del disco
ci sono giunti molti esemplari, tra i quali uno in bronzo del diametro di trenta centimetri e
del peso di due chili circa. La tecnica etrusca di lancio, da quello che si può notare sia nei
bronzetti che nelle pitture vascolari o murarie, era diversa da quella greca per
l’impostazione del corpo e per la parabola che il disco faceva prima di ricadere al suolo.
Per il lancio del giavellotto si possono vedere atleti impegnati in questo sport, ad
esempio nella Tomba delle Olimpiadi, delle Bighe; mentre per il lancio del disco, oltre che
nelle due già citate, in quella del Guerriero.
***
La corsa è presentata in molte raffigurazioni tanto vascolari che tombali. Con molta
probabilità in Etruria, come in Grecia, dovevano svolgersi gare su varie distanze. Sappiamo
che gli atleti greci potevano cimentarsi nello “stadio” (ossia correre una sola volta la
lunghezza appunto dello stadio, circa trecento metri), nel “diaulo” (corsa che prevedeva
due percorsi dello stadio girando attorno ad una “meta”, quattrocento metri circa) e nel
“dolico” (una corsa di fondo che vedeva il corridore impegnato a percorrere per
ventiquattro volte, la lunghezza dello stadio, circa cinquemila metri). Non si può dire però,
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con certezza che le regole greche venissero rispettate anche dagli Etruschi. Da quanto si
può arguire, osservando le testimonianze giunte fino a noi, possiamo distinguere una corsa
a “corpo libero” e una corsa “armata”. Della prima una scena molto bella è quella che
troviamo nella Tomba delle Olimpiadi che ci permette di assistere al termine di una corsa a
piedi tiratissima: tre atleti, vestiti solo di un perizoma, stanno raggiungendo il traguardo,
producendo lo sprint finale. Il loro slancio è perfetto. Per la corsa “armata”, ossia fatta
indossando le armi (elmo, scudo, lancia ecc.) possiamo prendere come esempi i due opliti
della Tomba delle Bighe. Anche per questa corsa, come per la danza armata, si può notare
che più che uno sport, era una preparazione per il momento della battaglia.
Lo sport, però, che sembra abbia suscitato un vero entusiasmo tra gli Etruschi, deve
essere stato quello che vedeva impegnati uomini e cavalli: le corse equestri in ogni loro
modo di essere. Il cavallo infatti, doveva esercitare un vero fascino su questo popolo che lo
ha raffigurato tanto sulle pareti delle tombe, che sui vasi, che sui sarcofagi e nei frontoni.
Non dimentichiamo che uno dei pezzi più belli della coroplastica è proprio il gruppo dei
“Cavalli Alati” (IV sec. a.C.), che doveva ornare il frontone dell’Ara della Regina dell’etrusca
Tarquinia. Per un nobile e ricco etrusco doveva essere quasi un punto d’onore possedere
più bighe o quadrighe. Nel periodo di Cicerone, I sec. a.C., ad esempio, il nobile Aulo
Cecina, esponente di una tra le più illustri famiglie nobili di Volterra, amava le corse di
quadrighe e partecipava con i suoi “colori” a quelle che si svolgevano a Roma nel Circo
Massimo. Aveva poi un metodo molto celere per annunciare ai suoi amici l’esito delle gare:
portava delle rondini quando si spostava da Volterra a Roma ed erano proprio queste
rondini che, lasciate libere dopo essere state dipinte del colore del vincitore, ritornando ai
loro nidi, comunicavano le ultime novità.
Le tombe presenti nel territorio di Tarquinia sono ricche di pitture rappresentanti
cavalli, cavalieri, corse di bighe e di quadrighe. Cavallerizzi che con grazia e agilità balzano
a terra con un armonico volteggio, a fianco dei loro rossi destrieri, ornano una delle
semipareti dell’ingresso della “Tomba del Triclinio”; un giovane che aggioga ad una biga un
cavallo azzurro, forma invece uno dei gruppi più belli della “Tomba del Letto Funebre”. In
quella del “Barone” (ultimo venticinquennio del VI sec. a.C.),in modo elegante, solenne,
calmo, in un alternarsi di colori rosso, nero (per i cavalli), e rosso e verde (per i mantelli dei
cavalieri), si succedono le varie figure con un effetto particolarmente suggestivo per la
tecnica di sovrapposizione cromatica attuata dal pittore. Sembra che queste pitture
rappresentino il momento antecedente alla gara: la presentazione dei concorrenti che vi
avrebbero partecipato. Nelle scene del piccolo fregio della Tomba delle Bighe, si trovano
raffigurazioni appunto di bighe già pronte ad iniziare la gara, ma forse più interessanti di
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queste, sono i preparativi che si fanno per aggiogare due cavalli frontalmente. I due
giovani, che stanno cercando di mettere i cavalli al giusto posto, sono rappresentati con un
audace scorcio di spalle. Secondo alcuni poi, nel cavaliere armato, con elmo, che ha vicino
a sé un altro cavallo, si può riconoscere un apobate, ossia un esempio di quegli agilissimi
cavalieri che, di volta in volta, durante gli scontri saltavano da un cavallo all’altro per
difendersi meglio dai nemici. Probabilmente dovrebbero essere stati i Greci (che a loro
volta l’avevano ricevuta dagli Egiziani), a trasmettere questa “tecnica” agli Etruschi, i quali,
poi, la passarono ai Romani. Questi ultimi indicavano tali cavalieri con il nome
“desultores”.
Sulla parete sinistra della Tomba delle Olimpiadi invece è in pieno svolgimento una
corsa di bighe: quattro carri e due cavalli stanno per concludere la loro sfida. La gara si
svolge in aperta campagna. Due colori caratterizzano tanto la casacca degli aurighi, che i
carri e le gualdrappe dei cavalli: il rosso e l’azzurro. Sia le corti vesti degli aurighi che il
modo in cui sono legate con un vistoso nodo le briglie dietro le loro schiene, sono
particolari prettamente etruschi. Era quest’ultimo infatti, un accorgimento che agevolava
la frenata, in quanto il guidatore così poteva scaricare su di esse il peso del corpo. Non c’è
pietà per i cavalli, che vengono frustati per incitarli allo sforzo finale. Per uno dei carri il
traguardo è vicino e quindi l’auriga si volta per controllare gli inseguitori. Ancora
apertissima è la lotta per l’assegnazione del secondo posto, infatti, il terzo sta cercando di
superare il secondo sulla sinistra.
Per il quarto carro, invece, non c’è più speranza: si
è rovesciato e mentre uno dei cavalli, caduto, sta scalciando faticosamente con le zampe
l’aria, l’altro, impennandosi, ha fatto perdere l’equilibrio al conducente che, sbalzato fuori
dal carro, sta fendendo l’aria con le gambe, prima di concludere miseramente il suo “volo”.
Tra il pubblico, che sta seguendo lo svolgersi della gara ed assiste quindi a questo
spaventoso incidente, tre donne, che si trovano sulla tribuna, si stringono la testa fra le
mani e sembra quasi di percepire il grido che esce dalle loro bocche. E’ una scena
vivacissima; il pittore, con molta probabilità, per essa si è ispirato, mettendoci però un
dinamismo particolare, ad una corsa di carri raffigurata su un’anfora greca (575-550 a.C.),
che si pensa abbia potuto vedere in quanto è stata ritrovata vicino Tarquinia.
La vivace e spontanea reazione delle tre donne sulle tribune, all’incidente che si sta
svolgendo sotto i loro occhi, ci spinge a fare delle riflessioni. La prima riguarda il fatto che
le donne etrusche potevano assistere a queste gare ed il loro entusiasmo non temeva il
confronto con quello maschile. La loro presenza in questi luoghi era una delle tante
“libertà” che le poneva in una posizione molto diversa da quella delle loro contemporanee
greche e romane, e che perciò dava spunto assieme alla loro partecipazione ai banchetti e
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alle feste, ad insinuazioni ed a giudizi poco favorevoli sulla loro moralità da parte tanto dei
Greci che dei Romani. Abbiamo visto poi che il pubblico seguiva le varie competizioni dalle
tribune, e tali strutture sono chiaramente presentate sia nella Tomba delle Olimpiadi che
in quella delle Bighe. In quest’ultima anzi sono presenti all’estremità di ogni parte del
fregio rivoltate verso il centro, verso cioè il punto in cui si svolgevano le gare sportive. “Ci si
domanda anche - ma nulla sulle varie maniere della pittura antica autorizza tale ipotesi - se
ciò che vediamo rappresentato non sia lo spaccato di un anfiteatro, che permette di vedere
le tribune solamente a sezioni, mentre, in realtà, facevano tutto il giro dell’arena a forma
ellittica o circolare. Comunque, esse ricordano molto da vicino, sebbene siano meno alte, “i
palchi elevati su un’armatura” che Tarquinio Prisco aveva fatto disporre nel Circo Massimo
per i senatori e per i cavalieri romani. Queste comportano una piattaforma di legno
sostenuta da montanti alti meno di un metro dal suolo, sopra il quale è teso un velum che
protegge gli spettatori dal sole.
Gli spettatori sono ammassati otto o dieci per tribuna, gli
uni dietro gli altri, seduti su un solo banco, del quale non si può dire, per ignoranza delle
leggi della prospettiva, se sia visto di fronte o di profilo. Vi si riconoscono nella libera
promiscuità che abbiamo segnalato, uomini maturi, giovani e donne con il tutulus, tutta la
buona società di Tarquinia, mentre nella platea, se così si può chiamare lo stretto spazio
riservato tra la piattaforma e il suolo, si accalca, accoccolata o distesa alla bell’e meglio, una
plebaglia di servi turbolenti, di cui quelli che possono vedere qualche cosa guardano e
talora applaudono mentre quelli dietro passano il tempo in modo che non è sempre
decoroso” (Heurgon).
Una corsa di tre bighe i cui focosi cavalli rosso-blu, sono guidati da aurighi che
indossano un corto corpetto blu, la potremo vedere, anche se un po’faticosamente (una
sola delle bighe è ben conservata) nella Tomba del Maestro delle Olimpiadi (500 a.C. circa)
sulle cui pareti si alternano cavalli, cavalieri, ed altri atleti. Le figure però non reggono il
confronto con quelle della Tomba delle Olimpiadi in quanto sono disegnate in modo meno
preciso ed elegante. Alcune scene (quelle sulla parete destra) con molta probabilità
potrebbero essere una replica delle corse a piedi ed a cavallo (“kalpes dromoi”), che si
svolgevano in Grecia. “Kalpes dromoi” dovrebbero essere anche quelle rappresentate nella
Tomba delle Iscrizioni (anche questa inaccessibile). Una biga guidata da un auriga di
statura notevole e che ha sulla testa un piccolo acrobata (gruppo in cui si unisce forza,
abilità e agilità) si trova invece nella Tomba del Guerriero.
***
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Nella Tomba degli Auguri, in quella delle Olimpiadi e in quella del Pulcinella (510
a.C. circa), il pennello degli antichi pittori ci ha lasciato la testimonianza di un tipico gioco
etrusco: quello del Phersu. Una lotta fra un cane ed un uomo, che si ritrova solo in Etruria
e, almeno fino ad ora, solo nelle tombe dipinte di Tarquinia. E’ uno strano combattimento
che è molto vicino ad un supplizio. Infatti sulla parete destra della prima dopo il gruppo
dei due lottatori, un Phersu mascherato e vestito di un corto giubbetto rossonero, con un
cane nero rabbioso, al guinzaglio, sta portando a termine il suo compito. Davanti a lui un
uomo armato di clava e con la testa incappucciata, sta cercando di difendersi dal cane che,
il sangue lo dimostra, lo ha già morso più volte e lo sta mordendo alla gamba sinistra. Il
guinzaglio, che il Phersu tiene in mano, è pericolosamente arrotolato intorno alla gamba, al
braccio e al collo del condannato. Sulla parete opposta invece un Phersu con una maschera
barbuta, sta fuggendo, forse perché il “gioco” non è andato come sperava. La stessa scena
viene ad essere presentata anche sulla parete destra della Tomba delle Olimpiadi.
Qui
il Phersu ha sempre il volto ricoperto da una maschera, ma il giubbetto è a quadri bianchi e
neri. Un Phersu danzante, con una maschera barbuta e un alto berretto a punta a spicchi
rossi e bianchi (simile a quello di un mago), ed un corto corsetto a quadri neri e bianchi, si
può vedere anche nella Tomba del Pulcinella. Il gioco del Phersu deve essere, in qualche
modo, connesso con il resto del rituale funebre. Molti lo vedono come un precursore dei
“ludi gladiatori”, che si svolgeranno poi a Roma. Viene visto anche come un’ultima
manifestazione di quella abitudine “barbara”, che voleva che, durante le cerimonie funebri
si dovessero sacrificare dei prigionieri. Dare quindi, una clava in mano al condannato
incappucciato, per fargli affrontare un cane inferocito, significava dargli una possibilità di
restare in vita, se fosse riuscito ad uccidere l’animale. Questo scronto, in cui si lottava per
la vita, crudele e spietato, proprio per l’incertezza dell’esito, doveva avvincere il pubblico.
Nella Tomba degli Auguri c’è chiaramente il nome di Phersu (= persona,= maschera) ad
indicare questi due uomini mascherati. Su una parete è un aguzzino, sull’altra invece, come
già detto, cerca di sfuggire a qualcosa, correndo (chi l’insegue?). Per molti, nelle sue
sfaccettature questo personaggio è un antenato delle maschere e come tale manifesta una
variabilità di ruoli.
Un altro gioco prettamente etrusco, per il quale si doveva possedere una grande
agilità e abilità, era quello “del candelabro”. Forse per capire bene che cosa si intende è
bene riandare con il pensiero alla Tomba dei Giocolieri (fine VI sec. a.C.): sulla parete di
fondo una giovane danzatrice sta cercando di mantenere in equilibrio sulla testa un
candelabro nel quale si sono già infilati alcuni livelli. Davanti a lei un fanciullo sta
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lanciandone degli altri, cercando di centrare appunto il candelabro. Il tutto, beninteso,
viene scandito ed eseguito al ritmo della musica di un flautista.
Colpo d’occhio e gesto deciso erano invece i requisiti che si dovevano possedere per
giocare al “kottabos” la tecnica di questo gioco, che gli Etruschi amavano molto fare (ne
sono la prova oltre alle raffigurazioni, i vari kottaboi di bronzo del III-II sec. ritrovati
durante gli scavi), è possibile vederla tanto nella Tomba Cardarelli (fine VI sec. a.C.), che
nella Tomba Querciola I (fine V prima metà IV sec. a.C.), ambedue nel territorio di
Tarquinia. Nella prima c’è un giovane uomo in piedi, colto proprio nell’atto di colpire con
un gesto della mano e dell’avambraccio, la coppa piena di vino, il cui contenuto doveva
essere scagliato contro qualcosa, che però non è presente nella scena. Nella seconda, il
giocatore è sdraiato, è infatti uno dei commensali del banchetto della parete di fondo.
Quale doveva essere il bersaglio contro il quale veniva scagliato violentemente il contenuto
dei kottaboi? Con molta probabilità un piattello in equilibrio su un’asta. Chi riusciva a
vincere la sfida conquistava il premio (oggetti di valore? un fanciullo? una fanciulla? o la
possibilità di scegliere una fra le fanciulle presenti? chissà, ognuno può rispondere secondo
i suoi gusti).
***
Altri sport, che ancora oggi vengono esercitati con passione, sono la caccia e la
pesca. Il pensiero per questi corre subito alle scene della Tomba della Caccia e della Pesca,
in cui l’irreale policromia rende una rappresentazione realistica con toni fantastici,
incantati. Le sue pareti presentano infatti scene prorompenti di vita a contatto con la
natura, specialmente nella seconda camera, quella meglio conservata. è tutto un tripudio di
uccelli dai colori più vari: azzurri, rossi, bianchi, che volano sicuri nel cielo e si posano
sull’acqua, quell’acqua che accoglie delfini che balzano fuori o si tuffano nelle onde. Gli
uomini, “piccoli e rispettosi del mondo che li circonda e di cui fanno parte, come le rocce, i
cespugli, i pesci e gli uccelli”, ritornano dalla caccia o sono intenti alla pesca con la lenza o
osano un ardito tuffo da uno scoglio. Su una rupe un cacciatore, armato di fionda, sta
prendendo accuratamente la mira per colpire degli uccelli. Sembra dominare la scena, che
si sta svolgendo sotto di lui. Affronta la “caccia” affidandosi solo alla sua abilità personale.
Sembra quasi una figura eroica. Scene di caccia però possono vedersi pure nella
prima camera, anche se le pitture sono più rovinate. In un frontone infatti si scorgono due
cacciatori a cavallo. Stanno ritornando e quindi i cavalli vanno al passo. Le prede e le armi
sono portate dai servi, che li seguono a piedi insieme ai cani, davanti a loro sembra esserci
un battitore che, con l’aiuto dei cani, sta cercando un altro trofeo (una lepre?) per i suoi
55
signori. I destinatari della tomba dovevano essere molto amanti di queste attività. Ma non
erano delle eccezioni, infatti tra gli Etruschi tali sport erano molto seguiti. Le pitture di
numerose altre tombe presentano gli animali che venivano cacciati da questo popolo. Nella
Tomba del Padiglione di Caccia (510/500 a.C.), ad esempio è possibile vedere le prede
abbattute: due anatre selvatiche, che sono appese per il becco, e due caprioli. Al di là della
tenda poi, si scorge un capriolo che sta tranquillamente brucando l’erba. La caccia
all’anatra si svolgeva nella palude e solo agli uomini era permesso usare l’arco. Le donne e i
ragazzi potevano cacciare solo con le reti.
Anche la lepre era uno degli animali più cacciati: numerose sono le scene che la
vedono protagonista. Spesso viene inseguita dai cani e dai cacciatori, che sono armati del
lagobolo, il bastone ricurvo, che sarà poi un distintivo dei cacciatori in generale.
Però la lepre poteva essere cacciata (e questo si rileva dalle scene del periodo
arcaico) anche con le reti o a borsa o rettangolari. La Tomba della Scrofa Nera (metà-terzo
quarto del V sec. a.C.) e la Querciola I (dalle pitture in pessimo stato di conservazione) ci
presentano invece scene di caccia al cinghiale.
Il “tuscus aper” aveva il suo habitat nei boschi e nelle selve dell’Etruria e per venire
catturato richiedeva veramente coraggio, forza, determinazione e abilità; in compenso il
cacciatore, che riusciva ad infliggergli il colpo mortale, conquistava fama e gloria. L’abilità
degli Etruschi in questo campo doveva essere notevole. Virgilio nell’Eneide, quando parla
ad esempio di guerrieri etruschi (Lauso, Ornito) li indica come “cacciatori”. Uno degli
strumenti più usati per la caccia era lo spiedo e la tradizione fa risalire ad un etrusco, un
certo Piseo, la sua invenzione. La caccia è sempre presente nell’arte etrusca, dal periodo
villanoviano all’ellenismo. Nella Tomba della Scrofa Nera interessa il timpano della parete
di fondo: un cinghiale femmina, dal colore nero e la criniera rossa, si trova al centro, tra
due cacciatori, uno a sinistra, vestito con un corto mantello rosso, ed alcuni cani, l’altro a
destra di tre quarti, rivoltato di schiena, con indosso un giubbetto di pelliccia maculata.
Ambedue hanno in mano un giavellotto e sono estremamente attenti alla loro preda. Un
altro momento di caccia al tuscus aper, come ho già detto si può vedere nelle pitture della
Tomba Querciola I, alla quale viene dato anche il nome di Tomba della Caccia al Cinghiale.
Un particolare non trascurabile e che non trova alcuna corrispondenza tra i Greci e i
Romani contemporanei, è la presenza di una donna tra i partecipanti a questa pericolosa
battuta venatoria (altro motivo di biasimo da parte dei “moralisti” greci e romani, che non
riuscivano ad accettare il ruolo della donna così come era nella società etrusca). Sulla
parete sinistra si può notare un rosso cinghiale, che sta cercando di sfuggire ad otto
cacciatori a piedi e a due a cavallo, armati di lance e asce.
56
Temibili per la bestia braccata, sono anche dei cani di colore giallastro, che aiutano
gli uomini nell’azione venatoria. Sono due scene che si avvicinano molto nella loro
rappresentazione, scene vive, che ripropongono momenti di una realtà passata.
Anche se per praticare la pesca non occorrevano né coraggio, né velocità, né forza,
gli Etruschi hanno lasciato una testimonianza del piacere che provavano a dedicarvisi.
Nella già citata Tomba della Caccia e della Pesca, ci sono due scene che la riguardano: un
pescatore che con la sua fiocina sta colpendo un pesce ed un altro che, con grande
attenzione, sta pescando (con la lenza o la nassa?). Queste raffigurazioni danno modo
anche di osservare come erano strutturate e dipinte le barche. Queste infatti, con la loro
conformazione ed i loro disegni, dovevano servire a dare una certa tranquillità e quindi a
non spaventare o far fuggire i pesci. Non si sa però se in Etruria ci fosse qualche culto
particolare o divinità protettrici della pesca.
Non si può appurare nemmeno se, come poi
a Roma, vi si svolgessero “ludi piscatori”, ossia feste in loro onore.
***
Da questa breve analisi, riferentesi solo a parte delle attività fisiche degli Etruschi,
in alcune delle tombe dipinte di Tarquinia, si è avuta la possibilità di osservare come gli
stessi direttamente (come atleti danzatori, cacciatorti ecc.) o indirettamente (come
spettatori) si dedicassero a tutto ciò che riguardava manifestazioni di forza, abilità, agilità e
coraggio.
Frequenti sono stati i riferimenti alla Grecia, da cui in verità, il popolo dei Rasenna
ha ricevuto molto, ma ciò nulla toglie all’importanza delle testimonianze, che ci ha lasciato.
Tutto quello che è giunto in Etruria infatti, è stato poi rivissuto e trasformato secondo il
carattere etrusco e questo vale tanto per l’arte che per le varie possibili espressioni ginnicoludiche. Quando quindi si affronta il discorso dell’influenza greca sugli Etruschi, non si può
né si deve cadere nell’errore di pensare ad essa come ad una sterile limitazione, ma
considerarla come un punto di partenza per una rielaborazione di tematiche e di tecniche,
secondo la sensibilità degli artisti, che hanno eternato momenti di vita sulle pareti delle
tombe dipinte, sui vasi e sui sarcofagi. Questo loro eccellere nel campo dello sport, nei
giochi, nell’arte della danza e della musica, rivela anche l’opulenza e il grado di benessere
da essi raggiunto. La figura umana, diffusamente impiegata come motivo decorativo, nella
sua quotidianità di vita, denota come l’artista etrusco inserisse l’umanità nel suo ambiente
naturale.
Lilia Grazia Tiberi
TOMBE DIPINTE DI TARQUINIA
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CITATE ED ESAMINATE
- Tomba degli Auguri
- Tomba dei Baccanti
- Tomba del Barone
- Tomba delle Bighe
- Tomba della Caccia al Cervo
- Tomba della Caccia e Pesca
- Tomba Cardarelli
- Tomba dei Giocolieri
- Tomba del Guerriero
- Tomba delle Iscrizioni
- Tomba delle Leonesse
- Tomba del Letto funebre
- Tomba delle Olimpiadi
- Tomba del Padiglione di Caccia
- Tomba dei Pirrichisti
- Tomba del Pulcinella
- Tomba Querciola I
- Tomba della Scrofa Nera
- Tomba del Triclinio
BIBLIOGRAFIA
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M. Torelli - Storia degli Etruschi - Ed. Laterza
58
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S. Staeingraber - Catalogo ragionato della pittura etrusca -, Milano 1984
P. Orlandini - L’arte dell’Italia preromana - Biblioteca Storia Patria
S. Emiliani - Le attività fisiche degli Etruschi - Ca.Ri.Civ.
LA CHIESA DI SAN MARTINO
59
Analisi storica
LA COSIDDETTA
“INTERNAZIONALITA” DI CORNETO.
Nel X secolo, Corneto compare come luogo fortificato, dapprima soltanto con una
torre (a. 939, “Reg. Farf.”, III, nr. 352, p. 54: “....habitatores in turre de Corgnito...”, “...
actum ad turrim de Corgnito...”), poi con torre e castello (a. 976, Egidi, “Un documento...”,
cit., pagg. 4-6: “... abitator in castello... turre de Corgetu”, “... actum in castello de
Corgneto...” E’ fuor di dubbio che la torre e il “castrum” si trovavano ad ovest della città,
dove tuttora si scorge la cinta più ristretta e più rovinata di mura: basti soltanto pensare
che la chiesa di S. Maria di Castello, edificata intorno al 1121, è situata in questa zona e non
molto lontano si trova la chiesa di S. Martino, nominata in un documento del 1045 “prope
castellum vecclum” - “Reg. Farf. “, V, cit., nr. 1237, pp. 222-223) 1) , vale a dire un
“castrum”, un anello di mura. Torre e castello accentrano l’attenzione sulla presenza di
Corneto di “consortes” 2) i quali, per la solidità del loro patrimonio e per tradizione del
nucleo familiare, dovevano rappresentare un ceto distinto, sovrastante per importanza e
per interessi quello genericamente rurale, costituito da piccoli proprietari, livellari ed
affittuari dei “consortes”stessi o delle abbazie farfense ed amiatina.
E’ probabile che proprio a questi gruppi consortili, sia pure sforniti del diritto di
incastellare - pertinenza esclusivamente sovrana, ma ben presto usurpata - spetti
l’iniziativa delle opere di fortificazione, la cui funzione principale sarà poi da ricercarsi
negli anni delle incursioni saracene o ungare, e forse più delle prime che delle seconde.
Nei primi anni del secolo XI il castello di Corneto acquista la qualifica di “civitas”,
dapprima dubbiosamente 3) poi, ben presto ufficialmente, nei documenti pubblici 4)
1)
“Reg. Farf”, V, documento nr. 1237, pp. 222-223: “Rainerio prete figlio di Domenico, col concorso di Demetrio suo
avvocato, dona al Monastero “omnem meam portionem de ecclesia sancti martiri in loco qui dicitur prope castellum
vecclum, cum tumbatico et offertione et decimatione et suis oratoriis, et omnia supers se et infra se habentia cum sua
accessione in integrum et in transactum donamus et tradimus perpetualiter ad possidendum”.
2)
Anno 1011, Calisse, “Doc. Am. cit., XVI, pp. 343-344, nr. XLVIII: donazione al monastero di S. Salvatore sul Monte
Amiata di “una casa qui est edificata inctus in ipsu castellu ture de Corgnitu... et iacet inter confinis da una parte terra
cum casa Teuzo presbiter et de alias partes terra Rigulis et de tertia partes terra Raineris cum suis consortis”, anno
1014-1015, ibid., XVII, pp. 101-102, nr. LII: altra donazione a S. Salvatore da parte di Ildizio”... cum consortibus
suis”; anno 1018, ibid., pp. 112-114, nr. LVIII: vendita al medesimo monastero di una terra in Corneto, confinante
“cum vinea Gennar presbiter cum suis consortis”; anno 1080, “I placiti...”cit., III, nr. 455, pag. 372: “Luponem eiusque
consortes...”.
3)
Nel 1005-1006 ha ancora la qualifica di “vicus”: in “vico de castello et turre de Corgetu” (Calisse, “Doc. Am. “cit.,
XVI, pp. 337-338, nr. XLV), mentre nel 1011 si trova: “in ipsu castellu ture de Corgnitu qui civitas vocatur” (ibid., p.
344, nr. XLVIII). Egualmente per il 1014-1015 (ibid., XVII, p. 105, nr. LIV), ecc.
60
soprattutto nei placiti che vi tennero i marchesi di Toscana, la cui signoria vi è sicuramente
attestata dal 1014, con il marchese Ranieri. In quell’anno, infatti, un gastaldo di Ranieri
presiedeva in Corneto il placito nel quale l’abate del monastero di S. Salvatore in Monte
Amiata rivendicava la proprietà di due vigne in “Margarita” 5) e, nel 1017 Ranieri stesso, il
quale possedeva terre nel castello, come risulta da una donazione di una parte di esse al
monastero amiatino 6) , tenne placito in Corneto, per giudicare delle legittimità dei diritti
rivendicati dall’abate di Farfa, per intermedio della cella di S. Pellegrino e di S. Anastasio 7) .
La grande abbazia benedettina aveva presso Corneto notevoli possedimenti (Per quanto
riguarda le terre, per lo più coltivate a vigna e concesse in prestaria o a livello ai cornetani,
vedi l’elenco dell’inizio del secolo XI in “Chr. Farf.” cit., I, pp. 256-258; per le chiese, da
ricordare S. Martino, donata a Farfa nel 1046 da Malberto di Pietro, da prete Ranieri e da
altri cornetani, situata “in loco qui dicitur prope castellum vecclum” 8) (“Reg. Farf.” cit., V,
nr. 1236, pp. 221-222; nr. 1237, pp. 222-223), per il cui godimento, spesso contrastatole, si
rese necessario anche in seguito l’intervento marchionale e quello della chiesa di Roma.
Così accadde nel 1051, quando il monastero romano dei SS. Cosma e Damiano non
soltanto contestò a Farfa il possesso delle chiese di S. Michele Arcangelo e di S. Pellegrino,
ma continuò a non riconoscerle quello di S. Maria in Mignone. La questione, oggetto di un
placito 9) tenuto in Corneto da Adalberto, messo del marchese Bonifacio, e da Ingelberto,
vescovo di Bieda e “missus” del pontefice Leone IX, risolta provvisoriamente dal messo
marchionale, salvo nuova disposizione di Bonifacio stesso, ricevette conclusione definitiva
4)
Bolla di Sergio IV, anno 1009-1012: “in castello et civitate Corgnito (“Reg. Farf.”, IV, cit., nr. 603, p.2); anno 1017,
placito del marchese Ranieri (“I placiti...” cit., II, nr. 297, pp. 587-590); ecc.
5)
“I placiti...” cit., II, nr. 284, pp. 538-541. il placito si concluse con il riconoscimento dei diritti del monastero di S.
Salvatore, contestati da tal Giovanni del fu Uberto da Corneto, sulle due vigne in “villa Margherita”, sita, secondo il
Calisse, “Doc. Am. cit., XVII, p. 136, a mezzogiorno - ma deve trattarsi di un “lapsus” per settentrione - di Corneto,
presso il Marta. I possessi del monastero benedettino in Corneto includevano: la chiesa di S. Maria, quella di S.
Fortunato, che sorgeva sui dirupi di Corneto, a nord, di fronte alla Porta Nuova (Guerri, “Il registrum...”cit., p. 348) e,
confermata al monastero da una bolla di Anastasio IV del 1153 e di Celstino III del 1196, è documentata nelle carte
amiatine fino al 1205; altre quattro vigne, delle quali due situate in località “Campilione”, nei pressi del Marta (Calisse,
“Doc. Am.” cit., XVII, p. 109, nr. LVI; p. 112, nr. LVIII) e due in località “Pontes” - anche questa, stando alla
denominazione, vicina al fiume - e “Petrulatus” (ibid., XVI, p. 343, nr. XLVIII); le case erano tre, una appoggiata “da
duo partis muru de ipsu castellu” (nr. XLVIII) e due all’interno del castello (ibid., XVII, p. 103, nr. LIII; p. 105, nr.
LIV).
6)
Anno 1015, Calisse, “Doc. Am., cit., XVII, pp. 106-108, nr. LV. La terra donata da Ranieri era destinata alla
costruzione di una chiesa da intitolarsi a S. Maria.
7)
“I placiti...” cit., II, nr. 297, pp. 587-590. Dalle due chiese, sulle quali l’abate Ugo ottenne il riconoscimento dei
propri diritti, contestatigli da Astaldo da Corneto, si sa che una - quella di S. Pellegrino - sorgeva nell’immediato
suburbio, sulla strada per andare alla cartiera, e, difatti, ancora oggi è designata con quel nome una contrada sulla
sinistra di quella via (Dasti, “Notizie...” cit., p. 448; Guerri, “Il registrum...” cit., p. 306); l’altra - S. Anastasio - si
trovava sotto Corneto, lungo la via per il mare (Calisse, “Doc. Am.” cit., XVII, p. 137). La chiesa di S. Pellegrino,
insieme con quella di S. Michele, era già stata usurpata dall’abate Graziano - non si sa di quale monastero - e da altri
cornetani, ai quali Sergio IV ordinava con una bolla la restituzione nelle mani di Guido abate di Farfa.
8)
“Malberto di Pietro, Pietro di Crescenzio, Lupo di Guido, e Gonzo di Gisolfo, abitanti in Corneto, donano al
monastero la porzione della chiesa di San Martino situata nel luogo detto “prope castellum vecclum”.
61
nel 1072 a Roma, in Laterano, dal cardinale Ildebrando, il futuro Gregorio VII, allora
arcidiacono di S. Romana Chiesa 11) .
Più tardi, nel 1080, anche Matilde tenne placito in Corneto per dirimere una
controversia riguardante il possesso della chiesa di S. Pietro, contestato all’abate di Farfa
dal preposito della medesima chiesa e dal cornetano Lupone 12) . I marchesi intervenivano
personalmente nelle questioni di maggior rilievo, erano rappresentati normalmente da un
visconte e da un gastaldo 13) e ciò mostra che Corneto, sita nella “iudiciaria” del comitato di
Tuscania, come si precisa nel placito del 1051, si avviava ad essere un centro di una certa
importanza. Nel medesimo periodo, ai primi del secolo XI, vi si trovavano
contemporaneamente almeno tre giudici imperiali, che non solo adempivano funzioni
notarili, ma erano effettivamente impiegati come giudici nei placiti 14) .
Questi ultimi nella prima metà del secolo XI erano tenuti all’aperto, in piazza (“intro
in vicum vel castellum turre de Corgnito, ante curte et casa Ioannis filius Uberto” nel 1014:
genericamente “in castello et turri de Corgnito” nel 1017; “infra civitatem de Corgnito... in
platea quae est iuxta aecclesiam quae vocatur S. Martini” nel 1051), ma il continuo
accrescersi dell’importanza economica ed amministrativa di Corneto indusse poi alla
costruzione, nel recinto del castello, di un “palatium”, cioé di un edificio appositamente
destinato a sede dell’amministrazione marchionale e a residenza dei marchesi stessi
durante i loro soggiorni nella città. Il palazzo, evidentemente non ancora costruito nel
1051, era in funzione nel 1080, quando, appunto Matilde teneva placito “in palatio intus
castellum”. E’ possibile che proprio da ciò derivi la denominazione popolare di “castello di
Matilde” per le costruzioni, in parte in rovina ed in parte ancora in piedi, esistenti sulla
parte più alta di Tarquinia, all’estremità settentrionale. Riferita all’origine del castello,
quella denominazione è inesatta perché un castello in Corneto esisteva già nel 967; riferita
alle mura oggi conservate, non è meno erronea perché esse appartengono al rifacimento
9)
“I placiti...” cit., III, nr. 388, pp. 200-202.
“Reg. Farf.” cit., V, nr. 1006, p.9.
12)
“I placiti...” cit., III, nr. 455, pp. 371-373. Lupone sosteneva, a nome anche dei suoi “consortes”, che la chiesa era
stata edificata sul suo allodio e concessa “per cartulam” al monastero dei SS. Cosma e Damiano, il quale poi gliela
aveva rifiutata ed egli ne era divenuto legittimo proprietario, essendo trascorsi i termini della prescrizione. Poiché i
giudici, fra cui il noto causidico Nordilone, sentenziarono che il monastero non aveva facoltà di refutare e Lupone non
poteva opporre la prescrizione, mentre in virtù di un precetto di Alessandro II i diritti dei SS. Cosma e Damiano erano
stati acquisiti da Farfa, Matilde pose il banno su S. Pietro (documento del “Reg. Farf.” del 1111, cit.., V, nr. 1216, pp.
206-207).
13)
Il visconte Giovanni e il gastaldo Ranieri assistono al placito del 1017, il visconte Marchisello a quello del 1080,
mentre Benedetto detto fuscone, gastaldo del marchese Ranieri, presiede il placito del 1014.
14)
“Iohannes notarius iudex domini imperatoris” roga un istromento del 1015 (Calisse “Doc. Am.” cit., XVII, pp. 106108, nr. LV); “Lambertus iudex domini imperatoris” uno nel 1018 (ibid., pp. 112-114, nr. LVIII); “Siifridus iudez
domini imperatoris” pronuncia la sentenza a fianco del gastaldo nel placito del 1014, di cui roga l’istrumento, ed appare
11)
62
ordinato dal cardinale Albornoz nel 1362 (Dasti, cit., pp. 88-89) e ai successivi restauri.
Quando si accenna ad un accrescersi dell’importanza economica di Corneto è in
riferimento soprattutto all’attività commerciale del suo porto, attività che, per essere già in
piena fioritura nella seconda metà del secolo XII, si deve far risalire senz’altro ad alcuni
decenni indietro e, stando alla documentazione, per lo meno al tempo di Matilde, cui fa
riferimento la prima notizia relativa ai rapporti marittimi con Pisa 15) . Probabilmente di
maggior rilevanza nel Medioevo rispetto a quello di Civitavecchia e il più attivo sulla costa
tirrenica nel tratto compreso tra Pisa e Terracina, il porto di Corneto doveva assolvere
essenzialmente alla necessità di un commercio di transito, vale a dire di duplice
convogliamento: delle merci provenienti dai più ricchi paesi del Lazio, dell’Umbria e della
bassa Maremma, dirette poi su navi cornetane verso Pisa, Genova e - poco più tardi forse verso la Spagna 16) , nonché dei prodotti acquistati dalle medesime navi nei porti del
Tirreno e del Mediterraneo e destinati ad essere assorbiti dai mercati dell’entroterra
laziale, umbro, maremmano.
Nel placito dell’anno 1051 si legge: “in finibus Maritime in loco qui dicitur
Corgnitus, iudiciaria de comitatu qui vocatur Tuscanensis”. Tuscania partecipava al giro
dei movimenti culturali più nuovi e più impegnati, sfruttando una posizione che doveva
essere importante sia dal punto di vista politico sia da quello territoriale. Il centro era
infatti la più vasta diocesi a Nord di Roma: ne conseguivano contatti economici e politici
con i territori limitrofi della Toscana e con i centri del Nord ed agganci ai paesi d’oltralpe.
Ci si pone oggi il problema dell’importanza della Clodia, dopo l’età imperiale, e di
conseguenza il ruolo che nella rete viaria dell’alto Lazio dovette avere Tuscania. Nessuna
testimonianza, oltre che del tracciato da Roma fino alla città, contro le numerose prove
dell’attivo transito della vicina Cassia, ben presto transito d’obbligo dei cortei real, dei
pellegrinaggi che scendevano verso Roma, punto di incontri strategici 17) . Tuttavia, specie
nell’alto Medioevo, la Clodia, nel tracciato che interessava Tuscania, doveva offrire
rogatorio di altre carte dal 1014 al 1017 (ibid., nn. LI, LII, LIII, LVI, pp. 98-106, 109-110). Si veda anche nel placito
del 1014 l’elenco dei numerosi “boni homines” cornetani che vi assistono.
15)
Si tratta di un documento non datato, ascrivibile all’incirca al 1173, in cui si accenna, tra l’altro, alla “dirictura” che i
Pisani pagavano nel porto di Corneto ai tempi della contessa Matilde.
16)
Una prova sicura che Corneto commerciasse con la Spagna è il privilegio con il quale nel 1204 Pietro II d’Aragona
concedeva ai cornetani che si recavano con le merci nelle sue terre l’esenzione di qualsiasi gabella e l’assicurazione
dell’incolumità personale (“Marg. Corne., c. 89 v.). Si ritiene che i cornetani avessero chiesto e ottenuto il privilegio da
Pietro II durante il soggiorno a Corneto del sovrano, diretto a Roma per farsi incoronare da Innocenzo III; si osserva,
inoltre, che il comune doveva già commerciare con Almeria fin dalla metà del secolo XII, come apparirebbe dal citato
documento non datato, dove tuttavia si parla unicamente di un commercio pisano verso la città spagnola.
17)
Nota è la posizione strategica e l’importanza storica di Sutri (Serafini, “Torri campanarie...” cit., p. 233), dove
avvennero importanti eventi (tra cui i concili del 1046 e del 1058 e l’incontro tra Federico Barbarossa e Adriano IV,
1155). Borgo Sutri era noto luogo di fermata di pellegrini.
63
maggiori garanzie di sicurezza rispetto alla costa o alla Cassia infestate delle scorrerie dei
Saraceni ed essere più salubre, per l’ambiente boscoso che la circondava, di strade come
l’Aurelia ammorbata da zone malariche. Era forse perciò preferita nei suoi più prudenti
percorsi attraverso una zona relativamente pianeggiante legata al mare mediante il Marta
navigabile e raccordata alla Cassia. La notizia riportata dal “Liber Pontificalis” secondo cui
Carlo Magno scese attraverso essa a Roma incontro ad Adriano I. potrebbe confermare
l’ipotesi dell’uso della Clodia, in fondo anche più breve per chi veniva dal Nord.
Problematico tuttavia il tracciato a Nord di Tuscania. Identificare il percorso della
Clodia nella “scorciatoia” che, attraverso il Fucecchio e Siena, scendeva su Roma, per
l’Amiata, Saturnia, Materno e Tuscania, significava immettere Tuscania in una direttrice
abbreviata da Roma al Nord, inserendola nei tracciati della via “Francesca”. Significa farla
partecipare cioè a quegli importanti itinerari medioevali che attraversavano le Alpi,
raccordandosi circa verso Piacenza, convogliando di qui il rilevante e notevole traffico per
Roma attraverso Lucca e Siena, interessandola a quell’attiva circolazione di uomini e di
idee che i pellegrinaggi, il commercio e le beghe politiche incanalavano nei percorsi tra
Roma e il Nord. Se anche gli antichi itinerari indicano nell’ultimo tratto verso Roma
sempre il tracciato della Cassia da Acquapendente, indubbiamente ciò non esclude l’uso
dell’altro percorso attraverso Tuscania che comproverebbe quei fenomeni culturali espressi
dai suoi monumenti, legati allo svolgimento artistico del Nord ed in alcuni casi a quello
delle terre dell’Elsa: ne risulterebbe anche un raccordo facile e diretto con il San Salvatore
dell’Amiata, importante nodo viario e culturale.
Indubbiamente anche la situazione politico-religiosa di Tuscania, a capo di una
vasta diocesi, nel cuore del “Patrimonio di S. Pietro” che, se sancito nei suoi confini solo da
Innocenzo III, di fatto esisteva fin dalla donazione di Carlo Magno contribuiva a
convogliare alla città tutto quell’insieme di interessi che nel mondo medioevale si
realizzava attraverso gli attivi scambi politici, religiosi e commerciali, in gran parte mediati
attraverso le comunità religiose, che nell’analisi della cultura artistica diTuscania si
registrano appunto nei diversi apporti che accoglie anche in ragione della sua particolare
accezione espressiva da sempre portata a recepire “tanti motivi culturali” provenienti da
zone diverse. L’innesto con la tradizione precedente era perciò completo sia in piano di
insediamento sia in campo di fenomeno culturale anche nella tendenza a cogliere caratteri
diversi da regioni diverse, manifesto ugualmente della scarsa recezione del fenomeno
“Roma”, estraneo ed opposto da sempre al locale patrimonio culturale.
Indiscutibile prova della vasta problematica politico-economica di Tarquinia è la sua
tematica architettonica nella quale il rapporto con le espressioni del Patrimonio è quasi
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inesistente nella maggioranza dei casi, mentre molteplici, vivaci e contrastanti gli influssi
esterni che dovettero essere, per lo più, tutti di prima mano. L’impressione che da tutte le
manifestazioni edilizie si trae è, oltre l’aggiornato linguaggio, l’instabilità dell’indirizzo
formale che concepisce sempre nuove, più avanzate ricerche: uno sperimentalismo
sicuramente in rapporto con il continuo avanzare economico del nucleo cittadino e
probabilmente anche con il libero suggerimento popolare influenzato sempre dalle più
recenti esperienze. Così se difficilmente si raggiunge una espressione coerente e
programmata, la varia fenomenologia vivamente documentata quella ricerca di concezioni
strutturali sempre più avanzate che risulta non solo ripetuta esteriormente, ma
verosimilmente sentita come problematica attuale dai costruttori di Corneto al pari dei
contemporanei lombardi e francesi.
