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Colera e rivoluzioni in Sicilia : due sciagure dentro e fuori i monasteri fra le lettere dei Verga La messe d'informazioni presenti nell'Archivio Familiare Verga trascende l'esclusivo interesse alla figura del celebre scrittore od alla sua opera, potendosi, invero, attraverso la varia tipologia delle carte, leggere in filigrana i grandi e piccoli cambiamenti politici, sociali, economici, giuridici e culturali di cui fu intessuta la storia siciliana dal XVII al XX secolo. Le quattordici lettere selezionate ed esposte per l’occasione, offrono, in particolare, uno squarcio in presa diretta, sulla vita quotidiana della famiglia Verga durante il colera del 1854, su alcuni fatti rivoluzionari legati alla Spedizione dei Mille del 1860, nonchè, sui successivi cambiamenti di ruoli ,convenzioni e strutture secolari da molti considerati, al pari del colera. autentica jattura. Tali missive inedite sono tratte dalla corrispondenza scambiata, nel periodo compreso dal settembre al novembre 1854, tra Giovanni Battista Verga Catalano, Caterina Di Mauro Barbagallo (genitori, questi, di Giovanni Verga) ed i fratelli della stessa Caterina: Carmelo e Salvatore. Per il loro interesse, inoltre, sono state scelte alcune lettere di Margherita Verga Catalano, zia paterna di Giovanni Verga, Famiglia di Carmelo e Caterina Di Mauro sposata Verga monacatasi a Palermo con il nome di Suor Maria Filomena, indirizzate ai fratelli Salvatore e Francesca, fino al 1866. Negli eventi, nomi e ricorrenze citate si riscontrano alcuni interessanti paralleli fra fatti e personaggi della narrativa verghiana e le esperienze vissute dal futuro scrittore, ancora quattordicenne, sfollato, insieme ai geniori ed ai fratelli nel 1854 “ … in un amenissimo vastissimo fondo chiamato Villa Tepidi …” mentre “…Vizzini è attaccato di colera …” come Carmelo Di Mauro scrisse il 24 settembre dello stesso anno al fratello Salvatore. In quel periodo, il giovane Verga ebbe fugace simpatia per una novizia alloggiata nelle vicinanze per sfuggire al colera. La vicenda gli avrebbe ispirato il fortunato romanzo Storia di una Capinera, (1871) ambientato proprio durante l’epidemia. La forma epistolare, scelta per l’opera risente del ricordo serbato dal Verga circa il quotidiano scambio di lettere tra i suoi familiari avvenuto in quelle circostanze. L’epidemia di colera che flagellò la Sicilia nel 1854, provenendo da Napoli e Malta, causò, secondo prudenti calcoli, circa 27.101 vittime, cui vanno aggiunte le 17.136 per la recidiva del 1855. Sull’origine di tale morbo i Siciliani possedevano solo la certezza che esso, come la peste, “arrivava sempre dal levante. Agli albori del XIX secolo, il Cholera Morbus, endemico nelle regioni comprese tra il Gange ed il Bramaputra, era penetrato in Occidente al seguito di recenti colonialismi, rapporti commerciali e spedizioni militari. Gli itinerari di contagio si snodavano per le rotte marittime e le vie fluviali trovando humus favorevole nelle elevate temperature e nell’umidità. I primi casi del 1854 si presentarono in Sicilia agli inizi Le vie dal colera di luglio, essendo le condizioni atmosferiche propizie alla sopravvivenza del bacillo, che, contaminando i corsi d’acqua e spinto dalle correnti, raggiungeva rapidamente località anche lontanissime tra loro. L’imprenditore vinicolo inglese Joseph Whitaker ricordava: “a Palermo faceva un caldo atroce e restava solo da sperare che piaccia all’Onnipotente che il colera non sia di natura così spaventosa e maligna come la volta precedente …” . Il tredici dello stesso mese di luglio, l’Intendente del Valle di Catania, Angelo Panebianco, comunicava a Sottointendenti e Sindaci della provincia la ricomparsa del colera a Parigi e Marsiglia, trasmettendo loro, al contempo, le determinazioni del Magistrato Supremo di Salute Pubblica sulla contumacia per le navi provenienti da Francia, Corsica ed Algeria: precauzione inutile perché il colera era ormai penetrato da Napoli o Malta attraverso il contrabbando. Il 26 luglio, il Luogotenente Generale di Sicilia, ad interim, Carlo