Bollettino Completo 1990 - Società Tarquiniese Arte e Storia
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Bollettino Completo 1990 - Società Tarquiniese Arte e Storia
POGGIO CRETONCINI: NUOVE EVIDENZE SULLO SVILUPPO DELL’ABITATO DI TARQUINIA ANTICA 1. Descrizione del sito e storia delle ricerche Il toponimo, oggi desueto, di “Poggio Cretoncini” designa il pianoro posto a contatto del settore settentrionale del Pian della Regina, cui si lega tramite una breve e stretta sella 1 . Tale pianoro - di composizione geologica (sabbie argillose, conglomerati e calcari sabbiosi o raramente calcareniti) e di altitudine (100-130 metri s.l.m.) analoghe a quelle dell’adiacente Pian della Regina - è delimitato su gran parte del perimetro da fianchi ripidi, e si articola in tre lobi: uno meridionale a sommità piuttosto ampia e pianeggiante, e due di forma allungata che si protendono verso nord-est e nord-nord-ovest. L’estensione complessiva del pianoro si aggira intorno ai trenta ettari. Il sito è noto nella letteratura archeologica fin dal secolo scorso per il ritrovamento di tombe di età perlopiù romana 2) ; una generica segnalazione della presenza di ceramica “villanoviana” ed etrusca è stata effettuata nel 1968 da H. Hencken 3) . Nel 1989, nell’ambito della ricerca di Dottorato in Archeologia (Preistoria), è stato effettuato da M. Pacciarelli un sopralluogo che ha permesso di verificare la presenza di consistenti affioramenti di ceramiche protostoriche, riferibili ad insediamento, in tutta l’area del pianoro, nonché di resti di abitazioni etrusche e di presenze dell’età del Bronzo finale, riferite ipoteticamente a sepolture 4) . 1 Non si può escludere che la distinzione morfologica tra il pianoro di Cretoncini e il Pian della Regina sia stata accentuata artificialmente, in concomitanza con l’edificazione della cinta muraria urbana di età etrusca. Tale sella era percorsa comunque durante l’età storica da un tracciato viario, della cui esistenza testimoniano i resti tuttora visibili di un muro con probabile funzione di costruzione viaria e le tracce di porta nell’area di Casale Ruggeri (Canina, Etruria Marittima II , p. 35; P. Romanelli, Tarquinia - Scavi e ricerche nell’area della città, Not. Sc. 1948, pp. 198-199). La probabile costruzione viaria era stata già indicata nel XVI secolo da Sangallo il Giovane in uno schizzo topografico dell’area urbana di Tarquinii, in cui oltre al perimetro del pianoro urbano comprendente i Piani di Civita e della Regina, è chiaramente visibile anche l’adiacente pianoro di Cretoncini; v. M. Pallottino, Tarquinia, in Monumenti Antichi dei Lincei XXXVI, 1937, col. 92, fig. 13; B. Blasi, “Il Castello di Corneto e il suo monumento maggiore”, in Bollettino della Società Tarquiniense di Arte e Storia, 8, 1979 (ma 1980), p. 14, tav. II. 2) L. Pernier, “III. Corneto Tarquinia - Nuove scoperte nel territorio tarquiniese”, in Notizie Scavi, 1907, pp. 321-352, v. in particolare p. 348. 3) H. Hencken, Tarquinia, Villanovans and Early Etruscans, I, Cambridge (Mass.) 1968, p. 17. 4) M. Pacciarelli, “Area di insediamento dell’età del Ferro, reperti del Bronzo finale, tracce di edifici ellenistici, a Nord del pianoro urbano di Tarquinia”, lettera di segnalazione alla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, in data 10-2-1989. 1 Una prima carta generale degli affioramenti di ceramiche protostoriche è stata redatta da A. Mandolesi, nell’ambito del lavoro di tesi di Laurea sulla topografia protostorica di Tarquinia antica 5) . Nella primavera del 1989 è stata condotta da A. Mandolesi, M. Pacciarelli e M.R. Varricchio, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, una ricerca di superficie sistematica su un’area campione di tre ettari, situata nel settore meridionale del pianoro, che presenta migliori condizioni per la conservazione dei depositi archeologici; nel corso della ricerca sono state identificate notevoli aree di concentrazione di materiali protostorici, arcaici ed ellenistici e resti di tombe costruite in blocchi di nenfro di età orientalizzante, una delle quali, già parzialmente violata dai clandestini, è stata esplorata dalla Soprintendenza con una breve campagna di scavo 6) . Nell’estate del 1990 si è svolta una campagna di scavo in corrispondenza di un’area in cui, per la notevole concentrazione dei reperti protostorici affioranti e per la presenza consistente di argilla concotta, era ipotizzabile l’esistenza di strati di insediamento in giacitura primaria. Lo scavo è stato condotto da un gruppo di ricerca dell’Università “La Sapienza” di Roma per conto della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale e dell’Università Agraria di Tarquinia 7) . L’indagine ha portato all’individuazione di resti di strutture di età “villanoviana” ed etrusco-arcaica ed al ritrovamento di un notevole complesso di ceramiche domestiche “villanoviane” e di intonaci di capanna. In seguito ad arature profonde sono stati successivamente recuperati i resti di alcune sepolture dell’età del Bronzo finale, dei tipi entro custodia di nenfro e forse “a cassetta” di lastre calcaree (v. cap. 6). 5) A. Mandolesi, L’insediamento protostorico nell’area di Tarquinia antica e nel territorio circostante, tesi di laurea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma, (relatore prof. R. Peroni, cattedra di Protostoria Europea; correlatore F. di Gennaro), a.a. 1989-90. 6) A. Mandolesi, M. Pacciarelli, M.R. Varricchio, “Relazione preliminare su una ricerca di superficie sistematica effettuata in località Cretoncini (Tarquinia)”; Eidem, “Seconda relazione sulla ricerca sistematica di superficie effettuata in località Cretoncini (Tarquinia)”, relazioni presentate alla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale rispettivamente il 22-11-89 e il 16-5-1990. 7) Lo svolgimento dello scavo è stato reso possibile da contributi forniti dall’Amministrazione Comunale e dall’Università Agraria di Tarquinia, rispettivamente per le spese di vitto ed alloggio da parte dei partecipanti; la Soprintendenza Archeologica ha fornito l’assistenza tecnica. Si ringraziano in particolare il Sindaco G. Chiatti, la Giunta comunale e il commissario straordinario dell’Università Agraria A. Ceccarini per la sensibilità dimostrata e per il fattivo interessamento. Si ringraziano inoltre i Prof. G. Colonna e R. Peroni (Univ. “La Sapienza”, catt. di Etruscologia e Antichità Italiche e catt. di Protostoria Europea), che hanno appoggiato e stimolato la ricerca in ogni sua fase, il funzionario M. Cataldi Dini e l’assistente B. Maggi della Soprintendenza che hanno fornito una costante 2 2. Topografia generale degli affioramenti relativi ad insediamento. L’intera superficie del pianoro di Cretoncini risulta, ormai da decenni, soggetta a regolari ed intensi lavori agricoli (le arature raggiungono oltre i 40 cm. di profondità, cosa che in certi punti determina l’affioramento del substrato geologico) che hanno intaccato o distrutto, con il tempo, i depositi archeologici sepolti, determinando l’emergere in superficie dei reperti antichi in essi contenuti e una loro successiva dispersione sul terreno, anche a causa dell’azione del dilavamento praticato dalle piogge. Queste condizioni, se da una parte provocano un lento processo di distruzione dei giacimenti archeologici, hanno consentito di poter posizionare, su una base cartografica di piccola scala 8) , le principali aree di affioramento di reperti protostorici (prima età del ferro) riferibili ad insediamento, nelle quali sono stati rinvenuti soprattutto frammenti di ceramiche di uso domestico, tra cui vasi biconici, scodelle, tazze, grandi contenitori (olle, dolii), fornelli, utensili domestici quali fuseruole e rocchetti, e una certa quantità di argilla concotta (riferibile perlopiù a resti del rivestimento dell’intelaiatura lignea delle pareti delle capanne). Questi materiali archeologici, con diversi gradi di concentrazione, si rinvengono in coincidenza di chiazze di terreno molto scuro, chiaramente “antropizzato”, corrispondenti a depositi archeologici intaccati dai lavori agricoli e affioranti in superficie. Le aree di affioramento che presentano un alto grado di concentrazione del materiale archeologico, in buono stato di conservazione, e si trovano in coincidenza con terreno scuro “antropizzato” facilmente delimitabile, sono probabilmente da considerare in giacitura primaria o poco dislocata, rispetto alla posizione originaria del giacimento archeologico di provenienza, sepolto o distrutto dalle arature. La conferma che questo genere di affioramenti si trovi spesso in corrispondenza di strutture protostoriche sepolte, si è avuta durante lo svolgimento dello scavo del 1990, eseguito quasi sulla sommità del lobo meridionale del pianoro (v. cap. 4): l’indagine, praticata in un punto dove affiorava in associazione a terreno contenente evidenti tracce di bruciato, copioso materiale “villanoviano”, ha evidenziato la presenza, al di sotto di questa chiazza scura, di una cavità con riempimenti della prima età del ferro. La carta generale di Cretoncini, sulla quale sono state riportate le diverse aree di affioramento dei reperti “villanoviani”, individuate durante l’indagine di superficie, evidenzia la forte presenza di resti relativi ad insediamento su tutto il pianoro, assistenza tecnica, L. Silvestri per l’amichevole cooperazione. Hanno partecipato con assiduità allo scavo R. Benedetti, P. Cavaliere, L. Dominici, I. Gagliardi, C. Iaia, A. Mandolesi, E.. Massi, S. Sbarra, M.R. Varricchio. 3 testimoniando un’intensa occupazione dell’area; nella carta risulta evidente l’alternanza tra grandi e piccole zone di affioramento, poste a breve distanza tra loro. Gli affioramenti 9) , che presentano una buona concentrazione di reperti “villanoviani” e spesso una notevole estensione (tra i 1000 e 2000 mq.), si dispongono in modo diffuso sull’intera area del pianoro, separati da brevi spazi vuoti, dove cioè tali testimonianze sono pressoché assenti: possiamo notare come sulla sommità di ognuno dei tre lobi in cui si articola il pianoro di Cretoncini, sia presente un consistente affioramento di reperti protostorici, che potrebbe corrispondere a una cellula abitativa costituita da un gruppo di strutture residenziali e/o funzionali. Le evidenze di superficie sembrano evidenziare come l’insediamento delle prima età del ferro nell’area di Cretoncini avesse un carattere unitario, articolato in una serie di aree insediative, dislocate in modo da coprire l’intera superficie del pianoro, tra le quali sembrano distinguersi i tre nuclei principali suddetti, caratterizzati dalla maggiore concentrazione dei materiali. 3. Ricerca di superficie sistematica. Nella primavera del 1989 è stata effettuata da A. Mandolesi M. Pacciarelli, M.R. Varricchio un lavoro di ricerca sistematica di superficie, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica ed in particolare con il funzionario di zona M. Cataldi Dini. Un’area-campione di circa tre ettari è stata suddivisa in quadrati di m. 10 di lato, per ognuno dei quali è stata redatta una pianta in scala 1:100 su cui è stata riportata la posizione di ogni singolo frammento affiorante. I reperti considerati diagnostici, secondo criteri fissi di campionatura, sono stati raccolti, numerati nella pianta e contrassegnati, mentre i reperti considerati non diagnostici, perlopiù frammenti di parete, sono stati segnati nella pianta con simboli diversi corrispondenti a frammenti di intonaco, di impasto protostorico, di ceramiche di età storica o a materiali edilizi. La metodologia seguita nella presente ricerca è finalizzata all’archiviazione informatizzata dei dati, che quando sarà ultimata consentirà una agevole gestione della grande massa dei dati raccolti. Tra i principali risultati, percepibili ad una prima osservazione, si possono citare: il riconoscimento di aree ristrette con elevate concentrazioni di frammenti ceramici e di 8) La redazione di una carta archeologica dell’area di Cretoncini, in scala 1: 2000, è stata eseguita da A. Mandolesi, nell’ambito della ricerca sulla topografia protostorica di Tarquinia (v. nota 5). 9) Le aree di affioramento non corrispondono in realtà alla dimensione topografica dei depositi archeologici sepolti, in quanto i reperti visibili sul terreno hanno subito una dispersione causata dalle arature e dal dilavamento, quindi l’ampiezza dei giacimenti archeologici va sicuramente ridimensionata. 4 concotto, in corrispondenza di chiazze di terreno fortemente “antropizzato”, quasi certamente riferibili a giacimenti protostorici in situ di carattere abitativo; il ritrovamento di numerosi frammenti dell’età del bronzo finale; l’individuazione di resti di tombe dell’orientalizzante antico costruite con lastre di nenfro; la localizzazione di notevoli concentrazioni di tegole e vasellame di età arcaica ed ellenistica in connessione con affioramenti di blocchi squadrati di macco; il rinvenimento di un frammento di testa maschile barbata fittile (probabile antefissa) del V. sec. a.C. 4. Scavo di un settore dell’abitato. A continuazione della ricerca è stato intrapreso nell’estate 1990 uno scavo in una delle aree di affioramento di materiali “villanoviani”, apparsa particolarmente significativa per l’elevata densità dei frammenti affioranti, e per la presenza di abbondante concotto e di terreno fortemente antropizzato. Lo scavo, eseguito nel corso dell’estate del 1990 per conto della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, con il patrocinio del Comune e dell’Università Agraria di Tarquinia, da un gruppo di ricerca coordinato da M. Pacciarelli, ha consentito di portare alla luce una cavità poco profonda, di forma allungata irregolare (asse maggiore di m. 4 c.a.), attorno ai cui margini si sviluppa un’area di acciottolato; la fossa era riempita da un accumulo di argilla concotta (rivestimento di pareti di capanna, nel quale sono ben visibili le impronte della struttura lignea) frammisto ad abbondanti frammenti di vasellame (molti dei quali ipercotti), in gran parte ricongiungibili, pertinenti a numerose scodelle, ad alcuni fornelli, tazze, olle e vasi biconici; presenti inoltre rocchetti e fusaiole e parte di un vaso “a cestello”, eccezionale per un contesto abitativo è la presenza di un frammento di elmo crestato fittile. Il complesso, databile probabilmente in un momento avanzato della fase antica del primo Ferro, era sovrastato da un altro strato, caratterizzato da abbondanti carboni ed anch’esso assai ricco di reperti ceramici (tra cui un cavalluccio, non dissimile da esemplari presenti in corredi tombali), formatosi probabilmente nel corso della fase successiva. Gli strati protostorici sono tagliati da una fossa circolare, i cui riempimenti si datano a partire dagli inizi dell’età arcaica o dalla fine dell’orientalizzante in poi. Molto abbondanti i materiali anche nello strato arativo (dove insieme a molti frammenti di vasi d’impasto sono stati rinvenuti una fibula ed un frammento probabilmente di pane di bronzo). Anche se il contesto archeologico appare nell’insieme di palese carattere abitativo, l’interpretazione funzionale delle strutture è al momento attuale ancora sub judice. 5 5. Rinvenimento di sepolcreti “villanoviani” Sul pianoro di Cretoncini, oltre ai consistenti affioramenti di ceramiche “villanoviane” relative ad insediamento, si sono rinvenuti, in diversi punti dell’area, resti di piccoli nuclei sepolcrali riferibili cronologicamente alla fase recente della prima età del ferro, probabilmente caratterizzati dalla compresenza del rito incineratorio entro “ziro” e di quello inumatorio in fosse costruite con blocchi di nenfro. Le indagini di superficie svolte nell’area di Cretoncini hanno individuato finora tre nuclei sepolcrali “villanoviani”: il gruppo di tombe più consistente (forse costituito da alcune decine di sepolcri), spesso oggetto di scavi clandestini, sembra occupare la fascia marginale sud ed ovest del lobo meridionale del pianoro, occupando in parte l’area interessata precedentemente dell’abitato: la necropoli sembra costituita principalmente da tombe a inumazione entro fosse costruite (in blocchi di nenfro o lastre calcaree), riferibili cronologicamente ad una fase orientalizzante e forse anche ad un orizzonte avanzato della fase recente del primo Ferro. Gli altri due nuclei sepolcrali, di più limitate dimensioni, si dispongono, invece, all’estremità di due propaggini. Il primo occupa la punta di una breve lingua che si distacca dal margine occidentale del pianoro: in superficie, nei pressi di un affioramento di reperti ellenistici riferibili ad un edificio suburbano, si sono rinvenuti i resti di una tomba a “ziro”, costituiti dalla presenza di scheggioni di nenfro appartenuti probabilmente alla struttura della tomba e i frammenti del grosso dolio contenente in origine la cremazione. Presumibilmente, il nucleo sepolcrale era costituito da poche tombe (meno di una decina), vista anche la limitata ampiezza dell’area interessata dal complesso archeologico. Il secondo nucleo sepolcrale, probabilmente di poco più consistente del precedente, occupa l’estremità del lobo nord-occidentale di Cretoncini. Sul terreno sono visibili i resti di alcune tombe intaccate o distrutte dalle profonde arature: sono presenti numerose schegge di nenfro relative alle strutture delle tombe frazionate e diversi frammenti di grandi dolii (“ziri”), di vasi di corredo e scarsi frammenti di bronzo (lamine, parti di fibule a sanguisuga). In questo sepolcreto (forse costituito da circa una decina di tombe) il rito funebre sembra di tipo misto, con incinerazione in “ziro” e inumazione in fossa costruita (frammenti di blocchi di nenfro e lastre di calcare). Nel 1989 sono stati individuati, sulla sommità arrotondata di un piccolo poggio (quota IGM 126) posto immediatamente a settentrione del lobo nord-occidentale del pianoro di Cretoncini, gli scarsi resti - visibili lungo i fianchi e costituiti da schegge di 6 nenfro e pochi frammenti ceramici decorati con motivi “ a pettine” - di una piccola necropoli riferibile cronologicamente a una fase antica del “villanoviano”. Il poggio, che rientra nel toponimo “Cretoncini”, è soggetto da decenni ad intense arature che hanno forse ormai compromesso la conservazione dei depositi funebri; la necropoli, relativa probabilmente ad un settore dell’abitato posto sul pianoro di Cretoncini, era verosimilmente costituita da non più di alcune decine di tombe ad incinerazione entro pozzetto e/o custodia di nenfro. 6. Rinvenimento di sepolture dell’età del Bronzo finale. Già durante la prima esplorazione del 1989 che ha portato all’individuazione dell’area insediativa di Poggio Cretoncini, più avanti descritta, era stata rinvenuta una fibula serpeggiante di bronzo con arco a coste e grande molla, riferita ipoteticamente nella segnalazione ad una tomba dell’ultima fase del Bronzo finale. In seguito, nel corso e della ricognizione sistematica del 1989 e dello scavo del 1990 sono stati individuati numerosi frammenti protovillanoviani sporadici. Le recenti arature del 1990 ed alcuni scavi clandestini hanno poi portato in luce evidenti resti di sepolture tardo-protovillanoviane, diverse delle quali entro custodie sferoidali di nenfro (di cui erano visibili numerosi resti in superficie) e forse anche a cassetta di lastre calcaree 10) . In corrispondenza di un limitato scavo clandestino (forse relativo ad una tomba a cassetta) sono stati recuperati diversi frammenti pertinenti ad un vaso biconico d’impasto con decorazione a solcature e cordicella assai complessa, in parte confrontabile con quello dell’ossuario della collezione Bruschi, ma che trova d’altra parte notevolissime analogie con un esemplare da Poggio della Pozza 11) ; insieme sono stati raccolti parte di una ciotola e un frammento di rasoio con complessa decorazione incisa 12) 7. Cenni sulle evidenze di età orientalizzante, arcaica ed ellenistica. 10) M. Pacciarelli, “Scavi clandestini e identificazione di sepolture del Bronzo finale a Poggio Cretoncini (Tarquinia)”, lettera di segnalazione alla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale in data 14-11-1990. 11) Biconico coll. Bruschi: F. di Gennaro, “Contributo alla conoscenza del territorio etrusco meridionale alla fine dell’età del bronzo”, in Atti XXI Riun. Sc. Ist. It. Preist. e Prot., Firenze 1979, 267-274, in particolare p. 270, nota 5, fig. 3; M. Pacciarelli, Comunità protourbane dell’Italia tirrenica, tesi di dottorato di ricerca in Archeologia (Preistoria), Roma 1990, tav. 368. L’esemplare da Cretoncini trova un confronto estremamente puntuale con uno da Poggio della Pozza: H. Müeller Karpe, Beitrüge zur Chronologie der Urnenfelderzeit nördlich und sudlich der Alpen, Berlin 1959, tav. 26A, 11-12; O. Toti, I Monti Ceriti nell’età del ferro, Civitavecchia 1959, fig. 54. Da notare inoltre che lo schema decorativo a scansione metopale presente sul collo dell’urna di Cretoncini (in modo analogo che nel biconico della collezione Bruschi) è simile a quello che nella sepoltura di Allumiere è riservato al coperchio. 12) La decorazione visibile su entrambe le facce del frammento è probabilmente del tipo documentato in due rasoi bitaglienti del tipo Terni, entrambi di provenienza imprecisata (V. Bianco Peroni, I rasoi nell’Italia continentale, PBF VIII, 2, Monaco 1979, nn. 95 e 96, p. 22, tav. 8). 7 Gli unici dati riferibili alle fasi antica e media dell’orientalizzante sono quelli relativi alle due sepolture a fossa costruite in blocchi di nenfro, venute alla luce presso i margini sud-occidentali del pianoro. La presenza di schegge di nenfro in superficie nel terreno arato, fa pensare che altre sepolture dello stesso tipo potessero trovarsi sia nel medesimo settore sud-occidentale che all’estremità nord-occidentale del pianoro. Nessuna evidenza relativa ad insediamento è per il momento riferibile a questo spazio di tempo, compreso tra la fine dell’ottavo secolo a.C. e i decenni centrali del settimo. I più antichi materiali di età storica riferibili ad insediamento sono, per ora, quelli databili tra la fine del settimo e l’inizio del sesto secolo a.C., rinvenuti nello scavo del 1990; le evidenze di superficie databili tra l’orientalizzante recente e l’epoca alto-arcaica sono, comunque, complessivamente per ora piuttosto scarse. Sono, invece, state rilevate in più punti del pianoro aree di concentrazione di tegole, coppi e ceramiche di età tardo-arcaica ed ellenistica, in corrispondenza delle quali, in passato, sono affiorati durante le arature blocchi parallelepipedi di calcare locale, attualmente accatastati nelle immediate vicinanze. Nel corso della raccolta di superficie sistematica, all’interno di una di tali aree, è stata rinvenuta parte di una terracotta architettonica raffigurante un volto barbato (antefissa?) in impasto chiaro con tracce di pittura, databile al V secolo a.C. Ai piedi del lobo nord-orientale del pianoro sono presenti numerosi scavi clandestini nell’area di una necropoli costituita da tombe scavate nell’argilla sabbiosa (quindi di struttura non facilmente definibile a causa del precario stato di conservazione) di età probabilmente etrusco-romana: forse a tombe analoghe si riferiscono le scarne notizie relative a scavi del 1905. 8. Conclusioni: prima valutazione del significato storico delle evidenze archeologiche di Poggio Cretoncini. E’ ormai noto che la formazione delle grandi concentrazioni insediative “villanoviane” costituisce il diretto precedente storico della formazione delle principali città etrusche. Rimane tuttavia una assai ampia ed interessante materia di indagine circa le dinamiche storiche che hanno portato alla formazione dei grandi agglomerati “villanoviani” (che iniziano a formarsi probabilmente già attorno o poco dopo il 1000 a.C.), e la loro rapida trasformazione in vere città (avvenuta nel corso del VII secolo a.C.). I dati finora raccolti nel corso delle ricerche effettuate a Cretoncini, anche se in fase preliminare di elaborazione, permettono già di formulare alcune considerazioni di non 8 secondaria rilevanza in merito a tale problematica. Di un certo interesse appaino anche i dati relativi all’occupazione di carattere “suburbano” dell’area, riferibile ai periodi arcaico ed ellenistico. Le evidenze disponibili per l’età del Bronzo finale documentano con certezza la presenza di un sepolcreto tardo-protovillanoviano, che viene ad aggiungersi agli indizi recentemente rinvenuti nell’area di Poggio Gallinaro 13) ed al dato problematico costituito dai due vasi protovillanoviani della collezione Bruschi (la cui analogia con i materiali ritrovati a Cretoncini rafforza comunque l’ipotesi di una loro provenienza dalle vicinanze di Tarquinia). La distribuzione degli affioramenti di ceramiche villanoviane documenta come nella prima età del ferro l’intero pianoro di Cretoncini fosse interamente utilizzato come area di insediamento, al pari dell’adiacente pianoro urbano, venendo a costituire insieme a quest’ultimo un’unità morfologica di 150 ettari circa, interamente destinata ad insediamento almeno fin dall’inizio della fase villanoviana. Tale estensione si avvicina notevolmente del resto a quella di altri grandi centri della prima età del ferro dell’Etruria meridionale, come quelli di Veio, Caere e Vulci 14) . Tali ampie estensioni abitative sono naturalmente, come già esposto in altre sedi, da intendersi occupate in queste prime fasi non in modo denso, come in un centro propriamente urbano, ma con spazi liberi anche piuttosto ampi (adibiti verosimilmente almeno in parte a orti e altri usi produttivi), sia tra le varie strutture abitative e non, sia tra i vari gruppi di strutture. Non in disaccordo con tale modello ricostruttivo è del resto la distribuzione topografica discontinua dei resti di insediamento “villanoviani”. L’abbandono dell’area di insediamento di Cretoncini nel corso della fase recente della prima età del ferro (approssimativamente VIII sec. a.C.), in concomitanza con altri fenomeni di abbandono di certi abitati (in particolare quello del Calvario di Monterozzi), documenta come il processo di formazione del vero e proprio centro urbano di Tarquinii, incentrato sull’area unitaria dei piani di Civita e della Regina, abbia comportato una riduzione dell’area destinata ad insediamento, verosimilmente in parallelo con una nuova organizzazione, di carattere non più “estensivo”, dello spazio abitativo. Il pianoro di Cretoncini nel periodo compreso tra un orizzonte avanzato della fase recente dell’età del Ferro e l’orientalizzante antico non presenta alcuna traccia riferibile ad insediamento, mentre al contrario sembra in più punti interessato da sepolture. Ciò 13) A. Mandolesi, M. Pacciarelli, “Rinvenimenti dell’età dei metalli presso Tarquinia”, in Bollettino della Società Tarquiniense d’Arte e Storia, 18, 1989, pp. 39-51, in particolare p. 44, fig. 4B, 1-2. 9 dimostra come già a partire almeno dalla fine della prima età del ferro l’insediamento fosse già concentrato all’interno dell’area delimitata dalla cinta delle mura urbiche tardoarcaiche di Tarquinia antica. A partire dalla fine dell’età orientalizzante o dall’inizio dell’età arcaica (fine VII/primi decenni del VI sec. a.C.) si hanno sicure tracce della ripresa di una occupazione insediativa, verosimilmente a carattere “suburbano”, del pianoro di Cretoncini. Più consistenti appaiono le evidenze relative a resti di strutture residenziali coperte da tegole e costruite in blocchi del periodo tardo-arcaico ed ellenistico. La distribuzione topografica di tali resti permette comunque di ipotizzare una occupazione rada dell’area, inframmezzata da ampi spazi, che sembra ragionevole immaginare occupate dagli “orti” annessi alle singole unità residenziali. Ad età tardo-arcaica (V sec. a.C.) si data anche il frammento di terracotta architettonica, che costituisce un possibile indizio dell’esistenza di un luogo di culto suburbano, ipotesi da sottoporre a verifica sulla base di ulteriori più approfondite ricerche, ma che non appare inverosimile vista la prossimità ad una delle più importanti direttrici viarie che si dipartono dalla città di Tarquinii. Un affioramento consistente di materiali di età romana è stato rilevato nella lingua nord-orientale, in un punto in cui sono presenti anche evidenze di epoca tardo-arcaica/ ellenistica, mentre l’assenza di testimonianze in gran parte del pianoro sembra documentare l’abbandono di molti dei nuclei abitativi precedenti. Anche a questo stadio preliminare, l’analisi dell’evolversi nel tempo dell’utilizzazione del pianoro di Cretoncini costituisce un contributo importante per lo studio della formazione e dello sviluppo della comunità urbana di Tarquinia antica; non appare tra l’altro casuale il fatto che le fasi di più intensa occupazione insediativa di tale pianoro - la fase antica del primo Ferro e le età tardo-arcaica ed ellenistica - coincidano con quelli che vari tipi di evidenze sembrano indicare come i momenti di maggiore sviluppo e importanza storica della comunità tarquiniese. Alessandro Mandolesi Marco Pacciarelli LA BASILICA DI S. MARIA IN CASTELLO DALLA SUA FONDAZIONE AI TEMPI DI OGGI. 14) M. Pacciarelli, “Ricerche topografiche a Vulci: dati e problemi relativi all’origine delle città medio-tirreniche”, in 10 La basilica di Santa Maria in Castello, per noi tarquiniesi, tanto per usare un luogo comune, è quasi una fabbrica di San Pietro; nel senso cioè che non si finisce mai di apportarvi lavori di restauro e di consolidamento. In tutta la sua storia si sono succeduti accidenti e avvenimenti, tutti consumati contro di essa al punto che possiamo considerare una fortuna averla ancora e vederla là su quello sperone a sfidare il tempo. I nostri antenati impiegarono quasi un secolo per edificarla, a partire dall’anno 1121 per finire a quello della consacrazione, nel 1208; e quando un priore quando un altro, ciascuno si adoperò a far eseguire il portale cosmatesco, il pulpito, la tribuna dell’altare e il fonte battesimale ad immersione; né ebbe termine l’opera musiva, dato che nella parte d’accesso non si nota alcun lavoro da parte dei mosaicisti. Probabilmente per l’esaurirsi dei mezzi finanziari. Poiché la nostra Società se ne è fatto un obbligo, un motivo programmatico affinché questo illustre monumento ritorni via via a rivestire quel ruolo che ebbe nell’alto Medioevo e che fece convenire addirittura dieci vescovi per la cerimonia della sua consacrazione, crediamo opportuno oggi seguitare a parlarne perché altri sappiano quello che la nostra Società ha fatto per restituirlo al culto e alla venerazione pubblica. Scartabellando nel nostro archivio, abbiamo rintracciato alcuni documenti che riteniamo utile pubblicare perché i nostri Soci e i nostri lettori sappiano quanta storia è racchiusa là dentro quelle antiche strutture. Uno di questi venne stilato dal conte Pietro Falzacappa per incarico del cardinale Filippo De Angelis, vescovo di Corneto, nell’anno 1841, che desiderava avere, attraverso il quale, notizie e ragguagli su questa nostra chiesa: qui di seguito ne riportiamo il testo integrale. “In quella parte di Corneto ove esisteva un forte, fabbricato secondo l’architettura delli secoli di mezzo, fu costruito ancora un sagro tempio dedicato alla Madre di Dio che dalla sua posizione prese il nome di S. Maria in Castello. Li vari incendi delli pubblici archivi di questa città, tanto ecclesiastici che secolari, ci hanno fatto perdere le più interessanti memorie su di questo tempio bellissimo per la sua antica architettura, per li sagri monumenti che ancora conserva. Tali infortuni ci impediscono di potere indicare con precisione l’epoca della sua costruzione e solo appoggiandosi alle osservazioni od alla intelligenza del signor D’Agincourt 1) possiamo dire che sia stato fabbricato verso la fine del decimo secolo, sebbene una lapide esistente tuttora a sinistra della porta maggiore che Studi Etruschi, 56, in corso di stampa. 1) D’Agincourt - Storia dell’arte dimostrata con monumenti, edizione di Prato del 1828. 11 riporterò al nostro scritto, faccia non poco dubitare che possa essere stato costruito nel 1121. E’ la chiesa edificata a tre navate con facciata ornata da belli mosaici come n’era egualmente ornato il pavimento interno per circa i due terzi della sua estensione; una cupola leggermente ellittica nella parte inferiore 2) e traforata da sei archi fra i quali passavano altrettanti pie’ dritti per reggere una specie di tamburo di poca altezza, ha esistito almeno fino al 25 maggio 1819, nel qual giorno un violento terremoto ondulatorio distrusse in un momento quello che aveva esistito per secoli. La pianta di questa chiesa è abbastanza regolare se si guarda l’epoca della sua costruzione, ma le particolarità dei suoi andamenti hanno tutta la bizzarria dello stile gotico che allora regnava sebbene gli archi non siano di un sesto acuto, ed i capitelli delle colonne sono ornati nel campo con serpenti assai ingegnosamente intrecciati per sostenere gli angoli della cimasa che sorge leggerissima: le finestre mantengono egualmente lo stile gotico con variati ornamenti e merita riflesso la particolarità di non esistere alcuna dalla parte di oriente senza che se ne possa precisare una sicura ragione, seppure ciò non sia stato fatto per il motivo che facendo parte le mura di questa chiesa dell’antico castello di Corneto, non si sia voluto indebolire l’esterna fortificazione con i vani che avrebbero offerto le gotiche finestre, difficili insieme ad essere difese nel caso di un assalto inimico sia per la loro forma sia per la sicura profanazione del tempio che ne sarebbe derivata. Esistono tuttora nel principio della chiesa le colonne dei catecumeni come vi esiste il fonte battesimale grande e nobile di figura ottagonale, ornato di marmi fini e scorniciati, intarsiato di altre pietre colorite nel quale secondo l’antico rito si battezzava per immersione. Bello è il pulpito o sia ambone fatto di marmo finissimo intarsiato da pietre di porfido e di mosaico, aperto alli due lati con vari gradini per salirvi e leggere il santo Vangelo nelle messe solenni secondo la primitiva regola di Santa Chiesa. Sopra di quattro gradini sorge la Tribuna con altare staccato per celebrarvi i Santi Misteri verso il popolo, quale tribuna fu già ornata da quattro nobilissime colonne, tra le quali le due prime di “verde antico” tutte di un pezzo di lunghezza e grossezza sproporzionata, e co’ i suoi architravi di marmo scorniciato con altre colonnette e marmi sopra che formano tabernacolo, furono in tempo di Clemente X 3) fatte levare dal cardinale 2) 3) Id, pagine 206, 235, 285. Clemente X. Altieri romano creato sommo pontefice nel 1670 governò la chiesa anni 6 mesi 3 e giorni 24. 12 Altieri 4) vescovo di Corneto, e poste al suo Palazzo, ed ora ve ne sono quattro di marmo “semplice non corrispondenti alle tolte né con la proporzione delle basi e capitelli, né adattate alla finezza di quelli scelti marmi da’ quali si vede decorata l’antica chiesa 5) , per cui i voti pubblici domandano da molto tempo che sia supplito in qualche maniera alle tolte colonne con altre che se non potranno pareggiare le antiche non deturpino almeno, come le presenti, con la loro bruttezza questo rispettabile edifizio. Lo smarrimento delli antichi documenti non mi permette di accennare con precisione cosa fosse e da chi servita questa chiesa avanti i principii del secolo decimoterzo e sappiamo solo con certezza l’epoca della sua consagrazione, avvenuta con tutta munificenza l’anno 1208 come apparisce nella marmorea iscrizione posta vicino alla porta principale alla destra, e che riporterò in fine con altre iscrizioni lapidarie che ornano anche oggi questo monumento. La seconda memoria è del 1226 allorché il papa Onorio III, dirigendo al vescovo di Toscanella una bolla per la riscossione delle tasse dovute alla camera apostolica, nomina tra li procuratori in varie chiese di quella diocesi “apud Cornetum priorem S. Mariae de Castello” 6) . E’ innegabile insieme che sino al citato secolo XIII esisteva quivi eretta una collegiata, con cappellani, canonici ed un priore, e che questa dignità fosse contraddistinta nelli atti pubblici col titolo di “Prior majoris Ecclesiae Cornetanae” 7) e nel 1285 Lituardo Cerruti di famiglia cornetana e Priore di S. Maria in Castello da uditore di Rota fu innalzato alla sede vescovile di Cagli (Calliensis) sotto il pontificato di Bonifacio VIII 8) . Continuò ad essere officiata in questa maniera sino al 1435, allorché piacque al sommo pontefice Eugenio IV, ad intercessione del nostro celebre cardinale Giovanni Vitelleschi, erigere in cattedrale la chiesa cornetana unendola a quella di Montefiascone e formando un solo capitolo con la riunione delle due collegiate che in quell’epoca esistevano a Corneto 9) . Pare che da questo tempo sia cominciato il decadimento della nostra Chiesa di Castello, e forse perché, non avendo più una collegiata a se sola, non si officiava più come per il passato da quei sacerdoti che prima vi erano addetti e forse ancora perché posta 4) Paluzio Paluzi romano cardinale del titolo dei SS. Apostoli ebbe il Vescovato di Montefiascone e Corneto li 29 Maggio 1666 dal papa Alessandro VII e lo ritenne sino al maggio 1670 nel quale anno innalzato al pontificato Clemente X, Altieri lo dichiarò suo nipote e gli accordò la sua arma ed il suo cognome: così l’Arcidiacono Polipori nelle sue Croniche Manoscritte di Corneto, ed il De Novaes, Elementi di Storia, Tom. X pag. 155. 5) Cronaca Manoscritta di Francesco Valesio conservata nell’archivio segreto di Campidoglio, e Memoria istorica di Corneto, manoscritto nell’Archivio Falzacappa. 6) Nell’Archivio Vaticano e Turrioni, Memoria di Toscanella - Roma 1778, pag. 49. 7) Codice Membranaceo nell’Archivio della Cattedrale di Corneto, passim. 8) Ughelli - Italia sacra - tom. II, Col. 90 n. 27 - Episcopi Callienses. 13 quasi fuori la città i cui abitanti avevano cominciato già a ritirarsi dalle antiche abitazioni per riscoprire i nuovi quartieri, restò come abbandonata a qualche mano mercenaria. Sono notevoli peraltro le distinzioni che a questo sacro tempio professarono sempre i nostri maggiori. L’antico Statuto di Corneto della cui origine non si può fissare una data precisa, ma che sicuramente non è posteriore al secolo dodicesimo, tra le altre disposizioni prescrive doversi osservare come feriato il giorno della consacrazione di questa chiesa 10) e per una maggiormente devota distinzione si ordina dallo stesso Statuto 11) che nelle festività di Natale, Pasqua di Resurrezione e dell’Assunta si offra dalli priori in questa chiesa un carcerato a pena pecuniaria restando con ciò pienamente assoluto, e qualmente vi si stabilisce che la Magistratura debba officiare in questa chiesa con l’offerta di due cerei 12) nel giorno dell’Annunziata, nel quale giorno era anche decorata con l’intero capitolo che vi si portava per la messa cantata, e che altro cereo si presentasse nel giorno di S. Agata alla quale era anticamente dedicato un altare 13) . Come ho di sopra accennato ad onta che la nostra Comune facesse il possibile per sostenere lo splendore di S. Maria in Castello nonostante decadendo ogni giorno, si prese la risoluzione nel 1566 di chiamarvi i Padri Carmelitani quali si portarono ad abitarla, ma poco tempo vi dimorarono per dissensioni accadute fra loro 14) . Questo abbandono la fece sempre più cadere in modo tale che nel 1569 era senza il Sagramento aperta e derelitta talmente che il Vicario Generale di quel tempo nel fare la visita, ordinò “ostia eius de clauderi pro honore divini cultus” 15) . Tale disgraziata situazione mosse il vescovo monsignor Bentivoglio 16) “a procurare di porvi un riparo e si rivolse alla magistratura di Corneto con sua lettera delli 25 maggio 1583 17) pregandola a tenere un consiglio perché questa chiesa fosse data alli Padri 9) Bolle di Eugenio IV delli 5 dicembre 1435 che incominciano “In supremae dignitatis” e “Sacrosanta Romana Ecclesia”. 10) Statutum Corneti, Lib. II cap. LXXXVI. 11) Id Lib. V cap. XXXII. 12) Id. Lib. I. cap. II. 13) Speculum ab anno 1487 ad annos 1495, pag. 206 conservato in Segreteria Communitativa. 14) Cronache Manoscritte del Polidori e del Valesio. 15) Visita Vescovile del 1569 pag. 24 v. in Cancelleria Vescovile. 16) Mons. Girolamo de’ conti Bentivoglio di Gubbio fu fatto vescovo di Corneto e Montefiascone nel 1580 da Gregorio XIII e resse queste chiese sino alli 12 aprile 1601 nel qual giorno morì in Montefiascone. 17) Tra le lettere di quell’anno in Segreteria Communitativa e nell’archivio Falzacappa. Filza di lettere dal 1579 al 1592. Fuori - Alli magnifici Signori e figli amatissimi cittadini Priori della Comunità di Corneto. Dentro - Molto magnifici Signori e figli amatissimi. Questi Priori della Cong. di Viterbo desiderano essere risoluti del luogo di S. Maria in Castello, e perché mi pare sia cosa molto utile per molti rispetti, e particolarmente acciò quella Chiesa non habitandovi, non vadi a rovina, la prego si contentino di fare Consiglio e deliberare quel tanto parerà alla Communità potersi fare, et essere più espediente per servizio di Dio, et honore della Città per il che non mancherò pagare S.D.M. tà le... sempre in q.ta ed in ogni altra loro esecuzione, e di cuore mi offro e rassegno. Di Montefiascone li 25 maggio 1583. Bentivoglio vescovo di Montefiascone e Corneto. 14 Conventuali: confermò questo medesimo con altra lettera 18) delli 17 giugno 1585 nella quale ripeté che trovandosi abbandonata la chiesa di S. Maria in Castello si è risoluto darla alli frati di S. Giacomo 19) se la magistratura medesima “non sente cosa alcuna in contrario” e desiderando che tutto sia “con loro soddisfazione”. Da queste lettere sembra chiarissimo che la nostra Commune vi avesse un Gius-patronato, il quale diritto trascurato in seguito si è perduto o usurpato. Piacque sicuramente alli Cornetani la domanda del loro pastore ed in quel medesimo anno (1583) li Padri Conventuali ne presero possesso accordandoglisi dal consiglio tutto il locale dell’antico Castello perché con le rendite del medesimo potessero mantenere la chiesa e loro stessi 20) . Dopo questa epoca nulla più si rinviene di rimarchevole che possa riferirsi a questo bel monumento di Corneto e scorsero più di due secoli senza che ci si presenti alcuna cosa notabile: non saprei se attribuire questo silenzio o alla deficienza di fatti degni di memoria o alla mancanza di chi siasi dato la pena di registrarli. Due sole piccole cose in così lungo spazio di tempo ho potuto rinvenire né tralasciar voglio di riportarle, sebbene non siano di molta entità. La prima è del 1619 allorché si dovettero dividere le imposizioni camerali fra le corporazioni religiose di Corneto. Vale la pena di registrarsi che questa chiesa con il suo convento ed i suoi beni nel riparto generale fu tassata per soli bajocchi novantasei 21) . Qual differenza rimarchevole fra quel tempo e questo in cui viviamo! L’altra è la consagrazione del suo altare maggiore fatta nel 1639 dal Vescovo di quell’epoca mons. Cecchinelli 22) la di cui memoria ci viene conservata dall’iscrizione posta nella Tribuna, e che riporto insieme alle altre. Dopo queste notizie bisogna giungere sino al secolo XIX per riportare che nel 1809 restò di nuovo abbandonata questa chiesa per l’espulsione dei Padri Conventuali che furono sottoposti a quella generale proscrizione ordinata da colui che regnava in questa parte d’Italia in luogo del nostro legittimo Sovrano, finché riordinatesi le cose pubbliche e ristabilito l’ordine nel 1814 furono i beni di questa chiesa uniti al Conservatorio delle 18) Vos supra in omnibus. Perché ho visto che la chiesa di S. Maria in Castello era abbandonata, mi risolvei per quanto comportava il mio consenso di darla, come feci a quel frate di S. Giacomo, che sta in Corneto, et così ho scritto al mio vicario che lo metta in possesso per la sua religione. Se poi le SS.VV. con la mag. Communità sente cosa alcuna in contrario, mia dia avviso acciò si possa provvedere a quanto farà bisogno, desiderando il tutto sia con soddisfazione loro, e quali di cuore da Dio prego ogni vera contentezza. Di Montefiascone li 17 giugno 1585. Bentivoglio. 19) Li frati Conventuali abitavano in Corneto l’antica chiesa di S. Giacomo, ora il Cimiterio vecchio. 20) Memorie manoscritte di Corneto, nell’archivio Falzacappa. 21) Libro delle Congregazioni Capitolari di quest’anno pag. 56 nell’archivio della Cattedrale di Corneto. 22) Gaspare Cecchinelli da Vezzano, nepote del cardinale Zacchia, vescovo di Corneto e Montefiascone, ottenne per rinuncia dello zio queste sedi li 22 aprile 1630 e le resse sino alli 7 marzo 1666. Morì in Montefiascone. 15 Orfane di Corneto 23) , non essendovi stati ripristinati li Religiosi Francescani per il loro scarso numero a conseguenza del quale erano anche i pochissimi individui che si ritenevano prima che ne fossero scacciati. Un infausto giorno portò a questo vecchio tempio l’anno 1819 poiché alli 26 maggio per violenza di forte terremoto cadde quella bella cupola che per la sua arditezza di costruzione ne formava uno dei principali ornamenti. Dopo quel disgraziato anno restò quasi abbandonata la nostra Chiesa, e gli amanti delle cose sagre e delle cose Patrie vedevano con dispiacere avanzarsi ogni giorno la totale rovina di questo monumento. Per secondare i voti pubblici l’Eminentissimo Velzi, degnissimo vescovo di Corneto, vi dié tutto l’impegno per ridare al culto cattolico questa chiesa e nel 1834 con la sua paterna premura ed attività secondato anche dal nostro Comune che assegnò a questo fine 200 scudi 24) non che dalle altre corporazioni religiose che con piacere concorsero a sì bell’opera, benedisse di nuovo e ricoperto con tetto il vano lasciatovi dalla caduta cupola poté di nuovo celebrarvi messa solenne con sincero applauso di tutta la città. Non terminarono però con la nuova riapertura li desideri de’Cornetani e sempre ci siamo lusingati vederla restituita all’antico onore. Sorge una nuova speranza nella provvida cura che ne assunse l’odierno vescovo, il cardinale Filippo De Angelis. Sotto il suo valevole patrocinio ci lusinghiamo, anzi siamo sicuri di veder conservato alla Chiesa un suo tempio, all’Italia uno dei suoi più belli tra li sagri monumenti, ed a Corneto questa bellissima antica chiesa che mentre fa fede della devozione de’ nostri antenati dà anche oggi continuo lustro alla Patria. Possono compirsi quanto prima i nostri desideri e possa il nostro degnissimo Pastore condurre a termine quanto ha ideato per l’onore di questo tempio e della nostra città e possa la divina Provvidenza concedergli lunghissima vita per l’onore del Sacro Collegio e di questa diocesi, il che sinceramente desidera l’estensore di queste piccole memorie”. Altre notizie ci dicono che nel 1479, certo Tommaso Strazulli lasciò alla chiesa di S. Maria in Castello ducati 50; e che nel 1487 certa Emilia di Giovannuzio, moglie di Luchetta, lasciò alla chiesa di Castello due moggia di terra in contrada Torrone. Dagli Statuti della Città di Corneto, del 1545, veniamo a sapere che “li Priori ossia Magistrati della nostra città dovevano ogni semestre fare, in onore della Chiesa di S. Maria in Castello, un palio del valore di 16 carlini”. 23) Li beni della chiesa di Castello furono uniti al Conservatorio delle Orfane con rescritto pontificio. 16 Infatti il capitolo V del Libro I riporta testualmente: “Sia anche tenuto per ogni semestre a confezionare per la Chiesa di S. Maria in Castello un palio del valore di 16 carlini per ogni palio che viene offerto attualmente alla detta Chiesa, al tempo del sindacato del Podestà, dai predetti Magnifici Signori Priori. Altrimenti incorrano nella pena di sedici ducati di carlini da togliere ad essi di fatto e da convertirsi nel detto palio ad opera dei loro successori nell’ufficio”. Sempre negli stessi Statuti, al Libro V capitolo 32, si legge ancora: “... come luoghi d’altra parte nei quali si possano e debbano gettarsi le immondizie, destiniamo quelli fin qui di seguito elencati, e cioè: dall’immondezzaio fuori la Porta di S. Maria Maddalena; ancora fuori la porta di S. Maria in Castello, vicino all’orto dei Cerrini...” Da parte loro, i Padri Conventuali B. Theuli e A. Coccia, hanno pubblicato un volume dal titolo “La Provincia Romana” dalle origini ai nostri giorni. Da questa monografia stralciamo la parte che al capitolo VI riguarda il Convento di Corneto e la Chiesa di S. Maria in Castello. CAP. VI CONVENTO DI CORNETO Questo convento è sotto il titolo di S. Maria in Castello. Fu dato alla Religione nostra al tempo di Sisto V, Sommo Pontefice, nel primo anno del suo Pontificato, che fu nel 1585, e fu a petizione della pietosa Comunità per la devozione che aveva e conserva all’abito francescano. Di tal concessione fu fatto un pubblico strumento, rogato dal notaio Vincenzo Vincenzi. Non voglio lasciar sotto silenzio che, come si dirà più sotto, noi avemmo un altro convento e Chiesa in questa città, come dimostrano i Padri insigni che vi sono stati e l’ordine dei conventi registrato nelle conformità 25) ; dal quale non so perché e quando partissimo. A quella Chiesa il Papa Nicolò IV concesse l’indulgenza per alcune feste nel 1291, anno quarto del suo Pontificato 26) . In quel primo convento albergò il Papa Urbano V, quando partì dalla Francia per Roma, e giunse in convento con tre Galere, dove fu accolto e ricevuto con molta allegrezza. Anzi nello stesso convento l’amoroso Pontefice vi ricevé benignamente il B. Giovanni Colombini, istitutore dei Padri Gesuiti. 24) Risoluzione consiliare delli 23 febbraio 1834. Pisano B., Op. cit., fructus XI, pars 2, p. 515. Scrive: “locum de Corneto ubi B. Franciscus post suam mortem puerum a valvis ecclesiae oppressum et conquassatum resuscitavit”. 26) Sbaralea H., Bull. Franc., t. IV, p. 305. 25) 17 La Chiesa presente è grande, bella, antica, con pilastri, con una tribuna, a tre navate, e con pavimento a mosaico. Vi è un’immagine della Beatissima Vergine con il titolo delle Grazie, che è di grandissima devozione. Era la Chiesa Cattedrale dei Preti, come si scopre dal fonte battesimale e da un bellissimo pulpito di pietre fine similmente lavorato a mosaico. Fu consacrata al tempo di Innocenzo III, Sommo Pontefice, come appare da una pietra di marmo posta nel muro, nella quale si legge la seguente memoria: IN NOMINE XPI AM. A.D.M. CC.VIII INDICTIONE X. TEMPORIBUS DNI INNOCENTII, PP. III, XIII KL. IUN. HOC. TEMPLUM B.M. DICATUM IN CUIUS DEDICATIONE X. ADFUERUNT EPI. PERSONALITER, TUSCANENSIS, AMELIENSIS, BALNORIENSIS, CASTRENSIS, SUANENSIS, ORBEVETANUS, ORTANUS, CIVITONICUS, NEPESINUS, SUTRINUS, ET CUM ESSENT XII INVITATI DUO Q. VENIRE N. POTERANT, NARNIENSIS, ET GROSSETANUS ASSENSUM REMISSIONIS PER LITERAS DIREXERENUNT, IDCIRCO IN PRIMO ANNO HUIUS DEDICATIONIS XII ANNOS HIS QUI VENERANT REMISERUNT ANNUATIM VERO DE INIUNCTA POENITENTIA IIII ANNOS REALXARUNT HIS QUI DEVOTE AD HANC DOMUM VENIENT CUM SPIRITUALI IUCUNDATIONE ITEM HUI. ECCLE. VOCABULO UNUM ANNUM CONDONARUNT FACTA SUNT HAEC SUPRADICTA ACTORE DNO PER ANGELUM PRIOREM Q. HUIC TUNC PRAEERAT ECCLESIAE 27) 27) In nome di Cristo, così sia. Nell’anno del Signore 1208, indizione decima, al tempo del signore Innocenzo Papa III, il 13 di giugno, questo tempio venne dedicato alla beata Vergine Maria; nel giorno della dedicazione, furono presenti di persona dieci vescovi, il Tuscanese, l’Ameliense, il Bagnorese, il Castrense, il Soanese, l’Orvietano, l’Ortano, il Civitonico, il Nepesino, il Sutrino: due che non poterono venire, il Narniense e il Grossetano, inviarono per lettera il loro assenso. Per la qual cosa nel primo anno di questa dedicazione furono concesse indulgenze di dodici anni a coloro che erano venuti. Furono condonati poi annualmente quattro anni della ingiunta penitenza a coloro che, con spirituale esultanza, fossero venuti 18 E di questo Angelo vi è la testa della sua effige in pietra. Attorno al pulpito suddetto vi stanno scolpite le seguenti parole: A.G.B. DNI INNOCEN. PP. III. EGO ANGEL. PRIOR HUIUS ECCLESIAE HOC. OP. NITIDUM AURO, ET MARMORE DIVERSO FIERI FECI PER MANUS MAGISTRI IOHNIS GUITTONIS CIVIS R.M.N. 28) Vi sono alcuni corpi di Santi, come per lettere longobarde appare negli stipiti della porta maggiore della Chiesa e sono le seguenti: Non obediunt isti, passi pro nomine Xi. Ecce Saturninus Sisinius, et Thimoteus, hic bene cum caro requiescunt Simphoriano. Dalla qual memoria si cava che questi martiri siano Saturnino, Sisinio, Timoteo e Sinforiano. Non si sa però dove siano sepolti. Nella stessa pietra sono intagliati i seguenti versi leonini: VIRGO TUAM PROLEM ROGITA DEPELLERE MOLEM VULGUS UT HOC LAETUM CORNETI IURE QUIETUM DET IUGIT. VOTUM VIGEAT SIBI CRIMINE LOTUM QUODQ. SUA LAUDE TEMPLUM PARAT HOC SINE FRAUDE. 29) Nell’architrave della stessa porta si leggono intagliati i seguenti versi: HIC ADITUS VALVAE MARIAE VIRGINIS ALMAE DUM SIC SPLENDESCIT MILLENUS CIRCULUS EXIT ET CUM CENTENIS, TENEAS TRES BISQ. VICENIS TUMQUE. PRIORATUS PANVINUM SEDE LOCATUS ISTE DEO CARUS MERITIS ET NOMINE CLARUS INSIGNIS VITAE VIXIT SINE CRIMINE RITE. AD LAUDEM XPI STUDUIT SUA MOENIA SISTI ADIUVAT HINC FACTIS VENERANDUS PBR. ACTIS NON PIGUIT SENSUM GEORGIUS, ET DARE CENSUM. 30) devotamente in questa chiesa. Similmente fu concesso un anno al nome di questo tempio. Le cose suddette furono fatte per grazia del Signore dal priore Angelo che allora presiedeva a questa chiesa. 28) Al tempo del Signore Innocenzo Papa III, io Angelo feci eseguire per questa chiesa quest’opera in oro puro e marmi diversi par mano del maestro Giovanni Guittone, cittadino romano. 29) O Vergine, prega il tuo Figlio che protegga questo tempio affinché questo popolo di Corneto, felice a buon diritto, compia sicuro e a lungo il voto: e questa basilica che esso con sincerità erige in tua lode, si conservi per mezzo di lui pura da ogni delitto. 30) Questo splendido ornato delle porte dell’almo tempio di Maria Vergine fu compiuto nell’anno 1143 per cura di Parvino, priore della Chiesa. Egli, caro a Dio per le sue buone azioni, e illustre per rinomanza di una vita intemerata, si prese cura perché la sua fabbrica si eseguisse a lode di Cristo, coadiuvato con fatti ed opere dal reverendo presbitero Giorgio che non esitò a dare il parere e il denaro. 19 E sono questi due versi gli stessi accennati sopra. Quando sia stata fabbricata questa Chiesa, si cava da una memoria in versi, scolpita in marmo nella porta piccola della Chiesa a man sinistra, e sono questi: IMPERAT HENRIC. CALIST. FIT. PP. PETITUS ANNO MILLENO CENTUM PMOQ. VICENO NATALIS XI DOMUS HAEC PRIMORDIA FIXIT GUIDO PRIOR DIGNUS PIUS PROBUS ATQ. BENIGNUS ANNO CI POSTQUAM NOVUM FECIT HOC SCULPERE METRUM 31) In un’altra pietra, posta nella facciata della Chiesa, si vede intagliata la seguente memoria: IN N. XI.AM. EX. H. SCRIPTURAE MEMORIA PSENTIBUS POSTERIS CLAREAT MANIFESTE, Q. CAPLM PERPETUO VALITARUM EDITUM FUIT PER MODULATORES TEMPORE DNI BOIFAT. POT. CORNET. ANN. D. con altre parole che io non ho potuto leggere. Dalla quale si argomenta una convenzione tra la Comunità, essendo Podestà della Città un tal Bonifacio, e i Preti. 32) Da tutto questo chiaramente apparisce che questa fosse una Chiesa antica dei Preti, e poi conceduta alla nostra religione, come si è detto sopra. Vi si celebra solennemente la festa della Annunciazione di N. Signora, nel qual giorno Mons. Vescovo vi fa Cappella, e dal Predicatore ordinario vi si predica con grandissimo concorso di popolo. Vi si celebra ancora con solennità la festa di S. Agata il 5 Febbraio, concorrendovi tutta la città con il clero alla Messa cantata, portando il velo della Santa processionalmente con molta devozione; e lo stesso si fa la vigilia dell’Assunzione di Maria sempre vergine. Anzi per antica consuetudine, i Signori del Magistrato nella rinnovazione del governo, ogni principio di trimestre van a sentire la Messa in questa 31) Questa Chiesa fu iniziata nell’anno 1121 dell’era di Cristo, essendo re Enrico e papa Calisto. Guido, priore degno pio, probo, benigno, dopo 101 anni fece scolpire questo nuovo distico. 32) Nel nome di Cristo. Da questa memoria scritta sia manifestamente noto ai presenti e ai futuri che questo Capitolo, da valere in perpetuo, fu amato dai Rettori, al tempo del signore Bonifacio, podestà di Corneto, affinché l’anno del Signore non si scriva in Corneto negli Istrumenti secondo il tempo dell’Incarnazione di Gesù Cristo (cioè dal 25 marzo) ma si tenga il costume della Romana Chiesa in Corneto, e si scrive negli Istrumenti l’anno del millesimo secondo la Natività di Gesù Cristo, figlio di Dio (cioè del 25 dicembre). Gli Istrumenti poi fatti precedentemente, siano validi sempre. A conservazione della quale memoria questa lapide marmorea fu scritta, eretta e posta in evidenza. Anno della natività del Signore 1230, il 4 aprile. Questa lapide venne scolpita al tempo del consolato di Tommaso di Rogerio e di Bonifacio Boccavitelli. 