La chiesa di Santa Maria in Castello svolge in Corneto per quasi un secolo un arco di
aggiornata esperienza, quasi voluta programmazione, ed in ogni caso testimonianza, delle
possibilità e dell’apertura di interessi e di relazioni del libero Comune di Corneto che la
costruisce con l’appoggio economico dei suoi cittadini, ricordati da numerosi epigrafi, data
anche la funzione sociale che l’edificio doveva assolvere: quella di luogo di raduno e di
dibattito.
Sintomatico che i suggerimenti a livello di schema si prendessero direttamente dal
Nord, in particolare dalla Lombardia: nulla infatti della problematica strutturale del vicino
San Pietro di Tuscania rientra nella programmata intenzione culturale di S. Maria in
Castello. Non si può, d’altra parte, oggi soppesare quanto l’appartenenza alla Marca
Toscana potesse aver giocato nelle scelte e, forse, non era stimabile neanche allora, nel
1121, quando si prese ad erigere la chiesa. Indubbiamente dovette avere peso, nella
conoscenza dei sistemi lombardi, la posizione territoriale di Corneto che, tramite la Clodia,
doveva partecipare ai percorsi viari che solcavano l’Italia centrale agganciati al sistema
della Valle Padana e rappresentare, con il suo porto, un importante sbocco al mare.
L’evidente inorganicità del monumento e la mancanza di una programmazione
spaziale ben definita, il disordine decorativo e planimetrico sembrano indubbio frutto di
cambiamenti dovuti principalmente al desiderio di aggiornamento di un cantiere non
guidato da un’unica presenza capace di personalizzare gli spunti, ma da una associazione
di intenti: cosicché ogni contributo rimane slegato a livello di suggerimento.
65
La soluzione o meno, con il 1143 o al più tardi con il 1168 18) , dalla prima fase dei
lavori di Santa Maria in Castello nulla toglie al significato emblematico che il monumento
assume nel 1143 di orgogliosa manifestazione del potere associato cittadino che sceglie,
delibera, contratta, al pari di ciò che avveniva per i centri lombardi presi ad esempio. Il
monumento si identifica con la città, la città con il monumento: interessi politici,
economici, sociali si fondono.
In
questo
collaborazionismo
di
base
clero
e
cittadini,
dimostrando
“il
professionalismo urbano”, sono chiamati a concorrere con pari forze (come testimoniano
le epigrafi) alla soluzione di problemi di valore sociale ed artistico. In questo pragmatismo
il raggiungimento assoluto della forma non è ricercato come prima istanza e, solo a volte, si
realizza per la presenza di un cittadino, Wiligelmo o Lanfranco, “dignus onore” la cui forza
creativa riesce a tradurre i voleri del popolo di aggiornamento, novità e funzionalità, in un
altro risultato.
Non a caso, dunque, appaiono incisi in due dischi del portale di Santa Maria di
Castello i nomi dei Consoli di Corneto, dando all’anno 1143 il primo documento del sistema
di governo di questa “civitas”, già forte della sua indipendenza e della ricca economia 19) ,
mentre un riflesso della politica istituzionale della città è anche nella indicazione dei nomi
dei probabili costruttori e nelle firme dei decoratori venuti dal Comune di Roma.
L’edificio di Santa Maria in Castello che doveva con probabilità assolvere anche il
compito di evidenziazione nel territorio della forza politica e commerciale di Corneto,
dimostra anche il raggiungimento da parte del Comune di un’economia urbana, risultato
anche del conglobarsi dei ceti diversi, provenienti dalle campagne, dalla pubblica
amministrazione, dal commercio che poteva ormai programmare uno sviluppo edilizio
dettato non solo da esigenze immediate.
18)
Anno di compimento del ciborio ad opera di “Johannes et Guitto Magistri”, data considerata dal Kingsley Porter di
conclusione dei lavori (“Lombard Architecture, II, pp. 349-362), ripresi, secondo il Porter, dopo il 1190, quando, a
causa di un supposto terremoto, di cui mancano testimonianze storiche, furono ricostruite “le volte di alcune campate
della navata centrale e di quattro delle laterali e la calotta absidale”. A questa successiva campagna di lavori si devono
ricondurre, per il Porter, le chiavi di volta (una sola con una semplice piastra circolare nella seconda campata della
navata partendo dalla facciata) e la cupola.
19)
G.B. De Rossi (in “Bullettino d’Archeologia Cristiana”, 1875) riporta l’iscrizione del portale, sottolineandone
l’importanza documentaria (si veda anche L. Dasti, “Notizie...” cit., pp. 396-397). Dal primo documento cartaceo
riguardante il Comune del 1144 (L. Dasti, “Notizie.... cit., doc. XXI, p. 457) emerge, oltre il nuovo spirito di autonomia
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RIFERIMENTI E LEGAMI STORICO-ARTISTICI
L’architettura romanica, svoltasi tra la fine del secolo X e la metà circa del XIII, si
presenta come l’eclettico e mutevole prodotto delle rinnovate energie locali, venute a
contatto con civiltà artistiche differenti 1) . E ciò tanto più vale per la Toscana, dove il
profondo modificarsi delle espressioni estetiche da un centro ad un altro permette di
tracciare scuole ben definite, specie nel campo dell’architettura religiosa.
L’efficacia dell’antico nella Toscana romanica consiste non tanto nell’imitazione
delle singole forme, quanto in un innato senso di sodezza, di semplicità distributiva
facilitato dal materiale, che è quasi sempre la pietra od il marmo 2) , non ancora nella
conoscenza della proporzioni classiche che sarà conquista del Rinascimento. E tale
efficacia, come forza animatrice spontanea, istintiva, quasi sempre agisce nell’opera dei
vari architetti, sia che essi risuscitino aspetti paleo-cristiani o bizantino-ravennati,
affascinati da grandi tradizioni, ovvero che seguano modi lombardi, orientali, bizantini,
musulmani, cioè fonti stilistiche vive e perciò suscettibili di ulteriori sviluppi. Inoltre,
sebbene sporadicamente, e non sempre in uguale misura, giungono anche in Toscana gli
echi delle architetture romaniche dell’Occidente, in particolare francesi, attraverso gli
anche nei riguardi della Chiesa, l’ordinamento amministrativo gravitante intorno ai due Consoli (L. Dasti, op.cit., p. 99
e sgg.; 197 e sgg. e P. Supino, in “Bullettino dell’Istituto Storico per il Medio Evo e Archivio Muratoriano”, 1968.
1)
Il riferimento, per i limiti cronologici, è riferito principalmente all’Italia perché altrove, ad esempio, in certe regioni
della Francia, nella seconda metà del secolo XII, il gotico, che nel nostro Paese doveva svilupparsi un secolo dopo, era
in pieno sviluppo.
2)
Nelle più antiche chiese il paramento è ad “opus incertum”, a sassi cioè accapezzati e sconnessi, sostituito poi da
quello regolare. Il materiale da costruzione e da decorazione durante il periodo romanico è quasi esclusivamente la
pietra da taglio (“opus quadratum”); solo in un breve tratto del Valdarno inferiore e della Valdelsa, dove la pietra
mancava, si trovavano edifici in mattoni e qualcuno anche a Pisa ed a Lucca (“opus latericium”). La Valle dell’Arno
(Casentino, Valdarno superiore ed inferiore) possiede abbondanti cave di arenaria, nelle varietà note sotto il nome di
“pietra serena”, “pietra bigia” e “pietra forte” o “filaretto”, e anche di calcare marmoso detto “alberese”. Il Monte
Pisano si differenzia bensì per molti tipi di rocce da costruzione, fra i quali uno dei più noti è il “verrucano” costituito
in gran prevalenza, di quarzo. Dalla catena delle Alpi Apuane tra la valle della Magra (Lunigiana), il litorale (Versilia)
e la valle del Serchio (Garfagnana e Valdiserchio) si estrassero il marmo bianco saccaroide e marmi colorati che
diedero luogo ad intarsi di ricco effetto policromo. A Firenze pure furono in uso i marmi a colori, specie il verde
dell’Impruneta e il verde di Prato, accostati - nell’ultimo periodo del romanico e nel gotico - al rosso di Maremma.
L’arenaria sovrabbonda nelle valli aretine (della Chiana e superiore del Tevere), nel Mugello e in Valdisieve, in
Valdinievole e Valdilina; mentre nel senese (valli dell’Elsa, dell’Arbia, dell’Orcia, ecc.), lungo il litorale tirrenico a sud
di Pisa e nel territorio fra l’Amiata (dov’è traccia anche di arenaria) e il lago di Bolsena si trovano pietre diverse per
natura e per aspetto, di carattere marmoreo (nella Montagnola senese) e non marmoreo - come gli abbondanti travertini
- ed anche rocce (specie nella parte più meridionale) di natura vulcanica. L’isola d’Elba, nota già ai Romani per le sue
cave di granito grigio, provvide colonne a moltissimi monumenti del periodo in questione, specie a quelli di Pisa, alla
quale era politicamente soggetta.
67
ordini monastici, non creatori di uno stile definito, ma provvisti di una sensibilità più
pronta nell’apprendere il nuovo e nell’attuarlo.
La maggior caratteristica dell’architettura romanica toscana consiste nella
decorazione e i singoli particolari di essa, dal paramento ai finali, dalle porte alle finestre,
dalle architetture alle logge, esprimono il sentimento delle scuole che, nei centri maggiori,
seguirono definite norme di stile. Ma ovunque, nonostante le disparate interpretazioni, si
trovano leggi ben fisse. Una serenità ed una semplicità organica di concezione, che più si
avvicina ai canoni del classicismo, domina nel secolo XI e nella prima metà del XII; poi le
forme diventano complicate e sovraccaricate col prevalere di modi orientali o lombardi o
degli uni e degli altri insieme.
Al di sopra e al di fuori delle singole scuole, si distinguono due grandi classi di
monumenti romanici in Toscana: quella in cui predomina la tendenza cromatica che
profonde il colore sotto l’aspetto di apparato murario e di rivestimento con tarsie, con
sculture minute e persino - raramente - con ricche opere musive; quella che ebbe cara la
severità della massa affidata al robusto pietrame e la sobrietà, quasi povertà, ornamentale
sdegnosa di preziosità coloristiche. La prima tendenza, per influsso dell’Oriente, muove da
Firenze e da Pisa, tocca Lucca e finisce a Siena. Durante il periodo gotico, mentre a Firenze
nelle chiese maggiori si tenta un abbinamento decorativo delle arcate pisane con le tarsie
marmoree, a Siena, di vivo cromatismo vibra il Duomo, con le armonie cromatiche
realizzate dai suoi pittori; e cadenze romanicheggianti insieme con accenni coloristici
restano sempre a Pisa ed a Lucca, divenute nella pittura più province senesi che fiorentine.
La severità monocromatica aveva prevalso nelle campagne: per ragioni complesse certo,
non tuttavia per la forza di quella produzione, a Firenze si impose nel campo
dell’architettura religiosa. Ma anche nell’architettura civile Pisa e Lucca avevano amato
effetti cromatici e le loro forme raffinate a quella tipica corrente senese, fatta di amabile
eleganza lineare e coloristica; mentre a Firenze le fabbriche trecentesche esaltarono con la
forza compatta dei loro bugnati il trionfo della massa sulla linea, del chiaroscuro sul colore.
Questa soluzione logica per un ambiente che, della chiarezza e della semplicità latina aveva
conservato il secolare primato, fu facilitato dal sopraggiungere del gotico cistercense.
Particolare interesse va dedicato alla Valdelsa, dove sorsero la maggior parte degli
edifici religiosi romanici toscani: la più tipica è la Pieve, ma numerose furono anche le
Abbazie, oggi in gran parte scomparse. Tali costruzioni, se viste nell’ambito
dell’architettura romanica toscana, presentano un interesse marginale; la loro conoscenza
è tuttavia di basilare importanta per la comprensione di quell’architettura religiosa minore
che tante testimonianze di sé ha lasciato in Toscana. Architettura provinciale che, sebbene
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a mezza strada tra l’arte e l’artigianato, testimonia pur sempre l’esistenza di numerosi
“maestri” dotati di un vivo senso dell’arte, come dimostrano le originali ed estrose
soluzioni formali. Maestri rimasti ingiustamente sconosciuti a causa dell’anonimato
imperante nel Medioevo nei riguardi degli architetti, la cui professione venne sempre
riguardata sotto una prospettiva tecnico-manuale.
Costituiendo la Valdelsa una delle maggiori vie di facilitazione del mondo
medioevale, in essa confluirono, e vennero rielaborate in forme originali, numerose
correnti romaniche: delle influenze artistiche pisano-lucchesi (nella interpretazione
volterrana), al romantico tipico del contado senese (a sua volta ricco di spunti mutuati
dall’architettura laziale), fino a sicuri accenti dell’arte borgognona.
Su tutte sovrasta l’influsso delle forme architettoniche lombarde, esplicatesi
inizialmente per il tramite delle corporazioni-famiglie dei famosi “maestri comacini”. La
consuetudine, invalsa nel Medioevo, di affidare a questi i lavori di muratura determinò la
diffusione dei modi lombardi in un’area geografica assai vasta. Tali corporazioni-famiglie
facevano capo ad un “magister”, che assommava in sé le funzioni di architetto, capomastro
e imprenditore; egli aveva alle sue dipendenze un gruppo di “artifices”, mano d’opera
specializzata per le parti architettoniche e decorative più importanti. Questi seguivano il
magister di luogo in luogo, come attesta l’identità, in diverse costruzioni, di certi
particolari decorativi quali fregi, ghiere di archivolti, finestrelle ecc. Infine agli “operarii”,
in prevalenza mano d’opera locale, venivano affidati i lavori di minor impegno.
In genere le chiese plebane ebbero pianta rettangolare con interno basilicale a tre
navate. Nelle chiese con influssi pisano-volterrani le navate furono divise da colonnati ma,
nella maggior parte dei casi, al luogo delle colonne si ebbero pilastri semplici o cruciformi.
Le absidi, normalmente tre come le navate, si riducono ad una nelle chiese più tarde o
rimaneggiate.
La torre campanaria fu propria delle Abbazie e delle chiese plebane di una certa
importanza. Nelle costruzioni più antiche il campanile appare staccato dalla chiesa. Il
campanile a vela fu invece tipico degli edifici più modesti; anzi spesso fu frutto di una
soluzione di ripiego attuata in epoca posteriore, dato che la maggior parte di tali campanili
oggi visibili non è coeva alle chiese.
La copertura degli edifici fu generalmente realizzata mediante capriate a vista sia
nelle chiese ad un’unica navata sia in quelle a pianta balisicale; in queste ultime però le
navi laterali furono coperte semplicemente con travi disposte secondo la pendenza del
tetto. Rare e sempre più tarde sono le coperture a volta; tuttavia nelle chiese abbaziali si
voltarono, più anticamente a botte, in seguito a crociera, i bracci del transetto.
69
Infine è indispensabile analizzare il potere figurativo e politico di Tuscania, in
particolare studiando le suggestioni provenienti da San Pietro, punto focale per la
comprensione della varietà di influssi gravitanti nella zona.
Il significato emblematico e culturale di San Pietro è già programmato nel suo
esterno che focalizza le tendenze estetiche e storiche di cui è esponente, che si realizzano
nei diversi apporti registrati e fusi in un’espressione che rimane unica, nonostante i
rimaneggiamenti e i restauri, grazie proprio alla assoluta adesione ad un contenuto
formale, in particolare quello proprio dell’XI secolo, che riesce a sopportare anche
successivi interventi in quanto, nella perdita del particolare, non viene meno l’originaria
volontà compositiva che è quella di rendere l’insieme un vibrante e cromatico tessuto che
cancella la greve massa. Indubbiamente l’esterno di San Pietro rende già partecipi sia delle
aperture sia dei limiti dei suoi costruttori, che sfruttano tutte le tendenze più aggiornate
per la strutturazione dell’edificio nella chiave desiderata, confessando anche la loro
incapacità a rendere l’involucro in puri volumi contrapposti secondo i principi d’oltralpe
per realizzarlo, invece, con un prevalere della partitura definitiva in rapporto al gusto più
tipicamente italiano.
La posizione stessa del monumento favoriva la sua nuova tendenza strutturale e,
insieme, la soluzione cromatica delle superfici immerse nella luce, tese ad alleggerire la
massa imponente dell’edificio che recupera l’antica soluzione di predominio urbanistico e
politico dell’ “arx” etrusca, sfruttandone anche la viabilità.
Il fulcro della città e la nuova
sede del potere religioso e civile vengono ad identificarsi, qui come altrove, con l’antico
centro e, come nell’urbanistica greca ed etrusca, il luogo sacro viene a coincidere con il
punto naturale più alto e il tempio non è che un’astratta e formale perfetta emergenza
realizzata artificialmente mediante un manufatto... un simbolo ed un modello.... per
evidenziare e drammatizzare il potenziale figurativo di un paesaggio naturale.
Dunque l’architetto, recuperando gli antichi punti di preminenza e sfruttando la
viabilità e i raccordi già tracciati, riesce a dare alla città il simbolo religioso e politico
voluto 3) , realizzando un’opera architettonica di valore sociale: l’autore è condotto a creare
un’entità che diviene specchio di un momento, di una particolare situazione storica e
politica, chiara affermazione di potenza nel recupero dell’antica “arx” etrusca, riprova
ancora una volta, che non è soltanto l’architetto che firma la sua opera, ma la città stessa.
3)
Nulla di certo sulla situazione politica contemporanea alla costruzione di San Pietro che potrebbe coincidere o con il
momento di tranquillità subentrato verso il 1082, una pausa nelle lotte tra la Chiesa e l’Impero, alla quale non fu
estraenea la contessa Matilde nel 1080 residente a Corneto (Turriozzi, “Memorie...” cit., p. 46), o con più probabilità
con il periodo successivo al saccheggio del 1090 di Gerardo di Sutri (Dasti, “Notizie...” cit., p. 188 e sgg.), in rapporto
con l’estensione della diocesi sotto Urbano II (1088-1093).
70
Il progettista di San Pietro aderisce alla tendenza propria del momento sintetizzata
nel rapporto tra esigenze costruttive ed estetiche: la massa architettonica si inserisce e si
completa nell’ambiente creando un nuovo involucro spaziale che, corrispondendo alla
ricerca di un “unicum” figurativo, realizza una fusione di valori strutturali e decorativi. Ne
risulta un equilibrio compositivo cui contribuisce la completa adesione all’ambiente
esterno sapientemente sfruttato nei suoi caratteri di emergenza e di atmosfera tanto che se
l’abside fortificata di San Pietro verrà imitata nel territorio, non se ne raggiungerà mai
l’alto valore stilistico innegabilmente favorito da una particolare situazione naturale 4) .
Alla Rocca si giungeva per il raccordo che si biforcava dalla Clodia, raggiungendo la
collina alle spalle, come oggi. In questo modo è l’abside che si offre a chi arriva e che
riassume il significato formale dell’edificio, acquistando valore di facciata.
E’ indubbio che il costruttore abbia calcolato il punto di vista di chi sale, svolgendo
perciò il proprio programma decorativo dall’abside alla fiancata Nord che ne continua e
completa le premesse ornamentali. Il risultato è che il lato Sud, che si enucleava come
“parete di servizio” nell’esterno dell’edificio 5) , rimane completamente a sé con una
decorazione più trascurata e ridotta. Questo indirizzo compositivo sarà mantenuto anche
nel ripristino avvenuto con probabilità verso la fine del XII, inizi del XIII secolo: i
costruttori di allora continuarono a sottolineare l’importanza del lato Nord con una
decorazione a lunghe arcate, ridotte di altezza sul lato Sud.
La facciata si pone, più che come una prosecuzione dell’andamento decorativo,
come un tutto a sé, proprio perché nella fase di avvicinamento all’edificio costituisce un
secondo e separato momento. Ciò, sentito nella edificazione della fronte legata ai valori
strutturali dell’interno, è perfettamente inteso anche dal realizzatore dell’attuale facciata
che sottolinea questa intenzione formale, sviluppando un nuovo mondo figurativo,
naturalmente consono alla propria formazione culturale, che si oppone come un secondo
fuoco, nella lettura dell’edificio, alla zona dell’abside e del fianco Nord, e ciò era appunto
possibile dato che i due punti di vista, quello della facciata e quello del fianco, non
coincidono mai.
La decorazione esterna di San Pietro sintetizza la cultura del suo autore: fusione di
motivi diversi, temperati in un alto linguaggio, che come un nodo di confluenza raccoglie
caratteri umani ad edifici della Lombardia, dell’Emilia, della vicina terra aretina,
4)
Nella zona una simile situazione absidale hanno: Santa Maria di Castello e San Giacomo di Tarquinia, San Vivenzio
di Norchia, Santa Maria di Capranica, la Cattedrale di Sutri, San Robano all’Alberese. Vedi: M. Zocca, in “Palladio”,
1942 e B. Apollonj Ghetti, in “Palladio”, 1938.
5)
Le strutture oggi rinvenibili nel lato Sud, riferibili ad epoca antica e medioevale indicano l’utilizzazione di questo
lato, dalla migliore esposizione, per i nuclei delle abitazioni e degli annessi alla chiesa.
71
dell’Esarcato, del mondo arabo in un discorso che è tipico dell’XI secolo nella sua
universalità culturale 6) . In questa così particolare sintesi di elementi, piace vedere un
architetto che realizza una personale scelta di gusto che estrinseca nella decorazione del
tessuto esterno, in un “unicum” che se determina imitazioni non genera una scuola. Se non
sono noti con chiarezza i presupposti storici e politici che determinarono questi scambi
culturali, da sottolineare è, ancora una volta, la particolare posizione di Tuscania e del suo
territorio, in una zona di passaggio, aperta a tutte le correnti, senza confini naturali o
politici che avrebbero potuto più facilmente dare adito al ripetersi dello schema
compositivo 7)
PROBLEMATICHE STILISTICHE
Nella visita del 4 aprile dell’anno 1856 si legge: “La Sacra Chiesa Parrocchiale sotto
il titolo di S. Martino Vescovo, detto anticamente il Vecchio, non ha memoria di sua
fondazione, ma da alcuni manoscritti esistenti in Archivio Parrocchiale, e dalla sua gotica
costruzione può credersi che abbia avuto origine circa l’anno 1000. Ella è posta quasi nel
capo della città, non tanto distante dal pubblico Cemeterio”.
Tre sono infatti i documenti che testimoniano che la chiesa di S. Martino è una delle
più antiche della città (come già precedentemente detto): due di essi sono pertinenti alla
donazione della citata chiesa da parte di Malberto di Pietro, di prete Ranieri e di altri
cornetani al Monastero di S. Salvatore in Monte Amiata nell’anno 1045-1046 (“Reg. Farf.
cit., V, nr. 1236, pp. 221-222; nr. 1237, pp. 222-223) e l’ultimo è un placito tenuto “in platea
quae est iuxta aecclesiam quae vocatur sancti Martini” (“I placiti.”cit., III, nr. 388, pp. 200202; “Reg. Farf.” cit., IV, nr. 824, p. 225; “Chron. Farf.” cit., p. 125, da C.).
Non sembra comunque possibile identificare la chiesa attuale con quella già
esistente nel 1051. I rapporti con l’ambiente pisano, tutti intorno al XII secolo, il richiamo
6)
L’esame della decorazione esterna del paramento murario di S. Pietro porta ad una datazione verso la fine dell’XI
secolo. Escludendo una data precedente, avvalora indubbiamente questa data il recente recupero nella muratura di
intercapedine dell’abside di una lastra frammentaria attribuibile al IX secolo usata come materiale di riempimento.
7)
Nulla di certo circa i rapporti storici che potevano legare i centri emiliani con Tuscania oltre la già citata presenza
nella zona della contessa Matilde nel 1080, “leggendaria promotrice delle pievi dell’Appennino Reggiano e Modenese”.
Quanto ai rapporti tra Tuscania e Arezzo nulla si può dire di preciso dopo il IX secolo quando Giovanni X, vescovo di
Tuscani, andò coi vescovi di Siena ed Arezzo come legato apostolico al Concilio di Pontgois (Turriozzi,
“Memorie....”cit., p. 44). C’è da ricordare la notizia riportata dal Dasti (“Notizie.... “ cit., p. 188 e sgg.) di Cincio
prefetto di Roma rifugiatosi, nella sua lotta contro il Papa, tra il 1071 e il 1074, a Corneto e Tuscania. Cincio era
particolarmente legato all’arcivescovo di Ravenna nella lotta contro Gregorio VII e la sua posizione per il partito
dell’imperatore doveva certo portarlo a rapporti oltre che con Ravenna con Arezzo, città ghibellina. Anche l’Abbazia di
Pomposa era strettamente legata all’autorità imperiale.
72
ad esempi arabi che presuppone almeno la contemporaneità con San Giacomo, lo stile dei
capitelli e delle mensole di una qualità non elevata, ma non arcaica, come le massicce
colonne, conducono ai primi decenni del XII secolo.
La nuova problematica stilistica della chiesa di S. Martino sembra da ascrivere alla
attività marinara della città.
La bolla di Leone IV registrava il sorgere di due entità: Viterbo e Corneto, centri
nuovi creatisi, per le mutate esigenze territoriali, col vigore delle nuove forze, nei quali la
tradizione precedente agisce solo, forse, a livello di spinta iniziale. Concentramento,
dunque di nuovi interessi economici e sociali. Il loro rivelarsi nell’assetto territoriali già
manifesta il loro “iter futuro”: Viterbo nel cuore del comprensorio, vicina alla Cassia, in
diretto rapporto con Roma ed il Nord, ma anche polo di accentramento dei nuclei agricoli,
con vasta possibilità di espansione nell’ambiente che l’aveva generata come necessario
elemento di coordinamento; Corneto stretta sul mare, privata dell’enorme territorio di
Tarquinia, ormai inglobato nella potente diocesi di Tuscania, non più padrona degli antichi
raccordi con l’entroterra per l’estendersi di Viterbo, chiusa alle spalle da Tuscania,
enucleata quindi dal Patrimonio 1) . In comune un elemento fondamentale: il libero potere
popolare.
Con la tesi del Dilcher, e cioè con l’ipotesi di un caposaldo avanzato longobardo, il
più a Sud nella “Tuscia Longobardorum”, si potrebbe spiegare fin dagli inizi il particolare
carattere del centro che si denuncia subito privo di legami con il territorio e motivare,
quindi, quei presupposti che, una volta resosi possibile l’affermarsi sul mare, vengono dalla
nuova situazione commerciale maggiormente sottolineati. Innegabilmente la presenza per
tempo di canali politici con il Nord potrebbe pienamente giustificare anche la “tradizione
culturale” dei successivi fenomeni artistici. Tale ipotesi, perciò, conformerebbe
l’indipendenza del centro dalle strutture e dagli orientamenti del Patrimonio e la
consuetudine a vasti contatti con il Nord, difficilmente attribuibili soltanto all’attività
marinara. Sul mare la città, spinta dall’impossibilità già denunciata di espandersi
nell’entroterra per l’egemonia territoriale di Viterbo o verso il Nord per l’asperità del
luoghi, recupera ben presto l’antica potenza di Tarquinia 2) solidificata da trattati con le
1)
Sul territorio di Tarquinia e sui collegamenti viari: M. Pallottino in “Monumenti Antichi, a cura della R. Accademia
Naz. dei Lincei”, 1937. Importanti i raccordi alla Clodia, alla Cassia e al lago, quest’ultimo lungo la vallata del Marta.
2)
A quanto ricorda il Dasti (“Notizie...” cit., p. 98) Corneto ebbe due porti, uno alla foce del Marta (coincidente con
quello di Tarquinia) ed uno alla foce del Mignone (coincidente con “Rapinium”). Sulla localizzazione dell’antico porto
di Tarquinia, la situazione dell’entroterra ed i rapporti con Viterbo, l’importanza acquistata dalla città marinara si veda:
M. Pallottino (in “Monumenti Antichi”, cit., 1937). Sull’importanza del porto di Corneto cfr. anche P. Supino (in
“Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano”, 1968, pp. 140-141). Da sottolineare
73
Repubbliche marinare, prima fra tutte Pisa 3) . Il porto significherà per Corneto, oltre che
potere commerciale, importante possibilità di contatti, rappresentando l’accesso a Roma
dal mare 3b .
L’edificio risulta ispirato dalla architettura pisana nel partito decorativo e formale
della facciata divisa in due da una cornice bicroma che sottolinea l’antitesi tra il liscio
timpano e il vibrante pittoricismo della zona inferiore concluso nella lunetta a due archi
falcati in conci chiari e scuri.
E’ riferibile a suggestioni provenienti da San Pietro di Tuscania la scansione della
superficie muraria mediante semicolonne.
Nel San Pietro, in effetti il leggero aggetto dei cordoli, il loro esile allungarsi
modulando la superficie, la loro stessa funzione, denunciata dal sottile rilievo, che è solo
quello di interrompere l’andamento murario per dare alla luce possibilità di rifrazione
creando un sottile gioco di alternanze luminose che vivifica la superficie, gioco accentuato
dai motivi decorativi in alto e dal diverso aggetto dello zoccolo rispetto alla calotta, è tipico
dell’XI secolo quando il vibrante e prezioso momento decorativo non è ancora ridotto a
maniera. Successivamente infatti la decorazione delle superfici si volge ad una
evidenziazione delle membrature che trasforma le semicolonne e le lesene rendendole più
aggettanti ed incidenti, di una perfetta scansione.
Avviene nell’XI secolo un ritorno ad una completa interpretazione decorativa del
motivo delle archeggiature, una revisione cioè della specifica e rigorosa interpretazione
accentuatamente plastica e architettonicamente sempre più integrante delle scansioni ad
archetti e lesene data dall’architettura lombarda del IX secolo rispetto al precedente valore
dell’architettura esarcale. Una ripresa di quegli schemi decorativi e cromatici ai quali si era
volta, attraverso un lento processo di trasformazione 4) , la funzione strutturale delle prime
archeggiature esterne ravennati, in un recupero di un’eredità culturale che si ritrova con
che Corneto riprende la situazione portuale etrusca e non eredita quella della colonia romana di “Graviscae”. Per la
localizzazione di “Graviscae” e “Rapinium”, i rapporti di “Graviscae” con il centro etrusco e i relativi percorsi viari si
veda il citato studio di M. Pallottino. Le continue lotte con Viterbo culminarono nella sconfitta subita dai Cornetani nel
1169 (L. Dasti, “op.cit.”, p. 200).
3)
Il Dasti (“Notizie..” cit., p. 103) sottolinea l’importanza del ricco porto di Corneto, principale scalo tra il Tevere e
l’Argentario, data anche la distruzione di Centocelle - “Centum Cellae” - nel secolo IX (Civitavecchia) compiuta dai
Saraceni. Lo provano anche le mire dei Viterbesi ad uno sbocco al mare soddisfatte con parziali concessioni prima da
Federico I (quarta parte del porto di Montalto e decima di quello di Corneto) e poi da Alessandro IV.
3b
Il Dasti (“Notizie..” cit., p. 103) sottolinea l’importanza del ricco porto di Corneto, principale scalo tra il Tevere e
l’Argentario, data anche la distruzione di Centocelle - “Centum Cellae” - nel secolo IX (Civitavecchia) compiuta dai
Saraceni. Lo provano anche le mire dei Viterbesi ad uno sbocco al mare soddisfatte con parziali concessioni prima da
Federico I (quarta parte del porto di Montalto e decima di quello di Corneto) e poi da Alessandro IV.
3b
74
quest’intento essenzialmente ornamentale, per poi passare a Tuscania col motivo della
semicolonna ridotta a cordolo in un rapporto quindi non solo morfologico, ma anche
interpretativo 5) .
La tendenza ad una versione cromatica nell’esterno di San Pietro è sottolineata,
oltre che dall’uso di una materia diversa per le decorazioni, dalle alternanze dei vuoti e dei
pieni, dei rincassi e degli aggetti, che eludono i forti accenti chiaroscurali consoni
all’esigenza plastica, determinando al contrario leggeri e vibranti effetti pittorici.
L’architettura paleo-cristiana era stata eminentemente decorativa negli interni: le
chiese avevano avuto tarsie marmoree, stucchi, mosaici, in antitesi con i nudi templi
pagani, in dipendenza delle forme nuove del culto. Per gli esterni non aveva voluto
raffinatezze estetiche; ma negli edifici ravennati dei secoli V-VI arcate cieche, lesene ed
archetti pensili diedero lo spunto a motivi ornamentali passati, attraverso i lombardi,
nell’architettura romanica che tende così ad una decorazione principalmente esteriore.
Nel duomo di Pisa questa architettura decorativa esterna trova la sua più completa e
ricca attuazione. Le arcate cieche di ricordo ravennate risaltano lievi sui muri, accolgono
finestre arcuate a pieno centro con classiche ghiere, o rombi incassati; e sono sormontate
da lesene cui si alternano, oltre che finestre e rombi, anche dischi con intarsi; mentre una
cornice di classica ispirazione racchiude l’insieme. Nel rivestimento superiore del transetto
tornano le lesene a pause più larghe e aiutate da mensole per sostenere il coronamento; ma
in quello della navata di mezzo si svolgono arcate su colonne; le parti più in vista (abside
maggiore e facciata) si nobilitano di colonnati e di logge sovrapposte in una geniale sintesi
ornamentale ispirata a fonti diverse.
Il duomo di Pisa, dovuto alla limpida mente assimilatrice di Buscheto, fonde
risuscitati elementi antichi e paleo-cristiani, con motivi lombardi, bizantini, saraceni o, più
genericamente, orientali.
Nella ricerca di riferimenti per la chiesa di San Martino, in particolare riguardo agli
elementi decorativi della facciata, è opportuno citare: la basilica di San Pietro a Grado
(Pisa), la Pieve di Vicopisano (Pisa), la Pieve a Elici presso - Massarosa - (Lucca), la Pieve
4)
Il motivo delle archeggiature trapassano da funzione strutturale e ornamentale, acquistando un valore essenzialmente
decorati verso l’VIII secolo.
5)
Nelle decorazioni esterne più antiche appaiono di prevalenza le paraste piatte di chiaro ricordo ravennate. Le
semicolonne si incontrano, secondo A. Kingsley Porter (“Lombard Architecture”, p. 238) nel Battistero di Lenno, circa
nel 1085, alternate a paraste e poi nella Badia di Vertemate iniziata nel 1085, consacrata nel 1095. Le paraste a sezione
circolare che si trovano per la prima volta nel campanile di Pomposa fondato nel 1063 indicano uno stile più avanzato e
precisamente il secondo quarto del XII secolo. Le lesene che appaiono a Tuscania presupporrebbero la larga precedente
diffusione del motivo nelle chiese lombarde.
75
Vecchia di Santa Maria del Giudice (Lucca) e la Badia a Isola presso Colle Val d’Elsa
(Siena).
San Pietro a Grado sorge nel luogo dove, secondo la leggenda, si crede approdato
l’Apostolo Pietro, giungendo da Antiochia; è una basilica precedente al XII secolo,
tripartita da colonnati, di uno slancio analogo a quello della Cattedrale, e terminante con
tre absidi ornate alla lombarda di archetti e lesene con rombi e con tondi recanti lucenti
maioliche, allusive ad una nota di colore, frequenti nei monumenti pisani. La chiesa ha poi
un’abside opposta collegata alla posizione dell’altare, tuttavia eccentrica rispetto all’asse
dell’edificio ed anche quella di un tempio precedente; tale altare ricordava il punto sul
quale S. Pietro avrebbe pregato appena giunto in suolo italiano.
La Pieve di Vicopisano, databile alla prima metà del XII secolo, riflette le
caratteristiche delle pievi della campagna pisana dello stesso periodo, tutte senza cripta
come il Duomo, ripartite a tre navate da colonne. La faccita è citabile per la fermezza
dell’intaglio degli archetti e l’esilità delle semicolonne. La porta è sovrastata da un arco
allungato, falcato, animato da dicromia, come si trova frequentemente nel territorio
pisano.
La Pieve a Elici sopra Massarosa in terra lucchese è caratterizzata da una severa
facciata disadorna, con un portale incorniciato da gracili pilastri. Inoltre è richiamabile la
cornice che ripartisce in tutta la lunghezza la facciata e l’andamento scarno della parte
superiore rispetto alle forme più aggraziate della zona sottostante.
La Pieve Vecchia di Santa Maria del Giudice si fregia di archeggiature sovrapposte
nella sua facciata organica divise da colonne; reca, secondo la foggia lucchese, abachi
sagomati. La fronte, secondo un’iscrizione sull’architrave, va collocata fra il 1160 e il 1170.
La pieve, vivace per dicronismo, rappresenta il penetrare delle caratteristiche di
Buscheto nel territorio di Lucca. Se è frequente nel territorio l’arco allungato, falcato e
bicromo, più raro e più tardo è il motivo della doppia ghiera, spesso formata dal porticato
cieco, di cui è esempio il portale della pieve vecchia di S. Maria del Giudice.
La Badia a Isola, dedicata ai Santi Salvatore e Cirino, fu la chiesa del Monastero
benedettino fondato nel 1101 dalla contessa Ava, figlia di Zenone e vedova di Ildebrando di
Ialfredi. Deve il suo nome al fatto di essere sorta in un terreno leggermente sopraelevato
sulla restante zona, una volta paludosa, la cui bonifica fu merito della laboriosità dei
monaci.
L’edificio, raro per una chiesa monastica, ha pianta di tipo basilicale, con tre navate
coperte a capriate ed altrettante absidi. Sei valichi per parte dividono le navate; l’ultimo,
più ampio dei precedenti e ad un livello superiore al piano della restante chiesa, costituisce
76
il presbiterio, al di sotto del quale è la cripta. L’arco della prima campata s’imposta su di un
pilastro con semicolonna addossato alla facciata interna e termina su di un pilastro
rettangolare che presenta due semicolonne nello stesso senso dei valichi.
Successivamente si trovano alternati grosse colonne e pilastri a fascio; di questi
ultimi, quelli centrali hanno le semicolonne prolungate in alto con l’intenzione di sostenere
un arco trasversale, mai realizzato per l’evidente incapacità dei costruttori di gettare archi
e volte di una certa ampiezza. Al termine dell’edificio l’ultimo valico si appoggia ad un
pilastro con semicolonna addossato al piccolo tratto di muro compreso tra l’abside centrale
e quella minore.
Assai interessante è la facciata dell’Abbazia, recentemente ripristinata; come il resto
della chiesa ha il paramento murario costituito da regolari filaretti a piccole bozze di
travertino provenienti dalle vicine cave, oggi non più efficienti. Un settecentesco campanile
a vela era sul culmine; pericolante, fu demolito durante i restauri, anche perché, col suo
peso, minacciava l’equilibrio statico del muro sottostante. Il coronamento ad arcatelle
pensili, sormontate da una cornice a smusso, che caratterizza tutta la facciata. Gli archetti,
con fregi raffiguranti animali fantastici, s’impostano su piccole mensole decorate con
rosette o testine umane. Nella zona delle facciata relativa alle navate minori le arcatelle
sono sorrette da mensole alternate a semicolonne; questa parte del coronamento è stata
ripristinata solo sul lato sinistro, integrando i frammenti rimasti in loco con elementi
dispersi e ritrovati.
La Badia a Isola è senz’altro da considerare il più importante edificio religioso
romanico della Valdelsa; in essa si opera una perfetta sintesi di modi costruttivi lombardi
(ritmico alternarsi di colonne e pilastri a fascio) con tendenze pisano-lucchesi di
interpretazione volterrana (partito decorativo della facciata).
La costruzione, per i suoi caratteri, è da attribuirsi alla metà del XII secolo.
Difficile stabilire la parte avuta dal vicino San Giacomo nella scelta della tipologia
decorativa della cornice a sottili scanalature orizzontali (ascrivibile, con possibilità, anche a
suggerimenti pisani) e soprattutto nell’adozione della morfologia delle calotte absidali,
motivo raro, a sesto rialzato emergenti per tre quarti dalla parete absidale, che richiama
soluzioni musulmane d’Egitto, proponendo anche possibili dirette suggestioni.
La chiesa di San Giacomo sorge sullo scoscendimento roccioso che limita a Nord la
città ed offre un esempio valido della “internazionalità” delle suggestioni pervenute a
Corneto. L’edificio è indicato dal Porter come uno tra i primi in cui si manifesta l’uso della
copertura a crociere a sezione angolare. Secondo il Porter, nel S. Giacomo i muratori di
Corneto sperimentarono, forse per la prima volta, un nuovo metodo di costruzione:
77
presero in prestito dai lombardi il motivo essenziale del loro stile che è la volta a costoloni
ed indubbiamente lo fecero perché si adattava particolarmente alle condizioni locali, in
quanto costruibile senza legno che era ed è ancora oggi scarso presso Corneto.
La volumetria compressa dell’interno, anche per le ridotte proporzioni, e
assoggettata alla cupola raccordata al rettangolo di base da nicchie angolari su una cornice
dicroma emergente 6) , l’elegante partitura delle pareti esterne, sottilmente modulate da
specchiature ottenutte dall’aggetto dei contorni, unita ad una alta qualità nell’intaglio dei
conci, la cupola estradossata orientano, invece, verso precise espressioni architettoniche.
L’edificio sembra rimandare, per le particolarità iconografiche e decorative, alla
edilizia della Calabria e della Sicilia, corrispondente al periodo di Roberto il Guiscardo e di
Ruggero I.
La cupola ellittica di San Giacomo su nicchie angolari poggianti sulla cornice, trova
rapporto con antichi esempi musulmani: non compare il motivo dello spigolo sporgente,
che diverrà frequente nell’architettura musulmana e che è presente nelle cupole siciliane
dell’epoca di Ruggero. 6b
La cupola, la cui calotta esterna, non eccessivamente elevata (considerando anche la
attuale sopraelevazione delle pareti laterali indicata dal Porter) appare assai vicina a quella
delle più semplici cupole delle moschee che richiamano prototipi sasanidi.
Un altro richiamo in San Giacomo nell’ambiente siciliano della epoca dei primi
Normanni è rappresentato dalle superfici lisce, appena variate dall’aggetto dei ringrossi,
della parete absidale e del transetto. Il modulo compositivo, ma soprattutto il contenuto
formale nella ricerca di una riduzione dell’edificio a pura forma geometrica, accentuata
dagli andamenti rettilinei delle cornici e dalla luce che sottolinea le superfici, richiama
esempi architettonici musulmani d’Egitto e le versioni siciliane di questa architettura del
deserto.
Il contatto con l’architettura siciliana non ha per San Giacomo, dunque, valore
episodico come sostiene il Porter, ma al contrario si evidenzia come partecipazione ad una
situazione estremamente importante e viva, densa di diverse e contrastanti esperienze
germinanti tra le quali i costruttori della chiesa cornetana sembrano maggiormente attratti
6)
La dicromia, elemento decorativo di successo nelle architetture dei secoli XI e XII, sarà frequente anche nelle
successive espressioni di Corneto e della zona, come il Duomo di Sovana e San Flaviano di Montefiascone, ma qui non
è ancora maniera e sembra attingere direttamente a fonti di cultura araba.
6b
La pianta ellittica non è molto frequente per le cupole: appare tuttavia a Pisa nel Duomo e a Corneto, a Santa Maria
di Castello. Secondo il Sanpaolesi è insolita anche nel mondo islamico, non inusitata però negli archetipi persianoarabi; alcuni esempii si trovano anche in architetture greche.