Filangieri Principe di Satriano aggravava le pene per i reati contro la salute pubblica, istituendo un presidio in ciascuna delle sei sezioni di Palermo con un medico soprintendente. Il morbo comparve a Catania in agosto per le precarie condizioni igieniche e l’insufficiente regime alimentare. La pressoché assoluta mancanza di capacità volantino a stampa recante le: Istruzioni del Cav, professionale ed abnegazione dei soggetti preposti all’applicazione delle misure Dott, C, Tunisi per lÊuso del laudano contro il di prevenzione ne vanificò l’efficacia. Il Comandante d’Armi scrisse che: Colera. “medici e chirurghi tendono a scappare via dalla città abbandonando la povera gente”, esortando ad ordinare “anche con la forza“ il loro ritorno. Scappavano anche gli impiegati dei pubblici servizi e per sanzionarne il comportamento si costituì una Commissione apposita. Per le famiglie agiate che, come i Verga, potevano risiedere in casine lontano dal centro abitato, i rischi di contrarre la malattia erano limitati.. Le lunghe e calde giornate di forzata lontananza dagli affari ed occupazioni abituali venivano impegnate in letture, passeggiate e ritrovi conviviali, passatempi offuscati dalla continua apprensione per amici e familiari, residenti nelle città od in altri paesi ove si temeva l’arrivo del male. Il 24 settembre 1854, Carmelo Di Mauro, ospite di Salvatore Verga Catalano nella tenuta di Tebidi, (tra Vizzini e Licodia Eubea), scrive al fratello Salvatore, rifugiatosi a Pisano (nei pressi di Zafferana Etnea): “… il detto Signor Verga desidera che voi verreste costì a divertirvi, puoi figurarti se sarebbe nostro piacere ed il fine di ogni pensiero e sollecitudine. Vizzini e attaccato di colera ma noi in questo isolato fondo e distante godiamo perfetta salute e godimento; la casina vastissima, amici di Don Salvadore sono pure con noi, in tavola siamo al numero di 18. il giorno si cammina, al tramonto del sole ci chiudiamo e ci divertiamo immensamente, solo sospende i nostri divertimenti il pensiero di voi per non aver la sorte di capitare tue lettere”. Sempre Carmelo Di Mauro, il successivo 25 Settembre, doveva rassicurare il fratello: “circa la notizia fallace della morte d’un’intiera famiglia Verga”, chiarendo che: “… nessun Verga però attaccato dal flagellatore …”. L’incedere della stagione autunnale faceva scemare via via la virulenza della malattia; se ne temevano, pur tuttavia, le improvvise e micidiali recrudescenze. Carmelo Di Mauro scrive il 5 ottobre 1854 al fratello Salvatore: “…. Il terribile morbo ha da tre giorni che lascia in riposo Vizzini …, d’altronde ha fatto bastante stragge essendo il numero dei morti ammontato a più di 1500 vi sono stati giorni in cui la morte è arrivata a numero di 62; ma finisse qui e sia lodato Iddio …”. Il seguente 19 Ottobre, però, La tenuta di Tebidi allÊinizio del Â900 Giovanni Battista Verga Catalano informava il cognato che: “Ieri ci fù in questa villa a pranzare Don Mario Gaudioso, ci dava la notizia essere attaccati di Cholera alcuni paesi del Bosco, figuratevi quale costernazione ci portò per voi altri … abbiamo compianto fortemente la morte di quelli che ci avvisate vittime del Cholera di Catania ... sentiamo, che il male in Catania è quasi finito, solo son morti quelli attaccati allora, non arrischiate né voi né tutti i nostri amici e parenti a risolversi a far ritorno in Casa, in Vizzini scorsero quindici giorni senza affatto esservi stato un caso, domenica se ne verificarono due, ed oggi è aumentato bastante, ha fatto recidiva …”. Le misure per fronteggiare l’epidemia del 1854-1855 non differirono da quelle apprestate nel 1837; quarantene, lazzaretti e cordoni sanitari non riuscivano a circoscrivere un morbo esiziale dalla patogenesi sconosciuta. I medici per curarlo impiegavano da decenni, un approccio esclusivamente teoretico senza adeguate sperimentazioni fisio ed anatomopatologiche, fornendo le più Pianta del „Lazzaretto da costruirsi in territorio di svariate risposte (miasmi, contagi, peccati o stregonerie) poi confluite in una S. Michele Valle di Catania‰. trattatistica dai