20 Chiesa; nella quale come in Chiesa principale vi son sepolti molti della nobil famiglia Vitelleschi e d’altre famiglie illustri, come si scorge per l’armi che in essa si vedono. Il convento però è piccolo, senza chiostro, con poche comodità religiose, sebbene per la pietà dei cittadini si alimentano da sei ad otto Frati. Non vi sono stati molti Padri insigni. Non voglio tacere quello, il cui nome ci vien tolto dal tempo, il quale giocando a scacchi contro il voto fatto, tre volte ne rimase cieco. Ma comparendogli il Santo Padre, restò illuminato, pigliò l’abito francescano e vi divenne famoso per bontà di vita. Il fatto avvenne nel 1282, come registra il Pisano. Nel 1387 viveva Fra Colaccio d’Angeli, che fu Visitatore di questa Provincia, fatto il 22 d’Aprile, il quale è da pensare, che fosse persona virtuosa prudente, perché simil carica non si suol conferire che a persona di qualità virtuose. Nel 1408 viveva il P.M. Francesco Scarpellotti; e nel 1451 il P.M. Giovanni Urbani che, per il suo buon talento, fu Vicario della Provincia. Vi è stato ultimamente il P.M. Marco Bellacci, che era a buon predicatore e molto capace ancora nell’economia, come ha dimostrato il governo di alcuni conventi della Provincia. Vi sono al presente due Baccellieri, che con l’aiuto di Dio potranno onorare il convento. Vi si è celebrato un Capitolo Provinciale il 20 Maggio 1600, nel quale fu eletto Presidente il Rev.mo P.M. Filippo Gesualdo, Ministro Generale, e vi fu eletto Ministro Provinciale il .P.M. Giovannelli di Rieti. *** Corneto, dal 1922 chiamata Tarquinia, città antichissima e piena di monumenti, fu nuovamente elevata a sede episcopale e decorata dal titolo di città da Eugenio IV, il 5 dicembre 1435, e poi, nel 23 luglio 1854, unita alla diocesi di Civitavecchia. Il nostro convento di S. Maria in Castello si trovava in una incantevole posizione in uno degli estremi limiti della città, vicino al Castello attribuito alla Contessa Matilde di Canossa. Essendovi una numerosa comunità dotata da sufficienti redditi non fu incluso nel numero dei conventi da sopprimersi. Nel 1658 vi era come superiore il P. Bacc. Antonio di Canino. Il 22 novembre 1691 fu concesso ad Antonio Paolucci di farvi l’anno di noviziato 33) . Tra i padri che in questo convento hanno dato occasione a delle critiche troviamo il P. Benedetto Antonio Donati, religioso buono ma che era forse eccessivamente preoccupato della salute e della povertà del suo padre che si trovava a Civitavecchia, ove voleva andare; il che dovette essere l’occasione di incomprensioni. Di lui il guardiano P. Biagio Spadoni scrive nel 1768 che era “religiosus bonis moribus, plenus pietate, 33) S. Cong. Discipl. Regul. Decreta, vol. 43, f. 171. 21 obedentia, humanitate et mansuetudine...” 34) . Il P.M. Francescantonio Tomaini guardiano nel 1786 35) ed il P. Pietro Owiller, che nel 1787 chiede d’essere esonerato dall’ufficio di guardiano 36) . Nel 1800 vi fu fatto guardiano il P. Giuseppe Bizzarri, ma vi restò poco, perché l’anno seguente vi fu eletto il P. Francesco Cortona di Proceno, anche gli altri non vi restarono più di un anno ciascuno. L’ultimo guardiano fu il P. Antonio Garibaldi, eletto nel 1807. Soppresso nel 1810 lo Stato Pontificio e gli ordini religiosi, il convento venne occupato dalle truppe francesi e la chiesa dissacrata. Nelle colonne che si elevano sull’altare maggiore sono ancora incisi nomi di soldati francesi. I religiosi non vi tornarono più, e nel convento fu eretto un Orfanotrofio per le ragazze, tenuto dalle figlie di S. Vincenzo di Paoli. Nel 1819, il 26 maggio, crollò la cupola della chiesa per una scossa di terremoto. Ne abbiamo una relazione fatta dal Vescovo nel 1858: <<Olim collegiata... suppresso autem collegiali capitulo, ad Minores Conventuales cum adnexis aedibus transiit excolenda, quibus per intrusum Gallicum Gubernium expulsis Orphanotrophio puellarum una cum possessionibus et redditibus, revera paucis, fuit assegnata>>. La chiesa continua: <<Est vetustissimum magnificumque aedificium, marmoribus etiam variis et opere musivo, sed temporum iniuria labefactata, tum in facie externa, tum in pavimento, exornatum, cuius sublimis Tholus terraemotus vi haud multis abhinc annis concidit, fuitque simplici suppletus cornice. Septem in hoc templo erecta sunt altaria, sed unum tantummodo sacris mysteriis ex devotorum cura excolitur dicatum B.M. Virgini titulo Sacratissimi Rosarii; coetera sunt penitus neglecta. Integer heic prospicitur vas lapideum praegrande, in quo per immersionem antiquitus baptizabantur infantes... Dolet plurimum quod templum hoc deterius fiat in dies ob mediorum deficentiam pro illius manutensione. Legitur in pariete prope maiorem ianuam inscriptio, quae eiusdem ecclesiae consecrationem memorat, pluribus episcopis assistentibus, peractam sub anno 1021>> 37) 34) Religioso di buoni costumi, pieno di pietà, obbedienza, umanità e mansuetudine. Ibid., voll. 251 e 267. 36) Ibid., voll. 240 e 272. 37) Una volta collegiata... soppresso poi il capitolo della collegiata, passò per essere venerata dai Minori Conventuali con annessa abitazione, espulsi i quali per intervento del governo francese, venne assegnata in realtà all’Orfanotrofio Femminile con la proprietà e i redditi, ben pochi in realtà. E’ un antichissimo e magnifico edificio, ricco di vari marmi e di opere musive, ma deteriorato dall’ingiuria del tempo, abbellito nella facciata e nel pavimento, la cui sublime cupola venne abbattuta dalla violenza di un terremoto non molti anni fa, e riparata con una semplice copertura. Attualmente esistono sette altari, ma uno solo per i sacri misteri, è dedicato a cura dei fedeli, alla Beata Maria Vergine del Santissimo Rosario: tutto il resto all’interno è abbandonato. Si vede tuttora integra una grandissima vasca di marmo nella quale in passato si battezzavano i bambini mediante immersione. Dispiace assai che questo tempio si deteriori sempre più per mancanza di mediatori per la sua manutensione. Sulla parete prossima alla porta maggiore si legge una iscrizione che rammemoria la consacrazione di questa chiesa con la presenza di molti vescovi, avvenuta nell’anno 1208. 35) 22 Nel 1864 si era corso ai ripari, erano stati incominciati i restauri della chiesa: <<Suscepta iam fuit instauratio perinsignis templi S. Mariae in Castello, quod pervetustum et olim cathedrale, denique per Minores Conventuales excultum>> 38) . Da una relazione del 1753 conosciamo oltre il nome degli altari anche le famiglie alle quali appartenevano. Ricordiamo solo gli altari: l’altare maggiore, con quattro colonne di marmo, è dedicato a S. Francesco. Poi l’altare del SS. Sacramento, con la statua della Madonna con il bambino, vestita di manto ed abito di seta. L’altare di S. Antonio di Padova. L’altare di S. Agata. L’altare della SS. Concezione. L’altare della SS.ma Annunziata, l’altare del Crocefisso e quello di S. Omobono. Nella stessa relazione si parla di vari beni che possedeva il convento 39) . Notiamo che a Corneto la Procura Generale dell’Ordine in S. Salvatore in Onda possedeva i beni dell’Abbazia di S. Giacomo, dei quali uno dei religiosi di S. Maria in Castello era amministratore 40) . Attualmente la chiesa, la visitammo il 23 luglio 1966, è chiusa e per visitarla bisogna rivolgersi al custode. Il Sig. Giuseppe Volpini, portalettere a riposo e terziario francescano, che conosceva meravigliosamente la storia di Tarquinia ci venne ad aprire e ci fece da cicerone. La faccita imponente nella semplicità ha un bellissimo portale con colonnine in mosaico che fu fatto da Pietro Ranuccio romano nel 1143, come si legge nell’architrave. Sul portale vi è lo stemma francescano. L’interno è grandioso a tre navate. Nella navata centrale, in fondo vi è l’altare maggiore, con quattro colonne che sorreggono un padiglione, come nelle antiche basiliche romane. A sinistra vi è un ambone, che è un gioiello, fatto da Giovanni Guittone romano nel 1208. A destra entrando vi è una vasca ottagonale che serviva per il battesimo ad immersione. Il pavimento è cosmatesco e disseminato da circa 150 iscrizioni latine ed etrusche. La chiesa è stata restaurata, benché i restauri non siano ancora terminati, liberata da tutta la soprastruttura posteriore e riportata all’originale. Sono stati quindi tolti tutti gli altari, che erano stati costruiti posteriormente. Del convento resta parte del chiostro con le camere abitate da privati”. Da qualche tempo si andava rafforzando l’ipotesi che sotto la chiesa di S. Maria in Castello dovesse esistere un castello etrusco, come avamposto e scolta dell’antica città etrusca di Tarquinia, che già aveva edificato, secondo Tito Livio, due castelli di protezione e 38) Venne intrapresa l’opera di restauro dell’insigne tempio di S. Maria in Castello, antichissimo e una volta cattedrale, finalmente abbellito per opera dei Minori Conventuali. 39) Arch. Prov., Busta: Corneto. 40) Arch. della Prec. Gene. SS. Apostoli, Busta I. 23 difesa, a nord e a est, all’interno del territorio dell’Etruria verso monte, cioé verso la Selva Cimina, chiamati Cortuosa e Contenebra 41) . Difatti con un contributo dell’Amministrazione Comunale, la Società Tarquiniense d’Arte e Storia, ha restaurato il muro di difesa fuori Porta Castello e fatto sgombrare tutte le piante ed il terriccio e quant’altro si trovava fra la parete settentrionale della chiesa e il muro castellano. Da questo scavo sono emersi una lastra di nenfro con una iscrizione etrusca e altri piccoli reperti che sono stati consegnati alla Soprintendenza, nonché un sarcofago etrusco in macco, debitamente saccheggiato. Dallo scavo, sotto le fondazioni della Chiesa, e con la presenza di personale specializzato, sono venuti alla luce, oltre a numerosissimi scheletri umani, anche delle strutture murarie, risalenti ad epoca villanoviana. Lo scavo venne sospeso in attesa che la Soprintendenza riesca a superare altri fondi per portare a termine lo scavo. Nello stesso anno 1989, la nostra Società, grazie anche ai generosi contributi della Cassa di Risparmio di Civitavecchia, ha voluto ricollocare nelle asole del campanile a vela, le tre campane mancanti. Dove reperirle? Due vennero ritirate nei magazzini del Museo di Palazzo Vitelleschi e se ne fece richiesta alla Soprintendenza di Roma che non mancò di accogliere la nostra domanda; la terza ci fu donata dalla stessa Cassa di Risparmio che la teneva in deposito nei suoi magazzini. Le tre campane vennero ritirate e ne fu eseguito il restauro, prima che venissero poste in sito, provvedendo altresì, con la Ditta Lucenti di Roma, a dotarle di un sistema di elettrificazione. Abbiamo trascritto ciò che si legge attorno ad esse. La prima, la più piccola, pesa Kg. 80 e porta la seguente iscrizione latina che si traduce per comodità del lettore: “Questa campana con animo spontaneo (venne fusa) in onore a Dio e per la liberazione della patria”. Pare che fosse stata rimossa in passato e depositata nei magazzini del Palazzo Vitelleschi per il timore che venisse rubata. La seconda campana pesa Kg. 240 e porta la seguente iscrizione: “Questa scampana della beata Vergine Maria del Suffragio è dedicata dai confratelli della Società alle anime dei fedeli defunti, condannati alle fiamme espiatrici. I Soci viterbesi Valentino Belli e Giacinto Scacciaricci fusero felicemente questo bronzo a gloria di Dio santissimo. Anno del Signore 1766”. La terza campana era situata nella chiesa dell’Immacolata di Civitavecchia, passata poi in deposito alla Cassa di Risparmio di Civitavecchia che ne aveva donata una nuova alla 41) Vedi Bollettino della S.T.A.S. dell’anno 1979, pagg. 9-25 - G. Claudio Traversi - TARQUINIA - Anno 1985. 24 chiesa suddetta; e da questa, donata al nostro Sodalizio. Essa pesa Kg. 280 e porta la seguente iscrizione: “Al beato Francesco di Assisi, 1891, (fusa) a cura e con le elemosine dei fedeli. Fonderia Bastanzetti - Arezzo - Udine”. Le tre campane vennero collocate nel campanile a vela della Chiesa di S. Maria in Castello il giorno 31 luglio 1989, a cura e spese della Società Tarquiniense d’Arte e Storia. Nella cerimonia inaugurale venne collocata una lapide in marmo a fianco della cinta muraria interna, nel piazzale della chiesa, a ricordo e a memoria dei posteri: mentre all’interno venne eseguito un grande concerto sinfonico e vocale alla presenza del cardinale Sergio Guerri, del Presidente della Cassa di Risparmio, dott. Vittorio Enrico Tito, delle maggiori autorità del paese, dei consiglieri della S.T.A.S. e di molto pubblico. 25 VINCENZO CARDARELLI LA PROSA DEI “PROLOGHI” I Prologhi si aprono con i Dati biografici che costituiscono la presentazione dell’autore e della propria arte e mettono subito in campo la persona morale del protagonista che domina con la prepotenza dell’io ogni pagina della sua opera. Questo creatore si attribuisce subito una dote eccessiva, definendosi dall’inizio come una persona con qualcosa in più, con un eccesso di energia. La litote successiva (non ho mai potuto compiere un atto che non fosse ostacolato da un’immancabile contrarietà) è la prima di una lunga serie di espressioni negative che si accumulano con frequenza impressionante in tutto il testo, negazione rafforzata in questo caso dall’aggettivo mancabile. Solo in questa pagina troviamo questa costruzione altre due volte: “Non sono vittorioso che in certe fulminee ricapitolazioni. La mia lirica... non suppone che sintesi”. La litote, come negazione che si annulla e come affermazione derivabile dal suo contrario, indica, nell’uso che ne fa Cardarelli, un marcato esclusivismo, cioè un’affermazione netta di ciò che è espresso e una negazione o esclusione categorica di tutto ciò che non lo è. “All’innocenza ci son dovuto arrivare. Mi sono sempre alzato da una disfatta. La mia fiducia di creatore sta nei molti e profondi errori che ho da riparare”. La prima affermazione, fatta da Cardarelli come per scuotere il lettore con la dissonanza creata dal dichiarare che lui non parte ma arriva all’innocenza, crea uno di quei 26 contrasti che ci induce a riflettere su quel che leggiamo e provoca uno stridore che tiene sveglia la nostra attenzione. Questa volontà di raggiungere l’innocenza può far pensare all’aspirazione dell’autore allo stile, al possesso pieno della parola purificata dagli eccessi e dagli sperimentalismi giovanili. Ma forse, in sintonia con quell’itinerario interiore tracciato nei Prologhi, l’aspirazione è verso la verità, la certezza, la presa di coscienza e di possesso di sè, conquistata attraverso continue cadute: cadute dolorose ma feconde, perché da esse egli si è sempre alzato e perché gli hanno miracolosamente aperta la strada alla creatività. Dunque la sua sicurezza, la sua fiducia di creatore egli l’ha conquistata faticosamente percorrendo fino in fondo un cammino irto di difficoltà e ostacoli, tramite l’esperienza del mondo e dei suoi errori. Questa partenza dal negativo, il fatto di averlo affrontato totalmente, gli dà la certezza di vincere e il suo atteggiamento da vincente è ribadito da una scrittura verticale, dove l’io è al vertice e il resto sotto di lui, dove l’io domina e filtra la realtà disponendola nei suoi schemi. Anche la struttura del periodo risponde a delle precise esigenze dell’autore. Le frasi brevi sono incastrate in versi più lunghi e articolati e se nelle prime il ritmo si fa più veloce e incalzante, nei secondi si allenta e si distende. Questo serve a dare il massimo di incisività a quelle affermazioni centrali che assomigliano in questo modo a delle massime, a delle sentenze, e alle quali Cardarelli affida maggior ricchezza di significati, il nucleo del suo discorso. “La mia forza è quando mi ripiego. La mia massima musicalità quando mi giustifico. Non sono vittorioso che in certe fulminee ricapitolazioni”. Ed ecco altri tre esempi di frasi brevi, veloci e pregnanti a cui ora l’autore dà anche un nome; le chiama fulminee ricapitolazioni e rappresentano il fulcro di questa sua dichiarazione poetica. La coscienza esasperata dell’io di Cardarelli, come l’ha definita Gargiulo 1) , il suo atteggiamento superomistico è qui messo in evidenza, oltre che dalle dichiarazioni di forza e di vittoria, dall’uso continuo della prima persona e dal ripetuto impiego di aggettivi possessivi e pronomi riflessivi. Anche la presenza di verbi come ripiegarsi e giustificarsi, che potrebbero suggerire un Cardarelli in un tono più dimesso, sono da lui usati con un significato particolare. Ripiegarsi non nel senso di arrendersi, cedere, ma in quello figurato di ri-piegare in sè, di volgersi di nuovo al proprio io dopo aver osservato la realtà esterna, per filtrarla, 27 analizzarla e tirarci fuori dei significati. Anche quando si giustifica non vuole né scusarsi, né discolparsi per ciò che dice ma dimostrare che le sue affermazioni sono giuste, sono verità indiscutibili. Nel fare ciò gli argomenti che porta danno musicalità e a questo concetto già definito (perché un’espressione o è musicale, o non lo è) egli aggiunge l’aggettivo massima attribuendo così a sé il superlativo della grandezza e sottolineando ancora una volta quanta più risonanza hanno le sue parole rispetto a quelle degli altri. La terza affermazione non fa che riconfermare l’atteggiamento costante di Cardarelli; lui si sente appunto vittorioso e usa la litote proprio per dar risalto a questo aggettivo. Vittorioso soprattutto nelle fulminee ricapitolazioni che, abbiamo detto, costituiscono il nucleo del suo processo conoscitivo; egli ricapitola, cioè riassume, ripercorre le varie fasi, poi tira le fila del discorso e raggiunge il significato in sintesi rapidissime, fulminee appunto. “E dipende soltanto dai significati che son capace d’inventare dalle conseguenze che ho il coraggio di riconoscere, che la mia vita non sia un ammasso orrendo di combinazioni”. Questi significati lui li ricava, come abbiamo visto, non li trova pronti, li inventa perché ne ha la capacità, ne parla e se ne assume la responsabilità perché ha coraggio. Con questo ribadisce la sua unicità, il suo valore e la sua abilità nel tirar fuori dagli elementi casuali, caotici e disordinati delle esperienze della sua vita qualcosa che abbia un senso, nel combinare questi elementi in modo da originare quelle conoscenze contenute nelle fulminee ricapitolazioni. A questo punto Cardarelli enuncia la teorizzazione del limite come principio di conoscenza: “Il segreto delle mie conoscenze è l’insoddisfazione. Di ogni cosa vedo l’ombra in cui culmina. Affermo il limite, principio dalla negazione: la realtà è l’eterno sottinteso.” L’insoddisfazione diventa il fattore dinamico della conoscenza. E’ l’insoddisfazione per ciò che ha già scoperto che lo porta a cercare ancora, e non perché le conoscenze già ottenute non siano valide, ma perché la luce che l’autore ha gettato sulla realtà grazie ad esse proietta più in là una zona d’ombra che lo incuriosisce. Ogni cosa culmina in un’ombra perché questa per l’autore è la parte più alta, più importante ed anche quella più difficile da raggiungere come lo è la cima di una montagna. 1) Alfredo Gargiulo, “Vincenzo Cardarelli”, in Letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1958, p. 435. 28 La realtà tutta è un insieme di conoscenze (luce) e di mistero (ombra), una serie di dati raccolti e definiti a cui bisogna però sempre aggiungere un’incognita, l’eterno sottinteso, la zona d’ombra, il non-conosciuto. E se questo vale come principio fondamentale per il processo conoscitivo di Cardarelli è anche un avvertimento per il suo lettore a far attenzione al non-detto, al significato nascosto degli enunciati. Cardarelli afferma il limite nel senso che lo fissa, lo pone come dato imprescindibile. Parte dal negativo (dall’insoddisfazione, dall’ombra, dalla disfatta) e lo esalta perché non lo considera l’esatto e l’astratto opposto della verità, ma la strada per arrivare ad essa. E’ interessante notare l’uso del verbo principiare invece dei più comuni iniziare o cominciare, dovuto forse alla volontà dell’autore di dar risalto al ruolo attivo di creatore che lui assume in questo processo (in latino, infatti, principiare deriva da prior, primus, princeps). “Gli uomini che tengono un poco alla mia compagnia bisogna che si preparino a lasciarsi annullare. Io divoro i fatti”. Egli annulla gli uomini nello stesso senso in cui divora i fatti: il divorare non implica l’idea di distruzione totale, ma quella di trasformazione e di assimilazione. “La mia lirica (attenti alle pause e alle distanze) non suppone che sintesi”. L’avvertimento tra le parentesi è stavolta diretto in modo esplicito al lettore per richiamarlo sul significato dello spazio bianco che sembra ricordare il rischio incessante del silenzio, ma soprattutto perché non sottovaluti l’importanza delle pause e dei ritmi più o meno veloci nella sua prosa spezzata e metallica. La conclusione dei Dati biografici offre la chiave di lettura per l’intero volume: Cardarelli dichiara di dare in questi scritti solo immagini folgoranti e concentrate, le illuminazioni finali dei suoi pensieri e non l’intero procedimento attraverso il quale le ha elaborate. In queste sintesi egli offrirà il massimo della concentrazione e del rigore espressivo e le darà come essenza, in senso metafisico. “Luce senza colore, esistenze senza attributo, inni senza interiezione, impassibilità e lontananza, ordini e non figure, ecco quel che vi posso dare”. La sintesi in quanto assoluta è di per sé autosufficiente e completa, così come la luce vera non ha bisogno dei colori che creino il contrasto necessario a farla vedere, l’esistenza 29 non ha bisogno di attributi che la qualifichino e come l’inno non ha bisogno di interiezioni che ne mettano in risalto la solennità. Egli ci dà ordini e non figure nel senso che ci offre la struttura e non gli elementi che l’hanno composta, il culmine del percorso e non gli accidenti che ha dovuto affrontare, la parola poetica già purificata e non il diario interno del suo supplizio. Egli esige impassibilità e lontananza dalla sua lirica perché solo il distacco dalle esperienze rende possibile la vittoria delle ricapitolazioni e respinge così la forte moralità e la tensione vociana. Le ultime parole di questa pagina (ecco quel che vi posso dare) contengono l’ennesima dichiarazione della sua grandezza di autore e un’ulteriore conferma del sentimento mitico della propria eccezione. Esse non indicano una carenza di risultati anzi, al contrario, visto che la realtà è piena di zone d’ombra ed è inconoscibile nella sua interezza, le sue verità offrono molto e comunque sicuramente di più di quanto possano offrire gli altri autori. I temi trattati da Cardarelli nei Dati biografici sono sviluppati e ripresi in tutte le altre pagine del libro, ripetuti ossessivamente in una prosa lapidaria, pausata tra un capoverso e l’altro, che l’autore usa per dimostrare la ferma convinzione nei suoi proponimenti e nei suoi ragionamenti stringenti, energici e precisi. Sentiamo viva all’interno di quest’opera la personalità dell’autore, tanto che sembra siano la forza, la capacità risolutiva, la tensione, il vigore polemico del suo carattere a dare il ritmo e il tono alla sua prosa. Infatti, come ha già notato Mario Luzi in un saggio che analizza i rapporti tra la vita psicologica e l’opera del poeta 2) , nel nostro autore l’attività letteraria ha avuto origine come esercizio indispensabile della sua personalità. E sono proprio la personalità di Cardarelli e le riflessioni sulla propria arte le protagoniste incontrastate di Prologhi, un libro che potremmo analizzare come una sorta di glorioso autoritratto. Per prima cosa vediamo ribaditi con perentorietà e sicurezza gli atteggiamenti superumani di uomo d’eccezione: “Io sono un uomo forte. Se penso che ho potuto aver paura di qualcuno, piegarmi a qualche intimidazione! Se penso che a me, che non mi son mai fatto indicare una strada... ha potuto farmi paura la vita!”. 30 Si sente superiore a tal punto da rifiutare le vittorie ottenute con troppa facilità e il riconoscimento palese del suo valore: “io non ero uomo da potermi prendere soddisfazioni volgari... Ho persino difficoltà a compiacermi, anche silenziosamente, se un fatto viene a dimostrare quanto le mie opinioni fossero indovine. Non mi piace che la realtà sia con me”. “La rivelazione della mia potenza mi turba e mi corrompe. La lode mi contraria e mi disinganna”. Nella polemica con gli altri la sua voce mantiene questo timbro d’eroismo accompagnato da una buona dose di aggressività e di presunzione: “Io so in coscienza di aver fatto tutto per voi... Io mi posso vantare d’aver sempre saputo bene dove sarei riuscito più doloros quando vi battevo; voi no”. “Non vi fidate di me. Non avrò pietà del vostro affetto. Io non ho nessuna ragione di rispettare un uomo soltanto perché l’ho conosciuto... vi presenterò dei conti che non immaginate. Vi ricorderò dei particolari da meravigliarvi come io abbia potuto notarli... Le mie ultime parole saranno tempestate di verità. - Avreste per caso la forza di resistere ancora?” E vede gli altri come esseri mediocri che sono costretti ad assistere alla sua grandezza e lo odiano per questo: “quello che meno ci riuscì di tollerare in lui era la sua presenza... Non gli potevamo perdonare di averci messo in questa infelice condizione di spettatori della sua esistenza... Che proprio noi ci fossimo trovati ad essere i contemporanei di qualcuno!”. “troppe velleità inconsolabili si sentono offese quando io mi esprimo”. La celebrazione di se stesso e l’affermazione della sua superiorità è accompagnata dalla ripetizione continua del calvario sofferto, delle esperienze negative che hanno scandito le fasi della sua vita. Il male affrontato e sconfitto gli ha dato questa posizione di forza: “Ho esplorato tutti i mali”, “ho sempre dormito nei disagi”, “Mi appoggio ai miei errori”, “Ho fatto più esperienze che non ne avessi obbligo e intenzione, “ho ecceduto nella 2) Mario Luzi, “La personalità e la poesia in Cardarelli”, in L’inferno e il limbo, Firenze, Casa editrice Marzocco, 1949, 31 carne fino all’ironia... so cosa vuol dire far esperienza d’una tentazione e liberarsi dal male a prezzo di tante cadute”. Il rapporto con gli altri è ostacolato da questa sua diversità. E quando egli ha provato a superare questa difficoltà e a costruire un legame più profondo con i suoi simili, non ha ottenuto che delusione e dolore. La sua fede nell’amicizia era in contrasto con gli interessi degli altri (“E quelli che mi hanno toccato non s’erano lavate le mani e le intenzioni”, “E’ stato un matrimonio d’interesse”), che non hanno mai veramente compreso le sue più acute intuizioni (“L’uomo s’accorge presto.... di dover sostenere le sue verità suscettibili e delicate in mezzo a ben sordide compagnie”), che gli hanno fatto del male senza nemmeno accorgersene (“Le ferite più stridenti me le avete fatte senza saperlo”) e che lo hanno costretto ad annullarsi per essere accettato (“Mi son tradito, mi son dimenticato... Mi son smarrito nelle vostre parole, umiliato nelle nostre virtù. Mi son disprezzato nel vostro potere”, “ho preferito coprirmi d’ombra”). L’accusa che Cardarelli con più frequenza lancia agli uomini è di essere indifferenti nei suoi confronti: “il loro amore non era senza indifferenze profonde e disumane”,”Voi non vi siete mai curati di me; neppure per assestarmi un bel colpo”. La cosa che non tollera è la loro reticenza, la mancanza di una presa di posizione. Lui che con coraggio si è sempre e comunque schierato, ha dato giudizi, ha pagato le conseguenze di ogni affermazione fatta assumendone la paternità, si trova circondato da troppa vigliaccheria: “Se oggi ritornasse Gesù Cristo, credete che si troverebbe almeno un Giuda disposto ad impiccarsi per lui? - Tutt’al più qualche Ponzio Pilato, che era romano e uomo d’ordine, e indifferente alle epoche quanto alle opinioni”. “Giudizi oculati, adesioni ristrette, inviti ad assuefarsi, aspettative senza brivido dei camerati: ecco quel che si trova”. “Dove troverò un canto fermo, un uomo che mi faccia l’onore di non mentire?” Egli esige almeno una negazione, preferisce essere negato piuttosto che ignorato (“spesso la semplice constatazione è il peggiore giudizio che si possa fare d’un uomo”). La solitudine e l’orgoglio, due caratteristiche negative, almeno quelle chiede gli siano riconosciute come fatti reali. p. 88. 32 All’impossibilità dello scambio sociale, alle contraddizioni della comunicazione interpersonale (“la verità è quella che non riusciamo a dire”, “io non so conversare”, “La parola scorre come un polline che ciascuno riceve secondo il suo impulso generatore. Il linguaggio degli uomini più comprensivi è sempre stato quanto di più allusivo e favoloso si possa immaginare”) l’unico sbocco sembra essere la solitudine. “E’ dunque scritto che io me ne debba star solo”, “non me lo impedirete... che io mi riduca ogni volta sempre più silenziosamente in me stesso”, “La sua periodica necessità di nascondersi... quella sua maniera perfida di star lontano... la sua orgogliosa infelicità nei contatti”. L’immagine è quella di Narciso che, condannato alla solitudine e nell’attesa della morte, si ripiega e discorre con se stesso. L’isolamento è orgogliosamente esibito e difeso da Cardarelli il quale, d’ora in poi, non tollererà dagli altri che rare apparizioni e fuggevoli presenze: “L’amore non ammetto ormai più che mi si dichiari... Mi piace la simpatia che arrossisce di sé e scappa borbottando. Gradisco le attestazioni presupposte e dimenticate. Non tollero che rare apparenze”. “ho... accostato il mio simile... rompendo a tempo la consuetudine e sapendomi guardare dalle intimità che mortificano tutto quel che ci può essere di straordinario in una relazione”. Egli soffre tanto per questi travagliati rapporti che gli diventa necessario troncare ogni legame con il prossimo e allontanarsi dal mondo: “ora bisogna che ci separiamo”, “Me ne andrò... Non scriverò e non riceverò più lettere da nessuno”, “Non c’è amore che non riconosca l’inevitabilità di certi abbandoni”, “Siamo noi che dobbiamo capire. Toccate certe verità, all’uomo non rimane che prendere, in silenzio e da buon traditore, la decisione che più gli conviene. La mia è sempre quella. Partire”. La solitudine gli è indispensabile anche per adempiere alla sua missione di creatore. La sua moralità consiste infatti nell’assolvere il compito che si è assunto, nell’obbedire a quel comando che si è dettato. Come per i simbolisti, per Cardarelli il poeta è un veggente, le cui visioni logiche, che paiono un momentaneo effetto della nostra ottica mentale... sono invece il nostro reale domani che si annunzia. Queste visioni logiche (che se da una parte fanno pensare a delle rivelazioni incontrollabili, a delle illuminazioni percepite sensorialmente, dall’altro aggettivo logiche 33 le definisce come cose razionali a cui si arriva con procedimenti ordinati) diventano delle previsioni, annunciano la realtà futura. E il poeta deve rendersi conto dell’enorme responsabilità che si è assunto con l’esprimere le sue visioni logiche, perché le parole si combinano, prendono vita propria e ad un certo punto diventano atti, si realizzano. “Guai a scordarsi delle proprie parole. Quello che ci si è presentato una volta come una candida invenzione della fantasia, tornerà a presentarcisi immancabilmente nella forma dolorosa d’un fatto da accettare. Guai a non averci pensato. L’uomo non è un mago, e i sistemi ch’egli suscita non sono spettacoli che si contentano di finire”. “Le parole vogliono farsi atto. Gli scrupoli non possono trattenere la realtà dal divenire”. La parola perde il carattere di candida invenzione, la forma con cui la si è usata inizialmente, per assumere quella dolorosa nel futuro. Essa quindi non può essere adoperata per giuoco, ma impegna totalmente lo scrittore che deve assumerla come fatto etico: “Bisogna stare attenti a discorrere. Ogni affermazione è un giuramento che facciamo, un impegno d’onore che ci accolliamo. Le parole non si dicono, si dànno. Si procede da quel che si è detto. In principio erat verbum. La vita d’un uomo può essere più o meno grave secondo che egli si sia più o meno permesso di parlare”. La consapevolezza dell’impegno che l’atto della parola comporta, la parola come gesto e che si identifica con il fatto: concetti che stabiliscono certamente una relazione tra Cardarelli e movimento vociano. Ma non possiamo limitare ad un generico appello moralistico quello che appare invece come una professione di fede nella forza attiva della parola 3) . Essa diventa per il nostro autore l’atto istitutivo di qualsiasi processo e, con questa rivalutazione prioritaria della parola, egli capovolge il principio realistico per il quale prima c’è la cosa che poi viene definita dal linguaggio. La letteratura diventa struttura. C’è qualcosa di diverso in Cardarelli rispetto al vocianesimo, qualcosa che ci fa intravedere il futuro rondista: c’è il valore oggettuale e insostituibile della parola, un valore sacro e irriducibile che non ammette abusi e che costringe il discorso ad essere esecuzione ed obbedienza ad essa. E’ la certezza della parola che definisce il limite: “Se c’è una cosa ch’io rispetti è il limite. Se c’è una cosa ch’io non conosca è il limite”. 34 L’aspirazione all’esattezza definitoria, alla compostezza e al possesso completo del linguaggio gli impone dei limiti e lo porta a rifiutare le salienze espressive e l’esposizione violenta delle poetiche moderne che questo limite invece ignoravano: infatti mentre futuristi e vociani operavano per una rottura del linguaggio, lui propone il ritorno ad un classico equilibrio. Ma la seconda affermazione rimette subito in discussione quello che poco prima aveva assertito con una forte pronuncia di verità. Atteggiamento tipico in Cardarelli che, nel momento in cui afferma perentoriamente una cosa, per cui si ha quasi l’impressione che l’abbia scolpita nel marmo, immediatamente la rimette in dubbio. Il limite per lui, invece di essere un confine di ciò che non può essere superato, diventa uno spazio, un’apertura nuova. Egli sembra fissare dei limiti solo per provocarli continuamente, come dice lui stesso: carattere tipico degli scrittori di questo secolo e segno della modernità di Cardarelli, autore che mentre mette in evidenza alcuni segni molto netti e verticali lascia dietro un immenso territorio che bisogna esplorare. Ritornando al limite linguistico che egli si era proposto, vediamo che l’aspirazione ad una scrittura razionale viene ostacolata da elementi di irrazionalità che si inseriscono nell’organizzazione formale della sua prosa (e per questo contrasto quando Cardarelli parla di pazzi logici sembra alludere a se stesso). Il suo impulso e la sua passione non conoscono limite e ciò che ha da dire ha bisogno qualche volta di essere urlato. Rappresenta una trasgressione al limite la fisicità di espressioni come questa, la brutalità dell’immagine che essa richiama: “Ci sono giorni che lo sforzo della vita mi sradica alle gengive”. E d’altra parte è la parola stessa a contenere l’elemento di irrazionalità che contraddice la sua certezza e rende impossibile un uso preciso e un dominio completo di essa. Anche la parola, come la realtà, ha la sua zona d’ombra, il suo corrispettivo taciuto, il sottinteso: “le parole, se hanno qualche valore, è solo in virtù dei loro sottintesi”. 3) Bice Mortara Garavelli, “L’articolazione interna del discorso di Cardarelli”, in Atti delle giornate di studio su Vincenzo Cardarelli, Tarquinia 25-27 settembre 1981, pp. 3-4. 35 Questa impossibiltà di dominio completo della materia, l’oscura sofferenza del limite sconosciuto e insieme trasgredito, la mancanza di certezza e il senso del dubbio in Cardarelli, sempre teso verso la verità e che fa delle affermazioni il punto d’arrivo della sua poetica, provocano a volte uno stato di disperazione totale. “Teso sul letto, sospeso e quasi inesistente, oscillo come un ago calamitato”. Lui di solito così verticale è ora in una posizione orizzontale (teso sul letto), lui di solito impetuoso e sicuro di sé ora si sente sospeso e inesistente, un ago calamitato in una tempesta magnetica. L’inerzia a cui si abbandona è vissuta come malattia e resa e i momenti di pausa (Pausa è anche il titolo di una prosa che descrive appunto la sofferenza causata all’autore dal senso di sconfitta che lo fa astenere dalla lotta) li definisce angosce letargiche che rappresentano per lui veri anticipi di morte, durante i quali diventa predominante la tendenza a tacere e incombe su di lui la minaccia del silenzio. “Bisogna che io non oda, non veda, non esista più. Una tremenda impossibilità mi accompagna”. Ma il tacere non è l’approdo ultimo di quest’opera, caratterizzata invece dallo sforzo continuo dell’autore per vincere il silenzio. Prologhi vive del dramma e della tensione del poeta alle prese con le proprie contraddizioni, dell’urto fra disperazione e speranza e della tormentata avventura del suo personaggio che, come un eroe, perdendo le singole battaglie prepara la vittoria finale. E gli ultimi due testi del libro, Saggezza e Silenzio della creazione, probabilmente fra gli ultimi anche in ordine di composizione, sembrano proprio suggerire una conclusione ed aprire una prospettiva positiva. Il titolo della prosa Saggezza ci riporta ad un atteggiamento peculiare del Cardarelli dei Prologhi, quello del maestro impegnato a scandire le sue sentenze e le sue definizioni, e se questo atteggiamento rimane, cambia però il soggetto delle sue affermazioni che non è più l’io ma il noi. Egli non parla più di sé ma dell’uomo e in questo tentativo di innalzare il privato ad assoluto, in questa volontà d’astrazione e di leggi universali, Cardarelli assomiglia di più al nicciano Zarathustra, spinto verso il divenire e non più ripiegato sulle angosce e sulle sofferenze del passato, la cui grandezza non sta solo nel conoscere ma soprattutto nell’effetto della sua conoscenza sugli uomini. Inoltre, come un vero saggio, lo scrittore nelle due prose conclusive sembra volersi liberare da ogni sicurezza immanente e aprirsi al dubbio, accettare l’esistenza delle 36 contraddizioni ed il consumarsi della nostra vita in mezzo ad esse. Le stesse affermazioni, punti saldi della sua poetica, paiono messe in discussione perché se parlare è compiere un’infrazione, allora nelle affermazioni, dove si arriva a delle apparenti certezze, la trasgressione sarà ancora più grande (quel che si conosce è che c’è qualcosa d’intollerabile in tutte le affermazioni); e infatti gli uomini più comprensivi, quelli che hanno capito di più, parlano in maniera allusiva e non per affermazioni. Cardarelli riconosce inoltre il suo destino di passione, la presenza continua nelle sue sentenze di quella passione che aveva dichiarato nei Dati biografici voler annullare e respingere dalla sua lirica e prende coscienza della propria imperdonabile superfluità e inutilità. Neanche l’opera può consolare l’autore perché essa, una volta conclusa, appartiene a se stessa e la sua sopravvivenza presuppone la scomparsa del poeta al quale oramai non rimane che assiste in silenzio alla sua performance: “Esprimere è restituirsi. L’opera che esce dalle nostre mani segue un suo destino. Giudicarlo non ci appartiene. Non hanno valore, del resto, se non le opere e le azioni dimenticate. Come è vero che la grandezza di un’offerta si può giudicare dalla facoltà di distacco e di oblio che è nel donatore. L’eterno silenzio succede all’estrema donazione”. Alla consapevolezza di questo irrimediabile destino egli non reagisce con la rassegnazione ma propone qualcosa di più: “Distrutti gl’idoli e smesso di chiederci le ragioni; abbandonata in un’esperienza indiscutibilmente amara ogni innocenza carnale; restituito alle antipatie il loro diritto, esaurite le impossibilità, provocati tutti i limiti; pieni d’ironia verso ogni promessa, diffidenti contro ogni suggestione: coscienza, implacabilità, resistenza - tutte queste alla fine non sono che superbe e necessarie premesse, ben lungi dall’escludere una dominante fiducia nell’avvenire”. Con uno scarto della volontà Cardarelli supera il dramma e si proietta nel futuro. E nell’interpretare la conclusione del libro come promessa di un superamento, concordiamo con Adele Dei, secondo la quale i “Prologhi”, compiuto un percorso ristretto ma intenso, sperimentata la fecondità delle plurime negazioni, si chiudono con un dissimulato scarto positivo, che giustifica allora la spinta in avanti del titolo, apre a un “dopo” oltre i rifiuti e gli addii... Le negazioni, assaporate all’estremo con irritante insistenza, si identificano 37 allora con le premesse - i “prologhi” appunto - di un futuro diverso ma conseguente, che non si può alla fine non attendere con disincantata speranza 4) . A questo punto, per evidenziare la peculiarità di un’opera come Prologhi nell’ambito della produzione cardarelliana, ci sembra opportuno analizzare l’atteggiamento dell’autore nei confronti del suo primo libro. Esso emerge chiaramente in un tardo intervento dello scrittore sulla rivista “Rotosei” del 16 maggio 1958 5) , dove sono ribadite la validità della svolta stilistica compiuta dopo Prologhi e la necessità del distacco dall’intellettualismo iniziale: “Ancor oggi si discute se il meglio di quanto ho scritto sia rappresentato da quel primo, mitico volume, o dalle mie opere successive. Chi è rimasto attaccato ad una visione complicata e artificiosa dell’arte, parteggia per Prologhi senza esitazione, ma io non sono dello stesso parere. In questo senso posso dire che quel primo successo contribuì a chiarirmi le idee, e mi aiutò a capire che in arte il vero progresso non ha direzioni intellettualistiche, ma consiste nell’aderire sempre più alla pratica, al quotidiano, alla realtà oggettiva. Un paesaggio in effetti è più importante del pensiero. Così, dopo Prologhi, compresi che dovevo distruggere quanto vi era in me di cerebrale, e distaccarmene subito anche se ciò significava sforzo, fatica e lotta contro le proprie abitudini spirituali”. Si capisce la preoccupazione di Cardarelli di trovarsi imprigionato dentro il volume di esordio. Per lui, nel ‘58, essere solo l’autore di Prologhi è meno di niente. Quel giudizio che esalta la sua prima opera tende ad annullare le successive, le quali poi sono quelle che più gli interessano, quelle a cui lo scrittore crede di aver consegnato l’immagine di un autore originale, unico e inimitabile. Da tale punto di vista si capisce meglio la polemica contro Prologhi, relegato dentro una visione complicata e artificiosa dell’arte, dove i due aggettivi complicata e artificiosa stanno proprio a rappresentare quell’arte moderna che si era cercata una propria fisionomia da contrapporre all’arte classica. Quel mitico volume agli occhi del neoclassico appare come una resa al nemico. Non gli potevano più piacere la temperatura, il forte cromatismo, l’esasperato individualismo, le violenze di una soggettività, magari in catene, ma urlante. Cardarelli cioè rinnega Prologhi in nome di tutta la sua storia successiva, non essendo fra l’altro il tipo da ammettere che in lui ci possano essere due poeti diversi. 4) Adele Dei, “Cadute e resurrezioni nei “Prologhi” cardarelliani del 1916”, in Atti delle giornate di studio su Vincenzao Cardarelli, Tarquinia, 25-27 settembre 1981, pp. 11-2. 5) ora nell’ “Introduzione” di Clelia Martignoni, in Vincenzo Cardarelli, Opere, Milano, Mondadori, 1987, p. XXXIV. 38 Contro il dongiovannismo degli sperimentali egli sa che ad un poeta viene assegnata in sposa una sola forma: il resto è libertinaggio e non può essere fecondo. E’ come se Cardarelli rinnegasse un figlio illegittimo. Non avrebbe mai tollerato di essere ricordato come un prosatore espressionista, quale appare nell’opera dell’esordio. Tuttavia a questo punto, senza sottovalutare ma anzi con la massima considerazione per il lirico e per il prosatore degli anni successivi, Prologhi risulta segnato vittoriosamente dal linguaggio che all’inizio del Novecento sembra aver avuto una delega di rappresentanza culturale dell’epoca. Erano a loro modo e in modo diverso espressionisti, per testimonianza di Debenedetti, Pirandello e Tozzi nonché Gadda e, magari contro l’opinione dello stesso Debenedetti, scrittori formatisi dentro “La Voce” come Savinio, Jahier, Rebora. Con qualche forzatura potremmo dire che anche Prologhi è l’opera di un espressionista e pare destinato a tenere compagnia alle poesie, quando si dovessero indicare le opere migliori dello scrittore di Tarquinia. Malgrado il suo parere contrario, potremmo ipotizzare una specie di percorso carsico dell’opera prima di Cardarelli. Alcuni suoi ingredienti ideologici e formali riaffiorano successivamente e vanno ad irrigare l’attività del poeta, specialmente quello del tempo vociano, e straripano nel polemista culturale e letterario del saggista e del critico. Roberta Ciurluini 39 SPORT, GIOCHI, MUSICA E DANZA NELL TOMBE ETRUSCHE DI TARQUINIA. Il popolo etrusco, che si mostra estremamente versatile nelle varie manifestazioni della sua civiltà, manifesta nei molti reperti giunti sino a noi, un notevole interesse per lo sport, i giochi, la danza e la musica. Questo, però, non deve meravigliare in quanto, se noi ricerchiamo attentamente, possiamo vedere come, in particolar modo, quella attività che oggi indichiamo come sportiva, sia stata presente anche nei popoli dell’Asia Minore e del bacino del Mediterraneo sin dal 3000 a.C.. Testimonianze sono state ritrovate tra i resti della civiltà sumera, babilonese, egizia, cretese ecc. Le prime prove sicure di questo interesse da parte degli Etruschi, ci presentano figure di guerrieri muscolosi, che possiamo considerare come “sportivi”, perché per diventare guerrieri bisognava raggiungere un certo tipo fisico, che era possibile avere solo dopo una lunga serie di esercizi atletici per sviluppare nel modo giusto la muscolatura. Tali figure sono sia a piedi (stele funeraria di Avile Feluska, ritrovata a Vetulonia e ora nel Museo Archeologico di Firenze, nella quale è possibile vedere un guerriero dal grande torace e dalle gambe tozze e muscolose), che a cavallo di animali fantastici (askos della Tomba Benucci I-Bologna). Nei reperti dell’VIII secolo si hanno raffigurazioni sempre a carattere bellicoso, forse perché è il tempo in cui gli Etruschi stanno spandendosi tanto sul mare che sulla terraferma. La figura del guerriero è perciò estremamente attuale. Verso il VII sec. a.C. comincia a manifestarsi l’amore per l’attività ludica quindi non si hanno più rappresentazioni solo a carattere bellicoso e forse, si possono considerare tra le prime immagini di scene di caccia, quelle della “Tazza d’Argento Dorato” (metà VII sec.a.C.) ritrovata nella Tomba Bernardini a Preneste. E’ possibile infatti seguire, negli ornamenti di questa “Tazza”, tanto un inseguimento di cavalli ed uccelli, quanto alcuni momenti di una battuta di caccia del principe Cinira. Durante il periodo che va dalla fine del VII sec. a.C. alla fine del VI sec. a.C., poi, c’è la massima espressione della civiltà etrusca, ed è quindi logico che, in questo momento di progresso economico, ci sia un cambiamento anche nelle abitudini. Poco alla volta, l’attività fisica passa dall’essere essenzialmente propedeutica alle arti belliche, ad un tipo di attività per diletto proprio e degli altri (spettatori). Da quanto ci ha tramandato Tito Livio, sappiamo che in occasione delle cerimonie per la fine dell’anno, presso il Fanum Voltumnae (la cui collocazione è ancora incerta), si 40 svolgevano i cosiddetti “Giochi Panetruschi”, che avevano inizio con l’atto di piantare un chiodo sul Sacrario di Norchia da parte del sommo dignitario, in segno dell’inarrestabile passare del tempo. Infatti, come scrive l’annalista Cincio Alimento, era questo il modo in cui venivano contati gli anni. La nazione etrusca sarebbe durata dieci secoli e, anno dopo anno, la sacra parete del Tempio, che si riempiva sempre più, rendeva ancora più evidente lo scorrere del tempo e l’avvicinarsi della fine del “Nomen Etruscum”. A questi giochi partecipavano atleti di tutte e dodici le lucumonie etrusche. Tutto avveniva in modo spettacolare. In tali solenni manifestazioni non si affrontavano solo gli atleti o gli artisti per manifestare la loro abilità o la loro forza, ma, insieme a quella, che poteva essere un’affermazione personale, era in gioco anche l’importanza della lucumonia che rappresentavano, in quanto tra i lucumoni c’era quasi una sfida a chi avesse i campioni più potenti ed i musici e danzatori più abili. Le gare avvenivano tra “l’agitazione rumorosa e disordinata della fiera che si teneva accanto e gli intrighi politici che si annodavano all’ombra dei boschi sacri” (Heurgon), dato che durante queste assemblee veniva eletto tra i dodici lucumoni il capo supremo della lega, lo “zilath mechl rasnal” (magistrato supremo della nazione etrusca). Era una manifestazione di vigoria e di amore per la vita, un modo di affrontare l’ineluttabilità del destino e l’imperscrutabilità dei voleri degli dei. Anche Minerva, però aveva delle gare atletiche che si svolgevano in un periodo dell’anno che dovrebbe corrispondere al nostro mese di marzo e precisamente cinque giorni dopo le idi. Venivano designate queste feste, con il nome di “Quinquatrus”. Accolte dai Romani, venivano celebrate queste “Quinquatri” in onore di Minerva, dal 13 al 23 marzo le “maiores”, e il 13 di giugno le “Minores”. Non sempre però i giochi avevano il solo scopo di onorare gli dei, infatti Erodoto ci dice che dal 537 a.C. vennero celebrate nella zona di Pyrgi (dove erano stati massacrati dagli Agyllei, davanti al tumulo dei principes etruschi di Montetosto, tutti i prigionieri focesi presi nella battaglia di Alalia, persa dagli Etruschi), pratiche espiatorie richieste dalla Pizia, sacerdotessa di Apollo Delfico, per far cessare infausti e misteriosi avvenimenti che si manifestavano sul luogo dell’eccidio. Dice a questo proposito Erodoto: “... I Ceretani ebbero un numero di prigionieri superiore a quello degli altri (popoli d’Etruria), li portarono via e li lapidarono. Oltre ai Ceretani, quanti passavano per il luogo in cui giacevano i Focesi lapidati, animali da pascolo per il luogo in cui giacevano i Focesi lapidati, animali da pascolo o da tiro e uomini, diventavano storpi e mutilati e colpiti. I Ceretani, volendo riparare l’errore, inviarono a Delfi una delegazione a interrogare l’oracolo. La Pizia disse che i Ceretani facessero ciò che 41 anche ora fanno: essi infatti compiono grandi sacrifici funebri e organizzano ludi ginnici ed equestri”. Si svolgevano quindi “corse di cavalli, gare atletiche, danze e sacrifici”. Infine c’erano i giochi che venivano disputati in onore dei defunti. Nelle tombe di Tarquinia, nelle pitture murarie, scene di danze, di corse e di lotta, eseguite in onore dei morti e facenti parte spettacolare dei riti funebri, ci dimostrano quali siano stati i costumi etruschi in questo campo. Tali testimonianze poi, sono state rinvenute non solo nelle tombe, ma anche scolpite nei cippi e nei sarcofagi. Dalla forza vitale che si sprigiona dalle pitture delle varie tombe, ci si può rendere che le manifestazioni che si facevano in onore del defunto, quasi per esorcizzare l’idea della morte ineluttabile, non differivano molto da quelle che, “nelle feste di campagna, all’epoca delle semine e dei raccolti, tendevano ad eccitare magicamente le energie della natura, o nelle cerimonie cittadine ad assicurare la protezione divina ai loro Campidogli. Ch’esse fossero votate ai mani o agli dei non cambiava nulla nel loro programma” (Heurgon). La connessione delle competizioni sportive con il rituale funerario la possiamo però avere solo relativamente alla classe aristocratica. “Gli atleti o erano servi del defunto o erano impegnati e pagati; nell’uno o nell’altro caso qualificano il defunto come ricco” (Camporeale). Queste celebrazioni ci esprimono la grande vitalità del popolo etrusco nel campo della musica, della danza, delle rappresentazioni teatrali e nell’attività prettamente sportiva. Da quanto si può stabilire e conoscere dell’attività ludica, attraverso rappresentazioni pittoriche che si trovano nelle tombe, si può anche seguire l’evoluzione di questa civiltà dal primo stadio (VIII-VII sec. a.C.), in cui primeggiano figure di guerrieri e di atleti, all’ultimo (dal IV sec. in poi) in cui invece sembra prevalere un tipo fisico più pingue, nel quale molti hanno voluto vedere e vedono l’immagine di un popolo in decadenza che non riuscirà, ad un certo momento, a trovare la forza per resistere alla pressione romana. G. Camporeale, però, afferma... “in verità i personaggi grassi sono pochissimi nella grande quantità di quelli rappresentati sdraiati su sarcofagi o urnette. E’ molto probabile che qualche tratto di obesità debba essere inteso come una connotazione individualistica, in modo da ritrarre più efficacemente il defunto, piuttosto che un carattere generale riguardante il popolo nella sua totalità o quasi”. Quelli che si possono indicare come “giochi atletici” (lontani parenti dei Giochi Olimpici greci), cominciano ad apparire nel VI sec. a.C., segno di una civiltà, ormai giunta al suo apice, che può permettersi di dedicarsi allo sport e alla danza per puro piacere e divertimento. 42 Nel V sec. a.C. questa situazione ha un brusco cambiamento, infatti c’è la sconfitta di Cuma (474 a.C.) subita dagli Etruschi ad opera dei Siracusani di Gerone, mentre Roma sta crescendo sempre più, e i terreni lungo il litorale, poco alla volta, tornano paludosi ed i porti cominciano ad insabbiarsi (colpa del bradisismo?). In questo momento, la vita si svolge con pieno rigoglio solo nelle città poste sulle colline e circondate da una ricca agricoltura. Sembra quasi che i nobili Etruschi di tale periodo vogliano circondardi di musici, danzatori e atleti per godere appieno ogni istante della vita. Diodoro Siculo scriverà: “.... (gli Etruschi) hanno perso in genere l’antico valore e, trascorrendo il tempo in banchetti e feste, a ragione non conservano più la gloria dei propri antenati di fronte ai nemici...”. Appartengono a tali periodi numerose tombe dipinte di Tarquinia, le pareti delle quali mostrano artisti ed atleti nell’atto di manifestare la loro abilità e la loro forza. Le vicende storiche, però, precipitano: nel 396 a.C. cadde Veio, nel 353 Caere e anche Tarquinia è costretta nel 351 a C., dopo essere stata sconfitta, ad accettare un armistizio quarantennale con Roma. Sarà poi definitivamente sottomessa nel 308 a.C.. In questo clima di incertezza, gli Etruschi seguitano, dentro le mura delle città, a vivere al meglio delle loro possibilità, quasi come se volessero non pensare, assistendo a spettacoli vari e partecipando a banchetti, all’incerto futuro che si preparava per la loro civiltà. Per alcuni il tipico rappresentante di questa epoca, per quanto riguarda il “guerriero”, è il bronzetto votivo (prima metà del V secolo), che probabilmente rappresenta il dio Maris (Marte), in cui si notano gambe robuste sì, ma braccia quasi prive di muscolatura. Non è l’immagine tradizionale del focoso e irruente dio della guerra, ma quella di un guerriero pensieroso. Gli Etruschi, quindi, non soono più sicuri di poter concludere vittoriosamente i vari scontri. E’ un periodo di crisi e le pitture ci presentano uomini, che, poco o niente, hanno a che vedere con i forti atleti del passato. Anche le movenze dei danzatori sono meno decise, più “morbide” e presentano una dolcezza quasi femminea. Lo sport viene nuovamente alla ribalta nel periodo ellenistico (fine III, II, I sec. a.C.). C’è poi la romanizzazione, che ripropone le “palestre” (non per niente molti legionari di Cesare ed Augusto proveranno proprio dall’Etruria). Pugilato e pancrazio (un esercizio sportivo in cui si fondevano il pugilato e la lotta, di cui erano ammesse tutte le figure) ritorneranno in auge con i “collegia iuvenum” voluti da Augusto. E tutto questo verrà fissato con espressioni artistiche plastiche e pittoriche. 