78
dal linguaggio e dal contenuto formale della matrice araba. Lo dichiara anche la ricerca di
una perfetta formula volumetrica, assolutamente luminosa, di un’architettura intesa come
fatto astrattamente perfetto, al di fuori di ogni problematica sperimentale, che non troverà
seguito in un ambiente in cui le implicazioni strutturali lombarde avranno presto molto
successo anche come possibilità di ricerca 7) .
E’ oggi difficile stabilire in quale misura abbia contribuito, anche a livello di una
premessa per un rapporto culturale, la rivolta fomentata a Corneto e a Tuscania nel 1057
da Roberto il Guiscardo 8) . In ogni caso l’erezione di San Giacomo non dovrebbe essere
posteriore agli inizi del nuovo secolo: i rapporti con le chiese siciliane non permettono di
andare molto oltre, quando sono ormai comuni in Sicilia forme più complesse.
La decorazione delle mensole degli archetti, a protomi animali alternate ad elementi
scanalati, richiama esempi decorativi di Tuscania.
L’attuale aspetto di Santa Maria Maggiore nasconde quello dell’edificio precedente,
probabilmente contemporaneo al campanile, ad una navata con transetto triabsidato, di
minore sviluppo di quello odierno come attesta anche il campanile oggi quasi addossato
alla facciata. La prima pianta doveva richiamare la planimetria propria degli edifici
monastici dell’XI e del XII secolo 9) , sentiva vivamente nel Senese 10) .
Del primo edificio è conservato l’abside che nello schema a paraste semicircolari
rientra nella morfologia frequente nella zona 11) , arricchita di modiglioni a motivi
geometrici e animali, simili a quelli nel giro alto delle mensole della torre di San Giusto 12) ,
nell’abside di San Salvatore a Tarquinia 13) . Nel tipo e nella qualità del rilievo basso queste
decorazioni partecipano ad una tipologia che si localizza prevalentemente dalla fine dell’XI
7)
A. Kingsley Porter, “Lombard Architecture”, II, pp. 343-345; G. De Angelis d’Ossat definisce la cupola di San
Giacomo “arabo-normanna” (in “Palladio”, 1969).
8)
L. Dasti, “Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto”, p. 192. Successivi rapporti con i Normanni si
avranno con il conflitto tra Ruggero II e Innocenzo II (1133).
9)
A croce, con una o tre absidi, senza cripta. In queste chiese manca l’arricchimento del coro. Tuttavia la nave trasversa
si innesta sulla longitudinale sempre mediante arconi.
10)
L’Abbazia di Santa Maria a Conéo è formata da un’unica navata rettangolare con ampio transetto triabsidato al
termine. Delle tre absidi solo la centrale è visibile anche all’esterno, quelle minori ricavano la loro concavità nel forte
spessore del muro, secondo un motivo che sarà ripetuto da numerose chiese valdesiane. All’incrocio delle navi col
transetto s’imposta una cupola a spicchi che si eleva da un tamburo ottagono raccordato al presbiterio mediante
pennacchi visibili anche all’esterno per l’esistenza di triangolari contrafforti al tiburio ottagonale che copre al di fuori la
cupola.
11)
Si rimanda anche ai capitoli precedenti.
12)
Le mensole che nel giro alto del campanile di San Giusto sostituiscono i peducci hanno anche protomi umane di
semplificata esecuzione e formelle simili a quelle dell’abside di Santa Maria fino a far pensare ad un’identità di bottega.
I modiglioni figurati, motivo comunissimo nelle decorazioni francesi ed italiane del XII secolo, sarebbero per il Porter
di derivazione lombarda.
13)
Alla decorazione del San Salvatore di Tarquinia concorrono elementi decorativi di provenienza diversa. La chiesa è
vicina a Santa Maria Maggiore nei caratteri architettonici e decorativi, fu probabilmente rifatta ed anche allargata, come
dimostra l’irregolarità nello spessore delle mura, nell’XI-XIII secolo (A. Kingsley Porter, “Lombard Architecture”, I, p.
124).
79
secolo e nel XII nel Senese 14) . Il fragile rilievo, in palesi richiami all’ambiente preromanico
ricollegano questi elementi decorativi a quell’indirizzo figurativo che continua i valori
formali precedenti, manifestato anche in alcune decorazioni di San Pietro 15) . Non
meraviglia che nel repertorio di questi modesti scalpellini affiorino antichi ricordi culturali
del patrimonio etrusco (le palmette e la tipologia degli stessi piatti animali che, in
particolare, richiama una lastra del Museo Archeologico di Tarquinia).
Difficile localizzare nel tempo queste decorazioni che sfuggono ad ogni
delimitazione cronologica proprio per il loro intaglio a-temporale ed il loro eterno bagaglio
figurativo. Con probabilità opere di una medesima maestranza, che diffonde anche
all’interno dei suoi cantieri le medesime planimetrie - Santa Maria Maggiore a Tuscania e
Santa Maria a Conèo - attiva prevalentemente nelle terre dell’Elsa e, forse, tramite la via
“Francesca”, scesa fino al Sud a Tuscania e a Tarquinia.
Una svolta particolare questo rapporto tra le espressioni figurative della Pieve di
Tuscania e delle Pievi del territorio senese che fa sospettare, contemporaneamente alla
circolazione culturale ad alto livello che gravitava intorno a San Pietro, un giro più
“regionale” che si spiega con i più modesti limiti della chiesa pievana.
I capitelli mensoliformi del portale di San Martino, vicini a quelli di Santa Maria di
Castello, fanno propendere per un completamento legato al vicino cantiere.
Relativamente
a
questa
problematica
e
soprattutto
a
proposito
della
ornamentazione dei capitelli, Santa Maria di Castello manifesta nuovi legami con
l’ambiente pavese. Il gruppo delle fiere, delle mostruose figure, degli spessi fogliami che
vivacizza l’interno fornendo un’alternanza di ombre, sottolineata dal grigio del nenfro, allo
splendente macco dorato, denuncia i suoi presupposti nei cantieri del San Michele. E non
solo a livello di suggerimenti tipologici nella scelta degli animali, nei contorti ed
antinaturalistici atteggiamenti dei corpi, nell’uso di ricorrenti figurazioni (l’aquila, i
draghi...), nelle rozze presente umane, nello zoomorfismo, ma soprattutto nel valore
formale che è appunto di risoluzione in plastico vitalismo della razionale e calibrata
progettazione strutturale.
14)
Da Sant’Angelo a Metelliano (M. Salmi, “L’architettura Romanica in Toscana”, p. 23, tav. CCXXIV) all’abside del
Duomo di Sovana, al portale della Pieve di Pienza, alle decorazioni nei tondi della Pieve di San Gennaro a Capannori, a
quelle del Duomo di Volterra o di Santa Maria a Conéo (M. Salmi, “L’architettura...” cit., tav. CLXVII, LIV e
“Scultura Romanica in Toscana”, ff. 31, 48, 44). Si possono aggiungere anche le sculture ornamentali della Canonica di
Cedda (I. Moretti e R. Stopani, “Chiese Romaniche in Valdelsa”, p. 153).
15)
In particolare i capitelli delle semicolonne della cripta. Simile tipologia presentano anche i capitelli delle
semicolonne dell’abside di Santa Maria Maggiore decorati da ricci su foglie lisce e nervature centrali arricciate, che
ricordano opere dell’avanzato secolo XI.
80
Pur nell’appartenenza ad un medesimo canale decorativo, il fantasioso linguaggio di
Santa Maria di Castello si evidenzia dalle espressioni figurative della zona, denunciando
ben precisi riferimenti nella sfera lombarda, tuttavia tradotti con un’aridità, ben visibile
nella trattazione dell’elemento vegetale che non ha nulla del rigoglio pavese. Ed il
differenziarsi è manifesto sia a confronto delle espressioni più semplificate della corrente
comasco-lombarda ancora a livello di continuazione dei moduli preromanici, sia di quelle
più elevate qualitativamente che denunciano nuovi contenuti formali 16) .
Ad un altro giro appartengono gli stilizzati motivi vegetali e animali negli archetti
della parete absidale e dei fianchi di Santa Maria di Castello, di un basso rilievo che crea
effetti pittorici sottolineati dalla dicromia, legandosi, anche per il semplificato contenuto
disegnativo, ad espressioni frequenti nella bassa Toscana, comuni, oltre che a Corneto, a
Tuscania 17) .
I modesti tentativi nell’esecuzione dell’acanto spinoso dei lapicidi di Santa Maria di
Castello sono più evidenti al confronto del capitello composito della parasta sulla facciata,
dovuto ad intenzioni classiciste, chiaramente in rapporto ad esempi del Duomo pisano.
LA CHIESA DI S. MARTINO:
STORIA E CRONISTORIA
“Nella visita apostolica fatta nel 1513 d’ordine di Gregorio XIII da monsignor
Mascardi, si vede enunciato da detto Prelato che in Corneto erano cinquanta chiese. Ma
poiché di molte ne tace il titolo, mi si rende difficile ora il descriverle, dirò solo di quelle mi
sono pervenute a notizia, parte de’quali al presente sono demolite et alcune fatte di nuovo
dopo la suddetta visita”.
16)
Si veda sulle caratteristiche e il diffondersi della scultura comasco-lombarda: J. Raspi Serra, “Tuscania”, pp. 98; 149.
Tra i più elevati esempi della corrente: il più tardo completamento decorativo della facciata di Santa Maria Maggiore di
Tuscania che denuncia palesi rapporti con decorazioni dell’Ovest della Francia (J. Raspi Serra, “Tuscania”, p. 145).
17)
Sui caratteri e la diffusione di questa tipologia decorativa: J. Raspi Serra, “Tuscania”, pp. 30 e sgg.
81
Così il canonico Mutio Polidori (1619) inizia la sua elencazione delle chiese di
Corneto. Occorre fare qualche considerazione più che di carattere storico, di principio
etico-sociale e religioso per giustificare, in una piccola comunità come quella cornetana, la
presenza di un così elevato numero di chiese che sorgevano a brevissima distanza una
dall’altra, così come vennero innalzate oltre una quarantina di torri, al punto da far
definire Corneto, in pieno Medio Evo, la città delle chiese e delle torri. Evidentemente chi
si poteva permettere il lusso di edificare “ex aedibus” una torre, poteva essere pure in
grado di poter far edificare una chiesa, per la maggior parte di modestissime dimensioni, a
giudicare almeno da quelle superstiti, come S. Salvatore, S. Angelo del Massaro e S.
Giacomo. Altre sicuramente sorsero per iniziativa o emulazione delle Corporazioni che,
oltre a vantare un loro protettore e un loro statuto (vedi quello degli Ortolani del 1379)
avevano bisogno di una loro chiesa dove esercitare i riti religiosi e civili, inscindibili a quei
tempi.
La chiesa analizzata è dedicata a S. Martino, vescovo di Tours. I primi documenti
riguardanti la chiesa parrocchiale risalgono rispettivamente al 1045, al 1046 e al 29 aprile
1051.
Non sembra comunque possibile identificare la chiesa attuale con quella già
esistente nella prima metà dell’anno 1000. I rapporti citati (vedi capitoli precedenti) con
l’ambiente pisano, tutti intorno al XII secolo, il richiamo ad esempi arabi che presuppone
almeno la contemporaneità con San Giacomo, lo stile dei capitelli e delle mensole di
quantità non elevata, ma non arcaica, come le massicce colonne, conducono ai primi
decenni del XII secolo.
La chiesa passa attraverso i lunghi anni del Medio Evo senza particolari menzioni,
se si eccettuano piccoli fatti.
La chiesa è ricordata il 1 aprile 1287 per l’estinzione di un mutuo del Comune per un
importo di 2247 fiorini d’oro.
La contrada di S. Martino Vecchio viene nominata in un atto del 26 ottobre 1291, in
occasione dell’estinzione da parte degli esattori di un dazio di un altro Comune per un
importo di 2247 fiorini d’oro.
Nel 1292 il parroco di S. Martino assistette alla restituzione di pecore, agnelli e
castrati, “quali prede di rappresaglia, catturate ai viterbesi”.
Il 16 ottobre 1296 Cecco della contrada di S. Martino venne convocato a Roma per
rispondere di furto ed esportazione furtiva di “grascia”, unitamente ad altri maggiorenti
cornetani. Poiché nessuno dei convocati si presentò, il Comune fu condannato al
pagamento di 500 marche d’argento. In un momento successivo i senatori romani
82
annullarono la condanna. Nelle visite vescovili si leggono descrizioni, analisi e annotazioni
sulla chiesa ed il suo stato; spesso vengono date disposizioni per piccole o grandi
riparazioni rese necesssarie dall’usura del tempo.
Così nel 1612 “(...) Non si facci in modo alcuno la stalla in quella stanza sotto la Casa
del Rettore la porta della quale è vicina alla porta della Chiesa né meno si faccia il
Magazzino dove già era il Cimiterio.
La casa Parrocchiale si accomodi in quel luoco... vicino alla Sacristia, dove è cascato
il muro d’una certa stanza piccola - si facci il sacrario in quella parte dove il Rettore
giudicherà più conveniente”.
Nel 1652: “C’è il campanile non la torre campanaria, con due campane; due sepolcri;
un cimitero fuori della Chiesa. La Sacrestia sufficiente; la Chiesa è sufficientemente dotata
di muri e di tetto. La porta unica sufficientemente forte e decentemente costruita. I
sepolcri sono dentro la Chiesa; il cimitero è fuori.
Decreta.
Sopra la porta maggiore si faccia con comodità l’immagine di S. Martino come si
disse in altre visite.
La Chiesa s’imbianchi (“s’incalbi”) nelli muri di dentro.
Il Cemeterio, dove sono gl’ossi dei morti, si copra con taccolato (la taccola è un tipo
di pistello tenero) (..)”.
Nella visita del 1667, 8 febbraio: “La Chiesa Parrocchiale di S. Martino consta di tre
navate, con colonne di marmo tiburtino distante e puntellate, ha il tetto e il pavimento di
laterizi, nella parte sopra quattro finestre, delle quali tre sulla facciata della chiesa, una
tonda sopra la porta maggiore delle chiesa, con il vetro, altre due laterali, la quarta si trova
lateralmente alla chiesa, nella sacrestia. La porta della chiesa è unica, malferma per
vecchiaia doveva essere restaurata.
Ci sono tre altare in questa chiesa, il maggiore dedicato a S. Martino Tutelare,
Vescovo e Confessore, sul quale c’è un’immagine che raffigura il santo; il secondo altare è
dedicato a S. Isidoro Confessore; il terzo a S. Michele Arcangelo; il primo provvisto di
prebende, gli altri due sono privi di candelabri.
A questi altari, per disposizioni testamentarie di Claudio Menichini, rettore di
questa chiesa, fu dedicato un beneficio secondo il diritto canonico nell’anno 1658, con
l’onere di celebrare quattro messe nei detti altari, alternativamente.
(...) Nella chiesa c’è un solo confessionale, vecchio e rovinato, che il Vescovo ordinò
fosse restaurato.
L’acquasantiera è affissa alla prima colonna sulla destra di chi entra.
83
In Sacrestia progredisce l’umidità, quindi si devono prendere dei rimedi.
All’altare maggiore è sospesa una lampada accesa nei giorni festivi mentre si
celebra.
Il campanile ha tre campane che sono abbastanza sonore.
Il Parroco non risiede nella Casa Parrocchiale, ma abita in un altro luogo, nella
parrocchiale di fronte alla chiesa di S. Angelo del Massaro.
Il Cimiterio distante dalla Chiesa, è abbastanza grande e racchiuso”.
Ancora nel febbraio 1667 si trova una descrizione dettagliata della chiesa analoga a
quella della visita precedente ed inoltre:
(...) Vi è un’unica porta, che si chiude bene, tre scalini mancano di restauri per
vetustà.
Ci sono tre altari nelle absidi di forma semicircolare. Il maggiore è dedicato a S.
Martino Vescovo e Confessore, in cui si trova l’effige del santo e sopra l’immagine della
Beata Vergine Maria dipinta su un quadro; fuori dell’altare ci sono le effigi di S. Martino
Papa e di S. Faustino Martire ugualmente dipinte su quadro; l’altare è provvisto di tutto il
necessario.
Il secondo altare è dedicato a S. Isidoro Confessore, il quale manca di candelabri e
della pietra consacrata.
(...) Il vaso dell’acqua benedetta, è nella prima colonna presso l’ingresso sulla destra
di chi entra, la cui acqua si suole rinnovare ogni 15 giorni.
La Sacrestia ha l’ingresso nel muro laterale dalla parte dell’altare di S. Michele
Arcangelo (...) è rovinata dall’umidità, perciò si deve restaurare e manca la tela cerata nella
sua finestra (...); davanti alla porta della sacrestia pende una campanella per dare il segnale
dell’uscita della messa.
(...) Il campanile si eleva sopra il tetto la cui fune cade presso la porta della chiesa.
(...) L’olio degli infermi è contenuto nell’armadio scavato nel pilastro presso l’altare
maggiore dentro al suo fianco (in latere Epistole) in una coppa d’argento dentro una busta
di seta con la sua bambagia madida di olio.
(...) Questa chiesa fu unita ad un’altra chiesa parrocchiale di S. Angelo del Massaro
dal Rev.o Vescovo Bentivoglio. Furono anche uniti altri due benefici ecclesiastici, l’uno
l’invoc.ne di S. Rosa, che era della famiglia dei Vitelleschi e l’altro di S. Giona Profeta ed
occorre che il Rettore celebri il beneficio dell’unione nella Chiesa Cattedrale tre volte alla
settimana, il 2° 3° e 4° giorno festivo gli oneri di d.o beneficio furono traslati alla
Cattedrale.
84
La Casa Parrocchiale è unita (confina) con la chiesa verso il tramonto del sole
(occidente, ponente), ma il Rettore non vi abita ed è data in affitto a dei laici per sei scudi
annui.
Il Cimitero è confinante con la Chiesa verso oriente”.
Nel 1710: “La chiesa di S. Martino è costruita nella estremità della città ad oriente e
si sale ad essa attraverso sei gradini di pietra costruiti davanti alla porta, che è unica e
rivolta ad occidente.
(...) Nella Chiesa ci sono due Sepolture, ad essa spettanti, nelle quali sono tumulati i
parrocchiani, in una degli uomini, nell’altra le donne. Il Cimitero confina col muro della
Sacrestia, chiuso da ogni parte, ha una Croce posta sopra, né é possibile per le bestie
entrare.
(...) Presso l’altare di S. Isidoro c’è una lapide sepolcrale con la seguente iscrizione:
“D.O.M. Dilectissimo Fratri Ioseph Tumulus hunc, dum huic Ecc. le preerat, extruendum
curavit Rev. D. Cesar Passerinus Anno D.ni 1709, Die 12 s.mbris)”. (Tumulo al Dilettissimo
Fratello Giuseppe, il quale tumulo fece costruire il Rev. Don Cesare Passerino mentre era
capo di questa chiesa, nell’anno del Signore 1709 il 12 settembre).
Nel 1721 (8 agosto); “Lettera di Arcangelo Salvati Curato della Chiesa Parrocchiale
di S. Martino di questa città di Corneto nella quale viene chiesta l’autorizzazione per
fondare la Congregazione sotto il titolo di S. Fran.co di Paola nella chiesa della Santissima
Annunziata Beata Vergine Maria posta nella Parrocchia di S. Martino, rivolta al Monsig.
Ill.mo Sebastiano Pompilio Bonaventura, Vescovo”.
Visita del 1774: “C’è l’Archivio per idea del Concilio sotto Benedetto XIII, nel quale
vengono conservati i libri parrocchiali e le scritture spettanti alla chiesa, da cui risulta che
questa chiesa fosse unita alla Parrocchia di S. Angelo detta comunemente del Massaro
sotto il Vescovo Bentivoglio, ed inoltre alla Parrocchia di S. Egidio Abate dal Decreto di
Saverio Giustiniano Vescovo nel giorno 13 febbraio 1758. In data immemorabile furono
uniti due semplici Benefici, motivo per cui Parroco celebra cinque messe al mese nella
Chiesa Cattedrale”.
Nel 1779: “La sud.a Parrocchia stende i suoi confini dalla Porta Nuova, e passa sotto
l’arco del Macello, e lasciando il Palazzo Polidori, per la Cura di S. Pancrazio, riprende il
filo, e si porta alla Casa segnata sotto il N°3 e per dritta linea va alle mura Castellane, a
riserva della Casa della Prepositura, che sono di S. Pancrazio, di sopra poi termina per tutti
li lati colle mura Castellane.
(...) Ha quattro chiese nel Ristretto, cioè S. Francesco di Paola, o sia l’Annunziata, il
Salvatore, il Crocifisso della Ripa, e la Cappella del Magistrato ridotta in oggi a chiesa
85
pubblica per Breve speciale del Reg. e Pontefice P.P. Pio VI esistente nell’Archivio Segreto
della sua segreteria.
Proprietà di case.
1. Una Casa detta la Parrocchiale, contigua alla chiesa, sopra la Sagrestia, che rende
ogni anno scudi 5.
2. Una Casa contigua alla Chiesa, assegnata al Sagrestano.
(...)
7. Due grotte ad uso di stalla, situate sotto l’orto segnato N°1.
8. Stalla..., con Torre ad uso di Fenile, situata in faccia alla Chiesa Parrocchiale.
L’analisi dei mutamenti storico-urbani della zona intorno a S. Martino ha prodotto
una serie di ipotesi riguardanti le possibili variazioni della forma e della struttura della
chiesa.
Nell’intento di colmare l’assenza di documentazioni iconografiche, si è cercato di
elaborare un processo di ricostruzione, verificabile attraverso l’osservazione diretta,
l’attendibilità delle fonti bibliografiche, i parallelismi e i riferimenti, oltre alla
interpretazione del carteggio originale esistente.
La struttura iniziale, databile intorno al XII secolo, è caratterizzata da una pianta
rettangolare con interno basilicale a tre navate, divise da tre coppie di colonne, e
terminanti con tre absidi. La copertura è realizzata mediante capriate a vista nella navata
centrale, mentre le laterali sono coperte semplicemente con travi disposte secondo la
pendenza del tetto.
Il primo intervento di modifica, riferibile al XIV secolo, è consistito nell’apertura di
una grande arcata con l’eliminazione della terza coppia di colonne, quella prossima agli
altari.
A questa fase probabilmente si attribuisce l’apertura delle due finestre nelle navate
laterali.
Per poter eseguire tale apertura si era reso necessario alzare la copertura delle
navate laterali. In questo modo si veniva a creare uno spazio che determinava una sorta di
transetto e che riequilibrava lo spinto rapporto di uno a tre la larghezza e l’altezza delle
navate.
L’innalzamento della copertura ha sicuramente interessato la parte posteriore della
chiesa con conseguente modificazione della geometria dei prospetti. Probabilmente
l’intervento si limitava alla parte posteriore, in quanto l’opera muraria anteriore
corrispondente è completamente diversa. I prospetti laterali venivano perciò ad assumere
86
un nuovo aspetto. L’apertura delle finestre si può giustificare con il fatto di dare luce alla
parte antistante le tre absidi in seguito alla chiusura della terza monofora superiore.
Contemporaneamente all’apertura dell’arco grande o forse successivamente, furono
costruiti dei portici in adiacenza al corpo centrale della chiesa. Si è perciò supposto che tali
interventi si susseguirono nel corso del XV e del XVI secolo. La costruzione dei due corpi
laterali determinava la variazione dei prospetti anteriori e dei due laterali. Infatti i portici
costituivano una sorta di ali che andavano a proseguire le linee inclinate del profilo
anteriore.
In seguito, sempre mantenendo la medesima geometria architettonica, sono stati
chiusi gli archi e le aperture dei corpi laterali. Tale intervento poteva essere dovuto alla
necessità di creare delle zone di servizio per la chiesa oppure per fare fronte a problemi di
stabilità. Nel corpo alla sinistra della chiesa sono stati addirittura aggiunti dei contrafforti
a scarpa in sovrapposizione alla facciata.
Riguardo le successive modifiche effettuate soprattutto all’interno sono stati
ritrovati i documenti relativi:
14 maggio 1787
“La verità fu ed è che facendosi la volta di mattoni in gesso nella Chiesa Parrocchiale
di S. Martino, come si costuma in questa città, ed aprendosi da piedi alla navata di mezzo,
che deve essere a volta, un finestrone, e facendosi le tre Cappellette con volte, ed archi,
oltre il maggiore ornamento, che si dà alla sud.a Chiesa, vi è il vantaggio, che si libera
dall’umido, e resta più calda del passato.
2. Che tale lavoro sarà d’un gran Beneficio alla sud.a chiesa, e che scudi 100 che
s’impiega, resta a vantaggio della med.a, perché il Parroco pro tempore deve in ogni anno
depositare nel S. Monte di questa città scudi 10 annui delle di lui rendite fino a tanto, che
sarà reintegrata della sud.a somma la sud.a chiesa, e maggior sicurezza del sud.o deposito
annuale dà fondo il Censo di scudi 4000 d’annuo fruttato di scudi 12 che ritiene a Censo
Stefano (...) ed il restante, che vi manca pel sud.o lavoro, lo somministra il Parroco
presente, onde la sud.a Chiesa Parrocchiale viene bonificata, ed abbellita senza perdita di
capitali, ed assicurata dopo il decennio del rinvestimento”.
“Die 15 d.i.”.
“(...) Lazzaro Nardeschi (...) presta di grand’ornamento, e vantaggio alla Chiesa
Parrocchiale di S. Martino i lavori che si vogliono fare di volta in gesso, aprizione d’un
fenestrone e tre Cappellette con volte, ed archi, perché così si libera dall’umido, e dai freddi
che dal tetto penetrano, e ciò posso asserirlo per esser io Architetto di questa città”.
87
“Die d.a.”.
“(...) Luca Alessi; li lavori nella Chiesa di S. Martino si vogliono fare, non nasce
dubbio, che siano di gran vantaggio, alla med.a Chiesa sì nell’ornamento, che per liberarla
dall’umido, e dalli freddi, che molto in d.a Chiesa si sentono, essendo esposta ai venti
Boreali, e ricoperta dal nudo tetto, potendo ciò deporre come capo mastro muratore di
questa città”.
“Lavori da farsi ad uso di Muratore nella V.le Chiesa Parrocchiale di S. Martino.
- come appressoVolta di mattoni in Gesso nella Navata di Mezzo incominciando dall’Altare maggiore
sino a piedi della Chiesa con sua cornice sotto all’imposta e sue fasce in d.a. volta che
fornino archi al disotto corrispondenti alle colonne, et a Capo verso l’altare maggiore, e da
piedi verso la porta con sue mensole sotto alle dette fasce et archi, e che la Cornice sopra
dette mensole sia rilevata, il tutto arricciato, et incollato, e stabilito.
Li due archi maggiori verso l’altare maggiore si devono restringere a similitudine, e
larghezza dell’altri sotto, con formarvi un Pilastro, e restringere, e formare l’arco sopra
come sono l’altri, e tra il Pilastro da farsi di nuovo, ed il Pilastro laterale all’altare maggiore
formare l’altro arco che passi alle Cappelle laterali di S. Michele Arcangelo e S. Isidoro, il
tutto stabilito.
Si devono fare le due volte a Crociera alle sud. due Cappelle di S. Michele Arcangelo
e S. Isidoro di mattoni in gesso stabilite, et in facciata verso la Chiesa metterle in piano con
mattoni come sopra.
Si deve aprire una finestra a piedi alla Chiesa in facciata di larghezza di p.mi 5 alta
p.mi 9 e, murate l’occhio tondo che vi è al quando resti sopra d.a. finestra farvi le sue
spallette sguinci, et arco sopra dentro e fuori il tutto stabilito.
Il sud.o lavoro potrà ascendere alla somma in circa di scudi centoventicinque.
Lazzaro Nardeschi”.
Inoltre venivano modificati i gradini della zona absidale: mentre in precedenza
erano disposti separatamente l’uno dall’altro, ora vengono accoppiati e messi in
corrispondenza della colonna aggiunta per meglio unificare e rialzare la zona degli altari.
L’ulteriore espansione dei corpi laterali, ed in particolare quello di destra, ha
coinvolto anche la parte centrale della chiesa con l’eliminazione della terza abside. Sembra
che questi lavori siano legati al fatto di offrire al Parroco una casa che gli permettesse il
diretto accesso ai locali della Chiesa.
Carla Ferrante
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P. BONAVENTURA VIPERESCHI
DA CORNETO + 3/2/1636.
Guardando alla ricchezza di documenti archivistici da me rinvenuti, penso che
meriterebbe di essere trattato tutto il periodo del 1600 riguardante il convento S.
Francesco di Tarquinia. Per ora mi limito alla figura del francescano P. Bonaventura
Vipereschi da Corneto perché di un certo rilievo, tipica di quel tempo e non conosciuta.
La famiglia Vipereschi era una delle più antiche di Corneto, come si chiamava allora
la cittadina. Alcuni suoi membri si erano impegnati nell’amministrazione della città, segno
del loro censo e capacità in tali uffici. Essi più volte intervennero a favore dei frati del
convento S. Francesco della loro città per risolverne i problemi.
Il 4/5/1581 Emilio Vipereschi si occupò di una missione di Corneto presso il
“commissario dei Padri Zoccolanti in Roma” che doveva essere il P. Antonio Aquilaro
(1579-1583). 1)
1)
Lettera al Commissario dei Padri Zoccolanti 4/5/1581 Lettere 1578-1586 f. 56 ASCT.
89
Viperesco Vipereschi con Paolo Callimaci il 25/3/1591 sentenziò che gli eredi del
cardinale Carlo d’Angennes detto di Rambouillet (1570-1587) si decidessero a realizzare il
monumento nell’abside della chiesa di S. Francesco su disegno dell’architetto Ottaviano
Mascarini. Visto che essi non si decidevano, egli continuò ad insistere, come è possibile
rilevare da una lettera forse del marzo 1593: “Et poiché il signor Viperesco Vipereschi non
cessa di molestarci e continuamente procura di rinnovar la lite, della quale si ha hauta la
sentenza contra et perché conosciamo che tutto ciò procede” 2) .
Muzio Vipereschi il 25/10/1599 sostenne in consiglio comunale che si restaurasse la
“cappella maggiore” cioè dell’altare maggiore ed il 23/3/1608 addirittura tutta la chiesa 3) .
Marco Antonio Vipereschi canonico lateranense, referendario della Segnatura a
terziario francescano, nel 1609 fece costruire 22 delle 27 antiche celle dell’infermeria del
convento di Aracoeli in Roma. Con quelle fatte costruire da lui per l’infermeria di S.
Francesco a Ripa della stessa città, egli giunse a ben 60 celle. Egli morì a 49 anni in Roma e
fu sepolto nella cappella S. Maria di Loreto della basilica d’Aracoeli. Le date della sua
morte tuttavia sono discordi proprio per la diversità di lettura di due lapidi apposte in sua
memoria. La prima nella cappella ricordata messavi dai frati 20 giugno 1622 o addirittura
20 genaio dello stesso anno, e la seconda del nipote Francesco nella chiesa “X Kalenda
Iulii” cioè 22 giugno 1622 4) .
Con una famiglia così agganciata ai Francescani, non fa quindi meraviglia se i
Cornetani si rivolsero al P. Provinciale della Provincia Romana degli Osservanti P. Callisto
da Antrodoco (15/6/1622-13/9/1625) per avere il loro concittadino P. Bonaventura
Vipereschi come guardiano del loro convento S. Francesco. Egli accondiscese
benevolmente, presentandolo con una lettera il 13/5/1623.
E’ questa la prima conoscenza del P. Bonaventura che si ha nei documenti e perciò si
ripropone:
“Molto Illustrissimi Signori miei ossequentissimi.
E’ stato grande il contento mio, havendo honorato il P. Vipereschi del Guardianato
di cotesto convento perché ci concorse il gusto particolare delle VV.SS. molto illustrissimi.
Ma il parere che sento che ciò sia succeduto secondo il desiderio loro è tale, che questo
basta in cambio d’ogni gratitudine, che me ne potessero havere.
2)
Libri dei decreti 1560-1612 f. 77; Lettera a Teofilo Scauri s.d. Lettere 1587-1596 f. 167 ASCT.
Consiglio 25/10/1599 Reformationes 1599 ff. 2,2v; Consiglio 23/3/1608 Reformationes 1607-1610 f.28 ASCT.
4)
Wadding L., Annales Minorum continuato a P. Stanislao Melchiorri de Cereto 24 (Quaracchi 1934) 520, LXVII; 25
(Quaracchi 1934), XCIV; Casimiro da Roma, Memorie Istoriche della chiesa e del convento di S. Maria di Aracoeli di
Roma (Roma 1736) 184-185, 259-260, 448.
3)
90
Procurarò de dare al P. Vipereschi ogni honorata sodisfatione in servizio della lor
chiesa, perché così devo alle SS.VV. Mi offerisco di simili in ogni concorrenza di mio
potere.
Che sarà il fine e di V.S. la prego ogni vero e compito fine.
Di Roma XIII Maggio 1623 Delle SS.VV. Molto Illmi
Affmo Servitore
Fra Calisto d’Antrodoco Ministro Provinciale” 5) .
Questa disponibilità del P. Provinciale forse metteva in pratica una richiesta fatta ai
Padri Generali degli Ordini Religiosi residenti nella cittadina: Serviti a S. Maria a Valverde,
Osservanti a S. Francesco, Conventuali a S. Maria in Castello e Agostiniani a S. Marco. In
una lettera del 19/6/1620 si dice loro “a dar ordine a far si che veniamo provisti di buoni
padri per un numero sufficiente all’entrate che vi sono per tutti i dii che alla giornata gli si
danno per anco che tra essi patri ve ne siano de sufficienti si per le confessioni come per le
predicazioni infra annum che così tra tutti Conventi che habbiamo qua che sono quattro
deve esserci prontezza abbastanza di prediche per tutte le feste et per altre occasioni
solenni dell’Anno”.
Uguale lamentela veniva rivolta al Papa 6) .
Con tutta probabilità il P. Vipereschi ricoprì il suo ufficio fino al 13/9/1625 quando
fu eletto Provinciale P. Angelo Seneca da Carpineto Romano (13/9/1625-15/9/1628). Nel
1625 i Frati di S. Francesco dovevano all’istituto di Ascanio Costaguti 250 scudi 7) .
Il nuovo padre guardiano fu il P. Stefano da Sarzana, predicatore, ma con numerosi
nuovi problemi che mandò ad esaminare all’amministrazione comunale il 26/4/1626. Il
memoriale che egli presentò naturalmente non era firmato, come era di uso ed è il
seguente:
“Alli Molt’Illi Signori della Città di Corneto per i frati di S. Francesco.
Molto Illustrissimi Signori Padroni Ossequentissimi.
Il guardiano et frati di S. Francesco notificano alle SS.VV. Illmi essere tanti et tali i
loro bisogni che molti memoriali non basterebbero per manifestarli a sufficienza; ma
perché sanno quanto sia grande la loro carità, si contentano raccomandarglie, sperandone
indubitato soccorso affidati nel Dio Revelatosi in vitam suam e spera anco, et ipsa faciet.
Sappino intanto che le campane stanno in grandissimo pericolo di rompersi tutte essendo
5)
Lettera del Padre Provinciale Callisto da Antrodoco 15/5/1623 Lettere 1622-1623 f. 135 ASCT.
Lettera ai Padri Generali dei Servizi, dei Zoccolanti, dei Conventuali e degli Agostiniani 19/6/1620, Lettera al Papa
s.d. ma dello stesso periodo Cronache di Corneto Archivio Falzacappa F f 12 - Presso Arte e Storia di Tarquinia.
6)
91
rotti tutti li travi da quali vengono sostentati, et per non esserci cola. Il sacrestano ogni
volta che si sale per qualche bisogno corre il pericolo di precipitare. In chiesa poi non vi è
pulpito da predicare la parola di Dio.
Di più dal giorno de ognisanti fanno la quaresima
et hanno consumato tutto l’olio et non hanno speranza nella ricolta et quel che più importa
il pane che trovano per le cerche non li basta per un sol pasto. Et è impossibile senza
qualche provvedimento di rilievo paterno durare la famiglia di quattordici frati come vi
stanno. Finalmente desiderano renunciare a quest’Illmi circa ligati che lascia medesimo
Convento la buona memoria del Cardinale Rambuglietto. Anche la suddetta comunità dia
l’equivalente de dinari applicarsi al vestiario de frati et all’infermeria essendoci ordinati nel
capitolo del sudd. che tutti li legati perpetui si alienino. Il tutto sarà maggiore augurato di
obbligo pregare sua divina maestà per la conservazione delle SS.VV. Molto Illustrissimi.
Die XVI mensis Aprilis 1626” 8) .
Questo documento è interessante perché è uno spaccato sulla numerosa comunità
del convento di Corneto, mettendo in risalto i principali problemi del momento e che
servono di base per quelli futuri nelle relazioni tra i frati ed il comune. Infatti non senza un
perché tale problema era già stato esaminato nella seduta del consiglio comunale del
18/12/1625 alla presenza dei maggiori responsabili Arnaldo Arnaldi, Pietro Tiberi,
Callimaco Callimaci e l’assenza del solo Polidoro Polipori, padre dello scrittore Muzio.
Forse proprio il 26/4/1626 fu preso di nuovo in esame e vi erano presenti i priori di ufficio
cioé il capitano Mascio Frabrizio ed un illegibile Zito Lauditio gonfaloniere cioé
corrispondente al sindaco di oggi. Essi si dissero disposti a venire incontro ai frati con 30
scudi “per li bisogni et per il pulpito et altri”. Altrettanto avviene per i legati del cardinale:
“In quanto alli legati del Monte che detti Padri dicono esponendo nel memoriale lassatogli
dalla B. Memoria del Cardinale Ramboglietto concessione, che essendosi accettata da loro,
dicono s’accetti detta offerta della comunità et da essa comunità si li dia l’equivalente dei
frutti da applicarsi per il vestiario dei frati et all’infermeria come in detto memoriale” 9) .
Proprio in base a tali principi si cominciò a venire incontro alle necessità dei frati in
un modo più concreto specialmente in quello fondamentale del sostentamento: “Sin
dall’anno 1626 dal Pubblico Consiglio di questa Città concesse in elemosina alli Padri di S.
Francesco un giulio di pane al giorno; con questo fu fatto per il mantenimento della Casa
Vipereschi et altre case, che sumministravano ad essi Padri grande elemosina” 10) .
7)
Lettere 1618-1620 f. 128 ASCT.
Memoriale al comune 16/4/1626 Lettere 1618-1620 f.118 ASCT.
9)
Sintesi di consiglio comunale s.d. Lettere 1618-1620 ff. 118-118 v ASCT.
10)
Lettera al cardinale Francesco Barberini 14/4/1636 Lettere 1631-1636 f. 189 ASCT.
8)
92
Vi sono quindi sempre dietro alle spalle dei frati i parenti del P. Bonaventura
Vipereschi.
In questo stesso anno i frati ricevettero 150 scudi dal comune attraverso il loro
procuratore Tiberio Falgari il 3/7/1626. Sempre costui gli fece avere altri 12 scudi il
28/12/1626 per la predicazione dell’avvento nel duomo S. Margherita da parte del P.
guardiano di S. Francesco P. Stefano da Sarzana 11) .
Ugualmente Tiberio Falgari ottenne 10 scudi per la riparazione del tetto della chiesa
il 24/10/1627 ed altrettanti per lo stesso scopo il 26/3/1628. Questo era segno che i lavori
non erano terminati. Così ottenne il 6/1/1628 75 scudi e otto botti di vino. Evidentemente
la comunità dei frati doveva essere molto numerosa 12) .
Il P. Bonaventura Vipereschi in questo periodo era diventato guardiano del
convento S. Maria di Aracoeli di Roma. Il suo ufficio era uno dei più importanti nella
provincia Romana perché ivi risiedevano il P. Generale di tutto l’Ordine e la sua curia ed il
P. Provinciale e la sua curia. Spesso chi aveva ricoperto tale incarico veniva promosso ad
impegni più importanti come P. Provinciale o P. Custode, cioé a capo di tutta la Provincia.
Erano gli anni 1628-1631. Egli si impegnò a terminare i credenzoni e le pitture delle
spalliere nuove della sacrestia del convento e fu fatto l’altare in legno di noce in coro dietro
l’altare maggiore 13) .
Intanto nel convento S. Francesco di Corneto era guardiano P. Tommaso da Roma.
Rimaneva ancora in piedi il problema di rinunziare ai legati perpetui a favore del comune.
Erano stati trattati nelle sedute consigliari del 7/8/1628, 7/2 e 9/3/1629. Per le costituzioni
di Paolo V “Prohibemus” ed il capitolo VI della Regola Francescana sull’uso del denaro i
frati erano disposti a cedere al comune 70 scudi depositati presso i monti di pietà
Giustiniani e Pace e a tutti i frutti del legato del cardinale Rambouillet, che erano notevoli.
Il P. Tommaso era assistito dal procuratore del convento Tiberio Falgari ed il comune
accettava attraverso i suoi rappresentanti il gonfaloniere Pietro Tiberi, il capitano Polidoro
Polidori ed il console Arcangelo Cardini. I frati accettavano l’elemosina dal comune per le
loro necessità 14) .
11)
Speculi 1625-1629 ff. 27 v, 44 ASCT; P. Stefano da Sarzana, predicatore morì in Aracoeli a Roma il 20/1/1632.
Necrologio ASBO.
12)
Speculi 1625-1629 ff.66 v, 75 v, 82 ASCT.
13)
Onorato da Casablanca, Notizie della Provincia Romana f. 41 APA Ms. 88; Onorato da Casabasciana, Memorie della
Provincia Romana f. 53 APA Ms. 88.
14)
Donazione al comune del P. Tommaso da Roma 14/3/1629. Lettere 1618-1620 f. 155 ASCT. Due sono i P.
Tommaso da Roma di questo periodo. Uno morì in Aracoeli l’8/6/1634 ed è forse il più probabile. L’altro invece morì
martire di carità nel servire gli appestati a S. Polo l’8/8/1656. Necrologio ASBO.
93
Su questo piano si muovono gli anni seguenti. Infatti Tiberio Falgari ricevette il
23/11/1629 15 scudi per la solita pietanza ai frati, 10 scudi dei quaranta promessi per la
fusione della campana grossa della chiesa ed il 29/12/1629 ne ricevette 12 scudi per la
predica in cattedrale per l’avvento da parte del “maestro Padre Gironimo da Velletri”
(futuro P. Provinciale) e del suo compagno 15) .
Nel 1630 sono molte le spese fatte per i frati di S. Francesco. Proseguono le spese di
anticipo per la fusione della campana grande decisa il 14/10/1629 per cui vengono dati
altri 10 scudi il 20/2/1630 con l’aggiunta di altri 10 scudi il 5/4/1630 ed altri 10 scudi il
7/9. Il 27 settembre Tiberio Falgari riceve 75 scudi per 8 botti di vino e 30 scudi per tre
mesi di pietanza, ma ben 45 scudi ne riceve a dicembre per nove mesi di pietanza.
Aveva ricevuto 18 scudi per il pane, 20 scudi per i bisogni della comunità, 15 scudi
per la pietanza gennaio-marzo e 5 scudi per la porta battitora. I frati avevano diritto a 60
scudi per la pietanza ed a 150 scudi per otto botti di vino 16) .
Guardiano di S. Francesco di Corneto era il P. Marcello della stessa città che doveva
avere un età veneranda o godere molta stima presso i suoi compaesani. Egli era stato
guardiano di S. Lorenzo di Velletri nel 1601 e vi aveva fuso una campana. Nel 1619 era stato
guardiano di S. Maria del Paradiso di Viterbo. Il 19/6/1629 era guardiano di S. Bernardino
di Orte e dichiarava nella curia vescovile di non possedere beni immobili e legati annui per
il suo convento. Si sottoscriveva come “pater provinciae”, titolo che si dava a personalità
che avevano svolto il loro ufficio nella curia generale o ad ex maestri dei novizi per molti
anni, con diritti particolari nelle elezioni dei P. Provinciali, essendo considerati ex
Provinciali. Egli morì nella sua patria il 13/12/1630 e non gli fu quindi possibile assistere
alla posta in opera della campana grande nello storico campanile che avvenne allorché vi fu
trasferita dal mare il 3 marzo 1631, quando furono pagati gli ultimi 10 scudi 17) .