rimedi fantasiosi, inefficaci e talvolta dannosi. Ad esempio, gli assertori del metodo omeopatico – ufficializzato nel 1854 dal Soprintendente e dal Magistrato Supremo di Salute – attribuivano l’insorgere del colera al contrasto di influenze atmosferiche, allo spavento alla sola idea del male, all’abuso di mezzi disinfettanti. A lode di costoro si può dire che, almeno, non somministravano che acqua ! Una nota dell’Intendente, del 12 giugno 1837, riportava la indigesta dieta prescritta dalla Commissione Provinciale Sanitaria per nutrire gli infetti: Bavalaggi, pomicelli della rina, pepi, albicocchi, verdi o che non siano maturi, cavoli, acci nell’aceto, frutta immatura in generale, tonnina fresca, carne malsana cotta, etc, etc.” . Il colera era giunto per la prima volta in Sicilia, proveniente dall’ Italia nel 1835. Alla sua propagazione contribuirono carenze igieniche, inidonei assetti urbani, una diffusa malnutrizione, una retriva mentalità ed i particolari interessi dei diversi ceti sociali. Devastanti epidemie accompagnarono la storia dell’isola durante l’intero secolo determinandone, in qualche misura, gli eventi politico-sociali: le vittime avutesi negli anni 1837, 1854-1855, 1865-1868, 1887-1887 e 1893 dovettero complessivamente contarsi in 180.000 circa. Nel luglio del 1837, durante l’infuriare del morbo, scoppiava a Catania la rivolta indipendentista, fermata dalla controrivoluzione agli inizi di agosto. Contemporaneamente alla sua diffusione, minimizzata dalle autorità locali, correva la diceria che essa fosse da imputarsi ai venefici governativi. Grazie a tale stato d’animo radicato in tutti le classi sociali, i rivoltosi fomentarono quei moti, poi, definitivamente repressi dalle truppe reali comandate dell’ ”Alter Ego” del Re, marchese Del Carretto, e dal generale Sonnenberg. In quegli anni, il Magistrato Supremo di Salute, cui era delegato il potere legislativo sanitario sin dal 1819, aveva emanato un corpo organico di disposizioni per impedire l’importazione di morbi epidemici nell’isola. Dar loro esecuzione spettava alla Soprintendenza Generale di Salute Pubblica, con giurisdizione sugli organi periferici provinciali e comunali di tutta l’isola, mentre il controllo del servizio sanitario interno era affidato agli Intendenti Il „Trionfo della morte‰ - affresco realizzato da delle province ed ai Pretori nei comuni. Speciali deputazioni di salute curavano ignoto tra il 1440 ed il 1450, oggi custodito nella Galleria Regionale di Palazzo Abatellis il servizio portuale. Al riguardo, nel Luglio del 1831, le conclusioni formulate dalla Facoltà di draepllpereesepnidtaemiea.llegoricamente il secolare terrore Medicina di Napoli, motivarono le autorità sanitarie ad adottare la cd. teoria contagionistica del Cholera Morbus, respingendo quella epidemica, malgrado i suoi molti sostenitori. La validità di tali studi era, comunque, inficiata dalla ignoranza sui principali agenti patogeni come l’acqua infetta, usata per bere o cucinare e le deiezioni dei malati. Si sconosceva, inoltre, che i decessi avvenissero per disidratazione al proposito, vanno ricordate, per i loro intuitivi effetti deleteri, le Istruzioni sul Cholera Morbus Asiatico rese nel 1836 dal Pambini. Questi, dopo aver descritto i segni che “lo fanno conoscere dalle coliche”, menzionava: “… i rimedi sperimentali di Parigi per la cura dell’attacco del Cholera“, per cui si doveva: “… attivare la pelle con frizioni e promuovere il sudore somministrando vari infusi con vino, zucchero, e gocce di spirito canforato o mettendo a contatto il malato con mattoni caldi o sottoponendolo a bagni di vapore …” egli consigliava pure: “ … la somministrazione di una soluzione di tartaro stibbiato, per attenuare i dolori addominali” prescrivendo “liquore anodino con laudano da sei a dodici gocce ogni quarto d’ora e dodici grani circa di ipecacuana per dare una scossa all’organismo vitale, unito alla generale pratica del salasso”. Tra le misure di sanità pubblica, vi era l’obbligo per i medici di redigere i giornali patologici al manifestarsi di qualsiasi caso dubbio, l’istituzione del cordone