43 *** Da quello che si è detto fin qui, risulta evidente che è possibile dividere l’attività fisica degli Etruschi in un gruppo più rude, più a carattere bellicoso, ed in uno a sfondo prettamente ludico. Possiamo però prendere anche un altro parametro per dividerla e precisamente quella presente già in Grecia (pugilato, lotta, lancio del disco, lancio del giavellotto, corsa podistica, corsa dei carri ecc.) e quella tipicamente etrusca (gioco del Phersu, giochi di Troia, gioco del candelabro ecc.). Comunque una cosa sembra sicuramente affermabile ossia che, mentre nelle raffigurazioni etrusche accanto agli atleti si trovano dei musici, flautisti in modo particolare, questi non sono mai presenti in quelle greche. Dato che le tombe dipinte di Tarquinia sono ricche di raffigurazioni di tutte queste manifestazioni, è possibile seguire, attraverso la loro osservazione, l’evoluzione e gli sport privilegiati nel corso dei vari secoli. E’ opportuno però, prima di iniziare a trattare questo argomento, ricordare quanta importanza veniva data da questo popolo, alla musica, che si può considerare una componente essenziale del loro modus vivendi. Come dice l’Heurgon “.... ciò che doveva essere più difficile da scovare in una città etrusca era il silenzio”. Tutto infatti era scandito ed accompagnato da una cadenza musicale. Nella Tomba “Golini” (Orvieto) si scorge uno schiavo che mescola, trita energicamente gli ingredienti, al suono del flautista che accompagna con la melodia i suoi movimenti decisi e forti. Altri schiavi, che stanno preparando della carne, del pesce da cucinare o le spezie macinate necessarie per le varie pietanze, si muovono con movenze ritmiche; nella punizione corporale di un servo, la verga per la sua fustigazione, scende rapida, ma con regolare cadenza, al ritmo di un suonatore. Al di là di quanto raffigurato in tale tomba, pure i pastori di porci guidavano i loro animali, abituandoli al suono della musica, che ritmava il tempo nei loro movimenti e gli ordini di chi li conduceva al pascolo. La musica quindi, accompagnava ogni atto della vita privata o sociale: matrimoni, funerali, semina e raccolta del farro, banchetti, vendemmia ecc. Eliano nella sua “Storia degli animali”, scrive che gli Etruschi catturavano i cinghiali e i cervi attirandoli nelle reti con l’aiuto della musica. Aristotele però, che non comprende bene il compito che questa svolgeva, la ritiene fonte di pigro languore; non si rende conto che spesso imprimeva il ritmo, la cadenza ad azioni violente. Se oggi si pensa ad un incontro di pugilato a suon di musica, forse si può restare sconcertati, ma il fatto che i 44 pugni fossero scanditi e che gli atleti si muovessero come in una danza ritmica, non toglieva violenza e brutalità al loro scontro. Non esisteva infatti un solo tipo di musica, ma tanti quante erano le attività umane. Lo strumento principe per gli Etruschi era il flauto doppio con due imboccature. Di questo strumento però, conoscevano tutte le varietà: da quello semplice a quello doppio già ricordato, al clarinetto e all’oboe. Diodoro Siculo afferma che anche la tromba da guerra, che è detta “tirrenica” era stata inventata da questo popolo. “Il suo limpido squillo accompagnava le truppe, ma poteva anche avere un altro, più profondo significato: poiché anche i celesti, si credeva, annunciavano la loro irrevocabile volontà con uno squillo di tromba. Quando fosse risuonato argentino nel cielo, era segno infallibile che si chiudeva un periodo nell’esistenza del popolo etrusco e iniziava un nuovo saeculum” (Keller). Accanto alla “tyrrhenica tuba” ce ne erano altre. Un tipo, ad esempio, aveva l’estremità curva come il lituus degli auguri, un altro ancora era circolare e rassomigliava al nostro corno da caccia. La presenza di queste trombe si ritrova specialmente durante le battaglie e le sfilate militari. Per tutto ciò, per questa loro presenza continua nella società etrusca, non ci si deve quindi meravigliare se i suonatori sono continuamente raffigurati sulle pareti dipinte delle tombe. *** Terminata questa breve parentesi, iniziamo la nostra analisi relativa, appunto, alle attività fisiche che, nel corso dei secoli, sono state testimoniate dagli antichi pittori, che avevano il compito di rendere più bella l’ultima dimora dei ricchi dell’epoca. La prima attività fisica di cui ci occuperemo, sarà la danza, attività più legata alla musica ieri come oggi. La danza, poi, può essere considerata indispensabile per un banchetto. Banchetto che, in un primo tempo, è rappresentato come una semplice scena familiare, nella quale usualmente marito e moglie vengono presentati sdraiati sulla kliné, attorniati da servi, da ancelle, dai figli ecc. Poi sarà più articolato in quanto sono riuniti parenti ed amici per banchettare in onore del defunto. Sin dal VII secolo a.C. si trovano testimonianze della danza che, secondo le sue gestualità può essere “armata”, “bacchica” e “sacra”. La più antica è sicuramente la prima. Sulle sue origini gli studiosi sono quasi tutti d’accordo: dovrebbero essere orientali. In Grecia, infatti, già nell’VIII secolo era abitudine di presentare, durante le feste religiose dei Dioscuri a Sparta, le Panatee ad Atene ecc., un tipo particolare di danza “armata” che riproduceva a tempo di musica i movimenti e le fasi di una battaglia. Questo falso combattimento, che veniva indicato come “pirrico” (dal nome del leggendario inventore, Pirrico, che era stato ispirato al dio Marte) era usualmente 45 accompagnata dal suono del flauto. Una traccia di questa danza è possibile vederla: nelle pitture della Tomba delle Bighe (490 a.C.), dove c’è un giovane danzatore (o corridore?) armato, con elmo, scudo, lancia, che sta in procinto di scattare, attendendo il via di un giudice alla corsa; nel giovane danzatore armato (elmo, scudo, schinieri e lancia) della Tomba del Guerriero (prima metà del IV sec. a.C.); nella figura di guerriero danzante della Tomba della Caccia al Cervo (450 a.C.); in quella di danzatore armato con mantello rosso, elmo, scudo e lancia della Tomba del Letto Funebre (460 a.C.); nei tre danzatori nudi, armati con elmo, scudo e lancia della Tomba dei Pirrichisti (500/490 a.C.) ecc. ecc. Raymond Bloch, quasi a testimonianza dell’esistenza di questa danza nel periodo anteriore alla vera fioritura della civiltà etrusca, ha trovato in una tomba villanoviana di Bolsena, un piccolo scudo votivo bilobato, caratteristica questa che sarà propria degli anciles, che, a Roma, venivano battuti uno contro l’altro dai danzatori Salii, durante le loro cerimonie sacre. Nel Museo Archeologico di Firenze, è possibile vedere in un bassorilievo due Salii che portano l’ancile. I movimenti della danza salica venivano indicati come “amptruare” e “redamptruare”. Il primo significava il salto che il direttore del ballo (praesul) faceva mentre girava (amptruabat), mentre il secondo la ripetizione di questo movimento da parte degli altri danzatori (redamptruabat). La radicale “truare” sembra proprio che abbia origine etrusca, dato che la parola “truia” dovrebbe significare o una specie di danza armata o il luogo, l’arena in cui si svolgeva. Il “lusus Troiae”, al quale, sotto Augusto, partecipavano nel Campo di Marte, tre gruppi di giovani nobili cavalieri armati, che non avevano superato i diciassette anni di età, dovrebbe quindi derivare il suo nome da tale gioco o danza armata etrusca. Virgilio però, nel V libro dell’Eneide, descrivendo la sfilata della “Troiae iuventus” in occasione dei funerali di Anchise, ci presenta le evoluzioni “dei cavalieri i cui giri e controgiri gli ricordano il labirinto di Creta” e quindi le fa risalire al popolo troiano per accreditare maggiormente la leggenda delle origini troiane di Roma. “Lusus Troiae” veniva quindi inteso dai Romani come il “Gioco di Troia”. “I tre plotoni al galoppo si suddividevano formando gruppi separati: a un nuovo comando operano una conversione correndo con la lancia in testa gli uni contro gli altri. Seguono altre evoluzioni in avanti e indietro, sempre fronteggiantesi, ma a distanza, circoli che si intersecano e “simulacri di battaglia” con le armi “ (Heurgon). La “truia” etrusca invece doveva svolgersi in un labirinto, tenendo presente la scena graffita sui fianchi di una oinochoé (VII sec. a.C.) scoperta a Tragliatella, presso Bracciano, in cui ci sono due cavalieri armati che, preceduti da sette soldati che ballano una danza guerriera, stanno uscendo appunto da un labirinto. Proprio nelle volute di questo si può leggere la parola “truia” scritta in etrusco. 46 Nelle tombe di Tarquinia sono numerose le scene in cui danzatori e danzatrici si abbandonano alla danza “bacchica”, anche se è difficile segnare con un confine ben delineato il punto dove la danza “sacra” è “bacchica” e viceversa. Si può dire però che non solo la pittura, ma anche qualsiasi altra manifestazione artistica, porti esempi di questo tipo di danza. Infatti Sileni e Menadi, fermati nel movimento indiavolato del ballo, ornano lebes, candelabri, treppiedi ecc. ecc.. Dalle ricostruzioni dei vari movimenti di tali danze orgiastiche, si è voluto trarre un significato drammatico: le varie azioni mimavano il rapimento della Menade da parte del Sileno. Sileni e Menadi erano al seguito di Dioniso ed è proprio a questo dio che tale danza etrusca si ricollega. Nei dipinti delle tombe di Tarquinia, specialmente in quelli delle Tombe delle Leonesse (520 a.C.), dei Baccanti (510/500 a.C.) e del Triclinio (470 a.C.) si può notare come nel breve lasso di tempo che separa la prima dalla terza, si sia modificata la gestualità di questa danza. Nella Tomba delle Leonesse, nella parete di fondo, al centro c’è un grande cratere “coronato” di edera (pianta sacra a Dioniso) alla destra e alla sinistra del quale ci sono due suonatori, uno di flauto e uno di cetra. Sempre nella stessa parete, a destra, una coppia di danzatori, che si fronteggiano, sta seguendo il ritmo del “tripudium” (con questa parola viene ad essere indicato un ballo a tre tempi, una danza saltellante). Ambedue i danzatori, la donna ricoperta da una tunica trasparente e l’uomo nudo dal corpo color rosso mattone, stanno eseguendo lo stesso passo, saltellando, con le braccia uno in aria e l’altro lungo il corpo. Si muovono a “specchio”: l’uomo solleva il braccio e la gamba destra, la donna il braccio e la gamba sinistra (movimento tipico della danza “bacchica”). Nella parte sinistra della parete, un’altra danzatrice, che è però completamente e pesantemente vestita, ben pettinata e con ai piedi i calcei repandi, sta compiendo un passo “scivolato”, girando su se stessa. Anche le sue braccia sono uno alzato e l’altro piegato verso il basso. Particolarmente interessante è osservare il movimento delle mani di questi danzatori. La “chironomia” è infatti elemento essenziale della danza etrusca che, si può dire, si basa più sulla gestualità delle mani che sui movimenti delle gambe. Nella Tomba dei Baccanti le grandi figure dei danzatori sono fissate nella loro ebbrezza, che viene esaltata dai gesti della danza. Nella Tomba del Triclinio l’atmosfera è più composta. I movimenti denotano un sommesso senso drammatico, anche quando c’è l’abbandono più completo alla musica, rappresentato quest’ultimo visivamente dalla danzatrice della parete di destra che, con la testa rovesciata all’indietro, le labbra socchiuse, un braccio ripiegato sul capo, sta muovendosi nel passo di danza con grazia e dignità. Anche il citareda ed il suonatore di flauto partecipano alla danza, separati da alberelli che rendono l’idea dell’ambiente, in cui si svolge la scena, pieno di pace e tranquillità. Forse in questa tomba i movimenti più delicati e più raccolti di alcuni 47 danzatori, e l’abbigliamento più sobrio denotano come ti stia partecipando ad una cerimonia a sfondo religioso; però al di là di questa apparente “compostezza”, si vede bene come tutti siano in preda all’ebbrezza dionisiaca. E’ la più bella raffigurazione di danza che si abbia per la grazia, la varietà e la misura dei gesti. Altra Tomba di Tarquinia in cui la frenesia bacchica è presente, è quella della Caccia e della Pesca (520 a.C. circa). Infatti nella prima camera, quella dedicat alla caccia, lungo tutte le pareti, si snoda una animata danza dionisiaca, interpretata da danzatori e danzatrici che seguono il ritmo della musica, facendo dei movimenti molto accentuati. L’evidente muscolatura dei loro corpi, forse potrebbe testimoniare una intensa attività fisica preparatoria, giacché queste prestazioni richiedevano un grande dispendio di energie sia per il tipo di movimenti che per la lunghezza della esecuzione. *** Nella Tomba degli Auguri (520/510 a.C.) che, dice L. Banti, “è forse il più antico esempio di gare “etrusche”, ossia non influenzate completamente dalla Grecia”, il pittore, padrone della tecnica a grandi figure (megalografia), fondendo elementi stilistici ionici con elementi e soggetti prettamente etruschi, presenta gare atletiche, cerimonie e giochi in onore del defunto. Nella parete di destra due lottatori, sullo sfondo di tre lebeti (il premio per il vincitore), si sono già saldamente presi per gli avambracci in attesa che il giudice arbitro, l’agonoteca, che è vicino a loro, dia il segnale per l’inizio del combattimento. I due atleti sono nudi e presumibilmente unti di olio di oliva, per rendere la presa più difficile. Da quello che si conosce, questo sport ebbe molta fortuna presso gli antichi. I greci, ad esempio, fin dal 708 a.C. (diciottesima olimpiade) lo avevano inserito tra le cinque gare del pentathlon. Gli Etruschi, con molta probabilità, dovrebbero aver praticato un tipo di lotta che aveva degli addentellati con quella ellenica chiamata “acrochiria”, nella quale i contendenti si prendevano solo per gli avambracci. I due lottatori nella tomba sono indicati con nomi etruschi: Teitu e Latithe, ma le loro caratteristiche somatiche sono orientali. I capelli e la barba sono nerissimi, gli occhi sono ornati da ciglia lunghissime ed il profilo presenta delle labbra molto carnose. La muscolatura è possente ed il peso del corpo è saldamente equilibrato sulle gambe; I due atleti stanno attentamente studiantosi per captare il punto debole dell’altro, cosa questa che potrà agevolare la vittoria. I due sono sotto l’attento sguardo di un tevarath con il lituo in mano. Quando sarà terminato il combattimento? Forse quando uno dei due sarà stato costretto a toccare con le spalle la terra. Altri lottatori sono presenti nella Tomba delle Iscrizioni (520 a.C.), dove, sulla parete di sinistra, tra le altre figure ci sono quelle di due lottatori impegnati nel combattimento 48 (uno di loro ha sollevato il rivale sulle proprie spalle e sta accingendosi a gettarlo a terra). Purtroppo tale tomba non è accessibile e le sue pitture non si possono più vedere. Esistono però dei disegni dello Stackelberg, che sono molto fedeli agli originali. Una situazione analoga si rileva nei riguardi delle pitture della Tomba delle Bighe (490 a.C.), distaccate ed ora al Museo Archeologico di Tarquinia. Il loro stato di conservazione è precario ed in alcuni punti sono poco leggibili, però anche per esse ci sono dei lucidi dello Stackleberg (scopritore della tomba stessa), che presentano chiaramente tutti i contorni delle varie figure. Tale tomba presenta il più grande ciclo etrusco con raffigurazione di gare atletiche, e quindi per questo è particolarmente importante conoscere le varie attività sportive praticate da questo popolo. Un gruppo che raffigura una coppia di lottatori si trova nel piccolo fregio della parete di fondo. Gli atleti stanno all’inizio della loro lotta e uno cerca di liberarsi da una presa al collo operata dall’altro, bloccando nello stesso tempo il polso dell’avversario. I gesti sono fissati con grande vivacità e precisione. *** Altro sport, che richiedeva una notevole forza fisica, era il pugilato, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Già è presente, infatti, nella protostoria. In Grecia, inserito nei Giochi Olimpici dalla XXIIII Olimpiade, ossia dal 688 a.C., vi restò fino a quando l’imperatore Teodosio non soppresse i giochi nel 394-393 a.C.. I pugili non rendevano meno pericolosi i loro pugni con guantoni, come fanno i moderni loro emuli, ma ricoprivano tanto le loro mani che gli avambracci con delle strisce di cuoio (cesti), con l’intento di rendere ancora più temibili i loro colpi. Spesso questi cesti avevano delle borchie di piombo, cosa che peggiorava ancora più l’effetto dei pugni. Nelle rappresentazioni di pugili, presenti nelle pitture delle tombe tarquiniesi, non si notano queste borchie e quindi ciò lascia supporre che i combattimenti, che si svolgevano in queste circostanze, non dovevano concludersi in modo molto cruento. Doveva essere solo uno spettacolo di forza e agilità. Scene che riguardano tale sport si possono ammirare nella già citata Tomba degli Auguri, nella cui parete sinistra, tra le altre figure, ci sono anche due di questi atleti nudi, che stanno lottando sopra un lebete. Nel piccolo fregio della parete di fondo della Tomba delle Bighe, un’altra coppia sta lottando: uno dei due pugili è “in guardia” (in un modo che rassomiglia molto a quello di un suo emulo moderno), l’altro invece è in procinto di portare un colpo oggi “proibito” dall’alto in basso, a “martello”. Sempre su questa parete altri due stanno portando avanti il loro scontro. Sulla parete sinistra invece, sempre nel piccolo fregio, altri due pugili (con le mani senza cesti ed 49 i pugni chiusi) sono nel pieno della loro gara, che si svolge sotto lo sguardo di un epistates. Uno dei due è a terra e l’altro sta cercando di approfittare di questa sua momentanea superiorità. Delle figure un po' particolari di pugilatori, sono quelle che si trovano nella Tomba Cardarelli (510/500 a.C.), infatti sono stati raffigurati con un certo gusto per la cultura. Anche nella Tomba delle Iscrizioni è possibile vederne altri due, che stanno nel mezzo del loro combattimento (anche se la pittura è molto rovinata). Nella parete destra della Tomba del Letto Funebre (460 a.C.), un pugilatore sta cercando sollievo alle sue ferite, portandosi una spugna al volto, che reca visibili tracce di sangue. Di altri due non si riesce a vedere che pochi resti pittorici. Di quelli presenti nella Tomba delle Olimpiadi (510 a.C.), si scorge solo una parte del corpo di uno, mentre è completamente scomparso l’altro. *** Altri sport e giochi sono quelli che vedevano gli atleti impegnati nel lancio del giavellotto e del disco. Discipline anche queste che gli Etruschi avevano recepito dei Greci. Sia il primo che il secondo erano molto praticati oltre che nel campo sportivo anche in quello militare dato che, sia l’uno che l’altro potevano trasformarsi in armi di offesa. Il giavellotto lo si vedrà poi trasformato dai Romani in “pilum” (arma d’attacco dei cavalieri e dei fanti) ed in “hasta” (arma degli hastati, più pesante e più grande del “pilum”). Del disco ci sono giunti molti esemplari, tra i quali uno in bronzo del diametro di trenta centimetri e del peso di due chili circa. La tecnica etrusca di lancio, da quello che si può notare sia nei bronzetti che nelle pitture vascolari o murarie, era diversa da quella greca per l’impostazione del corpo e per la parabola che il disco faceva prima di ricadere al suolo. Per il lancio del giavellotto si possono vedere atleti impegnati in questo sport, ad esempio nella Tomba delle Olimpiadi, delle Bighe; mentre per il lancio del disco, oltre che nelle due già citate, in quella del Guerriero. *** La corsa è presentata in molte raffigurazioni tanto vascolari che tombali. Con molta probabilità in Etruria, come in Grecia, dovevano svolgersi gare su varie distanze. Sappiamo che gli atleti greci potevano cimentarsi nello “stadio” (ossia correre una sola volta la lunghezza appunto dello stadio, circa trecento metri), nel “diaulo” (corsa che prevedeva due percorsi dello stadio girando attorno ad una “meta”, quattrocento metri circa) e nel “dolico” (una corsa di fondo che vedeva il corridore impegnato a percorrere per ventiquattro volte, la lunghezza dello stadio, circa cinquemila metri). Non si può dire però, 50 con certezza che le regole greche venissero rispettate anche dagli Etruschi. Da quanto si può arguire, osservando le testimonianze giunte fino a noi, possiamo distinguere una corsa a “corpo libero” e una corsa “armata”. Della prima una scena molto bella è quella che troviamo nella Tomba delle Olimpiadi che ci permette di assistere al termine di una corsa a piedi tiratissima: tre atleti, vestiti solo di un perizoma, stanno raggiungendo il traguardo, producendo lo sprint finale. Il loro slancio è perfetto. Per la corsa “armata”, ossia fatta indossando le armi (elmo, scudo, lancia ecc.) possiamo prendere come esempi i due opliti della Tomba delle Bighe. Anche per questa corsa, come per la danza armata, si può notare che più che uno sport, era una preparazione per il momento della battaglia. Lo sport, però, che sembra abbia suscitato un vero entusiasmo tra gli Etruschi, deve essere stato quello che vedeva impegnati uomini e cavalli: le corse equestri in ogni loro modo di essere. Il cavallo infatti, doveva esercitare un vero fascino su questo popolo che lo ha raffigurato tanto sulle pareti delle tombe, che sui vasi, che sui sarcofagi e nei frontoni. Non dimentichiamo che uno dei pezzi più belli della coroplastica è proprio il gruppo dei “Cavalli Alati” (IV sec. a.C.), che doveva ornare il frontone dell’Ara della Regina dell’etrusca Tarquinia. Per un nobile e ricco etrusco doveva essere quasi un punto d’onore possedere più bighe o quadrighe. Nel periodo di Cicerone, I sec. a.C., ad esempio, il nobile Aulo Cecina, esponente di una tra le più illustri famiglie nobili di Volterra, amava le corse di quadrighe e partecipava con i suoi “colori” a quelle che si svolgevano a Roma nel Circo Massimo. Aveva poi un metodo molto celere per annunciare ai suoi amici l’esito delle gare: portava delle rondini quando si spostava da Volterra a Roma ed erano proprio queste rondini che, lasciate libere dopo essere state dipinte del colore del vincitore, ritornando ai loro nidi, comunicavano le ultime novità. Le tombe presenti nel territorio di Tarquinia sono ricche di pitture rappresentanti cavalli, cavalieri, corse di bighe e di quadrighe. Cavallerizzi che con grazia e agilità balzano a terra con un armonico volteggio, a fianco dei loro rossi destrieri, ornano una delle semipareti dell’ingresso della “Tomba del Triclinio”; un giovane che aggioga ad una biga un cavallo azzurro, forma invece uno dei gruppi più belli della “Tomba del Letto Funebre”. In quella del “Barone” (ultimo venticinquennio del VI sec. a.C.),in modo elegante, solenne, calmo, in un alternarsi di colori rosso, nero (per i cavalli), e rosso e verde (per i mantelli dei cavalieri), si succedono le varie figure con un effetto particolarmente suggestivo per la tecnica di sovrapposizione cromatica attuata dal pittore. Sembra che queste pitture rappresentino il momento antecedente alla gara: la presentazione dei concorrenti che vi avrebbero partecipato. Nelle scene del piccolo fregio della Tomba delle Bighe, si trovano raffigurazioni appunto di bighe già pronte ad iniziare la gara, ma forse più interessanti di 51 queste, sono i preparativi che si fanno per aggiogare due cavalli frontalmente. I due giovani, che stanno cercando di mettere i cavalli al giusto posto, sono rappresentati con un audace scorcio di spalle. Secondo alcuni poi, nel cavaliere armato, con elmo, che ha vicino a sé un altro cavallo, si può riconoscere un apobate, ossia un esempio di quegli agilissimi cavalieri che, di volta in volta, durante gli scontri saltavano da un cavallo all’altro per difendersi meglio dai nemici. Probabilmente dovrebbero essere stati i Greci (che a loro volta l’avevano ricevuta dagli Egiziani), a trasmettere questa “tecnica” agli Etruschi, i quali, poi, la passarono ai Romani. Questi ultimi indicavano tali cavalieri con il nome “desultores”. Sulla parete sinistra della Tomba delle Olimpiadi invece è in pieno svolgimento una corsa di bighe: quattro carri e due cavalli stanno per concludere la loro sfida. La gara si svolge in aperta campagna. Due colori caratterizzano tanto la casacca degli aurighi, che i carri e le gualdrappe dei cavalli: il rosso e l’azzurro. Sia le corti vesti degli aurighi che il modo in cui sono legate con un vistoso nodo le briglie dietro le loro schiene, sono particolari prettamente etruschi. Era quest’ultimo infatti, un accorgimento che agevolava la frenata, in quanto il guidatore così poteva scaricare su di esse il peso del corpo. Non c’è pietà per i cavalli, che vengono frustati per incitarli allo sforzo finale. Per uno dei carri il traguardo è vicino e quindi l’auriga si volta per controllare gli inseguitori. Ancora apertissima è la lotta per l’assegnazione del secondo posto, infatti, il terzo sta cercando di superare il secondo sulla sinistra. Per il quarto carro, invece, non c’è più speranza: si è rovesciato e mentre uno dei cavalli, caduto, sta scalciando faticosamente con le zampe l’aria, l’altro, impennandosi, ha fatto perdere l’equilibrio al conducente che, sbalzato fuori dal carro, sta fendendo l’aria con le gambe, prima di concludere miseramente il suo “volo”. Tra il pubblico, che sta seguendo lo svolgersi della gara ed assiste quindi a questo spaventoso incidente, tre donne, che si trovano sulla tribuna, si stringono la testa fra le mani e sembra quasi di percepire il grido che esce dalle loro bocche. E’ una scena vivacissima; il pittore, con molta probabilità, per essa si è ispirato, mettendoci però un dinamismo particolare, ad una corsa di carri raffigurata su un’anfora greca (575-550 a.C.), che si pensa abbia potuto vedere in quanto è stata ritrovata vicino Tarquinia. La vivace e spontanea reazione delle tre donne sulle tribune, all’incidente che si sta svolgendo sotto i loro occhi, ci spinge a fare delle riflessioni. La prima riguarda il fatto che le donne etrusche potevano assistere a queste gare ed il loro entusiasmo non temeva il confronto con quello maschile. La loro presenza in questi luoghi era una delle tante “libertà” che le poneva in una posizione molto diversa da quella delle loro contemporanee greche e romane, e che perciò dava spunto assieme alla loro partecipazione ai banchetti e 52 alle feste, ad insinuazioni ed a giudizi poco favorevoli sulla loro moralità da parte tanto dei Greci che dei Romani. Abbiamo visto poi che il pubblico seguiva le varie competizioni dalle tribune, e tali strutture sono chiaramente presentate sia nella Tomba delle Olimpiadi che in quella delle Bighe. In quest’ultima anzi sono presenti all’estremità di ogni parte del fregio rivoltate verso il centro, verso cioè il punto in cui si svolgevano le gare sportive. “Ci si domanda anche - ma nulla sulle varie maniere della pittura antica autorizza tale ipotesi - se ciò che vediamo rappresentato non sia lo spaccato di un anfiteatro, che permette di vedere le tribune solamente a sezioni, mentre, in realtà, facevano tutto il giro dell’arena a forma ellittica o circolare. Comunque, esse ricordano molto da vicino, sebbene siano meno alte, “i palchi elevati su un’armatura” che Tarquinio Prisco aveva fatto disporre nel Circo Massimo per i senatori e per i cavalieri romani. Queste comportano una piattaforma di legno sostenuta da montanti alti meno di un metro dal suolo, sopra il quale è teso un velum che protegge gli spettatori dal sole. Gli spettatori sono ammassati otto o dieci per tribuna, gli uni dietro gli altri, seduti su un solo banco, del quale non si può dire, per ignoranza delle leggi della prospettiva, se sia visto di fronte o di profilo. Vi si riconoscono nella libera promiscuità che abbiamo segnalato, uomini maturi, giovani e donne con il tutulus, tutta la buona società di Tarquinia, mentre nella platea, se così si può chiamare lo stretto spazio riservato tra la piattaforma e il suolo, si accalca, accoccolata o distesa alla bell’e meglio, una plebaglia di servi turbolenti, di cui quelli che possono vedere qualche cosa guardano e talora applaudono mentre quelli dietro passano il tempo in modo che non è sempre decoroso” (Heurgon). Una corsa di tre bighe i cui focosi cavalli rosso-blu, sono guidati da aurighi che indossano un corto corpetto blu, la potremo vedere, anche se un po’faticosamente (una sola delle bighe è ben conservata) nella Tomba del Maestro delle Olimpiadi (500 a.C. circa) sulle cui pareti si alternano cavalli, cavalieri, ed altri atleti. Le figure però non reggono il confronto con quelle della Tomba delle Olimpiadi in quanto sono disegnate in modo meno preciso ed elegante. Alcune scene (quelle sulla parete destra) con molta probabilità potrebbero essere una replica delle corse a piedi ed a cavallo (“kalpes dromoi”), che si svolgevano in Grecia. “Kalpes dromoi” dovrebbero essere anche quelle rappresentate nella Tomba delle Iscrizioni (anche questa inaccessibile). Una biga guidata da un auriga di statura notevole e che ha sulla testa un piccolo acrobata (gruppo in cui si unisce forza, abilità e agilità) si trova invece nella Tomba del Guerriero. *** 53 Nella Tomba degli Auguri, in quella delle Olimpiadi e in quella del Pulcinella (510 a.C. circa), il pennello degli antichi pittori ci ha lasciato la testimonianza di un tipico gioco etrusco: quello del Phersu. Una lotta fra un cane ed un uomo, che si ritrova solo in Etruria e, almeno fino ad ora, solo nelle tombe dipinte di Tarquinia. E’ uno strano combattimento che è molto vicino ad un supplizio. Infatti sulla parete destra della prima dopo il gruppo dei due lottatori, un Phersu mascherato e vestito di un corto giubbetto rossonero, con un cane nero rabbioso, al guinzaglio, sta portando a termine il suo compito. Davanti a lui un uomo armato di clava e con la testa incappucciata, sta cercando di difendersi dal cane che, il sangue lo dimostra, lo ha già morso più volte e lo sta mordendo alla gamba sinistra. Il guinzaglio, che il Phersu tiene in mano, è pericolosamente arrotolato intorno alla gamba, al braccio e al collo del condannato. Sulla parete opposta invece un Phersu con una maschera barbuta, sta fuggendo, forse perché il “gioco” non è andato come sperava. La stessa scena viene ad essere presentata anche sulla parete destra della Tomba delle Olimpiadi. Qui il Phersu ha sempre il volto ricoperto da una maschera, ma il giubbetto è a quadri bianchi e neri. Un Phersu danzante, con una maschera barbuta e un alto berretto a punta a spicchi rossi e bianchi (simile a quello di un mago), ed un corto corsetto a quadri neri e bianchi, si può vedere anche nella Tomba del Pulcinella. Il gioco del Phersu deve essere, in qualche modo, connesso con il resto del rituale funebre. Molti lo vedono come un precursore dei “ludi gladiatori”, che si svolgeranno poi a Roma. Viene visto anche come un’ultima manifestazione di quella abitudine “barbara”, che voleva che, durante le cerimonie funebri si dovessero sacrificare dei prigionieri. Dare quindi, una clava in mano al condannato incappucciato, per fargli affrontare un cane inferocito, significava dargli una possibilità di restare in vita, se fosse riuscito ad uccidere l’animale. Questo scronto, in cui si lottava per la vita, crudele e spietato, proprio per l’incertezza dell’esito, doveva avvincere il pubblico. Nella Tomba degli Auguri c’è chiaramente il nome di Phersu (= persona,= maschera) ad indicare questi due uomini mascherati. Su una parete è un aguzzino, sull’altra invece, come già detto, cerca di sfuggire a qualcosa, correndo (chi l’insegue?). Per molti, nelle sue sfaccettature questo personaggio è un antenato delle maschere e come tale manifesta una variabilità di ruoli. Un altro gioco prettamente etrusco, per il quale si doveva possedere una grande agilità e abilità, era quello “del candelabro”. Forse per capire bene che cosa si intende è bene riandare con il pensiero alla Tomba dei Giocolieri (fine VI sec. a.C.): sulla parete di fondo una giovane danzatrice sta cercando di mantenere in equilibrio sulla testa un candelabro nel quale si sono già infilati alcuni livelli. Davanti a lei un fanciullo sta 54 lanciandone degli altri, cercando di centrare appunto il candelabro. Il tutto, beninteso, viene scandito ed eseguito al ritmo della musica di un flautista. Colpo d’occhio e gesto deciso erano invece i requisiti che si dovevano possedere per giocare al “kottabos” la tecnica di questo gioco, che gli Etruschi amavano molto fare (ne sono la prova oltre alle raffigurazioni, i vari kottaboi di bronzo del III-II sec. ritrovati durante gli scavi), è possibile vederla tanto nella Tomba Cardarelli (fine VI sec. a.C.), che nella Tomba Querciola I (fine V prima metà IV sec. a.C.), ambedue nel territorio di Tarquinia. Nella prima c’è un giovane uomo in piedi, colto proprio nell’atto di colpire con un gesto della mano e dell’avambraccio, la coppa piena di vino, il cui contenuto doveva essere scagliato contro qualcosa, che però non è presente nella scena. Nella seconda, il giocatore è sdraiato, è infatti uno dei commensali del banchetto della parete di fondo. Quale doveva essere il bersaglio contro il quale veniva scagliato violentemente il contenuto dei kottaboi? Con molta probabilità un piattello in equilibrio su un’asta. Chi riusciva a vincere la sfida conquistava il premio (oggetti di valore? un fanciullo? una fanciulla? o la possibilità di scegliere una fra le fanciulle presenti? chissà, ognuno può rispondere secondo i suoi gusti). *** Altri sport, che ancora oggi vengono esercitati con passione, sono la caccia e la pesca. Il pensiero per questi corre subito alle scene della Tomba della Caccia e della Pesca, in cui l’irreale policromia rende una rappresentazione realistica con toni fantastici, incantati. Le sue pareti presentano infatti scene prorompenti di vita a contatto con la natura, specialmente nella seconda camera, quella meglio conservata. è tutto un tripudio di uccelli dai colori più vari: azzurri, rossi, bianchi, che volano sicuri nel cielo e si posano sull’acqua, quell’acqua che accoglie delfini che balzano fuori o si tuffano nelle onde. Gli uomini, “piccoli e rispettosi del mondo che li circonda e di cui fanno parte, come le rocce, i cespugli, i pesci e gli uccelli”, ritornano dalla caccia o sono intenti alla pesca con la lenza o osano un ardito tuffo da uno scoglio. Su una rupe un cacciatore, armato di fionda, sta prendendo accuratamente la mira per colpire degli uccelli. Sembra dominare la scena, che si sta svolgendo sotto di lui. Affronta la “caccia” affidandosi solo alla sua abilità personale. Sembra quasi una figura eroica. Scene di caccia però possono vedersi pure nella prima camera, anche se le pitture sono più rovinate. In un frontone infatti si scorgono due cacciatori a cavallo. Stanno ritornando e quindi i cavalli vanno al passo. Le prede e le armi sono portate dai servi, che li seguono a piedi insieme ai cani, davanti a loro sembra esserci un battitore che, con l’aiuto dei cani, sta cercando un altro trofeo (una lepre?) per i suoi 55 signori. I destinatari della tomba dovevano essere molto amanti di queste attività. Ma non erano delle eccezioni, infatti tra gli Etruschi tali sport erano molto seguiti. Le pitture di numerose altre tombe presentano gli animali che venivano cacciati da questo popolo. Nella Tomba del Padiglione di Caccia (510/500 a.C.), ad esempio è possibile vedere le prede abbattute: due anatre selvatiche, che sono appese per il becco, e due caprioli. Al di là della tenda poi, si scorge un capriolo che sta tranquillamente brucando l’erba. La caccia all’anatra si svolgeva nella palude e solo agli uomini era permesso usare l’arco. Le donne e i ragazzi potevano cacciare solo con le reti. Anche la lepre era uno degli animali più cacciati: numerose sono le scene che la vedono protagonista. Spesso viene inseguita dai cani e dai cacciatori, che sono armati del lagobolo, il bastone ricurvo, che sarà poi un distintivo dei cacciatori in generale. Però la lepre poteva essere cacciata (e questo si rileva dalle scene del periodo arcaico) anche con le reti o a borsa o rettangolari. La Tomba della Scrofa Nera (metà-terzo quarto del V sec. a.C.) e la Querciola I (dalle pitture in pessimo stato di conservazione) ci presentano invece scene di caccia al cinghiale. Il “tuscus aper” aveva il suo habitat nei boschi e nelle selve dell’Etruria e per venire catturato richiedeva veramente coraggio, forza, determinazione e abilità; in compenso il cacciatore, che riusciva ad infliggergli il colpo mortale, conquistava fama e gloria. L’abilità degli Etruschi in questo campo doveva essere notevole. Virgilio nell’Eneide, quando parla ad esempio di guerrieri etruschi (Lauso, Ornito) li indica come “cacciatori”. Uno degli strumenti più usati per la caccia era lo spiedo e la tradizione fa risalire ad un etrusco, un certo Piseo, la sua invenzione. La caccia è sempre presente nell’arte etrusca, dal periodo villanoviano all’ellenismo. Nella Tomba della Scrofa Nera interessa il timpano della parete di fondo: un cinghiale femmina, dal colore nero e la criniera rossa, si trova al centro, tra due cacciatori, uno a sinistra, vestito con un corto mantello rosso, ed alcuni cani, l’altro a destra di tre quarti, rivoltato di schiena, con indosso un giubbetto di pelliccia maculata. Ambedue hanno in mano un giavellotto e sono estremamente attenti alla loro preda. Un altro momento di caccia al tuscus aper, come ho già detto si può vedere nelle pitture della Tomba Querciola I, alla quale viene dato anche il nome di Tomba della Caccia al Cinghiale. Un particolare non trascurabile e che non trova alcuna corrispondenza tra i Greci e i Romani contemporanei, è la presenza di una donna tra i partecipanti a questa pericolosa battuta venatoria (altro motivo di biasimo da parte dei “moralisti” greci e romani, che non riuscivano ad accettare il ruolo della donna così come era nella società etrusca). Sulla parete sinistra si può notare un rosso cinghiale, che sta cercando di sfuggire ad otto cacciatori a piedi e a due a cavallo, armati di lance e asce. 56 Temibili per la bestia braccata, sono anche dei cani di colore giallastro, che aiutano gli uomini nell’azione venatoria. Sono due scene che si avvicinano molto nella loro rappresentazione, scene vive, che ripropongono momenti di una realtà passata. Anche se per praticare la pesca non occorrevano né coraggio, né velocità, né forza, gli Etruschi hanno lasciato una testimonianza del piacere che provavano a dedicarvisi. Nella già citata Tomba della Caccia e della Pesca, ci sono due scene che la riguardano: un pescatore che con la sua fiocina sta colpendo un pesce ed un altro che, con grande attenzione, sta pescando (con la lenza o la nassa?). Queste raffigurazioni danno modo anche di osservare come erano strutturate e dipinte le barche. Queste infatti, con la loro conformazione ed i loro disegni, dovevano servire a dare una certa tranquillità e quindi a non spaventare o far fuggire i pesci. Non si sa però se in Etruria ci fosse qualche culto particolare o divinità protettrici della pesca. Non si può appurare nemmeno se, come poi a Roma, vi si svolgessero “ludi piscatori”, ossia feste in loro onore. *** Da questa breve analisi, riferentesi solo a parte delle attività fisiche degli Etruschi, in alcune delle tombe dipinte di Tarquinia, si è avuta la possibilità di osservare come gli stessi direttamente (come atleti danzatori, cacciatorti ecc.) o indirettamente (come spettatori) si dedicassero a tutto ciò che riguardava manifestazioni di forza, abilità, agilità e coraggio. Frequenti sono stati i riferimenti alla Grecia, da cui in verità, il popolo dei Rasenna ha ricevuto molto, ma ciò nulla toglie all’importanza delle testimonianze, che ci ha lasciato. Tutto quello che è giunto in Etruria infatti, è stato poi rivissuto e trasformato secondo il carattere etrusco e questo vale tanto per l’arte che per le varie possibili espressioni ginnicoludiche. Quando quindi si affronta il discorso dell’influenza greca sugli Etruschi, non si può né si deve cadere nell’errore di pensare ad essa come ad una sterile limitazione, ma considerarla come un punto di partenza per una rielaborazione di tematiche e di tecniche, secondo la sensibilità degli artisti, che hanno eternato momenti di vita sulle pareti delle tombe dipinte, sui vasi e sui sarcofagi. Questo loro eccellere nel campo dello sport, nei giochi, nell’arte della danza e della musica, rivela anche l’opulenza e il grado di benessere da essi raggiunto. La figura umana, diffusamente impiegata come motivo decorativo, nella sua quotidianità di vita, denota come l’artista etrusco inserisse l’umanità nel suo ambiente naturale. Lilia Grazia Tiberi TOMBE DIPINTE DI TARQUINIA 57 CITATE ED ESAMINATE - Tomba degli Auguri - Tomba dei Baccanti - Tomba del Barone - Tomba delle Bighe - Tomba della Caccia al Cervo - Tomba della Caccia e Pesca - Tomba Cardarelli - Tomba dei Giocolieri - Tomba del Guerriero - Tomba delle Iscrizioni - Tomba delle Leonesse - Tomba del Letto funebre - Tomba delle Olimpiadi - Tomba del Padiglione di Caccia - Tomba dei Pirrichisti - Tomba del Pulcinella - Tomba Querciola I - Tomba della Scrofa Nera - Tomba del Triclinio BIBLIOGRAFIA Sabatino Moscati - Italia Archeologica - Ist. Geog. De Agostini, Novara Luisa Banti - Il mondo degli Etruschi - Bibl. Storia Patria M. Cristofani - Etruschi, cultura e società - Ist. Geog. De Agostini, Novara J. Heurgon - Vita quotidiana degli Etruschi - Casa Ed. Il Saggiatore W. Keller - La civiltà etrusca - Casa Ed. Garzanti M. Pallottino - Etruscologia - Hoepli M. Moretti - Tarquinia - Ist. Geog. De Agostini, Novara S. Favre - Civiltà e sport - Ed. Le Pleiadi G. Camporeale - Vita privata (Rasenna) - Casa Ed. Garzanti M. Torelli - L’arte degli Etruschi - Ed. Laterza M. Torelli - Storia degli Etruschi - Ed. Laterza 58 D.H. Lawrence - Paesi etruschi - Nuova Immagine Editrice, Siena G. Dennis - The cities and cemeteries of Etruria - ripr. anastatica, Roma 1968 S. Staeingraber - Catalogo ragionato della pittura etrusca -, Milano 1984 P. Orlandini - L’arte dell’Italia preromana - Biblioteca Storia Patria S. Emiliani - Le attività fisiche degli Etruschi - Ca.Ri.Civ. LA CHIESA DI SAN MARTINO 59 Analisi storica LA COSIDDETTA “INTERNAZIONALITA” DI CORNETO. Nel X secolo, Corneto compare come luogo fortificato, dapprima soltanto con una torre (a. 939, “Reg. Farf.”, III, nr. 352, p. 54: “....habitatores in turre de Corgnito...”, “... actum ad turrim de Corgnito...”), poi con torre e castello (a. 976, Egidi, “Un documento...”, cit., pagg. 4-6: “... abitator in castello... turre de Corgetu”, “... actum in castello de Corgneto...” E’ fuor di dubbio che la torre e il “castrum” si trovavano ad ovest della città, dove tuttora si scorge la cinta più ristretta e più rovinata di mura: basti soltanto pensare che la chiesa di S. Maria di Castello, edificata intorno al 1121, è situata in questa zona e non molto lontano si trova la chiesa di S. Martino, nominata in un documento del 1045 “prope castellum vecclum” - “Reg. Farf. “, V, cit., nr. 1237, pp. 222-223) 1) , vale a dire un “castrum”, un anello di mura. Torre e castello accentrano l’attenzione sulla presenza di Corneto di “consortes” 2) i quali, per la solidità del loro patrimonio e per tradizione del nucleo familiare, dovevano rappresentare un ceto distinto, sovrastante per importanza e per interessi quello genericamente rurale, costituito da piccoli proprietari, livellari ed affittuari dei “consortes”stessi o delle abbazie farfense ed amiatina. E’ probabile che proprio a questi gruppi consortili, sia pure sforniti del diritto di incastellare - pertinenza esclusivamente sovrana, ma ben presto usurpata - spetti l’iniziativa delle opere di fortificazione, la cui funzione principale sarà poi da ricercarsi negli anni delle incursioni saracene o ungare, e forse più delle prime che delle seconde. Nei primi anni del secolo XI il castello di Corneto acquista la qualifica di “civitas”, dapprima dubbiosamente 3) poi, ben presto ufficialmente, nei documenti pubblici 4) 1) “Reg. Farf”, V, documento nr. 1237, pp. 222-223: “Rainerio prete figlio di Domenico, col concorso di Demetrio suo avvocato, dona al Monastero “omnem meam portionem de ecclesia sancti martiri in loco qui dicitur prope castellum vecclum, cum tumbatico et offertione et decimatione et suis oratoriis, et omnia supers se et infra se habentia cum sua accessione in integrum et in transactum donamus et tradimus perpetualiter ad possidendum”. 2) Anno 1011, Calisse, “Doc. Am. cit., XVI, pp. 343-344, nr. XLVIII: donazione al monastero di S. Salvatore sul Monte Amiata di “una casa qui est edificata inctus in ipsu castellu ture de Corgnitu... et iacet inter confinis da una parte terra cum casa Teuzo presbiter et de alias partes terra Rigulis et de tertia partes terra Raineris cum suis consortis”, anno 1014-1015, ibid., XVII, pp. 101-102, nr. LII: altra donazione a S. Salvatore da parte di Ildizio”... cum consortibus suis”; anno 1018, ibid., pp. 112-114, nr. LVIII: vendita al medesimo monastero di una terra in Corneto, confinante “cum vinea Gennar presbiter cum suis consortis”; anno 1080, “I placiti...”cit., III, nr. 455, pag. 372: “Luponem eiusque consortes...”. 3) Nel 1005-1006 ha ancora la qualifica di “vicus”: in “vico de castello et turre de Corgetu” (Calisse, “Doc. Am. “cit., XVI, pp. 337-338, nr. XLV), mentre nel 1011 si trova: “in ipsu castellu ture de Corgnitu qui civitas vocatur” (ibid., p. 344, nr. XLVIII). Egualmente per il 1014-1015 (ibid., XVII, p. 105, nr. LIV), ecc. 60 soprattutto nei placiti che vi tennero i marchesi di Toscana, la cui signoria vi è sicuramente attestata dal 1014, con il marchese Ranieri. In quell’anno, infatti, un gastaldo di Ranieri presiedeva in Corneto il placito nel quale l’abate del monastero di S. Salvatore in Monte Amiata rivendicava la proprietà di due vigne in “Margarita” 5) e, nel 1017 Ranieri stesso, il quale possedeva terre nel castello, come risulta da una donazione di una parte di esse al monastero amiatino 6) , tenne placito in Corneto, per giudicare delle legittimità dei diritti rivendicati dall’abate di Farfa, per intermedio della cella di S. Pellegrino e di S. Anastasio 7) . La grande abbazia benedettina aveva presso Corneto notevoli possedimenti (Per quanto riguarda le terre, per lo più coltivate a vigna e concesse in prestaria o a livello ai cornetani, vedi l’elenco dell’inizio del secolo XI in “Chr. Farf.” cit., I, pp. 256-258; per le chiese, da ricordare S. Martino, donata a Farfa nel 1046 da Malberto di Pietro, da prete Ranieri e da altri cornetani, situata “in loco qui dicitur prope castellum vecclum” 8) (“Reg. Farf.” cit., V, nr. 1236, pp. 221-222; nr. 1237, pp. 222-223), per il cui godimento, spesso contrastatole, si rese necessario anche in seguito l’intervento marchionale e quello della chiesa di Roma. Così accadde nel 1051, quando il monastero romano dei SS. Cosma e Damiano non soltanto contestò a Farfa il possesso delle chiese di S. Michele Arcangelo e di S. Pellegrino, ma continuò a non riconoscerle quello di S. Maria in Mignone. La questione, oggetto di un placito 9) tenuto in Corneto da Adalberto, messo del marchese Bonifacio, e da Ingelberto, vescovo di Bieda e “missus” del pontefice Leone IX, risolta provvisoriamente dal messo marchionale, salvo nuova disposizione di Bonifacio stesso, ricevette conclusione definitiva 4) Bolla di Sergio IV, anno 1009-1012: “in castello et civitate Corgnito (“Reg. Farf.”, IV, cit., nr. 603, p.2); anno 1017, placito del marchese Ranieri (“I placiti...” cit., II, nr. 297, pp. 587-590); ecc. 5) “I placiti...” cit., II, nr. 284, pp. 538-541. il placito si concluse con il riconoscimento dei diritti del monastero di S. Salvatore, contestati da tal Giovanni del fu Uberto da Corneto, sulle due vigne in “villa Margherita”, sita, secondo il Calisse, “Doc. Am. cit., XVII, p. 136, a mezzogiorno - ma deve trattarsi di un “lapsus” per settentrione - di Corneto, presso il Marta. I possessi del monastero benedettino in Corneto includevano: la chiesa di S. Maria, quella di S. Fortunato, che sorgeva sui dirupi di Corneto, a nord, di fronte alla Porta Nuova (Guerri, “Il registrum...”cit., p. 348) e, confermata al monastero da una bolla di Anastasio IV del 1153 e di Celstino III del 1196, è documentata nelle carte amiatine fino al 1205; altre quattro vigne, delle quali due situate in località “Campilione”, nei pressi del Marta (Calisse, “Doc. Am.” cit., XVII, p. 109, nr. LVI; p. 112, nr. LVIII) e due in località “Pontes” - anche questa, stando alla denominazione, vicina al fiume - e “Petrulatus” (ibid., XVI, p. 343, nr. XLVIII); le case erano tre, una appoggiata “da duo partis muru de ipsu castellu” (nr. XLVIII) e due all’interno del castello (ibid., XVII, p. 103, nr. LIII; p. 105, nr. LIV). 6) Anno 1015, Calisse, “Doc. Am., cit., XVII, pp. 106-108, nr. LV. La terra donata da Ranieri era destinata alla costruzione di una chiesa da intitolarsi a S. Maria. 7) “I placiti...” cit., II, nr. 297, pp. 587-590. Dalle due chiese, sulle quali l’abate Ugo ottenne il riconoscimento dei propri diritti, contestatigli da Astaldo da Corneto, si sa che una - quella di S. Pellegrino - sorgeva nell’immediato suburbio, sulla strada per andare alla cartiera, e, difatti, ancora oggi è designata con quel nome una contrada sulla sinistra di quella via (Dasti, “Notizie...” cit., p. 448; Guerri, “Il registrum...” cit., p. 306); l’altra - S. Anastasio - si trovava sotto Corneto, lungo la via per il mare (Calisse, “Doc. Am.” cit., XVII, p. 137). La chiesa di S. Pellegrino, insieme con quella di S. Michele, era già stata usurpata dall’abate Graziano - non si sa di quale monastero - e da altri cornetani, ai quali Sergio IV ordinava con una bolla la restituzione nelle mani di Guido abate di Farfa. 8) “Malberto di Pietro, Pietro di Crescenzio, Lupo di Guido, e Gonzo di Gisolfo, abitanti in Corneto, donano al monastero la porzione della chiesa di San Martino situata nel luogo detto “prope castellum vecclum”. 61 nel 1072 a Roma, in Laterano, dal cardinale Ildebrando, il futuro Gregorio VII, allora arcidiacono di S. Romana Chiesa 11) . Più tardi, nel 1080, anche Matilde tenne placito in Corneto per dirimere una controversia riguardante il possesso della chiesa di S. Pietro, contestato all’abate di Farfa dal preposito della medesima chiesa e dal cornetano Lupone 12) . I marchesi intervenivano personalmente nelle questioni di maggior rilievo, erano rappresentati normalmente da un visconte e da un gastaldo 13) e ciò mostra che Corneto, sita nella “iudiciaria” del comitato di Tuscania, come si precisa nel placito del 1051, si avviava ad essere un centro di una certa importanza. Nel medesimo periodo, ai primi del secolo XI, vi si trovavano contemporaneamente almeno tre giudici imperiali, che non solo adempivano funzioni notarili, ma erano effettivamente impiegati come giudici nei placiti 14) . Questi ultimi nella prima metà del secolo XI erano tenuti all’aperto, in piazza (“intro in vicum vel castellum turre de Corgnito, ante curte et casa Ioannis filius Uberto” nel 1014: genericamente “in castello et turri de Corgnito” nel 1017; “infra civitatem de Corgnito... in platea quae est iuxta aecclesiam quae vocatur S. Martini” nel 1051), ma il continuo accrescersi dell’importanza economica ed amministrativa di Corneto indusse poi alla costruzione, nel recinto del castello, di un “palatium”, cioé di un edificio appositamente destinato a sede dell’amministrazione marchionale e a residenza dei marchesi stessi durante i loro soggiorni nella città. Il palazzo, evidentemente non ancora costruito nel 1051, era in funzione nel 1080, quando, appunto Matilde teneva placito “in palatio intus castellum”. E’ possibile che proprio da ciò derivi la denominazione popolare di “castello di Matilde” per le costruzioni, in parte in rovina ed in parte ancora in piedi, esistenti sulla parte più alta di Tarquinia, all’estremità settentrionale. Riferita all’origine del castello, quella denominazione è inesatta perché un castello in Corneto esisteva già nel 967; riferita alle mura oggi conservate, non è meno erronea perché esse appartengono al rifacimento 9) “I placiti...” cit., III, nr. 388, pp. 200-202. “Reg. Farf.” cit., V, nr. 1006, p.9. 12) “I placiti...” cit., III, nr. 455, pp. 371-373. Lupone sosteneva, a nome anche dei suoi “consortes”, che la chiesa era stata edificata sul suo allodio e concessa “per cartulam” al monastero dei SS. Cosma e Damiano, il quale poi gliela aveva rifiutata ed egli ne era divenuto legittimo proprietario, essendo trascorsi i termini della prescrizione. Poiché i giudici, fra cui il noto causidico Nordilone, sentenziarono che il monastero non aveva facoltà di refutare e Lupone non poteva opporre la prescrizione, mentre in virtù di un precetto di Alessandro II i diritti dei SS. Cosma e Damiano erano stati acquisiti da Farfa, Matilde pose il banno su S. Pietro (documento del “Reg. Farf.” del 1111, cit.., V, nr. 1216, pp. 206-207). 13) Il visconte Giovanni e il gastaldo Ranieri assistono al placito del 1017, il visconte Marchisello a quello del 1080, mentre Benedetto detto fuscone, gastaldo del marchese Ranieri, presiede il placito del 1014. 14) “Iohannes notarius iudex domini imperatoris” roga un istromento del 1015 (Calisse “Doc. Am.” cit., XVII, pp. 106108, nr. LV); “Lambertus iudex domini imperatoris” uno nel 1018 (ibid., pp. 112-114, nr. LVIII); “Siifridus iudez domini imperatoris” pronuncia la sentenza a fianco del gastaldo nel placito del 1014, di cui roga l’istrumento, ed appare 11) 62 ordinato dal cardinale Albornoz nel 1362 (Dasti, cit., pp. 88-89) e ai successivi restauri. Quando si accenna ad un accrescersi dell’importanza economica di Corneto è in riferimento soprattutto all’attività commerciale del suo porto, attività che, per essere già in piena fioritura nella seconda metà del secolo XII, si deve far risalire senz’altro ad alcuni decenni indietro e, stando alla documentazione, per lo meno al tempo di Matilde, cui fa riferimento la prima notizia relativa ai rapporti marittimi con Pisa 15) . Probabilmente di maggior rilevanza nel Medioevo rispetto a quello di Civitavecchia e il più attivo sulla costa tirrenica nel tratto compreso tra Pisa e Terracina, il porto di Corneto doveva assolvere essenzialmente alla necessità di un commercio di transito, vale a dire di duplice convogliamento: delle merci provenienti dai più ricchi paesi del Lazio, dell’Umbria e della bassa Maremma, dirette poi su navi cornetane verso Pisa, Genova e - poco più tardi forse verso la Spagna 16) , nonché dei prodotti acquistati dalle medesime navi nei porti del Tirreno e del Mediterraneo e destinati ad essere assorbiti dai mercati dell’entroterra laziale, umbro, maremmano. Nel placito dell’anno 1051 si legge: “in finibus Maritime in loco qui dicitur Corgnitus, iudiciaria de comitatu qui vocatur Tuscanensis”. Tuscania partecipava al giro dei movimenti culturali più nuovi e più impegnati, sfruttando una posizione che doveva essere importante sia dal punto di vista politico sia da quello territoriale. Il centro era infatti la più vasta diocesi a Nord di Roma: ne conseguivano contatti economici e politici con i territori limitrofi della Toscana e con i centri del Nord ed agganci ai paesi d’oltralpe. Ci si pone oggi il problema dell’importanza della Clodia, dopo l’età imperiale, e di conseguenza il ruolo che nella rete viaria dell’alto Lazio dovette avere Tuscania. Nessuna testimonianza, oltre che del tracciato da Roma fino alla città, contro le numerose prove dell’attivo transito della vicina Cassia, ben presto transito d’obbligo dei cortei real, dei pellegrinaggi che scendevano verso Roma, punto di incontri strategici 17) . Tuttavia, specie nell’alto Medioevo, la Clodia, nel tracciato che interessava Tuscania, doveva offrire rogatorio di altre carte dal 1014 al 1017 (ibid., nn. LI, LII, LIII, LVI, pp. 98-106, 109-110). Si veda anche nel placito del 1014 l’elenco dei numerosi “boni homines” cornetani che vi assistono. 15) Si tratta di un documento non datato, ascrivibile all’incirca al 1173, in cui si accenna, tra l’altro, alla “dirictura” che i Pisani pagavano nel porto di Corneto ai tempi della contessa Matilde. 16) Una prova sicura che Corneto commerciasse con la Spagna è il privilegio con il quale nel 1204 Pietro II d’Aragona concedeva ai cornetani che si recavano con le merci nelle sue terre l’esenzione di qualsiasi gabella e l’assicurazione dell’incolumità personale (“Marg. Corne., c. 89 v.). Si ritiene che i cornetani avessero chiesto e ottenuto il privilegio da Pietro II durante il soggiorno a Corneto del sovrano, diretto a Roma per farsi incoronare da Innocenzo III; si osserva, inoltre, che il comune doveva già commerciare con Almeria fin dalla metà del secolo XII, come apparirebbe dal citato documento non datato, dove tuttavia si parla unicamente di un commercio pisano verso la città spagnola. 17) Nota è la posizione strategica e l’importanza storica di Sutri (Serafini, “Torri campanarie...” cit., p. 233), dove avvennero importanti eventi (tra cui i concili del 1046 e del 1058 e l’incontro tra Federico Barbarossa e Adriano IV, 1155). Borgo Sutri era noto luogo di fermata di pellegrini. 63 maggiori garanzie di sicurezza rispetto alla costa o alla Cassia infestate delle scorrerie dei Saraceni ed essere più salubre, per l’ambiente boscoso che la circondava, di strade come l’Aurelia ammorbata da zone malariche. Era forse perciò preferita nei suoi più prudenti percorsi attraverso una zona relativamente pianeggiante legata al mare mediante il Marta navigabile e raccordata alla Cassia. La notizia riportata dal “Liber Pontificalis” secondo cui Carlo Magno scese attraverso essa a Roma incontro ad Adriano I. potrebbe confermare l’ipotesi dell’uso della Clodia, in fondo anche più breve per chi veniva dal Nord. Problematico tuttavia il tracciato a Nord di Tuscania. Identificare il percorso della Clodia nella “scorciatoia” che, attraverso il Fucecchio e Siena, scendeva su Roma, per l’Amiata, Saturnia, Materno e Tuscania, significava immettere Tuscania in una direttrice abbreviata da Roma al Nord, inserendola nei tracciati della via “Francesca”. Significa farla partecipare cioè a quegli importanti itinerari medioevali che attraversavano le Alpi, raccordandosi circa verso Piacenza, convogliando di qui il rilevante e notevole traffico per Roma attraverso Lucca e Siena, interessandola a quell’attiva circolazione di uomini e di idee che i pellegrinaggi, il commercio e le beghe politiche incanalavano nei percorsi tra Roma e il Nord. Se anche gli antichi itinerari indicano nell’ultimo tratto verso Roma sempre il tracciato della Cassia da Acquapendente, indubbiamente ciò non esclude l’uso dell’altro percorso attraverso Tuscania che comproverebbe quei fenomeni culturali espressi dai suoi monumenti, legati allo svolgimento artistico del Nord ed in alcuni casi a quello delle terre dell’Elsa: ne risulterebbe anche un raccordo facile e diretto con il San Salvatore dell’Amiata, importante nodo viario e culturale. Indubbiamente anche la situazione politico-religiosa di Tuscania, a capo di una vasta diocesi, nel cuore del “Patrimonio di S. Pietro” che, se sancito nei suoi confini solo da Innocenzo III, di fatto esisteva fin dalla donazione di Carlo Magno contribuiva a convogliare alla città tutto quell’insieme di interessi che nel mondo medioevale si realizzava attraverso gli attivi scambi politici, religiosi e commerciali, in gran parte mediati attraverso le comunità religiose, che nell’analisi della cultura artistica diTuscania si registrano appunto nei diversi apporti che accoglie anche in ragione della sua particolare accezione espressiva da sempre portata a recepire “tanti motivi culturali” provenienti da zone diverse. L’innesto con la tradizione precedente era perciò completo sia in piano di insediamento sia in campo di fenomeno culturale anche nella tendenza a cogliere caratteri diversi da regioni diverse, manifesto ugualmente della scarsa recezione del fenomeno “Roma”, estraneo ed opposto da sempre al locale patrimonio culturale. Indiscutibile prova della vasta problematica politico-economica di Tarquinia è la sua tematica architettonica nella quale il rapporto con le espressioni del Patrimonio è quasi 64 inesistente nella maggioranza dei casi, mentre molteplici, vivaci e contrastanti gli influssi esterni che dovettero essere, per lo più, tutti di prima mano. L’impressione che da tutte le manifestazioni edilizie si trae è, oltre l’aggiornato linguaggio, l’instabilità dell’indirizzo formale che concepisce sempre nuove, più avanzate ricerche: uno sperimentalismo sicuramente in rapporto con il continuo avanzare economico del nucleo cittadino e probabilmente anche con il libero suggerimento popolare influenzato sempre dalle più recenti esperienze. Così se difficilmente si raggiunge una espressione coerente e programmata, la varia fenomenologia vivamente documentata quella ricerca di concezioni strutturali sempre più avanzate che risulta non solo ripetuta esteriormente, ma verosimilmente sentita come problematica attuale dai costruttori di Corneto al pari dei contemporanei lombardi e francesi. La chiesa di Santa Maria in Castello svolge in Corneto per quasi un secolo un arco di aggiornata esperienza, quasi voluta programmazione, ed in ogni caso testimonianza, delle possibilità e dell’apertura di interessi e di relazioni del libero Comune di Corneto che la costruisce con l’appoggio economico dei suoi cittadini, ricordati da numerosi epigrafi, data anche la funzione sociale che l’edificio doveva assolvere: quella di luogo di raduno e di dibattito. Sintomatico che i suggerimenti a livello di schema si prendessero direttamente dal Nord, in particolare dalla Lombardia: nulla infatti della problematica strutturale del vicino San Pietro di Tuscania rientra nella programmata intenzione culturale di S. Maria in Castello. Non si può, d’altra parte, oggi soppesare quanto l’appartenenza alla Marca Toscana potesse aver giocato nelle scelte e, forse, non era stimabile neanche allora, nel 1121, quando si prese ad erigere la chiesa. Indubbiamente dovette avere peso, nella conoscenza dei sistemi lombardi, la posizione territoriale di Corneto che, tramite la Clodia, doveva partecipare ai percorsi viari che solcavano l’Italia centrale agganciati al sistema della Valle Padana e rappresentare, con il suo porto, un importante sbocco al mare. L’evidente inorganicità del monumento e la mancanza di una programmazione spaziale ben definita, il disordine decorativo e planimetrico sembrano indubbio frutto di cambiamenti dovuti principalmente al desiderio di aggiornamento di un cantiere non guidato da un’unica presenza capace di personalizzare gli spunti, ma da una associazione di intenti: cosicché ogni contributo rimane slegato a livello di suggerimento. 