Il concittadino P. Bonaventura Vipereschi invece il 7/9/1631 fu eletto definitore
provinciale con Padre Francesco da Velletri che P. Onorato da Casabasciana dice custode e
guardiano di S. Bartolomeo all’Isola in Roma, P. Giustino Bellaviti da Bergamo, P. Pacifico
da Roma. Provinciale era P. Bernardino Turamini da Siena e custode, credo dei Riformati
perché successivamente in tale ufficio partecipò al capitolo generale e fu eletto definitore,
era P. Santoro da Melfi 18) .
15)
Speculi 1625-1629 ff. 134 v, 137 v ASCT.
Speculi 1630-1631 ff. 32 v, 33, v, 34, 38 v, 39, 56, ASCT.
17)
Speculi 1630-1631 f. 64 ASCT; Dichiarazione del P. Marcello da Corneto 19/6/1629 Iura ecclesiasticorum 16241631 ff. 179v-180v AVO; Casimiro da Roma, Memorie istoriche delle chiese e dei conventi dei Frati Minori della
Provincia Romana (Roma 1764)443; Zucconi G; “Il convento di S. Maria del Paradiso in Viterbo” in Acta Provinciae
Romanae SS. Apostolorum Petri et Pauli Ordinis Fratrum Minorum19 (1965 N3) 77.
18)
Chiappini A., Annales Minorum 27 (Quaracchi 1934)340, XIV, 600-602, CXVI-CXVIII.
16)
94
Poteva sembrare che in tale modo sarebbero stati risolti più facilmente i problemi di
S. Francesco di Corneto. Tuttavia non fu così perché fu scelto come guardiano del luogo P.
Leonardo da Roma che vi era stato alcuni anni prima comportandosi contrariamente a
quanto si desiderava.
Per questo vi era stato allontanato. Ne venne fuori una polemica molto forte. Furono
mandate dal comune due lettere di protesta contemporaneamente il 24/11/1631. La prima
fu inviata al vicario generale dell’Ordine a Roma che era il P. Antonio da Galbiate (Como)
(1620-1633) e l’altra al P. Bonaventura Vipereschi. Il tono è molto duro e tagliente, non
ammettendo nessun compromesso verso il P. Leonardo da Roma che morirà in Aracoeli il
6/5/1644.
Si ripropongono le due lettere per rendersene conto e per capire come
l’amministrazione cittadina partecipava al buon andamento del convento:
“Al P. Revmo Vicario Generale dei Minori Oss. Roma
Le medesime cagioni quali furono potenti scacciare di qua Fra Leonardo da Roma
l’anni a dietro di famiglia in questo convento di Santo Francesco tanto meno richiedono
averlo in caput anguli. Però prima che altri signori superiori, le proponiamo di nuovo a
V.P. Reverendissima delle quali senza altra che da noi potrà haverne alcuna informatione,
acciò lei venghi ad altra eletione non intendendo questa città universalmente havercelo in
modo alcuno.
Del che caldamente ve ne preghiamo Vostra Paternità Reverendissima alla quale per
fine B.M.
Corneto 24 Novembre 1631”
E l’altra al P. Bonaventura Vipereschi:
“Al P.B. Ventura Vipereschi
Li cattivi costumi di Fra Leonardo da Roma, molto bene noti in cotesta religione et a
V.P.M.R. tantomeno meritavano l’ingresso in questa città, quanto meno la superiorità alla
quale è venuto di questo convento, cioé nell’anima et cuore di questa città lo richiedono
tale et per essi ci avvelenò già pochi anni sono che ne fu di famiglia, di come perché
dannosa, scacciarlo di qua che non ne restasse con sprezzo della religione macchiata, essa
proprio contaminata et tanto maggiormente duole universalmente si permuti la
deliberatione, quando credevamo di certo godere la suavità delli honesti et religiosi
portamenti di V.P.M.R. più che di altro in suo luogo et dovendose giustamente rimedio più
da lei possa de più principali della sua patria con ogni maggiore celerità la preghiamo
ardentemente col P. Reverendissimo operare che ci si levi et desiderosi sentire la sua
remotione restandoli servitori.
95
Gli b.M.
Corneto 24 Novembre 1631” 19) .
Evidentemente la questione fu risolta secondo i desideri dei Cornetani, perché il
25/12/1631 essi scrissero una lettera di auguri natalizi al P. Bonaventura, accomunandolo
ad altri due concittadini a Roma molto stimati per la carica ricoperta nei loro Ordini
Religiosi: il preposito generale dei Gesuiti P. Muzio Vitelleschi (2/12/1563-9/2/1645) ed il
generale degli Eremitani di S. Agostino P. Girolamo Rigogli morto a 75 anni il 15/7/1637.
Questo esprimeva verso di lui stima e riguardo particolare.
Ecco la lettera:
“Al P. Generale della Compagnia di Gesù
Al P. Generale di S. Agostino et
Al P. Bonaventura Vipereschi Roma
Essendo offici proporzionati al tempo benché sia piccola dimostrazione
dell’osservanza che le facciamo di V.P. Revma, non habbiamo voluto tralasciare augurarle
il Buon Natale; li giorni del quale preghiamo S.D.M. perché colmi di Celesti gratie conceda
a V.P. Revma alla quale le b LL M.
Corneto 25 Dicembre 1631” 20) .
Il P. Bonaventura presentò al consiglio comunale di Corneto un memoriale a favore
del suo confratello P. Giovanni Antonio Romano che doveva predicare la quaresima del
1635 nel duomo di S. Margherita. Il capitano Sisto Vipereschi introdusse l’argomento nel
consiglio del 28/12/1633 e fu approvato completamente: “Habuit omnes fabas”. Il 29
dicembre fu partecipata la nomina all’interessato che successivamente divenne P.
Provinciale della Provincia Romana ben due volte (1646-1649 e 1655-1659). Non sempre
però era così facile accontentare chi chiedeva, perché nella predicazione era necessario
aspettare i turni spettanti alle quattro comunità di religiosi esistenti nella città: Agostiniani
del convento di S. Marco, Osservanti di S. Francesco, Conventuali di S. Maria in Castello e
Serviti di S. Maria di Valverde. Questo valeva in particolare per la predicazione della
quaresima, mentre per quella dell’avvento vi era maggiore elasticità, sempre
salvaguardando gli impegni già presi. Così quando il P. Bonaventura il 23/5/1634 presentò
ancora il P. Giovanni Antonio da Roma per la predica dell’avvento 1634, non fu possibile
19)
Lettera al P. Vicario Generale. Lettera al P. Bonaventura Vipereschi 24/11/1631 Lettere 1631-1636 ff. 21-21 v.
ASCT.
20)
Lettera al Generale della Compagnia di Gesù, al Generale degli Agostiniani e a P. Bonaventura Vipereschi
25/12/1631 Lettere 1631-1636 ff. 25v-26 ASCT.
96
accontentarlo, perché era già stata assegnata dall’ottobre precedente all’agostiniano
concittadino e baccelliere P. Stefano Raffi 21) .
Come era successo per il P. Bonaventura, il comune il 20/3/1634 si rivolse al
cardinale Francesco Barberini protettore dell’Ordine e della città perché facesse eleggere
guardiano di S. Francesco P. Girolamo da Corneto nel prossimo capitolo che si sarebbe
tenuto in Aracoeli il 23/5/1634. Non sappiamo se il desiderio fu esaudito. P. Girolamo
morì a Roma nel convento di Aracoeli il 7/1/1647 22) .
Il 25/4/1634 furono mandati i confetti a P. Bonaventura Vipereschi ed a Massimo
Moscini che erano a Roma. Questo era un segno di particolare rispetto verso loro perché
era il giorno di Pasqua.
Nella lettera a P. Bonaventura è ricordata la festa di S. Maria di Valverde, protettrice
della città che veniva celebrata nella Domenica in Albis cioé in quella immediatamente
dopo la Pasqua con grande solennità e quindi certamente gradita a lui 23) .
Non Mancarono richieste del P. Vipereschi al comune per piccoli favori per altri.
Così egli presentò due “trombetti” (trombettieri): Domenico di Benedetto da Farneto e
Giovanni di Francesco Comasco. Essi furono subito vestiti con le divise dovute, fu discussa
la loro richiesta e furono accettati 24) .
Col nuovo P. Provinciale Giovanni da Roma (23/5/1634-24/4/1637) sorse il
problema di un sopravanzo di 100 scudi che si volevano impegnare per la costruzione del
noviziato del convento di Aracoeli fatto costruire dal guardiano P. Pietro Brandani da
Roma nel 1634. La gente di Corneto non era contento che tale somma fosse spesa tutta per
un altro convento. Per questo il comune il 17/10/1634 inviò una lettera al P. Provinciale
puntualizzando le idee fondamentali.
Non bastando questo, il 24/10/1634 esso scrisse
una lettera al Generale dell’Ordine P. Giovanni Battista da Campagna (14/5/1633 11/6/1639). Gli argomenti sono gli stessi, con uguali richieste, ma con scusanti verso il
guardiano attuale ed altri frati, evidentemente per non coinvolgerli. Le due lettere si
riportano per rendersene conto:
“Al P. Ministro de Minori osservanti Roma
21)
Lettera a P. Giovanni Antonio da Roma 29/12/1633, Lettera a P. Bonaventura Vipereschi 2/5/1634 Lettere 16311636 ff. 107-107 v, 20-20v; 119 v,32 ASCT: Consiglio 28/12/1633 Reformationes 1631-1637 ff. 119 v, 120, 121
ASCT.
22)
Lettera al cardinale Francesco Barberini 20/3/1634 Lettere 1631-1636 ff. 113 v-114,26 v-27 ASCT: Necrologio
ASBO.
23)
Lettere a Massimo Moscini e a P. Bonaventura Vipereschi 25/4/1634 Lettere 1631-1636 f. 119, 32 ASCT.
24)
Lettere al P. Bonaventura Vipereschi 26/6, 8/8, 21/8/1634 Lettere 1631-1636 ff.125,38:130-130 v,43-43v; 131-131v,
44-44v ASCT.
97
Ci viene significato, che da V.P. molto Reverendo, è stato mandato un padre a
ministrare questo nostro convento il quale havendo trovato che a suo convento sono
sopravanzati scudi 100, esso Padre li voglia applicare alla fabrica d’Aracoeli cosa che
questa a noi non pare ragionevole che havendo alcuni benefattori lasciati a questo
convento di levarci ad esso di spenderli in beneficio di esso, hora essegli defraudata la
mente loro con beneficiare altro convento, havendo questo nostro bisogno di molti
resarcimenti; et perché sappiamo l’affetto grande che porta a questo nostro convento e
Patria farà si che detti denari venghino spesi in benefitio di esso, al che la preghiamo con
ogni affetto possibile, acciò li benefattori in averire seguino con l’elemosine come hanno
fatto per il passato, che facendosi altrimenti mancarebbano l’elemosine, et esso convento la
farebbe male. Con questa fine a V.P. baciamo le mani.
Di Corneto 17 Ottobre 1634”.
E l’altra al P. Generale:
“Al Padre Generale de Minori Oss. Roma
L’istanza fatta da Noi li giorni passati al Padre Ministro Provinciale in materia del
sopravanzo del denaro di questo convento di San Francesco quale intende spenderlo nella
fabrica del Noviziato d’Aracoeli non l’abbiamo fatta ne a petizione del Padre Guardiano, ne
d’alcun frate al presente commorante in questo Convento, ma havendo saputo da parte
remote, ci è parso bene scriverne due righe a detto Padre Provinciale si come facessimo,
sebbene non havesse fatto frutto alcuno. Massimamente ci siamo resoluti scriverne a V.P.
Revma come Capo acciò provveda a quello che possa occorrere in avenire.
Deve sapere che dalli Cittadini s’è saputo questo negozio di voler levare in tutto il
sopravanzo di detto convento si sono irrati in tanta collera, dicendoci che se detto
sopravanzo si levava voler ancor loro minacciare la limosina concessa a S. Francesco del
pane e vino per amor di S. Francesco si tirava esitanti che essendo essa elemosina per dieci
Padri, adesso vi sono però tre sacerdoti, quella modula secondo li religiosi ci saranno pro
tempore in detto Convento che così non si havranno sopravanzi allorché li benefattori quali
hanno lasciato si spendono in benifitio di questo Convento hora le loro menti non
venghino adempite havendo esso Convento bisogno di molti resarcimenti, altri volgeranno
il pensiero verso altri Religiosi et così dove adesso l’elemosina fiochano in havenire li Padri
haveranno di guari a vivere.
Se il P. Ministro havesse tassato questo Convento di qualche somma havuta la Città
si sarebbe molto volentieri contentata che se fusse applicata a detta fabrica, ma voler levare
via ogni cosa insomma non è bene intesa. Supplichiamo pertanto V.P. Revma vogli restar
servita oprare che detto sopravanzo ne resti buona parte a questo Convento, acciò li
98
benefattori seguitino con lemosine, come hanno fatto per il passato, il che non facendosi si
seguirà gran danno alli Padri in Convento et per fine a V.P. Revmo baciamo le mani.
Di Corneto li 24 Ottobre 1634” 25)
Non si sa chi fosse il guardiano del convento di S. Francesco. La comunità dei frati
era notevolmente diminuita perché vi sono presenti solo tre sacerdoti. Le idee espresse
sembrano reali.
Probabilmente il P. Bonaventura Vipereschi era restato nel convento di Aracoeli in
Roma tra i “patres Provinciae” che ressero col nuovo P. Provinciale la Provincia Romana in
assenza dei definitori che non furono eletti. Egli vi morti il 3/2/1639 forse nella stessa
infermeria fatta costruire dal suo parente.
L’ultima lettera che lo riguarda personalmente e che mostra ancora i suoi buoni
rapporti coll’amministrazioni della sua città è quella del 20/2/1635. Eccola:
“Al P.B. Ventura Vipereschi
Dal P. Predicatore (P. Giovanni Antonio da Roma), proposto da V.P.M. Revdo
questa prossima quaresima ci è stata recapitata una lettera di lei, quale a noi è stata di
somma contentezza per haver in essa inteso il valore di lui; benché a noi questo non sia
nuovo per la certificazione che lei ce ne fece quando fu proposto per questo pulpito. Non di
meno ne rendiamo quelle grazie maggiori che possiamo et dovriamo assicurandola che da
noi si fece ogni sforzo che esso Padre habbi tutti quelli gusti che desidera si per
corrispondere al merito grande di esso Padre come anco per dimostrare la stima grande
che facciamo delle sue raccomandazioni, et insieme obligazioni che dovemo a lei et qui per
fine a V.P. baciamo le mano.
Di Corneto 20 Febraro 1635” 26) .
Nel 1635 i Cornetani pensavano che fosse terminato il periodo del guardianato di
quello del loro convento che non si sa chi fosse. Essi si rivolsero allora al P. Provinciale
Giovanni da Roma per proporre il P. Antonio da Veroli, ma ciò non avvenne perché restò
confermato quello di prima P. Antonio da Veroli morì in Aracoeli il 26/1/1647 27) .
Il peggio però si verificò l’anno seguente, quando nel convento rimasero solo il
guardiano ed il vicario che non legavano con gli altri frati che venivano, rimanendo quindi
soli. Ciò perdurò anche per il 1637 con grave disagio della popolazione e tentativi di
restrizioni da parte dell’amministrazione comunale. Vi furono due ricorsi al cardinale
25)
Lettera al P. Provinciale 17/10/1634, Lettera al P. Generale 24/10/1634, Lettere 1631-1636 ff. 142-142 v, 143-144
ASCT. Onorato da Casabasciana, Notizie della Provincia Romana ff. 47 v-48 APA Ms. 88.
26)
Lettera al P. Bonaventura Vipereschi 20/2/1635 Lettere 1631-1636 f. 158,21 ASCT.
99
Francesco Barberini il 14/4/1636 il primo e non oltre il 10/11/1637 l’altro. Nello stesso
periodo vi fu un ricorso al P. Provinciale. Il 4/10/1637 il consiglio comunale si decise a
trattare l’argomento in maniera accorata.
Sul decimo punto riguardante “il parere (da) pigliare poiché in S. Francesco da
tempo che non vi stanno quella quantità di sacerdoti che vi stanno per il passato appello
per Mons. Nostro”, intervenne Antonio Ceraso dicendo: “per mio parere, che havendo
questa Città già sopportato quasi tre anni la poca offitiatura, che si faceva, et fa nella
Chiesa di S. Francesco pupilla di questa Città et benché ne habbia più volte fatto istanza alli
Guardiani esistenti, Padri Ministri, et Commissari Generalii da quali sempre se ne sono
haute buone parole che saria stato provisto a tanto gran mancamento, ma vedendo, che
non si piglia partito alcuno anzi tuttavia mancano sacerdoti, et frati, et la Chiesa appena ce
si celebra, et le spese corrono nel modo come et quando vi stavano di famiglia 16 Padri
hora ridotti a dui sacerdoti è mio parere, che arrivando il tempo di dargli la solita
elemosina che gli da la nostra Comunità si soprasseda et fratanto se ne dia conto a P.
Nostro Signor Card. Patrone loro Protettore con supplicare S.E. vogli degnarsi ordinare
che in questa Città venga la solita famiglia, che è stata solita a starci per il passato poiché
questa Città è devotissima di detto santo et gli par di non vedere la detta chiesa star senza
anima, et il tutto si facci operare dall’agente nostro in Roma.
Fuit positum ad partitum eodem in favorem 18 contra 1 “ cioé ottenne 18 favorevoli
e uno contro 28) .
Con tutte queste difficoltà, quando il convento e la città subirono gravi danni per
“una tempesta di vento”, il comune mandò due muratori ed i Conservatori ossia i
consiglieri comunali a valutare i danni accaduti al convento per chiedere il permesso alla
Congregazione del Buon Governo di poter spendere 100 scudi in favore. Fu posto ai voti il
26/10/1636 ed ottenne la maggioranza cioè 17 voti in favore e 3 contro 29) .
Forse a risolvere queste difficoltà fu sempre il P. Bonaventura Vipereschi che cercò
di appianarle finché gli fu possibile.
Eppure di lui lo scrittore contemporaneo Muzio Polidori non ci lascia alcuna
memoria. Mi sembra quindi giusto rivalutarne la figura di francescano che amò
profondamente la sua patria, pur non riuscendone a risolvere totalmente i problemi. Per
questo mi sono permesso di rimettere in luce quello che mi è stato possibile reperire su di
27)
Lettera al P. Provinciale 27/4/1635 Lettere 1631-1636 f. 163 v, 23 v ASCT.
Lettere al cardinale Francesco Barberini 14/4/1636 e s.d. ma non oltre il 10/11/1637, Lettera al P. Provinciale s.d. ma
come la precedente Lettere 1631-1636 ff. 189-189 v, 218-218v, 218v-219 ASCT; Consiglio 4/10/1637 Reformationes
1631-1637 ff. 294, 295, 298-299 ASCT.
29)
Consiglio 26/10/1636 Reformationes 1631-1637 ff. 249 v, 251-251 v ASCT.
28)
100
lui e questo periodo storico interessante per Tarquinia ed il suo convento di S. Francesco
specialmente per i continui contatti ed interessamenti delle autorità cittadine.
Fondi Archivistici:
Archivio Falzacappa Tarquinia Presso Società di Arte e Storia
Archivio Provinciale Aracoeli APA
Archivio S. Bernardino Orte ASBO
Archivio Storico Comunale Tarquinia ASCT
Archivio Vescovile Orte AVO
Bibliografia
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(Roma
1736)
Casimiro da Roma, Memorie istoriche delle chiese e dei conventi dei Frati Minori
della Provincia Romana (Roma 1764)
Chiappini A., Annales Minorum 27 (Quaracchi 1934)
Corteselli M. Pardi A., Corneto com’era (Tarquinia 1983)
D’Asti L., Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto (Corneto Tarquinia
1910)
Holzapfel H. Historia Ordinis Fratrum Minorum (Friburgi Brisgoviae 1909)
Iriarte L., Storia del Francescanesimo (Napoli 1982)
Polidori M., Croniche di Corneto a cura di Maria Rita Moschetti (Tarquinia 1977)
Romanelli E., S. Francesco di Tarquinia (Roma 1977)
Wadding L, Annales Minorum continuato a P. Stanislao Melchiorri de Cerreto 24 e
25 (Quaracchi 1934)
Zucconi G., La Provincia Francescana Romana (Roma 1969)
Zucconi G., “Il convento di S. Maria del Paradiso in Viterbo” in Acta Provinciae
Romanae SS. Apostolorum Petri et Pauli Ordinis Fratrum Minorum 19 (1965 N 3)
P. Luigi Sergio Mecocci
101
PITTURE CORNETANE
Nell’atto di pubblicare un saggio interessante di pitture cornetane, credo
conveniente, per assegnar loro il giusto posto fra i monumenti conosciuti, di stabilire certi
periodi dell’arte etrusca, proponendone una classificazione, la quale, benché possa essere
modificata e compiuta per nuove pubblicazioni, dopo i lavori analitici del Brunn
certamente non sembrerà prematura. Mi limiterò in questa ricerca soltanto alle pitture,
come ad opere d’arte vera, di cui si è pubblicato un numero sufficiente in incisioni esatte, e
delle quali ho potuto studiare ed i lavori di bronzo. Imperocché nei primi tempi il libero
sviluppo dell’ingegno artistico nella scultura veniva molto impedito dalla qualità del
materiale, nel quale si lavorava, ed i bronzi quasi tutti appartengono ad un periodo solo,
non ci offrono nemmeno la facoltà di studiare un più lungo tratto di sviluppo.
Le più antiche tra le pitture etrusche a noi conservate sono quelle d’un sepolcro
vejente scavato dal marchese Campana 1) . Il disegno n’è rozzo e d’una incertezza quasi
fanciullesca. Le proporzioni dei corpi delle bestie sono tutte sbagliate; non riuscì all’artista
di esprimere le parti più fine del corpo umano come le dita delle mani e l’occhio, ch’è
raffigurato senza pupilla ed in due figure neppur posto sul giusto luogo; nemmeno nei volti
sono variate le forme e l’espressione, ma sono piuttosto tutti uniformi. All’incontro non si
può negare, che le proporzioni del corpo umano, benché espresse colle forme d’uno stile
particolare, tuttavia dentro i limiti di questo siano raffigurate abbastanza bene. L’influenza
dell’arte arcaica greca vi si travede chiaramente. Confrontando queste pitture colle opere
antichissime greche, al primo aspetto potrebbe qualcheduno giudicare, che s’accostino il
più ai dipinti dei vasi di Milo pubblicati dal Conze 2) , i quali fanno vedere una simile
1)
2)
Micali mon. ined. LVIII, 1-3 Canina “Etruria marittima” I, 35.
Melische Thongefässe.
102
imperfezione nel disegno ed una simile disproporzione nella formazione dei corpi dei
cavalli. Intanto c’insegna uno studio più esatto, che le pitture vejenti appartengono ad uno
sviluppo dell’arte più avanzato. Nei vasi di Milo le proporzioni del corpo umano,
prescindendo dalla teste che sono troppo grandi, possono dirsi soddisfacenti. Si può dire di
più, che generalmente si accostano più al vero, che nei vasi delle seguenti epoche, nei
corinzii cioè e negli attici, nei quali il petto, le spalle, le natiche e le coscie si scorgono
raffigurati d’una larghezza esagerata, mentre le gambe e le braccia sono assottigliate e
prolungate oltre il vero. Nondimeno - anche non parlando del disegno più perfetto e della
tecnica più raffinata - nessuno negherà appartenere essi ad un’arte più sviluppata. Giacché
queste proporzioni non derivano dall’inabilità dell’artista, ma ci fanno fede d’un principio
stabilito con manifesta intenzione, di rappresentare cioè i corpi robusti e nello stesso
tempo destri ed eleganti. Anche nei vasi di Milo traspariscono già le tracce di questo
principio 3) , sebbene non vi sia ancora fermamente stabilito né costantemente proseguito.
Nelle pitture vejenti all’incontro i corpi degli uomini sono tutti espressi secondo le stesse
leggi stilistiche che s’incontrano nei vasi corinzi ed attici. Dipendono dunque dallo
sviluppo dell’arte greca, qual’era nel periodo della fabbricazione di questi. Di più nei vasi di
Milo manca ogni espressione della muscolatura, mentre nelle pitture vejenti questa vien
espressa in maniera analoga agli anzidetti vasi arcaici 4) . Se nondimeno l’esecuzione delle
figure è molto inferiore a quella ovvia nell’arte vascolare corinzia ed attica, questo si spiega
da ciò, che i principi dello stile non sono stati sviluppati dagli Etruschi stessi, che li hanno
adottati da un’arte estranea, e perciò non vengono seguiti colla stessa intelligenza. Le
disproporzioni che s’incontrano nella formazione degli animali sulle pitture vejenti, si
trovano così anche sui vasi corinzii 5) , ed è probabile che nelle prime siano cagionate
direttamente dall’influenza dell’arte vascolare corinzia. Imperocché le notizie sulla venuta
di artisti corinzii a Tarquinii 6) o debbono dirsi mitiche o, se hanno un fondamento
storico 7) , una tale immigrazione era un fatto troppo isolato, per poter assicurar all’arte
greca un’influenza tanto decisa sull’arte etrusca. Tra i monumenti poi le più antiche pitture
greche per la massima parte erano parietarie, onde non potendo esser importate in Italia
s’intende che esse nemmeno potevano servir da modelli agli Etruschi. Restando dunque
come oggetti di più facile trasporto i lavori di bronzo e di terra cotta ed i vasi dipinti; e che
3)
P. e. nella figura del guerriero a sinistra di chi guarda tav. III.
Cf. e Mon. Ann. dell’Inst. 1855,20
5)
P. e sul vaso di Tersandro (v. ann. dell’Inst. 1863 p. 217 not.2). Un cavallo con simili disproporzioni come sulle
pitture vejenti si trova in un vaso di stile corinzio raffigurato presso Westropp Epochs of painted vases II, 20.
6)
Plin. h. XXXV, 16.152.
7)
Questo mi sembra certo in quanto alla notizia data da Cornelio Nepote sopra Ecfanto (Plin. h.n. XXXV, 16).
4)
103
nelle epoche primitive l’arte greca esercitasse la sua influenza sull’Etruria principalmente
mediante le stoviglie importatevi, diventa se non certo, almeno probabilissimo per la
grande quantità di esse ancor conservate ne’ sepolcri etruschi.
Accanto a questo carattere greco l’elemento etrusco nelle pitture vejenti si travede
soltanto negli abiti e negli attributi, come p.e. nella scure che porta il giovane procedente
presso il cavallo; essa era un’arma nella guerra non mai usata dagli antichi Greci, mentre
gli Italici già in antico tempo sembra che se ne siano serviti 8) . Probabilmente anche il
corto abito della stessa figura è un vestimento nazionale, voglio dire lo stesso colletto che
in un altro luogo credo a’ Greci 9) , benché nella rozzezza del disegno non ardisca di
affermarlo certamente. Per giudicare sullo sviluppo interno dell’arte etrusca ed i suoi
rapporti coll’arte greca, questi contrassegni piuttosto esterni sono di poca importanza,
laonde d’or innanzi esaminando le altre pitture non li menzionerò espressamente, ma mi
ristringerò all’analisi dello stile. Lo stile nelle pitture vejenti dunque è proprio l’arcaico
greco, le cui leggi vengono seguite rozzamente, ma sempre in maniera, che si riconoscono
chiaramente anch’adesso. Se simili pitture senza indicazione della provenienza loro si
trovassero in un museo, forse sarebbero assegnate da qualcheduno alle primizie dello
sviluppo dell’arte greca. Farebbe meraviglia soltanto che, mentre lo stile appartiene ad uno
stadio già abbastanza avanzato, l’esecuzione gli corrisponda così poco, difetto, la cui
cagione in un artificio etrusco di primitiva epoca si spiega nell’anzidetta maniera. Per
determinar l’epoca di queste pitture, poco ci giova di conoscere il termine, dopo il quale
non possono essere lavorate, voglio dire dopo l’anno 396 avanti l’era nostra, nel quale Vejo
fu conquistata e distrutta interamente dai Romani, perché sono certamente molto più
antiche.
8)
Vergil. Aen. VII. Cf. l’aes grave etrusco: Marchi e Tessieri aes grave Cl. III tav. 4,1-6, l’unica dei Vestini l.s. Cl. IIII.
tav. 3B, 2, Micali mon. ined. 25, 2, 28, 5. S’aggiungono i rilievi del sepolcro ceretano, pubblicati dal ch. Desvergers in
un’opera non ancora giunta a Roma. In un’epoca più recente la scure sembra essere diventata un’arma di caccia anche
presso i Greci; v. il rilievo di Milo Ber. d. sächs. Ges. d. Viss. 1848 p.123, quello di Messene Stackelberg Gräber der
Hell. p. 49 Vign, Clarac mus. de sc. 151 bis, 795. Fra i cacciatori calidonii la porta Anceo in un vaso apulo (Gerhard
apul. Vas. 9) e nei sarcofaghi ACDEFPQ raccolti in questi Annali p. 81. Cf. O. Jhan Ber. d. Sächs. Ges. d. Wiss. 1848
p. 126. Si capisce facilmente, che principalmente in un’occupazione esercitata dai Greci con tanta predilezione e con
tanto dispendio, come era la caccia, abbia potuto svilupparsi il lusso d’arme straniere. Sembra però, che anche questo
uso sia stato scarso; perché Polluce V, 18 (cf. X, 142) raccogliendo le arme di caccia non la menziona come un arma,
ma scrive espressamente essa aver servito per un altro scopo. Come arma da caccia da scure si trova già in monumenti
italici abbastanza antichi, come nel sepolcro cornetano detto generalmente la grotte del fondo Querciola (v. più sotto p.
347, n.2), sul coperchio della cista Ficoroniana, sullo specchio presso Gerhard etrusk. Spiegel 173. Dell’uso della scure
nella guerra presso i Greci non si trova nessuna traccia; serve piuttosto sempre per caratterizzare i barbari. Una volta
viene data anche ai Persi, benché non sembri essere stata un’arma persica; v. Arch. Zeit. 1862 p. 284 sg.
9)
Ann. dell’Inst. 1863 p. 213 sg.
104
Seguono nello sviluppo dell’arte dopo le pitture vejenti, ma senza dubbio separata
da esse per un lungo tratto di tempo, le pitture ceretane 10) , le quali, come è stato provato
da Brunn 11) , sono più antiche di tutte le altre finora pubblicate. In confronto colle vejenti vi
si scorge un gran progresso. Il disegno è semplice, ma esatto e deciso. L’occhio benché
disegnato di faccia è posto sul giusto luogo e ne vien espressa la pupilla. Le teste non sono
tutte uniformi, ma distinguonsi bene i caratteri delle differenti età, giovanile, virile e
vecchia; riuscì all’artista eziandio di esprimere un motivo psicologico, cioè di raffigurar un
gruppo immerso in profondi pensieri.
Nello stile si scorge non minore differenza che riguardo l’intelligenza artistica e la
pratica tecnica. Lo stile arcaico greco delle pitture vejenti nelle ceretane già è molto
modificato. Le stature cioè non vi hanno le proporzioni sopra indicate, ma sono robuste e
quadrate non soltanto nel tronco, ma anche nelle estremità. E’ certo, che queste forme
corrispondono più alla realtà e che, per adoperarle, ci voleva già un esatto studio del vero,
mediante il quale si giunse a dar a queste figure l’impronta d’un carattere chiaramente
nazionale etrusco. Nelle teste che senza dubbio debbono prendersi per ritratti, l’artista,
benché non potesse ancora rompere tutti i vincoli dello stile arcaico greco, riuscì
nondimeno a modificarlo essenzialmente. Nelle fronti inchinate in addietro, negli occhi
colle code abbassate in giù, nelle barbe e capigliature si riconosce chiaramente un carattere
non più greco, ma di tipo generale etrusco ovvio anche in altri monumenti.
Dopo le pitture ceretane può dubitarsi, se abbiamo da menzionare prima le pitture
di tre sepolcri cornetani 12) , o le più antiche chiusine 13) ; perché confrontando tanto l’uno,
quanto l’altro gruppo colle ceretane, vi ritroviamo gli stessi progressi ed ad un dipresso lo
stesso stadio di sviluppo artistico. Si osserva chiaramente che gli artisti cornetani ed il
chiusino conoscevano molto meglio le leggi della struttura del corpo umano e le
10)
Mon. dell’Inst. VI, 30.
Ann. dell’Inst. 1859 p. 325 sg.
12)
Sono i seguenti:
1. Grotta dal morto: Mon. dell’Inst. II, 2 Mus. gregor. I, 99. Canina Etruria marittima II, 82. cf. Abeken Mittelitalien p.
422 d. Dennis cities and cemeteries I p. 298 sg.
2. Grotta del mezzo dei monti rozzi o del barone: Micali storia LXVII. Mus. Greg. I, 100. Canina I. s. II, 86. cf.
Abeken 1. s. 422 e (tav. IX, 2). Dennis 1. s. I p. 329 sg.
3. Grotta che guarda Tarquinii o delle iscrizioni: Mus. Greg. I, 103. Canina 1. s. II, 87. cf. Abeken l.s. p. 423 f. Dennis
l. s. I p. 338 sg.
Bisogna servirsi con molta precauzione delle copie dipinte nel Museo Gregoriano e delle incisioni fatte secondo queste
nella pubblicazione dello stesso museo; perché certe parti distrutte negli originali vi sono ristaurate alcune volte nella
maniera d’un arte più libera ed elegante. Del carattere generale delle pitture le anzidette incisioni non danno
nessun’idea. Le incisioni nell’opera di Canina sono tutte molto manierate. La pubblicazione colorata presso Micali per
conoscere la particolarità dello stile è tutta insufficiente. Per esaminare l’esattezza di queste pubblicazioni nelle singoli
quistioni ho confrontato le tavole dell’opera di Kestner e Stackelberg sopra i sepolcri di Corneto disgraziatamente né
terminata né pubblicata, le quali si trovano presso l’Istituto.
13)
Mon. dell’Inst. V, 15. 16.
11)
105
modificazioni, alle quali questo è soggetto ne’ varj suoi movimenti. Mentre nelle ceretane i
corpi di tutte le figure sono disegnati in un profilo, gli artisti cornetani e l’artista chiusino
già ardiscono di rappresentarne, alcuni - eccettuate le teste e le gambe - di faccia o a mezza
faccia.
Le figure che procedono non sono sempre, come sulle ceretane, poste con ambedue
le piante dei piedi sul fondo; ma spesso l’una pianta è un po' alzata ed il piede incurvato nei
muscoli. Molte figure sono rappresentate in mosse più agitate, correndo, ballando ossia
saltando.
Alcune ve ne sono ben riuscite, altre, è vero, sembrano vacillare; imperocchè
l’artista non aveva penetrato tutte le leggi di queste mosse e gli mancava la capacità di
esprimere gli scorci tanto necessaria in tali motivi. Intanto anche in questi difetti si ravvisa
un grande progresso in comparazione colle pitture ceretane, sulle quali le figure che
procedono a passi accelerati verso l’altare secondo tutte le leggi fisiche dovrebbero cascare.
Una grande differenza si osserva riguardo al carattere nazionale. Mentre sulle pitture
ceretane tra le modificazione etrusche si travedono ancora le leggi dello stile greco, sulle
pitture in discorso il carattere etrusco predomina, di modo che sulle cornetane si scorge
pochissima, sulle chiusine nessuna traccia dello stile greco.
Non può dubitarsi, che i pittori generalmente abbiano voluto raffigurare i ritratti di
quelli che partecipavano ai giuochi ed ai balli fatti in onore del deposto, ciò che si
conchiude dai nomi spesso soprascritti alle figure nei sepolcri cornetani. Un artista
cornetano raffigurò eziandio il defunto stesso esposto sul letto mortuario e circondato dalla
sua famiglia ed aggiunse per mezzo d’epigrafi soprascritte il nome del defunto e d’uno dei
giovani 14) .
L’artista ceretano avrà avuto l’intenzione di raffigurare dei ritratti, ma non era nello
stato di emanciparsi di tutti i vincoli dello stile arcaico. Gli artisti in discorso lo volevano e
vi riuscivano. Intanto una certa rigidezza arcaica difficile ed analizzare, ma palpabile
segnatamente innanzi agli originali, che si rileva nelle teste delle pitture cornetane
confrontate con quelle delle chiusine, mi fa sospettare, che queste siano più antiche delle
chiusine, benché distanti di poco nello sviluppo. Nelle chiusine troviamo già veri ritratti
etruschi e distinguiamo i vari caratteri degli individui, rappresentavi nobile e maestosa la
donna che presiede i giuochi, svelti o graziosi i desultori, valente ed altiero i pirrichista,
rozzi e quasi bestiali i pugilatori.
Considerando le pitture etrusche per ordine cronologico, abbiamo dunque veduto,
che le più antiche osservano generalmente le leggi dello stile greco, che nelle seguenti
14)
Nella grotta del morto.
106
l’elemento etrusco quasi cerca di accomodarsi con questo, che nelle più recenti l’elemento
nazionale predomina. Riassumendo tutti questi fatti veniamo al risultato, che l’arte etrusca
nei suoi primordi si sia fondata sulla base dello stile arcaico greco; dopo di ciò si sviluppò
per un certo tratto di tempo da sè, senza essere alterata da una nuova influenza dell’arte
greca, epoca, nella quale sensibilmente l’ingegno artistico etrusco tendente alla pretta
imitazione del vero cominciava a prevalere e finalmente predominò. Questo processo direi
il primo periodo dell’arte etrusca, i cui termini, fra le pitture a noi conservate, vengono
segnati per quelle vejenti e quelle più antiche chiusine.
Ora sorge la questione, qual posto nello sviluppo dell’arte etrusca e fra i monumenti
conosciuti prendano le pitture incise nella nostra tavola. Si trovano esse sulle pareti d’un
sepolcro cornetano visitato da me nell’aprile di quest’anno, che dalla figura più bella ed
interessante chiameremo il sepolcro dal citaredo. Siccome le pitture sono state descritte da
me distesamente nel Bullettino di quest’anno pag. 107 sg, ora non mi resta altro che di
esaminarle riguardo allo stile e di attribuire loro il giusto posto nella serie degli altri
monumenti etruschi. Senza dubbio esse appartengono ad uno sviluppo dell’arte più
avanzato che le cornetane e chiusine ora esaminate. Ne abbiamo la prova in primo luogo
nei colori e nel loro maneggio. Sulle pitture cornetane più antiche vengono impiegati,
prescindendo dal colore giallastro del fondo, sei colori principali, nero, brunastro scuro,
rosso-brunastro azzurro, il colore della carnagione e bianco. Fuori di questi si scorge
raramente un bigio-brunastro nei contorni, in certi ornamenti e nella barba del defunto
nella grotta detta dal morto, un bigio chiaro nel grembiule d’un lottatore nella grotta che
guarda Tarquinii, ed un bigio-paonazzo nei cavalli marini della grotta del mezzo dei monti
rozzi. Nelle pitture del sepolcro dal citaredo s’incontrano due nuovi colori principali: un
proprio rosso ed un verde, e di più anche i colori tramandati dall’epoca più antica vengono
maneggiati ed aggruppati con maggior varietà e raffinatezza.
Mentre nelle pitture più antiche gli abiti sono dipinti d’un colore solo e ne viene
soltanto alcune volte distinto l’orlo ed una volta una sorte di ricamo nella figura della
flautista nella grotta nel mezzo dei monti rozzi, nel sepolcro dal citaredo quasi dappertutto
viene espresso il damascato per differenti colori. I capelli nelle altre pitture formano una
massa quasi uniforme distinta per certe lineee stereotipe: il nostro artista all’incontro nelle
figure delle donne distingueva i capelli posti sulla testa stessa e quelli che ne pendono o
svolazzano indietro, dipingendo quelli d’uno scuro bigio-brunastro, questi d’un bigiorossastro. Mentre in quelle pitture la carnagione è tutta uniforme, l’artista nostro
distingueva le guance delle donne d’un rosso sovrapposto. Siccome però non era possibile
di dare una pubblicazione colorata delle nostre pitture, facciamo seguire la descrizione dei
107
loro colori, in quanto sono conservati, cominciando colla prima figura che si trova presso
l’ingresso sulla parete principale sinistra:
L’abito punteggiato di nero ha il colore biancastro del fondo; l’orlo è rosso; rosso
con orlo azzurro è il mantello. L’abito della seguente figura è punteggiato di rosso, il
mantello azzurro con orlo rosso. La clamide del citaredo ha il colore del fondo con orlo
rosso e punti azzurri. L’abito della seguente danzatrice fa vedere un orlo e punti brunastri;
il mantello è verde con orlo brunastro.
Sulla parete destra il giovane colla tazza porta una clamide rosso-brunastra. Quella
della seguente figura è bianca con orlo rosso-brunastro.
La clamide della seguente figura ha il colore del fondo con orlo rosso-brunastro;
quella della quinta figura è rosso-brunastra.
Gli allori che separano le singole figure e gli ornamenti d’edera sulla parete opposta
alla porta sono azzurri. Le corone all’incontro sulle teste dei giovani sono dipinte di verde.
Le strisce che limitano le pitture, cominciando colla superiore, sono azzurre,
bianche e rosse.
L’insieme di tutto il colorito fa un’impressione varia, viva e brillante, mentre
l’impressione che fanno le pitture cornetane sopra menzionate, è uniforme, semplice e
seria.
Allo stesso risultato perveniamo confrontando il disegno. Il disegno delle pitture
cornetane e chiusine al mio parere più antiche potrebbe dirsi planimetrico, vale a dire
possono esprimere gli artisti soltanto quegli oggetti che stanno dritti nel piano della vista e
cercano di accomodare a questo anche quelli posti in altra maniera; il quale difetto si
spiega principalmente dall’incapacità degli artisti nel fare gli scorci. Per darne un esempio
evidente, nella figura del pirricchista sulle pitture chiusine 15) , la gamba destra che viene
tirata avanti nell’atto del camminare, se fosse rappresentata al vero, non starebbe dritta nel
piano della vista. L’artista però, non potendo raffigurarla così l’accomodò alla sua pratica.
Così questo membro non si riunisce colla mozione di tutta la figura e sembra essere
attaccato piuttosto che riunito coll’organismo di tutto il corpo. Senza dubbio l’artista vi
sbagliò, perché non poté esprimere l’accorciamento del piede che deve adoperarsi nel
disegno di questo membro occupato in cotesta mozione.
L’artista all’incontro, il quale dipingeva il sepolcro dal citaredo, sapeva superare
queste difficoltà. Basta considerare il piede sinistro della donna che sulle nostre pitture
balla vicino all’angolo della parete sinistra, il piede sinistro della quarta figura sulla stessa
15)
Mon. dell’Inst. V, 16, III.
108
parte, lo stesso piede del giovane colla tazza sull’opposta parete.
Siccome però le nostre
pitture contengono soltanto poche figure in mozioni somiglianti e rovinate in alcune parti
molto caratteristiche, così bisogna, per compiere la dimostrazione, considerare le pitture di
tre altri sepolcri cornetani 16) e d’un sepolcro chiusino 17) , le quali sono meglio conservate e,
siccome contengono una più varia quantità di motivi artistici, ci offrono più confronti.
S’accostano tutte queste pitture nello stile e nella tecnica in maniera evidente a quelle della
grotta dal citaredo, di modo che possiamo considerarle frattanto tutte come appartenenti
allo stesso sviluppo artistico, per analizzare più tardi le differenze che si scorgono fra loro.