sanitario, la costruzione di lazzaretti (a S. Michele, in territorio di Caltagirone e Leonforte, in territorio di Nicosia), l’adattamento di luoghi esistenti a ricovero dei colerosi. Era vietato, già dal 1831, tenere fiere e mercati durante le epidemie, aprire luoghi ove era stato inumato il cadavere di un individuo morto di malattia ordinaria prima di dieci anni e di un individuo morto di colera prima di trenta anni. Vennero impartite numerose e particolareggiate prescrizioni in materia di sorveglianza sanitaria; lungo tutto il litorale in posti di vedetta vigilavano giorno e notte, con la sorveglianza di volontari cittadini, due capiposto e guardie stipendiate. Il cordone terrestre era sorvegliato da guardie sanitarie sottoposte alle guardie urbane, a loro volta dipendenti dalle compagnie d’armi. Le imbarcazioni dovevano approdare solo in luoghi stabiliti e con specifiche formalità, il controllo marittimo, era affidato a legni doganali e “scorridoje” della Regia Marina. Secondo il R. D. dato da Ferdinando II il 12 Settembre 1837, ai violatori del cordone sanitario veniva comminata la pena di morte. L’efficacia di disposizioni apparentemente tanto rigorose era gravemente minata dalla riluttanza a sostenerne gli oneri economici ed a sacrificare i rilevanti interessi di commercianti, contadini, pescatori ed artigiani. Si ricorda che le spese per il mantenimento del cordone sanitario gravavano pesantemente sull’economia del territorio: i comuni dovevano infatti concorrere in base al numero degli abitanti ed alla rendita patrimoniale, con l’unica eccezione per i comuni con meno di 600 anime ed una rendita minore di onze 100. „Ultimo Bullettino.‰ dal Sindaco di Catania il 22 annuncia: „Dalle 12 Spesso, inoltre, l’adempimento delle normativa innescava accesi contrasti Novembre 1866, che eridiane alle 12 meridiane di oggi, nessun caso di tra i gruppi sociali e politici pronti ad accaparrarsi una autorità esclusiva sul m Colera è stato denunziato a questo Municipio.‰ territorio interferendo con la migliore applicazione delle misure preventive. In ogni caso, una diffusa mancanza di consapevolezza civica in tutti gli strati della popolazione faceva cadere nell’indifferenza importantissime prescrizioni. Spesso le guardie sanitarie, in assenza del superiore, lasciavano il posto assegnato aprendo ampie brecce nella cintura di sorveglianza. Nel 1836 la Deputazione Sanitaria Marittima di Mascali scriveva all’Intendente di Catania: ”le guardie del cordone sanitario di questo litorale si vogliono dismettere ora con un pretesto ora con un altro, ma la causa che tanto determina loro è … che non potendosi recare nella bettola esistente … per comprarsi la spesa sono obbligati a mantenere un ragazzo a spese loro per provvederle … “. La prima epidemia post unitaria, dopo un blando inizio del 1865, dilagò in Sicilia l’anno successivo - portata dalle truppe continentali impiegate per reprimere la rivolta anti-piemontese detta del “Sette e Mezzo” , scoppiata a Palermo nel settembre di quell’anno - proveniente da Napoli, ove era giunta da Tolone e Marsiglia via Genova. La legge sanitaria del 1865 (Allegato C della legge per unificazione amministrativa n. 2248 del 20 marzo) affidò la tutela della salute pubblica al Ministro dell’Interno, ai Prefetti, Sottoprefetti e Sindaci assistiti dal Consiglio Superiore di Sanità, ai Consigli Sanitari Provinciale ed ai Consigli Sanitari. Si rinfocolò la credenza del veneficio diretta contro i nuovi padroni ed i loro rappresentanti: l prefetto, funzionario, poliziotto, carabiniere, tornò la diffidenza verso ospedali e medici A Catania il 15 luglio 1867 durante l’epidemia, i detenuti, in agitazione per il dilagare del colera, tentarono l’evasione dalle carceri centrali con una rivolta a mano armata ed i Prefetti segnalano: “… l’inidoneità della Guardia nazionale a fronteggiare i tumulti giacchè i suo stessi componenti credevano nel veneficio …” . Il Sindaco di Catania, Francesco Paternò Gioeni Duca di Imbert dava le dimissioni per la fuga dei consiglieri impauriti dal contagio. Successivamente nella sua relazione sullo “sventurato anno 1866”, egli ammise di non aver potuto presentare il bilancio per il 1867 perché: ”impedito dalla incerta posizione della finanza, dalle desolanti condizioni amministrative … e dallo stato sanitario del Paese”. Solo nell’ultimo decennio dell’ottocento la medicina pasteuriana e gli studi di Koch, con la scoperta nei microorganismi quali vettori del contagio, comportano un profondo cambiamento nella terapia del Colera. Un bacillo meno virulento e l’opera di prevenzione svolta dalle potenze coloniali e dall’Impero Ottomano mitigano gli effetti nefasti delle epidemie coleriche successive. I nomi, familiarmente uditi dal Verga durante la giovinezza e presenti Intestazione del monastero di S. Maria di nella corrispondenza dei congiunti, trovano Montevergini a Palermo nel 1862. spesso riscontro in quelli dati a personaggi A.S.C.Ct. Archivio familiare Verga doc. delle sue opere. Ad esempio in “Storia di nĈprovv. 00560 una capinera” nel personaggio di Suor Filomena, che comunica ai familiari la morte in convento della protagonista Maria, si ritrova il nome assunto dalla zia paterna Margherita Verga Catalano, nata a Vizzini tra il 1800 ed il 1801; anche alla sorella Rosalia, nata tra il 1817 ed il 1818 e morta a Vizzini il 16 Luglio del 1866, toccò prendere i voti assumendo il nome di Suor Maria Carmela. Nella agiata famiglia Verga, come in quelle dello stesso ceto all’epoca, vigeva l’uso del maggiorasco per garantire l’integrità del patrimonio familiare con l’inevitabile corollario della monacazione forzata, riservata alle figlie che non potevano avere una dote sufficiente a maritarsi. Il rituale della monacazione, pressoché invariato dal Seicento, rappresentava una trasposizione mistica dello BIlenedceottminpelessdoi S. deMl ariamodni asMteorontevedrgeilnlei sposalizio con velo, anello e corona quali segni di conservazione della verginità e a Palermo di fedeltà a Dio. Approssimandosi il giorno di tale cerimonia nel monastero delle Benedettine di Montevergini di Palermo, Margherita Verga Catalano si rivolse alla sorella “Vanna” (nata intorno al 1807 e morta nel 1895) affinché intervenisse presso “Vanni” (l’altro fratello Giovanni Battista Verga Catalano), per “ottenere onze venti di seta filata e bianchegiata, come l’acchiusa mostra la desiderasse mandata per Natale … che mi serverà per i vela neri se iddio mi fa la Grazia di presto monacarmi,…”. Tramite la lettera inviata il 30 Settembre 1854 da Giovanni Battista Verga Catalano al cognato Salvatore Di Mauro si apprende che Maria Filomena era sopravvissuta, miracolosamente, al morbo colerico. Infatti, egli scrisse: “mia sorella in Palermo … fu attaccata allora di Colera, ma oggi, grazie a Dio, dopo avere stato agli ultimi estremi, ristabilita perfettamente.“. Ciò la sottrasse all’oltraggio che avrebbero riservato alle sue spoglie le Disposizioni per la sepoltura della monache, secondo cui: “in qualunque monastero dell’isola morissero di colera le monache dovessero essere sepolte ignude e senza cassa in uno scavo almeno otto palmi profondo, il cadavere si copra di calce viva spruzzata di acqua ed immediatamente e sopra si costruirà una fabbrica di pietre con la massima esattezza connesse fra loro a garantire la salute pubblica e ad eliminare gli inconvenienti che sogliono venire dalla cattiva inumazione dei cadaveri. Pur nella loro incerta redazione, le lettere di Margherita, ormai divenuta Maria Filomena, esprimono appieno la condizione “di minorità” in cui ella si trovava, come molte altre consorelle, prive di reddito, vincolate al talvolta magro appannaggio versato dalla famiglia d’origine e necessitate di autorizzazione superiore per qualsiasi atto della propria vita. Nella scrittura privata di quietanza del 21 Dicembre 1859: “… Suor Maria Il Palazzo Carini colpito del bombardamento Filomena Virga e Catalano. nel secolo chiamata Margherita, autorizzata da del Maggio 1860 su Palermo. questa … Madre Abbadessa Suor Maria Concetta Garofalo in questo Monastero di Montevergini, …” dichiara ricevere dal fratello “… Cavalier Don Salvatore Virga e Catalano la somma di onze trenta, che