65 La soluzione o meno, con il 1143 o al più tardi con il 1168 18) , dalla prima fase dei lavori di Santa Maria in Castello nulla toglie al significato emblematico che il monumento assume nel 1143 di orgogliosa manifestazione del potere associato cittadino che sceglie, delibera, contratta, al pari di ciò che avveniva per i centri lombardi presi ad esempio. Il monumento si identifica con la città, la città con il monumento: interessi politici, economici, sociali si fondono. In questo collaborazionismo di base clero e cittadini, dimostrando “il professionalismo urbano”, sono chiamati a concorrere con pari forze (come testimoniano le epigrafi) alla soluzione di problemi di valore sociale ed artistico. In questo pragmatismo il raggiungimento assoluto della forma non è ricercato come prima istanza e, solo a volte, si realizza per la presenza di un cittadino, Wiligelmo o Lanfranco, “dignus onore” la cui forza creativa riesce a tradurre i voleri del popolo di aggiornamento, novità e funzionalità, in un altro risultato. Non a caso, dunque, appaiono incisi in due dischi del portale di Santa Maria di Castello i nomi dei Consoli di Corneto, dando all’anno 1143 il primo documento del sistema di governo di questa “civitas”, già forte della sua indipendenza e della ricca economia 19) , mentre un riflesso della politica istituzionale della città è anche nella indicazione dei nomi dei probabili costruttori e nelle firme dei decoratori venuti dal Comune di Roma. L’edificio di Santa Maria in Castello che doveva con probabilità assolvere anche il compito di evidenziazione nel territorio della forza politica e commerciale di Corneto, dimostra anche il raggiungimento da parte del Comune di un’economia urbana, risultato anche del conglobarsi dei ceti diversi, provenienti dalle campagne, dalla pubblica amministrazione, dal commercio che poteva ormai programmare uno sviluppo edilizio dettato non solo da esigenze immediate. 18) Anno di compimento del ciborio ad opera di “Johannes et Guitto Magistri”, data considerata dal Kingsley Porter di conclusione dei lavori (“Lombard Architecture, II, pp. 349-362), ripresi, secondo il Porter, dopo il 1190, quando, a causa di un supposto terremoto, di cui mancano testimonianze storiche, furono ricostruite “le volte di alcune campate della navata centrale e di quattro delle laterali e la calotta absidale”. A questa successiva campagna di lavori si devono ricondurre, per il Porter, le chiavi di volta (una sola con una semplice piastra circolare nella seconda campata della navata partendo dalla facciata) e la cupola. 19) G.B. De Rossi (in “Bullettino d’Archeologia Cristiana”, 1875) riporta l’iscrizione del portale, sottolineandone l’importanza documentaria (si veda anche L. Dasti, “Notizie...” cit., pp. 396-397). Dal primo documento cartaceo riguardante il Comune del 1144 (L. Dasti, “Notizie.... cit., doc. XXI, p. 457) emerge, oltre il nuovo spirito di autonomia 66 RIFERIMENTI E LEGAMI STORICO-ARTISTICI L’architettura romanica, svoltasi tra la fine del secolo X e la metà circa del XIII, si presenta come l’eclettico e mutevole prodotto delle rinnovate energie locali, venute a contatto con civiltà artistiche differenti 1) . E ciò tanto più vale per la Toscana, dove il profondo modificarsi delle espressioni estetiche da un centro ad un altro permette di tracciare scuole ben definite, specie nel campo dell’architettura religiosa. L’efficacia dell’antico nella Toscana romanica consiste non tanto nell’imitazione delle singole forme, quanto in un innato senso di sodezza, di semplicità distributiva facilitato dal materiale, che è quasi sempre la pietra od il marmo 2) , non ancora nella conoscenza della proporzioni classiche che sarà conquista del Rinascimento. E tale efficacia, come forza animatrice spontanea, istintiva, quasi sempre agisce nell’opera dei vari architetti, sia che essi risuscitino aspetti paleo-cristiani o bizantino-ravennati, affascinati da grandi tradizioni, ovvero che seguano modi lombardi, orientali, bizantini, musulmani, cioè fonti stilistiche vive e perciò suscettibili di ulteriori sviluppi. Inoltre, sebbene sporadicamente, e non sempre in uguale misura, giungono anche in Toscana gli echi delle architetture romaniche dell’Occidente, in particolare francesi, attraverso gli anche nei riguardi della Chiesa, l’ordinamento amministrativo gravitante intorno ai due Consoli (L. Dasti, op.cit., p. 99 e sgg.; 197 e sgg. e P. Supino, in “Bullettino dell’Istituto Storico per il Medio Evo e Archivio Muratoriano”, 1968. 1) Il riferimento, per i limiti cronologici, è riferito principalmente all’Italia perché altrove, ad esempio, in certe regioni della Francia, nella seconda metà del secolo XII, il gotico, che nel nostro Paese doveva svilupparsi un secolo dopo, era in pieno sviluppo. 2) Nelle più antiche chiese il paramento è ad “opus incertum”, a sassi cioè accapezzati e sconnessi, sostituito poi da quello regolare. Il materiale da costruzione e da decorazione durante il periodo romanico è quasi esclusivamente la pietra da taglio (“opus quadratum”); solo in un breve tratto del Valdarno inferiore e della Valdelsa, dove la pietra mancava, si trovavano edifici in mattoni e qualcuno anche a Pisa ed a Lucca (“opus latericium”). La Valle dell’Arno (Casentino, Valdarno superiore ed inferiore) possiede abbondanti cave di arenaria, nelle varietà note sotto il nome di “pietra serena”, “pietra bigia” e “pietra forte” o “filaretto”, e anche di calcare marmoso detto “alberese”. Il Monte Pisano si differenzia bensì per molti tipi di rocce da costruzione, fra i quali uno dei più noti è il “verrucano” costituito in gran prevalenza, di quarzo. Dalla catena delle Alpi Apuane tra la valle della Magra (Lunigiana), il litorale (Versilia) e la valle del Serchio (Garfagnana e Valdiserchio) si estrassero il marmo bianco saccaroide e marmi colorati che diedero luogo ad intarsi di ricco effetto policromo. A Firenze pure furono in uso i marmi a colori, specie il verde dell’Impruneta e il verde di Prato, accostati - nell’ultimo periodo del romanico e nel gotico - al rosso di Maremma. L’arenaria sovrabbonda nelle valli aretine (della Chiana e superiore del Tevere), nel Mugello e in Valdisieve, in Valdinievole e Valdilina; mentre nel senese (valli dell’Elsa, dell’Arbia, dell’Orcia, ecc.), lungo il litorale tirrenico a sud di Pisa e nel territorio fra l’Amiata (dov’è traccia anche di arenaria) e il lago di Bolsena si trovano pietre diverse per natura e per aspetto, di carattere marmoreo (nella Montagnola senese) e non marmoreo - come gli abbondanti travertini - ed anche rocce (specie nella parte più meridionale) di natura vulcanica. L’isola d’Elba, nota già ai Romani per le sue cave di granito grigio, provvide colonne a moltissimi monumenti del periodo in questione, specie a quelli di Pisa, alla quale era politicamente soggetta. 67 ordini monastici, non creatori di uno stile definito, ma provvisti di una sensibilità più pronta nell’apprendere il nuovo e nell’attuarlo. La maggior caratteristica dell’architettura romanica toscana consiste nella decorazione e i singoli particolari di essa, dal paramento ai finali, dalle porte alle finestre, dalle architetture alle logge, esprimono il sentimento delle scuole che, nei centri maggiori, seguirono definite norme di stile. Ma ovunque, nonostante le disparate interpretazioni, si trovano leggi ben fisse. Una serenità ed una semplicità organica di concezione, che più si avvicina ai canoni del classicismo, domina nel secolo XI e nella prima metà del XII; poi le forme diventano complicate e sovraccaricate col prevalere di modi orientali o lombardi o degli uni e degli altri insieme. Al di sopra e al di fuori delle singole scuole, si distinguono due grandi classi di monumenti romanici in Toscana: quella in cui predomina la tendenza cromatica che profonde il colore sotto l’aspetto di apparato murario e di rivestimento con tarsie, con sculture minute e persino - raramente - con ricche opere musive; quella che ebbe cara la severità della massa affidata al robusto pietrame e la sobrietà, quasi povertà, ornamentale sdegnosa di preziosità coloristiche. La prima tendenza, per influsso dell’Oriente, muove da Firenze e da Pisa, tocca Lucca e finisce a Siena. Durante il periodo gotico, mentre a Firenze nelle chiese maggiori si tenta un abbinamento decorativo delle arcate pisane con le tarsie marmoree, a Siena, di vivo cromatismo vibra il Duomo, con le armonie cromatiche realizzate dai suoi pittori; e cadenze romanicheggianti insieme con accenni coloristici restano sempre a Pisa ed a Lucca, divenute nella pittura più province senesi che fiorentine. La severità monocromatica aveva prevalso nelle campagne: per ragioni complesse certo, non tuttavia per la forza di quella produzione, a Firenze si impose nel campo dell’architettura religiosa. Ma anche nell’architettura civile Pisa e Lucca avevano amato effetti cromatici e le loro forme raffinate a quella tipica corrente senese, fatta di amabile eleganza lineare e coloristica; mentre a Firenze le fabbriche trecentesche esaltarono con la forza compatta dei loro bugnati il trionfo della massa sulla linea, del chiaroscuro sul colore. Questa soluzione logica per un ambiente che, della chiarezza e della semplicità latina aveva conservato il secolare primato, fu facilitato dal sopraggiungere del gotico cistercense. Particolare interesse va dedicato alla Valdelsa, dove sorsero la maggior parte degli edifici religiosi romanici toscani: la più tipica è la Pieve, ma numerose furono anche le Abbazie, oggi in gran parte scomparse. Tali costruzioni, se viste nell’ambito dell’architettura romanica toscana, presentano un interesse marginale; la loro conoscenza è tuttavia di basilare importanta per la comprensione di quell’architettura religiosa minore che tante testimonianze di sé ha lasciato in Toscana. Architettura provinciale che, sebbene 68 a mezza strada tra l’arte e l’artigianato, testimonia pur sempre l’esistenza di numerosi “maestri” dotati di un vivo senso dell’arte, come dimostrano le originali ed estrose soluzioni formali. Maestri rimasti ingiustamente sconosciuti a causa dell’anonimato imperante nel Medioevo nei riguardi degli architetti, la cui professione venne sempre riguardata sotto una prospettiva tecnico-manuale. Costituiendo la Valdelsa una delle maggiori vie di facilitazione del mondo medioevale, in essa confluirono, e vennero rielaborate in forme originali, numerose correnti romaniche: delle influenze artistiche pisano-lucchesi (nella interpretazione volterrana), al romantico tipico del contado senese (a sua volta ricco di spunti mutuati dall’architettura laziale), fino a sicuri accenti dell’arte borgognona. Su tutte sovrasta l’influsso delle forme architettoniche lombarde, esplicatesi inizialmente per il tramite delle corporazioni-famiglie dei famosi “maestri comacini”. La consuetudine, invalsa nel Medioevo, di affidare a questi i lavori di muratura determinò la diffusione dei modi lombardi in un’area geografica assai vasta. Tali corporazioni-famiglie facevano capo ad un “magister”, che assommava in sé le funzioni di architetto, capomastro e imprenditore; egli aveva alle sue dipendenze un gruppo di “artifices”, mano d’opera specializzata per le parti architettoniche e decorative più importanti. Questi seguivano il magister di luogo in luogo, come attesta l’identità, in diverse costruzioni, di certi particolari decorativi quali fregi, ghiere di archivolti, finestrelle ecc. Infine agli “operarii”, in prevalenza mano d’opera locale, venivano affidati i lavori di minor impegno. In genere le chiese plebane ebbero pianta rettangolare con interno basilicale a tre navate. Nelle chiese con influssi pisano-volterrani le navate furono divise da colonnati ma, nella maggior parte dei casi, al luogo delle colonne si ebbero pilastri semplici o cruciformi. Le absidi, normalmente tre come le navate, si riducono ad una nelle chiese più tarde o rimaneggiate. La torre campanaria fu propria delle Abbazie e delle chiese plebane di una certa importanza. Nelle costruzioni più antiche il campanile appare staccato dalla chiesa. Il campanile a vela fu invece tipico degli edifici più modesti; anzi spesso fu frutto di una soluzione di ripiego attuata in epoca posteriore, dato che la maggior parte di tali campanili oggi visibili non è coeva alle chiese. La copertura degli edifici fu generalmente realizzata mediante capriate a vista sia nelle chiese ad un’unica navata sia in quelle a pianta balisicale; in queste ultime però le navi laterali furono coperte semplicemente con travi disposte secondo la pendenza del tetto. Rare e sempre più tarde sono le coperture a volta; tuttavia nelle chiese abbaziali si voltarono, più anticamente a botte, in seguito a crociera, i bracci del transetto. 69 Infine è indispensabile analizzare il potere figurativo e politico di Tuscania, in particolare studiando le suggestioni provenienti da San Pietro, punto focale per la comprensione della varietà di influssi gravitanti nella zona. Il significato emblematico e culturale di San Pietro è già programmato nel suo esterno che focalizza le tendenze estetiche e storiche di cui è esponente, che si realizzano nei diversi apporti registrati e fusi in un’espressione che rimane unica, nonostante i rimaneggiamenti e i restauri, grazie proprio alla assoluta adesione ad un contenuto formale, in particolare quello proprio dell’XI secolo, che riesce a sopportare anche successivi interventi in quanto, nella perdita del particolare, non viene meno l’originaria volontà compositiva che è quella di rendere l’insieme un vibrante e cromatico tessuto che cancella la greve massa. Indubbiamente l’esterno di San Pietro rende già partecipi sia delle aperture sia dei limiti dei suoi costruttori, che sfruttano tutte le tendenze più aggiornate per la strutturazione dell’edificio nella chiave desiderata, confessando anche la loro incapacità a rendere l’involucro in puri volumi contrapposti secondo i principi d’oltralpe per realizzarlo, invece, con un prevalere della partitura definitiva in rapporto al gusto più tipicamente italiano. La posizione stessa del monumento favoriva la sua nuova tendenza strutturale e, insieme, la soluzione cromatica delle superfici immerse nella luce, tese ad alleggerire la massa imponente dell’edificio che recupera l’antica soluzione di predominio urbanistico e politico dell’ “arx” etrusca, sfruttandone anche la viabilità. Il fulcro della città e la nuova sede del potere religioso e civile vengono ad identificarsi, qui come altrove, con l’antico centro e, come nell’urbanistica greca ed etrusca, il luogo sacro viene a coincidere con il punto naturale più alto e il tempio non è che un’astratta e formale perfetta emergenza realizzata artificialmente mediante un manufatto... un simbolo ed un modello.... per evidenziare e drammatizzare il potenziale figurativo di un paesaggio naturale. Dunque l’architetto, recuperando gli antichi punti di preminenza e sfruttando la viabilità e i raccordi già tracciati, riesce a dare alla città il simbolo religioso e politico voluto 3) , realizzando un’opera architettonica di valore sociale: l’autore è condotto a creare un’entità che diviene specchio di un momento, di una particolare situazione storica e politica, chiara affermazione di potenza nel recupero dell’antica “arx” etrusca, riprova ancora una volta, che non è soltanto l’architetto che firma la sua opera, ma la città stessa. 3) Nulla di certo sulla situazione politica contemporanea alla costruzione di San Pietro che potrebbe coincidere o con il momento di tranquillità subentrato verso il 1082, una pausa nelle lotte tra la Chiesa e l’Impero, alla quale non fu estraenea la contessa Matilde nel 1080 residente a Corneto (Turriozzi, “Memorie...” cit., p. 46), o con più probabilità con il periodo successivo al saccheggio del 1090 di Gerardo di Sutri (Dasti, “Notizie...” cit., p. 188 e sgg.), in rapporto con l’estensione della diocesi sotto Urbano II (1088-1093). 70 Il progettista di San Pietro aderisce alla tendenza propria del momento sintetizzata nel rapporto tra esigenze costruttive ed estetiche: la massa architettonica si inserisce e si completa nell’ambiente creando un nuovo involucro spaziale che, corrispondendo alla ricerca di un “unicum” figurativo, realizza una fusione di valori strutturali e decorativi. Ne risulta un equilibrio compositivo cui contribuisce la completa adesione all’ambiente esterno sapientemente sfruttato nei suoi caratteri di emergenza e di atmosfera tanto che se l’abside fortificata di San Pietro verrà imitata nel territorio, non se ne raggiungerà mai l’alto valore stilistico innegabilmente favorito da una particolare situazione naturale 4) . Alla Rocca si giungeva per il raccordo che si biforcava dalla Clodia, raggiungendo la collina alle spalle, come oggi. In questo modo è l’abside che si offre a chi arriva e che riassume il significato formale dell’edificio, acquistando valore di facciata. E’ indubbio che il costruttore abbia calcolato il punto di vista di chi sale, svolgendo perciò il proprio programma decorativo dall’abside alla fiancata Nord che ne continua e completa le premesse ornamentali. Il risultato è che il lato Sud, che si enucleava come “parete di servizio” nell’esterno dell’edificio 5) , rimane completamente a sé con una decorazione più trascurata e ridotta. Questo indirizzo compositivo sarà mantenuto anche nel ripristino avvenuto con probabilità verso la fine del XII, inizi del XIII secolo: i costruttori di allora continuarono a sottolineare l’importanza del lato Nord con una decorazione a lunghe arcate, ridotte di altezza sul lato Sud. La facciata si pone, più che come una prosecuzione dell’andamento decorativo, come un tutto a sé, proprio perché nella fase di avvicinamento all’edificio costituisce un secondo e separato momento. Ciò, sentito nella edificazione della fronte legata ai valori strutturali dell’interno, è perfettamente inteso anche dal realizzatore dell’attuale facciata che sottolinea questa intenzione formale, sviluppando un nuovo mondo figurativo, naturalmente consono alla propria formazione culturale, che si oppone come un secondo fuoco, nella lettura dell’edificio, alla zona dell’abside e del fianco Nord, e ciò era appunto possibile dato che i due punti di vista, quello della facciata e quello del fianco, non coincidono mai. La decorazione esterna di San Pietro sintetizza la cultura del suo autore: fusione di motivi diversi, temperati in un alto linguaggio, che come un nodo di confluenza raccoglie caratteri umani ad edifici della Lombardia, dell’Emilia, della vicina terra aretina, 4) Nella zona una simile situazione absidale hanno: Santa Maria di Castello e San Giacomo di Tarquinia, San Vivenzio di Norchia, Santa Maria di Capranica, la Cattedrale di Sutri, San Robano all’Alberese. Vedi: M. Zocca, in “Palladio”, 1942 e B. Apollonj Ghetti, in “Palladio”, 1938. 5) Le strutture oggi rinvenibili nel lato Sud, riferibili ad epoca antica e medioevale indicano l’utilizzazione di questo lato, dalla migliore esposizione, per i nuclei delle abitazioni e degli annessi alla chiesa. 71 dell’Esarcato, del mondo arabo in un discorso che è tipico dell’XI secolo nella sua universalità culturale 6) . In questa così particolare sintesi di elementi, piace vedere un architetto che realizza una personale scelta di gusto che estrinseca nella decorazione del tessuto esterno, in un “unicum” che se determina imitazioni non genera una scuola. Se non sono noti con chiarezza i presupposti storici e politici che determinarono questi scambi culturali, da sottolineare è, ancora una volta, la particolare posizione di Tuscania e del suo territorio, in una zona di passaggio, aperta a tutte le correnti, senza confini naturali o politici che avrebbero potuto più facilmente dare adito al ripetersi dello schema compositivo 7) PROBLEMATICHE STILISTICHE Nella visita del 4 aprile dell’anno 1856 si legge: “La Sacra Chiesa Parrocchiale sotto il titolo di S. Martino Vescovo, detto anticamente il Vecchio, non ha memoria di sua fondazione, ma da alcuni manoscritti esistenti in Archivio Parrocchiale, e dalla sua gotica costruzione può credersi che abbia avuto origine circa l’anno 1000. Ella è posta quasi nel capo della città, non tanto distante dal pubblico Cemeterio”. Tre sono infatti i documenti che testimoniano che la chiesa di S. Martino è una delle più antiche della città (come già precedentemente detto): due di essi sono pertinenti alla donazione della citata chiesa da parte di Malberto di Pietro, di prete Ranieri e di altri cornetani al Monastero di S. Salvatore in Monte Amiata nell’anno 1045-1046 (“Reg. Farf. cit., V, nr. 1236, pp. 221-222; nr. 1237, pp. 222-223) e l’ultimo è un placito tenuto “in platea quae est iuxta aecclesiam quae vocatur sancti Martini” (“I placiti.”cit., III, nr. 388, pp. 200202; “Reg. Farf.” cit., IV, nr. 824, p. 225; “Chron. Farf.” cit., p. 125, da C.). Non sembra comunque possibile identificare la chiesa attuale con quella già esistente nel 1051. I rapporti con l’ambiente pisano, tutti intorno al XII secolo, il richiamo 6) L’esame della decorazione esterna del paramento murario di S. Pietro porta ad una datazione verso la fine dell’XI secolo. Escludendo una data precedente, avvalora indubbiamente questa data il recente recupero nella muratura di intercapedine dell’abside di una lastra frammentaria attribuibile al IX secolo usata come materiale di riempimento. 7) Nulla di certo circa i rapporti storici che potevano legare i centri emiliani con Tuscania oltre la già citata presenza nella zona della contessa Matilde nel 1080, “leggendaria promotrice delle pievi dell’Appennino Reggiano e Modenese”. Quanto ai rapporti tra Tuscania e Arezzo nulla si può dire di preciso dopo il IX secolo quando Giovanni X, vescovo di Tuscani, andò coi vescovi di Siena ed Arezzo come legato apostolico al Concilio di Pontgois (Turriozzi, “Memorie....”cit., p. 44). C’è da ricordare la notizia riportata dal Dasti (“Notizie.... “ cit., p. 188 e sgg.) di Cincio prefetto di Roma rifugiatosi, nella sua lotta contro il Papa, tra il 1071 e il 1074, a Corneto e Tuscania. Cincio era particolarmente legato all’arcivescovo di Ravenna nella lotta contro Gregorio VII e la sua posizione per il partito dell’imperatore doveva certo portarlo a rapporti oltre che con Ravenna con Arezzo, città ghibellina. Anche l’Abbazia di Pomposa era strettamente legata all’autorità imperiale. 72 ad esempi arabi che presuppone almeno la contemporaneità con San Giacomo, lo stile dei capitelli e delle mensole di una qualità non elevata, ma non arcaica, come le massicce colonne, conducono ai primi decenni del XII secolo. La nuova problematica stilistica della chiesa di S. Martino sembra da ascrivere alla attività marinara della città. La bolla di Leone IV registrava il sorgere di due entità: Viterbo e Corneto, centri nuovi creatisi, per le mutate esigenze territoriali, col vigore delle nuove forze, nei quali la tradizione precedente agisce solo, forse, a livello di spinta iniziale. Concentramento, dunque di nuovi interessi economici e sociali. Il loro rivelarsi nell’assetto territoriali già manifesta il loro “iter futuro”: Viterbo nel cuore del comprensorio, vicina alla Cassia, in diretto rapporto con Roma ed il Nord, ma anche polo di accentramento dei nuclei agricoli, con vasta possibilità di espansione nell’ambiente che l’aveva generata come necessario elemento di coordinamento; Corneto stretta sul mare, privata dell’enorme territorio di Tarquinia, ormai inglobato nella potente diocesi di Tuscania, non più padrona degli antichi raccordi con l’entroterra per l’estendersi di Viterbo, chiusa alle spalle da Tuscania, enucleata quindi dal Patrimonio 1) . In comune un elemento fondamentale: il libero potere popolare. Con la tesi del Dilcher, e cioè con l’ipotesi di un caposaldo avanzato longobardo, il più a Sud nella “Tuscia Longobardorum”, si potrebbe spiegare fin dagli inizi il particolare carattere del centro che si denuncia subito privo di legami con il territorio e motivare, quindi, quei presupposti che, una volta resosi possibile l’affermarsi sul mare, vengono dalla nuova situazione commerciale maggiormente sottolineati. Innegabilmente la presenza per tempo di canali politici con il Nord potrebbe pienamente giustificare anche la “tradizione culturale” dei successivi fenomeni artistici. Tale ipotesi, perciò, conformerebbe l’indipendenza del centro dalle strutture e dagli orientamenti del Patrimonio e la consuetudine a vasti contatti con il Nord, difficilmente attribuibili soltanto all’attività marinara. Sul mare la città, spinta dall’impossibilità già denunciata di espandersi nell’entroterra per l’egemonia territoriale di Viterbo o verso il Nord per l’asperità del luoghi, recupera ben presto l’antica potenza di Tarquinia 2) solidificata da trattati con le 1) Sul territorio di Tarquinia e sui collegamenti viari: M. Pallottino in “Monumenti Antichi, a cura della R. Accademia Naz. dei Lincei”, 1937. Importanti i raccordi alla Clodia, alla Cassia e al lago, quest’ultimo lungo la vallata del Marta. 2) A quanto ricorda il Dasti (“Notizie...” cit., p. 98) Corneto ebbe due porti, uno alla foce del Marta (coincidente con quello di Tarquinia) ed uno alla foce del Mignone (coincidente con “Rapinium”). Sulla localizzazione dell’antico porto di Tarquinia, la situazione dell’entroterra ed i rapporti con Viterbo, l’importanza acquistata dalla città marinara si veda: M. Pallottino (in “Monumenti Antichi”, cit., 1937). Sull’importanza del porto di Corneto cfr. anche P. Supino (in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano”, 1968, pp. 140-141). Da sottolineare 73 Repubbliche marinare, prima fra tutte Pisa 3) . Il porto significherà per Corneto, oltre che potere commerciale, importante possibilità di contatti, rappresentando l’accesso a Roma dal mare 3b . L’edificio risulta ispirato dalla architettura pisana nel partito decorativo e formale della facciata divisa in due da una cornice bicroma che sottolinea l’antitesi tra il liscio timpano e il vibrante pittoricismo della zona inferiore concluso nella lunetta a due archi falcati in conci chiari e scuri. E’ riferibile a suggestioni provenienti da San Pietro di Tuscania la scansione della superficie muraria mediante semicolonne. Nel San Pietro, in effetti il leggero aggetto dei cordoli, il loro esile allungarsi modulando la superficie, la loro stessa funzione, denunciata dal sottile rilievo, che è solo quello di interrompere l’andamento murario per dare alla luce possibilità di rifrazione creando un sottile gioco di alternanze luminose che vivifica la superficie, gioco accentuato dai motivi decorativi in alto e dal diverso aggetto dello zoccolo rispetto alla calotta, è tipico dell’XI secolo quando il vibrante e prezioso momento decorativo non è ancora ridotto a maniera. Successivamente infatti la decorazione delle superfici si volge ad una evidenziazione delle membrature che trasforma le semicolonne e le lesene rendendole più aggettanti ed incidenti, di una perfetta scansione. Avviene nell’XI secolo un ritorno ad una completa interpretazione decorativa del motivo delle archeggiature, una revisione cioè della specifica e rigorosa interpretazione accentuatamente plastica e architettonicamente sempre più integrante delle scansioni ad archetti e lesene data dall’architettura lombarda del IX secolo rispetto al precedente valore dell’architettura esarcale. Una ripresa di quegli schemi decorativi e cromatici ai quali si era volta, attraverso un lento processo di trasformazione 4) , la funzione strutturale delle prime archeggiature esterne ravennati, in un recupero di un’eredità culturale che si ritrova con che Corneto riprende la situazione portuale etrusca e non eredita quella della colonia romana di “Graviscae”. Per la localizzazione di “Graviscae” e “Rapinium”, i rapporti di “Graviscae” con il centro etrusco e i relativi percorsi viari si veda il citato studio di M. Pallottino. Le continue lotte con Viterbo culminarono nella sconfitta subita dai Cornetani nel 1169 (L. Dasti, “op.cit.”, p. 200). 3) Il Dasti (“Notizie..” cit., p. 103) sottolinea l’importanza del ricco porto di Corneto, principale scalo tra il Tevere e l’Argentario, data anche la distruzione di Centocelle - “Centum Cellae” - nel secolo IX (Civitavecchia) compiuta dai Saraceni. Lo provano anche le mire dei Viterbesi ad uno sbocco al mare soddisfatte con parziali concessioni prima da Federico I (quarta parte del porto di Montalto e decima di quello di Corneto) e poi da Alessandro IV. 3b Il Dasti (“Notizie..” cit., p. 103) sottolinea l’importanza del ricco porto di Corneto, principale scalo tra il Tevere e l’Argentario, data anche la distruzione di Centocelle - “Centum Cellae” - nel secolo IX (Civitavecchia) compiuta dai Saraceni. Lo provano anche le mire dei Viterbesi ad uno sbocco al mare soddisfatte con parziali concessioni prima da Federico I (quarta parte del porto di Montalto e decima di quello di Corneto) e poi da Alessandro IV. 3b 74 quest’intento essenzialmente ornamentale, per poi passare a Tuscania col motivo della semicolonna ridotta a cordolo in un rapporto quindi non solo morfologico, ma anche interpretativo 5) . La tendenza ad una versione cromatica nell’esterno di San Pietro è sottolineata, oltre che dall’uso di una materia diversa per le decorazioni, dalle alternanze dei vuoti e dei pieni, dei rincassi e degli aggetti, che eludono i forti accenti chiaroscurali consoni all’esigenza plastica, determinando al contrario leggeri e vibranti effetti pittorici. L’architettura paleo-cristiana era stata eminentemente decorativa negli interni: le chiese avevano avuto tarsie marmoree, stucchi, mosaici, in antitesi con i nudi templi pagani, in dipendenza delle forme nuove del culto. Per gli esterni non aveva voluto raffinatezze estetiche; ma negli edifici ravennati dei secoli V-VI arcate cieche, lesene ed archetti pensili diedero lo spunto a motivi ornamentali passati, attraverso i lombardi, nell’architettura romanica che tende così ad una decorazione principalmente esteriore. Nel duomo di Pisa questa architettura decorativa esterna trova la sua più completa e ricca attuazione. Le arcate cieche di ricordo ravennate risaltano lievi sui muri, accolgono finestre arcuate a pieno centro con classiche ghiere, o rombi incassati; e sono sormontate da lesene cui si alternano, oltre che finestre e rombi, anche dischi con intarsi; mentre una cornice di classica ispirazione racchiude l’insieme. Nel rivestimento superiore del transetto tornano le lesene a pause più larghe e aiutate da mensole per sostenere il coronamento; ma in quello della navata di mezzo si svolgono arcate su colonne; le parti più in vista (abside maggiore e facciata) si nobilitano di colonnati e di logge sovrapposte in una geniale sintesi ornamentale ispirata a fonti diverse. Il duomo di Pisa, dovuto alla limpida mente assimilatrice di Buscheto, fonde risuscitati elementi antichi e paleo-cristiani, con motivi lombardi, bizantini, saraceni o, più genericamente, orientali. Nella ricerca di riferimenti per la chiesa di San Martino, in particolare riguardo agli elementi decorativi della facciata, è opportuno citare: la basilica di San Pietro a Grado (Pisa), la Pieve di Vicopisano (Pisa), la Pieve a Elici presso - Massarosa - (Lucca), la Pieve 4) Il motivo delle archeggiature trapassano da funzione strutturale e ornamentale, acquistando un valore essenzialmente decorati verso l’VIII secolo. 5) Nelle decorazioni esterne più antiche appaiono di prevalenza le paraste piatte di chiaro ricordo ravennate. Le semicolonne si incontrano, secondo A. Kingsley Porter (“Lombard Architecture”, p. 238) nel Battistero di Lenno, circa nel 1085, alternate a paraste e poi nella Badia di Vertemate iniziata nel 1085, consacrata nel 1095. Le paraste a sezione circolare che si trovano per la prima volta nel campanile di Pomposa fondato nel 1063 indicano uno stile più avanzato e precisamente il secondo quarto del XII secolo. Le lesene che appaiono a Tuscania presupporrebbero la larga precedente diffusione del motivo nelle chiese lombarde. 75 Vecchia di Santa Maria del Giudice (Lucca) e la Badia a Isola presso Colle Val d’Elsa (Siena). San Pietro a Grado sorge nel luogo dove, secondo la leggenda, si crede approdato l’Apostolo Pietro, giungendo da Antiochia; è una basilica precedente al XII secolo, tripartita da colonnati, di uno slancio analogo a quello della Cattedrale, e terminante con tre absidi ornate alla lombarda di archetti e lesene con rombi e con tondi recanti lucenti maioliche, allusive ad una nota di colore, frequenti nei monumenti pisani. La chiesa ha poi un’abside opposta collegata alla posizione dell’altare, tuttavia eccentrica rispetto all’asse dell’edificio ed anche quella di un tempio precedente; tale altare ricordava il punto sul quale S. Pietro avrebbe pregato appena giunto in suolo italiano. La Pieve di Vicopisano, databile alla prima metà del XII secolo, riflette le caratteristiche delle pievi della campagna pisana dello stesso periodo, tutte senza cripta come il Duomo, ripartite a tre navate da colonne. La faccita è citabile per la fermezza dell’intaglio degli archetti e l’esilità delle semicolonne. La porta è sovrastata da un arco allungato, falcato, animato da dicromia, come si trova frequentemente nel territorio pisano. La Pieve a Elici sopra Massarosa in terra lucchese è caratterizzata da una severa facciata disadorna, con un portale incorniciato da gracili pilastri. Inoltre è richiamabile la cornice che ripartisce in tutta la lunghezza la facciata e l’andamento scarno della parte superiore rispetto alle forme più aggraziate della zona sottostante. La Pieve Vecchia di Santa Maria del Giudice si fregia di archeggiature sovrapposte nella sua facciata organica divise da colonne; reca, secondo la foggia lucchese, abachi sagomati. La fronte, secondo un’iscrizione sull’architrave, va collocata fra il 1160 e il 1170. La pieve, vivace per dicronismo, rappresenta il penetrare delle caratteristiche di Buscheto nel territorio di Lucca. Se è frequente nel territorio l’arco allungato, falcato e bicromo, più raro e più tardo è il motivo della doppia ghiera, spesso formata dal porticato cieco, di cui è esempio il portale della pieve vecchia di S. Maria del Giudice. La Badia a Isola, dedicata ai Santi Salvatore e Cirino, fu la chiesa del Monastero benedettino fondato nel 1101 dalla contessa Ava, figlia di Zenone e vedova di Ildebrando di Ialfredi. Deve il suo nome al fatto di essere sorta in un terreno leggermente sopraelevato sulla restante zona, una volta paludosa, la cui bonifica fu merito della laboriosità dei monaci. L’edificio, raro per una chiesa monastica, ha pianta di tipo basilicale, con tre navate coperte a capriate ed altrettante absidi. Sei valichi per parte dividono le navate; l’ultimo, più ampio dei precedenti e ad un livello superiore al piano della restante chiesa, costituisce 76 il presbiterio, al di sotto del quale è la cripta. L’arco della prima campata s’imposta su di un pilastro con semicolonna addossato alla facciata interna e termina su di un pilastro rettangolare che presenta due semicolonne nello stesso senso dei valichi. Successivamente si trovano alternati grosse colonne e pilastri a fascio; di questi ultimi, quelli centrali hanno le semicolonne prolungate in alto con l’intenzione di sostenere un arco trasversale, mai realizzato per l’evidente incapacità dei costruttori di gettare archi e volte di una certa ampiezza. Al termine dell’edificio l’ultimo valico si appoggia ad un pilastro con semicolonna addossato al piccolo tratto di muro compreso tra l’abside centrale e quella minore. Assai interessante è la facciata dell’Abbazia, recentemente ripristinata; come il resto della chiesa ha il paramento murario costituito da regolari filaretti a piccole bozze di travertino provenienti dalle vicine cave, oggi non più efficienti. Un settecentesco campanile a vela era sul culmine; pericolante, fu demolito durante i restauri, anche perché, col suo peso, minacciava l’equilibrio statico del muro sottostante. Il coronamento ad arcatelle pensili, sormontate da una cornice a smusso, che caratterizza tutta la facciata. Gli archetti, con fregi raffiguranti animali fantastici, s’impostano su piccole mensole decorate con rosette o testine umane. Nella zona delle facciata relativa alle navate minori le arcatelle sono sorrette da mensole alternate a semicolonne; questa parte del coronamento è stata ripristinata solo sul lato sinistro, integrando i frammenti rimasti in loco con elementi dispersi e ritrovati. La Badia a Isola è senz’altro da considerare il più importante edificio religioso romanico della Valdelsa; in essa si opera una perfetta sintesi di modi costruttivi lombardi (ritmico alternarsi di colonne e pilastri a fascio) con tendenze pisano-lucchesi di interpretazione volterrana (partito decorativo della facciata). La costruzione, per i suoi caratteri, è da attribuirsi alla metà del XII secolo. Difficile stabilire la parte avuta dal vicino San Giacomo nella scelta della tipologia decorativa della cornice a sottili scanalature orizzontali (ascrivibile, con possibilità, anche a suggerimenti pisani) e soprattutto nell’adozione della morfologia delle calotte absidali, motivo raro, a sesto rialzato emergenti per tre quarti dalla parete absidale, che richiama soluzioni musulmane d’Egitto, proponendo anche possibili dirette suggestioni. La chiesa di San Giacomo sorge sullo scoscendimento roccioso che limita a Nord la città ed offre un esempio valido della “internazionalità” delle suggestioni pervenute a Corneto. L’edificio è indicato dal Porter come uno tra i primi in cui si manifesta l’uso della copertura a crociere a sezione angolare. Secondo il Porter, nel S. Giacomo i muratori di Corneto sperimentarono, forse per la prima volta, un nuovo metodo di costruzione: 77 presero in prestito dai lombardi il motivo essenziale del loro stile che è la volta a costoloni ed indubbiamente lo fecero perché si adattava particolarmente alle condizioni locali, in quanto costruibile senza legno che era ed è ancora oggi scarso presso Corneto. La volumetria compressa dell’interno, anche per le ridotte proporzioni, e assoggettata alla cupola raccordata al rettangolo di base da nicchie angolari su una cornice dicroma emergente 6) , l’elegante partitura delle pareti esterne, sottilmente modulate da specchiature ottenutte dall’aggetto dei contorni, unita ad una alta qualità nell’intaglio dei conci, la cupola estradossata orientano, invece, verso precise espressioni architettoniche. L’edificio sembra rimandare, per le particolarità iconografiche e decorative, alla edilizia della Calabria e della Sicilia, corrispondente al periodo di Roberto il Guiscardo e di Ruggero I. La cupola ellittica di San Giacomo su nicchie angolari poggianti sulla cornice, trova rapporto con antichi esempi musulmani: non compare il motivo dello spigolo sporgente, che diverrà frequente nell’architettura musulmana e che è presente nelle cupole siciliane dell’epoca di Ruggero. 6b La cupola, la cui calotta esterna, non eccessivamente elevata (considerando anche la attuale sopraelevazione delle pareti laterali indicata dal Porter) appare assai vicina a quella delle più semplici cupole delle moschee che richiamano prototipi sasanidi. Un altro richiamo in San Giacomo nell’ambiente siciliano della epoca dei primi Normanni è rappresentato dalle superfici lisce, appena variate dall’aggetto dei ringrossi, della parete absidale e del transetto. Il modulo compositivo, ma soprattutto il contenuto formale nella ricerca di una riduzione dell’edificio a pura forma geometrica, accentuata dagli andamenti rettilinei delle cornici e dalla luce che sottolinea le superfici, richiama esempi architettonici musulmani d’Egitto e le versioni siciliane di questa architettura del deserto. Il contatto con l’architettura siciliana non ha per San Giacomo, dunque, valore episodico come sostiene il Porter, ma al contrario si evidenzia come partecipazione ad una situazione estremamente importante e viva, densa di diverse e contrastanti esperienze germinanti tra le quali i costruttori della chiesa cornetana sembrano maggiormente attratti 6) La dicromia, elemento decorativo di successo nelle architetture dei secoli XI e XII, sarà frequente anche nelle successive espressioni di Corneto e della zona, come il Duomo di Sovana e San Flaviano di Montefiascone, ma qui non è ancora maniera e sembra attingere direttamente a fonti di cultura araba. 6b La pianta ellittica non è molto frequente per le cupole: appare tuttavia a Pisa nel Duomo e a Corneto, a Santa Maria di Castello. Secondo il Sanpaolesi è insolita anche nel mondo islamico, non inusitata però negli archetipi persianoarabi; alcuni esempii si trovano anche in architetture greche. 78 dal linguaggio e dal contenuto formale della matrice araba. Lo dichiara anche la ricerca di una perfetta formula volumetrica, assolutamente luminosa, di un’architettura intesa come fatto astrattamente perfetto, al di fuori di ogni problematica sperimentale, che non troverà seguito in un ambiente in cui le implicazioni strutturali lombarde avranno presto molto successo anche come possibilità di ricerca 7) . E’ oggi difficile stabilire in quale misura abbia contribuito, anche a livello di una premessa per un rapporto culturale, la rivolta fomentata a Corneto e a Tuscania nel 1057 da Roberto il Guiscardo 8) . In ogni caso l’erezione di San Giacomo non dovrebbe essere posteriore agli inizi del nuovo secolo: i rapporti con le chiese siciliane non permettono di andare molto oltre, quando sono ormai comuni in Sicilia forme più complesse. La decorazione delle mensole degli archetti, a protomi animali alternate ad elementi scanalati, richiama esempi decorativi di Tuscania. L’attuale aspetto di Santa Maria Maggiore nasconde quello dell’edificio precedente, probabilmente contemporaneo al campanile, ad una navata con transetto triabsidato, di minore sviluppo di quello odierno come attesta anche il campanile oggi quasi addossato alla facciata. La prima pianta doveva richiamare la planimetria propria degli edifici monastici dell’XI e del XII secolo 9) , sentiva vivamente nel Senese 10) . Del primo edificio è conservato l’abside che nello schema a paraste semicircolari rientra nella morfologia frequente nella zona 11) , arricchita di modiglioni a motivi geometrici e animali, simili a quelli nel giro alto delle mensole della torre di San Giusto 12) , nell’abside di San Salvatore a Tarquinia 13) . Nel tipo e nella qualità del rilievo basso queste decorazioni partecipano ad una tipologia che si localizza prevalentemente dalla fine dell’XI 7) A. Kingsley Porter, “Lombard Architecture”, II, pp. 343-345; G. De Angelis d’Ossat definisce la cupola di San Giacomo “arabo-normanna” (in “Palladio”, 1969). 8) L. Dasti, “Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto”, p. 192. Successivi rapporti con i Normanni si avranno con il conflitto tra Ruggero II e Innocenzo II (1133). 9) A croce, con una o tre absidi, senza cripta. In queste chiese manca l’arricchimento del coro. Tuttavia la nave trasversa si innesta sulla longitudinale sempre mediante arconi. 10) L’Abbazia di Santa Maria a Conéo è formata da un’unica navata rettangolare con ampio transetto triabsidato al termine. Delle tre absidi solo la centrale è visibile anche all’esterno, quelle minori ricavano la loro concavità nel forte spessore del muro, secondo un motivo che sarà ripetuto da numerose chiese valdesiane. All’incrocio delle navi col transetto s’imposta una cupola a spicchi che si eleva da un tamburo ottagono raccordato al presbiterio mediante pennacchi visibili anche all’esterno per l’esistenza di triangolari contrafforti al tiburio ottagonale che copre al di fuori la cupola. 11) Si rimanda anche ai capitoli precedenti. 12) Le mensole che nel giro alto del campanile di San Giusto sostituiscono i peducci hanno anche protomi umane di semplificata esecuzione e formelle simili a quelle dell’abside di Santa Maria fino a far pensare ad un’identità di bottega. I modiglioni figurati, motivo comunissimo nelle decorazioni francesi ed italiane del XII secolo, sarebbero per il Porter di derivazione lombarda. 13) Alla decorazione del San Salvatore di Tarquinia concorrono elementi decorativi di provenienza diversa. La chiesa è vicina a Santa Maria Maggiore nei caratteri architettonici e decorativi, fu probabilmente rifatta ed anche allargata, come dimostra l’irregolarità nello spessore delle mura, nell’XI-XIII secolo (A. Kingsley Porter, “Lombard Architecture”, I, p. 124). 79 secolo e nel XII nel Senese 14) . Il fragile rilievo, in palesi richiami all’ambiente preromanico ricollegano questi elementi decorativi a quell’indirizzo figurativo che continua i valori formali precedenti, manifestato anche in alcune decorazioni di San Pietro 15) . Non meraviglia che nel repertorio di questi modesti scalpellini affiorino antichi ricordi culturali del patrimonio etrusco (le palmette e la tipologia degli stessi piatti animali che, in particolare, richiama una lastra del Museo Archeologico di Tarquinia). Difficile localizzare nel tempo queste decorazioni che sfuggono ad ogni delimitazione cronologica proprio per il loro intaglio a-temporale ed il loro eterno bagaglio figurativo. Con probabilità opere di una medesima maestranza, che diffonde anche all’interno dei suoi cantieri le medesime planimetrie - Santa Maria Maggiore a Tuscania e Santa Maria a Conèo - attiva prevalentemente nelle terre dell’Elsa e, forse, tramite la via “Francesca”, scesa fino al Sud a Tuscania e a Tarquinia. Una svolta particolare questo rapporto tra le espressioni figurative della Pieve di Tuscania e delle Pievi del territorio senese che fa sospettare, contemporaneamente alla circolazione culturale ad alto livello che gravitava intorno a San Pietro, un giro più “regionale” che si spiega con i più modesti limiti della chiesa pievana. I capitelli mensoliformi del portale di San Martino, vicini a quelli di Santa Maria di Castello, fanno propendere per un completamento legato al vicino cantiere. Relativamente a questa problematica e soprattutto a proposito della ornamentazione dei capitelli, Santa Maria di Castello manifesta nuovi legami con l’ambiente pavese. Il gruppo delle fiere, delle mostruose figure, degli spessi fogliami che vivacizza l’interno fornendo un’alternanza di ombre, sottolineata dal grigio del nenfro, allo splendente macco dorato, denuncia i suoi presupposti nei cantieri del San Michele. E non solo a livello di suggerimenti tipologici nella scelta degli animali, nei contorti ed antinaturalistici atteggiamenti dei corpi, nell’uso di ricorrenti figurazioni (l’aquila, i draghi...), nelle rozze presente umane, nello zoomorfismo, ma soprattutto nel valore formale che è appunto di risoluzione in plastico vitalismo della razionale e calibrata progettazione strutturale. 14) Da Sant’Angelo a Metelliano (M. Salmi, “L’architettura Romanica in Toscana”, p. 23, tav. CCXXIV) all’abside del Duomo di Sovana, al portale della Pieve di Pienza, alle decorazioni nei tondi della Pieve di San Gennaro a Capannori, a quelle del Duomo di Volterra o di Santa Maria a Conéo (M. Salmi, “L’architettura...” cit., tav. CLXVII, LIV e “Scultura Romanica in Toscana”, ff. 31, 48, 44). Si possono aggiungere anche le sculture ornamentali della Canonica di Cedda (I. Moretti e R. Stopani, “Chiese Romaniche in Valdelsa”, p. 153). 15) In particolare i capitelli delle semicolonne della cripta. Simile tipologia presentano anche i capitelli delle semicolonne dell’abside di Santa Maria Maggiore decorati da ricci su foglie lisce e nervature centrali arricciate, che ricordano opere dell’avanzato secolo XI. 80 Pur nell’appartenenza ad un medesimo canale decorativo, il fantasioso linguaggio di Santa Maria di Castello si evidenzia dalle espressioni figurative della zona, denunciando ben precisi riferimenti nella sfera lombarda, tuttavia tradotti con un’aridità, ben visibile nella trattazione dell’elemento vegetale che non ha nulla del rigoglio pavese. Ed il differenziarsi è manifesto sia a confronto delle espressioni più semplificate della corrente comasco-lombarda ancora a livello di continuazione dei moduli preromanici, sia di quelle più elevate qualitativamente che denunciano nuovi contenuti formali 16) . Ad un altro giro appartengono gli stilizzati motivi vegetali e animali negli archetti della parete absidale e dei fianchi di Santa Maria di Castello, di un basso rilievo che crea effetti pittorici sottolineati dalla dicromia, legandosi, anche per il semplificato contenuto disegnativo, ad espressioni frequenti nella bassa Toscana, comuni, oltre che a Corneto, a Tuscania 17) . I modesti tentativi nell’esecuzione dell’acanto spinoso dei lapicidi di Santa Maria di Castello sono più evidenti al confronto del capitello composito della parasta sulla facciata, dovuto ad intenzioni classiciste, chiaramente in rapporto ad esempi del Duomo pisano. LA CHIESA DI S. MARTINO: STORIA E CRONISTORIA “Nella visita apostolica fatta nel 1513 d’ordine di Gregorio XIII da monsignor Mascardi, si vede enunciato da detto Prelato che in Corneto erano cinquanta chiese. Ma poiché di molte ne tace il titolo, mi si rende difficile ora il descriverle, dirò solo di quelle mi sono pervenute a notizia, parte de’quali al presente sono demolite et alcune fatte di nuovo dopo la suddetta visita”. 16) Si veda sulle caratteristiche e il diffondersi della scultura comasco-lombarda: J. Raspi Serra, “Tuscania”, pp. 98; 149. Tra i più elevati esempi della corrente: il più tardo completamento decorativo della facciata di Santa Maria Maggiore di Tuscania che denuncia palesi rapporti con decorazioni dell’Ovest della Francia (J. Raspi Serra, “Tuscania”, p. 145). 17) Sui caratteri e la diffusione di questa tipologia decorativa: J. Raspi Serra, “Tuscania”, pp. 30 e sgg. 81 Così il canonico Mutio Polidori (1619) inizia la sua elencazione delle chiese di Corneto. Occorre fare qualche considerazione più che di carattere storico, di principio etico-sociale e religioso per giustificare, in una piccola comunità come quella cornetana, la presenza di un così elevato numero di chiese che sorgevano a brevissima distanza una dall’altra, così come vennero innalzate oltre una quarantina di torri, al punto da far definire Corneto, in pieno Medio Evo, la città delle chiese e delle torri. Evidentemente chi si poteva permettere il lusso di edificare “ex aedibus” una torre, poteva essere pure in grado di poter far edificare una chiesa, per la maggior parte di modestissime dimensioni, a giudicare almeno da quelle superstiti, come S. Salvatore, S. Angelo del Massaro e S. Giacomo. Altre sicuramente sorsero per iniziativa o emulazione delle Corporazioni che, oltre a vantare un loro protettore e un loro statuto (vedi quello degli Ortolani del 1379) avevano bisogno di una loro chiesa dove esercitare i riti religiosi e civili, inscindibili a quei tempi. La chiesa analizzata è dedicata a S. Martino, vescovo di Tours. I primi documenti riguardanti la chiesa parrocchiale risalgono rispettivamente al 1045, al 1046 e al 29 aprile 1051. Non sembra comunque possibile identificare la chiesa attuale con quella già esistente nella prima metà dell’anno 1000. I rapporti citati (vedi capitoli precedenti) con l’ambiente pisano, tutti intorno al XII secolo, il richiamo ad esempi arabi che presuppone almeno la contemporaneità con San Giacomo, lo stile dei capitelli e delle mensole di quantità non elevata, ma non arcaica, come le massicce colonne, conducono ai primi decenni del XII secolo. La chiesa passa attraverso i lunghi anni del Medio Evo senza particolari menzioni, se si eccettuano piccoli fatti. La chiesa è ricordata il 1 aprile 1287 per l’estinzione di un mutuo del Comune per un importo di 2247 fiorini d’oro. La contrada di S. Martino Vecchio viene nominata in un atto del 26 ottobre 1291, in occasione dell’estinzione da parte degli esattori di un dazio di un altro Comune per un importo di 2247 fiorini d’oro. Nel 1292 il parroco di S. Martino assistette alla restituzione di pecore, agnelli e castrati, “quali prede di rappresaglia, catturate ai viterbesi”. Il 16 ottobre 1296 Cecco della contrada di S. Martino venne convocato a Roma per rispondere di furto ed esportazione furtiva di “grascia”, unitamente ad altri maggiorenti cornetani. Poiché nessuno dei convocati si presentò, il Comune fu condannato al pagamento di 500 marche d’argento. In un momento successivo i senatori romani 82 annullarono la condanna. Nelle visite vescovili si leggono descrizioni, analisi e annotazioni sulla chiesa ed il suo stato; spesso vengono date disposizioni per piccole o grandi riparazioni rese necesssarie dall’usura del tempo. Così nel 1612 “(...) Non si facci in modo alcuno la stalla in quella stanza sotto la Casa del Rettore la porta della quale è vicina alla porta della Chiesa né meno si faccia il Magazzino dove già era il Cimiterio. La casa Parrocchiale si accomodi in quel luoco... vicino alla Sacristia, dove è cascato il muro d’una certa stanza piccola - si facci il sacrario in quella parte dove il Rettore giudicherà più conveniente”. Nel 1652: “C’è il campanile non la torre campanaria, con due campane; due sepolcri; un cimitero fuori della Chiesa. La Sacrestia sufficiente; la Chiesa è sufficientemente dotata di muri e di tetto. La porta unica sufficientemente forte e decentemente costruita. I sepolcri sono dentro la Chiesa; il cimitero è fuori. Decreta. Sopra la porta maggiore si faccia con comodità l’immagine di S. Martino come si disse in altre visite. La Chiesa s’imbianchi (“s’incalbi”) nelli muri di dentro. Il Cemeterio, dove sono gl’ossi dei morti, si copra con taccolato (la taccola è un tipo di pistello tenero) (..)”. Nella visita del 1667, 8 febbraio: “La Chiesa Parrocchiale di S. Martino consta di tre navate, con colonne di marmo tiburtino distante e puntellate, ha il tetto e il pavimento di laterizi, nella parte sopra quattro finestre, delle quali tre sulla facciata della chiesa, una tonda sopra la porta maggiore delle chiesa, con il vetro, altre due laterali, la quarta si trova lateralmente alla chiesa, nella sacrestia. La porta della chiesa è unica, malferma per vecchiaia doveva essere restaurata. Ci sono tre altare in questa chiesa, il maggiore dedicato a S. Martino Tutelare, Vescovo e Confessore, sul quale c’è un’immagine che raffigura il santo; il secondo altare è dedicato a S. Isidoro Confessore; il terzo a S. Michele Arcangelo; il primo provvisto di prebende, gli altri due sono privi di candelabri. A questi altari, per disposizioni testamentarie di Claudio Menichini, rettore di questa chiesa, fu dedicato un beneficio secondo il diritto canonico nell’anno 1658, con l’onere di celebrare quattro messe nei detti altari, alternativamente. (...) Nella chiesa c’è un solo confessionale, vecchio e rovinato, che il Vescovo ordinò fosse restaurato. L’acquasantiera è affissa alla prima colonna sulla destra di chi entra. 