La loro affinità si osserva già negli oggetti presi a rappresentare. I principali oggetti
cioè sono dappertutto scene di ballo aggruppate nella stessa guisa, di modo che ogni figura
è separata dall’altra mediante un tronco d’alloro semplice 18) o ornato di tenie ossia di
figure d’uccelli assissivi sopra. Il carattere dei balli in tutte le pitture è lo stesso: veementi
mozioni e particolari storcimenti dei corpi; le mani sono alzate e protese in maniera strana
e le dita distese quasi spasmodicamente. Lo stile è vicino al libero sviluppo dell’arte;
restanto intanto alcune tracce d’arcaismo principalmente nei concetti assessori, nella
maniera, in che cadono gli abiti, nelle pieghe di questi, nelle dita. Come sulle pitture del
primo periodo, l’occhi, benché i volti siano disegnati in profilo, viene raffigurato di faccia e
manca l’uso del chiaroscuro. I contorni dei corpi delle figure che sono vestite di stoffe fine,
principalmente delle donne, vengono espressi per linee esatte e decise, motivo, le cui tracce
scarsamente si scorgono già nei dipinti del primo periodo 19) . L’insieme delle mozioni delle
figure generalmente è espresso correttamente, e la figura tutta sbagliata del flautista nel
sepolcro dal citaredo deve dirsi un’eccezione. E’ vero che i movimenti di molte figure
sembrano fuor di natura e ricercati e che il loro scopo è difficile da spiegarsi.
Sbaglierebbe intanto chi vi volesse riconoscere soltanto una rozzezza arcaica
dell’artista perché il disegno generalmente è corretto e, supposto che bisogna raffigurare
una tale posa, esso corrisponde alla natura. Dia ora qualcheduno ad una modella la stessa
posa, nella quale è raffigurata la ballerina colle nacchere nel sepolcro dal citaredo, e la
faccia copiare così da un pittore cogli stessi pochi mezzi, che erano a disposizione
16)
Sono i seguenti:
1 Grotta dal triclinio o Marzi. Mon. dell’Inst. I, 32. Mus. Greg. I, 102. Canina Etruria. maritt. II, 81 cf. Abeken
Mittelitalien p. 422 c. Dennis cities and cemeteries I p. 288 sg.
2 Grotta del corso delle bighe. Micali storia LXVIII. Mus. Greg. I, 101. Canina l. s. II, 85. cf. Abeken l.s. p. 421 a.
Dennis l. s. p. 324 sg.
3 Grotta del fondo Querciola. Mon. dell’Inst. I, 33. Mus. Greg. I, 104. Canina l. s. II, 80 cf. Abeken l. s. p. 422 b.
Dennis l. s.p. 281 sg.
17)
Mon. dell’Inst. V, 17.
18)
Nella grotta del triclinio vi sono mischiati due alberi d’altro genere ed un tronco con fiori.
19)
P. e. nella figura della femmina che sta occupandosi sul defunto nella grotta dal morto.
109
dell’artista tarquiniese: la copia produrrà una figura tutta somigliante. Abbiamo perciò da
scegliere fra due supposizioni: o che si adoperavano veramente nei balli etruschi tali pose
ricercate, le quali venivano copiate dagli artisti al vero della natura, o che gli artisti ad ogni
costo volevano produrre delle mozioni piene di vivacità e di varietà e caricavano in cotesta
maniera i loro motivi, nel qual caso bisognerebbe incolparli di mancanza di gusto, non
d’incapacità tecnica.
Finalmente in tutte queste pitture regna una particolar riunione
dello stile greco insieme col verismo etrusco, ciò che basta accennar brevemente, per
parlarne distesamente più tardi.
Le pitture degli anzidetti tre sepolcri cornetani non si ristringono a scene di ballo;
nella grotta del Triclinio troviamo balli ed un convito; nella grotta Querciola balli, un
convito, scene di caccia e di lotta, nella grotta dal corso delle bighe, balli, conviti, giuochi, le
quali scene ci offrono larga quantità di confronti. Parimenti ci fanno vedere eccellenti
prove di scorci.
Non vi voglio rammentare se non le figure dei banchettanti dipinte nella grotta dal
corso delle bighe sotto il soffitto sulla parete opposta alla porta.
Stanno giacenti coll’una gamba distesa, mentre l’aria ritirata indietro è accorciata
molto bene. Un altro progresso si osserva nelle figure che stanno ferme in piedi.
L’uniformità e rigidezza delle pitture più antiche è superata ed ha ceduto il posto ad una
maggiore varietà di motivi, principalmente nelle scene di caccia, di lotta e di giuochi sopra
menzionate. Già vi riposa spesso il peso del corpo sopra una gamba, mentre l’altra vien
posta leggermente sul fondo, motivo nell’arte greca sviluppato principalmente da Policleto.
Mentre nelle pitture del primo periodo le gambe sono sempre raffigurate di profilo, sulle
pitture in discorso vengono espresse anche di faccia. Basta rammentare due figure che si
scorgono fra gli spettatori dei giuochi nella grotta dal corso delle bighe, la figura d’un
giovane che sta sotto la galleria degli spettatori e quelle dei giovani che attaccano i cavalli
nello stesso sepolcro, la figura d’una ballerina nella grotta dal triclinio, finalmente il
flautista nella grotta Querciola. S’aggiunge un momento molto evidente che offrono gli
ornamenti. Nei sepolcri cornetani più antichi si scorge più volte nei campi triangolari sotto
il soffitto un grande ornamento di forma d’ara o di cratere, ora guarnito d’un orlo più
scuro 20) , ora distinto nei quattro angoli di rosette 21) . Questo ornamento conserva ancora
un carattere somigliante nella grotta dal citaredo; negli altri sepolcri però viene sviluppato
in maniera molto squisita ed artificiosa, ora distinto di viticci d’edera dipinti in essa 22) , ora
20)
Nella grotta dal morto.
Nella grotta del mezzo dei monti rozzi.
22)
Nella grotta dal triclinio.
21)
110
guarnito di differenti strisce, mentre un cratere e due giovani coppieri sono dipinti nel
mezzo 23) . Nella grotta Querciola non ne restano conservati se non gli orli, fra i quali sono
dipinti due guerrieri ciascuno tenente un cavallo per la briglia. Onde non possiamo esitar
di riconoscere anche nello sviluppo di questa particolarità un indizio di un’epoca più
recente.
Stabilito così in generale l’ordine cronologico delle pitture, bisogna ora esaminare,
se tra quelle del secondo periodo stesso ci siano indizj di differente sviluppo.
Abbiamo già osservato, che nel sepolcro dal citaredo quell’ornamento sotto il soffitto
vien trattato nella maniera semplice dei sepolcri più antichi, mentre negli altri se ne scosta.
Già da questo momento può conchiudersi, che il nostro sepolcro sia più antico degli altri.
Ed esaminandolo più esattamente, non mancano neppure altri indizj d’uno sviluppo un po'
meno avanzato. Così gli abiti che svolazzano intorno dei corpi delle donne danzanti sono
trattati più rigidamente e con meno d’intelletto che sulle altre pitture. Anche le leggi della
mozione del corpo umano, a quel che pare, dal nostro artista non sono intese come dagli
altri. Una figura così sbagliata nel disegno come quella del flautista rivolto indietro non
vien raffigurata da nessuno di loro. I più recenti sepolcri senza dubbio sono la grotta dal
corso delle bighe con i balli, col convito, con i giuochi, e la grotta Querciola con i balli, col
convito e colle scene di caccia e di lotta. Le composizioni di queste pitture sono le più
ricche e le più svariate. Mentre negli altri sepolcri le pitture vanno in una striscia attorno
delle pareti, qui sono disposte in due strisce, una più larga ed una più stretta. Il disegno è
più libero ed elegante e principalmente innanzi agli originali stessi si osserva, che le mani
di questi artisti erano più esercitate e pratiche. Sopra la più grande varietà dei motivi
artistici, principalmente nelle pose delle figure che stanno ferme in piedi, ho già parlato di
sopra. Finalmente l’anzidetto ornamento in questi due sepolcri viene sviluppato nella
maniera più squisita e si scosta il più dalla sua originaria forma. Mancano certi indizj per
attribuire un posto preciso fra questa classe di pitture a quelle di Chiusi. Sembra intanto,
giudicando dal carattere generale di loro, che stiano nel mezzo fra le pitture della grotta dal
citaredo e le più recenti cornetane e s’accostino a quelle della grotta dal triclinio. Potremo
dunque disporre le pitture di questo secondo periodo in quest’ordine cronologico:
I. Le pitture della grotta dal citaredo.
II. Le pitture del sepolcro chiusino 24) .
III. Le pitture della grotta dal triclinio.
IV. Le pitture della grotta Querciola.
23)
Nella grotta dal corso delle bighe.
111
V. Le pitture della grotta dal corso delle bighe.
Noto intanto espressamente, che in quest’ordine cronologico alcune supposizioni si
fondano soltanto sopra un senso generale artistico e sono prive di prove positive. Certo è,
che le pitture della grotta dal citaredo in tutta questa serie sono le più antiche; molto
probabile poi, che le ultimamente menzionate siano le più recenti. L’ordine, nel quale ho
posto le chiusine e le cornetane riferite in terzo luogo, si fonda sopra l’impressione che mi
fa il loro carattere generale, momento poco decisivo, perché troppo individuale 25) .
Veniamo ora ad esaminare l’altra questione molto importante per la storia dell’arte
etrusca, cioè a dire, quali rapporti si scorgano in queste pitture fra l’elemento nazionale
etrusco e l’arte greca. Il primo periodo dell’arte etrusca finiva coll’evidente vittoria
dell’elemento etrusco e collo svanire dello stile greco, sul quale si fondò originariamente
l’arte etrusca. Nelle antichissime pitture della seguente serie, vale a dire nelle pitture della
grotta dal citaredo, si scorgono di nuovo evidenti tracce dell’arte greca, ma d’un arte greca
più avanzata che sta vicina al libero sviluppo, conservando intanto ancora alcune
convenzionalità arcaiche. Riguardando il carattere delle teste si distinguono chiaramente
due diversi tipi, l’uno etrusco, il quale si osserva nel pugilatore presso dell’entrata, nel
flautista e nel terzo danzatore sulla destra parete, l’altro tendente al bello ideale greco nel
citaredo e nel giovane colla tazza, tipo, al quale s’accostano anche le teste delle donne. Essi
non possono essere ritratti, ma sono tipi ideali; perché tali volti si trovano troppo
scarsamente in verità di natura, ed i volti principalmente delle donne si rassomigliano
troppo fra loro, ciò che non potrebbe darsi, se l’artista avesse voluto esprimere ritratti
individuali. Forse soltanto i lunghi riccj che si scorgono in queste teste come in quelle di
carattere etrusco sono improntate dal verismo etrusco, perché simili lunghe capigliature si
osservano spesso in monumenti etruschi, mentre i giovani greci nei monumenti eccettuati i più antichi - vengono raffigurati generalmente con capelli tosati.
Le fattezze del citaredo mostrano la pura bellezza dell’ideale greco.
Se al primo aspetto il motivo dei sopracigli tratti avanti fino alle linee del profilo
sembra scostarsene, esso nondimeno non può considerarsi come indizio di carattere
nazionale etrusco, ma trova la sua spiegazione in una ragione fisica. I sopracigli cioè tratti
avanti possono servir in primo luogo all’espressione esterna dell’attenzione che regna
nell’animo dell’uomo; come con grande finezza viene espresso p. e. nei busti d’Ippocrate,
24)
Mon. dell’Inst. V, 17.
112
principalmente in quello della villa Albani, nel quale il medico è raffigurato quasi
esaminando i sintomi d’una malattia e facendone la diagnosi 26) , e nella statuetta del museo
Chiaramonti rappresentante Ulisse che portando il pocolo a Polifemo quasi studia nel volto
di questo gli effetti del suo stratagemma 27) . In una figura all’incontro che canta, questo
motivo si spiega semplicemente dalla costruzione fisica del volto umano: perché facilmente
e quasi sempre nell’atto del cantare i muscoli della fronte e con essi i sopraciglj si traggono
avanti nella direzione dei muscoli della bocca. Si osserva dunque questo motivo nella testa
di Chirone che insegna la musica ad Achille sul celebre dipinto di Ercolano 28) , testa che
anche per un altro riguardo si può comprare alla nostra, perché anch’essa fa travedere i
denti, accompagnando colla voce gli accordi dell’istrumento.
L’artista etrusco, mancandogli principalmente l’uso del chiaroscuro, poteva
accennare questo motivo piuttosto ch’esprimerlo chiaramente. Tanto più lode esso merita
per la finezza, colla quale mediante i suoi pochi mezzi sapeva esprimere l’intimo
sentimento e l’estro, col quale il giovane è approfondato nella sua occupazione 29) .
Non avrò bisogno di mostrare, che nella sola figura, ove ricorre questo motivo, cioè
nella testa del flautista, esso deriva dalla stessa cagione fisica come nella figura del
citaredo.
Una certa mescolanza del tipo greco e dell’etrusco si osserva nel danzatore presso
del giovane colla tazza, il cui profilo tende un poco al verismo etrusco, in maniera però
molto meno caratteristica che nelle altre figure di tipo decisamente etrusco 30) .
Nelle altre pitture di quest’epoca le teste delle figure principali dei danzatori e delle
danzatrici hanno tutte il tipo ideale greco eseguito con tanto più di finezza, quanto più
recente è il monumento. Nelle altre rappresentanze però si travede il carattere etrusco,
benché assai modificato dall’elemento greco. Così nelle scene dei giuochi nella grotta dal
corso delle bighe le fattezze di quasi tutte le figure degli spettatori e della più gran parte dei
partecipanti ai giuochi fanno travedere il carattere etrusco, benché in maniera abbastanza
moderata, e specialmente le teste dei pugilatori, adattate più delle altre per essere
rappresentate secondo il vero, benché raffigurate non così al vero come nel sepolcro dal
citaredo, si scostano nondimeno molto dall’idealità greca. Così anche nelle scene di caccia e
25)
Bisogna premettere in questa ricerca le pitture d’un sepolcro chiusino (Micali storia 69-70 Inghirami mus. chiusin. II,
122 sg..), e quelle d’un sepolcro ceretano (Canina Etruria marittima I, 63 sg.), perché le di loro pubblicazioni sono
troppo insufficienti. Per quanto si può conchiuderne, pare, che quelle appartengono al secondo, queste al terzo periodo.
26)
Braun Ruinen und Museen Roms p. 653; cf. Visconti iconogr. grecque pl. 32, 2.3. vol. I. p. 253.
27)
Ann. dell’Inst. 1863, tav. d’agg.O.
28)
Zahn die schönsten Ornamente III, 32. 33.
29)
Così dee modificarsi la lode assoluta spesa da me a questa testa nel nostro Bullettino 1863 p. 109.
113
di lotta sulle pitture della grotta Querciola vi sono alcune teste di carattere etrusco, mentre
le teste delle figure danzanti o procedenti nella fascia principale tutte tendono al tipo ideale
greco.
Riassumendo finalmente il risultato di quest’analisi vediamo, che il secondo periodo
dell’arte etrusca comincia con una nuova entrata dell’influenza dell’arte greca. Primamente
gli artisti etruschi legati dal verismo proprio all’ingegno loro ed accostumati alla pratica
dell’arte finora usitata resistevano a questa influenza, sia a bella posta, sia
involontariamente.
Questo processo s’esprime chiaramente nelle pitture della grotta dal citaredo
composte in maniera strana d’elementi greci ed etruschi, le quali per questa cagione
prendono un posto dipinto nella storia dell’arte etrusca.
L’influenza dell’arte greca intanto questa volta non s’intromise per un solo assalto,
ma sembrano aver esistito rapporti o continui o poco interrotti fra l’arte greca e l’etrusca,
in maniera che questa quasi accompagnava lo sviluppo dell’arte greca e ne riceveva i
progressi. Così i monumenti di questo periodo non ci rappresentano uno sviluppo regolare
e non interrotto come quelli del primo periodo, ma piuttosto una particolare fluttuazione,
non potendo né l’elemento greco opprimere tutto l’elemento nazionale etrusco né questo
emanciparsi dall’elemento greco. In ogni casol’ingegno greco aveva abbastanza forza da
impedire uno sviluppo nazionale, come aveva cominciato ad adoperarsi nel primo periodo,
e sembra aver indebolito passo passo per nuovi assalti l’elemento nazionale, risultato che
vedremo confermato riguardando la situazione, nella quale l’arte etrusca si trovava nel
terzo periodo.
Non è possibile di fissare un certo dato cronologico, né quando abbia cominciato né
quando abbia cessato questo secondo periodo. Può affermarsi soltanto, che tutte queste
pitture siano dipinte dopo Polignoto e davanti il fine del secolo quinto della città. Perché
già nelle più antiche di loro, nelle pitture del sepolcro dal citaredo, si scorgono dei processi
introdotti nell’arte dell’anzidetto maestro. Scrive cioè Plinio 31) : primus mulieres tralucida
veste pinxit” debba intendersi nella stessa maniera, nella quale sono raffigurate le donne
sulle pitture cornetane, cioè con i contorni dei corpi accennati sui vestimenti. Il “capita
earum mitris versicoloribus operuit” accenna il colorito più vario e più vivace che si
scorge, principalmente nei vestimenti, nelle pitture del secondo periodo comparate colle
più antiche. Dell’ “os adaperire, dentis ostendere”, la cui importanza nello sviluppo
30)
Per far conoscere viemmeglio il carattere delle teste abbiamo fatto incidere le quattro più conservate sulla tav. d’agg.
M nella proporzione d’un quarto dell’originale.
31)
h. n. XXXV, 58.
114
artistico vien esposto dallo stesso Brunn 33) , ci offre il citaredo un evidente esempio.
Nemmeno manca sulle nostre pitture il “voltum ab antiquo rigore variare”. All’incontro
tutte queste pitture sono dipinte avanti il fine del secolo quinto della città, tempo, nel quale
l’arte etrusca certamente si trovava già nel terzo periodo. La cista Ficoroniana cioè ch’è
lavorata nel Lazio sia nel fine del quinto sia nel principio del sesto secolo della città 34) , fa
vedere già tutti i contrassegni dell’arte quasi interamente ellenistica che sono propri a
questo periodo. Siccome l’arte nel Lazio si trovava in codesto stadio, dobbiamo supporre lo
stesso nell’Etruria, confrontando principalmente la rassomiglianza dei lavori graffiti in
bronzo latini ed etruschi che sembrano appartenerne alla stessa fabbrica.
Nelle pitture più recenti chiusine 35) che seguono nello sviluppo artistico alle pitture
ora trattate, regna dappertutto lo stile greco e tutte le teste hanno una certa rassomiglianza
tra di loro, come generalmente tipi ideali impiegati nella rappresentanza di figure della vita
quotidiana. Per vedere, se queste siano più recenti delle altre finora esaminate, basta di
riguardare il loro carattere generale e la formazione dell’occhio, momento molto
importante nello sviluppo dell’arte antica.
Mentre cioè in tutte le anzidette pitture
trovavamo gli occhi disegnati di faccia, l’artista chiusino era già nello stadio di raffigurarli
in profilo.
Potremo dunque cominciare il terzo periodo coll’evidente vittoria dell’influenza
dell’arte greca. Siccome però secondo ogni probabilità questo avvenimento era
strettamente connesso con un altro momento che non soltanto spetta all’arte, ma a tutta la
storia italica, così dobbiamo parlarne più generalmente.
L’ellenismo cioè che finora
aveva esercitato la sua missione civilizzatrice nell’Asia, nell’Egitto e nei dintorni europei
del Ponto, si rivolse con tutte le forze verso le regioni occidentali, per assoggettare anche
queste al suo impero. Ciò che l’ingegno greco aveva prodotto nel corso dei secoli nella
poesia, nell’arte, nella scienza e nella religione, entrava in Italia e s’impadroniva degli
animi come dappertutto, così anche qui con forza quasi divina. Allora, siccome nell’Etruria
quasi tutta la cultura veniva modificata, così nemmeno resistevano gli elementi nazionali
dell’arte, indeboliti già per gli assalti dell’influenza greca nel periodo antecedente, di modo
che l’epoca che ora comincia, potrebbe chiamarsi l’ellenistica. Anche ne’ soggetti della
rappresentanza, ne’ quali l’arte etrusca finora aveva conservato con una certa costanza un
carattere nazionale, questo svaniva di più in più. In tutte le pitture sepolcrali anteriori
all’epoca ellenistica troviamo un solo certo esempio di figure della mitologia greca, cioè i
33)
l.s. p. 29 seg.
Cf. O. Jahn die ficoronische Cista p. 42 sg.
35)
Mon. dell’Inst. V, 32-34. Inghirami mus. chiusin. I, 181 sg. ef. Micali mon. ined. 58, 4.
34)
115
due Satiri dipinti nella grotta che guarda Tarquinii in un posto accessorio, figure, sopra il
significato delle quali ragionerò fra poco in occasione della pubblicazione d’un sarcofago
chiusino. All’incontro nel periodo ellenistico vi entravano nei posti principali figure
dell’averno greco e scene di miti eroici greci, come si rileva dalle pitture vulcenti, le quali
occupano il posto più distinto in questo periodo 36) . Gli altri monumenti dello stesso
periodo conservati in più gran quantità, gli specchi e le urne, sono piene di scene
mitologiche greche. L’arte greca vi vien imitata nel suo sommo e più libero sviluppo. Libri
di modelli erano nelle mani degli artisti etruschi e loro fornivano quasi delle antologie di
composizioni greche da copiare, né mancano rappresentanze etrusche che possono dirsi
copiate direttamente da originali greci 37) . E’ vero, che anche questo periodo i prodotti
dell’arte etrusca si distinguono chiaramente dai greci. Ma - prescindendo da certe figure
della demonologia etrusca e dai ritratti - questa differenza non si scorge tanto nel carattere
dell’invenzione, quanto nell’esecuzione ed in certi contrassegni esterni, come nei costumi e
negli attributi. E quanto più un lavoro di questo periodo può pretendere di essere
riguardato come una vera opera d’arte, tanto meno fa travedere nell’esecuzione il carattere
etrusco e tanto più s’accosta al carattere greco.
L’ellenismo impiantato nell’Italia aveva fra le altre conseguenze anche quella di
ravvicinar fra loro le colture dei differenti popoli italici e di moderarne le differenze, ed è
perciò, che anche nell’arte p.e. i lavori graffiti di bronzo, fabbricati nell’Etruria e nel Lazio,
sembrano essere prodotti d’una popolazione sola.
Ricevuto nella capitale dell’Italia, a Roma, l’arte greca cominciò a modificarsi
sensibilmente nel carattere romano e si capisce facilmente, che l’influenza di Roma si fece
risentire anche nelle province. Possiamo dunque stabilire un quarto periodo, nel quale
l’arte etrusca si accostava successivamente alla greco-romana, come segnatamente nelle
più recenti pitture cornetane 38) , fintanto che vi sparì interamente.
Con questi pochi cenni ho voluto adombrare l’andamento generale dello sviluppo
dell’arte etrusca, premettendo però a bella posta un momento che resta fuori di questo
sviluppo. Si conservava cioè un’arte nazionale etrusca anche nel periodo ellenistico e forse
lo sopravviveva. Ma i prodotti di essa non appartengono tanto all’arte vera e propria,
quanto all’industria ed al mestiere artistico.
Rivolgiamoci finalmente ancora una volta al sepolcro cornetano dal citaredo, per
aggiungere un’osservazione sopra gli ornamenti del soffitto, dei quali un segmento è inciso
36)
Mon. dell’Inst. II, 53. 54. VI, 31.32.
V. Ann. dell’Inst. 1859 p. 362 sg.
38)
Mon. dell’Inst. II, 5. Micali storia LXV Canina Etruria marittima II, 84.
37)
116
sulla nostra tavola d’agg. M. L’ornamento tondo a forma di rota ch’è dipinto nella striscia
centrale esisteva già nella più remota antichità greca sia inventato dai Greci stessi, sia
improntato dall’oriente, e viene impiegato fino ai nostri giorni. Si scorge cioè già in un vaso
molto antico trovato a Tera 39) e vi viene riunito con altri ornamenti, alcuni dei quali a guisa
di scacchi. Una somigliante riunione d’ornamenti si trova sul soffitto d’un sepolcro
periodo 40) ed in un pavimento pompeiano 41) . L’ornamento a forma di rota modificato in
differenti maniere ricorre spesso sui pavimenti pompeiani 42) .
Wolfgang Helbig
Questo articolo è tratto da “Annali dell’Istituto di corrispondenza Archeologica, vol.
35 - Anno 1863.
PITTURE ETRUSCHE
39)
Conze Melische Thongefässe p. VII (Vignette unter dem Texte).
Nella grotta dal corso delle bighe.
41)
Zahn die schönsten Ornamente II 79.
40)
117
Quando il sig. Helbig negli Annali 1863 p. 336 aveva da illustrare le pitture di una
tomba cornetana, profittava di quell’occasione per proporre una classificazione generale di
tutte le pitture etrusche: lavoro che certamente dovea eccitar l’attenzione de’ dotti,
imperocché, per stabilir l’andamento generale dell’arte etrusca, nessuna classe di
monumenti si presta più delle pitture, delle quali si è conservata una serie numerosa e
quasi non interrotta de’ diversi stili a cominciar dei primi tempi fino all’epoca della
decadenza. Era dunque naturale, che io occupato per vari anni con studi sull’arte etrusca
dovea assicurarmi, se le idee esposte dal Helbig si accordavano in tutti i punti coi risultati
delle proprie mie indagini; e così mi sarà permesso di imitar il suo esempio e di passar in
breve rivista la storia della pittura etrusca nell’occorrenza della pubblicazione di alcuni
dipinti cornetani, che, per loro stessi non di grande importanza, sempre hanno il merito di
farci conoscere fatti nuovi specialmente sull’ultima epoca dell’arte etrusca.
E per cominciare da un’osservazione generale, credo che non dobbiamo insistere
troppo esclusivamente a voler stabilir l’ordine cronologico, ma che inoltre abbiamo da
tener conto di altr distinzioni, cioè del genere di pittura, della tecnica, delle differenze
locali ossia delle scuole e non meno delle diverse individualità degli artisti. Così già
nell’antecedente lettera ad Aug. Castellani ho rilevato, che le antichissime pitture vejenti
appartengono al genere decorativo; la quale distinzione ci bastò per spiegar l’apparenza di
alto arcaismo, mentre nelle figure umane già riconoscevamo i progressi dell’arte
monumentale etrusca. Onde non posso consentir col Helbig (p. 340-41), né che lo stile di
queste pitture sia proprio l’arcaico greco, né che esse siano separate dalle antichissime
ceretane per un lungo tratto di tempo.
Nell’epoca del puro arcaismo etrusco resta incontestato il primo posto a questi stessi
monumenti ceretani. Alquanto più difficile riesce di assegnar il giusto loro posto alle
pitture di tre tombe cornetane, tra le quali credo le più antiche quelle della tomba detta del
morto e della tomba delle iscrizioni: Mus. Greg. I, P. 99 e 103; cf. Helbig p. 342; n. 1.
Esse, se non sono eseguite dalla stessa mano, debbono dirsi almeno strettamente
congiunte, se guardiamo la corrispondenza ne’ concetti del tibicine e del ballante nel primo
e secondo lato della prima, e de’ due ballanti nel primo lato della seconda tomba. Giusta
l’avviso del Helbig in esse predomina il carattere etrusco, di modo che dello stile greco si
scorga pochissima traccia, mentre nelle ceretane tra le modificazioni etrusche si travedono
ancora le leggi di questo stile. Non nego, che al tempo delle prime pitture ceretane l’arte
etrusca già abbia subita un’influenza greca. Ma quanta forza già allora a Cere avesse preso
42)
Zahn l.s. I 15. II. 56. 96. III 16.
118
l’elemento etrusco, diventa chiaro anche pel confronto dell’antichissima scultura ceretana
in terra cotta (Mon. VI, 59), che sotto vari aspetti offre tanta analogia colle pitture eseguite
nello stesso materiale.
Anch’essa ci conferma nell’avviso, che a Cere in tempi antichi
dominava tutt’una scuola, nella quale più che altrove si era sviluppato un carattere
specificamente e puramente etrusco. Gli artisti tarquiniesi non mostrano mai una simile
indipendenza. E’ vero che nelle teste delle due citate tombe (cf. Mon. d. Inst. II, 2) domina
ancor il tipo etrusco; ma appena tra esse se ne troverà una, nella quale il verismo etrusco
sia tanto pronunciato come nelle teste delle summentovate antichissime pitture di
provenienza ceretana. Nelle proporzioni si è introdotto un sistema tutto differente, più
elegante e più corretto, e non meno nel disegno tutte le forme sono più assottigliate e
raffinate; e così anche nelle teste (cf. Mon. II, 2) il tipo etrusco, sebbene ancor strettamente
mantenuto, si mostra già molto ingentilito.
Non vi è dubbio che queste pitture cornetane siano posteriori alle ceretane.
Ma
dall’altra parte credo che senz’esitazione la terza tomba, quella detta del Barone (M. Gr. I,
100; Helbig 1.1.) debba dirsi alquanto posteriore alle due prime.
Ogni linea vi è più
risentita; e sebbene voglia concedere, che la posizione tranquilla delle figure abbia
permesso all’artista di evitar la durezza ne’ movimenti, debbo nondimeno sostenere, che
tutto vi si mostra più nobile ed armonioso. Vi abbiamo non un arcaismo che si sforza di
trovar forme o maniere nuove, ma che dentro certi limiti è bello e fatto: e si direbbe, che il
disegno siasi sviluppato sotto l’influenza di sculture, quali sono p.e. i rilievi del candelabro
perugino presso Micali mon. ant. 29,7-9.
Tra le quattro grotte cornetane di un’epoca posteriore (Helbig p. 347), che potremo
chiamar quella dell’arcaismo già avanzato, mi pare che a quella del Barone si accosti il più
quella delle Bighe (Mus. Gr. I, 101). Anch’essa si distingue per una certa riservatezza e
moderazione, che fino nelle figure ballanti evita le mosse troppo agitate; ed una mano fina
e delicata rende tutto l’insieme anche più armonioso, di modo che queste pitture tra tutte
le quattro di questo gruppo ci fanno l’impressione della maggior finezza e nobiltà.
Ma un’altra questione si è, se per queste qualità debbano dirsi anche le più recenti,
come vorrebbe sostenere lo Helbig (p. 352). La tomba del citaredo (Mon. VI, 79), che egli
crede la più antica, certamente è la meno fina nell’esecuzione, e concedo ben volentieri
come avrò da notare anche più tardi, che le sue pitture sono “composte in maniera strana
d’elementi greci ed etruschi” (p. 355). Ma p.e. il difetto nel disegno del tibicine non è
difetto dello stile ed indizio di antichità, ma un mero sbaglio dell’artista. All’incontro si fa
risentir un nobile slancio nell’invenzione delle ballerine, che a mio avviso superano le
analoghe figure nella grotta delle Bighe.
Anche nelle teste di esse e di alcune de’
119
giovani comincia a predominar decisamente l’idealismo greco. Per la prima volta poi
v’incontriamo il color rosso nelle labbra e nelle guance delle donne; e finalmente
nell’acconciatura de’ capelli lunghi ricciati o sciolti si fa risentir un principio tutto nuovo,
mentre le coperture delle teste a guisa di tututlo nella grotta delle Bighe sono piuttosto un
avanza di arcaismo. Così, benché meno finita nell’esecuzione, la grotta del citaredo mi
sembra portar vari contrassegni di uno sviluppo più avanzato. Che però la differenza de’
tempi non possa esser grande, rileviamo dal sistema, con cui i panneggiamenti sono
trattati in ambedue le tombe. Se cioè confrontiamo i disegni di vari arcaici, p.e. del caso
François, troveremo che in essi gli abiti lunghi o diciamo sottane circondano il corpo senza
veruna indicazione di pieghe, mentre i manti e le clamidi che vengono portati sopra di essi
e più sciolti, si dividono in varie partite. Se dunque ne dobbiamo conchiudere, che in certe
scuole e fino a corte epoche per il disegno delle sottovesti si sia conservato un sistema
diverso da quello adottato per le sopravvesti, è chiaro che le due tombe spettano ad
un’epoca nella quale quel doppio sistema non era ancor abbandonato.
Questo sistema mi fornisce eziando uno degli argomenti principali per credere
queste due tombe più antiche delle altre due di questo gruppo, cioè della grotta Marzi
(Mon. II, 32) e Querciola (ib. 33); imperocché mi pare impossibile, che dai metodi nuovi
introdotti in queste ultime si possa ritornare al sistema delle prime. In ambedue si
manifesta lo studio di rompere i vincoli dell’arcaismo, ma per vie diversissime; ed
un’analisi esatta certamente sotto più di un aspetto fornirebbe de’ risultati interessanti.
Qui mi basti di accennar brevemente, come, per spiegar la diversità dei progressi, abbiamo
da tener conto non solamente dell’andamento generale dell’arte etrusca, ma pure della
diversa individuabilità de’ due artisti e della diversità de’ modelli greci che in conformità
colla loro natura si sceglievano ad imitare.
L’artista della grotta Marzi conservava ancora la base dello stile delle due tombe
antecedenti, come si rileva specialmente dal disegno di alcune delle sottovesti.
Ma inoltre
avrà avuto innanzi agli occhi delle pitture di un carattere analogo p.e. a quelle del vaso da
Peleo e Titide (Mon. I, 37).
Dirimpetto a tali modelli è vero, che le sue figure conservano il carattere
specificatamente etrusco di una certa durezza e quasi direi rusticità ne’ movimenti.
Ma
nondimeno dalle pitture anteriori esse si distinguono, come per un colorito più vivo ed
allegro, così per la varietà ed ubertà de’ concetti, che fa fede di un’indole artistica vivace e
spiritosa. Grazioso è lo studio della varietà nelle diverse piante, che inoltre sono ravvivate
da uccelli ed altri animali. Ma anche ne’ panneggiamenti l’artista diede un bel saggio di
questo studio medesimo, distinguendo dalle altre donne ballanti quella che suona le
120
nacchere dall’abito corto di leggerissimo velo, come lo usano anche ai dì nostri le ballerine
di professione. Nelle teste finalmente e nell’acconciatura de’ capelli la tendenza
all’idealismo, che cominciò a manifestarsi nella grotta del citaredo, qui ha preso maggior
forza e domina già esclusivamente.
Ad una tale individuabilità era certamente inferiore quella dell’artista che eseguì la
grotta Querciola. Ma nondimeno lo credo posteriore al primo. Il sistema del disegno nella
grotta Marzi, non ostante la sua ricchezza, è ancor tutto conforme al genere della pittura
senza chiaroscuro. Nella grotta Querciola i limiti di questo stile non sono più custoditi:
guardate attentamente queste figure debbono dirsi inventate per esser eseguite all’effetto
del chiaroscuro; e se così nel modo di colorirle appartengono ancora alla scuola antica,
dobbiamo sostenere che nell’invenzione e nel disegno non hanno più quasi niente che fare
col col periodo arcaico. Ciò che in apparenza forse vi resta ancora d’arcaica durezza, si
spiega piuttosto per l’indole generale dell’arte etrusca e per l’inabilità o poca versatilità
nell’ingegno dell’artista che sembra essersi trovato alle strette tra due principi opposti.
Colle pitture tarquiniesi non ho voluto confondere le chiusine e ciò a cagione della
differenza nel carattere artistico de’ due paesi. Pitture di un arcaismo analogo a quello del
primo gruppo cornetano a Chiusi non si sono trovate. Al periodo dell’arcaismo avanzato e
sviluppato sotto la decisa influenza greca spetta la grotta Ciaja (Mon. d. inst. III, 17). Ma
quest’influenza vi ha prodotto de’ risultati ben differenti. Per cominciar da cose accessorie,
gli alberi non possono più dirsi disegnati in una maniera convenzionale, ma in un certo e
distinto stile, che con pochi sensati tratti sa dar il suo carattere al tronco, ai rami, alle
foglie. Ma nello stesso modo anche nel disegno dei corpi e dei panneggiamenti tutto vi è
ridotto alle forme più essenziali. La stessa semplicità regna ne’ colori, in modo che l’artista
nella carnagione della donna si è ancor attenuto al sistema antico, non distinguendola dal
color chiaro del fondo. Ne’ concetti e ne’ movimenti è vero che non è ancor sparita ogni
traccia di rigidezza etrusca; ma in confronto alle pitture cornetane essi compariscono più
armoniosi, sciolti e nobili. In somma l’artista non si contentò di un’imitazione, più o meno
superficiale delle maniere del disegno ec. ma si studiò più di tutti gli altri artisti finora
considerati di penetrar nello spirito dell’arte greca. Questa differenza fondamentale dello
stile rende difficile un confronto cronologico; in genere però non può esser dubbio, che
queste pitture siano da assegnarsi piuttosto alla fine che al principio del periodo che
abbiamo chiamato dell’arcaismo avanzato.
Alquanto posteriori debbono esser le pitture scoperte nel 1833 (Mon. d. Inst. III 3334), che da tutte le altre si distinguono per la formazione dell’occhio in profilo. Alle
antecedenti esse si accostano nella semplicità del disegno; ed un’altra analogia si manifesta
121
anche in alcune parti de’ panneggiamenti, p.e. negli abiti dei tibicini (t.33) confrontati con
quei del citaredo (t.17). Bisogna però confessare che il disegno comincia ad esser meno
accurato e nobile; e se quindi confrontiamo l’abito di velo della ballerina (t.33) con quello
dell’analoga figura nella grotta Marzi, diventa anche più chiaro, che si è perduta affatto
quella severità, che è la qualità la più caratteristica di ogni arte arcaica, e ciò senza che
venga rimpiazzata dalle qualità più elevate dell’arte libera. Riceviamo dappertutto
l’impressione di una certa mollezza che manca di precisione e di energia e che anche nel
tipo delle fisionomie si mostra fluttuante tra il puro idealismo ed un deciso verismo. Se
dunque dovessimo indicar con una parola la qualità generale di queste pitture, appena
saprei definirla se non col termine di decadenza dell’arcaismo.
Tralascio come lo Helbig (p. 352, n. 2) di parlar della grotta Casuccini, che occupa
forse un posto intermedio fra le due finora esaminate, ma è troppo mal pubblicata per
giudicare con sicurezza. Alcune altre figure recentemente scoperte (Bull. 1866, p. 193
segg.) non sono nemmeno descritte esattamente. Così le più importanti tra tutte le pitture
chiusine restano ancora quelle scoperte dal François (Mon. V.t. 14-16), che, senza badar
all’ordine cronologico, ho voluto separar dalle altre per una distinta ragione.
Ripensando all’andamento generale della pittura etrusca dobbiamo esser colpiti
dall’osservazione che quasi ogni progresso che avevamo da registrare, dipendeva
strettamente dall’influenza greca. Mentre nel primo periodo parlavamo d’un arcaismo
puramente etrusco, quest’elemento indigeno alla fine era bensì non interamente sparito,
ma notabilmente scemato ed aveva dovuto cedere più e più il posto alle leggi stilistiche
greche. Dirimpetto a questo fenomeno sarà lecito di domandare, se quest’influenza avea
dappertutto la medesima forza o se non accanto all’arte grecizzante ed in opposizione con
essa si manteneva in certe scuole o paesi un estruscismo più pronunciato.
Nulla sappiamo intorno una continuazione dell’antica scuola ceretana nella quale
più che altrove dominava un carattere puramente etrusco. A Tarquinia questa prevalse; ma
nondimeno al principio del periodo dell’arcaismo avanzato v’incontriamo non dubbie
tracce di una reazione almeno parziale. Per essa si spiega il carattere più etrusco in poche
teste della grotta delle Bighe (Helbig p. 355) come pure la strana mescolanza di elementi
greci ed etruschi rivelata già da Helbig nella grotta del citaredo.
Anche a Chiusi abbiamo trovato l’influenza greca: ma in quel paese più remoto dal
mare e dal contatto immediato col commercio de’ Greci sembra che essa non sia stata così
continua e costante da potervi dominare esclusivamente. E’ sotto quest’aspetto che le
pitture scoperte dal François guadagnano un interesse tutto particolare, imperocché esse ci
fanno conoscere una scuola artistica quasi indipendente, e che dirimpetto alle altre a giusto
122
titolo può pretendere il nome di scuola nazionale. Essa sta in opposizione diretta
coll’idealismo de’ Greci e si fonda piuttosto sul medesimo principio del verismo, che
abbiamo rilevato nelle antichissime pitture ceretane. L’artista non vuol sottoporre le forme
a certe norme e leggi stilistiche, ma rappresentarle tali quali si parano all’occhio nella
realtà della vita comune. Così ne’ panneggiamenti non troviamo uno o due sistemi di
pieghe, ma maniere svariate, che vogliono render ragione delle diverse qualità de’ vestiti,
sotto il quale aspetto voglio notar anche qui un abito di ballerina (IV). Così pure nelle
figure non regna un canone di proporzioni normali, ma cambiano secondo la condizione
delle figure stesse, che trova eziandio un’espressione decisa nel diverso carattere delle
teste. Non ho bisogno di entrar in altri particolari: l’analisi data dal Braun (Ann. 1850, p.
254 segg.) ne offre ricchissima messe. Rileggendo però con attenzione le sensate sue
osservazioni dovremo convincerci, che queste pitture nel loro genere tanto raffinate non
possono appartener ad un’epoca molto antica.
Debbo perciò oppormi decisamente all’opinione di Helbig (p. 342), che vorrebbe
crederle quasi più antiche del primo gruppo cornetano. Tutt’al più offrono qualche
analogia cogli elementi nazionali nella grotta del citaredo.
Ma considerandole con occhio spregiudicato, diremo piuttosto, che appena spettano
al periodo dell’arcaismo avanzato. Giacché bisogna ben distinguere tra i veri contrassegni
dell’arcaismo che qui mancano, ed una certa rozzezza e rusticità, che non è tanto l’indizio
di antichità, quanto dell’indole particolare di una scuola artistica, che con tutta la
coscenziosa cura nella riproduzione delle particolarità caratteristiche non vale a
raggiungere la nobiltà dello stile bello ed ideale.
Che poi queste pitture veramente non possono spettare ad un’epoca molto antica,
possiamo provarlo inoltre mediante un accessorio della tomba stessa, cioè le figure di
quattro Arpie scolpite in rilievo al soffitto della seconda camera. Esse certamente non sono
un’invenzione dell’artista che costrusse la tomba, ma derivano da tipi asiatico-greci, che in
Italia si mantennero in uso quasi senza variazione fino in epoche avanzate dell’arte (Mon.
VI, t. 64, 3; cf. III, 42). Se dunque questo tipo nella tomba chiusina si trova sviluppato in
modo che ha preso il valore di un segno geroglifico, certamente dalla sua invenzione, che
accusa un diligente arcaismo, fino alla sua riproduzione a Chiusi dev’esser passato un buon
tratto di tempo.
Se la distinzione qui proposta di una scuola nazionale avesse ancor bisogno di una
conferma, non potrei giustificarla meglio che con l’esame dell’ulteriore sviluppo della
pittura etrusca dopo passati i limiti dell’arcaismo. Anche in quest’epoca l’influenza greca
continua a penetrar nell’Etruria; lo spirito indigeno continua pure a reagir contro di essa; e
123
così anche qui dovremo far la medesima distinzione tra l’arte nazionale e l’arte grecoetrusca.
I campioni più distinti di quest’ultima sono le pitture di due tombe di Vulci, l’una
perita scoperta dal Campanari (Mon. II, t. 53-54), l’altra più ricca e conservata scoperta dal
François (Mon. VI, 31-32; des Vergers: l’Etrurie e les Etrusques t. 21-30). Senza entrar qui
in una analisi particolare, basterà dire, che la base dello stile, tutta la maniera del disegno e
della pittura, i concetti delle figure e gran parte dei soggetti sono greci. Se nondimeno
vedute anche superficialmente non rinnegano la mano etrusca, ne dobbiamo cercar la
cagione non solamente in alcuni contrassegni esterni, ma in tutto ciò che nell’esecuzione
dipende dal sentimento ed è italico in modo che al momento della scoperta della tomba
François qualcheduno non senza ragione credeva risentirvi qualche cosa dell’indole delle
pitture tosche nel cinquecento. Vi abbiamo in somma un’arte greca accomodata al sentir
degli Etruschi.