83 In Sacrestia progredisce l’umidità, quindi si devono prendere dei rimedi. All’altare maggiore è sospesa una lampada accesa nei giorni festivi mentre si celebra. Il campanile ha tre campane che sono abbastanza sonore. Il Parroco non risiede nella Casa Parrocchiale, ma abita in un altro luogo, nella parrocchiale di fronte alla chiesa di S. Angelo del Massaro. Il Cimiterio distante dalla Chiesa, è abbastanza grande e racchiuso”. Ancora nel febbraio 1667 si trova una descrizione dettagliata della chiesa analoga a quella della visita precedente ed inoltre: (...) Vi è un’unica porta, che si chiude bene, tre scalini mancano di restauri per vetustà. Ci sono tre altari nelle absidi di forma semicircolare. Il maggiore è dedicato a S. Martino Vescovo e Confessore, in cui si trova l’effige del santo e sopra l’immagine della Beata Vergine Maria dipinta su un quadro; fuori dell’altare ci sono le effigi di S. Martino Papa e di S. Faustino Martire ugualmente dipinte su quadro; l’altare è provvisto di tutto il necessario. Il secondo altare è dedicato a S. Isidoro Confessore, il quale manca di candelabri e della pietra consacrata. (...) Il vaso dell’acqua benedetta, è nella prima colonna presso l’ingresso sulla destra di chi entra, la cui acqua si suole rinnovare ogni 15 giorni. La Sacrestia ha l’ingresso nel muro laterale dalla parte dell’altare di S. Michele Arcangelo (...) è rovinata dall’umidità, perciò si deve restaurare e manca la tela cerata nella sua finestra (...); davanti alla porta della sacrestia pende una campanella per dare il segnale dell’uscita della messa. (...) Il campanile si eleva sopra il tetto la cui fune cade presso la porta della chiesa. (...) L’olio degli infermi è contenuto nell’armadio scavato nel pilastro presso l’altare maggiore dentro al suo fianco (in latere Epistole) in una coppa d’argento dentro una busta di seta con la sua bambagia madida di olio. (...) Questa chiesa fu unita ad un’altra chiesa parrocchiale di S. Angelo del Massaro dal Rev.o Vescovo Bentivoglio. Furono anche uniti altri due benefici ecclesiastici, l’uno l’invoc.ne di S. Rosa, che era della famiglia dei Vitelleschi e l’altro di S. Giona Profeta ed occorre che il Rettore celebri il beneficio dell’unione nella Chiesa Cattedrale tre volte alla settimana, il 2° 3° e 4° giorno festivo gli oneri di d.o beneficio furono traslati alla Cattedrale. 84 La Casa Parrocchiale è unita (confina) con la chiesa verso il tramonto del sole (occidente, ponente), ma il Rettore non vi abita ed è data in affitto a dei laici per sei scudi annui. Il Cimitero è confinante con la Chiesa verso oriente”. Nel 1710: “La chiesa di S. Martino è costruita nella estremità della città ad oriente e si sale ad essa attraverso sei gradini di pietra costruiti davanti alla porta, che è unica e rivolta ad occidente. (...) Nella Chiesa ci sono due Sepolture, ad essa spettanti, nelle quali sono tumulati i parrocchiani, in una degli uomini, nell’altra le donne. Il Cimitero confina col muro della Sacrestia, chiuso da ogni parte, ha una Croce posta sopra, né é possibile per le bestie entrare. (...) Presso l’altare di S. Isidoro c’è una lapide sepolcrale con la seguente iscrizione: “D.O.M. Dilectissimo Fratri Ioseph Tumulus hunc, dum huic Ecc. le preerat, extruendum curavit Rev. D. Cesar Passerinus Anno D.ni 1709, Die 12 s.mbris)”. (Tumulo al Dilettissimo Fratello Giuseppe, il quale tumulo fece costruire il Rev. Don Cesare Passerino mentre era capo di questa chiesa, nell’anno del Signore 1709 il 12 settembre). Nel 1721 (8 agosto); “Lettera di Arcangelo Salvati Curato della Chiesa Parrocchiale di S. Martino di questa città di Corneto nella quale viene chiesta l’autorizzazione per fondare la Congregazione sotto il titolo di S. Fran.co di Paola nella chiesa della Santissima Annunziata Beata Vergine Maria posta nella Parrocchia di S. Martino, rivolta al Monsig. Ill.mo Sebastiano Pompilio Bonaventura, Vescovo”. Visita del 1774: “C’è l’Archivio per idea del Concilio sotto Benedetto XIII, nel quale vengono conservati i libri parrocchiali e le scritture spettanti alla chiesa, da cui risulta che questa chiesa fosse unita alla Parrocchia di S. Angelo detta comunemente del Massaro sotto il Vescovo Bentivoglio, ed inoltre alla Parrocchia di S. Egidio Abate dal Decreto di Saverio Giustiniano Vescovo nel giorno 13 febbraio 1758. In data immemorabile furono uniti due semplici Benefici, motivo per cui Parroco celebra cinque messe al mese nella Chiesa Cattedrale”. Nel 1779: “La sud.a Parrocchia stende i suoi confini dalla Porta Nuova, e passa sotto l’arco del Macello, e lasciando il Palazzo Polidori, per la Cura di S. Pancrazio, riprende il filo, e si porta alla Casa segnata sotto il N°3 e per dritta linea va alle mura Castellane, a riserva della Casa della Prepositura, che sono di S. Pancrazio, di sopra poi termina per tutti li lati colle mura Castellane. (...) Ha quattro chiese nel Ristretto, cioè S. Francesco di Paola, o sia l’Annunziata, il Salvatore, il Crocifisso della Ripa, e la Cappella del Magistrato ridotta in oggi a chiesa 85 pubblica per Breve speciale del Reg. e Pontefice P.P. Pio VI esistente nell’Archivio Segreto della sua segreteria. Proprietà di case. 1. Una Casa detta la Parrocchiale, contigua alla chiesa, sopra la Sagrestia, che rende ogni anno scudi 5. 2. Una Casa contigua alla Chiesa, assegnata al Sagrestano. (...) 7. Due grotte ad uso di stalla, situate sotto l’orto segnato N°1. 8. Stalla..., con Torre ad uso di Fenile, situata in faccia alla Chiesa Parrocchiale. L’analisi dei mutamenti storico-urbani della zona intorno a S. Martino ha prodotto una serie di ipotesi riguardanti le possibili variazioni della forma e della struttura della chiesa. Nell’intento di colmare l’assenza di documentazioni iconografiche, si è cercato di elaborare un processo di ricostruzione, verificabile attraverso l’osservazione diretta, l’attendibilità delle fonti bibliografiche, i parallelismi e i riferimenti, oltre alla interpretazione del carteggio originale esistente. La struttura iniziale, databile intorno al XII secolo, è caratterizzata da una pianta rettangolare con interno basilicale a tre navate, divise da tre coppie di colonne, e terminanti con tre absidi. La copertura è realizzata mediante capriate a vista nella navata centrale, mentre le laterali sono coperte semplicemente con travi disposte secondo la pendenza del tetto. Il primo intervento di modifica, riferibile al XIV secolo, è consistito nell’apertura di una grande arcata con l’eliminazione della terza coppia di colonne, quella prossima agli altari. A questa fase probabilmente si attribuisce l’apertura delle due finestre nelle navate laterali. Per poter eseguire tale apertura si era reso necessario alzare la copertura delle navate laterali. In questo modo si veniva a creare uno spazio che determinava una sorta di transetto e che riequilibrava lo spinto rapporto di uno a tre la larghezza e l’altezza delle navate. L’innalzamento della copertura ha sicuramente interessato la parte posteriore della chiesa con conseguente modificazione della geometria dei prospetti. Probabilmente l’intervento si limitava alla parte posteriore, in quanto l’opera muraria anteriore corrispondente è completamente diversa. I prospetti laterali venivano perciò ad assumere 86 un nuovo aspetto. L’apertura delle finestre si può giustificare con il fatto di dare luce alla parte antistante le tre absidi in seguito alla chiusura della terza monofora superiore. Contemporaneamente all’apertura dell’arco grande o forse successivamente, furono costruiti dei portici in adiacenza al corpo centrale della chiesa. Si è perciò supposto che tali interventi si susseguirono nel corso del XV e del XVI secolo. La costruzione dei due corpi laterali determinava la variazione dei prospetti anteriori e dei due laterali. Infatti i portici costituivano una sorta di ali che andavano a proseguire le linee inclinate del profilo anteriore. In seguito, sempre mantenendo la medesima geometria architettonica, sono stati chiusi gli archi e le aperture dei corpi laterali. Tale intervento poteva essere dovuto alla necessità di creare delle zone di servizio per la chiesa oppure per fare fronte a problemi di stabilità. Nel corpo alla sinistra della chiesa sono stati addirittura aggiunti dei contrafforti a scarpa in sovrapposizione alla facciata. Riguardo le successive modifiche effettuate soprattutto all’interno sono stati ritrovati i documenti relativi: 14 maggio 1787 “La verità fu ed è che facendosi la volta di mattoni in gesso nella Chiesa Parrocchiale di S. Martino, come si costuma in questa città, ed aprendosi da piedi alla navata di mezzo, che deve essere a volta, un finestrone, e facendosi le tre Cappellette con volte, ed archi, oltre il maggiore ornamento, che si dà alla sud.a Chiesa, vi è il vantaggio, che si libera dall’umido, e resta più calda del passato. 2. Che tale lavoro sarà d’un gran Beneficio alla sud.a chiesa, e che scudi 100 che s’impiega, resta a vantaggio della med.a, perché il Parroco pro tempore deve in ogni anno depositare nel S. Monte di questa città scudi 10 annui delle di lui rendite fino a tanto, che sarà reintegrata della sud.a somma la sud.a chiesa, e maggior sicurezza del sud.o deposito annuale dà fondo il Censo di scudi 4000 d’annuo fruttato di scudi 12 che ritiene a Censo Stefano (...) ed il restante, che vi manca pel sud.o lavoro, lo somministra il Parroco presente, onde la sud.a Chiesa Parrocchiale viene bonificata, ed abbellita senza perdita di capitali, ed assicurata dopo il decennio del rinvestimento”. “Die 15 d.i.”. “(...) Lazzaro Nardeschi (...) presta di grand’ornamento, e vantaggio alla Chiesa Parrocchiale di S. Martino i lavori che si vogliono fare di volta in gesso, aprizione d’un fenestrone e tre Cappellette con volte, ed archi, perché così si libera dall’umido, e dai freddi che dal tetto penetrano, e ciò posso asserirlo per esser io Architetto di questa città”. 87 “Die d.a.”. “(...) Luca Alessi; li lavori nella Chiesa di S. Martino si vogliono fare, non nasce dubbio, che siano di gran vantaggio, alla med.a Chiesa sì nell’ornamento, che per liberarla dall’umido, e dalli freddi, che molto in d.a Chiesa si sentono, essendo esposta ai venti Boreali, e ricoperta dal nudo tetto, potendo ciò deporre come capo mastro muratore di questa città”. “Lavori da farsi ad uso di Muratore nella V.le Chiesa Parrocchiale di S. Martino. - come appressoVolta di mattoni in Gesso nella Navata di Mezzo incominciando dall’Altare maggiore sino a piedi della Chiesa con sua cornice sotto all’imposta e sue fasce in d.a. volta che fornino archi al disotto corrispondenti alle colonne, et a Capo verso l’altare maggiore, e da piedi verso la porta con sue mensole sotto alle dette fasce et archi, e che la Cornice sopra dette mensole sia rilevata, il tutto arricciato, et incollato, e stabilito. Li due archi maggiori verso l’altare maggiore si devono restringere a similitudine, e larghezza dell’altri sotto, con formarvi un Pilastro, e restringere, e formare l’arco sopra come sono l’altri, e tra il Pilastro da farsi di nuovo, ed il Pilastro laterale all’altare maggiore formare l’altro arco che passi alle Cappelle laterali di S. Michele Arcangelo e S. Isidoro, il tutto stabilito. Si devono fare le due volte a Crociera alle sud. due Cappelle di S. Michele Arcangelo e S. Isidoro di mattoni in gesso stabilite, et in facciata verso la Chiesa metterle in piano con mattoni come sopra. Si deve aprire una finestra a piedi alla Chiesa in facciata di larghezza di p.mi 5 alta p.mi 9 e, murate l’occhio tondo che vi è al quando resti sopra d.a. finestra farvi le sue spallette sguinci, et arco sopra dentro e fuori il tutto stabilito. Il sud.o lavoro potrà ascendere alla somma in circa di scudi centoventicinque. Lazzaro Nardeschi”. Inoltre venivano modificati i gradini della zona absidale: mentre in precedenza erano disposti separatamente l’uno dall’altro, ora vengono accoppiati e messi in corrispondenza della colonna aggiunta per meglio unificare e rialzare la zona degli altari. L’ulteriore espansione dei corpi laterali, ed in particolare quello di destra, ha coinvolto anche la parte centrale della chiesa con l’eliminazione della terza abside. Sembra che questi lavori siano legati al fatto di offrire al Parroco una casa che gli permettesse il diretto accesso ai locali della Chiesa. Carla Ferrante 88 P. BONAVENTURA VIPERESCHI DA CORNETO + 3/2/1636. Guardando alla ricchezza di documenti archivistici da me rinvenuti, penso che meriterebbe di essere trattato tutto il periodo del 1600 riguardante il convento S. Francesco di Tarquinia. Per ora mi limito alla figura del francescano P. Bonaventura Vipereschi da Corneto perché di un certo rilievo, tipica di quel tempo e non conosciuta. La famiglia Vipereschi era una delle più antiche di Corneto, come si chiamava allora la cittadina. Alcuni suoi membri si erano impegnati nell’amministrazione della città, segno del loro censo e capacità in tali uffici. Essi più volte intervennero a favore dei frati del convento S. Francesco della loro città per risolverne i problemi. Il 4/5/1581 Emilio Vipereschi si occupò di una missione di Corneto presso il “commissario dei Padri Zoccolanti in Roma” che doveva essere il P. Antonio Aquilaro (1579-1583). 1) 1) Lettera al Commissario dei Padri Zoccolanti 4/5/1581 Lettere 1578-1586 f. 56 ASCT. 89 Viperesco Vipereschi con Paolo Callimaci il 25/3/1591 sentenziò che gli eredi del cardinale Carlo d’Angennes detto di Rambouillet (1570-1587) si decidessero a realizzare il monumento nell’abside della chiesa di S. Francesco su disegno dell’architetto Ottaviano Mascarini. Visto che essi non si decidevano, egli continuò ad insistere, come è possibile rilevare da una lettera forse del marzo 1593: “Et poiché il signor Viperesco Vipereschi non cessa di molestarci e continuamente procura di rinnovar la lite, della quale si ha hauta la sentenza contra et perché conosciamo che tutto ciò procede” 2) . Muzio Vipereschi il 25/10/1599 sostenne in consiglio comunale che si restaurasse la “cappella maggiore” cioè dell’altare maggiore ed il 23/3/1608 addirittura tutta la chiesa 3) . Marco Antonio Vipereschi canonico lateranense, referendario della Segnatura a terziario francescano, nel 1609 fece costruire 22 delle 27 antiche celle dell’infermeria del convento di Aracoeli in Roma. Con quelle fatte costruire da lui per l’infermeria di S. Francesco a Ripa della stessa città, egli giunse a ben 60 celle. Egli morì a 49 anni in Roma e fu sepolto nella cappella S. Maria di Loreto della basilica d’Aracoeli. Le date della sua morte tuttavia sono discordi proprio per la diversità di lettura di due lapidi apposte in sua memoria. La prima nella cappella ricordata messavi dai frati 20 giugno 1622 o addirittura 20 genaio dello stesso anno, e la seconda del nipote Francesco nella chiesa “X Kalenda Iulii” cioè 22 giugno 1622 4) . Con una famiglia così agganciata ai Francescani, non fa quindi meraviglia se i Cornetani si rivolsero al P. Provinciale della Provincia Romana degli Osservanti P. Callisto da Antrodoco (15/6/1622-13/9/1625) per avere il loro concittadino P. Bonaventura Vipereschi come guardiano del loro convento S. Francesco. Egli accondiscese benevolmente, presentandolo con una lettera il 13/5/1623. E’ questa la prima conoscenza del P. Bonaventura che si ha nei documenti e perciò si ripropone: “Molto Illustrissimi Signori miei ossequentissimi. E’ stato grande il contento mio, havendo honorato il P. Vipereschi del Guardianato di cotesto convento perché ci concorse il gusto particolare delle VV.SS. molto illustrissimi. Ma il parere che sento che ciò sia succeduto secondo il desiderio loro è tale, che questo basta in cambio d’ogni gratitudine, che me ne potessero havere. 2) Libri dei decreti 1560-1612 f. 77; Lettera a Teofilo Scauri s.d. Lettere 1587-1596 f. 167 ASCT. Consiglio 25/10/1599 Reformationes 1599 ff. 2,2v; Consiglio 23/3/1608 Reformationes 1607-1610 f.28 ASCT. 4) Wadding L., Annales Minorum continuato a P. Stanislao Melchiorri de Cereto 24 (Quaracchi 1934) 520, LXVII; 25 (Quaracchi 1934), XCIV; Casimiro da Roma, Memorie Istoriche della chiesa e del convento di S. Maria di Aracoeli di Roma (Roma 1736) 184-185, 259-260, 448. 3) 90 Procurarò de dare al P. Vipereschi ogni honorata sodisfatione in servizio della lor chiesa, perché così devo alle SS.VV. Mi offerisco di simili in ogni concorrenza di mio potere. Che sarà il fine e di V.S. la prego ogni vero e compito fine. Di Roma XIII Maggio 1623 Delle SS.VV. Molto Illmi Affmo Servitore Fra Calisto d’Antrodoco Ministro Provinciale” 5) . Questa disponibilità del P. Provinciale forse metteva in pratica una richiesta fatta ai Padri Generali degli Ordini Religiosi residenti nella cittadina: Serviti a S. Maria a Valverde, Osservanti a S. Francesco, Conventuali a S. Maria in Castello e Agostiniani a S. Marco. In una lettera del 19/6/1620 si dice loro “a dar ordine a far si che veniamo provisti di buoni padri per un numero sufficiente all’entrate che vi sono per tutti i dii che alla giornata gli si danno per anco che tra essi patri ve ne siano de sufficienti si per le confessioni come per le predicazioni infra annum che così tra tutti Conventi che habbiamo qua che sono quattro deve esserci prontezza abbastanza di prediche per tutte le feste et per altre occasioni solenni dell’Anno”. Uguale lamentela veniva rivolta al Papa 6) . Con tutta probabilità il P. Vipereschi ricoprì il suo ufficio fino al 13/9/1625 quando fu eletto Provinciale P. Angelo Seneca da Carpineto Romano (13/9/1625-15/9/1628). Nel 1625 i Frati di S. Francesco dovevano all’istituto di Ascanio Costaguti 250 scudi 7) . Il nuovo padre guardiano fu il P. Stefano da Sarzana, predicatore, ma con numerosi nuovi problemi che mandò ad esaminare all’amministrazione comunale il 26/4/1626. Il memoriale che egli presentò naturalmente non era firmato, come era di uso ed è il seguente: “Alli Molt’Illi Signori della Città di Corneto per i frati di S. Francesco. Molto Illustrissimi Signori Padroni Ossequentissimi. Il guardiano et frati di S. Francesco notificano alle SS.VV. Illmi essere tanti et tali i loro bisogni che molti memoriali non basterebbero per manifestarli a sufficienza; ma perché sanno quanto sia grande la loro carità, si contentano raccomandarglie, sperandone indubitato soccorso affidati nel Dio Revelatosi in vitam suam e spera anco, et ipsa faciet. Sappino intanto che le campane stanno in grandissimo pericolo di rompersi tutte essendo 5) Lettera del Padre Provinciale Callisto da Antrodoco 15/5/1623 Lettere 1622-1623 f. 135 ASCT. Lettera ai Padri Generali dei Servizi, dei Zoccolanti, dei Conventuali e degli Agostiniani 19/6/1620, Lettera al Papa s.d. ma dello stesso periodo Cronache di Corneto Archivio Falzacappa F f 12 - Presso Arte e Storia di Tarquinia. 6) 91 rotti tutti li travi da quali vengono sostentati, et per non esserci cola. Il sacrestano ogni volta che si sale per qualche bisogno corre il pericolo di precipitare. In chiesa poi non vi è pulpito da predicare la parola di Dio. Di più dal giorno de ognisanti fanno la quaresima et hanno consumato tutto l’olio et non hanno speranza nella ricolta et quel che più importa il pane che trovano per le cerche non li basta per un sol pasto. Et è impossibile senza qualche provvedimento di rilievo paterno durare la famiglia di quattordici frati come vi stanno. Finalmente desiderano renunciare a quest’Illmi circa ligati che lascia medesimo Convento la buona memoria del Cardinale Rambuglietto. Anche la suddetta comunità dia l’equivalente de dinari applicarsi al vestiario de frati et all’infermeria essendoci ordinati nel capitolo del sudd. che tutti li legati perpetui si alienino. Il tutto sarà maggiore augurato di obbligo pregare sua divina maestà per la conservazione delle SS.VV. Molto Illustrissimi. Die XVI mensis Aprilis 1626” 8) . Questo documento è interessante perché è uno spaccato sulla numerosa comunità del convento di Corneto, mettendo in risalto i principali problemi del momento e che servono di base per quelli futuri nelle relazioni tra i frati ed il comune. Infatti non senza un perché tale problema era già stato esaminato nella seduta del consiglio comunale del 18/12/1625 alla presenza dei maggiori responsabili Arnaldo Arnaldi, Pietro Tiberi, Callimaco Callimaci e l’assenza del solo Polidoro Polipori, padre dello scrittore Muzio. Forse proprio il 26/4/1626 fu preso di nuovo in esame e vi erano presenti i priori di ufficio cioé il capitano Mascio Frabrizio ed un illegibile Zito Lauditio gonfaloniere cioé corrispondente al sindaco di oggi. Essi si dissero disposti a venire incontro ai frati con 30 scudi “per li bisogni et per il pulpito et altri”. Altrettanto avviene per i legati del cardinale: “In quanto alli legati del Monte che detti Padri dicono esponendo nel memoriale lassatogli dalla B. Memoria del Cardinale Ramboglietto concessione, che essendosi accettata da loro, dicono s’accetti detta offerta della comunità et da essa comunità si li dia l’equivalente dei frutti da applicarsi per il vestiario dei frati et all’infermeria come in detto memoriale” 9) . Proprio in base a tali principi si cominciò a venire incontro alle necessità dei frati in un modo più concreto specialmente in quello fondamentale del sostentamento: “Sin dall’anno 1626 dal Pubblico Consiglio di questa Città concesse in elemosina alli Padri di S. Francesco un giulio di pane al giorno; con questo fu fatto per il mantenimento della Casa Vipereschi et altre case, che sumministravano ad essi Padri grande elemosina” 10) . 7) Lettere 1618-1620 f. 128 ASCT. Memoriale al comune 16/4/1626 Lettere 1618-1620 f.118 ASCT. 9) Sintesi di consiglio comunale s.d. Lettere 1618-1620 ff. 118-118 v ASCT. 10) Lettera al cardinale Francesco Barberini 14/4/1636 Lettere 1631-1636 f. 189 ASCT. 8) 92 Vi sono quindi sempre dietro alle spalle dei frati i parenti del P. Bonaventura Vipereschi. In questo stesso anno i frati ricevettero 150 scudi dal comune attraverso il loro procuratore Tiberio Falgari il 3/7/1626. Sempre costui gli fece avere altri 12 scudi il 28/12/1626 per la predicazione dell’avvento nel duomo S. Margherita da parte del P. guardiano di S. Francesco P. Stefano da Sarzana 11) . Ugualmente Tiberio Falgari ottenne 10 scudi per la riparazione del tetto della chiesa il 24/10/1627 ed altrettanti per lo stesso scopo il 26/3/1628. Questo era segno che i lavori non erano terminati. Così ottenne il 6/1/1628 75 scudi e otto botti di vino. Evidentemente la comunità dei frati doveva essere molto numerosa 12) . Il P. Bonaventura Vipereschi in questo periodo era diventato guardiano del convento S. Maria di Aracoeli di Roma. Il suo ufficio era uno dei più importanti nella provincia Romana perché ivi risiedevano il P. Generale di tutto l’Ordine e la sua curia ed il P. Provinciale e la sua curia. Spesso chi aveva ricoperto tale incarico veniva promosso ad impegni più importanti come P. Provinciale o P. Custode, cioé a capo di tutta la Provincia. Erano gli anni 1628-1631. Egli si impegnò a terminare i credenzoni e le pitture delle spalliere nuove della sacrestia del convento e fu fatto l’altare in legno di noce in coro dietro l’altare maggiore 13) . Intanto nel convento S. Francesco di Corneto era guardiano P. Tommaso da Roma. Rimaneva ancora in piedi il problema di rinunziare ai legati perpetui a favore del comune. Erano stati trattati nelle sedute consigliari del 7/8/1628, 7/2 e 9/3/1629. Per le costituzioni di Paolo V “Prohibemus” ed il capitolo VI della Regola Francescana sull’uso del denaro i frati erano disposti a cedere al comune 70 scudi depositati presso i monti di pietà Giustiniani e Pace e a tutti i frutti del legato del cardinale Rambouillet, che erano notevoli. Il P. Tommaso era assistito dal procuratore del convento Tiberio Falgari ed il comune accettava attraverso i suoi rappresentanti il gonfaloniere Pietro Tiberi, il capitano Polidoro Polidori ed il console Arcangelo Cardini. I frati accettavano l’elemosina dal comune per le loro necessità 14) . 11) Speculi 1625-1629 ff. 27 v, 44 ASCT; P. Stefano da Sarzana, predicatore morì in Aracoeli a Roma il 20/1/1632. Necrologio ASBO. 12) Speculi 1625-1629 ff.66 v, 75 v, 82 ASCT. 13) Onorato da Casablanca, Notizie della Provincia Romana f. 41 APA Ms. 88; Onorato da Casabasciana, Memorie della Provincia Romana f. 53 APA Ms. 88. 14) Donazione al comune del P. Tommaso da Roma 14/3/1629. Lettere 1618-1620 f. 155 ASCT. Due sono i P. Tommaso da Roma di questo periodo. Uno morì in Aracoeli l’8/6/1634 ed è forse il più probabile. L’altro invece morì martire di carità nel servire gli appestati a S. Polo l’8/8/1656. Necrologio ASBO. 93 Su questo piano si muovono gli anni seguenti. Infatti Tiberio Falgari ricevette il 23/11/1629 15 scudi per la solita pietanza ai frati, 10 scudi dei quaranta promessi per la fusione della campana grossa della chiesa ed il 29/12/1629 ne ricevette 12 scudi per la predica in cattedrale per l’avvento da parte del “maestro Padre Gironimo da Velletri” (futuro P. Provinciale) e del suo compagno 15) . Nel 1630 sono molte le spese fatte per i frati di S. Francesco. Proseguono le spese di anticipo per la fusione della campana grande decisa il 14/10/1629 per cui vengono dati altri 10 scudi il 20/2/1630 con l’aggiunta di altri 10 scudi il 5/4/1630 ed altri 10 scudi il 7/9. Il 27 settembre Tiberio Falgari riceve 75 scudi per 8 botti di vino e 30 scudi per tre mesi di pietanza, ma ben 45 scudi ne riceve a dicembre per nove mesi di pietanza. Aveva ricevuto 18 scudi per il pane, 20 scudi per i bisogni della comunità, 15 scudi per la pietanza gennaio-marzo e 5 scudi per la porta battitora. I frati avevano diritto a 60 scudi per la pietanza ed a 150 scudi per otto botti di vino 16) . Guardiano di S. Francesco di Corneto era il P. Marcello della stessa città che doveva avere un età veneranda o godere molta stima presso i suoi compaesani. Egli era stato guardiano di S. Lorenzo di Velletri nel 1601 e vi aveva fuso una campana. Nel 1619 era stato guardiano di S. Maria del Paradiso di Viterbo. Il 19/6/1629 era guardiano di S. Bernardino di Orte e dichiarava nella curia vescovile di non possedere beni immobili e legati annui per il suo convento. Si sottoscriveva come “pater provinciae”, titolo che si dava a personalità che avevano svolto il loro ufficio nella curia generale o ad ex maestri dei novizi per molti anni, con diritti particolari nelle elezioni dei P. Provinciali, essendo considerati ex Provinciali. Egli morì nella sua patria il 13/12/1630 e non gli fu quindi possibile assistere alla posta in opera della campana grande nello storico campanile che avvenne allorché vi fu trasferita dal mare il 3 marzo 1631, quando furono pagati gli ultimi 10 scudi 17) . Il concittadino P. Bonaventura Vipereschi invece il 7/9/1631 fu eletto definitore provinciale con Padre Francesco da Velletri che P. Onorato da Casabasciana dice custode e guardiano di S. Bartolomeo all’Isola in Roma, P. Giustino Bellaviti da Bergamo, P. Pacifico da Roma. Provinciale era P. Bernardino Turamini da Siena e custode, credo dei Riformati perché successivamente in tale ufficio partecipò al capitolo generale e fu eletto definitore, era P. Santoro da Melfi 18) . 15) Speculi 1625-1629 ff. 134 v, 137 v ASCT. Speculi 1630-1631 ff. 32 v, 33, v, 34, 38 v, 39, 56, ASCT. 17) Speculi 1630-1631 f. 64 ASCT; Dichiarazione del P. Marcello da Corneto 19/6/1629 Iura ecclesiasticorum 16241631 ff. 179v-180v AVO; Casimiro da Roma, Memorie istoriche delle chiese e dei conventi dei Frati Minori della Provincia Romana (Roma 1764)443; Zucconi G; “Il convento di S. Maria del Paradiso in Viterbo” in Acta Provinciae Romanae SS. Apostolorum Petri et Pauli Ordinis Fratrum Minorum19 (1965 N3) 77. 18) Chiappini A., Annales Minorum 27 (Quaracchi 1934)340, XIV, 600-602, CXVI-CXVIII. 16) 94 Poteva sembrare che in tale modo sarebbero stati risolti più facilmente i problemi di S. Francesco di Corneto. Tuttavia non fu così perché fu scelto come guardiano del luogo P. Leonardo da Roma che vi era stato alcuni anni prima comportandosi contrariamente a quanto si desiderava. Per questo vi era stato allontanato. Ne venne fuori una polemica molto forte. Furono mandate dal comune due lettere di protesta contemporaneamente il 24/11/1631. La prima fu inviata al vicario generale dell’Ordine a Roma che era il P. Antonio da Galbiate (Como) (1620-1633) e l’altra al P. Bonaventura Vipereschi. Il tono è molto duro e tagliente, non ammettendo nessun compromesso verso il P. Leonardo da Roma che morirà in Aracoeli il 6/5/1644. Si ripropongono le due lettere per rendersene conto e per capire come l’amministrazione cittadina partecipava al buon andamento del convento: “Al P. Revmo Vicario Generale dei Minori Oss. Roma Le medesime cagioni quali furono potenti scacciare di qua Fra Leonardo da Roma l’anni a dietro di famiglia in questo convento di Santo Francesco tanto meno richiedono averlo in caput anguli. Però prima che altri signori superiori, le proponiamo di nuovo a V.P. Reverendissima delle quali senza altra che da noi potrà haverne alcuna informatione, acciò lei venghi ad altra eletione non intendendo questa città universalmente havercelo in modo alcuno. Del che caldamente ve ne preghiamo Vostra Paternità Reverendissima alla quale per fine B.M. Corneto 24 Novembre 1631” E l’altra al P. Bonaventura Vipereschi: “Al P.B. Ventura Vipereschi Li cattivi costumi di Fra Leonardo da Roma, molto bene noti in cotesta religione et a V.P.M.R. tantomeno meritavano l’ingresso in questa città, quanto meno la superiorità alla quale è venuto di questo convento, cioé nell’anima et cuore di questa città lo richiedono tale et per essi ci avvelenò già pochi anni sono che ne fu di famiglia, di come perché dannosa, scacciarlo di qua che non ne restasse con sprezzo della religione macchiata, essa proprio contaminata et tanto maggiormente duole universalmente si permuti la deliberatione, quando credevamo di certo godere la suavità delli honesti et religiosi portamenti di V.P.M.R. più che di altro in suo luogo et dovendose giustamente rimedio più da lei possa de più principali della sua patria con ogni maggiore celerità la preghiamo ardentemente col P. Reverendissimo operare che ci si levi et desiderosi sentire la sua remotione restandoli servitori. 95 Gli b.M. Corneto 24 Novembre 1631” 19) . Evidentemente la questione fu risolta secondo i desideri dei Cornetani, perché il 25/12/1631 essi scrissero una lettera di auguri natalizi al P. Bonaventura, accomunandolo ad altri due concittadini a Roma molto stimati per la carica ricoperta nei loro Ordini Religiosi: il preposito generale dei Gesuiti P. Muzio Vitelleschi (2/12/1563-9/2/1645) ed il generale degli Eremitani di S. Agostino P. Girolamo Rigogli morto a 75 anni il 15/7/1637. Questo esprimeva verso di lui stima e riguardo particolare. Ecco la lettera: “Al P. Generale della Compagnia di Gesù Al P. Generale di S. Agostino et Al P. Bonaventura Vipereschi Roma Essendo offici proporzionati al tempo benché sia piccola dimostrazione dell’osservanza che le facciamo di V.P. Revma, non habbiamo voluto tralasciare augurarle il Buon Natale; li giorni del quale preghiamo S.D.M. perché colmi di Celesti gratie conceda a V.P. Revma alla quale le b LL M. Corneto 25 Dicembre 1631” 20) . Il P. Bonaventura presentò al consiglio comunale di Corneto un memoriale a favore del suo confratello P. Giovanni Antonio Romano che doveva predicare la quaresima del 1635 nel duomo di S. Margherita. Il capitano Sisto Vipereschi introdusse l’argomento nel consiglio del 28/12/1633 e fu approvato completamente: “Habuit omnes fabas”. Il 29 dicembre fu partecipata la nomina all’interessato che successivamente divenne P. Provinciale della Provincia Romana ben due volte (1646-1649 e 1655-1659). Non sempre però era così facile accontentare chi chiedeva, perché nella predicazione era necessario aspettare i turni spettanti alle quattro comunità di religiosi esistenti nella città: Agostiniani del convento di S. Marco, Osservanti di S. Francesco, Conventuali di S. Maria in Castello e Serviti di S. Maria di Valverde. Questo valeva in particolare per la predicazione della quaresima, mentre per quella dell’avvento vi era maggiore elasticità, sempre salvaguardando gli impegni già presi. Così quando il P. Bonaventura il 23/5/1634 presentò ancora il P. Giovanni Antonio da Roma per la predica dell’avvento 1634, non fu possibile 19) Lettera al P. Vicario Generale. Lettera al P. Bonaventura Vipereschi 24/11/1631 Lettere 1631-1636 ff. 21-21 v. ASCT. 20) Lettera al Generale della Compagnia di Gesù, al Generale degli Agostiniani e a P. Bonaventura Vipereschi 25/12/1631 Lettere 1631-1636 ff. 25v-26 ASCT. 96 accontentarlo, perché era già stata assegnata dall’ottobre precedente all’agostiniano concittadino e baccelliere P. Stefano Raffi 21) . Come era successo per il P. Bonaventura, il comune il 20/3/1634 si rivolse al cardinale Francesco Barberini protettore dell’Ordine e della città perché facesse eleggere guardiano di S. Francesco P. Girolamo da Corneto nel prossimo capitolo che si sarebbe tenuto in Aracoeli il 23/5/1634. Non sappiamo se il desiderio fu esaudito. P. Girolamo morì a Roma nel convento di Aracoeli il 7/1/1647 22) . Il 25/4/1634 furono mandati i confetti a P. Bonaventura Vipereschi ed a Massimo Moscini che erano a Roma. Questo era un segno di particolare rispetto verso loro perché era il giorno di Pasqua. Nella lettera a P. Bonaventura è ricordata la festa di S. Maria di Valverde, protettrice della città che veniva celebrata nella Domenica in Albis cioé in quella immediatamente dopo la Pasqua con grande solennità e quindi certamente gradita a lui 23) . Non Mancarono richieste del P. Vipereschi al comune per piccoli favori per altri. Così egli presentò due “trombetti” (trombettieri): Domenico di Benedetto da Farneto e Giovanni di Francesco Comasco. Essi furono subito vestiti con le divise dovute, fu discussa la loro richiesta e furono accettati 24) . Col nuovo P. Provinciale Giovanni da Roma (23/5/1634-24/4/1637) sorse il problema di un sopravanzo di 100 scudi che si volevano impegnare per la costruzione del noviziato del convento di Aracoeli fatto costruire dal guardiano P. Pietro Brandani da Roma nel 1634. La gente di Corneto non era contento che tale somma fosse spesa tutta per un altro convento. Per questo il comune il 17/10/1634 inviò una lettera al P. Provinciale puntualizzando le idee fondamentali. Non bastando questo, il 24/10/1634 esso scrisse una lettera al Generale dell’Ordine P. Giovanni Battista da Campagna (14/5/1633 11/6/1639). Gli argomenti sono gli stessi, con uguali richieste, ma con scusanti verso il guardiano attuale ed altri frati, evidentemente per non coinvolgerli. Le due lettere si riportano per rendersene conto: “Al P. Ministro de Minori osservanti Roma 21) Lettera a P. Giovanni Antonio da Roma 29/12/1633, Lettera a P. Bonaventura Vipereschi 2/5/1634 Lettere 16311636 ff. 107-107 v, 20-20v; 119 v,32 ASCT: Consiglio 28/12/1633 Reformationes 1631-1637 ff. 119 v, 120, 121 ASCT. 22) Lettera al cardinale Francesco Barberini 20/3/1634 Lettere 1631-1636 ff. 113 v-114,26 v-27 ASCT: Necrologio ASBO. 23) Lettere a Massimo Moscini e a P. Bonaventura Vipereschi 25/4/1634 Lettere 1631-1636 f. 119, 32 ASCT. 24) Lettere al P. Bonaventura Vipereschi 26/6, 8/8, 21/8/1634 Lettere 1631-1636 ff.125,38:130-130 v,43-43v; 131-131v, 44-44v ASCT. 97 Ci viene significato, che da V.P. molto Reverendo, è stato mandato un padre a ministrare questo nostro convento il quale havendo trovato che a suo convento sono sopravanzati scudi 100, esso Padre li voglia applicare alla fabrica d’Aracoeli cosa che questa a noi non pare ragionevole che havendo alcuni benefattori lasciati a questo convento di levarci ad esso di spenderli in beneficio di esso, hora essegli defraudata la mente loro con beneficiare altro convento, havendo questo nostro bisogno di molti resarcimenti; et perché sappiamo l’affetto grande che porta a questo nostro convento e Patria farà si che detti denari venghino spesi in benefitio di esso, al che la preghiamo con ogni affetto possibile, acciò li benefattori in averire seguino con l’elemosine come hanno fatto per il passato, che facendosi altrimenti mancarebbano l’elemosine, et esso convento la farebbe male. Con questa fine a V.P. baciamo le mani. Di Corneto 17 Ottobre 1634”. E l’altra al P. Generale: “Al Padre Generale de Minori Oss. Roma L’istanza fatta da Noi li giorni passati al Padre Ministro Provinciale in materia del sopravanzo del denaro di questo convento di San Francesco quale intende spenderlo nella fabrica del Noviziato d’Aracoeli non l’abbiamo fatta ne a petizione del Padre Guardiano, ne d’alcun frate al presente commorante in questo Convento, ma havendo saputo da parte remote, ci è parso bene scriverne due righe a detto Padre Provinciale si come facessimo, sebbene non havesse fatto frutto alcuno. Massimamente ci siamo resoluti scriverne a V.P. Revma come Capo acciò provveda a quello che possa occorrere in avenire. Deve sapere che dalli Cittadini s’è saputo questo negozio di voler levare in tutto il sopravanzo di detto convento si sono irrati in tanta collera, dicendoci che se detto sopravanzo si levava voler ancor loro minacciare la limosina concessa a S. Francesco del pane e vino per amor di S. Francesco si tirava esitanti che essendo essa elemosina per dieci Padri, adesso vi sono però tre sacerdoti, quella modula secondo li religiosi ci saranno pro tempore in detto Convento che così non si havranno sopravanzi allorché li benefattori quali hanno lasciato si spendono in benifitio di questo Convento hora le loro menti non venghino adempite havendo esso Convento bisogno di molti resarcimenti, altri volgeranno il pensiero verso altri Religiosi et così dove adesso l’elemosina fiochano in havenire li Padri haveranno di guari a vivere. Se il P. Ministro havesse tassato questo Convento di qualche somma havuta la Città si sarebbe molto volentieri contentata che se fusse applicata a detta fabrica, ma voler levare via ogni cosa insomma non è bene intesa. Supplichiamo pertanto V.P. Revma vogli restar servita oprare che detto sopravanzo ne resti buona parte a questo Convento, acciò li 98 benefattori seguitino con lemosine, come hanno fatto per il passato, il che non facendosi si seguirà gran danno alli Padri in Convento et per fine a V.P. Revmo baciamo le mani. Di Corneto li 24 Ottobre 1634” 25) Non si sa chi fosse il guardiano del convento di S. Francesco. La comunità dei frati era notevolmente diminuita perché vi sono presenti solo tre sacerdoti. Le idee espresse sembrano reali. Probabilmente il P. Bonaventura Vipereschi era restato nel convento di Aracoeli in Roma tra i “patres Provinciae” che ressero col nuovo P. Provinciale la Provincia Romana in assenza dei definitori che non furono eletti. Egli vi morti il 3/2/1639 forse nella stessa infermeria fatta costruire dal suo parente. L’ultima lettera che lo riguarda personalmente e che mostra ancora i suoi buoni rapporti coll’amministrazioni della sua città è quella del 20/2/1635. Eccola: “Al P.B. Ventura Vipereschi Dal P. Predicatore (P. Giovanni Antonio da Roma), proposto da V.P.M. Revdo questa prossima quaresima ci è stata recapitata una lettera di lei, quale a noi è stata di somma contentezza per haver in essa inteso il valore di lui; benché a noi questo non sia nuovo per la certificazione che lei ce ne fece quando fu proposto per questo pulpito. Non di meno ne rendiamo quelle grazie maggiori che possiamo et dovriamo assicurandola che da noi si fece ogni sforzo che esso Padre habbi tutti quelli gusti che desidera si per corrispondere al merito grande di esso Padre come anco per dimostrare la stima grande che facciamo delle sue raccomandazioni, et insieme obligazioni che dovemo a lei et qui per fine a V.P. baciamo le mano. Di Corneto 20 Febraro 1635” 26) . Nel 1635 i Cornetani pensavano che fosse terminato il periodo del guardianato di quello del loro convento che non si sa chi fosse. Essi si rivolsero allora al P. Provinciale Giovanni da Roma per proporre il P. Antonio da Veroli, ma ciò non avvenne perché restò confermato quello di prima P. Antonio da Veroli morì in Aracoeli il 26/1/1647 27) . Il peggio però si verificò l’anno seguente, quando nel convento rimasero solo il guardiano ed il vicario che non legavano con gli altri frati che venivano, rimanendo quindi soli. Ciò perdurò anche per il 1637 con grave disagio della popolazione e tentativi di restrizioni da parte dell’amministrazione comunale. Vi furono due ricorsi al cardinale 25) Lettera al P. Provinciale 17/10/1634, Lettera al P. Generale 24/10/1634, Lettere 1631-1636 ff. 142-142 v, 143-144 ASCT. Onorato da Casabasciana, Notizie della Provincia Romana ff. 47 v-48 APA Ms. 88. 26) Lettera al P. Bonaventura Vipereschi 20/2/1635 Lettere 1631-1636 f. 158,21 ASCT. 99 Francesco Barberini il 14/4/1636 il primo e non oltre il 10/11/1637 l’altro. Nello stesso periodo vi fu un ricorso al P. Provinciale. Il 4/10/1637 il consiglio comunale si decise a trattare l’argomento in maniera accorata. Sul decimo punto riguardante “il parere (da) pigliare poiché in S. Francesco da tempo che non vi stanno quella quantità di sacerdoti che vi stanno per il passato appello per Mons. Nostro”, intervenne Antonio Ceraso dicendo: “per mio parere, che havendo questa Città già sopportato quasi tre anni la poca offitiatura, che si faceva, et fa nella Chiesa di S. Francesco pupilla di questa Città et benché ne habbia più volte fatto istanza alli Guardiani esistenti, Padri Ministri, et Commissari Generalii da quali sempre se ne sono haute buone parole che saria stato provisto a tanto gran mancamento, ma vedendo, che non si piglia partito alcuno anzi tuttavia mancano sacerdoti, et frati, et la Chiesa appena ce si celebra, et le spese corrono nel modo come et quando vi stavano di famiglia 16 Padri hora ridotti a dui sacerdoti è mio parere, che arrivando il tempo di dargli la solita elemosina che gli da la nostra Comunità si soprasseda et fratanto se ne dia conto a P. Nostro Signor Card. Patrone loro Protettore con supplicare S.E. vogli degnarsi ordinare che in questa Città venga la solita famiglia, che è stata solita a starci per il passato poiché questa Città è devotissima di detto santo et gli par di non vedere la detta chiesa star senza anima, et il tutto si facci operare dall’agente nostro in Roma. Fuit positum ad partitum eodem in favorem 18 contra 1 “ cioé ottenne 18 favorevoli e uno contro 28) . Con tutte queste difficoltà, quando il convento e la città subirono gravi danni per “una tempesta di vento”, il comune mandò due muratori ed i Conservatori ossia i consiglieri comunali a valutare i danni accaduti al convento per chiedere il permesso alla Congregazione del Buon Governo di poter spendere 100 scudi in favore. Fu posto ai voti il 26/10/1636 ed ottenne la maggioranza cioè 17 voti in favore e 3 contro 29) . Forse a risolvere queste difficoltà fu sempre il P. Bonaventura Vipereschi che cercò di appianarle finché gli fu possibile. Eppure di lui lo scrittore contemporaneo Muzio Polidori non ci lascia alcuna memoria. Mi sembra quindi giusto rivalutarne la figura di francescano che amò profondamente la sua patria, pur non riuscendone a risolvere totalmente i problemi. Per questo mi sono permesso di rimettere in luce quello che mi è stato possibile reperire su di 27) Lettera al P. Provinciale 27/4/1635 Lettere 1631-1636 f. 163 v, 23 v ASCT. Lettere al cardinale Francesco Barberini 14/4/1636 e s.d. ma non oltre il 10/11/1637, Lettera al P. Provinciale s.d. ma come la precedente Lettere 1631-1636 ff. 189-189 v, 218-218v, 218v-219 ASCT; Consiglio 4/10/1637 Reformationes 1631-1637 ff. 294, 295, 298-299 ASCT. 29) Consiglio 26/10/1636 Reformationes 1631-1637 ff. 249 v, 251-251 v ASCT. 28) 100 lui e questo periodo storico interessante per Tarquinia ed il suo convento di S. Francesco specialmente per i continui contatti ed interessamenti delle autorità cittadine. Fondi Archivistici: Archivio Falzacappa Tarquinia Presso Società di Arte e Storia Archivio Provinciale Aracoeli APA Archivio S. Bernardino Orte ASBO Archivio Storico Comunale Tarquinia ASCT Archivio Vescovile Orte AVO Bibliografia Casimiro da Roma, Memorie istoriche della chieaa e del convento di S. Maria di (Roma 1736) Casimiro da Roma, Memorie istoriche delle chiese e dei conventi dei Frati Minori della Provincia Romana (Roma 1764) Chiappini A., Annales Minorum 27 (Quaracchi 1934) Corteselli M. Pardi A., Corneto com’era (Tarquinia 1983) D’Asti L., Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto (Corneto Tarquinia 1910) Holzapfel H. Historia Ordinis Fratrum Minorum (Friburgi Brisgoviae 1909) Iriarte L., Storia del Francescanesimo (Napoli 1982) Polidori M., Croniche di Corneto a cura di Maria Rita Moschetti (Tarquinia 1977) Romanelli E., S. Francesco di Tarquinia (Roma 1977) Wadding L, Annales Minorum continuato a P. Stanislao Melchiorri de Cerreto 24 e 25 (Quaracchi 1934) Zucconi G., La Provincia Francescana Romana (Roma 1969) Zucconi G., “Il convento di S. Maria del Paradiso in Viterbo” in Acta Provinciae Romanae SS. Apostolorum Petri et Pauli Ordinis Fratrum Minorum 19 (1965 N 3) P. Luigi Sergio Mecocci 101 PITTURE CORNETANE Nell’atto di pubblicare un saggio interessante di pitture cornetane, credo conveniente, per assegnar loro il giusto posto fra i monumenti conosciuti, di stabilire certi periodi dell’arte etrusca, proponendone una classificazione, la quale, benché possa essere modificata e compiuta per nuove pubblicazioni, dopo i lavori analitici del Brunn certamente non sembrerà prematura. Mi limiterò in questa ricerca soltanto alle pitture, come ad opere d’arte vera, di cui si è pubblicato un numero sufficiente in incisioni esatte, e delle quali ho potuto studiare ed i lavori di bronzo. Imperocché nei primi tempi il libero sviluppo dell’ingegno artistico nella scultura veniva molto impedito dalla qualità del materiale, nel quale si lavorava, ed i bronzi quasi tutti appartengono ad un periodo solo, non ci offrono nemmeno la facoltà di studiare un più lungo tratto di sviluppo. Le più antiche tra le pitture etrusche a noi conservate sono quelle d’un sepolcro vejente scavato dal marchese Campana 1) . Il disegno n’è rozzo e d’una incertezza quasi fanciullesca. Le proporzioni dei corpi delle bestie sono tutte sbagliate; non riuscì all’artista di esprimere le parti più fine del corpo umano come le dita delle mani e l’occhio, ch’è raffigurato senza pupilla ed in due figure neppur posto sul giusto luogo; nemmeno nei volti sono variate le forme e l’espressione, ma sono piuttosto tutti uniformi. All’incontro non si può negare, che le proporzioni del corpo umano, benché espresse colle forme d’uno stile particolare, tuttavia dentro i limiti di questo siano raffigurate abbastanza bene. L’influenza dell’arte arcaica greca vi si travede chiaramente. Confrontando queste pitture colle opere antichissime greche, al primo aspetto potrebbe qualcheduno giudicare, che s’accostino il più ai dipinti dei vasi di Milo pubblicati dal Conze 2) , i quali fanno vedere una simile 1) 2) Micali mon. ined. LVIII, 1-3 Canina “Etruria marittima” I, 35. Melische Thongefässe. 102 imperfezione nel disegno ed una simile disproporzione nella formazione dei corpi dei cavalli. Intanto c’insegna uno studio più esatto, che le pitture vejenti appartengono ad uno sviluppo dell’arte più avanzato. Nei vasi di Milo le proporzioni del corpo umano, prescindendo dalla teste che sono troppo grandi, possono dirsi soddisfacenti. Si può dire di più, che generalmente si accostano più al vero, che nei vasi delle seguenti epoche, nei corinzii cioè e negli attici, nei quali il petto, le spalle, le natiche e le coscie si scorgono raffigurati d’una larghezza esagerata, mentre le gambe e le braccia sono assottigliate e prolungate oltre il vero. Nondimeno - anche non parlando del disegno più perfetto e della tecnica più raffinata - nessuno negherà appartenere essi ad un’arte più sviluppata. Giacché queste proporzioni non derivano dall’inabilità dell’artista, ma ci fanno fede d’un principio stabilito con manifesta intenzione, di rappresentare cioè i corpi robusti e nello stesso tempo destri ed eleganti. Anche nei vasi di Milo traspariscono già le tracce di questo principio 3) , sebbene non vi sia ancora fermamente stabilito né costantemente proseguito. Nelle pitture vejenti all’incontro i corpi degli uomini sono tutti espressi secondo le stesse leggi stilistiche che s’incontrano nei vasi corinzi ed attici. Dipendono dunque dallo sviluppo dell’arte greca, qual’era nel periodo della fabbricazione di questi. Di più nei vasi di Milo manca ogni espressione della muscolatura, mentre nelle pitture vejenti questa vien espressa in maniera analoga agli anzidetti vasi arcaici 4) . Se nondimeno l’esecuzione delle figure è molto inferiore a quella ovvia nell’arte vascolare corinzia ed attica, questo si spiega da ciò, che i principi dello stile non sono stati sviluppati dagli Etruschi stessi, che li hanno adottati da un’arte estranea, e perciò non vengono seguiti colla stessa intelligenza. Le disproporzioni che s’incontrano nella formazione degli animali sulle pitture vejenti, si trovano così anche sui vasi corinzii 5) , ed è probabile che nelle prime siano cagionate direttamente dall’influenza dell’arte vascolare corinzia. Imperocché le notizie sulla venuta di artisti corinzii a Tarquinii 6) o debbono dirsi mitiche o, se hanno un fondamento storico 7) , una tale immigrazione era un fatto troppo isolato, per poter assicurar all’arte greca un’influenza tanto decisa sull’arte etrusca. Tra i monumenti poi le più antiche pitture greche per la massima parte erano parietarie, onde non potendo esser importate in Italia s’intende che esse nemmeno potevano servir da modelli agli Etruschi. Restando dunque come oggetti di più facile trasporto i lavori di bronzo e di terra cotta ed i vasi dipinti; e che 3) P. e. nella figura del guerriero a sinistra di chi guarda tav. III. Cf. e Mon. Ann. dell’Inst. 1855,20 5) P. e sul vaso di Tersandro (v. ann. dell’Inst. 1863 p. 217 not.2). Un cavallo con simili disproporzioni come sulle pitture vejenti si trova in un vaso di stile corinzio raffigurato presso Westropp Epochs of painted vases II, 20. 6) Plin. h. XXXV, 16.152. 7) Questo mi sembra certo in quanto alla notizia data da Cornelio Nepote sopra Ecfanto (Plin. h.n. XXXV, 16). 4) 103 nelle epoche primitive l’arte greca esercitasse la sua influenza sull’Etruria principalmente mediante le stoviglie importatevi, diventa se non certo, almeno probabilissimo per la grande quantità di esse ancor conservate ne’ sepolcri etruschi. Accanto a questo carattere greco l’elemento etrusco nelle pitture vejenti si travede soltanto negli abiti e negli attributi, come p.e. nella scure che porta il giovane procedente presso il cavallo; essa era un’arma nella guerra non mai usata dagli antichi Greci, mentre gli Italici già in antico tempo sembra che se ne siano serviti 8) . Probabilmente anche il corto abito della stessa figura è un vestimento nazionale, voglio dire lo stesso colletto che in un altro luogo credo a’ Greci 9) , benché nella rozzezza del disegno non ardisca di affermarlo certamente. Per giudicare sullo sviluppo interno dell’arte etrusca ed i suoi rapporti coll’arte greca, questi contrassegni piuttosto esterni sono di poca importanza, laonde d’or innanzi esaminando le altre pitture non li menzionerò espressamente, ma mi ristringerò all’analisi dello stile. Lo stile nelle pitture vejenti dunque è proprio l’arcaico greco, le cui leggi vengono seguite rozzamente, ma sempre in maniera, che si riconoscono chiaramente anch’adesso. Se simili pitture senza indicazione della provenienza loro si trovassero in un museo, forse sarebbero assegnate da qualcheduno alle primizie dello sviluppo dell’arte greca. Farebbe meraviglia soltanto che, mentre lo stile appartiene ad uno stadio già abbastanza avanzato, l’esecuzione gli corrisponda così poco, difetto, la cui cagione in un artificio etrusco di primitiva epoca si spiega nell’anzidetta maniera. Per determinar l’epoca di queste pitture, poco ci giova di conoscere il termine, dopo il quale non possono essere lavorate, voglio dire dopo l’anno 396 avanti l’era nostra, nel quale Vejo fu conquistata e distrutta interamente dai Romani, perché sono certamente molto più antiche. 8) Vergil. Aen. VII. Cf. l’aes grave etrusco: Marchi e Tessieri aes grave Cl. III tav. 4,1-6, l’unica dei Vestini l.s. Cl. IIII. tav. 3B, 2, Micali mon. ined. 25, 2, 28, 5. S’aggiungono i rilievi del sepolcro ceretano, pubblicati dal ch. Desvergers in un’opera non ancora giunta a Roma. In un’epoca più recente la scure sembra essere diventata un’arma di caccia anche presso i Greci; v. il rilievo di Milo Ber. d. sächs. Ges. d. Viss. 1848 p.123, quello di Messene Stackelberg Gräber der Hell. p. 49 Vign, Clarac mus. de sc. 151 bis, 795. Fra i cacciatori calidonii la porta Anceo in un vaso apulo (Gerhard apul. Vas. 9) e nei sarcofaghi ACDEFPQ raccolti in questi Annali p. 81. Cf. O. Jhan Ber. d. Sächs. Ges. d. Wiss. 1848 p. 126. Si capisce facilmente, che principalmente in un’occupazione esercitata dai Greci con tanta predilezione e con tanto dispendio, come era la caccia, abbia potuto svilupparsi il lusso d’arme straniere. Sembra però, che anche questo uso sia stato scarso; perché Polluce V, 18 (cf. X, 142) raccogliendo le arme di caccia non la menziona come un arma, ma scrive espressamente essa aver servito per un altro scopo. Come arma da caccia da scure si trova già in monumenti italici abbastanza antichi, come nel sepolcro cornetano detto generalmente la grotte del fondo Querciola (v. più sotto p. 347, n.2), sul coperchio della cista Ficoroniana, sullo specchio presso Gerhard etrusk. Spiegel 173. Dell’uso della scure nella guerra presso i Greci non si trova nessuna traccia; serve piuttosto sempre per caratterizzare i barbari. Una volta viene data anche ai Persi, benché non sembri essere stata un’arma persica; v. Arch. Zeit. 1862 p. 284 sg. 9) Ann. dell’Inst. 1863 p. 213 sg. 104 Seguono nello sviluppo dell’arte dopo le pitture vejenti, ma senza dubbio separata da esse per un lungo tratto di tempo, le pitture ceretane 10) , le quali, come è stato provato da Brunn 11) , sono più antiche di tutte le altre finora pubblicate. In confronto colle vejenti vi si scorge un gran progresso. Il disegno è semplice, ma esatto e deciso. L’occhio benché disegnato di faccia è posto sul giusto luogo e ne vien espressa la pupilla. Le teste non sono tutte uniformi, ma distinguonsi bene i caratteri delle differenti età, giovanile, virile e vecchia; riuscì all’artista eziandio di esprimere un motivo psicologico, cioè di raffigurar un gruppo immerso in profondi pensieri. Nello stile si scorge non minore differenza che riguardo l’intelligenza artistica e la pratica tecnica. Lo stile arcaico greco delle pitture vejenti nelle ceretane già è molto modificato. Le stature cioè non vi hanno le proporzioni sopra indicate, ma sono robuste e quadrate non soltanto nel tronco, ma anche nelle estremità. E’ certo, che queste forme corrispondono più alla realtà e che, per adoperarle, ci voleva già un esatto studio del vero, mediante il quale si giunse a dar a queste figure l’impronta d’un carattere chiaramente nazionale etrusco. Nelle teste che senza dubbio debbono prendersi per ritratti, l’artista, benché non potesse ancora rompere tutti i vincoli dello stile arcaico greco, riuscì nondimeno a modificarlo essenzialmente. Nelle fronti inchinate in addietro, negli occhi colle code abbassate in giù, nelle barbe e capigliature si riconosce chiaramente un carattere non più greco, ma di tipo generale etrusco ovvio anche in altri monumenti. Dopo le pitture ceretane può dubitarsi, se abbiamo da menzionare prima le pitture di tre sepolcri cornetani 12) , o le più antiche chiusine 13) ; perché confrontando tanto l’uno, quanto l’altro gruppo colle ceretane, vi ritroviamo gli stessi progressi ed ad un dipresso lo stesso stadio di sviluppo artistico. Si osserva chiaramente che gli artisti cornetani ed il chiusino conoscevano molto meglio le leggi della struttura del corpo umano e le 10) Mon. dell’Inst. VI, 30. Ann. dell’Inst. 1859 p. 325 sg. 12) Sono i seguenti: 1. Grotta dal morto: Mon. dell’Inst. II, 2 Mus. gregor. I, 99. Canina Etruria marittima II, 82. cf. Abeken Mittelitalien p. 422 d. Dennis cities and cemeteries I p. 298 sg. 2. Grotta del mezzo dei monti rozzi o del barone: Micali storia LXVII. Mus. Greg. I, 100. Canina I. s. II, 86. cf. Abeken 1. s. 422 e (tav. IX, 2). Dennis 1. s. I p. 329 sg. 3. Grotta che guarda Tarquinii o delle iscrizioni: Mus. Greg. I, 103. Canina 1. s. II, 87. cf. Abeken l.s. p. 423 f. Dennis l. s. I p. 338 sg. Bisogna servirsi con molta precauzione delle copie dipinte nel Museo Gregoriano e delle incisioni fatte secondo queste nella pubblicazione dello stesso museo; perché certe parti distrutte negli originali vi sono ristaurate alcune volte nella maniera d’un arte più libera ed elegante. Del carattere generale delle pitture le anzidette incisioni non danno nessun’idea. Le incisioni nell’opera di Canina sono tutte molto manierate. La pubblicazione colorata presso Micali per conoscere la particolarità dello stile è tutta insufficiente. Per esaminare l’esattezza di queste pubblicazioni nelle singoli quistioni ho confrontato le tavole dell’opera di Kestner e Stackelberg sopra i sepolcri di Corneto disgraziatamente né terminata né pubblicata, le quali si trovano presso l’Istituto. 13) Mon. dell’Inst. V, 15. 16. 11) 105 modificazioni, alle quali questo è soggetto ne’ varj suoi movimenti. Mentre nelle ceretane i corpi di tutte le figure sono disegnati in un profilo, gli artisti cornetani e l’artista chiusino già ardiscono di rappresentarne, alcuni - eccettuate le teste e le gambe - di faccia o a mezza faccia. Le figure che procedono non sono sempre, come sulle ceretane, poste con ambedue le piante dei piedi sul fondo; ma spesso l’una pianta è un po' alzata ed il piede incurvato nei muscoli. Molte figure sono rappresentate in mosse più agitate, correndo, ballando ossia saltando. Alcune ve ne sono ben riuscite, altre, è vero, sembrano vacillare; imperocchè l’artista non aveva penetrato tutte le leggi di queste mosse e gli mancava la capacità di esprimere gli scorci tanto necessaria in tali motivi. Intanto anche in questi difetti si ravvisa un grande progresso in comparazione colle pitture ceretane, sulle quali le figure che procedono a passi accelerati verso l’altare secondo tutte le leggi fisiche dovrebbero cascare. Una grande differenza si osserva riguardo al carattere nazionale. Mentre sulle pitture ceretane tra le modificazione etrusche si travedono ancora le leggi dello stile greco, sulle pitture in discorso il carattere etrusco predomina, di modo che sulle cornetane si scorge pochissima, sulle chiusine nessuna traccia dello stile greco. Non può dubitarsi, che i pittori generalmente abbiano voluto raffigurare i ritratti di quelli che partecipavano ai giuochi ed ai balli fatti in onore del deposto, ciò che si conchiude dai nomi spesso soprascritti alle figure nei sepolcri cornetani. Un artista cornetano raffigurò eziandio il defunto stesso esposto sul letto mortuario e circondato dalla sua famiglia ed aggiunse per mezzo d’epigrafi soprascritte il nome del defunto e d’uno dei giovani 14) . L’artista ceretano avrà avuto l’intenzione di raffigurare dei ritratti, ma non era nello stato di emanciparsi di tutti i vincoli dello stile arcaico. Gli artisti in discorso lo volevano e vi riuscivano. Intanto una certa rigidezza arcaica difficile ed analizzare, ma palpabile segnatamente innanzi agli originali, che si rileva nelle teste delle pitture cornetane confrontate con quelle delle chiusine, mi fa sospettare, che queste siano più antiche delle chiusine, benché distanti di poco nello sviluppo. Nelle chiusine troviamo già veri ritratti etruschi e distinguiamo i vari caratteri degli individui, rappresentavi nobile e maestosa la donna che presiede i giuochi, svelti o graziosi i desultori, valente ed altiero i pirrichista, rozzi e quasi bestiali i pugilatori. Considerando le pitture etrusche per ordine cronologico, abbiamo dunque veduto, che le più antiche osservano generalmente le leggi dello stile greco, che nelle seguenti 14) Nella grotta del morto. 106 l’elemento etrusco quasi cerca di accomodarsi con questo, che nelle più recenti l’elemento nazionale predomina. Riassumendo tutti questi fatti veniamo al risultato, che l’arte etrusca nei suoi primordi si sia fondata sulla base dello stile arcaico greco; dopo di ciò si sviluppò per un certo tratto di tempo da sè, senza essere alterata da una nuova influenza dell’arte greca, epoca, nella quale sensibilmente l’ingegno artistico etrusco tendente alla pretta imitazione del vero cominciava a prevalere e finalmente predominò. Questo processo direi il primo periodo dell’arte etrusca, i cui termini, fra le pitture a noi conservate, vengono segnati per quelle vejenti e quelle più antiche chiusine. Ora sorge la questione, qual posto nello sviluppo dell’arte etrusca e fra i monumenti conosciuti prendano le pitture incise nella nostra tavola. Si trovano esse sulle pareti d’un sepolcro cornetano visitato da me nell’aprile di quest’anno, che dalla figura più bella ed interessante chiameremo il sepolcro dal citaredo. Siccome le pitture sono state descritte da me distesamente nel Bullettino di quest’anno pag. 107 sg, ora non mi resta altro che di esaminarle riguardo allo stile e di attribuire loro il giusto posto nella serie degli altri monumenti etruschi. Senza dubbio esse appartengono ad uno sviluppo dell’arte più avanzato che le cornetane e chiusine ora esaminate. Ne abbiamo la prova in primo luogo nei colori e nel loro maneggio. Sulle pitture cornetane più antiche vengono impiegati, prescindendo dal colore giallastro del fondo, sei colori principali, nero, brunastro scuro, rosso-brunastro azzurro, il colore della carnagione e bianco. Fuori di questi si scorge raramente un bigio-brunastro nei contorni, in certi ornamenti e nella barba del defunto nella grotta detta dal morto, un bigio chiaro nel grembiule d’un lottatore nella grotta che guarda Tarquinii, ed un bigio-paonazzo nei cavalli marini della grotta del mezzo dei monti rozzi. Nelle pitture del sepolcro dal citaredo s’incontrano due nuovi colori principali: un proprio rosso ed un verde, e di più anche i colori tramandati dall’epoca più antica vengono maneggiati ed aggruppati con maggior varietà e raffinatezza. Mentre nelle pitture più antiche gli abiti sono dipinti d’un colore solo e ne viene soltanto alcune volte distinto l’orlo ed una volta una sorte di ricamo nella figura della flautista nella grotta nel mezzo dei monti rozzi, nel sepolcro dal citaredo quasi dappertutto viene espresso il damascato per differenti colori. I capelli nelle altre pitture formano una massa quasi uniforme distinta per certe lineee stereotipe: il nostro artista all’incontro nelle figure delle donne distingueva i capelli posti sulla testa stessa e quelli che ne pendono o svolazzano indietro, dipingendo quelli d’uno scuro bigio-brunastro, questi d’un bigiorossastro. Mentre in quelle pitture la carnagione è tutta uniforme, l’artista nostro distingueva le guance delle donne d’un rosso sovrapposto. Siccome però non era possibile di dare una pubblicazione colorata delle nostre pitture, facciamo seguire la descrizione dei 107 loro colori, in quanto sono conservati, cominciando colla prima figura che si trova presso l’ingresso sulla parete principale sinistra: L’abito punteggiato di nero ha il colore biancastro del fondo; l’orlo è rosso; rosso con orlo azzurro è il mantello. L’abito della seguente figura è punteggiato di rosso, il mantello azzurro con orlo rosso. La clamide del citaredo ha il colore del fondo con orlo rosso e punti azzurri. L’abito della seguente danzatrice fa vedere un orlo e punti brunastri; il mantello è verde con orlo brunastro. Sulla parete destra il giovane colla tazza porta una clamide rosso-brunastra. Quella della seguente figura è bianca con orlo rosso-brunastro. La clamide della seguente figura ha il colore del fondo con orlo rosso-brunastro; quella della quinta figura è rosso-brunastra. Gli allori che separano le singole figure e gli ornamenti d’edera sulla parete opposta alla porta sono azzurri. Le corone all’incontro sulle teste dei giovani sono dipinte di verde. Le strisce che limitano le pitture, cominciando colla superiore, sono azzurre, bianche e rosse. L’insieme di tutto il colorito fa un’impressione varia, viva e brillante, mentre l’impressione che fanno le pitture cornetane sopra menzionate, è uniforme, semplice e seria. Allo stesso risultato perveniamo confrontando il disegno. Il disegno delle pitture cornetane e chiusine al mio parere più antiche potrebbe dirsi planimetrico, vale a dire possono esprimere gli artisti soltanto quegli oggetti che stanno dritti nel piano della vista e cercano di accomodare a questo anche quelli posti in altra maniera; il quale difetto si spiega principalmente dall’incapacità degli artisti nel fare gli scorci. Per darne un esempio evidente, nella figura del pirricchista sulle pitture chiusine 15) , la gamba destra che viene tirata avanti nell’atto del camminare, se fosse rappresentata al vero, non starebbe dritta nel piano della vista. L’artista però, non potendo raffigurarla così l’accomodò alla sua pratica. Così questo membro non si riunisce colla mozione di tutta la figura e sembra essere attaccato piuttosto che riunito coll’organismo di tutto il corpo. Senza dubbio l’artista vi sbagliò, perché non poté esprimere l’accorciamento del piede che deve adoperarsi nel disegno di questo membro occupato in cotesta mozione. L’artista all’incontro, il quale dipingeva il sepolcro dal citaredo, sapeva superare queste difficoltà. Basta considerare il piede sinistro della donna che sulle nostre pitture balla vicino all’angolo della parete sinistra, il piede sinistro della quarta figura sulla stessa 15) Mon. dell’Inst. V, 16, III. 108 parte, lo stesso piede del giovane colla tazza sull’opposta parete. Siccome però le nostre pitture contengono soltanto poche figure in mozioni somiglianti e rovinate in alcune parti molto caratteristiche, così bisogna, per compiere la dimostrazione, considerare le pitture di tre altri sepolcri cornetani 16) e d’un sepolcro chiusino 17) , le quali sono meglio conservate e, siccome contengono una più varia quantità di motivi artistici, ci offrono più confronti. S’accostano tutte queste pitture nello stile e nella tecnica in maniera evidente a quelle della grotta dal citaredo, di modo che possiamo considerarle frattanto tutte come appartenenti allo stesso sviluppo artistico, per analizzare più tardi le differenze che si scorgono fra loro. La loro affinità si osserva già negli oggetti presi a rappresentare. I principali oggetti cioè sono dappertutto scene di ballo aggruppate nella stessa guisa, di modo che ogni figura è separata dall’altra mediante un tronco d’alloro semplice 18) o ornato di tenie ossia di figure d’uccelli assissivi sopra. Il carattere dei balli in tutte le pitture è lo stesso: veementi mozioni e particolari storcimenti dei corpi; le mani sono alzate e protese in maniera strana e le dita distese quasi spasmodicamente. Lo stile è vicino al libero sviluppo dell’arte; restanto intanto alcune tracce d’arcaismo principalmente nei concetti assessori, nella maniera, in che cadono gli abiti, nelle pieghe di questi, nelle dita. Come sulle pitture del primo periodo, l’occhi, benché i volti siano disegnati in profilo, viene raffigurato di faccia e manca l’uso del chiaroscuro. I contorni dei corpi delle figure che sono vestite di stoffe fine, principalmente delle donne, vengono espressi per linee esatte e decise, motivo, le cui tracce scarsamente si scorgono già nei dipinti del primo periodo 19) . L’insieme delle mozioni delle figure generalmente è espresso correttamente, e la figura tutta sbagliata del flautista nel sepolcro dal citaredo deve dirsi un’eccezione. E’ vero che i movimenti di molte figure sembrano fuor di natura e ricercati e che il loro scopo è difficile da spiegarsi. Sbaglierebbe intanto chi vi volesse riconoscere soltanto una rozzezza arcaica dell’artista perché il disegno generalmente è corretto e, supposto che bisogna raffigurare una tale posa, esso corrisponde alla natura. Dia ora qualcheduno ad una modella la stessa posa, nella quale è raffigurata la ballerina colle nacchere nel sepolcro dal citaredo, e la faccia copiare così da un pittore cogli stessi pochi mezzi, che erano a disposizione 16) Sono i seguenti: 1 Grotta dal triclinio o Marzi. Mon. dell’Inst. I, 32. Mus. Greg. I, 102. Canina Etruria. maritt. II, 81 cf. Abeken Mittelitalien p. 422 c. Dennis cities and cemeteries I p. 288 sg. 2 Grotta del corso delle bighe. Micali storia LXVIII. Mus. Greg. I, 101. Canina l. s. II, 85. cf. Abeken l.s. p. 421 a. Dennis l. s. p. 324 sg. 3 Grotta del fondo Querciola. Mon. dell’Inst. I, 33. Mus. Greg. I, 104. Canina l. s. II, 80 cf. Abeken l. s. p. 422 b. Dennis l. s.p. 281 sg. 17) Mon. dell’Inst. V, 17. 18) Nella grotta del triclinio vi sono mischiati due alberi d’altro genere ed un tronco con fiori. 19) P. e. nella figura della femmina che sta occupandosi sul defunto nella grotta dal morto. 109 dell’artista tarquiniese: la copia produrrà una figura tutta somigliante. Abbiamo perciò da scegliere fra due supposizioni: o che si adoperavano veramente nei balli etruschi tali pose ricercate, le quali venivano copiate dagli artisti al vero della natura, o che gli artisti ad ogni costo volevano produrre delle mozioni piene di vivacità e di varietà e caricavano in cotesta maniera i loro motivi, nel qual caso bisognerebbe incolparli di mancanza di gusto, non d’incapacità tecnica. Finalmente in tutte queste pitture regna una particolar riunione dello stile greco insieme col verismo etrusco, ciò che basta accennar brevemente, per parlarne distesamente più tardi. Le pitture degli anzidetti tre sepolcri cornetani non si ristringono a scene di ballo; nella grotta del Triclinio troviamo balli ed un convito; nella grotta Querciola balli, un convito, scene di caccia e di lotta, nella grotta dal corso delle bighe, balli, conviti, giuochi, le quali scene ci offrono larga quantità di confronti. Parimenti ci fanno vedere eccellenti prove di scorci. Non vi voglio rammentare se non le figure dei banchettanti dipinte nella grotta dal corso delle bighe sotto il soffitto sulla parete opposta alla porta. Stanno giacenti coll’una gamba distesa, mentre l’aria ritirata indietro è accorciata molto bene. Un altro progresso si osserva nelle figure che stanno ferme in piedi. L’uniformità e rigidezza delle pitture più antiche è superata ed ha ceduto il posto ad una maggiore varietà di motivi, principalmente nelle scene di caccia, di lotta e di giuochi sopra menzionate. Già vi riposa spesso il peso del corpo sopra una gamba, mentre l’altra vien posta leggermente sul fondo, motivo nell’arte greca sviluppato principalmente da Policleto. Mentre nelle pitture del primo periodo le gambe sono sempre raffigurate di profilo, sulle pitture in discorso vengono espresse anche di faccia. Basta rammentare due figure che si scorgono fra gli spettatori dei giuochi nella grotta dal corso delle bighe, la figura d’un giovane che sta sotto la galleria degli spettatori e quelle dei giovani che attaccano i cavalli nello stesso sepolcro, la figura d’una ballerina nella grotta dal triclinio, finalmente il flautista nella grotta Querciola. S’aggiunge un momento molto evidente che offrono gli ornamenti. Nei sepolcri cornetani più antichi si scorge più volte nei campi triangolari sotto il soffitto un grande ornamento di forma d’ara o di cratere, ora guarnito d’un orlo più scuro 20) , ora distinto nei quattro angoli di rosette 21) . Questo ornamento conserva ancora un carattere somigliante nella grotta dal citaredo; negli altri sepolcri però viene sviluppato in maniera molto squisita ed artificiosa, ora distinto di viticci d’edera dipinti in essa 22) , ora 20) Nella grotta dal morto. Nella grotta del mezzo dei monti rozzi. 22) Nella grotta dal triclinio. 21) 110 guarnito di differenti strisce, mentre un cratere e due giovani coppieri sono dipinti nel mezzo 23) . Nella grotta Querciola non ne restano conservati se non gli orli, fra i quali sono dipinti due guerrieri ciascuno tenente un cavallo per la briglia. Onde non possiamo esitar di riconoscere anche nello sviluppo di questa particolarità un indizio di un’epoca più recente. Stabilito così in generale l’ordine cronologico delle pitture, bisogna ora esaminare, se tra quelle del secondo periodo stesso ci siano indizj di differente sviluppo. Abbiamo già osservato, che nel sepolcro dal citaredo quell’ornamento sotto il soffitto vien trattato nella maniera semplice dei sepolcri più antichi, mentre negli altri se ne scosta. Già da questo momento può conchiudersi, che il nostro sepolcro sia più antico degli altri. Ed esaminandolo più esattamente, non mancano neppure altri indizj d’uno sviluppo un po' meno avanzato. Così gli abiti che svolazzano intorno dei corpi delle donne danzanti sono trattati più rigidamente e con meno d’intelletto che sulle altre pitture. Anche le leggi della mozione del corpo umano, a quel che pare, dal nostro artista non sono intese come dagli altri. Una figura così sbagliata nel disegno come quella del flautista rivolto indietro non vien raffigurata da nessuno di loro. I più recenti sepolcri senza dubbio sono la grotta dal corso delle bighe con i balli, col convito, con i giuochi, e la grotta Querciola con i balli, col convito e colle scene di caccia e di lotta. Le composizioni di queste pitture sono le più ricche e le più svariate. Mentre negli altri sepolcri le pitture vanno in una striscia attorno delle pareti, qui sono disposte in due strisce, una più larga ed una più stretta. Il disegno è più libero ed elegante e principalmente innanzi agli originali stessi si osserva, che le mani di questi artisti erano più esercitate e pratiche. Sopra la più grande varietà dei motivi artistici, principalmente nelle pose delle figure che stanno ferme in piedi, ho già parlato di sopra. Finalmente l’anzidetto ornamento in questi due sepolcri viene sviluppato nella maniera più squisita e si scosta il più dalla sua originaria forma. Mancano certi indizj per attribuire un posto preciso fra questa classe di pitture a quelle di Chiusi. Sembra intanto, giudicando dal carattere generale di loro, che stiano nel mezzo fra le pitture della grotta dal citaredo e le più recenti cornetane e s’accostino a quelle della grotta dal triclinio. Potremo dunque disporre le pitture di questo secondo periodo in quest’ordine cronologico: I. Le pitture della grotta dal citaredo. II. Le pitture del sepolcro chiusino 24) . III. Le pitture della grotta dal triclinio. IV. Le pitture della grotta Querciola. 23) Nella grotta dal corso delle bighe. 111 V. Le pitture della grotta dal corso delle bighe. Noto intanto espressamente, che in quest’ordine cronologico alcune supposizioni si fondano soltanto sopra un senso generale artistico e sono prive di prove positive. Certo è, che le pitture della grotta dal citaredo in tutta questa serie sono le più antiche; molto probabile poi, che le ultimamente menzionate siano le più recenti. L’ordine, nel quale ho posto le chiusine e le cornetane riferite in terzo luogo, si fonda sopra l’impressione che mi fa il loro carattere generale, momento poco decisivo, perché troppo individuale 25) . Veniamo ora ad esaminare l’altra questione molto importante per la storia dell’arte etrusca, cioè a dire, quali rapporti si scorgano in queste pitture fra l’elemento nazionale etrusco e l’arte greca. Il primo periodo dell’arte etrusca finiva coll’evidente vittoria dell’elemento etrusco e collo svanire dello stile greco, sul quale si fondò originariamente l’arte etrusca. Nelle antichissime pitture della seguente serie, vale a dire nelle pitture della grotta dal citaredo, si scorgono di nuovo evidenti tracce dell’arte greca, ma d’un arte greca più avanzata che sta vicina al libero sviluppo, conservando intanto ancora alcune convenzionalità arcaiche. Riguardando il carattere delle teste si distinguono chiaramente due diversi tipi, l’uno etrusco, il quale si osserva nel pugilatore presso dell’entrata, nel flautista e nel terzo danzatore sulla destra parete, l’altro tendente al bello ideale greco nel citaredo e nel giovane colla tazza, tipo, al quale s’accostano anche le teste delle donne. Essi non possono essere ritratti, ma sono tipi ideali; perché tali volti si trovano troppo scarsamente in verità di natura, ed i volti principalmente delle donne si rassomigliano troppo fra loro, ciò che non potrebbe darsi, se l’artista avesse voluto esprimere ritratti individuali. Forse soltanto i lunghi riccj che si scorgono in queste teste come in quelle di carattere etrusco sono improntate dal verismo etrusco, perché simili lunghe capigliature si osservano spesso in monumenti etruschi, mentre i giovani greci nei monumenti eccettuati i più antichi - vengono raffigurati generalmente con capelli tosati. Le fattezze del citaredo mostrano la pura bellezza dell’ideale greco. Se al primo aspetto il motivo dei sopracigli tratti avanti fino alle linee del profilo sembra scostarsene, esso nondimeno non può considerarsi come indizio di carattere nazionale etrusco, ma trova la sua spiegazione in una ragione fisica. I sopracigli cioè tratti avanti possono servir in primo luogo all’espressione esterna dell’attenzione che regna nell’animo dell’uomo; come con grande finezza viene espresso p. e. nei busti d’Ippocrate, 24) Mon. dell’Inst. V, 17. 112 principalmente in quello della villa Albani, nel quale il medico è raffigurato quasi esaminando i sintomi d’una malattia e facendone la diagnosi 26) , e nella statuetta del museo Chiaramonti rappresentante Ulisse che portando il pocolo a Polifemo quasi studia nel volto di questo gli effetti del suo stratagemma 27) . In una figura all’incontro che canta, questo motivo si spiega semplicemente dalla costruzione fisica del volto umano: perché facilmente e quasi sempre nell’atto del cantare i muscoli della fronte e con essi i sopraciglj si traggono avanti nella direzione dei muscoli della bocca. Si osserva dunque questo motivo nella testa di Chirone che insegna la musica ad Achille sul celebre dipinto di Ercolano 28) , testa che anche per un altro riguardo si può comprare alla nostra, perché anch’essa fa travedere i denti, accompagnando colla voce gli accordi dell’istrumento. L’artista etrusco, mancandogli principalmente l’uso del chiaroscuro, poteva accennare questo motivo piuttosto ch’esprimerlo chiaramente. Tanto più lode esso merita per la finezza, colla quale mediante i suoi pochi mezzi sapeva esprimere l’intimo sentimento e l’estro, col quale il giovane è approfondato nella sua occupazione 29) . Non avrò bisogno di mostrare, che nella sola figura, ove ricorre questo motivo, cioè nella testa del flautista, esso deriva dalla stessa cagione fisica come nella figura del citaredo. Una certa mescolanza del tipo greco e dell’etrusco si osserva nel danzatore presso del giovane colla tazza, il cui profilo tende un poco al verismo etrusco, in maniera però molto meno caratteristica che nelle altre figure di tipo decisamente etrusco 30) . Nelle altre pitture di quest’epoca le teste delle figure principali dei danzatori e delle danzatrici hanno tutte il tipo ideale greco eseguito con tanto più di finezza, quanto più recente è il monumento. Nelle altre rappresentanze però si travede il carattere etrusco, benché assai modificato dall’elemento greco. Così nelle scene dei giuochi nella grotta dal corso delle bighe le fattezze di quasi tutte le figure degli spettatori e della più gran parte dei partecipanti ai giuochi fanno travedere il carattere etrusco, benché in maniera abbastanza moderata, e specialmente le teste dei pugilatori, adattate più delle altre per essere rappresentate secondo il vero, benché raffigurate non così al vero come nel sepolcro dal citaredo, si scostano nondimeno molto dall’idealità greca. Così anche nelle scene di caccia e 25) Bisogna premettere in questa ricerca le pitture d’un sepolcro chiusino (Micali storia 69-70 Inghirami mus. chiusin. II, 122 sg..), e quelle d’un sepolcro ceretano (Canina Etruria marittima I, 63 sg.), perché le di loro pubblicazioni sono troppo insufficienti. Per quanto si può conchiuderne, pare, che quelle appartengono al secondo, queste al terzo periodo. 26) Braun Ruinen und Museen Roms p. 653; cf. Visconti iconogr. grecque pl. 32, 2.3. vol. I. p. 253. 27) Ann. dell’Inst. 1863, tav. d’agg.O. 28) Zahn die schönsten Ornamente III, 32. 33. 29) Così dee modificarsi la lode assoluta spesa da me a questa testa nel nostro Bullettino 1863 p. 109. 113 di lotta sulle pitture della grotta Querciola vi sono alcune teste di carattere etrusco, mentre le teste delle figure danzanti o procedenti nella fascia principale tutte tendono al tipo ideale greco. Riassumendo finalmente il risultato di quest’analisi vediamo, che il secondo periodo dell’arte etrusca comincia con una nuova entrata dell’influenza dell’arte greca. Primamente gli artisti etruschi legati dal verismo proprio all’ingegno loro ed accostumati alla pratica dell’arte finora usitata resistevano a questa influenza, sia a bella posta, sia involontariamente. Questo processo s’esprime chiaramente nelle pitture della grotta dal citaredo composte in maniera strana d’elementi greci ed etruschi, le quali per questa cagione prendono un posto dipinto nella storia dell’arte etrusca. L’influenza dell’arte greca intanto questa volta non s’intromise per un solo assalto, ma sembrano aver esistito rapporti o continui o poco interrotti fra l’arte greca e l’etrusca, in maniera che questa quasi accompagnava lo sviluppo dell’arte greca e ne riceveva i progressi. Così i monumenti di questo periodo non ci rappresentano uno sviluppo regolare e non interrotto come quelli del primo periodo, ma piuttosto una particolare fluttuazione, non potendo né l’elemento greco opprimere tutto l’elemento nazionale etrusco né questo emanciparsi dall’elemento greco. In ogni casol’ingegno greco aveva abbastanza forza da impedire uno sviluppo nazionale, come aveva cominciato ad adoperarsi nel primo periodo, e sembra aver indebolito passo passo per nuovi assalti l’elemento nazionale, risultato che vedremo confermato riguardando la situazione, nella quale l’arte etrusca si trovava nel terzo periodo. Non è possibile di fissare un certo dato cronologico, né quando abbia cominciato né quando abbia cessato questo secondo periodo. Può affermarsi soltanto, che tutte queste pitture siano dipinte dopo Polignoto e davanti il fine del secolo quinto della città. Perché già nelle più antiche di loro, nelle pitture del sepolcro dal citaredo, si scorgono dei processi introdotti nell’arte dell’anzidetto maestro. Scrive cioè Plinio 31) : primus mulieres tralucida veste pinxit” debba intendersi nella stessa maniera, nella quale sono raffigurate le donne sulle pitture cornetane, cioè con i contorni dei corpi accennati sui vestimenti. Il “capita earum mitris versicoloribus operuit” accenna il colorito più vario e più vivace che si scorge, principalmente nei vestimenti, nelle pitture del secondo periodo comparate colle più antiche. Dell’ “os adaperire, dentis ostendere”, la cui importanza nello sviluppo 30) Per far conoscere viemmeglio il carattere delle teste abbiamo fatto incidere le quattro più conservate sulla tav. d’agg. M nella proporzione d’un quarto dell’originale. 31) h. n. XXXV, 58. 114 artistico vien esposto dallo stesso Brunn 33) , ci offre il citaredo un evidente esempio. Nemmeno manca sulle nostre pitture il “voltum ab antiquo rigore variare”. All’incontro tutte queste pitture sono dipinte avanti il fine del secolo quinto della città, tempo, nel quale l’arte etrusca certamente si trovava già nel terzo periodo. La cista Ficoroniana cioè ch’è lavorata nel Lazio sia nel fine del quinto sia nel principio del sesto secolo della città 34) , fa vedere già tutti i contrassegni dell’arte quasi interamente ellenistica che sono propri a questo periodo. Siccome l’arte nel Lazio si trovava in codesto stadio, dobbiamo supporre lo stesso nell’Etruria, confrontando principalmente la rassomiglianza dei lavori graffiti in bronzo latini ed etruschi che sembrano appartenerne alla stessa fabbrica. Nelle pitture più recenti chiusine 35) che seguono nello sviluppo artistico alle pitture ora trattate, regna dappertutto lo stile greco e tutte le teste hanno una certa rassomiglianza tra di loro, come generalmente tipi ideali impiegati nella rappresentanza di figure della vita quotidiana. Per vedere, se queste siano più recenti delle altre finora esaminate, basta di riguardare il loro carattere generale e la formazione dell’occhio, momento molto importante nello sviluppo dell’arte antica. Mentre cioè in tutte le anzidette pitture trovavamo gli occhi disegnati di faccia, l’artista chiusino era già nello stadio di raffigurarli in profilo. Potremo dunque cominciare il terzo periodo coll’evidente vittoria dell’influenza dell’arte greca. Siccome però secondo ogni probabilità questo avvenimento era strettamente connesso con un altro momento che non soltanto spetta all’arte, ma a tutta la storia italica, così dobbiamo parlarne più generalmente. L’ellenismo cioè che finora aveva esercitato la sua missione civilizzatrice nell’Asia, nell’Egitto e nei dintorni europei del Ponto, si rivolse con tutte le forze verso le regioni occidentali, per assoggettare anche queste al suo impero. Ciò che l’ingegno greco aveva prodotto nel corso dei secoli nella poesia, nell’arte, nella scienza e nella religione, entrava in Italia e s’impadroniva degli animi come dappertutto, così anche qui con forza quasi divina. Allora, siccome nell’Etruria quasi tutta la cultura veniva modificata, così nemmeno resistevano gli elementi nazionali dell’arte, indeboliti già per gli assalti dell’influenza greca nel periodo antecedente, di modo che l’epoca che ora comincia, potrebbe chiamarsi l’ellenistica. Anche ne’ soggetti della rappresentanza, ne’ quali l’arte etrusca finora aveva conservato con una certa costanza un carattere nazionale, questo svaniva di più in più. In tutte le pitture sepolcrali anteriori all’epoca ellenistica troviamo un solo certo esempio di figure della mitologia greca, cioè i 33) l.s. p. 29 seg. Cf. O. Jahn die ficoronische Cista p. 42 sg. 35) Mon. dell’Inst. V, 32-34. Inghirami mus. chiusin. I, 181 sg. ef. Micali mon. ined. 58, 4. 34) 115 due Satiri dipinti nella grotta che guarda Tarquinii in un posto accessorio, figure, sopra il significato delle quali ragionerò fra poco in occasione della pubblicazione d’un sarcofago chiusino. All’incontro nel periodo ellenistico vi entravano nei posti principali figure dell’averno greco e scene di miti eroici greci, come si rileva dalle pitture vulcenti, le quali occupano il posto più distinto in questo periodo 36) . Gli altri monumenti dello stesso periodo conservati in più gran quantità, gli specchi e le urne, sono piene di scene mitologiche greche. L’arte greca vi vien imitata nel suo sommo e più libero sviluppo. Libri di modelli erano nelle mani degli artisti etruschi e loro fornivano quasi delle antologie di composizioni greche da copiare, né mancano rappresentanze etrusche che possono dirsi copiate direttamente da originali greci 37) . E’ vero, che anche questo periodo i prodotti dell’arte etrusca si distinguono chiaramente dai greci. Ma - prescindendo da certe figure della demonologia etrusca e dai ritratti - questa differenza non si scorge tanto nel carattere dell’invenzione, quanto nell’esecuzione ed in certi contrassegni esterni, come nei costumi e negli attributi. E quanto più un lavoro di questo periodo può pretendere di essere riguardato come una vera opera d’arte, tanto meno fa travedere nell’esecuzione il carattere etrusco e tanto più s’accosta al carattere greco. L’ellenismo impiantato nell’Italia aveva fra le altre conseguenze anche quella di ravvicinar fra loro le colture dei differenti popoli italici e di moderarne le differenze, ed è perciò, che anche nell’arte p.e. i lavori graffiti di bronzo, fabbricati nell’Etruria e nel Lazio, sembrano essere prodotti d’una popolazione sola. Ricevuto nella capitale dell’Italia, a Roma, l’arte greca cominciò a modificarsi sensibilmente nel carattere romano e si capisce facilmente, che l’influenza di Roma si fece risentire anche nelle province. Possiamo dunque stabilire un quarto periodo, nel quale l’arte etrusca si accostava successivamente alla greco-romana, come segnatamente nelle più recenti pitture cornetane 38) , fintanto che vi sparì interamente. Con questi pochi cenni ho voluto adombrare l’andamento generale dello sviluppo dell’arte etrusca, premettendo però a bella posta un momento che resta fuori di questo sviluppo. Si conservava cioè un’arte nazionale etrusca anche nel periodo ellenistico e forse lo sopravviveva. Ma i prodotti di essa non appartengono tanto all’arte vera e propria, quanto all’industria ed al mestiere artistico. Rivolgiamoci finalmente ancora una volta al sepolcro cornetano dal citaredo, per aggiungere un’osservazione sopra gli ornamenti del soffitto, dei quali un segmento è inciso 36) Mon. dell’Inst. II, 53. 54. VI, 31.32. V. Ann. dell’Inst. 1859 p. 362 sg. 38) Mon. dell’Inst. II, 5. Micali storia LXV Canina Etruria marittima II, 84. 37) 116 sulla nostra tavola d’agg. M. L’ornamento tondo a forma di rota ch’è dipinto nella striscia centrale esisteva già nella più remota antichità greca sia inventato dai Greci stessi, sia improntato dall’oriente, e viene impiegato fino ai nostri giorni. Si scorge cioè già in un vaso molto antico trovato a Tera 39) e vi viene riunito con altri ornamenti, alcuni dei quali a guisa di scacchi. Una somigliante riunione d’ornamenti si trova sul soffitto d’un sepolcro periodo 40) ed in un pavimento pompeiano 41) . L’ornamento a forma di rota modificato in differenti maniere ricorre spesso sui pavimenti pompeiani 42) . Wolfgang Helbig Questo articolo è tratto da “Annali dell’Istituto di corrispondenza Archeologica, vol. 35 - Anno 1863. PITTURE ETRUSCHE 39) Conze Melische Thongefässe p. VII (Vignette unter dem Texte). Nella grotta dal corso delle bighe. 41) Zahn die schönsten Ornamente II 79. 40) 117 Quando il sig. Helbig negli Annali 1863 p. 336 aveva da illustrare le pitture di una tomba cornetana, profittava di quell’occasione per proporre una classificazione generale di tutte le pitture etrusche: lavoro che certamente dovea eccitar l’attenzione de’ dotti, imperocché, per stabilir l’andamento generale dell’arte etrusca, nessuna classe di monumenti si presta più delle pitture, delle quali si è conservata una serie numerosa e quasi non interrotta de’ diversi stili a cominciar dei primi tempi fino all’epoca della decadenza. Era dunque naturale, che io occupato per vari anni con studi sull’arte etrusca dovea assicurarmi, se le idee esposte dal Helbig si accordavano in tutti i punti coi risultati delle proprie mie indagini; e così mi sarà permesso di imitar il suo esempio e di passar in breve rivista la storia della pittura etrusca nell’occorrenza della pubblicazione di alcuni dipinti cornetani, che, per loro stessi non di grande importanza, sempre hanno il merito di farci conoscere fatti nuovi specialmente sull’ultima epoca dell’arte etrusca. E per cominciare da un’osservazione generale, credo che non dobbiamo insistere troppo esclusivamente a voler stabilir l’ordine cronologico, ma che inoltre abbiamo da tener conto di altr distinzioni, cioè del genere di pittura, della tecnica, delle differenze locali ossia delle scuole e non meno delle diverse individualità degli artisti. Così già nell’antecedente lettera ad Aug. Castellani ho rilevato, che le antichissime pitture vejenti appartengono al genere decorativo; la quale distinzione ci bastò per spiegar l’apparenza di alto arcaismo, mentre nelle figure umane già riconoscevamo i progressi dell’arte monumentale etrusca. Onde non posso consentir col Helbig (p. 340-41), né che lo stile di queste pitture sia proprio l’arcaico greco, né che esse siano separate dalle antichissime ceretane per un lungo tratto di tempo. Nell’epoca del puro arcaismo etrusco resta incontestato il primo posto a questi stessi monumenti ceretani. Alquanto più difficile riesce di assegnar il giusto loro posto alle pitture di tre tombe cornetane, tra le quali credo le più antiche quelle della tomba detta del morto e della tomba delle iscrizioni: Mus. Greg. I, P. 99 e 103; cf. Helbig p. 342; n. 1. Esse, se non sono eseguite dalla stessa mano, debbono dirsi almeno strettamente congiunte, se guardiamo la corrispondenza ne’ concetti del tibicine e del ballante nel primo e secondo lato della prima, e de’ due ballanti nel primo lato della seconda tomba. Giusta l’avviso del Helbig in esse predomina il carattere etrusco, di modo che dello stile greco si scorga pochissima traccia, mentre nelle ceretane tra le modificazioni etrusche si travedono ancora le leggi di questo stile. Non nego, che al tempo delle prime pitture ceretane l’arte etrusca già abbia subita un’influenza greca. Ma quanta forza già allora a Cere avesse preso 42) Zahn l.s. I 15. II. 56. 96. III 16. 118 l’elemento etrusco, diventa chiaro anche pel confronto dell’antichissima scultura ceretana in terra cotta (Mon. VI, 59), che sotto vari aspetti offre tanta analogia colle pitture eseguite nello stesso materiale. Anch’essa ci conferma nell’avviso, che a Cere in tempi antichi dominava tutt’una scuola, nella quale più che altrove si era sviluppato un carattere specificamente e puramente etrusco. Gli artisti tarquiniesi non mostrano mai una simile indipendenza. E’ vero che nelle teste delle due citate tombe (cf. Mon. d. Inst. II, 2) domina ancor il tipo etrusco; ma appena tra esse se ne troverà una, nella quale il verismo etrusco sia tanto pronunciato come nelle teste delle summentovate antichissime pitture di provenienza ceretana. Nelle proporzioni si è introdotto un sistema tutto differente, più elegante e più corretto, e non meno nel disegno tutte le forme sono più assottigliate e raffinate; e così anche nelle teste (cf. Mon. II, 2) il tipo etrusco, sebbene ancor strettamente mantenuto, si mostra già molto ingentilito. Non vi è dubbio che queste pitture cornetane siano posteriori alle ceretane. Ma dall’altra parte credo che senz’esitazione la terza tomba, quella detta del Barone (M. Gr. I, 100; Helbig 1.1.) debba dirsi alquanto posteriore alle due prime. Ogni linea vi è più risentita; e sebbene voglia concedere, che la posizione tranquilla delle figure abbia permesso all’artista di evitar la durezza ne’ movimenti, debbo nondimeno sostenere, che tutto vi si mostra più nobile ed armonioso. Vi abbiamo non un arcaismo che si sforza di trovar forme o maniere nuove, ma che dentro certi limiti è bello e fatto: e si direbbe, che il disegno siasi sviluppato sotto l’influenza di sculture, quali sono p.e. i rilievi del candelabro perugino presso Micali mon. ant. 29,7-9. Tra le quattro grotte cornetane di un’epoca posteriore (Helbig p. 347), che potremo chiamar quella dell’arcaismo già avanzato, mi pare che a quella del Barone si accosti il più quella delle Bighe (Mus. Gr. I, 101). Anch’essa si distingue per una certa riservatezza e moderazione, che fino nelle figure ballanti evita le mosse troppo agitate; ed una mano fina e delicata rende tutto l’insieme anche più armonioso, di modo che queste pitture tra tutte le quattro di questo gruppo ci fanno l’impressione della maggior finezza e nobiltà. Ma un’altra questione si è, se per queste qualità debbano dirsi anche le più recenti, come vorrebbe sostenere lo Helbig (p. 352). La tomba del citaredo (Mon. VI, 79), che egli crede la più antica, certamente è la meno fina nell’esecuzione, e concedo ben volentieri come avrò da notare anche più tardi, che le sue pitture sono “composte in maniera strana d’elementi greci ed etruschi” (p. 355). Ma p.e. il difetto nel disegno del tibicine non è difetto dello stile ed indizio di antichità, ma un mero sbaglio dell’artista. All’incontro si fa risentir un nobile slancio nell’invenzione delle ballerine, che a mio avviso superano le analoghe figure nella grotta delle Bighe. Anche nelle teste di esse e di alcune de’ 119 giovani comincia a predominar decisamente l’idealismo greco. Per la prima volta poi v’incontriamo il color rosso nelle labbra e nelle guance delle donne; e finalmente nell’acconciatura de’ capelli lunghi ricciati o sciolti si fa risentir un principio tutto nuovo, mentre le coperture delle teste a guisa di tututlo nella grotta delle Bighe sono piuttosto un avanza di arcaismo. Così, benché meno finita nell’esecuzione, la grotta del citaredo mi sembra portar vari contrassegni di uno sviluppo più avanzato. Che però la differenza de’ tempi non possa esser grande, rileviamo dal sistema, con cui i panneggiamenti sono trattati in ambedue le tombe. Se cioè confrontiamo i disegni di vari arcaici, p.e. del caso François, troveremo che in essi gli abiti lunghi o diciamo sottane circondano il corpo senza veruna indicazione di pieghe, mentre i manti e le clamidi che vengono portati sopra di essi e più sciolti, si dividono in varie partite. Se dunque ne dobbiamo conchiudere, che in certe scuole e fino a corte epoche per il disegno delle sottovesti si sia conservato un sistema diverso da quello adottato per le sopravvesti, è chiaro che le due tombe spettano ad un’epoca nella quale quel doppio sistema non era ancor abbandonato. Questo sistema mi fornisce eziando uno degli argomenti principali per credere queste due tombe più antiche delle altre due di questo gruppo, cioè della grotta Marzi (Mon. II, 32) e Querciola (ib. 33); imperocché mi pare impossibile, che dai metodi nuovi introdotti in queste ultime si possa ritornare al sistema delle prime. In ambedue si manifesta lo studio di rompere i vincoli dell’arcaismo, ma per vie diversissime; ed un’analisi esatta certamente sotto più di un aspetto fornirebbe de’ risultati interessanti. Qui mi basti di accennar brevemente, come, per spiegar la diversità dei progressi, abbiamo da tener conto non solamente dell’andamento generale dell’arte etrusca, ma pure della diversa individuabilità de’ due artisti e della diversità de’ modelli greci che in conformità colla loro natura si sceglievano ad imitare. L’artista della grotta Marzi conservava ancora la base dello stile delle due tombe antecedenti, come si rileva specialmente dal disegno di alcune delle sottovesti. Ma inoltre avrà avuto innanzi agli occhi delle pitture di un carattere analogo p.e. a quelle del vaso da Peleo e Titide (Mon. I, 37). Dirimpetto a tali modelli è vero, che le sue figure conservano il carattere specificatamente etrusco di una certa durezza e quasi direi rusticità ne’ movimenti. Ma nondimeno dalle pitture anteriori esse si distinguono, come per un colorito più vivo ed allegro, così per la varietà ed ubertà de’ concetti, che fa fede di un’indole artistica vivace e spiritosa. Grazioso è lo studio della varietà nelle diverse piante, che inoltre sono ravvivate da uccelli ed altri animali. Ma anche ne’ panneggiamenti l’artista diede un bel saggio di questo studio medesimo, distinguendo dalle altre donne ballanti quella che suona le 120 nacchere dall’abito corto di leggerissimo velo, come lo usano anche ai dì nostri le ballerine di professione. Nelle teste finalmente e nell’acconciatura de’ capelli la tendenza all’idealismo, che cominciò a manifestarsi nella grotta del citaredo, qui ha preso maggior forza e domina già esclusivamente. Ad una tale individuabilità era certamente inferiore quella dell’artista che eseguì la grotta Querciola. Ma nondimeno lo credo posteriore al primo. Il sistema del disegno nella grotta Marzi, non ostante la sua ricchezza, è ancor tutto conforme al genere della pittura senza chiaroscuro. Nella grotta Querciola i limiti di questo stile non sono più custoditi: guardate attentamente queste figure debbono dirsi inventate per esser eseguite all’effetto del chiaroscuro; e se così nel modo di colorirle appartengono ancora alla scuola antica, dobbiamo sostenere che nell’invenzione e nel disegno non hanno più quasi niente che fare col col periodo arcaico. Ciò che in apparenza forse vi resta ancora d’arcaica durezza, si spiega piuttosto per l’indole generale dell’arte etrusca e per l’inabilità o poca versatilità nell’ingegno dell’artista che sembra essersi trovato alle strette tra due principi opposti. Colle pitture tarquiniesi non ho voluto confondere le chiusine e ciò a cagione della differenza nel carattere artistico de’ due paesi. Pitture di un arcaismo analogo a quello del primo gruppo cornetano a Chiusi non si sono trovate. Al periodo dell’arcaismo avanzato e sviluppato sotto la decisa influenza greca spetta la grotta Ciaja (Mon. d. inst. III, 17). Ma quest’influenza vi ha prodotto de’ risultati ben differenti. Per cominciar da cose accessorie, gli alberi non possono più dirsi disegnati in una maniera convenzionale, ma in un certo e distinto stile, che con pochi sensati tratti sa dar il suo carattere al tronco, ai rami, alle foglie. Ma nello stesso modo anche nel disegno dei corpi e dei panneggiamenti tutto vi è ridotto alle forme più essenziali. La stessa semplicità regna ne’ colori, in modo che l’artista nella carnagione della donna si è ancor attenuto al sistema antico, non distinguendola dal color chiaro del fondo. Ne’ concetti e ne’ movimenti è vero che non è ancor sparita ogni traccia di rigidezza etrusca; ma in confronto alle pitture cornetane essi compariscono più armoniosi, sciolti e nobili. In somma l’artista non si contentò di un’imitazione, più o meno superficiale delle maniere del disegno ec. ma si studiò più di tutti gli altri artisti finora considerati di penetrar nello spirito dell’arte greca. Questa differenza fondamentale dello stile rende difficile un confronto cronologico; in genere però non può esser dubbio, che queste pitture siano da assegnarsi piuttosto alla fine che al principio del periodo che abbiamo chiamato dell’arcaismo avanzato. Alquanto posteriori debbono esser le pitture scoperte nel 1833 (Mon. d. Inst. III 3334), che da tutte le altre si distinguono per la formazione dell’occhio in profilo. Alle antecedenti esse si accostano nella semplicità del disegno; ed un’altra analogia si manifesta 121 anche in alcune parti de’ panneggiamenti, p.e. negli abiti dei tibicini (t.33) confrontati con quei del citaredo (t.17). Bisogna però confessare che il disegno comincia ad esser meno accurato e nobile; e se quindi confrontiamo l’abito di velo della ballerina (t.33) con quello dell’analoga figura nella grotta Marzi, diventa anche più chiaro, che si è perduta affatto quella severità, che è la qualità la più caratteristica di ogni arte arcaica, e ciò senza che venga rimpiazzata dalle qualità più elevate dell’arte libera. Riceviamo dappertutto l’impressione di una certa mollezza che manca di precisione e di energia e che anche nel tipo delle fisionomie si mostra fluttuante tra il puro idealismo ed un deciso verismo. Se dunque dovessimo indicar con una parola la qualità generale di queste pitture, appena saprei definirla se non col termine di decadenza dell’arcaismo. Tralascio come lo Helbig (p. 352, n. 2) di parlar della grotta Casuccini, che occupa forse un posto intermedio fra le due finora esaminate, ma è troppo mal pubblicata per giudicare con sicurezza. Alcune altre figure recentemente scoperte (Bull. 1866, p. 193 segg.) non sono nemmeno descritte esattamente. Così le più importanti tra tutte le pitture chiusine restano ancora quelle scoperte dal François (Mon. V.t. 14-16), che, senza badar all’ordine cronologico, ho voluto separar dalle altre per una distinta ragione. Ripensando all’andamento generale della pittura etrusca dobbiamo esser colpiti dall’osservazione che quasi ogni progresso che avevamo da registrare, dipendeva strettamente dall’influenza greca. Mentre nel primo periodo parlavamo d’un arcaismo puramente etrusco, quest’elemento indigeno alla fine era bensì non interamente sparito, ma notabilmente scemato ed aveva dovuto cedere più e più il posto alle leggi stilistiche greche. Dirimpetto a questo fenomeno sarà lecito di domandare, se quest’influenza avea dappertutto la medesima forza o se non accanto all’arte grecizzante ed in opposizione con essa si manteneva in certe scuole o paesi un estruscismo più pronunciato. Nulla sappiamo intorno una continuazione dell’antica scuola ceretana nella quale più che altrove dominava un carattere puramente etrusco. A Tarquinia questa prevalse; ma nondimeno al principio del periodo dell’arcaismo avanzato v’incontriamo non dubbie tracce di una reazione almeno parziale. Per essa si spiega il carattere più etrusco in poche teste della grotta delle Bighe (Helbig p. 355) come pure la strana mescolanza di elementi greci ed etruschi rivelata già da Helbig nella grotta del citaredo. Anche a Chiusi abbiamo trovato l’influenza greca: ma in quel paese più remoto dal mare e dal contatto immediato col commercio de’ Greci sembra che essa non sia stata così continua e costante da potervi dominare esclusivamente. E’ sotto quest’aspetto che le pitture scoperte dal François guadagnano un interesse tutto particolare, imperocché esse ci fanno conoscere una scuola artistica quasi indipendente, e che dirimpetto alle altre a giusto 122 titolo può pretendere il nome di scuola nazionale. Essa sta in opposizione diretta coll’idealismo de’ Greci e si fonda piuttosto sul medesimo principio del verismo, che abbiamo rilevato nelle antichissime pitture ceretane. L’artista non vuol sottoporre le forme a certe norme e leggi stilistiche, ma rappresentarle tali quali si parano all’occhio nella realtà della vita comune. Così ne’ panneggiamenti non troviamo uno o due sistemi di pieghe, ma maniere svariate, che vogliono render ragione delle diverse qualità de’ vestiti, sotto il quale aspetto voglio notar anche qui un abito di ballerina (IV). Così pure nelle figure non regna un canone di proporzioni normali, ma cambiano secondo la condizione delle figure stesse, che trova eziandio un’espressione decisa nel diverso carattere delle teste. Non ho bisogno di entrar in altri particolari: l’analisi data dal Braun (Ann. 1850, p. 254 segg.) ne offre ricchissima messe. Rileggendo però con attenzione le sensate sue osservazioni dovremo convincerci, che queste pitture nel loro genere tanto raffinate non possono appartener ad un’epoca molto antica. Debbo perciò oppormi decisamente all’opinione di Helbig (p. 342), che vorrebbe crederle quasi più antiche del primo gruppo cornetano. Tutt’al più offrono qualche analogia cogli elementi nazionali nella grotta del citaredo. Ma considerandole con occhio spregiudicato, diremo piuttosto, che appena spettano al periodo dell’arcaismo avanzato. Giacché bisogna ben distinguere tra i veri contrassegni dell’arcaismo che qui mancano, ed una certa rozzezza e rusticità, che non è tanto l’indizio di antichità, quanto dell’indole particolare di una scuola artistica, che con tutta la coscenziosa cura nella riproduzione delle particolarità caratteristiche non vale a raggiungere la nobiltà dello stile bello ed ideale. Che poi queste pitture veramente non possono spettare ad un’epoca molto antica, possiamo provarlo inoltre mediante un accessorio della tomba stessa, cioè le figure di quattro Arpie scolpite in rilievo al soffitto della seconda camera. Esse certamente non sono un’invenzione dell’artista che costrusse la tomba, ma derivano da tipi asiatico-greci, che in Italia si mantennero in uso quasi senza variazione fino in epoche avanzate dell’arte (Mon. VI, t. 64, 3; cf. III, 42). Se dunque questo tipo nella tomba chiusina si trova sviluppato in modo che ha preso il valore di un segno geroglifico, certamente dalla sua invenzione, che accusa un diligente arcaismo, fino alla sua riproduzione a Chiusi dev’esser passato un buon tratto di tempo. Se la distinzione qui proposta di una scuola nazionale avesse ancor bisogno di una conferma, non potrei giustificarla meglio che con l’esame dell’ulteriore sviluppo della pittura etrusca dopo passati i limiti dell’arcaismo. Anche in quest’epoca l’influenza greca continua a penetrar nell’Etruria; lo spirito indigeno continua pure a reagir contro di essa; e 123 così anche qui dovremo far la medesima distinzione tra l’arte nazionale e l’arte grecoetrusca. I campioni più distinti di quest’ultima sono le pitture di due tombe di Vulci, l’una perita scoperta dal Campanari (Mon. II, t. 53-54), l’altra più ricca e conservata scoperta dal François (Mon. VI, 31-32; des Vergers: l’Etrurie e les Etrusques t. 21-30). Senza entrar qui in una analisi particolare, basterà dire, che la base dello stile, tutta la maniera del disegno e della pittura, i concetti delle figure e gran parte dei soggetti sono greci. Se nondimeno vedute anche superficialmente non rinnegano la mano etrusca, ne dobbiamo cercar la cagione non solamente in alcuni contrassegni esterni, ma in tutto ciò che nell’esecuzione dipende dal sentimento ed è italico in modo che al momento della scoperta della tomba François qualcheduno non senza ragione credeva risentirvi qualche cosa dell’indole delle pitture tosche nel cinquecento. Vi abbiamo in somma un’arte greca accomodata al sentir degli Etruschi. Ma non dappertutto l’influenza greca avea la medesima forza; e come nel periodo antecedente a Chiusi una scuola nazionale si disputava il dominio con un’altra grecoetrusca, così anche adesso nel limitrofo territorio di Volsini troviamo de’ fenomeni del tutto analoghi. Parlo delle insigni pitture di due tombe scoperte nel 1863 dal Golini presso Orvieto e pubblicate non ha guari dal conte Giancarlo Contestabile (Firenze 1865). Se, come vedremo, riguardo all’età di queste pitture mi trovo in opposizione coll’illustre mio amico, debbo all’incontro lodar moltissimo la sua osservazione, che, cioè, nelle due metà della seconda tomba “saresti facilmente indotto a scorgere una diversità di valore artistico nella mano, a cui si affidò l’esecuzione delle differenti scene e delle singole immagini che le compongono” (p.111); osservazione, che trova una conferma anche in una particolarità dell’esecuzione riservata alla sola parte destra della tomba, cioè in “quella specie di frangia che corre intorno alle vesti bianche in ognuno dei punti della composizione in cui la candidezza della veste stessa sarebbe andata altrimenti a confondersi con il colore del fondo della parete; e in conseguenza le figure non sariansi presentate in quello spicco che desideravasi”. (p. 110). Or questa distinzione di due mani o diciamo anche più decisamente, di due individualità ben differenti si mostrerà di somma importanza, se vogliamo giudicar sul merito di queste pitture e sul posto che a loro abbiamo da assegnar nella serie delle altre. L’artista della prima parte, che contiene i preparativi al convito (t. 47), appartiene, per così dire, alla famiglia di quello che eseguì la grotta François a Chiusi; e tutto ciò che ho detto sul carattere particolare e nazionale di questo, vale anche del pittore orvietano, colla sola differenza, che l’arte sua segna un’epoca più avanzata: vi abbiamo 124 masse forzate, proporzioni sbagliate, fisionomie volgari, una certa rozzezza della vita comune tutta opposta all’idealismo, ma tutto è pieno di vita, verità e carattere individuale. Nell’altra parte all’incontro, ove è figurato il viaggio, il convito funebre e la coppia delle deità infernali (t. 8-11), il disegno è più corretto, i concetti più moderati, l’espressione più nobile e sublime. Come dunque la razza servile o plebea dell’una parte, i cuochi, la gente di cucina e cantina si distingue dai signori e padroni dell’altra, che fino pel servizio di tavola si circondano di gente più pulita ed educata, così rileviamo un simile contrapposto nelle qualità artistiche delle due parti: l’una è opera di scuola plebea, l’altra si deve ad una mano più aristocratica. Ma come l’aristocrazia etrusca nonostante la vernice della coltura greca non divenne veramente greca, così anche l’artista aristocratico restò in fondo etrusco: e se lo confrontiamo coll’artista greco-etrusco di Vulci, non parleremo più di un’arte greca accomodata al sentir degli Etruschi, ma diremo che nell’opera lo spirito indigeno sia temperato e purificato dal genio dell’arte greca. I pochi frammenti della prima tomba (t. 2-3) sono eseguiti con minor diligenza, ma in genere appartengono alla medesima categoria, come la seconda parte delle pitture antecedenti. La vicinanza poi delle due tombe distanti tra loro pochi passi rende di più verosimile che siano anche quasi contemporanee. Ma quale è l’epoca, alla quale dobbiamo assegnarle? Nel primo mio rapporto (Bull. 1863, p. 49) pensai ad un’epoca di transizione dallo stile arcaico al più libero, indotto specialmente dall’esecuzione, nella quale gli artisti non hanno fatto uso del chiaroscuro. Debbo però confessare, che dopo più maturo esame questo criterio si mostra fallace. Giacché non dobbiamo dimenticare, che queste pitture si trovano in tombe sotterranee, che danno poco accesso alla luce del giorno ed anche ad arte non saranno state illuminate se non scarsamente. Sotto tali circostanze un soverchio impiego dei chiaroscuri non sarebbe stato favorevole all’impressione dell’insieme della pittura; perché nell’oscurità delle tombe le ombre della pittura, invece di accrescere l’effetto, avrebbero portato piuttosto la conseguenza di confondere tra loro le diverse tinte. E’ perciò che p.e. l’artista vulcente, seppure non voleva rinunciare ai nuovi metodi della pittura, sentiva almeno il bisogno di servirsi del chiaroscuro con molta riservatezza e disporre inoltre le sue figure in modo che non tanto facilmente le masse potessero confondersi. Ma non potremo nemmeno biasimar gli artisti orvietani, se in vista delle accennate difficoltà preferivano di adottare un sistema analogo alla semplicità de’ tempi antecedenti. Dico analogo, giacché considerandolo attentamente lo troveremo già essenzialmente modificato. Nelle scuole più antiche tutte le linee furono segnate proprio colla punta del pennello; gli artisti orvietani per uno svariato maneggiamento del pennello le rinforzavano o le assottigliavano, 125 specialmente ne’ panneggiamenti per accennar la maggiore o minore profondezza delle pieghe. I contorni interni de’ corpi in gran parte non sono disegnati a linee continue, ma a graffiature o punteggiati: metodo che serve non tanto a circoscrivere semplicemente le forme, quanto ad accennarne in qualche modo le modulazioni. Rilevai poi già nel primo mio rapporto, come segnatamente in alcune teste di donne s’incontra un certo raffinamento in alcune leggiere tinte, che debbono indicar la tenerezza del colorito. Non mancano nemmeno alcuni indizi di chiaroscuro, come nello sgabello di Plutone, nella trave alla quale è attaccato il bove, e specialmente nel corpo del bove stesso che senza questi pochi cenni di ombre avrebbe formato una massa un poco deforme. Se queste e simili pratiche si trovano di preferenza nella prima parte del sepolcro grande, la seconda all’incontro si distingue per un sistema del disegno ne’ panneggiamenti che presuppone di necessità lo sviluppo della pittura a chiaroscuro; imperocché non vi sono più disegnate tutte le pieghe, nelle quali s’increspa la stoffa, ma soltanto quelle che risaltano per l’effetto della luce e delle ombre. Molto si potrebbe ancor aggiungere sul perfezionamento nel disegno degli occhi, sulle teste di faccia, sugli scorci de’ piedi ed altre parti; ma insomma basterà di guardar attentamente il maestoso gruppo di Plutone e Prosperina e l’elegante figura del coppiere, per convincerci, che non vi troviamo più affatto in un’epoca di transizione, ma in mezzo al pericolo del libero sviluppo. E qui non sarà superfluo di notare, che tanto nelle due tombe dipinte quanto in tutta la necropoli circostante esplorata dal Golini non si è trovato nemmeno un solo oggetto d’arcaico carattere, mentre gran parte de’ vasi dipinti appartengono piuttosto all’ultimo sviluppo della pittura vascolare in Etruria. E’ a dolersi che le pitture di una tomba ceretana non sono conosciute se non per una pubblicazione poco esatta del Canina (Etrur. maritti. I, t. 63). Nello stile sembrano accostarsi molto alla seconda parte delle orvietane, seppure erano di