Ma non dappertutto l’influenza greca avea la medesima forza; e come nel periodo
antecedente a Chiusi una scuola nazionale si disputava il dominio con un’altra grecoetrusca, così anche adesso nel limitrofo territorio di Volsini troviamo de’ fenomeni del
tutto analoghi. Parlo delle insigni pitture di due tombe scoperte nel 1863 dal Golini presso
Orvieto e pubblicate non ha guari dal conte Giancarlo Contestabile (Firenze 1865). Se,
come vedremo, riguardo all’età di queste pitture mi trovo in opposizione coll’illustre mio
amico, debbo all’incontro lodar moltissimo la sua osservazione, che, cioè, nelle due metà
della seconda tomba “saresti facilmente indotto a scorgere una diversità di valore artistico
nella mano, a cui si affidò l’esecuzione delle differenti scene e delle singole immagini che le
compongono” (p.111); osservazione, che trova una conferma anche in una particolarità
dell’esecuzione riservata alla sola parte destra della tomba, cioè in “quella specie di frangia
che corre intorno alle vesti bianche in ognuno dei punti della composizione in cui la
candidezza della veste stessa sarebbe andata altrimenti a confondersi con il colore del
fondo della parete; e in conseguenza le figure non sariansi presentate in quello spicco che
desideravasi”. (p. 110).
Or questa distinzione di due mani o diciamo anche più
decisamente, di due individualità ben differenti si mostrerà di somma importanza, se
vogliamo giudicar sul merito di queste pitture e sul posto che a loro abbiamo da assegnar
nella serie delle altre. L’artista della prima parte, che contiene i preparativi al convito (t. 47), appartiene, per così dire, alla famiglia di quello che eseguì la grotta François a Chiusi; e
tutto ciò che ho detto sul carattere particolare e nazionale di questo, vale anche del pittore
orvietano, colla sola differenza, che l’arte sua segna un’epoca più avanzata: vi abbiamo
124
masse forzate, proporzioni sbagliate, fisionomie volgari, una certa rozzezza della vita
comune tutta opposta all’idealismo, ma tutto è pieno di vita, verità e carattere individuale.
Nell’altra parte all’incontro, ove è figurato il viaggio, il convito funebre e la coppia
delle deità infernali (t. 8-11), il disegno è più corretto, i concetti più moderati, l’espressione
più nobile e sublime. Come dunque la razza servile o plebea dell’una parte, i cuochi, la
gente di cucina e cantina si distingue dai signori e padroni dell’altra, che fino pel servizio di
tavola si circondano di gente più pulita ed educata, così rileviamo un simile contrapposto
nelle qualità artistiche delle due parti: l’una è opera di scuola plebea, l’altra si deve ad una
mano più aristocratica. Ma come l’aristocrazia etrusca nonostante la vernice della coltura
greca non divenne veramente greca, così anche l’artista aristocratico restò in fondo
etrusco: e se lo confrontiamo coll’artista greco-etrusco di Vulci, non parleremo più di
un’arte greca accomodata al sentir degli Etruschi, ma diremo che nell’opera lo spirito
indigeno sia temperato e purificato dal genio dell’arte greca.
I pochi frammenti della prima tomba (t. 2-3) sono eseguiti con minor diligenza, ma
in genere appartengono alla medesima categoria, come la seconda parte delle pitture
antecedenti. La vicinanza poi delle due tombe distanti tra loro pochi passi rende di più
verosimile che siano anche quasi contemporanee.
Ma quale è l’epoca, alla quale dobbiamo assegnarle? Nel primo mio rapporto (Bull.
1863, p. 49) pensai ad un’epoca di transizione dallo stile arcaico al più libero, indotto
specialmente dall’esecuzione, nella quale gli artisti non hanno fatto uso del chiaroscuro.
Debbo però confessare, che dopo più maturo esame questo criterio si mostra fallace.
Giacché non dobbiamo dimenticare, che queste pitture si trovano in tombe sotterranee,
che danno poco accesso alla luce del giorno ed anche ad arte non saranno state illuminate
se non scarsamente. Sotto tali circostanze un soverchio impiego dei chiaroscuri non
sarebbe stato favorevole all’impressione dell’insieme della pittura; perché nell’oscurità
delle tombe le ombre della pittura, invece di accrescere l’effetto, avrebbero portato
piuttosto la conseguenza di confondere tra loro le diverse tinte. E’ perciò che p.e. l’artista
vulcente, seppure non voleva rinunciare ai nuovi metodi della pittura, sentiva almeno il
bisogno di servirsi del chiaroscuro con molta riservatezza e disporre inoltre le sue figure in
modo che non tanto facilmente le masse potessero confondersi. Ma non potremo
nemmeno biasimar gli artisti orvietani, se in vista delle accennate difficoltà preferivano di
adottare un sistema analogo alla semplicità de’ tempi antecedenti. Dico analogo, giacché
considerandolo attentamente lo troveremo già essenzialmente modificato. Nelle scuole più
antiche tutte le linee furono segnate proprio colla punta del pennello; gli artisti orvietani
per uno svariato maneggiamento del pennello le rinforzavano o le assottigliavano,
125
specialmente ne’ panneggiamenti per accennar la maggiore o minore profondezza delle
pieghe. I contorni interni de’ corpi in gran parte non sono disegnati a linee continue, ma a
graffiature o punteggiati: metodo che serve non tanto a circoscrivere semplicemente le
forme, quanto ad accennarne in qualche modo le modulazioni. Rilevai poi già nel primo
mio rapporto, come segnatamente in alcune teste di donne s’incontra un certo
raffinamento in alcune leggiere tinte, che debbono indicar la tenerezza del colorito. Non
mancano nemmeno alcuni indizi di chiaroscuro, come nello sgabello di Plutone, nella trave
alla quale è attaccato il bove, e specialmente nel corpo del bove stesso che senza questi
pochi cenni di ombre avrebbe formato una massa un poco deforme. Se queste e simili
pratiche si trovano di preferenza nella prima parte del sepolcro grande, la seconda
all’incontro si distingue per un sistema del disegno ne’ panneggiamenti che presuppone di
necessità lo sviluppo della pittura a chiaroscuro; imperocché non vi sono più disegnate
tutte le pieghe, nelle quali s’increspa la stoffa, ma soltanto quelle che risaltano per l’effetto
della luce e delle ombre. Molto si potrebbe ancor aggiungere sul perfezionamento nel
disegno degli occhi, sulle teste di faccia, sugli scorci de’ piedi ed altre parti; ma insomma
basterà di guardar attentamente il maestoso gruppo di Plutone e Prosperina e l’elegante
figura del coppiere, per convincerci, che non vi troviamo più affatto in un’epoca di
transizione, ma in mezzo al pericolo del libero sviluppo. E qui non sarà superfluo di notare,
che tanto nelle due tombe dipinte quanto in tutta la necropoli circostante esplorata dal
Golini non si è trovato nemmeno un solo oggetto d’arcaico carattere, mentre gran parte de’
vasi dipinti appartengono piuttosto all’ultimo sviluppo della pittura vascolare in Etruria.
E’ a dolersi che le pitture di una tomba ceretana non sono conosciute se non per una
pubblicazione poco esatta del Canina (Etrur. maritti. I, t. 63). Nello stile sembrano
accostarsi molto alla seconda parte delle orvietane, seppure erano di un’esecuzione ben
inferiore. Sin dal tempo della loro scoperta dal Dennis (Bull. 1847, p. 61) furono giudicate
“comparativamente di data recente, come è fatto manifesto dallo stile dell’arte e
dall’assenza d’una iscrizione latina (IVNON); e così vengono a confermar ciò che ho
proposto sull’idea delle orvietane.
Ritorniamo ora a Tarquinii, che anche in quest’epoca è ricca di tombe dipinte; ma al
numero non corrisponde più la qualità. Pare che coll’epoca del libero sviluppo a Tarquinii
ogni tradizione delle scuole antiche fosse sparita, per dar campo ad una varietà
tutt’arbitraria di stili. Nella grotta detta del Tifone (Mon. II, 3-5) troviamo sul pilastro di
mezzo delle figure di demoni che nell’idea e nell’invenzione sono perfettamente greci; ma
dirimpetto ad esse sopra una delle pareti è dipinta una scena tutta etrusca, cioè una
processione funebre distinta per l’intervento di demoni etruschi. Il metodo di aggruppar le
126
figure è tutto nuovo e sarà dovuto all’influenza dell’arte greca, come anche nelle maniere
del disegno e della pittura a chiaroscuro si ravvisa tutto il contropposto ai tempi antichi che
in essa si era operato. Ma nondimeno anch’adesso quest’influenza restò superficiale e si
ristrinse piuttosto al far esterno che alle leggi più elevate dello stile. Nel carattere delle
figure e delle teste, salvo il progresso de’ tempi, domina anch’ora il verismo etrusco, ed una
certa ingenua libertà nell’aggruppamento potrà ben darci un’idea dell’appartenenza di
simili pompe, ma senza la guida di una legge artistica sarà piuttosto arbitrio e confusione,
dalla quale non nascerà mai una composizione ben ordinata e disposta.
Delle pitture della grande grotta a quattro piloni Micali ha pubblicato due saggi ne’
Mon. ant. t. 65-66. Il primo contiene scene di combattimenti di deciso carattere greco, il
secondo scene mortuarie etrusche. In esse le figure de’ demoni distinguonsi per una certa
vita ed eleganza de’ concetti che saranno certamente copiati da migliori originali e forse
sono d’invenzione greca. Le altre figure all’incontro sembrano proprietà dell’artista stesso:
ma se dall’una parte sono più libere dai difetti che dovevamo rilevare nella prima parte
delle pitture orvietane, dall’altra parte sono anche prive delle loro virtù. L’elemento
nazionale vi è indebolito, e non vi è più né carattere né stile distinto, ma tutt’al più una
qualche verità materiale de’ concetti che sprovvista di ogni slancio e brio ci lascia affatto
indifferenti.
Non voglio però lasciar inavvertito, che quell’impressione fiacca in parte sarà da
attribuirsi alle incisioni del Micali. Se, come ho provato per l’esperienza, le sue
pubblicazioni riguardo alla parte stilistica in genere lasciano moltissimo a desiderare, qui
dovremo star anche più cauti del solito, ove egli stesso confessa che “tutto è vero, salvo un
po’ troppo di studiato ne’ contorni delle figure” (III, p. 109).
Comunque siasi, il carattere dell’arte in questa e nell’antecedente tomba è tutto
misto, e dappertutto si fa risentire una decomposizione dell’elemento etrusco che lotta con
forze sempre diminuite contro l’elemento greco. Dirimpetto a lati fatti è importante poter
presentare qui le pitture inedite di due tombe tarquiniesi, le quali ci offrono la prova che
una tale decomposizione non era generale, ma che l’elemento indigeno ancor in un’epoca
avea forza sufficiente per resistere e mantenersi quasi intatto almeno in certe sfere
limitate.
Tra le carte dell’Istituto ho trovato un disegno (v. Tav. d’agg. W) che giusta la nota di
Carlo Ruspi fu eseguito da lui in una tomba “rinvenuta li 5 Maggio 1832 nei terreni dei
sigg. Querciola circa un miglio fuori di porta Clementina in Corneto sulla destra”. Essa
forma una semplice camera sepolcrale, e nell’angolo destro opposto all’ingresso una cassa
sepolcrale è tagliata dal vivo masso. Sopra di essa è dipinta dalla parte della testa una porta
127
arcuata e per tutta la lunghezza la scena incisa sulla tav. d’agg. La rappresentanza è
semplice: tra due Caronti due uomini, l’uno barbato, l’altro imberbe, forse padre e figlio, si
porgono le mani, e vi abbiamo dunque una scena dell’ultimo congedo, come non di rado
vede figurata sopra urna etrusche. Oltre il color della carne vi è impiegato soltanto il nero
pei contorni, capelli, stivali ed attributi e la terra rossa minerale per le tuniche de’ Caronti e
gli orli nelle vesti bianche delle altre figure. Come nelle pitture di Orvieto, anche qui non si
è fatto uso del chiaroscuro, ma nondimeno è chiaro che ci troviamo in un’epoca avanzata e
che il metodo compendiario della pittura è scelto con riguardo alla località in cui si trova.
Non avrò poi da dimostrar che l’esecuzione non può aspirare alla lode di diligente o fina;
ma dal lato storico anche la stessa ingenua rozzezza di questi lineamenti merita la nostra
attenzione, imperocché spicca in essa quello studio di verità, che, senza badar al bello
ideale, cerca esclusivamente di render ragione di tutto ciò che è caratteristico in una data
individualità. E’ dunque l’elemento specifico etrusco che, quasi oppresso dall’arte nobile,
trova ancor un rifugio nei lavori degli artisti più volgari.
Le altre pitture spettano ad una tomba scoperta nella primavera del 1864 sui
territori della signora contessa Bruschi, appena un mezzo miglio fuori di porta Clementina
a sinistra della strada. Sono rovinatissime, ma meritano di esser pubblicate in questi fogli
tanto più che, essendo sfranata la volta, la tomba non poteva conservarsi nemmeno nello
stato in cui fu trovata. Così la tavola XXXVI de’ Monumenti conserva l’unica memoria
dell’insieme, mentre spero che sarà portata ad effetto la buona intenzione della lodata
signora contessa di salvar almeno alcuni de’ pezzi meglio conservati facendoli staccar dalla
parete. Il terreno, nel quale fu scavata la tomba, era infelicissimo, e nemmeno due pilastri
posti irregolarmente bastarono per dar solidità alla volta che nella caduta rovinò anche una
delle pareti. Le pitture dunque si trovano sopra gli altri tre lati, il fregio superiore della
nostra tavola sul lato A, il medio su B, l’inferiore su C della pianta fig. 3: le due figure
isolate 1 e 2 sul pilastro D. Lo stato frammentario c’impedisce di entrar in un esame
particolare de’ soggetti; ma il loro significato generale non può esser dubbioso,
specialmente se confrontiamo i sarcofaghi tarquiniesi da me descritti nel Bull. 1860, p. 146
seg. Sono processioni che per l’intervento del demone alato nel fregio medio prendono un
carattere funebre, ma in tutto il resto conservano gli usi della vita comune. Maestosamente
in mezzo di B e C procede un uomo, probabilmente un magistrato, che anche per
proporzioni maggiori si riconosce esser di dignità più elevata. Egli vien preceduto la littori,
apparitori e musici distinti di fasci, litui e corni, ed accompagnato inoltre da altre comitive.
Il gruppo del cavaliere sembra formar una scena separata, forse riferibile all’ultimo
viaggio, come anche il gruppo delle due donne nel fregio superiore non sembra aver una
128
relazione diretta colla comitiva militare che segue. Il colorito è trattato colla maggior
semplicità: i manti quasi tutti sono bianchi e soltanto alcuni distinti per orlature rosse. La
nobile donna porta camicia gialla (*), chitone pavonazzo chiaro e manto scuro, , ed in testa
una corona gialla, il cavaliere un manto e tunica di color bianco con ombre gialle, il servo
che guida il cavallo rosso, una tunica dello stesso colore, Caronte una tunica pavonazza,
come pure l’uomo che segue, il cui manto è rossastro. Nella carnagione, oltre il colorito più
tenero delle donne, è da rilevar il solito nerastro de’ demoni infernali. L’uso del
chiaroscuro era conosciuto all’artista; ma per le ragioni che conosciamo l’adoperò in modo
molto ristretto nelle parti nude, contentandosi ne’ panneggiamenti quasi esclusivamente di
rinforzar più o meno le linee ed i contorni, per accennar le partite delle pieghe.
Nell’aggruppamento delle figure queste pitture si accostano alquanto a quella della grotta
del Tifone. Ma se in questa trasparisce almeno qualche libertà poetica, qui ci troviamo di
nuovo dirimpetto alla pretta verità della vita comune: tali certamente, come qui le
vediamo, erano queste processioni, tale l’ordinamento, tale anche il vestire e la portatura
delle persone. Disgraziatamente quasi tutte le teste sono perite, ma anche ne’ pochi avanzi
di esse traluce lo stesso verismo, tranne forse nella donna, che pel rispetto al bel sesso
mostra forme alquanto più ideali. Tutta l’esecuzione finalmente è alquanto meno rozza che
nella piccola tomba antecedente, ma in ogni modo è priva di finezza, diligenza e nobiltà, e
la mancanza di stile nel disegno si fa risentir tanto più fortemente, in quanto che in deciso
contropposto con essa nel fregio di onde, delfini e palmette domina la stretta legge
architettonica dell’arte greca. Più dunque che Tarquinii (e lo stesso si sarà verificato anche
in altre città) era divenuta città provinciale ed avea perduta le sue relazioni dirette
coll’estero, più anche nell’arte si sarà scemata l’influenza diretta della Grecia, e l’elemento
indigeno abbandonato a se stesso avrà perduto la forza di elevarsi sopra al livello di tutta la
vita intellettuale e politica che lo circondava, e così se vogliamo accennar con una parola il
carattere specifico di queste ultime pitture, dovremo dire che anch’esso è divenuto tutto
municipale.
Quale delle quattro tombe qui esaminate, sia la più antica, quale la più recente,
almeno per ora non oso di deciderlo. La varietà tutt’arbitraria de’ stili fornisce la miglior
prova. che non vi si tratta più di uno sviluppo regolare e costante, ma di una dissoluzione
delle tradizioni di scuola, che rende vano ogni tentativo di fissar l’ordine cronologico
mediante le qualità dello stile. Ci troviamo in somma alla fine, dell’arte propriamente
etrusca, la quale però nemmeno allora perì interamente.
Quegli elementi che ad essa
avevano improntato il suo carattere specifico, trovarono un nuovo centro a Roma, ed ivi in
129
contatto continuo coll’arte greca servirono quasi di fermento per contribuir a quello
sviluppo che sogliamo distinguere colla denominazione di arte greco-romana.
H. Brunn
da: Annali dell’Istituto di corrispondenza Archeologica vol. 38, 1866.
I DOCUMENTI AMIATINI
La MARGARITA CORNETANA (antico repertorio di atti notarili del nostro
Comune) tradotta e pubblicata da Paola Supino nell’anno 1969, inizia con una data precisa
- 4 marzo 1201 - per finire il 24 dicembre 1595. Tale opera, edita dalla Società Romana di
Storia Patria, presso la Biblioteca Vallicelliana, merita non solo un illimitato plauso ma
tutta la riconoscenza degli studiosi italiani e stranieri, e di quant’altri, non inclusi nel
novero, hanno avuto modo di leggere questi documenti che formano la storia minuta della
nostra città.
Ma esistono altri regesti notarili, prima di quel 4 marzo 1201?
130
Nelle “Croniche di Corneto” già Muzio Polidori parla di documenti conservati
nell’Abbazia Benedettina di Farfa in Sabina, redatti nell’anno 766, che si riportano
parzialmente. Nel primo si cita un certo Lucanulo, figlio di Gemmulo, abitante in Corneto,
il quale lascia ogni sua sostanza all’abate Alano e a tutta la Congregazione del Monastero di
S. Maria di Mignone, al tempo che regnavano in Italia il re dei Longobardi Desiderio e il
figlio Adelchi; mentre il fratello Lunissio lascia allo stesso Monastero case, terreni, pascoli,
vigne, prati, boschi e quanto era posto in essi.
Successivamente nell’anno 801, da un altro documento del Registro Farfense, si
torna a parlare, fra l’altro di S. Maria di Mignone al tempo dell’imperatore Carlo Magno e
giù giù, fino al 1083. Secondo lo stesso Polidori “patì questo Monastero di S. Maria di
Mignone incursioni e violenze di soldatesca, conforme da due documenti si può vedere”,
così come risulta dal Registro Farfense ai numeri 1077 e 1079 del maggio e giugno
dell’anno 1083.
Altre notizie però, sempre riguardanti i regesti cornetani, vennero date alle stampe
da Carlo Calisse, uno studioso di Civitavecchia, il quale pubblico sulla rivista ARCHIVIO
della Società Romana di Storia Patria, negli anni 1893 e 1894, i “DOCUMENTI
AMIATINI”, depositati in antico nell’Abbazia Benedettina di San Salvatore sul Monte
Amiata, e redatti fra gli anni 736 e 1196.
A tal proposito il Calisse, nelle OSSERVAZIONI conclusive dei suoi studi, fa
osservare:
“Il territorio a cui si riferiscono i documenti amiatini ora pubblicati, corrisponde,
nell’attuale provincia di Roma, a quasi intero il circondario di Viterbo e parte di quello di
Civitavecchia. Le indicazioni date sui vari luoghi dagli stessi documenti ne determinano,
con sufficiente esattezza, i confini. A mezzogiorno il mare, dalla Fiora al Mignone; a
levante il Mignone stesso, nel suo ultimo corso, ed i monti Cimini; a tramontana il
territorio dai Cimini a Bagnorea, con centro a Viterbo; a levante le alture di Bolsena
intorno al lago, il fosso detto dell’Olpeta e la Fiora. La Marta segue la linea mediana di
questo paese, e lungo esso i territori di Corneto e Toscanella sono i centri intorno ai quali il
maggior numero dei nostri documenti si raccoglie: Viterbo vien terzo.
Siamo dunque nella Tuscia longobarda, che venne ad unirsi all’altra già compresa
nel ducato romano, dopo che il potere temporale dei papi ebbe incominciato a formarsi.
Perciò vediamo che i più antichi dei nostri documenti non fanno menzione del pontificato,
ma sì dei re longobardi, Liutprando, Ildebrando, Desiderio, Adelchi ed anche Carlo, fino
all’anno 776. In seguito il nome del pontefice comparisce, ma, per tutto il resto del secolo
IX, è accompagnato dalla formula “regnante domino Deo et salvatore nostro Jhesu Christo,
131
anno pontificatus ecc.ecc.; “, la quale, sebbene del tutto conforme alle espressioni religiose
di cui sono sempre ricchi i documenti medievali, pure era molto adatta a togliere
d’impaccio, quando una nuova sovranità non fosse ancora bene stabilita nel luogo ove
l’atto si compiva, come era appunto del potere dei papi sui paesi fino a pochi anni indietro
appartenuti al regno longobardo. Dopo l’anno 800, il nome del pontefice si associa a quello
dell’imperatore; se ancora una volta accade di trovare menzione degli anni dei re d’Italia,
Carlo e Pipino, senza veder fatto conto del pontefice, ciò si spiega subito, osservando che il
documento, che è così datato, fu scritto da un notaio forestiero, venuto da Chiusi, facente
parte di formole non adattate al nuovo avvenimento politico della civile dominazione dei
papi... La sua costituzione ci si presenta tuttora simile a quella dei paesi longobardi e
franchi, coi conti e loro subalterni ufficiali. I comitati sono i territori delle città: vi si
ricorda il comitato di Castro, e molto più spesso l’altro di Toscanella, a proposito
specialmente di Corneto, che si dichiara sempre essere a quello appartenente... Corneto è
“in finibus Maritime” e poiché si sa che è insieme del comitato di Toscanella, non si deve
con quelle parole intendere altro che la generale indicazione di luoghi prossimi alla
marina...
A Corneto e ai dintorni di Mignone, quivi era la cella farfense di S. Maria che nel
regesto di Farfa è detto del territorio toscanese, e di cui più d’una volta anche nei
documenti amiatini ritorna il ricordo, per determinazione di confini e luoghi marittimi e
cornetani.
Corneto non apparisce che avesse allora suo territorio, seppure non debba credersi
che l’essere sempre attribuito al comitato di Toscanella non sia, pei tempi posteriori,
derivato dall’uso tradizionale di formole antiche. Certo, negli ultimi dei documenti qui
pubblicati, Corneto si vede giunto alla condizione di comune retto a proprio governo. Da
prima è una campagna, una valle, che si chiama “Cornietu”, il che conferma la tradizione
che dall’abbondanza dei cornioli derivasse quel sito il suo nome. Nel tempo stesso viveva
ancora l’altro nome ivi prossimo di Tarquinia: nell’anno 809 Desiderio, figlio di Bassacio,
prende a livello fra altri beni una terra posta “in Terquini, finibus maritimi”. Più tardi, coi
primi del secolo IX, Corneto si mostra luogo fortificato, e in questo suo mutamento dove
dalla valle salire il nome sul colle; castello e torre lo chiamano i documenti. Dintorno
sorgono le abitazioni, e formano il vico; e poiché vasto spazio di terreno, quantunque in
gran parte tenuto a vigne e ad orti, fu poi compreso entro il suo recinto, era comunemente
chiamata città, soggetta prima a signoria feudale, e poi retta col governo popolare dei
consoli; di due dei quali, nel 1191, ci sono dati anche i nomi, Ranuccio di Giovanni “de
Rustico” e Simeone...
132
Dicendosi vico, s’intende l’abitato; s’intende invece la campagna, ad esso circostante
ed appartenente, quando si dice fondo od anche casale, che non ha diverso significato,
eccetto che, come casa e corte, accenna più propriamente al fatto che le terre hanno un
centro di abitazioni...
Per due luoghi si deve osservare una particolarità, l’uso cioè, nel preciso significato
di vico, per l’uno della parola latina “villa” per l’altro della barbarica “gau”.
La villa è
Margarita: vi era una chiesa, S. Maria di Margarita, dipendente da San Salvatore, e ve n’era
anche un’altra dedicata a san Pietro; era posta nel territorio di Toscanella, a mezzogiorno
di Corneto, nelle vicinanze della Marta.... Non si deve questa chiesa confondere coll’altra
pur detta di S. Maria di Margarita, che era l’antica cattedrale di Corneto, e che pure è nei
nostri documenti ricordata”.
Scritta questa premessa, è bene informare il lettore che i “documenti amiatini”
vennero pubblicati dal Calisse in lingua originaria, vale a dire in quella forma latina,
tutt’altro che classica, che risente di uno stato di decadenza; per cui ho cercato di tradurli
liberamente in italiano, evitando quelle forme ripetitive e pedanti, proprie degli atti
notarili. D’altra parte non essendo io un paleografo, non ho creduto opportuno fare opera
di certosino, ma solo quella di informatore, lasciando beninteso ad altri la capacità o la
volontà di tradurli integralmente la lettera. E dato che l’idioma latino oggi, per disegno
politico, è stato relegato in soffitta, riporto per sommi capi i testi in lingua corrente.
Tengo però a precisare, per informazione del lettore, che io mi sono limitato
esclusivamente a quegli atti che riguardano la città di Corneto e il suo territorio, giacché
nelle “tavole amiatine” si trovano documenti notarili riguardanti altri centi di quella che il
Calisse chiama la Tuscia Longobarda, precisamente le città di Toscanella, Marta, Bagnorea,
Viterbo, Valentano, Chiusi, Latera.
Sulle condizioni storiche di quel periodo compreso fra l’800 e il 1100, si riporta il
lettore a quel che scrisse un altro storico cornetano, il Valesio, tratto dalle “Memorie
storiche della città di Corneto” manoscritto esistente nell’archivio del Campidoglio in
Roma.
“Succeduto di poi al pontefice Adriano, Leone III, ed essendo egli perseguitato dalla
fazione sediziosa dei nepoti del predecessore, ricorse nuovamente al re Carlo 1) il quale,
ritornato a Roma, vi fu con acclamazione e giubilo del popolo creato dallo stesso pontefice
Imperatore. Ma appena si erano riavuti i popoli della Toscana dalla tirannia dei
1)
Carlo I (Carlo Magno) re dei Franchi e dei Longobardi, incoronato dal papa Leone II in San Pietro la notte di Natale
dell’800 come imperatore del Sacro Romano Impero.
133
Longobardi, che li Saraceni, di già occupata la Sicilia, scorrevano il mare armati,
depredando le spiagge, conducevano seco gli abitatori in miserabile schiavitù, anzi discesi
in gran numero in terra, distrussero affatto la città di Centocelle non di molto distante da
Corneto, e benché dopo il pontefice Leone IV, discacciati con grave strage li medesimi, che
erano ritornati nuovamente a depredare, fabbricasse per sicurezza delle spiagge una nuova
città 2) in distanza di 12 miglia dall’antica Centocelle, dove già dicesi fosse il porto Traiano:
nulla dimeno nel pontificato di Giovanni VIII ritornarono più fieri, come si vede nelle
lettere scritte dal medesimo all’imperatore Carlo Calvo 3) richiedendolo in quella miseria di
pronto soccorso. Esagera in questo il pontefice che le città e le terre, essendo distrutte e
prive di abitatori, andavano i vescovi raminghi e dispersi in questo tempo, e verisimile che
essendo fuggiti li abitatori di Corneto, venisse a mancare la serie dei vescovi di questa città.
Tanto più che in questa parte era la più soggetta alle scorrerie dei Saraceni poiché oltre
distrussero il Monastero di S. Maria di Mignone, poco distante dalla città come si ricava da
un Istrumento della Badia di Farfa...
Nel pontificato di Sergio IV il medesimo pontefice erasi accordato con Guaifiero,
principe di Salerno, acciò con pagamento di certa somma di denaro, spedisse i legni armati
di Astolfo a soccorrere le spiagge fino a Centocelle, per impedire lo scendere in terra ai
Saraceni, ma tutto ciò fu vano e la cosa andò in modo che il pontefice fu costretto pagargli
un annuo tributo agl’infedeli, acciò si astenessero di travagliare il suo Stato: ma essendo
stati poi li medesimi più volte sconfitti nel regno di Napoli, e cessando il timore delle loro
incursioni, il monastero di S. Maria di Mignone fu nuovamente ristorato da Ralfredo abate,
come riferisce il Mobilione Annel. Bened. I. 3 Libro 42, pag. 33, essendosi gli abitanti della
città di Corneto dichiarati favorevoli a Graziano Abate di S. Maria di Mignone il quale
negava la dovuta obbedienza al Monastero di Farfa, il pontefice con Bolla comandò
espressamente al primo che si soggettò all’abate di Farfa, suo superiore, minacciando la
scomunica ai Cornetani quando contro a ciò si opponessero”.
La presenza di tre monasteri benedettini, quelli di Farfa in Sabina, di S. Maria di
Mignone, nel nostro territorio, e di San Salvatore sul Monte Amiata, deve aver fatto presa,
anche per l’apostolato dei monaci, sull’animo dei singoli donatori di beni e di denaro non
tanto forse per quei principi che animarono i primi cristiani, come si può desumere dai
Vangeli e dagli Atti degli Apostoli, quanto dalla paura di non vedersi assicurata la pietà
divina a favore delle loro anime, quasi che la conquista del paradiso potesse essere
assicurata più che dalle azioni individuali nel tempo della vita terrena, da lasciti di beni a
2)
Prese il nome di Leopoli, dal nome del suo fondatore, Leone IV, che poi divenne per abbreviazione Cencelle.
134
favore di un qualsiasi ordine religioso, e nella fattispecie ai benedettini del Monastero del
Monte Amiata.
Questa psicosi dovrebbe essere stata sollecitata da qualche avvenimento che sfugge
purtroppo ad ogni ricerca storica locale nonché allo studio delle condizioni che la
determinarono.
Il primo documento che risale all’anno 822, è del seguente tenore:
ANNO 822; mese di ottobre, in vico Pretoriano.
Felicemente regnanti il signor nostro piissimo e augusto Lodovico, da Dio
incoronato, grande e pacifico imperatore, nel nono anno del suo impero e nell’anno sesto
di Lotario, suo figlio, e il beatissimo pontefice e papa universale Pasquale, nella santissima
sede di S. Pietro, principe degli apostoli, nell’anno sesto, mese di ottobre, indizione prima.
Io Grossone, figlio del fu Orso in vico, di mia buona e spontanea volontà ho
promesso e prometto di dare a voi, amabile e venerabile presbitero e preposto del
monastero di S. Salvatore posto sul Monte Amiata, dove risiede il signor abate Audoaldo,
un mio terreno che è posto in Pantano, ai confini del mare, per edificarvi un molino 4) ; e
nello stesso tempo un altro terreno che misura per lunghezza 40 piedi e per la larghezza 30
piedi, per edificare sopra la riva del fiume Marta una casa. Mi riservo però la metà del
molino e della casa suddetta fino a quando vivrò; dopo la mia morte lascio ai miei eredi la
terza parte del molino e della casa; e qualora dovessi revocare ciò che ho promesso ed io ed
i miei eredi chiedessimo di promuovere una causa e non potessimo difenderci, allora
prometto anche a nome dei miei eredi di versare allo stesso santo Monastero cento soldi di
argento.
Quanto promesso ho chiesto che venisse scritto su questo documento alla presenza
di testimoni.
Fatto in vico Preturiano, nel mese e nell’indizione suddetti.
Io Grossone di mia mano sottoscrivo.
- Segno di mano di Lupone di Minotula, teste.
- Segno di mano di Placione, suo fratello, teste.
- Segno di mano di Adelmo del vico, teste.
- Segno di mano di Lanfredo del vico, teste.
- Segno di mano di Tachiperto del vico Pretoriano, teste.
Io, Liminoso, chierico e notaio, ho composto questo atto e consegnato a Grossone.
3)
Carlo II (Il Calvo). Nell’anno 875 successe a Ludovico II, come re d’Italia e imperatore.
135
Che si tratti di un terreno posto nel territorio di Corneto, non c’è alcun dubbio, sia
per l’ubicazione in località Pantano (toponimo tuttora esistente per la vicinanza del mare e
delle sponde del fiume Mignone) sia il riferimento al fiume Marta.
Poi con un salto di 182 anni, si viene a parlare di Corneto, o meglio del castello e
torre di Corneto, vicini al mare. Evidentemente nel frattempo doveva essersi consolidato il
centro urbano anche se seguitava a far parte del Comitato di Toscanella.
Ed ecco qui di seguito tutti gli atti notarili, dal 1004 al 1191. L’ultimo riguarda invece
una bolla del pontefice Celestino che, sotto pena di scomunica, porta a ragione un
presbitero che non voleva riconoscere l’autorità e la competenza dell’abate del Monastero
di San Salvatore, sul Monte Amiata, circa l’assegnazione della chiesa di San Fortunato nella
città di Corneto.
ANNO 1004, gennaio, in Corneto.
Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, nell’anno primo del sommo e universale
pontefice Giovanni XVII, felicemente regnante nella sede del beato Pietro, principe degli
apostoli, mese di gennaio, indizione seconda.
Io Benedetto, figlio del fu Andrea, abitante nel castello e torre di Corneto, confinanti
col mare, comitato di Tuscania, uomo onesto, venditore, vendo liberamente a te Sigizo,
prete, acquirente, figlio del fu Orso abitante nel castello e torre di Corneto che confina col
mare, nel presente giorno, una parte della vigna di mia proprietà, come da documento che
mi è pervenuto, posta in un sito prossimo a santo Stefano, confinante da un lato con la
vigna di Guido, dal secondo lato con la vigna di Domenico, dal terzo lato con la vigna di
Fermoso e dal quarto lato col fiume Marta.
La suddetta vigna e la suddetta terra dove la vigna è posta, misura perimetralmente
27 pertiche e undici piedi, secondo le misure legittimamente in uso sotto il re Liutprando,
con tutto quanto vi è sopra e con tutti gli annessi e connessi; e do la facoltà a te e ai tuoi
eredi la piena facoltà di disporne, possedere, vendere, donare, commutare, alienare e
quant’altro vorrete fare con la più ampia libertà, senza alcuna riserva, della mia proprietà,
libera da ogni ipoteca. Perciò ammetto di aver ricevuto dal suddetto acquirente la somma
di venti soldi in argento, come prezzo deliberato, accettato e convenuto fra noi due, di
comune accordo.
4)
Esisteva una lega di molini: i più rinomati e citati furono le “Mole di Mignone” e quelli sul fiume Marta.
136
Se dovesse accadere, come non spero, che nasca una controversia contro di te da
parte dei miei eredi, prometto di comporre la vertenza o di corrispondere il doppio dei
miglioramenti eseguiti secondo la stima di un perito.
Stipulato nel succitato castello di Corneto.
Segno di mano del venditore Benedetto che sottoscrive questo atto di vendita.
Segno di mano di Azo, figlio del fu Belizo, teste.
Segno di mano di Gezo, del fu Ildibrando, teste.
Segno di mano di Ildibrando, del fu Ildibrando, teste.
Io Alone, magistrato imperiale, ho stipulato il seguente atto.
ANNO 1005 (?) 1006 (?) mese di aprile, in Corneto.
Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, nell’anno secondo del papato del sommo e
universale pontefice Giovanni XVII, felicemente regnante nella santa sede del beato Pietro,
principe degli apostoli, mese di aprile, indizione quarta.
Io Giovanni, figlio del fu Sperandio, che abita in un rione del castello e torre di
Corneto che confina col mare, comitato di Tuscania, uomo onesto, venditore, in piena
facoltà, vendo oggi a te, Stefano, prete, figlio del fu Giovanni, abitante nel suddetto rione
nel castello e torre di Corneto, che confina col mare, nel comitato di Tuscania, una parte
della vigna di mia proprietà che mi pervenne da mio padre Sperandio.
La suddetta vigna che si trova oltre il fiume Marta, confina da un lato con la vigna
del Monastero di S. Maria di Mignone, dal secondo lato con la vigna di Giovanni, dal terzo
lato con la vigna del prete Silvio e dal quarto lato con la vigna di Giovanni Occo.
La suddetta vigna e la terra dove è situata misura pertiche....e dodici piedi, secondo
le misure legittime in uso sotto il re Liutprando.
Omissis...
Segno di mano Giovanni venditore che sottoscrive questo atto di alienazione.
Segno di mano di Andrea, del fu Liutprando, teste.
Segno di mano di Demetrio, del fu Alcisi, teste.
Segno di mano di Camarini, figlio del fu Reino, teste.
Io, Alone, magistrato imperiale, ho stipulato il presente atto.
Anno 1011, mese di aprile, in Corneto.
137
Nel nome del signore nostro Gesù Cristo, al tempo dell’anno secondo del nostro
signore Sergio II, sommo e universale pontefice, felicemente regnante nella santa sede del
beato apostolo Pietro, mese di aprile, indizione nona.
Per la salvezza delle nostre anime, io Giovanni, presbitero, figlio del fu Bonuzio,
insieme a Efizia, figlia del fu Luniperga, abitanti nel castello e torre di Corneto che confina
col mare, comitato di Tuscania, confidando di avere l’eterna beatitudine da parte del
signore nostro Gesù Cristo noi e le anime dei nostri parenti, per mezzo di questo
documento facciamo dono al monastero di San Salvatore che sorge sul Monte Amiata,
comitato di Chiusi, e a te, signor abate Vinizio e ai tuoi successori, di una casa che è
edificata all’interno dello stesso castello e torre di Corneto, chiamato città, e si trova a
confine con il terreno della casa dei fratelli Petronio e Benedetto, figli del fu Giovanni, e
dalla quarta parte dalla terra del suddetto venditore; contemporaneamente doniamo e
trasferiamo un pezzo di terra dov’è edificata la casa dentro lo stesso castello e torre di
Corneto, che è posta a confine da due parti con un muro dello stesso Castello e dalla terza
parte da un terreno irriguo e dalla quarta parte con la casa di Petronio, figlio del fu Andrea;
nello stesso tempo doniamo e trasferiamo integralmente un pezzo di terreno con vigna,
situato in località detta “I Ponti” 5) che si trova fra i confini delimitati da una parte da uno
stradello e dall’altra con la vigna di S. Maria di Mignone, dalla terza parte con la vigna
Andrea e dalla quarta parte con la vigna di Giovanni; nello stesso tempo doniamo e
trasferiamo un pezzo di terreno integro situato nel luogo detto “Pietrara” 6 e confina da due
parti con un terreno irriguo, dalla terza parte con la terra di Rainiero e suoi confinanti e
dalla quarta parte con la terra di Costanza.
Gli stessi soprascritti terreni e le vigne e le cose poste fra i suddetti confini e i luoghi
designati come più sopra si può leggere, con tutte le cose e gli accessori esistenti, doniamo
e trasferiamo integralmente in perpetuo.
Se poi io Giovanni presbitero del fu Bonuzio, e Ofizia, figlia del fu Luniperga o
alcuno dei nostri eredi o altra persona estranea si mettesse contro questo atto di donazione
che noi abbiamo firmato spontaneamente e con buona volontà, e tentasse di annullare,
rompere, o cambiare ciò che abbiamo voluto, prima di tutto cada sotto la maledizione di
Dio onnipotente e sotto l’anatema dei 318 santi Padri, dei 24 anziani 7) che giornalmente
danno lode a Dio, dei dodici apostoli, dei quattro evengelisti Luca, Giovanni, Marco e
Matteo; e vengano espulsi dalla Chiesa e abbiano i tormenti, nel giorno del giudizio, come
5)
Toponimi tuttora esistenti nel territorio di Tarquinia.
Ibidem come sopra.
7)
Vedi “APOCALISSE” di Giovanni Apostolo, cap. IV-v. 4.
6
138
il traditore Giuda che portò a morire il nostro Signore Gesù Cristo; e venga condannato alla
pena di dieci libbre d’oro puro.
Silfrido, giudice imperiale, stabilisco di far sottoscrivere ai testi nel seguente ordine:
Io, presbitero Giovanni firmo di mia mano questo documento.
Ofizia, di sua mano chiede di sottoscrivere quanto è stato scritto nel suddetto
documento.
Lupo, figlio del fu Maino, teste.
Benedetto, figlio del fu Vallerino, teste.
Io Lamberto firmo di mia mano, come teste.
Io Silfrido, giudice imperiale, ho portato a termine e sottoscrivo questo atto.
Anno 1014, mese di giugno in Corneto.
Nel nome del signore nostro Gesù Cristo.
Nel nome di Dio onnipotente, noi Benedetto, chiamato Fusco, castaldo del nostro
duce Rainiero, marchese, e Silfrido, giudice del nostro signore imperatore, siamo
convenuti nella contrada del castello e torre di Corneto, dinnanzi la corte e la casa di
Giovanni, figlio di Uberto, per una causa; sono pure qui presenti le buone persone di cui
diamo i nomi: Anczo, figlio di Belizo, Teuzo, figlio di Teuzo, Girolfo, figlio di Baldo,
Berterico, figlio di Teuzo e Lamberto suo figlio, Belizo figlio di Allone, il giudice Ildizo figlio
di Goberto, Radolfo figlio di Omizo, Benedetto figlio di Benedetto e Giovanni suo figlio,
Rainiero figlio di Bonizo, Astaldo figlio di Abo, Ildizo figlio di Bezo del Monte Amiata,
Eldivrando figlio di Nardizo, insieme al signor abate Vinizo, rettore del Monastero di San
Salvatore con il suo avvocato, per una controversia sorta fra Giovanni figlio di Uberto del
castello di Corneto; sentita la ragione per la quale tu Giovanni e gli altri che avete
intenzione di contendere, contro il nostro Monastero di San Salvatore, la metà di un
terreno con vigna nei pressi di quella terra conosciuta come Margarita, sopra Montorario;
metà di questa terra e vigna sembra trovarsi sopra il guado Orclito del fiume Marta; voglio
che tu, alla presenza del giudice e di queste oneste persone dichiari se questa causa è giusta
o no.
Lo stesso soprascritto Giovanni figlio di Uberto così ha risposto: non piaccia a Dio
che quanto tu mi chiedi, risponda a verità; e non mi riguarda. E il soprascritto Eldivrando
figlio di Nordizo, che era l’avvocato del signor abate Vinizo, ha chiesto che tutti gli siano
testimoni in questa causa.
139
In fatto: io stesso soprascritto Silfrido, giudice, chiamato in giudizio, avendo
ascoltato da parte del surriferito Ildivrando che il signor abate Vinizo era stato convocato,
chiedo al suddetto Giovanni figlio di Uberto, se avesse documento o breve o sentenza o
investitura da parte dei suoi parenti per possedere la metà della terra e vigna della predetta
Margarita, e se avesse intenzione di far causa, litigare, contro l’abate Vinizo, a favore dei
propri eredi e contro il Monastero o i suoi successori.