un’esecuzione ben inferiore. Sin dal tempo della loro scoperta dal Dennis (Bull. 1847, p. 61) furono giudicate “comparativamente di data recente, come è fatto manifesto dallo stile dell’arte e dall’assenza d’una iscrizione latina (IVNON); e così vengono a confermar ciò che ho proposto sull’idea delle orvietane. Ritorniamo ora a Tarquinii, che anche in quest’epoca è ricca di tombe dipinte; ma al numero non corrisponde più la qualità. Pare che coll’epoca del libero sviluppo a Tarquinii ogni tradizione delle scuole antiche fosse sparita, per dar campo ad una varietà tutt’arbitraria di stili. Nella grotta detta del Tifone (Mon. II, 3-5) troviamo sul pilastro di mezzo delle figure di demoni che nell’idea e nell’invenzione sono perfettamente greci; ma dirimpetto ad esse sopra una delle pareti è dipinta una scena tutta etrusca, cioè una processione funebre distinta per l’intervento di demoni etruschi. Il metodo di aggruppar le 126 figure è tutto nuovo e sarà dovuto all’influenza dell’arte greca, come anche nelle maniere del disegno e della pittura a chiaroscuro si ravvisa tutto il contropposto ai tempi antichi che in essa si era operato. Ma nondimeno anch’adesso quest’influenza restò superficiale e si ristrinse piuttosto al far esterno che alle leggi più elevate dello stile. Nel carattere delle figure e delle teste, salvo il progresso de’ tempi, domina anch’ora il verismo etrusco, ed una certa ingenua libertà nell’aggruppamento potrà ben darci un’idea dell’appartenenza di simili pompe, ma senza la guida di una legge artistica sarà piuttosto arbitrio e confusione, dalla quale non nascerà mai una composizione ben ordinata e disposta. Delle pitture della grande grotta a quattro piloni Micali ha pubblicato due saggi ne’ Mon. ant. t. 65-66. Il primo contiene scene di combattimenti di deciso carattere greco, il secondo scene mortuarie etrusche. In esse le figure de’ demoni distinguonsi per una certa vita ed eleganza de’ concetti che saranno certamente copiati da migliori originali e forse sono d’invenzione greca. Le altre figure all’incontro sembrano proprietà dell’artista stesso: ma se dall’una parte sono più libere dai difetti che dovevamo rilevare nella prima parte delle pitture orvietane, dall’altra parte sono anche prive delle loro virtù. L’elemento nazionale vi è indebolito, e non vi è più né carattere né stile distinto, ma tutt’al più una qualche verità materiale de’ concetti che sprovvista di ogni slancio e brio ci lascia affatto indifferenti. Non voglio però lasciar inavvertito, che quell’impressione fiacca in parte sarà da attribuirsi alle incisioni del Micali. Se, come ho provato per l’esperienza, le sue pubblicazioni riguardo alla parte stilistica in genere lasciano moltissimo a desiderare, qui dovremo star anche più cauti del solito, ove egli stesso confessa che “tutto è vero, salvo un po’ troppo di studiato ne’ contorni delle figure” (III, p. 109). Comunque siasi, il carattere dell’arte in questa e nell’antecedente tomba è tutto misto, e dappertutto si fa risentire una decomposizione dell’elemento etrusco che lotta con forze sempre diminuite contro l’elemento greco. Dirimpetto a lati fatti è importante poter presentare qui le pitture inedite di due tombe tarquiniesi, le quali ci offrono la prova che una tale decomposizione non era generale, ma che l’elemento indigeno ancor in un’epoca avea forza sufficiente per resistere e mantenersi quasi intatto almeno in certe sfere limitate. Tra le carte dell’Istituto ho trovato un disegno (v. Tav. d’agg. W) che giusta la nota di Carlo Ruspi fu eseguito da lui in una tomba “rinvenuta li 5 Maggio 1832 nei terreni dei sigg. Querciola circa un miglio fuori di porta Clementina in Corneto sulla destra”. Essa forma una semplice camera sepolcrale, e nell’angolo destro opposto all’ingresso una cassa sepolcrale è tagliata dal vivo masso. Sopra di essa è dipinta dalla parte della testa una porta 127 arcuata e per tutta la lunghezza la scena incisa sulla tav. d’agg. La rappresentanza è semplice: tra due Caronti due uomini, l’uno barbato, l’altro imberbe, forse padre e figlio, si porgono le mani, e vi abbiamo dunque una scena dell’ultimo congedo, come non di rado vede figurata sopra urna etrusche. Oltre il color della carne vi è impiegato soltanto il nero pei contorni, capelli, stivali ed attributi e la terra rossa minerale per le tuniche de’ Caronti e gli orli nelle vesti bianche delle altre figure. Come nelle pitture di Orvieto, anche qui non si è fatto uso del chiaroscuro, ma nondimeno è chiaro che ci troviamo in un’epoca avanzata e che il metodo compendiario della pittura è scelto con riguardo alla località in cui si trova. Non avrò poi da dimostrar che l’esecuzione non può aspirare alla lode di diligente o fina; ma dal lato storico anche la stessa ingenua rozzezza di questi lineamenti merita la nostra attenzione, imperocché spicca in essa quello studio di verità, che, senza badar al bello ideale, cerca esclusivamente di render ragione di tutto ciò che è caratteristico in una data individualità. E’ dunque l’elemento specifico etrusco che, quasi oppresso dall’arte nobile, trova ancor un rifugio nei lavori degli artisti più volgari. Le altre pitture spettano ad una tomba scoperta nella primavera del 1864 sui territori della signora contessa Bruschi, appena un mezzo miglio fuori di porta Clementina a sinistra della strada. Sono rovinatissime, ma meritano di esser pubblicate in questi fogli tanto più che, essendo sfranata la volta, la tomba non poteva conservarsi nemmeno nello stato in cui fu trovata. Così la tavola XXXVI de’ Monumenti conserva l’unica memoria dell’insieme, mentre spero che sarà portata ad effetto la buona intenzione della lodata signora contessa di salvar almeno alcuni de’ pezzi meglio conservati facendoli staccar dalla parete. Il terreno, nel quale fu scavata la tomba, era infelicissimo, e nemmeno due pilastri posti irregolarmente bastarono per dar solidità alla volta che nella caduta rovinò anche una delle pareti. Le pitture dunque si trovano sopra gli altri tre lati, il fregio superiore della nostra tavola sul lato A, il medio su B, l’inferiore su C della pianta fig. 3: le due figure isolate 1 e 2 sul pilastro D. Lo stato frammentario c’impedisce di entrar in un esame particolare de’ soggetti; ma il loro significato generale non può esser dubbioso, specialmente se confrontiamo i sarcofaghi tarquiniesi da me descritti nel Bull. 1860, p. 146 seg. Sono processioni che per l’intervento del demone alato nel fregio medio prendono un carattere funebre, ma in tutto il resto conservano gli usi della vita comune. Maestosamente in mezzo di B e C procede un uomo, probabilmente un magistrato, che anche per proporzioni maggiori si riconosce esser di dignità più elevata. Egli vien preceduto la littori, apparitori e musici distinti di fasci, litui e corni, ed accompagnato inoltre da altre comitive. Il gruppo del cavaliere sembra formar una scena separata, forse riferibile all’ultimo viaggio, come anche il gruppo delle due donne nel fregio superiore non sembra aver una 128 relazione diretta colla comitiva militare che segue. Il colorito è trattato colla maggior semplicità: i manti quasi tutti sono bianchi e soltanto alcuni distinti per orlature rosse. La nobile donna porta camicia gialla (*), chitone pavonazzo chiaro e manto scuro, , ed in testa una corona gialla, il cavaliere un manto e tunica di color bianco con ombre gialle, il servo che guida il cavallo rosso, una tunica dello stesso colore, Caronte una tunica pavonazza, come pure l’uomo che segue, il cui manto è rossastro. Nella carnagione, oltre il colorito più tenero delle donne, è da rilevar il solito nerastro de’ demoni infernali. L’uso del chiaroscuro era conosciuto all’artista; ma per le ragioni che conosciamo l’adoperò in modo molto ristretto nelle parti nude, contentandosi ne’ panneggiamenti quasi esclusivamente di rinforzar più o meno le linee ed i contorni, per accennar le partite delle pieghe. Nell’aggruppamento delle figure queste pitture si accostano alquanto a quella della grotta del Tifone. Ma se in questa trasparisce almeno qualche libertà poetica, qui ci troviamo di nuovo dirimpetto alla pretta verità della vita comune: tali certamente, come qui le vediamo, erano queste processioni, tale l’ordinamento, tale anche il vestire e la portatura delle persone. Disgraziatamente quasi tutte le teste sono perite, ma anche ne’ pochi avanzi di esse traluce lo stesso verismo, tranne forse nella donna, che pel rispetto al bel sesso mostra forme alquanto più ideali. Tutta l’esecuzione finalmente è alquanto meno rozza che nella piccola tomba antecedente, ma in ogni modo è priva di finezza, diligenza e nobiltà, e la mancanza di stile nel disegno si fa risentir tanto più fortemente, in quanto che in deciso contropposto con essa nel fregio di onde, delfini e palmette domina la stretta legge architettonica dell’arte greca. Più dunque che Tarquinii (e lo stesso si sarà verificato anche in altre città) era divenuta città provinciale ed avea perduta le sue relazioni dirette coll’estero, più anche nell’arte si sarà scemata l’influenza diretta della Grecia, e l’elemento indigeno abbandonato a se stesso avrà perduto la forza di elevarsi sopra al livello di tutta la vita intellettuale e politica che lo circondava, e così se vogliamo accennar con una parola il carattere specifico di queste ultime pitture, dovremo dire che anch’esso è divenuto tutto municipale. Quale delle quattro tombe qui esaminate, sia la più antica, quale la più recente, almeno per ora non oso di deciderlo. La varietà tutt’arbitraria de’ stili fornisce la miglior prova. che non vi si tratta più di uno sviluppo regolare e costante, ma di una dissoluzione delle tradizioni di scuola, che rende vano ogni tentativo di fissar l’ordine cronologico mediante le qualità dello stile. Ci troviamo in somma alla fine, dell’arte propriamente etrusca, la quale però nemmeno allora perì interamente. Quegli elementi che ad essa avevano improntato il suo carattere specifico, trovarono un nuovo centro a Roma, ed ivi in 129 contatto continuo coll’arte greca servirono quasi di fermento per contribuir a quello sviluppo che sogliamo distinguere colla denominazione di arte greco-romana. H. Brunn da: Annali dell’Istituto di corrispondenza Archeologica vol. 38, 1866. I DOCUMENTI AMIATINI La MARGARITA CORNETANA (antico repertorio di atti notarili del nostro Comune) tradotta e pubblicata da Paola Supino nell’anno 1969, inizia con una data precisa - 4 marzo 1201 - per finire il 24 dicembre 1595. Tale opera, edita dalla Società Romana di Storia Patria, presso la Biblioteca Vallicelliana, merita non solo un illimitato plauso ma tutta la riconoscenza degli studiosi italiani e stranieri, e di quant’altri, non inclusi nel novero, hanno avuto modo di leggere questi documenti che formano la storia minuta della nostra città. Ma esistono altri regesti notarili, prima di quel 4 marzo 1201? 130 Nelle “Croniche di Corneto” già Muzio Polidori parla di documenti conservati nell’Abbazia Benedettina di Farfa in Sabina, redatti nell’anno 766, che si riportano parzialmente. Nel primo si cita un certo Lucanulo, figlio di Gemmulo, abitante in Corneto, il quale lascia ogni sua sostanza all’abate Alano e a tutta la Congregazione del Monastero di S. Maria di Mignone, al tempo che regnavano in Italia il re dei Longobardi Desiderio e il figlio Adelchi; mentre il fratello Lunissio lascia allo stesso Monastero case, terreni, pascoli, vigne, prati, boschi e quanto era posto in essi. Successivamente nell’anno 801, da un altro documento del Registro Farfense, si torna a parlare, fra l’altro di S. Maria di Mignone al tempo dell’imperatore Carlo Magno e giù giù, fino al 1083. Secondo lo stesso Polidori “patì questo Monastero di S. Maria di Mignone incursioni e violenze di soldatesca, conforme da due documenti si può vedere”, così come risulta dal Registro Farfense ai numeri 1077 e 1079 del maggio e giugno dell’anno 1083. Altre notizie però, sempre riguardanti i regesti cornetani, vennero date alle stampe da Carlo Calisse, uno studioso di Civitavecchia, il quale pubblico sulla rivista ARCHIVIO della Società Romana di Storia Patria, negli anni 1893 e 1894, i “DOCUMENTI AMIATINI”, depositati in antico nell’Abbazia Benedettina di San Salvatore sul Monte Amiata, e redatti fra gli anni 736 e 1196. A tal proposito il Calisse, nelle OSSERVAZIONI conclusive dei suoi studi, fa osservare: “Il territorio a cui si riferiscono i documenti amiatini ora pubblicati, corrisponde, nell’attuale provincia di Roma, a quasi intero il circondario di Viterbo e parte di quello di Civitavecchia. Le indicazioni date sui vari luoghi dagli stessi documenti ne determinano, con sufficiente esattezza, i confini. A mezzogiorno il mare, dalla Fiora al Mignone; a levante il Mignone stesso, nel suo ultimo corso, ed i monti Cimini; a tramontana il territorio dai Cimini a Bagnorea, con centro a Viterbo; a levante le alture di Bolsena intorno al lago, il fosso detto dell’Olpeta e la Fiora. La Marta segue la linea mediana di questo paese, e lungo esso i territori di Corneto e Toscanella sono i centri intorno ai quali il maggior numero dei nostri documenti si raccoglie: Viterbo vien terzo. Siamo dunque nella Tuscia longobarda, che venne ad unirsi all’altra già compresa nel ducato romano, dopo che il potere temporale dei papi ebbe incominciato a formarsi. Perciò vediamo che i più antichi dei nostri documenti non fanno menzione del pontificato, ma sì dei re longobardi, Liutprando, Ildebrando, Desiderio, Adelchi ed anche Carlo, fino all’anno 776. In seguito il nome del pontefice comparisce, ma, per tutto il resto del secolo IX, è accompagnato dalla formula “regnante domino Deo et salvatore nostro Jhesu Christo, 131 anno pontificatus ecc.ecc.; “, la quale, sebbene del tutto conforme alle espressioni religiose di cui sono sempre ricchi i documenti medievali, pure era molto adatta a togliere d’impaccio, quando una nuova sovranità non fosse ancora bene stabilita nel luogo ove l’atto si compiva, come era appunto del potere dei papi sui paesi fino a pochi anni indietro appartenuti al regno longobardo. Dopo l’anno 800, il nome del pontefice si associa a quello dell’imperatore; se ancora una volta accade di trovare menzione degli anni dei re d’Italia, Carlo e Pipino, senza veder fatto conto del pontefice, ciò si spiega subito, osservando che il documento, che è così datato, fu scritto da un notaio forestiero, venuto da Chiusi, facente parte di formole non adattate al nuovo avvenimento politico della civile dominazione dei papi... La sua costituzione ci si presenta tuttora simile a quella dei paesi longobardi e franchi, coi conti e loro subalterni ufficiali. I comitati sono i territori delle città: vi si ricorda il comitato di Castro, e molto più spesso l’altro di Toscanella, a proposito specialmente di Corneto, che si dichiara sempre essere a quello appartenente... Corneto è “in finibus Maritime” e poiché si sa che è insieme del comitato di Toscanella, non si deve con quelle parole intendere altro che la generale indicazione di luoghi prossimi alla marina... A Corneto e ai dintorni di Mignone, quivi era la cella farfense di S. Maria che nel regesto di Farfa è detto del territorio toscanese, e di cui più d’una volta anche nei documenti amiatini ritorna il ricordo, per determinazione di confini e luoghi marittimi e cornetani. Corneto non apparisce che avesse allora suo territorio, seppure non debba credersi che l’essere sempre attribuito al comitato di Toscanella non sia, pei tempi posteriori, derivato dall’uso tradizionale di formole antiche. Certo, negli ultimi dei documenti qui pubblicati, Corneto si vede giunto alla condizione di comune retto a proprio governo. Da prima è una campagna, una valle, che si chiama “Cornietu”, il che conferma la tradizione che dall’abbondanza dei cornioli derivasse quel sito il suo nome. Nel tempo stesso viveva ancora l’altro nome ivi prossimo di Tarquinia: nell’anno 809 Desiderio, figlio di Bassacio, prende a livello fra altri beni una terra posta “in Terquini, finibus maritimi”. Più tardi, coi primi del secolo IX, Corneto si mostra luogo fortificato, e in questo suo mutamento dove dalla valle salire il nome sul colle; castello e torre lo chiamano i documenti. Dintorno sorgono le abitazioni, e formano il vico; e poiché vasto spazio di terreno, quantunque in gran parte tenuto a vigne e ad orti, fu poi compreso entro il suo recinto, era comunemente chiamata città, soggetta prima a signoria feudale, e poi retta col governo popolare dei consoli; di due dei quali, nel 1191, ci sono dati anche i nomi, Ranuccio di Giovanni “de Rustico” e Simeone... 132 Dicendosi vico, s’intende l’abitato; s’intende invece la campagna, ad esso circostante ed appartenente, quando si dice fondo od anche casale, che non ha diverso significato, eccetto che, come casa e corte, accenna più propriamente al fatto che le terre hanno un centro di abitazioni... Per due luoghi si deve osservare una particolarità, l’uso cioè, nel preciso significato di vico, per l’uno della parola latina “villa” per l’altro della barbarica “gau”. La villa è Margarita: vi era una chiesa, S. Maria di Margarita, dipendente da San Salvatore, e ve n’era anche un’altra dedicata a san Pietro; era posta nel territorio di Toscanella, a mezzogiorno di Corneto, nelle vicinanze della Marta.... Non si deve questa chiesa confondere coll’altra pur detta di S. Maria di Margarita, che era l’antica cattedrale di Corneto, e che pure è nei nostri documenti ricordata”. Scritta questa premessa, è bene informare il lettore che i “documenti amiatini” vennero pubblicati dal Calisse in lingua originaria, vale a dire in quella forma latina, tutt’altro che classica, che risente di uno stato di decadenza; per cui ho cercato di tradurli liberamente in italiano, evitando quelle forme ripetitive e pedanti, proprie degli atti notarili. D’altra parte non essendo io un paleografo, non ho creduto opportuno fare opera di certosino, ma solo quella di informatore, lasciando beninteso ad altri la capacità o la volontà di tradurli integralmente la lettera. E dato che l’idioma latino oggi, per disegno politico, è stato relegato in soffitta, riporto per sommi capi i testi in lingua corrente. Tengo però a precisare, per informazione del lettore, che io mi sono limitato esclusivamente a quegli atti che riguardano la città di Corneto e il suo territorio, giacché nelle “tavole amiatine” si trovano documenti notarili riguardanti altri centi di quella che il Calisse chiama la Tuscia Longobarda, precisamente le città di Toscanella, Marta, Bagnorea, Viterbo, Valentano, Chiusi, Latera. Sulle condizioni storiche di quel periodo compreso fra l’800 e il 1100, si riporta il lettore a quel che scrisse un altro storico cornetano, il Valesio, tratto dalle “Memorie storiche della città di Corneto” manoscritto esistente nell’archivio del Campidoglio in Roma. “Succeduto di poi al pontefice Adriano, Leone III, ed essendo egli perseguitato dalla fazione sediziosa dei nepoti del predecessore, ricorse nuovamente al re Carlo 1) il quale, ritornato a Roma, vi fu con acclamazione e giubilo del popolo creato dallo stesso pontefice Imperatore. Ma appena si erano riavuti i popoli della Toscana dalla tirannia dei 1) Carlo I (Carlo Magno) re dei Franchi e dei Longobardi, incoronato dal papa Leone II in San Pietro la notte di Natale dell’800 come imperatore del Sacro Romano Impero. 133 Longobardi, che li Saraceni, di già occupata la Sicilia, scorrevano il mare armati, depredando le spiagge, conducevano seco gli abitatori in miserabile schiavitù, anzi discesi in gran numero in terra, distrussero affatto la città di Centocelle non di molto distante da Corneto, e benché dopo il pontefice Leone IV, discacciati con grave strage li medesimi, che erano ritornati nuovamente a depredare, fabbricasse per sicurezza delle spiagge una nuova città 2) in distanza di 12 miglia dall’antica Centocelle, dove già dicesi fosse il porto Traiano: nulla dimeno nel pontificato di Giovanni VIII ritornarono più fieri, come si vede nelle lettere scritte dal medesimo all’imperatore Carlo Calvo 3) richiedendolo in quella miseria di pronto soccorso. Esagera in questo il pontefice che le città e le terre, essendo distrutte e prive di abitatori, andavano i vescovi raminghi e dispersi in questo tempo, e verisimile che essendo fuggiti li abitatori di Corneto, venisse a mancare la serie dei vescovi di questa città. Tanto più che in questa parte era la più soggetta alle scorrerie dei Saraceni poiché oltre distrussero il Monastero di S. Maria di Mignone, poco distante dalla città come si ricava da un Istrumento della Badia di Farfa... Nel pontificato di Sergio IV il medesimo pontefice erasi accordato con Guaifiero, principe di Salerno, acciò con pagamento di certa somma di denaro, spedisse i legni armati di Astolfo a soccorrere le spiagge fino a Centocelle, per impedire lo scendere in terra ai Saraceni, ma tutto ciò fu vano e la cosa andò in modo che il pontefice fu costretto pagargli un annuo tributo agl’infedeli, acciò si astenessero di travagliare il suo Stato: ma essendo stati poi li medesimi più volte sconfitti nel regno di Napoli, e cessando il timore delle loro incursioni, il monastero di S. Maria di Mignone fu nuovamente ristorato da Ralfredo abate, come riferisce il Mobilione Annel. Bened. I. 3 Libro 42, pag. 33, essendosi gli abitanti della città di Corneto dichiarati favorevoli a Graziano Abate di S. Maria di Mignone il quale negava la dovuta obbedienza al Monastero di Farfa, il pontefice con Bolla comandò espressamente al primo che si soggettò all’abate di Farfa, suo superiore, minacciando la scomunica ai Cornetani quando contro a ciò si opponessero”. La presenza di tre monasteri benedettini, quelli di Farfa in Sabina, di S. Maria di Mignone, nel nostro territorio, e di San Salvatore sul Monte Amiata, deve aver fatto presa, anche per l’apostolato dei monaci, sull’animo dei singoli donatori di beni e di denaro non tanto forse per quei principi che animarono i primi cristiani, come si può desumere dai Vangeli e dagli Atti degli Apostoli, quanto dalla paura di non vedersi assicurata la pietà divina a favore delle loro anime, quasi che la conquista del paradiso potesse essere assicurata più che dalle azioni individuali nel tempo della vita terrena, da lasciti di beni a 2) Prese il nome di Leopoli, dal nome del suo fondatore, Leone IV, che poi divenne per abbreviazione Cencelle. 134 favore di un qualsiasi ordine religioso, e nella fattispecie ai benedettini del Monastero del Monte Amiata. Questa psicosi dovrebbe essere stata sollecitata da qualche avvenimento che sfugge purtroppo ad ogni ricerca storica locale nonché allo studio delle condizioni che la determinarono. Il primo documento che risale all’anno 822, è del seguente tenore: ANNO 822; mese di ottobre, in vico Pretoriano. Felicemente regnanti il signor nostro piissimo e augusto Lodovico, da Dio incoronato, grande e pacifico imperatore, nel nono anno del suo impero e nell’anno sesto di Lotario, suo figlio, e il beatissimo pontefice e papa universale Pasquale, nella santissima sede di S. Pietro, principe degli apostoli, nell’anno sesto, mese di ottobre, indizione prima. Io Grossone, figlio del fu Orso in vico, di mia buona e spontanea volontà ho promesso e prometto di dare a voi, amabile e venerabile presbitero e preposto del monastero di S. Salvatore posto sul Monte Amiata, dove risiede il signor abate Audoaldo, un mio terreno che è posto in Pantano, ai confini del mare, per edificarvi un molino 4) ; e nello stesso tempo un altro terreno che misura per lunghezza 40 piedi e per la larghezza 30 piedi, per edificare sopra la riva del fiume Marta una casa. Mi riservo però la metà del molino e della casa suddetta fino a quando vivrò; dopo la mia morte lascio ai miei eredi la terza parte del molino e della casa; e qualora dovessi revocare ciò che ho promesso ed io ed i miei eredi chiedessimo di promuovere una causa e non potessimo difenderci, allora prometto anche a nome dei miei eredi di versare allo stesso santo Monastero cento soldi di argento. Quanto promesso ho chiesto che venisse scritto su questo documento alla presenza di testimoni. Fatto in vico Preturiano, nel mese e nell’indizione suddetti. Io Grossone di mia mano sottoscrivo. - Segno di mano di Lupone di Minotula, teste. - Segno di mano di Placione, suo fratello, teste. - Segno di mano di Adelmo del vico, teste. - Segno di mano di Lanfredo del vico, teste. - Segno di mano di Tachiperto del vico Pretoriano, teste. Io, Liminoso, chierico e notaio, ho composto questo atto e consegnato a Grossone. 3) Carlo II (Il Calvo). Nell’anno 875 successe a Ludovico II, come re d’Italia e imperatore. 135 Che si tratti di un terreno posto nel territorio di Corneto, non c’è alcun dubbio, sia per l’ubicazione in località Pantano (toponimo tuttora esistente per la vicinanza del mare e delle sponde del fiume Mignone) sia il riferimento al fiume Marta. Poi con un salto di 182 anni, si viene a parlare di Corneto, o meglio del castello e torre di Corneto, vicini al mare. Evidentemente nel frattempo doveva essersi consolidato il centro urbano anche se seguitava a far parte del Comitato di Toscanella. Ed ecco qui di seguito tutti gli atti notarili, dal 1004 al 1191. L’ultimo riguarda invece una bolla del pontefice Celestino che, sotto pena di scomunica, porta a ragione un presbitero che non voleva riconoscere l’autorità e la competenza dell’abate del Monastero di San Salvatore, sul Monte Amiata, circa l’assegnazione della chiesa di San Fortunato nella città di Corneto. ANNO 1004, gennaio, in Corneto. Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, nell’anno primo del sommo e universale pontefice Giovanni XVII, felicemente regnante nella sede del beato Pietro, principe degli apostoli, mese di gennaio, indizione seconda. Io Benedetto, figlio del fu Andrea, abitante nel castello e torre di Corneto, confinanti col mare, comitato di Tuscania, uomo onesto, venditore, vendo liberamente a te Sigizo, prete, acquirente, figlio del fu Orso abitante nel castello e torre di Corneto che confina col mare, nel presente giorno, una parte della vigna di mia proprietà, come da documento che mi è pervenuto, posta in un sito prossimo a santo Stefano, confinante da un lato con la vigna di Guido, dal secondo lato con la vigna di Domenico, dal terzo lato con la vigna di Fermoso e dal quarto lato col fiume Marta. La suddetta vigna e la suddetta terra dove la vigna è posta, misura perimetralmente 27 pertiche e undici piedi, secondo le misure legittimamente in uso sotto il re Liutprando, con tutto quanto vi è sopra e con tutti gli annessi e connessi; e do la facoltà a te e ai tuoi eredi la piena facoltà di disporne, possedere, vendere, donare, commutare, alienare e quant’altro vorrete fare con la più ampia libertà, senza alcuna riserva, della mia proprietà, libera da ogni ipoteca. Perciò ammetto di aver ricevuto dal suddetto acquirente la somma di venti soldi in argento, come prezzo deliberato, accettato e convenuto fra noi due, di comune accordo. 4) Esisteva una lega di molini: i più rinomati e citati furono le “Mole di Mignone” e quelli sul fiume Marta. 136 Se dovesse accadere, come non spero, che nasca una controversia contro di te da parte dei miei eredi, prometto di comporre la vertenza o di corrispondere il doppio dei miglioramenti eseguiti secondo la stima di un perito. Stipulato nel succitato castello di Corneto. Segno di mano del venditore Benedetto che sottoscrive questo atto di vendita. Segno di mano di Azo, figlio del fu Belizo, teste. Segno di mano di Gezo, del fu Ildibrando, teste. Segno di mano di Ildibrando, del fu Ildibrando, teste. Io Alone, magistrato imperiale, ho stipulato il seguente atto. ANNO 1005 (?) 1006 (?) mese di aprile, in Corneto. Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, nell’anno secondo del papato del sommo e universale pontefice Giovanni XVII, felicemente regnante nella santa sede del beato Pietro, principe degli apostoli, mese di aprile, indizione quarta. Io Giovanni, figlio del fu Sperandio, che abita in un rione del castello e torre di Corneto che confina col mare, comitato di Tuscania, uomo onesto, venditore, in piena facoltà, vendo oggi a te, Stefano, prete, figlio del fu Giovanni, abitante nel suddetto rione nel castello e torre di Corneto, che confina col mare, nel comitato di Tuscania, una parte della vigna di mia proprietà che mi pervenne da mio padre Sperandio. La suddetta vigna che si trova oltre il fiume Marta, confina da un lato con la vigna del Monastero di S. Maria di Mignone, dal secondo lato con la vigna di Giovanni, dal terzo lato con la vigna del prete Silvio e dal quarto lato con la vigna di Giovanni Occo. La suddetta vigna e la terra dove è situata misura pertiche....e dodici piedi, secondo le misure legittime in uso sotto il re Liutprando. Omissis... Segno di mano Giovanni venditore che sottoscrive questo atto di alienazione. Segno di mano di Andrea, del fu Liutprando, teste. Segno di mano di Demetrio, del fu Alcisi, teste. Segno di mano di Camarini, figlio del fu Reino, teste. Io, Alone, magistrato imperiale, ho stipulato il presente atto. Anno 1011, mese di aprile, in Corneto. 137 Nel nome del signore nostro Gesù Cristo, al tempo dell’anno secondo del nostro signore Sergio II, sommo e universale pontefice, felicemente regnante nella santa sede del beato apostolo Pietro, mese di aprile, indizione nona. Per la salvezza delle nostre anime, io Giovanni, presbitero, figlio del fu Bonuzio, insieme a Efizia, figlia del fu Luniperga, abitanti nel castello e torre di Corneto che confina col mare, comitato di Tuscania, confidando di avere l’eterna beatitudine da parte del signore nostro Gesù Cristo noi e le anime dei nostri parenti, per mezzo di questo documento facciamo dono al monastero di San Salvatore che sorge sul Monte Amiata, comitato di Chiusi, e a te, signor abate Vinizio e ai tuoi successori, di una casa che è edificata all’interno dello stesso castello e torre di Corneto, chiamato città, e si trova a confine con il terreno della casa dei fratelli Petronio e Benedetto, figli del fu Giovanni, e dalla quarta parte dalla terra del suddetto venditore; contemporaneamente doniamo e trasferiamo un pezzo di terra dov’è edificata la casa dentro lo stesso castello e torre di Corneto, che è posta a confine da due parti con un muro dello stesso Castello e dalla terza parte da un terreno irriguo e dalla quarta parte con la casa di Petronio, figlio del fu Andrea; nello stesso tempo doniamo e trasferiamo integralmente un pezzo di terreno con vigna, situato in località detta “I Ponti” 5) che si trova fra i confini delimitati da una parte da uno stradello e dall’altra con la vigna di S. Maria di Mignone, dalla terza parte con la vigna Andrea e dalla quarta parte con la vigna di Giovanni; nello stesso tempo doniamo e trasferiamo un pezzo di terreno integro situato nel luogo detto “Pietrara” 6 e confina da due parti con un terreno irriguo, dalla terza parte con la terra di Rainiero e suoi confinanti e dalla quarta parte con la terra di Costanza. Gli stessi soprascritti terreni e le vigne e le cose poste fra i suddetti confini e i luoghi designati come più sopra si può leggere, con tutte le cose e gli accessori esistenti, doniamo e trasferiamo integralmente in perpetuo. Se poi io Giovanni presbitero del fu Bonuzio, e Ofizia, figlia del fu Luniperga o alcuno dei nostri eredi o altra persona estranea si mettesse contro questo atto di donazione che noi abbiamo firmato spontaneamente e con buona volontà, e tentasse di annullare, rompere, o cambiare ciò che abbiamo voluto, prima di tutto cada sotto la maledizione di Dio onnipotente e sotto l’anatema dei 318 santi Padri, dei 24 anziani 7) che giornalmente danno lode a Dio, dei dodici apostoli, dei quattro evengelisti Luca, Giovanni, Marco e Matteo; e vengano espulsi dalla Chiesa e abbiano i tormenti, nel giorno del giudizio, come 5) Toponimi tuttora esistenti nel territorio di Tarquinia. Ibidem come sopra. 7) Vedi “APOCALISSE” di Giovanni Apostolo, cap. IV-v. 4. 6 138 il traditore Giuda che portò a morire il nostro Signore Gesù Cristo; e venga condannato alla pena di dieci libbre d’oro puro. Silfrido, giudice imperiale, stabilisco di far sottoscrivere ai testi nel seguente ordine: Io, presbitero Giovanni firmo di mia mano questo documento. Ofizia, di sua mano chiede di sottoscrivere quanto è stato scritto nel suddetto documento. Lupo, figlio del fu Maino, teste. Benedetto, figlio del fu Vallerino, teste. Io Lamberto firmo di mia mano, come teste. Io Silfrido, giudice imperiale, ho portato a termine e sottoscrivo questo atto. Anno 1014, mese di giugno in Corneto. Nel nome del signore nostro Gesù Cristo. Nel nome di Dio onnipotente, noi Benedetto, chiamato Fusco, castaldo del nostro duce Rainiero, marchese, e Silfrido, giudice del nostro signore imperatore, siamo convenuti nella contrada del castello e torre di Corneto, dinnanzi la corte e la casa di Giovanni, figlio di Uberto, per una causa; sono pure qui presenti le buone persone di cui diamo i nomi: Anczo, figlio di Belizo, Teuzo, figlio di Teuzo, Girolfo, figlio di Baldo, Berterico, figlio di Teuzo e Lamberto suo figlio, Belizo figlio di Allone, il giudice Ildizo figlio di Goberto, Radolfo figlio di Omizo, Benedetto figlio di Benedetto e Giovanni suo figlio, Rainiero figlio di Bonizo, Astaldo figlio di Abo, Ildizo figlio di Bezo del Monte Amiata, Eldivrando figlio di Nardizo, insieme al signor abate Vinizo, rettore del Monastero di San Salvatore con il suo avvocato, per una controversia sorta fra Giovanni figlio di Uberto del castello di Corneto; sentita la ragione per la quale tu Giovanni e gli altri che avete intenzione di contendere, contro il nostro Monastero di San Salvatore, la metà di un terreno con vigna nei pressi di quella terra conosciuta come Margarita, sopra Montorario; metà di questa terra e vigna sembra trovarsi sopra il guado Orclito del fiume Marta; voglio che tu, alla presenza del giudice e di queste oneste persone dichiari se questa causa è giusta o no. Lo stesso soprascritto Giovanni figlio di Uberto così ha risposto: non piaccia a Dio che quanto tu mi chiedi, risponda a verità; e non mi riguarda. E il soprascritto Eldivrando figlio di Nordizo, che era l’avvocato del signor abate Vinizo, ha chiesto che tutti gli siano testimoni in questa causa. 139 In fatto: io stesso soprascritto Silfrido, giudice, chiamato in giudizio, avendo ascoltato da parte del surriferito Ildivrando che il signor abate Vinizo era stato convocato, chiedo al suddetto Giovanni figlio di Uberto, se avesse documento o breve o sentenza o investitura da parte dei suoi parenti per possedere la metà della terra e vigna della predetta Margarita, e se avesse intenzione di far causa, litigare, contro l’abate Vinizo, a favore dei propri eredi e contro il Monastero o i suoi successori. Il soprascritto Giovanni figlio di Uberto non ha né mai potrà avere documenti, breve e sentenze per poter contestare le soprascritte cose. Lo stesso soprascritto Eldivrando, che era avvocato del signor abate Vinizo, ha detto: chiedo che tutti mi siate testimoni in questa causa. Così fu fatto: e lo stesso giudice Silfrido e il soprascritto Giovanni figlio del fu Uberto, rimasero soddisfatti della cosa, mentre il soprascritto Monastero di San Salvatore e del signor abate Vinizo e i suoi successori restano possessori del fondo per tutti i tempi futuri. E il soprascritto Giovanni figlio di Uberto, e con lui i suoi eredi, dichiara di lasciare all’abate Vinizo e al suo avvocato Ildivrando la suddetta terra e vigna di Margarita, come più sopra si legge; e se si dovesse addivenire ad una lite od entrare in causa per interposta persona, il soprascritto Giovanni di Uberto e i suoi eredi promettono di lasciare il fondo al signor abate Vinizo e ai suoi successori, pena 18 libbre di oro puro. Questo avvenne al tempo del signore nostro Benedetto 8) , sommo pontefice e papa universale che siede da tre anni nella sede del beato Pietro, apostolo; e del signor nostro Enrico 9) , imperatore augusto, nel mese di giugno, indizione 12ª, felicemente regnanti. Segno di mano di Giovanni, figlio del fu Uberto, che sottoscrive davanti ai testimoni. Segno di mano di Benedetto, castaldo del nostro signor marchese Rainiero. Segno di mano di Anczo, figlio di Belizo, e Teuzo figlio di Teuzo, Ridolfo figlio di Baldo e Berterico, figlio di Teuzo, e Lamberto suo figlio, e Omizo figlio di Marocci: tutti chiesero di sottoscrivere di proprio pugno. Io Silfrido, giudice imperiale, scrissi, completai e consegnai. Anno 1014 (?) 1015 (?) mese di marzo, in Corneto. Nel nome del signore nostro Gesù Cristo, al tempo del signor nostro Benedetto, sommo pontefice e papa universale, nel terzo anno del suo regno nella sede del beato 8) 9) Benedetto VIII, papa. Enrico II, re di Germania, che nel 1005 ebbe la corona imperiale. 140 apostolo Pietro, e del primo anno dell’incoronazione dell’augusto Enrico, mese di marzo, indizione dodicesima. Io Calendo, detto Pipo, figlio del fu Domenico, e Maroza, mia moglie, abitanti nel castello e torre di Corneto che confina col mare, comitato di Tuscania, per la salvezza della nostra anima trasferiamo e doniamo tutte le cose nostre a favore del Monastero di San Salvatore che sorge sul Monte Amiata, comitato di Chiusi, per avere ricompensa eterna alle nostre anime. Per mezzo di questo atto di donazione al signor abate, e ai suoi futuri successori, assegniamo un pezzo di terra, ai confini da una parte con la terra di Giovanni, e dalle altre parti con la terra di Petronio, figlio di Viglielmo, dalla terza parte con la terra di Giovanni Vallarino e dalla quarta parte dalla strada pubblica; tutt’attorno misura cinque pertiche e otto piedi, secondo la legge di Liutprando. Inoltre doniamo e trasferiamo a favore del Monastero di San Salvatore un altro pezzo di terra con vigna, posta presso il luogo detto Margarita ed è situato ai confini da una parte con la terra di San Salvatore e dall’altra parte con la terra di S. Maria di Mignone, dalla terza parte con la terra di Giovanni, figlio del fu Uberto, e dalla quarta parte col fiume Marta. I soprascritti pezzi di terra, con la casa e la vigna, con tutto quanto vi è, li doniamo e li trasferiamo per sempre. Se alcuno - non spero che ciò accada - dopo la morte di me Calendo, detto Pipo, e di mia moglie Maroza, dei nostri eredi volesse opporsi e annullare questo atto di donazione, per prima cosa cada sotto la maledizione di Gesù Cristo, e l’anatema dei 318 Santi Padri, dei 24 vegliardi che quotidianamente lodano Iddio, dei 12 apostoli e dei 4 evangelisti Luca, Giovanni, Marco e Matteo; e venga espulso da ogni chiesa e abbia lo stesso trattamento di Giuda, il traditore, che condannò a morte Gesù Cristo e poi s’impiccò. Silfrido, giudice imperiale, chiedo di sottoscrivere nel seguente ordine: Segno di mano di Calendo, detto Pipo, e di Maroza, mia moglie. Segno di mano di Usberto, figlio di Ulbizo, di Demetrio e Benedetto, e Teuzo, figlio di Teuzo, testi. Io Lamberto sottoscrivo questo atto come teste. Io Silfrido, giudice imperiale, ho stipulato questo atto e lo consegnai. Anno 1014 (?) 1015 (?), mese di marzo, in Corneto. Nel nome del signore nostro Gesù Cristo. Al tempo del signore Benedetto, sommo pontefice e papa universale, nella sede del beato Apostolo Pietro, anno terzo del suo regno; e del signor Enrico imperatore augusto, incoronato dal grande e pacifico Iddio, nell’anno primo, mese di marzo, indizione tredicesima, felicemente regnanti. 141 Noi Domenico e Giovanni, presbiteri, figli del fu Gezio, abitanti nel castello e torre di Corneto, confinante col mare, nel comitato di Tuscania, trasferiamo tutti i nostri beni al santo luogo del Monastero di San Salvatore, che è edificato sul Monte Amiata, comitato di Chiusi, confidando di avere l’eterna beatitudine del nostro signore Gesù Cristo a favore delle nostre anime. Per mezzo di questo atto di donazione, trasferiamo a te, abate del monastero di San Salvatore, signor Vinizo, uomo integro, e a tutti i tuoi successori un pezzo di terreno dov’è edificata una casa, posta nello stesso castello e torre di Corneto, chiamato città, che si trova confinante da una parte col presbitero Teuzo, dall’altra con la terra di Teuzo, figlio di Teuzo, dalla terza parte col presbitero Domenico e dalla quarta parte con la terra di Eldivrando, figlio del fu Astaldo: misura perimetralmente nove pertiche e sei piedi, secondo le misure legali sotto il re Liutprando. I soprascritti beni, terreno e casa, nei suddetti confini, con tutto quanto vi si trova, doniamo e trasferiamo in perpetuo. Se dovesse accadere, dopo la nostra morte, che qualche erede di noi presbiteri, Domenico e Giovanni, o qualsiasi altra persona estranea dovesse opporsi a questa donazione, da noi fatta spontaneamente, o tentasse di annullare, rompere e commutare, cada sotto l’ira di Dio onnipotente e sotto l’anatema dei 318 santi Padri, dei 24 vegliardi che lodano eternamente Iddio, dei 12 apostoli, dei quattro evangelisti Luca, Giovanni, Marco e Matteo e di tutta la chiesa, e abbia la punizione che Dio assegnò al traditore Giuda che s’impiccò. Io Silfrido, giudice imperiale, chiedo di sottoscrivere questo atto nel seguente ordine: Io Domenico presbitero ho scritto di mia mano questo atto. Io Giovanni presbitero ho scritto di mia mano questo atto. Io Teuzo, figlio del fu Teuzo, teste, sottoscrivo di mia mano. Io Lamberto, ho scritto di mia mano come teste. Anzo, figlio del fu Rainiero, teste, ho scritto di mia mano. Io Silfrido, giudice imperiale, ho completato il seguente atto. Anno 1015, 3 aprile in Corneto. Nel nome del signore nostro Gesù Cristo. Al tempo del signor nostro Benedetto, sommo pontefice e papa universale, felicemente regnante nell’anno quinto nella sede del beato Pietro apostolo, e sotto il regno del signor Enrico, imperatore augusto, incoronato da Dio, grande e pacifico nell’anno terzo, mese di marzo, indizione 14ª. 142 Io Berterico, figlio del fu Bonizo dimorante nel castello e torre di Corneto che confina col mare, comitato di Tuscania, uomo onesto, venditore, in questo giorno vendo in pieno possesso della mia volontà, a te Giovanni, figlio del fu Igilino, acquirente, che dimori sul Monte Amiata, comitato di Chiusi, un pezzo integro di terra con vigna di mia proprietà che è posta in un luogo chiamato Capilione e confina da una parte con la vigna di Berterico, figlio del fu Petronio e dalle nostre parti con la vigna di Drudo e dalla quarta parte dal sottoscritto venditore. Misura perimetralmente dieciotto pertiche e cinque piedi, misurata secondo la legge del re Liutprando. Il sottoscritto pezzo di terra e vigna con i succitati confini e misure e località come più sopra si legge, con tutti gli annessi e connessi, io vendo integralmente al succitato acquirente. E ricevo io venditore a favore dei miei eredi e degli eredi di te acquirente, il prezzo di venti soldi in argento, come si è convenuto fra noi di comune accordo. Da questo giorno a te, acquirente, e ai tuoi eredi la piena potestà di vendere, donare e fare quanto vi aggrada. Io soprascritto e con me i miei eredi, prometto a te soprascritto acquirente e ai tuoi eredi, di osservare quanto stipulato. Se altri dovesse intentare contro di te con ogni pretesto una causa, allora io sottoscritto venditore ed i miei eredi promettiamo a te e ai tuoi eredi, una doppia affrancazione su quanto avrete fatto in miglioramenti, secondo una giusta stima. Fatto in Corneto. Segno di mano di Berterico, figlio del fu Bonizo, venditore che sottoscrive questo atto secondo quanto più sopra descritto. Segno di mano di Radolfo, figlio di Omizo, chiamato come teste. Segno di mano di Berterico, figlio di Teuzo, chiamato come teste. Segno di mano di Ranieri, chiamato come teste. Io Silfrido, giudice imperiale, ho scritto, completato e restituito. Anno 1018, mese di maggio a Corneto. Nel nome del signore nostro Gesù Cristo. Ai tempi del signor nostro Benedetto, sommo pontefice e papa universale, felicemente regnante nella sede del beato apostolo Pietro, anno settimo, e del signore Enrico, imperatore augusto, pacifico, incoronato da Dio, anno quinto, mese di maggio, prima indizione. Io Orso, figlio del fu Gordanno, abitante nel castello e torre di Corneto ai confini del mare, comitato di Tuscania, uomo onesto, venditore, liberamente alieno a te Giovanni, figlio del fu Ingelberto, che è dimorante nel monastero di San Salvatore, comitato del 143 Monte Amiata, mio acquirente, un pezzo di terreno integro con vigna, posta in località detta Campoleone, e confine da una parte con la vigna di S. Maria di Mignone, dall’altra parte con la vigna del presbitero Gennaro, dalla terza parte con la vigna Micina e dalla quarta parte col fiume Marta. Misura perimetralmente 22 pertiche e 1 piede, secondo le misure in vigore al tempo del re Liutprando, con tutti gli annessi e connessi. Fra me soprascritto venditore e miei eredi e te, soprascritto acquirente, con i tuoi eredi, si stabilisce la somma di venti soldi d’argento, concordata e decisa fra noi di buon accordo. A te e ai tuoi eredi concedo piena libertà di possederlo, venderlo, donarlo, commutarlo nella maniera che più crederete opportuna. Redatto in Corneto. Segno di mano di Orso venditore. Segno di mano di Raniero, figlio del fu Bonizo, teste. Segno di mano di... figlio del fu Varnolfo, teste. Segno di mano di Pasquale, figlio del fu Andrea, teste. Io Lamberto, giudice imperiale, trascrissi e completai. Anno 1191, 3 di gennaio, in Corneto. Nel nome di Cristo, così sia. L’anno 1191 dalla sua incarnazione, indizione nona, il giorno tre del mese di gennaio, regnando l’imperatore Enrico, signore dei Romani, io Ioculo, di mia spontanea volontà, senza scopo di frode o di dolo, mi sono offerto per una transazione con Rollando, abate di San Salvatore sul Monte Amiata che aveva delegato te, Pietro, per grazia di Dio preposto della chiesa di San Fortunato in Corneto, a me cognito, al fine di dirimere la controversia fra me e l’abate stesso in relazione a 15 libbre di denaro romesini di cui mi ero reso garante. Poiché si presume un danno subito di 70 libbre, eccomi convenuto davanti ai consoli Ranuccio di Giovanni “de Rustico” e Simeone perché di comune accordo si chiuda questa vertenza mediante il pagamento di 31 libbre di denari pesanti romesini. Per questo io mi faccio garante con te, procuratore designato dal predetto abate e dai suo confratelli di porre transazione fra me e i miei eredi da una parte e te, delegato dall’abate e dai suoi successori, con l’impegno di mettere fine a questa vertenza. Sono perciò disposto a stipulare, io per i miei eredi, e tu come procuratore dell’abate e suoi successori, il presente 144 atto con la garanzia che né da parte mia né da parte sua si ponga alcuna opposizione al presente accordo, anche per interposte persone. Questo atto viene stipulato in Corneto, nella piazza antistante la chiesa di S. Maria di Margherita, alla presenza dei predetti consoli e dei testi Pietro Belizo, Urrado, Pietro Rainiero di Alone, Tommaso di Tagliacozzo, Guittone di Rainiero “della Tocula” e Rollando di Guittone, convocati. E in presenza dei testi Simeone di Valentano e Ottaviano di Graziano, appositamente convenuti. Io Leonardo giudice e notaio imperiale, chiamato a dirimere questa controversia e per stendere questo istrumento, dinanzi a quanti sono convenuti per questa transazione, ho redatto questa scrittura. Anno 1196, 23 maggio, in Laterano Celestino vescovo 1) , servo dei servi di Dio. Al diletto figlio Rollando, abate di San Salvatore sul Monte Amiata, salute e apostolica benedizione. E’ giusto e onesto, sia in forza della giustizia che della ragione, un nostro intervento perché si giunga al debito risultato. L’istituzione e la destituzione dei preti della chiesa di San Fortunato di Corneto, senza alcuna mediazione, spetta a te, rettore del Monastero di San Salvatore, così come consuetudine fino ad oggi osservata. Per ciò, dieltto figlio nel Signore, veniamo incontro alle tue giuste richieste e con l’autorità dei presenti approviamo che se qualche prete, senza il tuo permesso, desse degli ordini nella suddetta chiesa contro la vecchia consuetudine, ti sia permesso, senza tuo appello e senza altro reclamo, espellerlo dalla suddetta chiesa e privarlo del luogo e del beneficio della chiesa stessa. Dunque a nessun uomo è minimamente consentito infrangere ciò che abbiamo concesso e deciso o a suo danno contraddire. Se poi qualcuno avrà la presunzione di attentare al nostro disposto, incorra nella maledizione di Dio onnipotente e dei beati apostoli Pietro e Paolo. Dato in Laterano, dieci delle calende di giugno, anno sesto del nostro pontificato. Nota - Nel 1203 fu fatta da Pietro prete rinunzia della prepositura di San Fortunato in Corneto, perché, contrariamente al disposto della bolla qui sopra riferita, si era 1) Celestino III. Coronò Enrico IV imperatore e assicurò il trono di Sicilia al figlio di lui, Federico II. 145 impadronito dell’ufficio escludendone Bartolomeo prete, nominato dall’abate Rollando. La lite, che prima n’era venuta, fu decisa dai delegati di Ranieri, vescovo di Toscanella. Questo mio lavoro è stato sollecitato da una precisa intenzione. Dato che gli atti notarili di Corneto non finiscono qui, informo che nell’archivio della nostra Società sono conservati altri manoscritti di un notaio cornetano, certo Tommaso di Leonardo, che avrebbero bisogno di venir pubblicati in un secondo momento. Tali atti comprendono un periodo che va dal 1500 al 1505. Dopo questo periodo non ci sarebbe che andare a pescare nell’Archivio di Stato a Roma quant’altro dovesse esistere sulla vita e sulle vicende della nostra città, almeno fino a quando il nostro Comune contribuì, come tanti altri, a formare l’unità d’Italia, dopo il 1870. Bruno Blasi 146 LETTERE DEL LEGATO VITELLESCHI AI PRIORI DI VITERBO Il Cardinale Giovanni Vitelleschi, di cui tutti conosciamo la storia, divenne Legato del regno di Sicilia, con Bolla pontificia datata da Firenze il 3 maggio 1434. Le sue attività non si limitarono alla sola legazione: il Vitelleschi, più che un cardinale, era un soldato, con notevole acume militare e politico, amato e disprezzato per il piglio altezzoso e soldatesco, con ordini rigorosi ed imposizioni che erano vere e proprie minacce di rappresaglia se non si obbediva ai suoi voleri. Una dimostrazione di questo duro carattere lo riscontriamo nelle lettere scritte ai Priori che reggevano il comune di Viterbo, onde sollecitare il pagamento di somme che servivano al mantenimento dell’esercito. Queste lettere, fedelmente trascritte nelle “Reformationes comunii Viterbi”, dimostrano anche i vincoli che lo legavano alla città: due noti personaggi viterbesi, Pier Paolo Sacchi, uomo fidatissimo, e Pietro dei Lunensi, cancelliere, furono per molti anni al suo servizio. I viterbesi erano ligi alla più pronta obbedienza, dato che il personaggio era degno del massimo rispetto. Il carteggio con il comune di Viterbo va dal 1435 al 1440, poco prima della morte del Cardinale, avvenuta il 19 marzo 1440 in Castel S. Angelo e parla principalmente del “subsidium” e della tratta del sale. Il primo era, come dice il nome, un sussidio, una somma che il comune metteva a disposizione del richiedente, meglio dire su sua imposizione, e che per Viterbo ammontava a ben 1500 ducati d’oro l’anno che erano pari ad una “terzeria”. Il comune di Viterbo era diviso in terzieri (tre) o rioni. Si nominavano quattro esattori che riscuotevano la “terzeria” una per ogni rione della città, pari perciò a 500 ducati a terziere. Ad ogni 147 esattore era consegnato un elenco, parrocchia per parrocchia, dei soggetti da tassare in proporzione al proprio reddito. Le terzerie si riscuotevano in un periodo di cinque giorni, durante i quali erano chiuse le porte della città. Si trattava perciò di una vera e propria taglia destinata appunto al pagamento dei capitani di ventura e delle loro bande di cui si serviva la Santa Sede. Introdotta da Papa Bonifacio IX nel 1398, essa doveva pagarsi alla Camera Apostolica in tre rate annuali: una ogni quattro mesi. Il periodo di cui parliamo era tra i più tristi, per le continue lotte fra fazioni, ed i Comuni del Patrimonio di S. Pietro avevano le casse letteralmente vuote e per di più pieni di debiti per far fronte alle necessità della popolazione. Il Vitelleschi in parte pregava ed in parte minacciava, ben sapendo le condizioni in cui versavano i Comuni. Ma i soldi “dovevano uscire fuori”, altrimenti, scriveva ai Priori di Viterbo “ve costerà più la salsa che la carne”, minacciando che le somme dovute sarebbero state riscosse dai suoi condottieri, i quali erano peggiori delle cavallette, poiché facevano precedere e seguire la loro venuta da devastazioni e saccheggi del territorio e delle città con ruberie, malversazioni ed altro, oltre a pretendere il pagamento dei 1500 fiorini d’oro. In una di queste lettere, datata da Corneto il 20 Maggio 1435, si legge: “.... alla deliberatione sopra el fatto del danaro (i famosi 1500 fiorini) facta dal vostro Consiglio commendiamo la vostra diligenza; et perché el denaro per poter conducere la gente d’arme, come vi dicemmo, è necessario, perché da noi non ne havemo, pregamovi che senza exceptione provediate che quando saremo venuti colà gente d’arme, che serà fra pochi dì, sieno apparecchiati li mille cinquecento ducati. Advisandovi che domattina ci partiremo da qui, et gimo a Roma et subito colla gente daremo la volta”. Evidentemente il Comune di Viterbo fece delle rimostranze, tentando di sfuggire o di ritardare il pagamento dell’ingente somma. Ma il cardinale rincara la dose da Roma, con lettera in data 6 Aprile 1436: “... Saria nostra volontà non darvi affanno né gravezza; ma avendo la gente come noi avemo, non potemo fare di meno, perché tutto “l dì semo infestati da loro, et tenere altramente non si possono. Pertanto vi comandamo che infra dece dì degiate aver mandati et pagati mille fiorini d’oro per lo subsidio di un anno proximo passato, et una terzeria che al presente finisce, come voi sete tenuti: et a noi farete servitio, et voi leverete di carico ed affanno. Altrimenti passato el dicto termine, ci sarà necessità di dare li dicti denari et pagamenti ad alcuni di questi conductieri, li quali verranno là et non senza danno e rincrescimento vostro, lo quale riputamo nostro, li vorranno...”. 148 Come il lettore avrà notato, il cardinale non pretende più la somma di 1500 ducati, ma solo di Mille. Ciò non per compassione, ma perché i precedenti 500 fiorini erano già stati pagati al capitano Giorgio da Narni che era venuto a soggiornare a Viterbo con la sua compagnia (lettera da Roma 24 Maggio 1435). Il comune di Viterbo, con sforzi inauditi, riuscì a raggranellare il denaro, ma nel 1436, con la nuova “terzeria” fu costretto a dare in pegno gli orti della valle del Caio, “il più bel gioiello”della città. Per gli anni successivi la città fu di nuovo vessata dalle “terzerie”, ed i priori, risparmiando all’osso, ci fecero uscire anche una tazza d’argento, quale dono per il cardinale con la speranza di renderlo più comprensivo. Ma le necessità del Nostro erano sempre più impellenti, in quanto che, dopo la vittoria sui Colonna, doveva presidiare con altri soldati i castelli tolti alla nobile famiglia romana. Fu necessario perciò assoldare altre truppe, con nuove spese. Il Legato Vitelleschi allora pensò alla “tratta del sale”. Si trattava semplicemente di imporre l’acquisto forzoso, da parte delle città del patrimonio, Viterbo compresa, di una quantità di sale, inviando il ricavato alla Camera Apostolica. Il Comune poi doveva costringere i cittadini, a seconda dei loro redditi, ad acquistare un certo quantitativo di sale. E Corneto, direte voi? Essendo la città del Cardinale, ne era esente! In data 1 Giugno 1437 il Vitelleschi impose alle terre del Patrimonio di mandare a Corneto inviati per acquistare dalle saline il quantitativo di sale imposto per Comune. A Viterbo furono imposte 300 rubbia di sale, poi ridotte a 200. Dalla lettera datata in Roma I Gennaio 1437 si evince che: “... Poiché dunque per mantenere e governare queste genti (si riferisce all’esercito) dalle quali siamo sostenuti nei turbini della guerra ed a voi è stata offerta abbondanza di rifornimenti alimentari e voi che giacete a terra ora godete della pace molto desiderata e queste ed altre province della Chiesa sono difese ed i nemici frenati, c’è bisogno di moltissimo denaro; stabiliamo che voi, devoti figli della stessa chiesa e insieme le altre comunità e signori di ogni luogo in misura maggiore, essendone necessità, siate chiamati a rafforzare una tale prospera pace gravandovi di un contributo. Ordinandovi, in conseguenza di queste cose, che viste le condizioni presenti, di chiedere a Corneto 300 salme di sale per voi e per la vostra contea, sotto pena di 3000 fiorini d’oro delle casse statali; se non avete denaro da consegnare subito, diamo incarico al doganiere di Corneto di dare a credito a voi questo denaro fino alla Quaresima. Voi dunque figli della Chiesa...”. I Priori di Viterbo dapprima protestarono, poi si assoggettarono, inviando al Cardinale un prezioso anello d’oro. Il Patriarca rispose che il balzello non sarebbe stato 149 rinnovato, come si legge dalla lettera inviata a Viterbo, il 13 Gennaio 1437.... e che nel futuro sarete esentati dal pagamento di questa tassa del sale e nemmeno per il presente ne sarete stati gravati se non ci avesse costretto la necessità di queste genti amate che abbiamo...”