Il soprascritto Giovanni figlio di Uberto non ha né mai potrà avere documenti, breve
e sentenze per poter contestare le soprascritte cose. Lo stesso soprascritto Eldivrando, che
era avvocato del signor abate Vinizo, ha detto: chiedo che tutti mi siate testimoni in questa
causa.
Così fu fatto: e lo stesso giudice Silfrido e il soprascritto Giovanni figlio del fu
Uberto, rimasero soddisfatti della cosa, mentre il soprascritto Monastero di San Salvatore e
del signor abate Vinizo e i suoi successori restano possessori del fondo per tutti i tempi
futuri. E il soprascritto Giovanni figlio di Uberto, e con lui i suoi eredi, dichiara di lasciare
all’abate Vinizo e al suo avvocato Ildivrando la suddetta terra e vigna di Margarita, come
più sopra si legge; e se si dovesse addivenire ad una lite od entrare in causa per interposta
persona, il soprascritto Giovanni di Uberto e i suoi eredi promettono di lasciare il fondo al
signor abate Vinizo e ai suoi successori, pena 18 libbre di oro puro.
Questo avvenne al tempo del signore nostro Benedetto 8) , sommo pontefice e papa
universale che siede da tre anni nella sede del beato Pietro, apostolo; e del signor nostro
Enrico 9) , imperatore augusto, nel mese di giugno, indizione 12ª, felicemente regnanti.
Segno di mano di Giovanni, figlio del fu Uberto, che sottoscrive davanti ai testimoni.
Segno di mano di Benedetto, castaldo del nostro signor marchese Rainiero.
Segno di mano di Anczo, figlio di Belizo, e Teuzo figlio di Teuzo, Ridolfo figlio di
Baldo e Berterico, figlio di Teuzo, e Lamberto suo figlio, e Omizo figlio di Marocci: tutti
chiesero di sottoscrivere di proprio pugno.
Io Silfrido, giudice imperiale, scrissi, completai e consegnai.
Anno 1014 (?) 1015 (?) mese di marzo, in Corneto.
Nel nome del signore nostro Gesù Cristo, al tempo del signor nostro Benedetto,
sommo pontefice e papa universale, nel terzo anno del suo regno nella sede del beato
8)
9)
Benedetto VIII, papa.
Enrico II, re di Germania, che nel 1005 ebbe la corona imperiale.
140
apostolo Pietro, e del primo anno dell’incoronazione dell’augusto Enrico, mese di marzo,
indizione dodicesima.
Io Calendo, detto Pipo, figlio del fu Domenico, e Maroza, mia moglie, abitanti nel
castello e torre di Corneto che confina col mare, comitato di Tuscania, per la salvezza della
nostra anima trasferiamo e doniamo tutte le cose nostre a favore del Monastero di San
Salvatore che sorge sul Monte Amiata, comitato di Chiusi, per avere ricompensa eterna alle
nostre anime. Per mezzo di questo atto di donazione al signor abate, e ai suoi futuri
successori, assegniamo un pezzo di terra, ai confini da una parte con la terra di Giovanni, e
dalle altre parti con la terra di Petronio, figlio di Viglielmo, dalla terza parte con la terra di
Giovanni Vallarino e dalla quarta parte dalla strada pubblica; tutt’attorno misura cinque
pertiche e otto piedi, secondo la legge di Liutprando. Inoltre doniamo e trasferiamo a
favore del Monastero di San Salvatore un altro pezzo di terra con vigna, posta presso il
luogo detto Margarita ed è situato ai confini da una parte con la terra di San Salvatore e
dall’altra parte con la terra di S. Maria di Mignone, dalla terza parte con la terra di
Giovanni, figlio del fu Uberto, e dalla quarta parte col fiume Marta. I soprascritti pezzi di
terra, con la casa e la vigna, con tutto quanto vi è, li doniamo e li trasferiamo per sempre.
Se alcuno - non spero che ciò accada - dopo la morte di me Calendo, detto Pipo, e di
mia moglie Maroza, dei nostri eredi volesse opporsi e annullare questo atto di donazione,
per prima cosa cada sotto la maledizione di Gesù Cristo, e l’anatema dei 318 Santi Padri,
dei 24 vegliardi che quotidianamente lodano Iddio, dei 12 apostoli e dei 4 evangelisti Luca,
Giovanni, Marco e Matteo; e venga espulso da ogni chiesa e abbia lo stesso trattamento di
Giuda, il traditore, che condannò a morte Gesù Cristo e poi s’impiccò.
Silfrido, giudice imperiale, chiedo di sottoscrivere nel seguente ordine:
Segno di mano di Calendo, detto Pipo, e di Maroza, mia moglie.
Segno di mano di Usberto, figlio di Ulbizo, di Demetrio e Benedetto, e Teuzo, figlio
di Teuzo, testi.
Io Lamberto sottoscrivo questo atto come teste.
Io Silfrido, giudice imperiale, ho stipulato questo atto e lo consegnai.
Anno 1014 (?) 1015 (?), mese di marzo, in Corneto.
Nel nome del signore nostro Gesù Cristo.
Al tempo del signore Benedetto, sommo pontefice e papa universale, nella sede del
beato Apostolo Pietro, anno terzo del suo regno; e del signor Enrico imperatore augusto,
incoronato dal grande e pacifico Iddio, nell’anno primo, mese di marzo, indizione
tredicesima, felicemente regnanti.
141
Noi Domenico e Giovanni, presbiteri, figli del fu Gezio, abitanti nel castello e torre
di Corneto, confinante col mare, nel comitato di Tuscania, trasferiamo tutti i nostri beni al
santo luogo del Monastero di San Salvatore, che è edificato sul Monte Amiata, comitato di
Chiusi, confidando di avere l’eterna beatitudine del nostro signore Gesù Cristo a favore
delle nostre anime. Per mezzo di questo atto di donazione, trasferiamo a te, abate del
monastero di San Salvatore, signor Vinizo, uomo integro, e a tutti i tuoi successori un
pezzo di terreno dov’è edificata una casa, posta nello stesso castello e torre di Corneto,
chiamato città, che si trova confinante da una parte col presbitero Teuzo, dall’altra con la
terra di Teuzo, figlio di Teuzo, dalla terza parte col presbitero Domenico e dalla quarta
parte con la terra di Eldivrando, figlio del fu Astaldo: misura perimetralmente nove
pertiche e sei piedi, secondo le misure legali sotto il re Liutprando. I soprascritti beni,
terreno e casa, nei suddetti confini, con tutto quanto vi si trova, doniamo e trasferiamo in
perpetuo.
Se dovesse accadere, dopo la nostra morte, che qualche erede di noi presbiteri,
Domenico e Giovanni, o qualsiasi altra persona estranea dovesse opporsi a questa
donazione, da noi fatta spontaneamente, o tentasse di annullare, rompere e commutare,
cada sotto l’ira di Dio onnipotente e sotto l’anatema dei 318 santi Padri, dei 24 vegliardi
che lodano eternamente Iddio, dei 12 apostoli, dei quattro evangelisti Luca, Giovanni,
Marco e Matteo e di tutta la chiesa, e abbia la punizione che Dio assegnò al traditore Giuda
che s’impiccò.
Io Silfrido, giudice imperiale, chiedo di sottoscrivere questo atto nel seguente
ordine:
Io Domenico presbitero ho scritto di mia mano questo atto.
Io Giovanni presbitero ho scritto di mia mano questo atto.
Io Teuzo, figlio del fu Teuzo, teste, sottoscrivo di mia mano.
Io Lamberto, ho scritto di mia mano come teste.
Anzo, figlio del fu Rainiero, teste, ho scritto di mia mano.
Io Silfrido, giudice imperiale, ho completato il seguente atto.
Anno 1015, 3 aprile in Corneto.
Nel nome del signore nostro Gesù Cristo.
Al tempo del signor nostro Benedetto, sommo pontefice e papa universale,
felicemente regnante nell’anno quinto nella sede del beato Pietro apostolo, e sotto il regno
del signor Enrico, imperatore augusto, incoronato da Dio, grande e pacifico nell’anno
terzo, mese di marzo, indizione 14ª.
142
Io Berterico, figlio del fu Bonizo dimorante nel castello e torre di Corneto che
confina col mare, comitato di Tuscania, uomo onesto, venditore, in questo giorno vendo in
pieno possesso della mia volontà, a te Giovanni, figlio del fu Igilino, acquirente, che dimori
sul Monte Amiata, comitato di Chiusi, un pezzo integro di terra con vigna di mia proprietà
che è posta in un luogo chiamato Capilione e confina da una parte con la vigna di Berterico,
figlio del fu Petronio e dalle nostre parti con la vigna di Drudo e dalla quarta parte dal
sottoscritto venditore. Misura perimetralmente dieciotto pertiche e cinque piedi, misurata
secondo la legge del re Liutprando. Il sottoscritto pezzo di terra e vigna con i succitati
confini e misure e località come più sopra si legge, con tutti gli annessi e connessi, io vendo
integralmente al succitato acquirente. E ricevo io venditore a favore dei miei eredi e degli
eredi di te acquirente, il prezzo di venti soldi in argento, come si è convenuto fra noi di
comune accordo. Da questo giorno a te, acquirente, e ai tuoi eredi la piena potestà di
vendere, donare e fare quanto vi aggrada.
Io soprascritto e con me i miei eredi, prometto a te soprascritto acquirente e ai tuoi
eredi, di osservare quanto stipulato. Se altri dovesse intentare contro di te con ogni
pretesto una causa, allora io sottoscritto venditore ed i miei eredi promettiamo a te e ai
tuoi eredi, una doppia affrancazione su quanto avrete fatto in miglioramenti, secondo una
giusta stima.
Fatto in Corneto.
Segno di mano di Berterico, figlio del fu Bonizo, venditore che sottoscrive questo
atto secondo quanto più sopra descritto.
Segno di mano di Radolfo, figlio di Omizo, chiamato come teste.
Segno di mano di Berterico, figlio di Teuzo, chiamato come teste.
Segno di mano di Ranieri, chiamato come teste.
Io Silfrido, giudice imperiale, ho scritto, completato e restituito.
Anno 1018, mese di maggio a Corneto.
Nel nome del signore nostro Gesù Cristo.
Ai tempi del signor nostro Benedetto, sommo pontefice e papa universale,
felicemente regnante nella sede del beato apostolo Pietro, anno settimo, e del signore
Enrico, imperatore augusto, pacifico, incoronato da Dio, anno quinto, mese di maggio,
prima indizione.
Io Orso, figlio del fu Gordanno, abitante nel castello e torre di Corneto ai confini del
mare, comitato di Tuscania, uomo onesto, venditore, liberamente alieno a te Giovanni,
figlio del fu Ingelberto, che è dimorante nel monastero di San Salvatore, comitato del
143
Monte Amiata, mio acquirente, un pezzo di terreno integro con vigna, posta in località
detta Campoleone, e confine da una parte con la vigna di S. Maria di Mignone, dall’altra
parte con la vigna del presbitero Gennaro, dalla terza parte con la vigna Micina e dalla
quarta parte col fiume Marta. Misura perimetralmente 22 pertiche e 1 piede, secondo le
misure in vigore al tempo del re Liutprando, con tutti gli annessi e connessi.
Fra me soprascritto venditore e miei eredi e te, soprascritto acquirente, con i tuoi
eredi, si stabilisce la somma di venti soldi d’argento, concordata e decisa fra noi di buon
accordo.
A te e ai tuoi eredi concedo piena libertà di possederlo, venderlo, donarlo,
commutarlo nella maniera che più crederete opportuna.
Redatto in Corneto.
Segno di mano di Orso venditore.
Segno di mano di Raniero, figlio del fu Bonizo, teste.
Segno di mano di... figlio del fu Varnolfo, teste.
Segno di mano di Pasquale, figlio del fu Andrea, teste.
Io Lamberto, giudice imperiale, trascrissi e completai.
Anno 1191, 3 di gennaio, in Corneto.
Nel nome di Cristo, così sia.
L’anno 1191 dalla sua incarnazione, indizione nona, il giorno tre del mese di
gennaio, regnando l’imperatore Enrico, signore dei Romani, io Ioculo, di mia spontanea
volontà, senza scopo di frode o di dolo, mi sono offerto per una transazione con Rollando,
abate di San Salvatore sul Monte Amiata che aveva delegato te, Pietro, per grazia di Dio
preposto della chiesa di San Fortunato in Corneto, a me cognito, al fine di dirimere la
controversia fra me e l’abate stesso in relazione a 15 libbre di denaro romesini di cui mi ero
reso garante.
Poiché si presume un danno subito di 70 libbre, eccomi convenuto davanti ai consoli
Ranuccio di Giovanni “de Rustico” e Simeone perché di comune accordo si chiuda questa
vertenza mediante il pagamento di 31 libbre di denari pesanti romesini. Per questo io mi
faccio garante con te, procuratore designato dal predetto abate e dai suo confratelli di
porre transazione fra me e i miei eredi da una parte e te, delegato dall’abate e dai suoi
successori, con l’impegno di mettere fine a questa vertenza. Sono perciò disposto a
stipulare, io per i miei eredi, e tu come procuratore dell’abate e suoi successori, il presente
144
atto con la garanzia che né da parte mia né da parte sua si ponga alcuna opposizione al
presente accordo, anche per interposte persone.
Questo atto viene stipulato in Corneto, nella piazza antistante la chiesa di S. Maria
di Margherita, alla presenza dei predetti consoli e dei testi Pietro Belizo, Urrado, Pietro
Rainiero di Alone, Tommaso di Tagliacozzo, Guittone di Rainiero “della Tocula” e Rollando
di Guittone, convocati. E in presenza dei testi Simeone di Valentano e Ottaviano di
Graziano, appositamente convenuti.
Io Leonardo giudice e notaio imperiale, chiamato a dirimere questa controversia e
per stendere questo istrumento, dinanzi a quanti sono convenuti per questa transazione,
ho redatto questa scrittura.
Anno 1196, 23 maggio, in Laterano
Celestino vescovo 1) , servo dei servi di Dio.
Al diletto figlio Rollando, abate di San Salvatore sul Monte Amiata, salute e
apostolica benedizione.
E’ giusto e onesto, sia in forza della giustizia che della ragione, un nostro intervento
perché si giunga al debito risultato. L’istituzione e la destituzione dei preti della chiesa di
San Fortunato di Corneto, senza alcuna mediazione, spetta a te, rettore del Monastero di
San Salvatore, così come consuetudine fino ad oggi osservata.
Per ciò, dieltto figlio nel Signore, veniamo incontro alle tue giuste richieste e con
l’autorità dei presenti approviamo che se qualche prete, senza il tuo permesso, desse degli
ordini nella suddetta chiesa contro la vecchia consuetudine, ti sia permesso, senza tuo
appello e senza altro reclamo, espellerlo dalla suddetta chiesa e privarlo del luogo e del
beneficio della chiesa stessa.
Dunque a nessun uomo è minimamente consentito infrangere ciò che abbiamo
concesso e deciso o a suo danno contraddire.
Se poi qualcuno avrà la presunzione di attentare al nostro disposto, incorra nella
maledizione di Dio onnipotente e dei beati apostoli Pietro e Paolo.
Dato in Laterano, dieci delle calende di giugno, anno sesto del nostro pontificato.
Nota - Nel 1203 fu fatta da Pietro prete rinunzia della prepositura di San Fortunato
in Corneto, perché, contrariamente al disposto della bolla qui sopra riferita, si era
1)
Celestino III. Coronò Enrico IV imperatore e assicurò il trono di Sicilia al figlio di lui, Federico II.
145
impadronito dell’ufficio escludendone Bartolomeo prete, nominato dall’abate Rollando. La
lite, che prima n’era venuta, fu decisa dai delegati di Ranieri, vescovo di Toscanella.
Questo mio lavoro è stato sollecitato da una precisa intenzione. Dato che gli atti
notarili di Corneto non finiscono qui, informo che nell’archivio della nostra Società sono
conservati altri manoscritti di un notaio cornetano, certo Tommaso di Leonardo, che
avrebbero bisogno di venir pubblicati in un secondo momento. Tali atti comprendono un
periodo che va dal 1500 al 1505.
Dopo questo periodo non ci sarebbe che andare a pescare nell’Archivio di Stato a
Roma quant’altro dovesse esistere sulla vita e sulle vicende della nostra città, almeno fino a
quando il nostro Comune contribuì, come tanti altri, a formare l’unità d’Italia, dopo il
1870.
Bruno Blasi
146
LETTERE DEL LEGATO VITELLESCHI AI PRIORI DI VITERBO
Il Cardinale Giovanni Vitelleschi, di cui tutti conosciamo la storia, divenne Legato
del regno di Sicilia, con Bolla pontificia datata da Firenze il 3 maggio 1434. Le sue attività
non si limitarono alla sola legazione: il Vitelleschi, più che un cardinale, era un soldato, con
notevole acume militare e politico, amato e disprezzato per il piglio altezzoso e soldatesco,
con ordini rigorosi ed imposizioni che erano vere e proprie minacce di rappresaglia se non
si obbediva ai suoi voleri.
Una dimostrazione di questo duro carattere lo riscontriamo nelle lettere scritte ai
Priori che reggevano il comune di Viterbo, onde sollecitare il pagamento di somme che
servivano al mantenimento dell’esercito. Queste lettere, fedelmente trascritte nelle
“Reformationes comunii Viterbi”, dimostrano anche i vincoli che lo legavano alla città: due
noti personaggi viterbesi, Pier Paolo Sacchi, uomo fidatissimo, e Pietro dei Lunensi,
cancelliere, furono per molti anni al suo servizio.
I viterbesi erano ligi alla più pronta obbedienza, dato che il personaggio era degno
del massimo rispetto.
Il carteggio con il comune di Viterbo va dal 1435 al 1440, poco prima della morte del
Cardinale, avvenuta il 19 marzo 1440 in Castel S. Angelo e parla principalmente del
“subsidium” e della tratta del sale.
Il primo era, come dice il nome, un sussidio, una somma che il comune metteva a
disposizione del richiedente, meglio dire su sua imposizione, e che per Viterbo ammontava
a ben 1500 ducati d’oro l’anno che erano pari ad una “terzeria”.
Il comune di Viterbo
era diviso in terzieri (tre) o rioni. Si nominavano quattro esattori che riscuotevano la
“terzeria” una per ogni rione della città, pari perciò a 500 ducati a terziere. Ad ogni
147
esattore era consegnato un elenco, parrocchia per parrocchia, dei soggetti da tassare in
proporzione al proprio reddito. Le terzerie si riscuotevano in un periodo di cinque giorni,
durante i quali erano chiuse le porte della città. Si trattava perciò di una vera e propria
taglia destinata appunto al pagamento dei capitani di ventura e delle loro bande di cui si
serviva la Santa Sede.
Introdotta da Papa Bonifacio IX nel 1398, essa doveva pagarsi alla Camera
Apostolica in tre rate annuali: una ogni quattro mesi.
Il periodo di cui parliamo era tra i più tristi, per le continue lotte fra fazioni, ed i
Comuni del Patrimonio di S. Pietro avevano le casse letteralmente vuote e per di più pieni
di debiti per far fronte alle necessità della popolazione.
Il Vitelleschi in parte pregava ed in parte minacciava, ben sapendo le condizioni in
cui versavano i Comuni. Ma i soldi “dovevano uscire fuori”, altrimenti, scriveva ai Priori di
Viterbo “ve costerà più la salsa che la carne”, minacciando che le somme dovute sarebbero
state riscosse dai suoi condottieri, i quali erano peggiori delle cavallette, poiché facevano
precedere e seguire la loro venuta da devastazioni e saccheggi del territorio e delle città con
ruberie, malversazioni ed altro, oltre a pretendere il pagamento dei 1500 fiorini d’oro.
In una di queste lettere, datata da Corneto il 20 Maggio 1435, si legge: “.... alla
deliberatione sopra el fatto del danaro (i famosi 1500 fiorini) facta dal vostro Consiglio
commendiamo la vostra diligenza; et perché el denaro per poter conducere la gente
d’arme, come vi dicemmo, è necessario, perché da noi non ne havemo, pregamovi che
senza exceptione provediate che quando saremo venuti colà gente d’arme, che serà fra
pochi dì, sieno apparecchiati li mille cinquecento ducati.
Advisandovi che domattina ci partiremo da qui, et gimo a Roma et subito colla gente
daremo la volta”.
Evidentemente il Comune di Viterbo fece delle rimostranze, tentando di sfuggire o
di ritardare il pagamento dell’ingente somma. Ma il cardinale rincara la dose da Roma, con
lettera in data 6 Aprile 1436: “... Saria nostra volontà non darvi affanno né gravezza; ma
avendo la gente come noi avemo, non potemo fare di meno, perché tutto “l dì semo
infestati da loro, et tenere altramente non si possono. Pertanto vi comandamo che infra
dece dì degiate aver mandati et pagati mille fiorini d’oro per lo subsidio di un anno
proximo passato, et una terzeria che al presente finisce, come voi sete tenuti: et a noi farete
servitio, et voi leverete di carico ed affanno. Altrimenti passato el dicto termine, ci sarà
necessità di dare li dicti denari et pagamenti ad alcuni di questi conductieri, li quali
verranno là et non senza danno e rincrescimento vostro, lo quale riputamo nostro, li
vorranno...”.
148
Come il lettore avrà notato, il cardinale non pretende più la somma di 1500 ducati,
ma solo di Mille. Ciò non per compassione, ma perché i precedenti 500 fiorini erano già
stati pagati al capitano Giorgio da Narni che era venuto a soggiornare a Viterbo con la sua
compagnia (lettera da Roma 24 Maggio 1435).
Il comune di Viterbo, con sforzi inauditi, riuscì a raggranellare il denaro, ma nel
1436, con la nuova “terzeria” fu costretto a dare in pegno gli orti della valle del Caio, “il più
bel gioiello”della città. Per gli anni successivi la città fu di nuovo vessata dalle “terzerie”, ed
i priori, risparmiando all’osso, ci fecero uscire anche una tazza d’argento, quale dono per il
cardinale con la speranza di renderlo più comprensivo.
Ma le necessità del Nostro erano sempre più impellenti, in quanto che, dopo la
vittoria sui Colonna, doveva presidiare con altri soldati i castelli tolti alla nobile famiglia
romana. Fu necessario perciò assoldare altre truppe, con nuove spese. Il Legato Vitelleschi
allora pensò alla “tratta del sale”.
Si trattava semplicemente di imporre l’acquisto forzoso, da parte delle città del
patrimonio, Viterbo compresa, di una quantità di sale, inviando il ricavato alla Camera
Apostolica. Il Comune poi doveva costringere i cittadini, a seconda dei loro redditi, ad
acquistare un certo quantitativo di sale. E Corneto, direte voi? Essendo la città del
Cardinale, ne era esente!
In data 1 Giugno 1437 il Vitelleschi impose alle terre del Patrimonio di mandare a
Corneto inviati per acquistare dalle saline il quantitativo di sale imposto per Comune. A
Viterbo furono imposte 300 rubbia di sale, poi ridotte a 200.
Dalla lettera datata in Roma I Gennaio 1437 si evince che: “... Poiché dunque per
mantenere e governare queste genti (si riferisce all’esercito) dalle quali siamo sostenuti nei
turbini della guerra ed a voi è stata offerta abbondanza di rifornimenti alimentari e voi che
giacete a terra ora godete della pace molto desiderata e queste ed altre province della
Chiesa sono difese ed i nemici frenati, c’è bisogno di moltissimo denaro; stabiliamo che
voi, devoti figli della stessa chiesa e insieme le altre comunità e signori di ogni luogo in
misura maggiore, essendone necessità, siate chiamati a rafforzare una tale prospera pace
gravandovi di un contributo. Ordinandovi, in conseguenza di queste cose, che viste le
condizioni presenti, di chiedere a Corneto 300 salme di sale per voi e per la vostra contea,
sotto pena di 3000 fiorini d’oro delle casse statali; se non avete denaro da consegnare
subito, diamo incarico al doganiere di Corneto di dare a credito a voi questo denaro fino
alla Quaresima. Voi dunque figli della Chiesa...”.
I Priori di Viterbo dapprima protestarono, poi si assoggettarono, inviando al
Cardinale un prezioso anello d’oro. Il Patriarca rispose che il balzello non sarebbe stato
149
rinnovato, come si legge dalla lettera inviata a Viterbo, il 13 Gennaio 1437.... e che nel
futuro sarete esentati dal pagamento di questa tassa del sale e nemmeno per il presente ne
sarete stati gravati se non ci avesse costretto la necessità di queste genti amate che
abbiamo...”.
E’ inutile dire che la promessa non venne mantenuta: infatti il 23 Ottobre 1438
impone al comune di Viterbo la tratta di 400 rubbie di sale da prelevarsi nelle saline di
Roma e successivamente ribadita con lettera del 3 Ottobre 1438:
“.... et per defendere pace e tranquillità vostra e de tucta la provincia; per poter
supplire al pagamento de le genti conducte et che si conducono, ve commandiamo
mandiate per voi et per lo vostro contado per quattrocento rughia de sale in Roma (un
rubbio equivaleva 3 ducati d’oro), al doganiere deputato per noi, per tucto lo mese di
ottobre prossimo; et li denari del decto sale agiate pagati per tucto novembre seguente,....”.
Ai viterbesi caddero letteralmente le braccia: visto che era impossibile togliersi da
dosso il balzello, decisero di comportarsi come per il “sussidio” delle terzerie, già citato:
nominarono per ogni parrocchia della città degli ufficiali che, a loro rischio e spesa (sic!),
dovevano recarsi presso le saline di Roma, Civitavecchia o Corneto ad acquistare il
quantitativo di sale imposto alla terzeria, onde costringere i cittadini ad un acquisto
forzoso a seconda dei ruoli fiscali ai quali erano iscritti, in modo da riscuotere il prezzo ed
inviarlo alla Camera Apostolica. I poveri non furono esentati dal pagamento. La tratta fu di
nuovo imposta con lettera da Montoro il 16-10-1439:
“... è necessario mantenere la gente dell’arme colla quale avemo cacciato la guerra di
terra di Roma et de le province vicine. Et per avere la possibilità ad possedere mantenere le
dicta gente d’arme, la Santità di Nostro Signore ci à per expresso comandato che per
questo anno doviamo porre lo sale nella forma fu posto l’anno passato; presertim per poter
più comodamente conducere la Santità Sua a Roma, perché nel mese di marzo intende al
tucto ritornare alla sua Sedia...” “.... per finire ad mezzo novembre proximo avute levato
dalla salara de Roma rughia quattrocento di sale, come l’anno passato, et per fino al mezzo
decembre proximo aviate pagato lo dicto sale ad rascione di ducato d’oro tre per lo
rughio...”. Come abbiamo letto, la somma era anche necessaria per il pagamento del
trasferimento del Papa Eugenio IV da Firenze, dove si era rifugiato per sollevazione del
popolo romano, a Roma.
Fin qui accanto ci eravamo proposti di illustrare. Attraverso la lettura delle lettere ci
facciamo un’idea del carattere dispotico del nostro Cardinale. I tempi erano quelli che
erano e chi comandava non andava tanto per il sottile pur di raggiungere lo scopo prefisso.
Tuttavia, a conclusione, possiamo affermare che il Vitelleschi ebbe il merito di riportare
150
l’ordine a Roma e nel Patrimonio, dopo aver sterminato i Colonna, abbattuta e
definitivamente estinta la famiglia Di Vico, prefetti di Roma molto turbolenti, con la
decapitazione di tutti, proprio tutti, compresi i ragazzi della famiglia, ed altri tiranni grossi
e piccoli. Era il solo mezzo per riportare la pace in una regione dominata da signorotti
rissosi, prepotenti, che nutrivano un odio secolare tra loro come i Colonna e gli Orsini.
Lo scopo unico del Nostro fu di riportare il Papa a Roma: Eugenio era un uomo
debole, indeciso, capace di grossi rancori, ma di mentalità ristretta. Il cardinale fu mal
ripagato, come sappiamo, per questa fedeltà. Ma questa è un’altra storia.
Antonio Pardi
DAI REGISTRI DEGLI INFERMI:
OSPEDALE DI S. CROCE IN CORNETO
(XVIII - XIX sec.)
“Beato si può dir che sia colui ch’impara il viver suo a spese altrui”. Con questa
massima si apre uno dei numerosi registri degli infermi dell’Ospedale di Santa Croce di
Corneto, custodito presso l’archivio storico dell’Ospedale civile di Tarquinia.
Fin
dal
1600 erano tenuti appositi registri in cui venivano segnati i dati anagrafici e le cause del
ricovero dell’infermo.
Fin dall’antichità esistevano in Corneto numerosi ricoveri per malati, ed il primo di
cui si abbia notizia è quello di Santo Spirito in Sassia, gestito dai frati dello stesso Ordine.
151
Nel 1447, in Via delle Torri iniziò la costruzione di un nuovo ospedale la cui erezione venne
ricordata da una epigrafe situata sulla porta d’ingresso: “1447. Pietro di Matteo, nominato
da Nicola V, Pontefice Massimo, curò questo ospedale, cui dette inizio da Priore e che
terminò da Precettore di tutto l’ordine generale di S. Spirito”.
Sempre nello stesso periodo fu eretto l’ospedale di S. Giovanni Gerosolomitano
appartenente all’ordine degli Ospedalieri di Malta. Di questo ospedale si hanno poche e
discordanti notizie.
Ordini monastici e ospedalieri e varie Confraternite gestivano a Corneto altri luoghi
di ricovero: l’Ospedale della Misericordia, in piazza Matteotti; l’Ospedale di San Clemente,
nel palazzo dell’Università agraria; l’Ospedale dell’Annunziata, nei pressi della Chiesa
dell’Annunziata; l’Ospedale delle Repentite, vicino la Chiesa di San Giacomo; l’Ospedale di
Santa Caterina, a fianco delle Chiese del Salvatore e dell’Annunziata. Un altro Ospedale
viene citato, in una memoria, come esistente in Via di Porta Castello nel cosiddetto
Granaio del Vescovo, ed era stato utilizzato in un periodo precedente come magazzino.
Questi luoghi erano considerati tuttavia solo come centri di accoglienza per anziani
e pellegrini in quanto di veri e propri ospedali si possono citare solo l’Ospedale di Santa
Croce e quello femminile del quale non ci è stato tramandato correttamente il nome.
L’Ospedale di Santa Croce fu fondato da Arcangelo Carli, Mario Cerrini, Gabriele
Polidori, Scipione De Alexandris, tutti cornetani i quali contribuirono economicamente alla
sua erezione, nell’attuale Via Garibaldi avvenuta nel 1530, anche se alcune leggende la
fanno risalire alla fine del 1000.
Gestito inizialmente dalla Confraternita del Gonfalone di Corneto, fu ceduto dalla
stessa Confraternita al Comune che lo gestì fino al 1586, tramite i Regolari di San Giovanni
di Dio. Nel 1570 Pio V aveva affidato a Fra Rodrigo Segunte dell’Ordine di San Giovanni di
Dio di Granada la gestione degli ospedali in funzione o da fondare a patto che i prati
vivessero e operassero secondo la Regola di S. Agostino. I Sacerdoti, il rettore ed i
confratelli dovevano sottoporsi alla regolamentazione giuridica del vescovo locale, erano
tenuti a giustificare le elemosine ricevute per l’ospedale anche se quanto riscosso era
amministrato dagli stessi ecclesiastici.
Il 12 maggio 1576, Papa Gregorio XIII sancì che tutti i fedeli, senza distinzione di
sesso o di classe sociale, potessero essere accolti in ospedale per farsi curare. “... Facciano a
gara di carità per curare gli infermi, cercando in essi il vero Cristo e, nelle piaghe dei
malati, le piaghe di Cristo”.
Gregorio XIII dettò alcune regole anche sul funzionamento dell’ospedale: “I pazienti
debbono soggiacere all’ordine delle persone incaricate... Venuto l’infermo e messosi a letto,
152
si inviti e si appresti alla confessione.... Gli si taglino i capelli e le unghie e gli si lavino le
mani, i piedi e tutto il corpo con acqua tiepida, o come parrà al medico. Gli si faccia vestire
una camicia bianca ed una berretta e si metta a letto con lenzuoli e cuscini bianchi e, se
sarà necessario, si scaldi il letto. Dopo che sarà a letto, verrà un fratello che se ne prenderà
cura ed annoterà in un libro tutti i suoi averi: nome, cognome, patria, se avrà moglie e non,
con altre notizie necessarie e quando uscirà dall’Ospedale, lo si annoti a margine, e lo
stesso si faccia se morirà. In caso di decesso tutto ciò che apparteneva al defunto,
indipendentemente dalla quantità del valore, rimarrà in possesso dell’ospedale, in virtù di
una antica consuetudine di questo Ordine religioso. Il medico visiterà i malati due volte al
giorno e allora si suonerà una campanella, affinché accorrano gli infermi, speziale e
barbiere. Ciascuno di essi avrà un libro dove verranno riportati gli ordini del medico sul
mangiare, bere e prescrizioni mediche. L’infermiere maggiore avrà cura che sia adempiuto
quanto prescritto; il fratello maggiore si procuri di assistervi... Si esortino i malati a
sopportare il male e le sofferenze come penitenza per i peccati. Ai deboli si diano energetici
e quanto altro ordinato dal medico. Non si dimetta alcuno fino che non sarà ordinato dal
medico e, se nell’ospedale ci sarà un luogo per convalescenti, vi si tengano alcuni giorni. Se
non vi fosse un tal posto, si mandi ad altro luogo o città, ove saranno tali comodità... Si
abbia cura grandissima di aiutare a morire bene ed il fratello maggiore incarichi almeno un
fratello di buon spirito e con lumi accesi, acqua benedetta e quant’altro usato in simili
circostanze. Quando sarà morto, si tolga dalla corsia con un lenzuolo; con Crocefisso e
candele e, recitando il Miserere, si porti in cappella e si predisponga il cataletto e,
recitando il Responsorio, vi si lasci... Ogni lunedì si reciti una messa cantata per le anime
dei defunti in ospedale, e, se fosse festivo, si trasferisca detto obbligo il primo giorno
libero.... Dove si è soliti ricoverare le donne, si predisponga un luogo separato, ove non
possono entrare gli uomini, ad eccezione dei medici. Si prenda un’infermiera di almeno
quaranta anni, dello stesso Ordine dei Fatebenefratelli, la quale si regolerà con le stesse
norme dettate per gli uomini, alla quale sarà consegnato quanto sarà necessario. Alla visita
delle malate si presenti sempre un fratello maggiore, il farmacista ed il barbiere”. Non è
dato sapere se tutte queste norme furono effettivamente rispettate.
Il 1 Ottobre 1588 il Papa Sisto V stabilì che i frati professassero un quarto voto, oltre
ai tre già previsti: aiutare i poveri e i bisognosi. Stabilì inoltre che la Compagnia fosse
denominata dei Fratelli di S. Giovanni di Dio e che i Frati si riunissero in un Capitolo
Generale. Furono infine eletti il Generale, il Priore e altri superiori ai quali fu demandato il
compito di visionare ed ispezionare gli ospedali.
153
A causa delle pessime condizioni ambientali, nel 1590 i frati abbandonarono
l’Ospedale di Santa Croce. Fu un duro colpo per la città e per il Comune che, in risposta al
gesto, adottò una deliberazione nella quale stabiliva che per il futuro l’Ospedale non
sarebbe stato più conferito a questo ordine. Ma nell’agosto del 1592 l’ordine fu revocato e
l’ospedale venne concesso nuovamente ai Fatebenefratelli, stavolta a condizioni ben
precise. Fu sottoscritta una convenzione nel palazzo del magistrato alla presenza di Nardo
Benedetti, Raffaele Tubicina, Sante Raffaellis di Orbetello, del notaio Fabio Lelj e del Padre
Priore. Il Gonfaloniere Antonino Risi e l’Ufficiale Comunale, Antonio Rota, firmarono per
il Comune.
Interessante da un punto di vista storico è la lettera al Monsignor Governatore di
Viterbo con cui lo si informava del nuovo insediamento dei frati Fatebenefratelli
nell’Ospedale
di
Santa
Croce:
“Illustrissimo
e
Reverendissimo...
Monsignor
Reverendissimo nostro Vescovo ci ha inviati alcuni Fatebenefratelli esortandoci a doverli
ammettere al governo dell’Ospetal nostro di Santa Croce assicurandoci che loro si
contenteranno come essi ancora ci hanno promesso che da noi li sia amministrata quella
medesima provisione che altre volte della Comunità nostra gli fu destinata di cinquecento
scudi l’anno oltre all’entrate di detto Hospitale, et che di più staranno sotto obbedienza di
Vs. Illustrissimo et che loro siano deputati dui homini che li possino veder... loro; dove che
habbino risposto a Reverendissima che avendo noi un decreto di Vostra Signoria Ill.ma che
ci ordina che intorno a questo non dovranno eseguire altro stante necessità della Comunità
nostra. Ma perché questo ci è parso un partito molto buono e necessario per servizio di
questi infermi et la Comunità nostra non vi cresce spesa alcuna ci è parso darne ragguaglio
a Vs. Ill.ma la qual ancora ne verrà avvisata da Mons. R.mo nostro Vescovo, perché
parendogli che questa buon opera s’habbi a seguire ce ne voglia dar ordine revocando in
tutto e per tutto ‘l decreto fatto da Vs. Ill.ma in visita sopra questo particolare.
Inoltre perché M. Antonio Coluzzello quale andò a Roma ad esaminarsi sopra la lite
che habbiamo con il Sig. Viperesco ci promise che avrebbe mandato un altro ingelligente a
rivedere i condotti sotterranei per mandarlo poi a Roma e farlo esaminare.... et ancora non
viene; però preghiamo che l’autorità sua ci aiuti con detto M. Antonio che ci voglia mandar
subito detto huomo perché ‘l tardare ci potrebbe nocere assai in negotio di tanta
importanza. In Corneto addì 23 luglio 1592”. (Colloc. Archivio Storico Comunale di
Tarquinia, registro di Lettere 1587-1596).
Curiosa anche una nota spese del 1617 sempre relativa a Santa Croce: “Al
Cappellano delle Cappelle delli Signori Vitelleschi scudi quindici moneta se li deveno per...
della casa di detta cappella concessa al venerabile Hospitale di Santa Croce per il servizio
154
della fabrica che si fa per ampliare detto hospitale a beneficio dei poveri infermi tutto
conforme alla deliberatione del consiglio approvata dalla Sacra Congregazione del Bon
Governo come al libro dei consigli dell’anno 1615 al foglio 56 sc. 15
più deve havere per l’anno 1618 sc. 15
più havere per l’anno 1619
più
sc. 15
per l’anno 1620
sc. 15
(Coll. Archivio Storico Comunale di Tarquinia: Registro degli speculi 1617/1620).
Dal punto di vista strutturale, l’Ospedale maschile era formato da due corsie ed una
farmacia. Nella prima corsia si trovavano dieci letti, nella seconda invece quattro letti. La
farmacia era ampia e funzionava come l’attuale pronto soccorso. Il corpo sanitario era
composto da due medici, due infermieri, un priore, un vicepriore, un farmacista ed un
barbiere. L’ospedale non accoglieva i fanciulli abbandonati, compito affidato all’ospedale
di Santo Spirito, mentre i malati contagiosi venivano immediatamente inviati al lazzaretto
nei pressi della chiesa di San Leonardo. I sifilitici venivano subito trasferiti tra i malati
incurabili dell’Ospedale Minore di San Leonardo.
Coloro che morivano in ospedale
erano sepolti nel cimitero di San Giacomo.
Nel 1629 l’ospedale fu ristrutturato: la prima stanza adibita a corsia venne ampliata
fino alla porta laterale della Chiesa di Santa Croce. Nel luglio del 1856, in seguito ad una
epidemia di colera che rilevò una grande inadeguatezza dell’ospedale, si propose
l’ampliamento dello stesso; in particolare si propose di trasformare la chiesa in padiglione
ospedaliero, con il trasferimento della Confraternita del Gonfalone in altro luogo.
A San Giovanni invece, vicino l’ospedale di Santa Croce, esisteva un piccolo ospedale
femminile. Era composto da due stanze con tre letti e la sua gestione era affidata ad
Illuminata Fani. La rettrice dell’ospedale veniva eletta dalla comunità cornetana mentre le
cure mediche erano prestate dai Fatebenefratelli. Nel 1729 il Procuratore dei poveri di
Corneto fece istanza al vescovo Bonaventura affinché si provvedesse all’erezione di un
nuovo ospedale femminile che avvenne successivamente nella attuale via del Duomo. Era
composto da due piani: al primo fu insediato l’orfanotrofio femminile, al secondo
l’ospedale vero e proprio. La gestione del nuovo complesso fu affidata inizialmente ad una
certa Vincenza mentre la cura religiosa al Prevosto Cesari. Fu predisposto anche uno
statuto riguardante l’amministrazione dell’ospedale che prevedeva un Consiglio formato
dal Vescovo, da due sacerdoti e da quattro consiglieri secolari. Nel 1818 l’ospedale, ormai
deterioratosi, si trasferì in Via dell’Orfanotrofio e fu ampliato per ben due volte. Nel 1863 il
Vescovo Bisleti affidò l’ospedale e l’orfanotrofio alle suore dell’Ordine di San Vincenzo dé
Paoli.
155
Analizzando i registri degli infermi dell’Ospedale di Santa Croce di Corneto
scaturiscono alcuni punti. Innanzitutto veniva registrata solo l’entrata in ospedale
dell’infermo e non l’uscita. In caso di morte veniva apposta, accanto al nome del paziente,
la paternità (nel caso in cui il padre del malato era defunto veniva usato il termine
“quondam”, gli anni, l’occupazione e la causa, molto sommaria, del ricovero.
La
calligrafia a volte cambiava anche nel giro di pochi giorni e questo lascia presupporre che
non era sempre la stessa persona addetta a questo compito.
Riportiamo dunque qui di seguito alcuni passi tratti dal registro degli infermi
dell’Ospedale di Santa Croce di Corneto.
Lullio 1705
Addì 2 lullio. Giuseppe figlio del Quondiam Bastiaro della Manona di Perugia di
anni 30 arte sua contadino venne con febbre.
Addì 6 lullio. Giuseppe figlio del quondam Francesco Martinelli di Carpegnia di anni
27 arte sua contadino venne con febbre.
Addì 6 lullio. Giuvanny figlio del quondam... antolotti di Parma di anni 20 arte sua
contadino venne con febbre.
Addì 9 lullio. Pietro figlio di Giammatista di Vincenzo di San Piero di Vallo di anni
23 arte su contadino venne con febbre.
Addì 9 lullio. Francesco figlio del quondam Antonio Stortino di Orvieto di anni 23
arte sua contadino venne tarantolato.
Addì 10 lullio. Feline figlio del quondam Contilio di Antonio di Orvieto di anni 23
arte sua contadino venne tarantolato.
Addì 10 lullio. Francesco figlio del quondam Domenico Capanna di Urbino di anni
23 arte sua contadino venne tarantolato.
Addì 10 lullio. Antonio figlio del quondam Andrea di Girolamo della Città di Castello
di anni 50 arte sua contadino venne con febre.
Addì 11 lullio. Domenico figlio del quondam Giuvanni Costa della Tolfa di anni 32
arte sua fattoretto venne con febre.
Agosto 1705
Feline Antonio figlio del quondam Cintia Di Tommaso di Santo Felice Stato di
Caserta di anni 40 arte sua vacharo venne con febre. Morto.
Giacomino figlio di Domenico Di Francesco di Arezzo di Toscana di anni 21 arte sua
contadino venne ferito.
Lorenzo figlio del quondam Bastiano Di Pinniany di Bersigalla Stato del Papa di
anni 30 arte sua contadino venne con febre. Consenniò Paoli 13.
156
Dicembre 1705
Addì 20 dic. Gio del quondam Bastiano Brinafino di Faenza di anni 23 arte di
campagna venne col mal di petto.
Addì 20 dic. Pietro di Francesco da Gualdo di Nocera d’anni 29 pecoraio venne con
febre.
Addì 20 dic. Giacomo del quondam Antonio Bramucci di Rimini d’anni 31 arte di
campagna venne con febre.
Addì 22 dic. Pietro del quondam Marco di Paganea di anni 63 mendicante venne
con febre. Morto.
Addì 22 dic. Pietr’Antonio del quondam Sebastiano Franceschelli di Arcidosso di
anni 37 ortolano venne con puntura. Morto.
Addì 22 dic. Sebastiano del quondam Gio da Montefeltro di anni 24 di campagna
venne con febre.
Addì 25 dic. Paolo del quondam Carlo da Castaglione del Lago d’anni 37 ortolano
venne con febre.
Addì 26 dic. Pietro del quondam Domenico Calandrelli da Manciana diocesi della
Penna venne con febre.
Addì 27 dic. Tomaso del quondam Domenico Conticelli da Scanolino d’anni 60 arte
di campagna venne con febre.
Addì 27 dic. Domenico del quondam Lodovico Carli di Faenza d’anni 40 arte di
campagna venne con mal di petto. Morto.
Addì 27 dic. Cosimo del quondam Santo Mori di Fiorensa di anni 43 arte di
campagna venne con puntura. Morto.
Addì 29 dic. Benedetto di Giulio da Cantiano di anni 30 venne con febre.
Addì 29 dic. Francesco del quondam Francesco da San Paolo dioc. del Borgo San
Sepolcro di anni 30 vaccaro venne con mal di petto. Morto.
Addì 30 dic. Francesco di Giuseppe di Sistino di anni 22 arte di campagna venne con
puntura.
Addi 30 dic. Venantio del quondam Pietro Sanna di Camerino di anni 22 pecoraio
venne con febre.
Gennaio 1706
Addì 2 gennaio. Domenico di Giacomo da Pistoia d’anni 30 arte di campagna venne
con febbre e stordito. Morto.
Addì 2 gennaio. Carlo del quondam Domenico della Tolfa d’anni 24 arte di
campagna venne con puntura. Morto.
157
Addì 7 gennaio. Rafaele di Giuseppe Caimmi da Sinco dioc. di Palma di anni 26 di
campagna venne con febbre.
Addì 20 gennaio. Domenico di Gio Ricciardi da Bolano dioc. di Sarzana di anni 30
arte di campagna venne con mal di petto.
Addì 22 gennaio Paolo del quondam Carlo da Castiglione del Lago di anni 37
ortolano recidivo. Morto.
Addì del 31 gennaio Simone del quondam Gio da Castelnuovo dioc. di Sistino di
anni 60 arte di campagna venne con mal di petto.
1715
Tomaso di Giò Giacomo di Città di Castello di anni 11 monello venne con febbre.
Giacomo di Antonio Pieri di Carpegna di anni 28 befolco venne con febbre.
Rocco di Paolo Cionni di Pistoia di anni 23 vignarolo venne con febbre.
Paolo Maria di Francesco di anni 25 calzolaio con piaghe in una gamba.
Bartolomeo di Giò Serafini di Barga di anni 20 homo di campagna venne con febbre.
Lorenzo di Carlo Di Francesco di Caprese, di anni 16 monello venne con febbre.
Morto.
Gasparo del quondam Antonio Carnicelli di Lucca di anni 49 homo di campagna
venne con febbre. Morto.
Simone del quondam Francesco Moretti di Pesaro di anni 30 homo di campagna
venne con febbre. Morto.
Antonio del quondam Matteo Croce di Pontremoli di anni 50 cassengo.
Gio Cristoforo di Francesco di Parciullo diocesi di Urbino di anni 36 homo di
campagna venne con febbre. Morto.
Carlo del quondam Antonio Ceccarelli di anni 26 homo di campagna venne con
febbre. Morto.
Gio Batista del quondam Gio da Casentino di anni 12 monello venne con febbre.
Gio di Lorenzo Lorenzetti da Pontremoli di anni 15 monello venne con febbre.
Santi di Antonio Christofani di Figiano diocese di Urbino di anni 13 monello
recidivo. Morto.
Antonio del quondam Francesco Pessi di Scurano diocese di Parma di anni 13
monello recidivo. Morto.
Giò Batista del quondam Giovanni Fiorani di Sarzana di anni 13 monello venne con
febre.
Gio Antonio di Gio Batista marchegiano di anni 24 monello con febbre.
158
Paolo del quondam Francesco Nicoletti da Cassentino di anni 24 homo di campagna
venne con febbre.
Francesco Antonio del quondam Giacomo Palancha di Urbisaglia di anni 21
vignarolo con febbre.
Pietro di Marco Stoppioni di Arezo di anni 25 cassengo venne con febbre.
Domenico di Pelegrino da Parma di anni 26 vignarolo venne con febbre.
Ecco un esempio, sempre nel 1715, di un’epidemia di rosolia (chiamata allora
Rossalia) e di come una volta era necessario il ricovero ospedaliero. Siamo nel mese di
maggio:
Addì 21 mag. Francesco del quondam Giò Maria da Visso di anni 18 pastore con
Rossalia.
Addì 21 mag. Agostino di Gio Batista Torello da La Penna di Bille di anni 21 homo di
campagna venne con febbre.
Addì 21 mag. Francesco di Domenico Ferroni di Pistoia di anni 11 venne con
Rossalia.
Addì 22 mag. Francesco di Antonio Di Marco dell’Aquila di anni 14 monello venne
con Rossalia.
Addì 22 mag. Antonio di Felice da Bologna Bastardo di anni 14 monello venne con
Rossalia.
Addì 22 mag. Mario di Gio Francesco Giovagnioli di Caprese di anni 18 cassengo con
Rossalia.
Curiosissima l’indicazione di questo ricovero:
Bartolomeo del quondam Girolimo di Christofano di Caprese di anni 89 poverello
venne con vecchiaia. Morto.
Bartolomeo di Gio Annucei di Fiesole di anni 20 homo di campagna venne con
Rossalia.
Andrea di Francesco di Gio Caprese di anni 10 monello con Rossalia.
Francesco del quondam Giorgio di Rinaldo di anni 45 homo di campagna venne con
febbre.
Domenico del quondam Silvio Rotondi di Visso di anni 25 butaro venne con febbre.
Gio Batista del quondam Francesco Alegrini da Gubbio di anni 25 homo di
campagna venne con febbre.
Gio del quondam Paulo Brandi di S. Agata di anni 55 vignarolo venne con febbre.
Pietro Antonio del quondam Francesco Zerbini di Carpegnia di anni 28 homo di
campagna venne con febbre.
159
Il termine un po' vago di “febbre”, o “febre” che contraddistingue il settanta per
cento delle cause del ricovero si riferisce, presumibilmente, alla malaria o ad altre malattie
infettive molto diffuse in questo periodo.
La malattia causò molte vittime nel cornetano in quanto il clima caldo e umido ne
favoriva lo sviluppo dell’infestazione anche se questo non ne costituiva una regola. In quei
tempi la malattia si riscontrava nella bassa valle del Po, nelle zone litoranee e fluviali delle
regioni settentrionali mentre nelle regioni centrali, tra cui l’Agro Romano, e soprattutto la
bassa Maremma, assumeva le forme più gravi con tendenza alle recidive ed una elevata
percentuale di mortalità.
Il concetto di palude erra sempre stato legato a quello di malaria senza che però da
tale legame scaturisse la vera ragione del male stesso. Solo più tardi con la scoperta delle
proprietà benefiche della corteccia di china, la malaria è stata differenziata dagli altri
eccessi febbrili. Ma nonostante tutto nei malati non curati o curati insufficientemente con
il chinino si osservano casi di recidive, ossia di ritorno del male. Il malato necessita di
un’assidua vigilanza quale solo può fornire un ambiente ospedaliero attrezzato. Ecco
spiegata la ragione dell’elevato tasso di mortalità anche nell’Ospedale di S. Croce di
Corneto.
Inoltre la malaria poteva esplicarsi sotto tre diverse forme febbrili (che quindi
venivano considerate sempre febbri):
La “Plasmodium vivax”, la più semplice dove l’accesso febbrile si ha al quarto giorno
e
La “Laverandia malariae” o febbre estivo-autunnale che dà una una febbre di titpo
continuo, quotidiano ed è la forma più grave, quasi sempre mortale.
Tra le malattie più diffuse in questo periodo (siamo negli inizi del XIX secolo)
bisogna menzionare anche la tisi, vocabolo oggi in disuso con cui si designava il periodo
più grave e terminale della tubercolosi, malattia infettiva dei polmoni che ha fatto
numerose vittime anche nel cornetano.
Sulla morte, per tisi, di una donna abbiamo una rara quanto ricca documentazione:
“Noi sottoscritti Medici condotti in questa città, avendo visitata per obbligo del
nostro impiego la signora Angela Rosa Marsuzi, abbiamo giudicato, e giudichiamo, che la
medesima sia attaccata da un tabe polmonare del genere delle contagiose.
Che
è
quanto, in fede Corneto 16 settembre 1802. Luigi De Bernardis, dico ed affermo mano
propria, Ciriaco Camerari, dico ed affermo mano propria”. Sull’autopsia eseguita alla
donna risulta questo documento:
160
“Sig. Vice Commissario di Corneto. Essendosi per ordine di questo tribunale
sezionato il cadavere di Angela Rosa Marsuzi, morta col sospetto di tisichezza, si è da me
sottoscritto medico osservato, che i di lei polmoni non erano più viscere spugnose, di una
sostanza cavernosa e vascolare, ma bensì ‘l destro lobo molto diminuito nella sua naturale
mole era un intero ammasso di tubercoli, parte duri, e parte suppurantivo; ed ‘l sinistro
lobo era quasi interamente consunto da una icorosa suppurazione, e quella piccola
porzione che restava, era ancora essa piena di tubercoli, che affatto ne avevano cambiato la
naturale sostanza, motivo per cui sono certo parere, che donna Angela Rosa sia morta per
una tabe tubercolare dei polmoni, di sua natura contaggioda, tanto posso e debbo deporre,
ed affermare di averlo veduto, e toccato con mano, e di certa scienza. In fede Corneto 30
settembre 1802”.
“Ciriaco dott. Camerari medico condotto. Exhibitus die prima octobris. Petrus
notarius et cancellatius criminalis. Nota. Di tutte le robbe rinvenute nella stanza, nella
quale passò all’altra vita Angela Rosa Marsuzi sospetta di Etisia, come in appresso. Un letto
compost da un materasso, pagliaccio, due lenzuola, tre cuscini con fodera, coperta bianca,
tavoli e due banchi di ferro. N 11 quadri, n. 6 sedie, un lavamano di legno con sua
baccinetta, un tavolinetto di legno con suo tiretto con entro un pettine e tre ciambelle, una
polacchina di seta e un... bianco, un fazzoletto torchino da naso, un abito di Calangà, una
tenda di seta gialla, altra bianca da finestra con soprafinestra di legno. Quali robbe furono
chiuse di chiave nella medesima stanza e quelle portate in curia per ogni buon fine,
presenti a detto atto Giuseppe Benedetti del quondam Luigi Cornetano, e di Antonio fr.lli
da Caprarola testimoni chiamati e rogati. Corneto questo di 2 ottobre 1802. Così è Pietro
Bovi notaro pubblico e cancellier criminale. Delle suddette cose dichiaro ‘l medico a riserva
de banchi di ferro, esser tutte sospette di contagio”.
Proprio temendo il propagarsi del contagio, si diede inizio alla procedura per
eliminare tutti gli oggetti venuti in contatto con la defunta.
“Illustrissimo e molto eccellentissimo Signore. Qui annessi troverà fogli che ci ha
trasmessi riguardanti l’ultima malattia della defunta Angela Rosa Marsuzi; risultando da
essi fogli il sentimento del medico di essere cioè suscettibili le robbe rinvenute nella stanza
della defunta, si contenterà Vs. richiamare a se il medico curante e coll’assistenza di esso e
del notaio di lei tribunale venire all’incendio delle suddette robbe suscettibili, ritornando a
noi in seguito i fogli suddetti con quest’altri che sarà di fare sull’incendio riferito. Così farà,
che siegna, e Dio la prosperi. Civitavecchia 12 ottobre 1802. Affezionatissimo per servirla.
A. Negrete Governatore generale”.
161
Questa la lettera di risposta al Governatore Generale:
“Die 13 Octobris 1802. Comparse in cancelleria criminale signor Giuseppe Selli.
Pervenutami in questo punto una lettera di Sua Eccellenza Reverentissima Monsignor
Negrete Governatore di Civitavecchia, diretta a questo Governo, nella quale si commette di
incendiare le robbe sospette di etisia inventariate nella stanza, in cui passò all’altra vita la
fu Angela Rosa Marsuzi alla presenza del sig. Ciriaco Camerari medico curante, in data lì
12 corrente, che in un foglio esibisco del tenore, facendo istanza che li si dia pronta
esecuzione”. (Colloc. Archivio Storico Comunale di Tarquinia: Serie Sanità 1802).
Appare chiaro come allora non si nutriva una certa fiducia nei confronti
dell’ospedale e della struttura sanitaria in generale. Molta gente ricorreva alle cure
mediche preparate in casa, in quanto la parola ospedale incuteva terrore e grandissimo
disagio. L’elevato tasso di mortalità riscontrato era dovuto non tanto alla inefficacia dei
medici quanto alle carenze strutturali ed igieniche che caratterizzavano gli ospedali di quel
periodo. Ed anche allora non mancavano proteste e ricorsi. Ecco, in particolare una
protesta ufficiale di un paziente rivolta alla “Segreteria Pubblica Maggistrale” della città di
Corneto:
“Die 16 luglio 1804
E’ comparso nella Segreteria Pubblica Maggistrale della città di Corneto Luigi de
Santis Birro della stessa città, il quale ha reclamato come appresso, cioè: nei primi giorni
del corrente mese di luglio ebbi la disgrazia di andare infermo nell’Ospedale di S. Croce di
questa medesima città, dove rimanendo curato dal Sig. Dott. Luigi de Bernardis, in vista
della qual cura giornalmente mi faceva delle ordinazioni, ed in particolare di alcuni
bocconi, che mai mi vennero dati, ma bensì delle bevande che, riconosciute dallo stesso
Professore, il medesimo si formalizzò grandemente, avendo usata la prudenza di non
parlare, ed oltre a ciò è rimarchevole che quel Priore ad ogni occasione mi diceva, che se ‘l
medico mi domandava se avevo preso le medicine ordinatemi gli avessi risposto di sì,
conforme ero astretto di fare, attesoché alla venuta di esso medico, mi faceva cenno che
avessi risposto di sì, avendomi in ultimo licenziato dall’ospedale con tutte le febbri, delle
quali ne sono rimasto libero per un vero prodigio.
Che perciò in vantaggio dell’umanità ne faccio ‘l presente rapporto, affinché vi si
appresti, l’opportuno riparo, potendosi sentire in contestazione dell’esposto, ‘l nominato
Sig. Dottor De Bernardis. Luigi de Santi. Davide Chiarini affermo quanto sopra”. (Colloc.
Archivio Storico Comunale di Tarquinia: Serie Sanità 1804).
Nel 1800 i registri venivano aggiornati in modo sempre approssimativo anche se
erano corredati da più notizie. Il registro era più ampio, ed era formato da due pagine,
162
nella prima era indicato l’ingresso, nella seconda l’uscita. Nella prima pagina in particolare
era indicato in sequenza il numero del letto, l’anno, il giorno, il mese, il nome ed il
cognome dell’infermo, le qualità più i dati anagrafici (chiamate “identiche”). Nella seconda
pagina del registro erano indicati nell’ordine il giorno di uscita e le ragioni dettagliate
dell’uscita. A differenza dei registri settecenteschi, compare anche il nome del medico, la
scrittura appare più leggibile e abbastanza corretta, non sono inoltre specificate
accuratamente le cause del ricovero che ricalcano quelle dei registri antecedenti ed anche
in questi predomina la causa della febbre, tanto da rendere la sequenza monotona e non
particolareggiata.
Riportiamo di seguito alcuni passi tratti da un registro degli infermi dell’Ospedale di
Santa Croce di Corneto. Siamo nel 1813
Ottobre 1813
- 5 Ottobre 1813. Biagio Eusebio. Figlio delli defunti Domenico e Brigida di Farnese
diocesi di Acqua Pendente professione guardiano, ammogliato entrò con cancrena nella
coscia asserendo di essere povero e indigente. 6 Novembre 1814. E’ sortito da questo
ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Biagio Eusebio. Appare morto alle ora 3
pomeridiana del suddetto male.
- 6 Ottobre 1813. Domenico Merlini figlio di Giovanni e di Maria diocesi di
Macerata, anni 23 professione bifolco, giovane entrò con febbre asserendo di essere di
condizione povera e indigente. 30 Ottobre 1813. E’ sortito da questo ospedale degli uomini
di S. Croce il dicontro Domenico Merlini, appare guarito dalla sua infermità.
- 6 Ottobre 1813. Luca Ricci figlio delli defunti Agostino e Lucia di Castel Porto,
diocesi della Città di Castello di anni 34, professione contadino ammogliato con Lucia
Ciglione entrò con febbre asserendo di essere di condizione povera e indigente. 9
Novembre 1813. E’ sortito da questo ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Luca
Ricci. Appare guarito dalla sua infermità.
- 7 Ottobre 1813. Giuseppe Cefanetti figlio di Michele e di Maria Domenica Della
Penna di Billi anni 26 professione contadino, giovane entrò con febbre asserendo di essere
di condizione povera e indigente. 3 Novembre 1813. E’ sortito da questo ospedale Giuseppe
Cefanetti. Appare guarito dalla sua infermità.
- 7 Ottobre 1813. Marco Maggi figlio delli defunti Giuseppe e Francesca di Monte
Maggio, diocesi di S. Marino di professione vignarolo, giovane, entrò con febbre asserendo
di essere di condizione povera ed indigente. 8 Novembre 1813. E’ sortito da quest’ospedale
degli uomini di S. Croce il dicontro Marco Maggi. Appare guarito dalla sua infermità.
163
- 7 Ottobre 1813. Leonardo Gagiotto figlio del fu Domenico e di Faostina, diocesi di
Gubbio anni 17, professione contadino, giovane, entrò con febbre asserendo di essere di
condizione povera ed indigente. 3 Novembre 1813. E’ sortito da quest’ospedale degli
uomini di S. Croce il dicontro Leonardo Gagiotto. Appare guardito dalla sua infermità.
- 17 Novembre 1813. Anastasio Meloni figlio delli defunti Giovanni e Margherita
della Valle di S. Anastasio diocesi della Penna di Billo, anni 32, ammogliato con Maria
Oliva, entrò con mal venereo, asserendo di essere di condizione povera ed indigente. E’
sortito da quest’ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Anastasio Meloni. Appare
guarito dalla sua infermità.
- 17 Novembre 1813. Giuseppe Bordi figlio delli defunti Antonio ed Elisa di Monte
Melone, diocesi di Macerata, anni 36, professione contadino, ammogliato con N.N. appare
scapulo, entrò con mal d’orecchio, asserendo di essere povero ed indigente. E’ sortito da
questo ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Giuseppe Bordi. Appare guarito dalla
sua infermità.
- 17 Novembre 1813. Giacomo Morelli figlio delli defunti Giovanni e Caterina di
Carpano, diocesi di Lucca, anni 21 professione muratore, giovane, entrò in quest’ospedale
con febbre asserendo di essere di condizione povera ed indigente. E’ sortito da questo
ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Giacomo Morelli. Appare guarito dalla sua
infermità.
- 18 Novembre 1813. Francesco Jaconi figlio del fu Giacomo e Sbatina, diocesi di
Bagnorea, anni 55 professione contadino, ammogliato... entrò con febbre asserendo di
essere di condizione povera ed indigente. E’ sortito da quest’ospedale degli uomini di S.
Croce il dicontro Francesco Jaconi. Appare morto alle ore 3 della mattina.
- 19 Novembre 1813. Domenico Merlini figlio di Giovanni e di Maria... diocesi di
Macerata, anni 23, professione contadino, giovane, entrò con febbre asserendo di essere di
condizione povera ed indigente. E’ sortito da quest’ospedale degli uomini di S. Croce il
dicontro Domenico Merlini. Appare guarito dalla sua infermità.
19 Novembre 1813. Domenico Mariani figlio delli defunti Lorenzo ed Antonia,
diocesi di Cammerino, anni 20 professione contadino, ammogliato... entrò con febbre
asserend di essere di condizione povera ed indigente. 29 Novembre 1813. E’ sortito da
quest’ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Domenico Mariani. Appare guarito dalla
sua infermità.
Nel 1804, nel timore di una epidemia di peste, proveniente da territori limitrofi,
furono adottati dei provvedimenti allo scopo di salvaguardare l’incolumità di tutte le
popolazioni. Ecco lo scambio di lettere con cui si chiedeva l’isolamento dei presunti
164
portatori del morbo: “Molto Illustre ed Eccellente Signore. Si è ricevuta la lettera di V.S. in
data di ieri diretta a questo governo e consegnata dal capo Landi di codesta torre, in vista
della quali li due indicati provenienti dalla Toscana sono stati posti con le debite cautele in
questo lazzaretto inappresso ella invigilare, che introducendosi altri da simile provenienza
non commercino con veruno, al che suppongo si saranno già dati gl’ordini corrispondenti
da S.E. Reverendissima Monsignore. Mio governatore generale altro dovendole le auguro
dal cielo ogni bene. Di V. Signoria. Civitavecchia 5 novembre 1804 Affezionatissimo per
servirla Sua Eminenza Rev.ma Mons. Gov. Ge. G. Daligne Luogotenente Generale”.
“Illustrissimo e Molto Eccellente Signore. Ho ricevuto il rapporto originale dato in
codesta cancelleria da Mattia Ajelli. Conviene ed interessa sommamente che ella faccia fare
tutte le possibili indagini per riscoprire se in cotesto territorio trovasi Toscani introdotti
clandestinamente. In caso affermativo Ella li farà immediatamente arrestare con tutte le
robbe servate le cautele di Sanità, cioè senza che alcuno venga a contatto con i medesimi
arrestati che saranno li trasmetterà qui con le medesime cautele.
Intanto le accludo Copia di Editto della Sagra Consulta. E Dio la prosperi. Di V.
Signoria Montalto di Castro 19 nov. 1804 Commissario Corneto con Editto
Affezionatissimo per servirla a Negrete Delegato Apost.
Ed ecco infine le “determinazioni”fissate dal governatore il 20 novembre 1804:
“Inerendo alle disposizioni dell’Editto della S. Consulta emanato li 17 andante oltre
le Providenze prese dal Governo in una congregazione particolare si è stimato opportuno
di fissare le determinazioni seguenti fermo sempre rimanente quanto nell’Editto suddetto
prescrive. Primo - La Deputazione eretta di Sanità è composta per ora dai seguenti
membri: Signori Pietro Petrighi, Francesco Ronca, Guido Raffi, Gaetano Falzacappa,
Arcangelo Lucidi; Pietro Lante Bruschi, Luc’Antonio Falzacappa, Giovan Battista Bruschi,
Pietro Catalini, Salvatore Lastrai, Francesco Castellani. Secondo - La suddetta deputazione
dovrà vigilare sopra tutti i forestieri, che dovranno introdursi in questa città e territorio ed
esaminare i passaporti secondo le istruzioni che si daranno. Il Sig. Guido Raffi, uno degli
attuali Conservatori è autorizzato di sistemare la Deputazione suddetta per dividerne i pesi
e per distribuire le attribuzioni che ne derivano giusto le istruzioni del Governo.
Terzo - Tutti quelli che hanno delle persone in campagna addette al loro servizio,
tanto direttamente che indirettamente, dovranno entro il termine di due giorni
presentarne il ruolo alla cancelleria Criminale, col nome, cognome e patria ed esibirne
copia conforme. Quarto - Non potrà alcuno della giurisdizione benché Privilegiato,
prendere al suo servizio alcun individuo proveniente da luoghi vicinori o lontani sia dello
Stato, e molto meno senza licenza del Governo.
165
Quinto - Qualunque individuo che siasi introdotto nella città e territorio per servizio
di chiunque, e da chiunque abbia ricetto debba denunziarsi immediatamente al governo.
Finalmente e nonostante le provenienze suddette qualunque persona che non fosse di
permanenza in città, benché addetta al servizio di campagna e che volesse entrare nella
città stessa debba esibire alle Porte il Biglietto di sanità che verrà rilasciato dalla Segreteria
gratis altimenti non avrà ingresso. Avverta pertanto ognuno di esattamente obbedire sotto
le pene prescritte nell’Editto nominato, poiché in materia tanto gelosa si procederà col
dovuto rigore contro qualsiasi trasgressore.
Data dalla residenza di Corneto questo dì
20 nov. 1804 Francesco Ciancaleone Governatore”.
L’Ospedale di Santa Croce si trasferì nel 1933 nel complesso attualmente operante.
Il vecchio ospedale fu utilizzato come sede della Gioventù Italiana del Littorio (G.I.L.) fino
a quando i bombardamenti della seconda guerra mondiale lo danneggiarono gravemente.
Attualmente è utilizzato per abitazioni. In questa breve trattazione si è cercato di mettere
in evidenza i retroscena, positivi o negativi, di un complesso ospedaliero considerato molto
importante all’epoca, estrapolando per quanto possibile, e non di certo estrema facilità,
quei dati nascosti ed inediti. Bisogna considerare che gli ospedali che noi conosciamo, si
sono evoluti soprattutto in questo ultimo secolo con l’adeguamento delle condizioni
sanitarie ai moderni criteri igienici. Gli ordini religiosi con tradizioni di infermierato
hanno lasciato il posto al progresso nel campo delle diagnosi e della cura che hanno reso
l’ospedale moderno una istituzione estremamente complessa, tanto che molti dei pazienti,
siano essi degenti o vi si rechino per esami, si rendono solo parzialmente conto dei servizi
esistenti dietro le quinte.
Mentre nei secoli passati si guardava all’ospedale con terrore oggi, nonostante tanti
problemi non ancora risolti, ci si avvicina con fiducia perché solo in questo secolo siamo
arrivati a comprendere come funzionino realmente una mente ed un corpo sani; e sebbene
le cure sanitarie moderne si biasino ancora in parte sulle tradizionali conoscenze
empiriche, esse si avvalgono sempre più delle analisi e delle scoperte scientifiche.
Giulio Cesare Giannuzzi
166
C’ERA UNA VOLTA A TARQUINIA
Storia di un cavallo e di un fantino.
In questo nostro BOLLETTINO dell’ANNO 1990, ho ritenuto cosa buona riportare
integralmente quanto ebbi a scrivere trent’anni fa, per richiamare alla memoria di coloro
che vissero quel periodo ormai lontano la storia di un eccellente fantino di nome
GUGLIELMO FABBRIZZI e di un meraviglioso cavallo di nome VALENTINO.
Negli anni venti, l’ippica era lo sport più sentito e seguito dai tarquiniesi ed il
momento che ricordo fu uno dei più belli e prestigiosi che resero famosa la nostra città
oltre i ristretti confini della provincia. Ciò detto lasciamo parlare i protagonisti di quel
brillante momento
“Qualche decennio fa l’Ippica dettò legge tra la nostra gente. Esisteva anche una
Società Ippica Tarquinia ed il Presidente era il sig. Dorindo Proli sotto il cui appassionato
impulso la Società si fece un nome, imponendosi spesso all’attenzione degli addetti ai
lavori di varie parti d’Italia grazie alla qualità dei cavalli e dei fantini.
Altro che calcio!
167
E guai se un simile spettacolo non trovava posto nel programma delle tradizionali feste
popolari di maggio in onore della Patrona Maria Santissima di Valverde. I comitati
organizzatori di allora dovevano preoccuparsi principalmente di questo male comune ed
accontentare un po' tutti con un nutrito programma di corse col fantino che costituiva il
piatto forte dei festeggiamenti. Oggi, purtroppo, nessuno parla più di queste cose, nessuno
pensa più alle famose corse di cavalli col fantino. Gli uomini di oggi puntano altrove lo
sguardo per trovare altri divertimenti per un pubblico sempre più esigente ed
incontentabile, dai gusti più svariati e difficili.
Chi non ricorda quei bei tempi? Tempi più semplici e forse migliori di quelli che
attualmente viviamo anche se oggi, un OGGETTO MERAVIGLIOSO, un ordigno spaziale
creato e guidato dall’uomo e che ha del divino, gira meravigliosamente attorno al nostro
pianeta e ci dice che non è più possibile rimanere ancorati in eterno al passato e che la
LUNA, per secoli cantata, ammirata e sognata, sta per essere conquistata. Furono il 1925, il
1926 ed il 1927 gli anni più belli e più felici per gli appassionati di questo sport ormai al
tramonto; gli anni che dettero le maggiori soddisfazioni e le più belle vittorie. La presenza
di varie scuderie di fama come la Scuderia Alto Lazio del cav. Fancelli, la Daria di Firenze,
la Scuderia Conte Marini di Orvieto, la Scuderia Copponi di Tuscania, la Scuderia Proli di
Tarquinia ed altre minori, in possesso di cavalli di grande valore contribuirono in maniera
decisiva allo sviluppo ed alla affermazione di questo sport. Ma come ricordare tante cose
appartenenti ormai ad oltre un trentennio fa? Per farlo abbiamo pensato di avvicinare un
caro amico, un ottimo fantino che tutti conoscono ed al quale brillano gli occhi al semplice
ricordo del “suo” magnifico cavallo e delle imprese delle quali furono primi attori. E’
Guglielmo Fabbrizzi, tarquiniese puro sangue come e più del cavallo che montava. E
Guglielmo ci parla della sua carriera e delle sue corse con una memoria ed un calore
sorprendenti e addirittura commoventi quando entra in scena “Valentino”.
“VELENTZIUM” meglio conosciuto col nome di Valentino - è Guglielmo che parla era un cavallo ungherese della razza Siroland, arrivato fino a noi in seguito alla squalifica
che aveva colpito cavallo e cavaliere. Un cavallo meraviglioso nella linea, intelligentissimo,
potente, insofferente a qualsiasi richiamo. La sua grave lacuna era la partenza. Infatti non
partiva e quando lo faceva avveniva sempre in ritardo, fermandosi spesso lungo il percorso.
Fu acquistato dallo scomparso Domenico De Simoni, appassionato allevatore locale, per
duemila lire. Vari fantini si avvicendarono alla monta del “ribelle” ma senza alcun risultato.
Fu nel 1926 che io lo ebbi in consegna. Ne feci di tutti i colori per ridurlo alla
ragione, per fargli capire cosa volevo da lui. Fu un lavoro duro, difficile, pieno di incognite
e di incertezze sulla raggiunta maturità del cavallo. Arrivammo così al famoso maggio, alle
168
feste popolari e, con le feste, alla discesa della Scuderia dell’Alto Lazio di proprietà del cav.
Fancelli: cavalli puro sangue, montati da ottimi fantini cui non facevano difetto il mestiere
e la capacità. Chi non ricorda “Marcellina”, “Jolanda”, “Penigus” ed altri? Fancelli, nel
timore di perdere, tentò in extremis un accordo con De Simoni, ma tutto fu vano. De
Simoni, orgoglioso ed avvelenato per l’andamento negativo delle prime corse, voleva la
rivincita a tutti i costi. E sulla pista del “Paparello” avvenne il battesimo del fuoco e con
esso la vittoria. Vinta la batteria mi trovai in finale con “Marcellina”, montata da Fernando
Gentili e “Jolanda” montata da Titino. Il cavallo difettava alla partenza? Così fu! Partì
dopo, quando cioè le altre due avevano preso il via. Fu una corsa bellissima. Il cavallo
docile ed obbediente al più piccolo sollecito, volava. Arrivai primo! Venne poi la vittoria a
Cura di Vetralla in occasione della inaugurazione di quella pista. C’era una folla immensa
quel giorno, proveniente da tutto il Lazio e particolarmente da Roma. Starter era il
Marchese Scarampi. “Valentino” tagliò primo il traguardo in mezzo ad una folla festante.
Oosì anche a Grotte di Castro, starter il sig. Curti parente del cav. Fancelli.
Una
grande predica prima della corsa con la promessa di una ottima cena. Vinsi la batteria e mi
presentai in finale con “Penigus”, “Miscodette” e “Ughs”, tutti e tre del cav. Fancelli. Come
al solito mi portai indietro per andare sui segnali. Gli altri tre invece mi aspettavano sul filo
di partenza. Non ero ancora al posto quando lo starter suonò. Rimasi fermo, bloccato,
mentre i miei avversari erano già lontani. Parto? Non parto? Ancora un attimo di
indecisione poi... via come il vento. “Valentino” sembrava un bolide. Oltre mezzo giro mi
divideva dai cavalli in fuga. Feci in tempo di vedere De Simoni appoggiato allo stecconato,
testa tra le mani. Mi fece pena, tanta pena. Ma non mi perdetti d’animo. Sentivo che il
cavallo rispondeva in pieno al mio richiamo, alle mie parole appassionate; sentivo man
mano che la sua azione poderosa aumentava sempre più, che tutto ancora non era perduto.
La speranza di raggiungerli prendeva corpo e sostanza. All’inizio del secondo giro eravamo
tutti insieme! Piazzati a ventaglio i tre non mi lasciavano passare. Questa mossa determinò
la loro irrimediabile sconfitta. Volutamente rimasi indietro per permettere al cavallo di
riprendere fiato poi... via ancora con una forza ed uno stile impressionanti. Entrai in mezzo
come un fulmine. E mentre i tre schizzavano al lato come due palle di bigliardo colpite nel
mezzo da una terza, mi presentai primo al traguardo. Tante altre vittorie, una più bella
dell’altra, vennero più tardi fino a che, per motivi di vario genere, dovetti abbandonare la
Scuderia De Simoni e con essa “Valentino”.
Passò del tempo e del cavallo seppi soltanto che non correva più perché nessuno
riusciva più a montarlo. In breve dimenticò quanto gli avevo insegnato per ritornare ad
essere “il ribelle” del passato. Abbandonato, sfuggito, bastonato a sangue, divenne presto
169
una larva del magnifico animale. Quando lo rividi mi si strinse il cuore. Lo chiamai! Mi
rispose con un nitrito fiacco, accorato, triste. Appena gli fui vicino sembrò di assistere
all’incontro di due persone che si rivedevano dopo lunghi anni di pene e di peripezie. Lo
ripresi sotto le mie cure incurante del giudizio di tutti coloro che non mi nascosero
l’inutilità dei miei sforzi. Ma ancora una volta ebbi ragione di tutto e di tutti. Lentamente il
cavallo riprese fino a ritornare quello dei tempi d’oro. Un animale meraviglioso che non
dimenticherò più dovessi vivere in eterno”.
Così dicendo due grosse lacrime scesero lungo le gote del miglior fantino che abbia
avuto Tarquinia.
E’ una storia vera, questa, una storia che i più vecchi sicuramente ricordano ancora
e che potrebbero sempre confermare. Una storia che vive e vivrà sempre nel cuore
dell’unico fantino che seppe comprendere un cavallo veramente superbo, dai mezzi
veramente eccezionali.
Giuseppe Santiloni
ATTIVITA’ DELL’ANNO 1990
170
Il 1990 avrebbe potuto essere un anno più fecondo di iniziative e di realizzazioni se
il tempo, purtroppo spesso invano per l’operazione “acquisto porzione Palazzo dei Priori”,
non avesse impegnato il Consiglio per oltre sei mesi.
Volevamo rendere più ampia e prestigiosa la Sede, già bella, della nostra SOCIETA’.
Volevamo farne un centro più idoneo e capace di soddisfare le crescenti esigenze e le
continue richieste che ci provengono da più parti per motivi di cultura, di arte, di studio.
In omaggio (o in ossequio) al nostro Statuto Sociale, volevamo restituire alla nostra
città, completamente restaurato, un altro piccolo pezzo del suo immenso patrimonio
artistico. Eravamo ormai sul rettilineo di arrivo della conclusione allorché, un intervento
esterno del tutto imprevisto ed imprevedibile, ci ha impedito di toccare il traguardo.
Inutile dilungarci a parlare ancora di un episodio deplorevole sotto ogni aspetto che i soci
che ci seguono di più conoscono sufficientemente, per cui mettiamoci una pietra sopra e
passiamo a ricordare l’attività svolta nei residui sei mesi dell’anno in esame. Si tratta di
una serie di manifestazioni forse non esaltanti ma pur sempre interessanti ed importanti,
alcune delle quali potrebbero anche essere sfuggite alla massa dei nostri concittadini soci e
non soci, ma che si sono puntualmente svolte grazie appunto all’impegno del Consiglio di
Amministrazione che ha operato attivamente acciocché Tarquinia, i tarquiniesi e la Società
stessa ne traesse i giusti benefici.
All’interno della Sede si sono svolti:
a) il primo Corso di cultura cinese tenuto dal prof. Salviati Filippo;
b) il primo Corso di archeologia tenuto dal prof. Giannini Paolo;
c) il secondo Corso di Egittologia tenuto dalla prof. Gloria Marinucci sotto il titolo
“INTRODUZIONE AI GEROGLIFICI” conclusosi con regolare esame finale e conseguente
rilascio del certificato di partecipazione e frequenza;
d) il primo Corso di musica tenuto dal Prof. Mastrini Maurizio dell’Accademia
Nazionale d’Arte Musicale di Perugia, per lezioni di pianoforte, violino, chitarra,
fisarmonica, flauto, clarinetto, tromba, organo compreso il canto e la storia della musica. I
programmi, pareggiati a quelli del Ministero della Pubblica Istruzione saranno portati a
compimento nei primi mesi dell’anno 1991 e prevedono il regolare esame di fine anno;
e) dal 25 luglio al 5 agosto si è svolta una serie di Concerti d’intesa con
l’ASSOCIAZIONE MUSICA E TRADIZIONE nella Sede della Società ed in Santa Maria in
Castello;
f) prima mostra della Ceramica organizzata di concerto con l’Azienda Autonoma di
Soggiorno e Turismo dell’Etruria Meridionale sotto il titolo “LA DONNA NELLA
CERAMICA DEL MEDIOEVO E DEL RINASCIMENTO”. Inaugurata nella Sala “Sacchetti”
171
il 24 Agosto 90 l’intereressante rassegna, accolta con unanime consenso, è rimasta aperta
fino al 9 settembre per trasferirsi successivamente a Faenza dal 14 al 23 dello stesso mese e
quindi a VITERBO dal 28 settembre al 4 ottobre.
Si sono svolte inoltre due gite culturali; la prima al Castello di Santa Severa con
visita agli scavi di una villa romana a Tolfa e la seconda a Ninfa, Terracina, Sperlonga,
Gaeta.
All’interno della Società si è provveduto al rifacimento totale dello Schedario dei
Soci ed alla stesura dell’INVENTARIO dei beni mobili e immobili della Società
Tarquiniense d’Arte e Storia mai esistito in passato.
E’ stato completato e schedato tutto il materiale artistico delle nobili famiglie
Bruschi-Falgari e Quaglia da parte del dott. De Dominicis Claudio dell’Archivio Segreto del
Vaticano.
L’anno 1990 si è chiuso con la mente rivolta al 1991 nel corso del quale desideriamo
offrire manifestazioni più impegnative e di maggiore interesse. Ma di queste si parlerà nel
Bilancio di Previsione che verrà presentato alla ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA
DEI SOCI convocata per l’approvazione del Bilancio 1991.
Il Consiglio d’Amministrazione
APPENDICE AL GLOSSARIO CORNETANO
A
Accannare (v.)
- Rimanere senza respiro per il taglio della carotide, detta
volgarmente canna. Vale a dire scannare.
Affienare (v.) - Foraggiare, ma in senso figurato: ossia sostenere alcuno
con ogni mezzo in azioni specie politiche e speculative.
(derivazione da fieno o foraggio).
Aggàdio (s.)
- Angustia, pena. (vedi aggadiare) Etimologia incerta.
Avvezzare (v.)
- Tirarsi dietro qualcuno, rimorchiare, condurre altri
secondo un proprio vezzo.
Avvinare (v.) - Piccola operazione che fanno i beoni all’osteria.
Consiste nel versare una modesta quantità di vino in uno
dei bicchieri, riversarla, dopo averla bene sciacquata, negli
172
altri bicchieri della comitiva, come una operazione rituale.
Laddove non c’è acqua corrente per cui i bicchieri vengono
appena lavati in un’unico recipiente, tale operazione ha
soprattutto lo scopo di disinfettare il bicchiere e togliere ad
esso ogni odore di sapone o di altro detersivo che
potrebbero alterare il sapore.
B
Bocconotto (s.)
- Tipo di pasta alimentare di grosso formato di forma
cilindrica da riempire con salsa e con carne. In senso
figurato, ha riferimento ad azione sessuale. (derivazione da
boccone).
C
Cardo sumarino (s.) - Tipo di cardo non edule che cresce per estensione sul
terreno, dalle foglie carnose di un verde assai scuro.
Giosuè Carducci nella sua poesia “Davanti san Guido” lo
definisce “cardo rosso e turchino” rosicchiato da un asino.
Se
ne pascono i somari.
Cassabanco (s.)
- Usato per definire una persona eccessivamente
voluminosa e ingombrante. Derivazione da cassapanca.
Cordojjo (s.)
- Sta per cordoglio. Usato nella locuzione “dare il cordojjo”
per significare l’insistenza con cui una persona rinnova,
senza soluzione di continuità, una richiesta fino
all’esaudimento di quella.
F
Fico pazzo (s.)
- Pianta selvatica del fico e suo frutto.
G
Greppa (s.)
- C’è un modo di dire “mangiare le fave in greppa”, cioè
fave secche fritte in padella con l’olio. Forse in origine
doveva avere la forma di “fave in greppia”. Greppia cioè in
senso figurato, era la tavola e il cibo degli uomini.
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I
Imbaccanire (v.)
- Stordire qualcuno per il gran baccano che gli si produce
attorno.
Incapronata (s.)
- Mantenere per testardaggine una posizione sbagliata.
La parola deriva da caprone che ha dura cervice e robuste
corna.
Incularella (s.)
- Azione reciproca di sodomia fra due o più persone.
Ingrifare (v.)
- Eccitare in senso erotico. Il grifo, figurativamente, è il viso
dell’uomo che, al momento dell’eccitazione, muta fino ad
assumere aspetti animaleschi.
Inzecca (l.a.) - Usato nel modo di dire “all’inzecca” che vale come
tentativo di colpire un obiettivo senza certezza di centrarlo.
(vedi inzeccare).
R
Rappecettare (v.) - Rattoppare, mettere pecette per rimediare una rottura alla
meno peggio. Rappezzare.
S
Scacarellare (v.)
- Avere la cacaiuola (vedi cacarella).
Sfilaccioso (ag)
- Tessuto ridotto a sfilacce. Dal verbo sfilacciare.
Stoppolone (s.)
- Pianta selvatica simile al cardo sul cui stocco appare,
dopo la fioritura, come un fiocco di stoppa.
Strullotto (s.)
- Dicesi di persona di scarsa intelligenza. Grullo e sciocco.
T
Tormentone (s.)
- Critica o richiesta ripetuta più e più volte fino a dare
tormento a chi tarda a rispondere o a replicare.
Trullo (s.)
- Forma sincopata di citrullo.
V
Vejjo (s.)
- Mucillagine verde che cresce nei fontanili o nelle acque
stagnanti. Potrebbe avere origine dal detto francese “objet
en veille” che è l’oggetto non immerso, galleggiante,
visibile. Oppure dall’arcaico veglio che significa vello.
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Occorre non dimenticare che alla fine del ‘700 e per buona
parte dell’800, Corneto venne occupata e amministrata da
truppe francesi.
Bruno Blasi
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