. E’ inutile dire che la promessa non venne mantenuta: infatti il 23 Ottobre 1438 impone al comune di Viterbo la tratta di 400 rubbie di sale da prelevarsi nelle saline di Roma e successivamente ribadita con lettera del 3 Ottobre 1438: “.... et per defendere pace e tranquillità vostra e de tucta la provincia; per poter supplire al pagamento de le genti conducte et che si conducono, ve commandiamo mandiate per voi et per lo vostro contado per quattrocento rughia de sale in Roma (un rubbio equivaleva 3 ducati d’oro), al doganiere deputato per noi, per tucto lo mese di ottobre prossimo; et li denari del decto sale agiate pagati per tucto novembre seguente,....”. Ai viterbesi caddero letteralmente le braccia: visto che era impossibile togliersi da dosso il balzello, decisero di comportarsi come per il “sussidio” delle terzerie, già citato: nominarono per ogni parrocchia della città degli ufficiali che, a loro rischio e spesa (sic!), dovevano recarsi presso le saline di Roma, Civitavecchia o Corneto ad acquistare il quantitativo di sale imposto alla terzeria, onde costringere i cittadini ad un acquisto forzoso a seconda dei ruoli fiscali ai quali erano iscritti, in modo da riscuotere il prezzo ed inviarlo alla Camera Apostolica. I poveri non furono esentati dal pagamento. La tratta fu di nuovo imposta con lettera da Montoro il 16-10-1439: “... è necessario mantenere la gente dell’arme colla quale avemo cacciato la guerra di terra di Roma et de le province vicine. Et per avere la possibilità ad possedere mantenere le dicta gente d’arme, la Santità di Nostro Signore ci à per expresso comandato che per questo anno doviamo porre lo sale nella forma fu posto l’anno passato; presertim per poter più comodamente conducere la Santità Sua a Roma, perché nel mese di marzo intende al tucto ritornare alla sua Sedia...” “.... per finire ad mezzo novembre proximo avute levato dalla salara de Roma rughia quattrocento di sale, come l’anno passato, et per fino al mezzo decembre proximo aviate pagato lo dicto sale ad rascione di ducato d’oro tre per lo rughio...”. Come abbiamo letto, la somma era anche necessaria per il pagamento del trasferimento del Papa Eugenio IV da Firenze, dove si era rifugiato per sollevazione del popolo romano, a Roma. Fin qui accanto ci eravamo proposti di illustrare. Attraverso la lettura delle lettere ci facciamo un’idea del carattere dispotico del nostro Cardinale. I tempi erano quelli che erano e chi comandava non andava tanto per il sottile pur di raggiungere lo scopo prefisso. Tuttavia, a conclusione, possiamo affermare che il Vitelleschi ebbe il merito di riportare 150 l’ordine a Roma e nel Patrimonio, dopo aver sterminato i Colonna, abbattuta e definitivamente estinta la famiglia Di Vico, prefetti di Roma molto turbolenti, con la decapitazione di tutti, proprio tutti, compresi i ragazzi della famiglia, ed altri tiranni grossi e piccoli. Era il solo mezzo per riportare la pace in una regione dominata da signorotti rissosi, prepotenti, che nutrivano un odio secolare tra loro come i Colonna e gli Orsini. Lo scopo unico del Nostro fu di riportare il Papa a Roma: Eugenio era un uomo debole, indeciso, capace di grossi rancori, ma di mentalità ristretta. Il cardinale fu mal ripagato, come sappiamo, per questa fedeltà. Ma questa è un’altra storia. Antonio Pardi DAI REGISTRI DEGLI INFERMI: OSPEDALE DI S. CROCE IN CORNETO (XVIII - XIX sec.) “Beato si può dir che sia colui ch’impara il viver suo a spese altrui”. Con questa massima si apre uno dei numerosi registri degli infermi dell’Ospedale di Santa Croce di Corneto, custodito presso l’archivio storico dell’Ospedale civile di Tarquinia. Fin dal 1600 erano tenuti appositi registri in cui venivano segnati i dati anagrafici e le cause del ricovero dell’infermo. Fin dall’antichità esistevano in Corneto numerosi ricoveri per malati, ed il primo di cui si abbia notizia è quello di Santo Spirito in Sassia, gestito dai frati dello stesso Ordine. 151 Nel 1447, in Via delle Torri iniziò la costruzione di un nuovo ospedale la cui erezione venne ricordata da una epigrafe situata sulla porta d’ingresso: “1447. Pietro di Matteo, nominato da Nicola V, Pontefice Massimo, curò questo ospedale, cui dette inizio da Priore e che terminò da Precettore di tutto l’ordine generale di S. Spirito”. Sempre nello stesso periodo fu eretto l’ospedale di S. Giovanni Gerosolomitano appartenente all’ordine degli Ospedalieri di Malta. Di questo ospedale si hanno poche e discordanti notizie. Ordini monastici e ospedalieri e varie Confraternite gestivano a Corneto altri luoghi di ricovero: l’Ospedale della Misericordia, in piazza Matteotti; l’Ospedale di San Clemente, nel palazzo dell’Università agraria; l’Ospedale dell’Annunziata, nei pressi della Chiesa dell’Annunziata; l’Ospedale delle Repentite, vicino la Chiesa di San Giacomo; l’Ospedale di Santa Caterina, a fianco delle Chiese del Salvatore e dell’Annunziata. Un altro Ospedale viene citato, in una memoria, come esistente in Via di Porta Castello nel cosiddetto Granaio del Vescovo, ed era stato utilizzato in un periodo precedente come magazzino. Questi luoghi erano considerati tuttavia solo come centri di accoglienza per anziani e pellegrini in quanto di veri e propri ospedali si possono citare solo l’Ospedale di Santa Croce e quello femminile del quale non ci è stato tramandato correttamente il nome. L’Ospedale di Santa Croce fu fondato da Arcangelo Carli, Mario Cerrini, Gabriele Polidori, Scipione De Alexandris, tutti cornetani i quali contribuirono economicamente alla sua erezione, nell’attuale Via Garibaldi avvenuta nel 1530, anche se alcune leggende la fanno risalire alla fine del 1000. Gestito inizialmente dalla Confraternita del Gonfalone di Corneto, fu ceduto dalla stessa Confraternita al Comune che lo gestì fino al 1586, tramite i Regolari di San Giovanni di Dio. Nel 1570 Pio V aveva affidato a Fra Rodrigo Segunte dell’Ordine di San Giovanni di Dio di Granada la gestione degli ospedali in funzione o da fondare a patto che i prati vivessero e operassero secondo la Regola di S. Agostino. I Sacerdoti, il rettore ed i confratelli dovevano sottoporsi alla regolamentazione giuridica del vescovo locale, erano tenuti a giustificare le elemosine ricevute per l’ospedale anche se quanto riscosso era amministrato dagli stessi ecclesiastici. Il 12 maggio 1576, Papa Gregorio XIII sancì che tutti i fedeli, senza distinzione di sesso o di classe sociale, potessero essere accolti in ospedale per farsi curare. “... Facciano a gara di carità per curare gli infermi, cercando in essi il vero Cristo e, nelle piaghe dei malati, le piaghe di Cristo”. Gregorio XIII dettò alcune regole anche sul funzionamento dell’ospedale: “I pazienti debbono soggiacere all’ordine delle persone incaricate... Venuto l’infermo e messosi a letto, 152 si inviti e si appresti alla confessione.... Gli si taglino i capelli e le unghie e gli si lavino le mani, i piedi e tutto il corpo con acqua tiepida, o come parrà al medico. Gli si faccia vestire una camicia bianca ed una berretta e si metta a letto con lenzuoli e cuscini bianchi e, se sarà necessario, si scaldi il letto. Dopo che sarà a letto, verrà un fratello che se ne prenderà cura ed annoterà in un libro tutti i suoi averi: nome, cognome, patria, se avrà moglie e non, con altre notizie necessarie e quando uscirà dall’Ospedale, lo si annoti a margine, e lo stesso si faccia se morirà. In caso di decesso tutto ciò che apparteneva al defunto, indipendentemente dalla quantità del valore, rimarrà in possesso dell’ospedale, in virtù di una antica consuetudine di questo Ordine religioso. Il medico visiterà i malati due volte al giorno e allora si suonerà una campanella, affinché accorrano gli infermi, speziale e barbiere. Ciascuno di essi avrà un libro dove verranno riportati gli ordini del medico sul mangiare, bere e prescrizioni mediche. L’infermiere maggiore avrà cura che sia adempiuto quanto prescritto; il fratello maggiore si procuri di assistervi... Si esortino i malati a sopportare il male e le sofferenze come penitenza per i peccati. Ai deboli si diano energetici e quanto altro ordinato dal medico. Non si dimetta alcuno fino che non sarà ordinato dal medico e, se nell’ospedale ci sarà un luogo per convalescenti, vi si tengano alcuni giorni. Se non vi fosse un tal posto, si mandi ad altro luogo o città, ove saranno tali comodità... Si abbia cura grandissima di aiutare a morire bene ed il fratello maggiore incarichi almeno un fratello di buon spirito e con lumi accesi, acqua benedetta e quant’altro usato in simili circostanze. Quando sarà morto, si tolga dalla corsia con un lenzuolo; con Crocefisso e candele e, recitando il Miserere, si porti in cappella e si predisponga il cataletto e, recitando il Responsorio, vi si lasci... Ogni lunedì si reciti una messa cantata per le anime dei defunti in ospedale, e, se fosse festivo, si trasferisca detto obbligo il primo giorno libero.... Dove si è soliti ricoverare le donne, si predisponga un luogo separato, ove non possono entrare gli uomini, ad eccezione dei medici. Si prenda un’infermiera di almeno quaranta anni, dello stesso Ordine dei Fatebenefratelli, la quale si regolerà con le stesse norme dettate per gli uomini, alla quale sarà consegnato quanto sarà necessario. Alla visita delle malate si presenti sempre un fratello maggiore, il farmacista ed il barbiere”. Non è dato sapere se tutte queste norme furono effettivamente rispettate. Il 1 Ottobre 1588 il Papa Sisto V stabilì che i frati professassero un quarto voto, oltre ai tre già previsti: aiutare i poveri e i bisognosi. Stabilì inoltre che la Compagnia fosse denominata dei Fratelli di S. Giovanni di Dio e che i Frati si riunissero in un Capitolo Generale. Furono infine eletti il Generale, il Priore e altri superiori ai quali fu demandato il compito di visionare ed ispezionare gli ospedali. 153 A causa delle pessime condizioni ambientali, nel 1590 i frati abbandonarono l’Ospedale di Santa Croce. Fu un duro colpo per la città e per il Comune che, in risposta al gesto, adottò una deliberazione nella quale stabiliva che per il futuro l’Ospedale non sarebbe stato più conferito a questo ordine. Ma nell’agosto del 1592 l’ordine fu revocato e l’ospedale venne concesso nuovamente ai Fatebenefratelli, stavolta a condizioni ben precise. Fu sottoscritta una convenzione nel palazzo del magistrato alla presenza di Nardo Benedetti, Raffaele Tubicina, Sante Raffaellis di Orbetello, del notaio Fabio Lelj e del Padre Priore. Il Gonfaloniere Antonino Risi e l’Ufficiale Comunale, Antonio Rota, firmarono per il Comune. Interessante da un punto di vista storico è la lettera al Monsignor Governatore di Viterbo con cui lo si informava del nuovo insediamento dei frati Fatebenefratelli nell’Ospedale di Santa Croce: “Illustrissimo e Reverendissimo... Monsignor Reverendissimo nostro Vescovo ci ha inviati alcuni Fatebenefratelli esortandoci a doverli ammettere al governo dell’Ospetal nostro di Santa Croce assicurandoci che loro si contenteranno come essi ancora ci hanno promesso che da noi li sia amministrata quella medesima provisione che altre volte della Comunità nostra gli fu destinata di cinquecento scudi l’anno oltre all’entrate di detto Hospitale, et che di più staranno sotto obbedienza di Vs. Illustrissimo et che loro siano deputati dui homini che li possino veder... loro; dove che habbino risposto a Reverendissima che avendo noi un decreto di Vostra Signoria Ill.ma che ci ordina che intorno a questo non dovranno eseguire altro stante necessità della Comunità nostra. Ma perché questo ci è parso un partito molto buono e necessario per servizio di questi infermi et la Comunità nostra non vi cresce spesa alcuna ci è parso darne ragguaglio a Vs. Ill.ma la qual ancora ne verrà avvisata da Mons. R.mo nostro Vescovo, perché parendogli che questa buon opera s’habbi a seguire ce ne voglia dar ordine revocando in tutto e per tutto ‘l decreto fatto da Vs. Ill.ma in visita sopra questo particolare. Inoltre perché M. Antonio Coluzzello quale andò a Roma ad esaminarsi sopra la lite che habbiamo con il Sig. Viperesco ci promise che avrebbe mandato un altro ingelligente a rivedere i condotti sotterranei per mandarlo poi a Roma e farlo esaminare.... et ancora non viene; però preghiamo che l’autorità sua ci aiuti con detto M. Antonio che ci voglia mandar subito detto huomo perché ‘l tardare ci potrebbe nocere assai in negotio di tanta importanza. In Corneto addì 23 luglio 1592”. (Colloc. Archivio Storico Comunale di Tarquinia, registro di Lettere 1587-1596). Curiosa anche una nota spese del 1617 sempre relativa a Santa Croce: “Al Cappellano delle Cappelle delli Signori Vitelleschi scudi quindici moneta se li deveno per... della casa di detta cappella concessa al venerabile Hospitale di Santa Croce per il servizio 154 della fabrica che si fa per ampliare detto hospitale a beneficio dei poveri infermi tutto conforme alla deliberatione del consiglio approvata dalla Sacra Congregazione del Bon Governo come al libro dei consigli dell’anno 1615 al foglio 56 sc. 15 più deve havere per l’anno 1618 sc. 15 più havere per l’anno 1619 più sc. 15 per l’anno 1620 sc. 15 (Coll. Archivio Storico Comunale di Tarquinia: Registro degli speculi 1617/1620). Dal punto di vista strutturale, l’Ospedale maschile era formato da due corsie ed una farmacia. Nella prima corsia si trovavano dieci letti, nella seconda invece quattro letti. La farmacia era ampia e funzionava come l’attuale pronto soccorso. Il corpo sanitario era composto da due medici, due infermieri, un priore, un vicepriore, un farmacista ed un barbiere. L’ospedale non accoglieva i fanciulli abbandonati, compito affidato all’ospedale di Santo Spirito, mentre i malati contagiosi venivano immediatamente inviati al lazzaretto nei pressi della chiesa di San Leonardo. I sifilitici venivano subito trasferiti tra i malati incurabili dell’Ospedale Minore di San Leonardo. Coloro che morivano in ospedale erano sepolti nel cimitero di San Giacomo. Nel 1629 l’ospedale fu ristrutturato: la prima stanza adibita a corsia venne ampliata fino alla porta laterale della Chiesa di Santa Croce. Nel luglio del 1856, in seguito ad una epidemia di colera che rilevò una grande inadeguatezza dell’ospedale, si propose l’ampliamento dello stesso; in particolare si propose di trasformare la chiesa in padiglione ospedaliero, con il trasferimento della Confraternita del Gonfalone in altro luogo. A San Giovanni invece, vicino l’ospedale di Santa Croce, esisteva un piccolo ospedale femminile. Era composto da due stanze con tre letti e la sua gestione era affidata ad Illuminata Fani. La rettrice dell’ospedale veniva eletta dalla comunità cornetana mentre le cure mediche erano prestate dai Fatebenefratelli. Nel 1729 il Procuratore dei poveri di Corneto fece istanza al vescovo Bonaventura affinché si provvedesse all’erezione di un nuovo ospedale femminile che avvenne successivamente nella attuale via del Duomo. Era composto da due piani: al primo fu insediato l’orfanotrofio femminile, al secondo l’ospedale vero e proprio. La gestione del nuovo complesso fu affidata inizialmente ad una certa Vincenza mentre la cura religiosa al Prevosto Cesari. Fu predisposto anche uno statuto riguardante l’amministrazione dell’ospedale che prevedeva un Consiglio formato dal Vescovo, da due sacerdoti e da quattro consiglieri secolari. Nel 1818 l’ospedale, ormai deterioratosi, si trasferì in Via dell’Orfanotrofio e fu ampliato per ben due volte. Nel 1863 il Vescovo Bisleti affidò l’ospedale e l’orfanotrofio alle suore dell’Ordine di San Vincenzo dé Paoli. 155 Analizzando i registri degli infermi dell’Ospedale di Santa Croce di Corneto scaturiscono alcuni punti. Innanzitutto veniva registrata solo l’entrata in ospedale dell’infermo e non l’uscita. In caso di morte veniva apposta, accanto al nome del paziente, la paternità (nel caso in cui il padre del malato era defunto veniva usato il termine “quondam”, gli anni, l’occupazione e la causa, molto sommaria, del ricovero. La calligrafia a volte cambiava anche nel giro di pochi giorni e questo lascia presupporre che non era sempre la stessa persona addetta a questo compito. Riportiamo dunque qui di seguito alcuni passi tratti dal registro degli infermi dell’Ospedale di Santa Croce di Corneto. Lullio 1705 Addì 2 lullio. Giuseppe figlio del Quondiam Bastiaro della Manona di Perugia di anni 30 arte sua contadino venne con febbre. Addì 6 lullio. Giuseppe figlio del quondam Francesco Martinelli di Carpegnia di anni 27 arte sua contadino venne con febbre. Addì 6 lullio. Giuvanny figlio del quondam... antolotti di Parma di anni 20 arte sua contadino venne con febbre. Addì 9 lullio. Pietro figlio di Giammatista di Vincenzo di San Piero di Vallo di anni 23 arte su contadino venne con febbre. Addì 9 lullio. Francesco figlio del quondam Antonio Stortino di Orvieto di anni 23 arte sua contadino venne tarantolato. Addì 10 lullio. Feline figlio del quondam Contilio di Antonio di Orvieto di anni 23 arte sua contadino venne tarantolato. Addì 10 lullio. Francesco figlio del quondam Domenico Capanna di Urbino di anni 23 arte sua contadino venne tarantolato. Addì 10 lullio. Antonio figlio del quondam Andrea di Girolamo della Città di Castello di anni 50 arte sua contadino venne con febre. Addì 11 lullio. Domenico figlio del quondam Giuvanni Costa della Tolfa di anni 32 arte sua fattoretto venne con febre. Agosto 1705 Feline Antonio figlio del quondam Cintia Di Tommaso di Santo Felice Stato di Caserta di anni 40 arte sua vacharo venne con febre. Morto. Giacomino figlio di Domenico Di Francesco di Arezzo di Toscana di anni 21 arte sua contadino venne ferito. Lorenzo figlio del quondam Bastiano Di Pinniany di Bersigalla Stato del Papa di anni 30 arte sua contadino venne con febre. Consenniò Paoli 13. 156 Dicembre 1705 Addì 20 dic. Gio del quondam Bastiano Brinafino di Faenza di anni 23 arte di campagna venne col mal di petto. Addì 20 dic. Pietro di Francesco da Gualdo di Nocera d’anni 29 pecoraio venne con febre. Addì 20 dic. Giacomo del quondam Antonio Bramucci di Rimini d’anni 31 arte di campagna venne con febre. Addì 22 dic. Pietro del quondam Marco di Paganea di anni 63 mendicante venne con febre. Morto. Addì 22 dic. Pietr’Antonio del quondam Sebastiano Franceschelli di Arcidosso di anni 37 ortolano venne con puntura. Morto. Addì 22 dic. Sebastiano del quondam Gio da Montefeltro di anni 24 di campagna venne con febre. Addì 25 dic. Paolo del quondam Carlo da Castaglione del Lago d’anni 37 ortolano venne con febre. Addì 26 dic. Pietro del quondam Domenico Calandrelli da Manciana diocesi della Penna venne con febre. Addì 27 dic. Tomaso del quondam Domenico Conticelli da Scanolino d’anni 60 arte di campagna venne con febre. Addì 27 dic. Domenico del quondam Lodovico Carli di Faenza d’anni 40 arte di campagna venne con mal di petto. Morto. Addì 27 dic. Cosimo del quondam Santo Mori di Fiorensa di anni 43 arte di campagna venne con puntura. Morto. Addì 29 dic. Benedetto di Giulio da Cantiano di anni 30 venne con febre. Addì 29 dic. Francesco del quondam Francesco da San Paolo dioc. del Borgo San Sepolcro di anni 30 vaccaro venne con mal di petto. Morto. Addì 30 dic. Francesco di Giuseppe di Sistino di anni 22 arte di campagna venne con puntura. Addi 30 dic. Venantio del quondam Pietro Sanna di Camerino di anni 22 pecoraio venne con febre. Gennaio 1706 Addì 2 gennaio. Domenico di Giacomo da Pistoia d’anni 30 arte di campagna venne con febbre e stordito. Morto. Addì 2 gennaio. Carlo del quondam Domenico della Tolfa d’anni 24 arte di campagna venne con puntura. Morto. 157 Addì 7 gennaio. Rafaele di Giuseppe Caimmi da Sinco dioc. di Palma di anni 26 di campagna venne con febbre. Addì 20 gennaio. Domenico di Gio Ricciardi da Bolano dioc. di Sarzana di anni 30 arte di campagna venne con mal di petto. Addì 22 gennaio Paolo del quondam Carlo da Castiglione del Lago di anni 37 ortolano recidivo. Morto. Addì del 31 gennaio Simone del quondam Gio da Castelnuovo dioc. di Sistino di anni 60 arte di campagna venne con mal di petto. 1715 Tomaso di Giò Giacomo di Città di Castello di anni 11 monello venne con febbre. Giacomo di Antonio Pieri di Carpegna di anni 28 befolco venne con febbre. Rocco di Paolo Cionni di Pistoia di anni 23 vignarolo venne con febbre. Paolo Maria di Francesco di anni 25 calzolaio con piaghe in una gamba. Bartolomeo di Giò Serafini di Barga di anni 20 homo di campagna venne con febbre. Lorenzo di Carlo Di Francesco di Caprese, di anni 16 monello venne con febbre. Morto. Gasparo del quondam Antonio Carnicelli di Lucca di anni 49 homo di campagna venne con febbre. Morto. Simone del quondam Francesco Moretti di Pesaro di anni 30 homo di campagna venne con febbre. Morto. Antonio del quondam Matteo Croce di Pontremoli di anni 50 cassengo. Gio Cristoforo di Francesco di Parciullo diocesi di Urbino di anni 36 homo di campagna venne con febbre. Morto. Carlo del quondam Antonio Ceccarelli di anni 26 homo di campagna venne con febbre. Morto. Gio Batista del quondam Gio da Casentino di anni 12 monello venne con febbre. Gio di Lorenzo Lorenzetti da Pontremoli di anni 15 monello venne con febbre. Santi di Antonio Christofani di Figiano diocese di Urbino di anni 13 monello recidivo. Morto. Antonio del quondam Francesco Pessi di Scurano diocese di Parma di anni 13 monello recidivo. Morto. Giò Batista del quondam Giovanni Fiorani di Sarzana di anni 13 monello venne con febre. Gio Antonio di Gio Batista marchegiano di anni 24 monello con febbre. 158 Paolo del quondam Francesco Nicoletti da Cassentino di anni 24 homo di campagna venne con febbre. Francesco Antonio del quondam Giacomo Palancha di Urbisaglia di anni 21 vignarolo con febbre. Pietro di Marco Stoppioni di Arezo di anni 25 cassengo venne con febbre. Domenico di Pelegrino da Parma di anni 26 vignarolo venne con febbre. Ecco un esempio, sempre nel 1715, di un’epidemia di rosolia (chiamata allora Rossalia) e di come una volta era necessario il ricovero ospedaliero. Siamo nel mese di maggio: Addì 21 mag. Francesco del quondam Giò Maria da Visso di anni 18 pastore con Rossalia. Addì 21 mag. Agostino di Gio Batista Torello da La Penna di Bille di anni 21 homo di campagna venne con febbre. Addì 21 mag. Francesco di Domenico Ferroni di Pistoia di anni 11 venne con Rossalia. Addì 22 mag. Francesco di Antonio Di Marco dell’Aquila di anni 14 monello venne con Rossalia. Addì 22 mag. Antonio di Felice da Bologna Bastardo di anni 14 monello venne con Rossalia. Addì 22 mag. Mario di Gio Francesco Giovagnioli di Caprese di anni 18 cassengo con Rossalia. Curiosissima l’indicazione di questo ricovero: Bartolomeo del quondam Girolimo di Christofano di Caprese di anni 89 poverello venne con vecchiaia. Morto. Bartolomeo di Gio Annucei di Fiesole di anni 20 homo di campagna venne con Rossalia. Andrea di Francesco di Gio Caprese di anni 10 monello con Rossalia. Francesco del quondam Giorgio di Rinaldo di anni 45 homo di campagna venne con febbre. Domenico del quondam Silvio Rotondi di Visso di anni 25 butaro venne con febbre. Gio Batista del quondam Francesco Alegrini da Gubbio di anni 25 homo di campagna venne con febbre. Gio del quondam Paulo Brandi di S. Agata di anni 55 vignarolo venne con febbre. Pietro Antonio del quondam Francesco Zerbini di Carpegnia di anni 28 homo di campagna venne con febbre. 159 Il termine un po' vago di “febbre”, o “febre” che contraddistingue il settanta per cento delle cause del ricovero si riferisce, presumibilmente, alla malaria o ad altre malattie infettive molto diffuse in questo periodo. La malattia causò molte vittime nel cornetano in quanto il clima caldo e umido ne favoriva lo sviluppo dell’infestazione anche se questo non ne costituiva una regola. In quei tempi la malattia si riscontrava nella bassa valle del Po, nelle zone litoranee e fluviali delle regioni settentrionali mentre nelle regioni centrali, tra cui l’Agro Romano, e soprattutto la bassa Maremma, assumeva le forme più gravi con tendenza alle recidive ed una elevata percentuale di mortalità. Il concetto di palude erra sempre stato legato a quello di malaria senza che però da tale legame scaturisse la vera ragione del male stesso. Solo più tardi con la scoperta delle proprietà benefiche della corteccia di china, la malaria è stata differenziata dagli altri eccessi febbrili. Ma nonostante tutto nei malati non curati o curati insufficientemente con il chinino si osservano casi di recidive, ossia di ritorno del male. Il malato necessita di un’assidua vigilanza quale solo può fornire un ambiente ospedaliero attrezzato. Ecco spiegata la ragione dell’elevato tasso di mortalità anche nell’Ospedale di S. Croce di Corneto. Inoltre la malaria poteva esplicarsi sotto tre diverse forme febbrili (che quindi venivano considerate sempre febbri): La “Plasmodium vivax”, la più semplice dove l’accesso febbrile si ha al quarto giorno e La “Laverandia malariae” o febbre estivo-autunnale che dà una una febbre di titpo continuo, quotidiano ed è la forma più grave, quasi sempre mortale. Tra le malattie più diffuse in questo periodo (siamo negli inizi del XIX secolo) bisogna menzionare anche la tisi, vocabolo oggi in disuso con cui si designava il periodo più grave e terminale della tubercolosi, malattia infettiva dei polmoni che ha fatto numerose vittime anche nel cornetano. Sulla morte, per tisi, di una donna abbiamo una rara quanto ricca documentazione: “Noi sottoscritti Medici condotti in questa città, avendo visitata per obbligo del nostro impiego la signora Angela Rosa Marsuzi, abbiamo giudicato, e giudichiamo, che la medesima sia attaccata da un tabe polmonare del genere delle contagiose. Che è quanto, in fede Corneto 16 settembre 1802. Luigi De Bernardis, dico ed affermo mano propria, Ciriaco Camerari, dico ed affermo mano propria”. Sull’autopsia eseguita alla donna risulta questo documento: 160 “Sig. Vice Commissario di Corneto. Essendosi per ordine di questo tribunale sezionato il cadavere di Angela Rosa Marsuzi, morta col sospetto di tisichezza, si è da me sottoscritto medico osservato, che i di lei polmoni non erano più viscere spugnose, di una sostanza cavernosa e vascolare, ma bensì ‘l destro lobo molto diminuito nella sua naturale mole era un intero ammasso di tubercoli, parte duri, e parte suppurantivo; ed ‘l sinistro lobo era quasi interamente consunto da una icorosa suppurazione, e quella piccola porzione che restava, era ancora essa piena di tubercoli, che affatto ne avevano cambiato la naturale sostanza, motivo per cui sono certo parere, che donna Angela Rosa sia morta per una tabe tubercolare dei polmoni, di sua natura contaggioda, tanto posso e debbo deporre, ed affermare di averlo veduto, e toccato con mano, e di certa scienza. In fede Corneto 30 settembre 1802”. “Ciriaco dott. Camerari medico condotto. Exhibitus die prima octobris. Petrus notarius et cancellatius criminalis. Nota. Di tutte le robbe rinvenute nella stanza, nella quale passò all’altra vita Angela Rosa Marsuzi sospetta di Etisia, come in appresso. Un letto compost da un materasso, pagliaccio, due lenzuola, tre cuscini con fodera, coperta bianca, tavoli e due banchi di ferro. N 11 quadri, n. 6 sedie, un lavamano di legno con sua baccinetta, un tavolinetto di legno con suo tiretto con entro un pettine e tre ciambelle, una polacchina di seta e un... bianco, un fazzoletto torchino da naso, un abito di Calangà, una tenda di seta gialla, altra bianca da finestra con soprafinestra di legno. Quali robbe furono chiuse di chiave nella medesima stanza e quelle portate in curia per ogni buon fine, presenti a detto atto Giuseppe Benedetti del quondam Luigi Cornetano, e di Antonio fr.lli da Caprarola testimoni chiamati e rogati. Corneto questo di 2 ottobre 1802. Così è Pietro Bovi notaro pubblico e cancellier criminale. Delle suddette cose dichiaro ‘l medico a riserva de banchi di ferro, esser tutte sospette di contagio”. Proprio temendo il propagarsi del contagio, si diede inizio alla procedura per eliminare tutti gli oggetti venuti in contatto con la defunta. “Illustrissimo e molto eccellentissimo Signore. Qui annessi troverà fogli che ci ha trasmessi riguardanti l’ultima malattia della defunta Angela Rosa Marsuzi; risultando da essi fogli il sentimento del medico di essere cioè suscettibili le robbe rinvenute nella stanza della defunta, si contenterà Vs. richiamare a se il medico curante e coll’assistenza di esso e del notaio di lei tribunale venire all’incendio delle suddette robbe suscettibili, ritornando a noi in seguito i fogli suddetti con quest’altri che sarà di fare sull’incendio riferito. Così farà, che siegna, e Dio la prosperi. Civitavecchia 12 ottobre 1802. Affezionatissimo per servirla. A. Negrete Governatore generale”. 161 Questa la lettera di risposta al Governatore Generale: “Die 13 Octobris 1802. Comparse in cancelleria criminale signor Giuseppe Selli. Pervenutami in questo punto una lettera di Sua Eccellenza Reverentissima Monsignor Negrete Governatore di Civitavecchia, diretta a questo Governo, nella quale si commette di incendiare le robbe sospette di etisia inventariate nella stanza, in cui passò all’altra vita la fu Angela Rosa Marsuzi alla presenza del sig. Ciriaco Camerari medico curante, in data lì 12 corrente, che in un foglio esibisco del tenore, facendo istanza che li si dia pronta esecuzione”. (Colloc. Archivio Storico Comunale di Tarquinia: Serie Sanità 1802). Appare chiaro come allora non si nutriva una certa fiducia nei confronti dell’ospedale e della struttura sanitaria in generale. Molta gente ricorreva alle cure mediche preparate in casa, in quanto la parola ospedale incuteva terrore e grandissimo disagio. L’elevato tasso di mortalità riscontrato era dovuto non tanto alla inefficacia dei medici quanto alle carenze strutturali ed igieniche che caratterizzavano gli ospedali di quel periodo. Ed anche allora non mancavano proteste e ricorsi. Ecco, in particolare una protesta ufficiale di un paziente rivolta alla “Segreteria Pubblica Maggistrale” della città di Corneto: “Die 16 luglio 1804 E’ comparso nella Segreteria Pubblica Maggistrale della città di Corneto Luigi de Santis Birro della stessa città, il quale ha reclamato come appresso, cioè: nei primi giorni del corrente mese di luglio ebbi la disgrazia di andare infermo nell’Ospedale di S. Croce di questa medesima città, dove rimanendo curato dal Sig. Dott. Luigi de Bernardis, in vista della qual cura giornalmente mi faceva delle ordinazioni, ed in particolare di alcuni bocconi, che mai mi vennero dati, ma bensì delle bevande che, riconosciute dallo stesso Professore, il medesimo si formalizzò grandemente, avendo usata la prudenza di non parlare, ed oltre a ciò è rimarchevole che quel Priore ad ogni occasione mi diceva, che se ‘l medico mi domandava se avevo preso le medicine ordinatemi gli avessi risposto di sì, conforme ero astretto di fare, attesoché alla venuta di esso medico, mi faceva cenno che avessi risposto di sì, avendomi in ultimo licenziato dall’ospedale con tutte le febbri, delle quali ne sono rimasto libero per un vero prodigio. Che perciò in vantaggio dell’umanità ne faccio ‘l presente rapporto, affinché vi si appresti, l’opportuno riparo, potendosi sentire in contestazione dell’esposto, ‘l nominato Sig. Dottor De Bernardis. Luigi de Santi. Davide Chiarini affermo quanto sopra”. (Colloc. Archivio Storico Comunale di Tarquinia: Serie Sanità 1804). Nel 1800 i registri venivano aggiornati in modo sempre approssimativo anche se erano corredati da più notizie. Il registro era più ampio, ed era formato da due pagine, 162 nella prima era indicato l’ingresso, nella seconda l’uscita. Nella prima pagina in particolare era indicato in sequenza il numero del letto, l’anno, il giorno, il mese, il nome ed il cognome dell’infermo, le qualità più i dati anagrafici (chiamate “identiche”). Nella seconda pagina del registro erano indicati nell’ordine il giorno di uscita e le ragioni dettagliate dell’uscita. A differenza dei registri settecenteschi, compare anche il nome del medico, la scrittura appare più leggibile e abbastanza corretta, non sono inoltre specificate accuratamente le cause del ricovero che ricalcano quelle dei registri antecedenti ed anche in questi predomina la causa della febbre, tanto da rendere la sequenza monotona e non particolareggiata. Riportiamo di seguito alcuni passi tratti da un registro degli infermi dell’Ospedale di Santa Croce di Corneto. Siamo nel 1813 Ottobre 1813 - 5 Ottobre 1813. Biagio Eusebio. Figlio delli defunti Domenico e Brigida di Farnese diocesi di Acqua Pendente professione guardiano, ammogliato entrò con cancrena nella coscia asserendo di essere povero e indigente. 6 Novembre 1814. E’ sortito da questo ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Biagio Eusebio. Appare morto alle ora 3 pomeridiana del suddetto male. - 6 Ottobre 1813. Domenico Merlini figlio di Giovanni e di Maria diocesi di Macerata, anni 23 professione bifolco, giovane entrò con febbre asserendo di essere di condizione povera e indigente. 30 Ottobre 1813. E’ sortito da questo ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Domenico Merlini, appare guarito dalla sua infermità. - 6 Ottobre 1813. Luca Ricci figlio delli defunti Agostino e Lucia di Castel Porto, diocesi della Città di Castello di anni 34, professione contadino ammogliato con Lucia Ciglione entrò con febbre asserendo di essere di condizione povera e indigente. 9 Novembre 1813. E’ sortito da questo ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Luca Ricci. Appare guarito dalla sua infermità. - 7 Ottobre 1813. Giuseppe Cefanetti figlio di Michele e di Maria Domenica Della Penna di Billi anni 26 professione contadino, giovane entrò con febbre asserendo di essere di condizione povera e indigente. 3 Novembre 1813. E’ sortito da questo ospedale Giuseppe Cefanetti. Appare guarito dalla sua infermità. - 7 Ottobre 1813. Marco Maggi figlio delli defunti Giuseppe e Francesca di Monte Maggio, diocesi di S. Marino di professione vignarolo, giovane, entrò con febbre asserendo di essere di condizione povera ed indigente. 8 Novembre 1813. E’ sortito da quest’ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Marco Maggi. Appare guarito dalla sua infermità. 163 - 7 Ottobre 1813. Leonardo Gagiotto figlio del fu Domenico e di Faostina, diocesi di Gubbio anni 17, professione contadino, giovane, entrò con febbre asserendo di essere di condizione povera ed indigente. 3 Novembre 1813. E’ sortito da quest’ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Leonardo Gagiotto. Appare guardito dalla sua infermità. - 17 Novembre 1813. Anastasio Meloni figlio delli defunti Giovanni e Margherita della Valle di S. Anastasio diocesi della Penna di Billo, anni 32, ammogliato con Maria Oliva, entrò con mal venereo, asserendo di essere di condizione povera ed indigente. E’ sortito da quest’ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Anastasio Meloni. Appare guarito dalla sua infermità. - 17 Novembre 1813. Giuseppe Bordi figlio delli defunti Antonio ed Elisa di Monte Melone, diocesi di Macerata, anni 36, professione contadino, ammogliato con N.N. appare scapulo, entrò con mal d’orecchio, asserendo di essere povero ed indigente. E’ sortito da questo ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Giuseppe Bordi. Appare guarito dalla sua infermità. - 17 Novembre 1813. Giacomo Morelli figlio delli defunti Giovanni e Caterina di Carpano, diocesi di Lucca, anni 21 professione muratore, giovane, entrò in quest’ospedale con febbre asserendo di essere di condizione povera ed indigente. E’ sortito da questo ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Giacomo Morelli. Appare guarito dalla sua infermità. - 18 Novembre 1813. Francesco Jaconi figlio del fu Giacomo e Sbatina, diocesi di Bagnorea, anni 55 professione contadino, ammogliato... entrò con febbre asserendo di essere di condizione povera ed indigente. E’ sortito da quest’ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Francesco Jaconi. Appare morto alle ore 3 della mattina. - 19 Novembre 1813. Domenico Merlini figlio di Giovanni e di Maria... diocesi di Macerata, anni 23, professione contadino, giovane, entrò con febbre asserendo di essere di condizione povera ed indigente. E’ sortito da quest’ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Domenico Merlini. Appare guarito dalla sua infermità. 19 Novembre 1813. Domenico Mariani figlio delli defunti Lorenzo ed Antonia, diocesi di Cammerino, anni 20 professione contadino, ammogliato... entrò con febbre asserend di essere di condizione povera ed indigente. 29 Novembre 1813. E’ sortito da quest’ospedale degli uomini di S. Croce il dicontro Domenico Mariani. Appare guarito dalla sua infermità. Nel 1804, nel timore di una epidemia di peste, proveniente da territori limitrofi, furono adottati dei provvedimenti allo scopo di salvaguardare l’incolumità di tutte le popolazioni. Ecco lo scambio di lettere con cui si chiedeva l’isolamento dei presunti 164 portatori del morbo: “Molto Illustre ed Eccellente Signore. Si è ricevuta la lettera di V.S. in data di ieri diretta a questo governo e consegnata dal capo Landi di codesta torre, in vista della quali li due indicati provenienti dalla Toscana sono stati posti con le debite cautele in questo lazzaretto inappresso ella invigilare, che introducendosi altri da simile provenienza non commercino con veruno, al che suppongo si saranno già dati gl’ordini corrispondenti da S.E. Reverendissima Monsignore. Mio governatore generale altro dovendole le auguro dal cielo ogni bene. Di V. Signoria. Civitavecchia 5 novembre 1804 Affezionatissimo per servirla Sua Eminenza Rev.ma Mons. Gov. Ge. G. Daligne Luogotenente Generale”. “Illustrissimo e Molto Eccellente Signore. Ho ricevuto il rapporto originale dato in codesta cancelleria da Mattia Ajelli. Conviene ed interessa sommamente che ella faccia fare tutte le possibili indagini per riscoprire se in cotesto territorio trovasi Toscani introdotti clandestinamente. In caso affermativo Ella li farà immediatamente arrestare con tutte le robbe servate le cautele di Sanità, cioè senza che alcuno venga a contatto con i medesimi arrestati che saranno li trasmetterà qui con le medesime cautele. Intanto le accludo Copia di Editto della Sagra Consulta. E Dio la prosperi. Di V. Signoria Montalto di Castro 19 nov. 1804 Commissario Corneto con Editto Affezionatissimo per servirla a Negrete Delegato Apost. Ed ecco infine le “determinazioni”fissate dal governatore il 20 novembre 1804: “Inerendo alle disposizioni dell’Editto della S. Consulta emanato li 17 andante oltre le Providenze prese dal Governo in una congregazione particolare si è stimato opportuno di fissare le determinazioni seguenti fermo sempre rimanente quanto nell’Editto suddetto prescrive. Primo - La Deputazione eretta di Sanità è composta per ora dai seguenti membri: Signori Pietro Petrighi, Francesco Ronca, Guido Raffi, Gaetano Falzacappa, Arcangelo Lucidi; Pietro Lante Bruschi, Luc’Antonio Falzacappa, Giovan Battista Bruschi, Pietro Catalini, Salvatore Lastrai, Francesco Castellani. Secondo - La suddetta deputazione dovrà vigilare sopra tutti i forestieri, che dovranno introdursi in questa città e territorio ed esaminare i passaporti secondo le istruzioni che si daranno. Il Sig. Guido Raffi, uno degli attuali Conservatori è autorizzato di sistemare la Deputazione suddetta per dividerne i pesi e per distribuire le attribuzioni che ne derivano giusto le istruzioni del Governo. Terzo - Tutti quelli che hanno delle persone in campagna addette al loro servizio, tanto direttamente che indirettamente, dovranno entro il termine di due giorni presentarne il ruolo alla cancelleria Criminale, col nome, cognome e patria ed esibirne copia conforme. Quarto - Non potrà alcuno della giurisdizione benché Privilegiato, prendere al suo servizio alcun individuo proveniente da luoghi vicinori o lontani sia dello Stato, e molto meno senza licenza del Governo. 165 Quinto - Qualunque individuo che siasi introdotto nella città e territorio per servizio di chiunque, e da chiunque abbia ricetto debba denunziarsi immediatamente al governo. Finalmente e nonostante le provenienze suddette qualunque persona che non fosse di permanenza in città, benché addetta al servizio di campagna e che volesse entrare nella città stessa debba esibire alle Porte il Biglietto di sanità che verrà rilasciato dalla Segreteria gratis altimenti non avrà ingresso. Avverta pertanto ognuno di esattamente obbedire sotto le pene prescritte nell’Editto nominato, poiché in materia tanto gelosa si procederà col dovuto rigore contro qualsiasi trasgressore. Data dalla residenza di Corneto questo dì 20 nov. 1804 Francesco Ciancaleone Governatore”. L’Ospedale di Santa Croce si trasferì nel 1933 nel complesso attualmente operante. Il vecchio ospedale fu utilizzato come sede della Gioventù Italiana del Littorio (G.I.L.) fino a quando i bombardamenti della seconda guerra mondiale lo danneggiarono gravemente. Attualmente è utilizzato per abitazioni. In questa breve trattazione si è cercato di mettere in evidenza i retroscena, positivi o negativi, di un complesso ospedaliero considerato molto importante all’epoca, estrapolando per quanto possibile, e non di certo estrema facilità, quei dati nascosti ed inediti. Bisogna considerare che gli ospedali che noi conosciamo, si sono evoluti soprattutto in questo ultimo secolo con l’adeguamento delle condizioni sanitarie ai moderni criteri igienici. Gli ordini religiosi con tradizioni di infermierato hanno lasciato il posto al progresso nel campo delle diagnosi e della cura che hanno reso l’ospedale moderno una istituzione estremamente complessa, tanto che molti dei pazienti, siano essi degenti o vi si rechino per esami, si rendono solo parzialmente conto dei servizi esistenti dietro le quinte. Mentre nei secoli passati si guardava all’ospedale con terrore oggi, nonostante tanti problemi non ancora risolti, ci si avvicina con fiducia perché solo in questo secolo siamo arrivati a comprendere come funzionino realmente una mente ed un corpo sani; e sebbene le cure sanitarie moderne si biasino ancora in parte sulle tradizionali conoscenze empiriche, esse si avvalgono sempre più delle analisi e delle scoperte scientifiche. Giulio Cesare Giannuzzi 166 C’ERA UNA VOLTA A TARQUINIA Storia di un cavallo e di un fantino. In questo nostro BOLLETTINO dell’ANNO 1990, ho ritenuto cosa buona riportare integralmente quanto ebbi a scrivere trent’anni fa, per richiamare alla memoria di coloro che vissero quel periodo ormai lontano la storia di un eccellente fantino di nome GUGLIELMO FABBRIZZI e di un meraviglioso cavallo di nome VALENTINO. Negli anni venti, l’ippica era lo sport più sentito e seguito dai tarquiniesi ed il momento che ricordo fu uno dei più belli e prestigiosi che resero famosa la nostra città oltre i ristretti confini della provincia. Ciò detto lasciamo parlare i protagonisti di quel brillante momento “Qualche decennio fa l’Ippica dettò legge tra la nostra gente. Esisteva anche una Società Ippica Tarquinia ed il Presidente era il sig. Dorindo Proli sotto il cui appassionato impulso la Società si fece un nome, imponendosi spesso all’attenzione degli addetti ai lavori di varie parti d’Italia grazie alla qualità dei cavalli e dei fantini. Altro che calcio! 167 E guai se un simile spettacolo non trovava posto nel programma delle tradizionali feste popolari di maggio in onore della Patrona Maria Santissima di Valverde. I comitati organizzatori di allora dovevano preoccuparsi principalmente di questo male comune ed accontentare un po' tutti con un nutrito programma di corse col fantino che costituiva il piatto forte dei festeggiamenti. Oggi, purtroppo, nessuno parla più di queste cose, nessuno pensa più alle famose corse di cavalli col fantino. Gli uomini di oggi puntano altrove lo sguardo per trovare altri divertimenti per un pubblico sempre più esigente ed incontentabile, dai gusti più svariati e difficili. Chi non ricorda quei bei tempi? Tempi più semplici e forse migliori di quelli che attualmente viviamo anche se oggi, un OGGETTO MERAVIGLIOSO, un ordigno spaziale creato e guidato dall’uomo e che ha del divino, gira meravigliosamente attorno al nostro pianeta e ci dice che non è più possibile rimanere ancorati in eterno al passato e che la LUNA, per secoli cantata, ammirata e sognata, sta per essere conquistata. Furono il 1925, il 1926 ed il 1927 gli anni più belli e più felici per gli appassionati di questo sport ormai al tramonto; gli anni che dettero le maggiori soddisfazioni e le più belle vittorie. La presenza di varie scuderie di fama come la Scuderia Alto Lazio del cav. Fancelli, la Daria di Firenze, la Scuderia Conte Marini di Orvieto, la Scuderia Copponi di Tuscania, la Scuderia Proli di Tarquinia ed altre minori, in possesso di cavalli di grande valore contribuirono in maniera decisiva allo sviluppo ed alla affermazione di questo sport. Ma come ricordare tante cose appartenenti ormai ad oltre un trentennio fa? Per farlo abbiamo pensato di avvicinare un caro amico, un ottimo fantino che tutti conoscono ed al quale brillano gli occhi al semplice ricordo del “suo” magnifico cavallo e delle imprese delle quali furono primi attori. E’ Guglielmo Fabbrizzi, tarquiniese puro sangue come e più del cavallo che montava. E Guglielmo ci parla della sua carriera e delle sue corse con una memoria ed un calore sorprendenti e addirittura commoventi quando entra in scena “Valentino”. “VELENTZIUM” meglio conosciuto col nome di Valentino - è Guglielmo che parla era un cavallo ungherese della razza Siroland, arrivato fino a noi in seguito alla squalifica che aveva colpito cavallo e cavaliere. Un cavallo meraviglioso nella linea, intelligentissimo, potente, insofferente a qualsiasi richiamo. La sua grave lacuna era la partenza. Infatti non partiva e quando lo faceva avveniva sempre in ritardo, fermandosi spesso lungo il percorso. Fu acquistato dallo scomparso Domenico De Simoni, appassionato allevatore locale, per duemila lire. Vari fantini si avvicendarono alla monta del “ribelle” ma senza alcun risultato. Fu nel 1926 che io lo ebbi in consegna. Ne feci di tutti i colori per ridurlo alla ragione, per fargli capire cosa volevo da lui. Fu un lavoro duro, difficile, pieno di incognite e di incertezze sulla raggiunta maturità del cavallo. Arrivammo così al famoso maggio, alle 168 feste popolari e, con le feste, alla discesa della Scuderia dell’Alto Lazio di proprietà del cav. Fancelli: cavalli puro sangue, montati da ottimi fantini cui non facevano difetto il mestiere e la capacità. Chi non ricorda “Marcellina”, “Jolanda”, “Penigus” ed altri? Fancelli, nel timore di perdere, tentò in extremis un accordo con De Simoni, ma tutto fu vano. De Simoni, orgoglioso ed avvelenato per l’andamento negativo delle prime corse, voleva la rivincita a tutti i costi. E sulla pista del “Paparello” avvenne il battesimo del fuoco e con esso la vittoria. Vinta la batteria mi trovai in finale con “Marcellina”, montata da Fernando Gentili e “Jolanda” montata da Titino. Il cavallo difettava alla partenza? Così fu! Partì dopo, quando cioè le altre due avevano preso il via. Fu una corsa bellissima. Il cavallo docile ed obbediente al più piccolo sollecito, volava. Arrivai primo! Venne poi la vittoria a Cura di Vetralla in occasione della inaugurazione di quella pista. C’era una folla immensa quel giorno, proveniente da tutto il Lazio e particolarmente da Roma. Starter era il Marchese Scarampi. “Valentino” tagliò primo il traguardo in mezzo ad una folla festante. Oosì anche a Grotte di Castro, starter il sig. Curti parente del cav. Fancelli. Una grande predica prima della corsa con la promessa di una ottima cena. Vinsi la batteria e mi presentai in finale con “Penigus”, “Miscodette” e “Ughs”, tutti e tre del cav. Fancelli. Come al solito mi portai indietro per andare sui segnali. Gli altri tre invece mi aspettavano sul filo di partenza. Non ero ancora al posto quando lo starter suonò. Rimasi fermo, bloccato, mentre i miei avversari erano già lontani. Parto? Non parto? Ancora un attimo di indecisione poi... via come il vento. “Valentino” sembrava un bolide. Oltre mezzo giro mi divideva dai cavalli in fuga. Feci in tempo di vedere De Simoni appoggiato allo stecconato, testa tra le mani. Mi fece pena, tanta pena. Ma non mi perdetti d’animo. Sentivo che il cavallo rispondeva in pieno al mio richiamo, alle mie parole appassionate; sentivo man mano che la sua azione poderosa aumentava sempre più, che tutto ancora non era perduto. La speranza di raggiungerli prendeva corpo e sostanza. All’inizio del secondo giro eravamo tutti insieme! Piazzati a ventaglio i tre non mi lasciavano passare. Questa mossa determinò la loro irrimediabile sconfitta. Volutamente rimasi indietro per permettere al cavallo di riprendere fiato poi... via ancora con una forza ed uno stile impressionanti. Entrai in mezzo come un fulmine. E mentre i tre schizzavano al lato come due palle di bigliardo colpite nel mezzo da una terza, mi presentai primo al traguardo. Tante altre vittorie, una più bella dell’altra, vennero più tardi fino a che, per motivi di vario genere, dovetti abbandonare la Scuderia De Simoni e con essa “Valentino”. Passò del tempo e del cavallo seppi soltanto che non correva più perché nessuno riusciva più a montarlo. In breve dimenticò quanto gli avevo insegnato per ritornare ad essere “il ribelle” del passato. Abbandonato, sfuggito, bastonato a sangue, divenne presto 169 una larva del magnifico animale. Quando lo rividi mi si strinse il cuore. Lo chiamai! Mi rispose con un nitrito fiacco, accorato, triste. Appena gli fui vicino sembrò di assistere all’incontro di due persone che si rivedevano dopo lunghi anni di pene e di peripezie. Lo ripresi sotto le mie cure incurante del giudizio di tutti coloro che non mi nascosero l’inutilità dei miei sforzi. Ma ancora una volta ebbi ragione di tutto e di tutti. Lentamente il cavallo riprese fino a ritornare quello dei tempi d’oro. Un animale meraviglioso che non dimenticherò più dovessi vivere in eterno”. Così dicendo due grosse lacrime scesero lungo le gote del miglior fantino che abbia avuto Tarquinia. E’ una storia vera, questa, una storia che i più vecchi sicuramente ricordano ancora e che potrebbero sempre confermare. Una storia che vive e vivrà sempre nel cuore dell’unico fantino che seppe comprendere un cavallo veramente superbo, dai mezzi veramente eccezionali. Giuseppe Santiloni ATTIVITA’ DELL’ANNO 1990 170 Il 1990 avrebbe potuto essere un anno più fecondo di iniziative e di realizzazioni se il tempo, purtroppo spesso invano per l’operazione “acquisto porzione Palazzo dei Priori”, non avesse impegnato il Consiglio per oltre sei mesi. Volevamo rendere più ampia e prestigiosa la Sede, già bella, della nostra SOCIETA’. Volevamo farne un centro più idoneo e capace di soddisfare le crescenti esigenze e le continue richieste che ci provengono da più parti per motivi di cultura, di arte, di studio. In omaggio (o in ossequio) al nostro Statuto Sociale, volevamo restituire alla nostra città, completamente restaurato, un altro piccolo pezzo del suo immenso patrimonio artistico. Eravamo ormai sul rettilineo di arrivo della conclusione allorché, un intervento esterno del tutto imprevisto ed imprevedibile, ci ha impedito di toccare il traguardo. Inutile dilungarci a parlare ancora di un episodio deplorevole sotto ogni aspetto che i soci che ci seguono di più conoscono sufficientemente, per cui mettiamoci una pietra sopra e passiamo a ricordare l’attività svolta nei residui sei mesi dell’anno in esame. Si tratta di una serie di manifestazioni forse non esaltanti ma pur sempre interessanti ed importanti, alcune delle quali potrebbero anche essere sfuggite alla massa dei nostri concittadini soci e non soci, ma che si sono puntualmente svolte grazie appunto all’impegno del Consiglio di Amministrazione che ha operato attivamente acciocché Tarquinia, i tarquiniesi e la Società stessa ne traesse i giusti benefici. All’interno della Sede si sono svolti: a) il primo Corso di cultura cinese tenuto dal prof. Salviati Filippo; b) il primo Corso di archeologia tenuto dal prof. Giannini Paolo; c) il secondo Corso di Egittologia tenuto dalla prof. Gloria Marinucci sotto il titolo “INTRODUZIONE AI GEROGLIFICI” conclusosi con regolare esame finale e conseguente rilascio del certificato di partecipazione e frequenza; d) il primo Corso di musica tenuto dal Prof. Mastrini Maurizio dell’Accademia Nazionale d’Arte Musicale di Perugia, per lezioni di pianoforte, violino, chitarra, fisarmonica, flauto, clarinetto, tromba, organo compreso il canto e la storia della musica. I programmi, pareggiati a quelli del Ministero della Pubblica Istruzione saranno portati a compimento nei primi mesi dell’anno 1991 e prevedono il regolare esame di fine anno; e) dal 25 luglio al 5 agosto si è svolta una serie di Concerti d’intesa con l’ASSOCIAZIONE MUSICA E TRADIZIONE nella Sede della Società ed in Santa Maria in Castello; f) prima mostra della Ceramica organizzata di concerto con l’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo dell’Etruria Meridionale sotto il titolo “LA DONNA NELLA CERAMICA DEL MEDIOEVO E DEL RINASCIMENTO”. Inaugurata nella Sala “Sacchetti” 171 il 24 Agosto 90 l’intereressante rassegna, accolta con unanime consenso, è rimasta aperta fino al 9 settembre per trasferirsi successivamente a Faenza dal 14 al 23 dello stesso mese e quindi a VITERBO dal 28 settembre al 4 ottobre. Si sono svolte inoltre due gite culturali; la prima al Castello di Santa Severa con visita agli scavi di una villa romana a Tolfa e la seconda a Ninfa, Terracina, Sperlonga, Gaeta. All’interno della Società si è provveduto al rifacimento totale dello Schedario dei Soci ed alla stesura dell’INVENTARIO dei beni mobili e immobili della Società Tarquiniense d’Arte e Storia mai esistito in passato. E’ stato completato e schedato tutto il materiale artistico delle nobili famiglie Bruschi-Falgari e Quaglia da parte del dott. De Dominicis Claudio dell’Archivio Segreto del Vaticano. L’anno 1990 si è chiuso con la mente rivolta al 1991 nel corso del quale desideriamo offrire manifestazioni più impegnative e di maggiore interesse. Ma di queste si parlerà nel Bilancio di Previsione che verrà presentato alla ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEI SOCI convocata per l’approvazione del Bilancio 1991. Il Consiglio d’Amministrazione APPENDICE AL GLOSSARIO CORNETANO A Accannare (v.) - Rimanere senza respiro per il taglio della carotide, detta volgarmente canna. Vale a dire scannare. Affienare (v.) - Foraggiare, ma in senso figurato: ossia sostenere alcuno con ogni mezzo in azioni specie politiche e speculative. (derivazione da fieno o foraggio). Aggàdio (s.) - Angustia, pena. (vedi aggadiare) Etimologia incerta. Avvezzare (v.) - Tirarsi dietro qualcuno, rimorchiare, condurre altri secondo un proprio vezzo. Avvinare (v.) - Piccola operazione che fanno i beoni all’osteria. Consiste nel versare una modesta quantità di vino in uno dei bicchieri, riversarla, dopo averla bene sciacquata, negli 172 altri bicchieri della comitiva, come una operazione rituale. Laddove non c’è acqua corrente per cui i bicchieri vengono appena lavati in un’unico recipiente, tale operazione ha soprattutto lo scopo di disinfettare il bicchiere e togliere ad esso ogni odore di sapone o di altro detersivo che potrebbero alterare il sapore. B Bocconotto (s.) - Tipo di pasta alimentare di grosso formato di forma cilindrica da riempire con salsa e con carne. In senso figurato, ha riferimento ad azione sessuale. (derivazione da boccone). C Cardo sumarino (s.) - Tipo di cardo non edule che cresce per estensione sul terreno, dalle foglie carnose di un verde assai scuro. Giosuè Carducci nella sua poesia “Davanti san Guido” lo definisce “cardo rosso e turchino” rosicchiato da un asino. Se ne pascono i somari. Cassabanco (s.) - Usato per definire una persona eccessivamente voluminosa e ingombrante. Derivazione da cassapanca. Cordojjo (s.) - Sta per cordoglio. Usato nella locuzione “dare il cordojjo” per significare l’insistenza con cui una persona rinnova, senza soluzione di continuità, una richiesta fino all’esaudimento di quella. F Fico pazzo (s.) - Pianta selvatica del fico e suo frutto. G Greppa (s.) - C’è un modo di dire “mangiare le fave in greppa”, cioè fave secche fritte in padella con l’olio. Forse in origine doveva avere la forma di “fave in greppia”. Greppia cioè in senso figurato, era la tavola e il cibo degli uomini. 173 I Imbaccanire (v.) - Stordire qualcuno per il gran baccano che gli si produce attorno. Incapronata (s.) - Mantenere per testardaggine una posizione sbagliata. La parola deriva da caprone che ha dura cervice e robuste corna. Incularella (s.) - Azione reciproca di sodomia fra due o più persone. Ingrifare (v.) - Eccitare in senso erotico. Il grifo, figurativamente, è il viso dell’uomo che, al momento dell’eccitazione, muta fino ad assumere aspetti animaleschi. Inzecca (l.a.) - Usato nel modo di dire “all’inzecca” che vale come tentativo di colpire un obiettivo senza certezza di centrarlo. (vedi inzeccare). R Rappecettare (v.) - Rattoppare, mettere pecette per rimediare una rottura alla meno peggio. Rappezzare. S Scacarellare (v.) - Avere la cacaiuola (vedi cacarella). Sfilaccioso (ag) - Tessuto ridotto a sfilacce. Dal verbo sfilacciare. Stoppolone (s.) - Pianta selvatica simile al cardo sul cui stocco appare, dopo la fioritura, come un fiocco di stoppa. Strullotto (s.) - Dicesi di persona di scarsa intelligenza. Grullo e sciocco. T Tormentone (s.) - Critica o richiesta ripetuta più e più volte fino a dare tormento a chi tarda a rispondere o a replicare. Trullo (s.) - Forma sincopata di citrullo. V Vejjo (s.) - Mucillagine verde che cresce nei fontanili o nelle acque stagnanti. Potrebbe avere origine dal detto francese “objet en veille” che è l’oggetto non immerso, galleggiante, visibile. Oppure dall’arcaico veglio che significa vello. 174 Occorre non dimenticare che alla fine del ‘700 e per buona parte dell’800, Corneto venne occupata e amministrata da truppe francesi. Bruno Blasi 175 176