paga con animo di ripeterle dal mio fratello Don Giuseppe Virga e Catalano., Pur nondimeno la religiosa non palesa mai insofferenza o ribellione se non verso il fratello Giuseppe (Pepè), dal cui saltuario sostentamento era costretta a dipendere e che le lesinava anche l’indispensabile. Un altro scritto di Maria Filomena ci testimonia il bombardamento di Palermo, effettuato dai Borbonici il 27 Maggio 1860 ed i combattimenti strada per strada che portarono i Garibaldini alla conquista della città. Il 2 giugno, ella scriveva al fratello Salvatore di esser “… viva, ma per vero miracolo, in mezzo alle gran bombe e fucile”, aveva visto “… questi monasteri tutti distrutti e abruciate e le monache dispersi …. il Giudizio universale. Aggiungendo, che “dimani si decide la nostra vita o morte a tutti … pregate per l’anima mia …” ed augurandosi, infine, di poter morire in patria assieme ai propri cari. Tali concitate righe ricordano la lucida e cruda descrizione di un protagonista Barricate per lr vie di Palermo erette durante i degli eventi, Francesco Brancaccio di Carpino, che nel suo libro: Tre mesi nella Vicaria …” rievoca: ”all'alba del 27 Maggio 1860, i Palermitani combattimenti del Maggio-Giugno 1860. furono svegliati dal rimbombo del cannone, … Il Generale Lanza, … sgomentato dalla inattesa entrata di Garibaldi in Palermo ... e dalla sollevazione in massa del popolo palermitano, credette di poterne arrestare l'impeto ordinando il bombardamento …. dal Castello, dal Palazzo Reale e dalle navi della rada, si scatenò un diluvio di ferro e di fuoco sulla città … I danni prodotti dal bombardamento alle case agli edifizi, e principalmente a taluni Monasteri, furono immensi. Il Monastero di S. Caterina, prossimo al Palazzo Pretorio, fu in gran parte distrutto dalle bombe. Gli artiglieri avevano ricevuto ordine di distruggere il Palazzo Pretorio , che era la sede del Governo; ma avendo mal calcolato il tiro, ne avvenne che le bombe, … caddero tutte sul Monastero, e da questo sbaglio di calcolo ne derivò la salvezza del primo e la distruzione del secondo. Le povere monache spaventate si rifugiarono nell' attiguo Monastero della Martorana. Anche quello delle Vergini fu vittima delle bombe, e con esso vari altri edifizi e varie case. Ma più che dalle bombe la città fu danneggiata dai soldati. … Il puzzo di cadaveri putrefatti, che esalava da ogni parte, era nauseabondo e pestilenziale. Nelle case incendiate, e ancora fumiganti, si trovavano cadaveri di donne, di uomini di fanciulli denudati e mezzo brustoliti. Sul lastricato si vedeva anche … qualche cadavere denudato e arso.”. Di lì a pochi anni, il mondo di incrollabili certezze delle religiose sarebbe stato posto in discussione dalle leggi eversive dell’asse ecclesiastico (cd. Leggi Siccardi) volute dallo stato unitario con lo scopo dichiarato di porre fine all’eccessiva concentrazione di beni nelle mani degli ordini religiosi (cd”mano morta”) e con l’intento, altrettanto importante, di rimpinguare con la loro vendita le casse statali in grave deficit per la disastrosa Terza Guerra d’Indipendenza. La soppressione degli ordini religiosi del 1866 rimise in libertà migliaia di donne prive di diritti civili, ed al di fuori delle dinamiche successorie familiari. A seguito dell’applicazione dell’art. 3 R.D. 3036 del 7 Luglio 1866, (soppressione delle Corporazioni religiose e destinazione dell’asse ecclesiastico) Maria Filomena scrisse al fratello Salvatore il successivo 13 Agosto che “… per lo civile sono sciolta …“. In un’altra lettera inviata, probabilmente, il 26 dello stesso mese, ribadisce - a proposito di un’operazione finanziaria che avrebbe dovuto toglierla: “… dalle empie mani di Pepè, che mi sta portando alla tomba …” - che: “io con questa attuale legge mi trovo in piena facoltà patrona di vennere …”. Forse, la paura del mondo esterno, ove si sarebbe sentita disorientata, mista alla severa disciplina preparatoria alla monacazione ricevuta sin dalla tenera età, fecero sì che Maria Filomena, così scrivesse da Palermo, in merito alla chiusura dei monasteri di Palermo ed al censimento dei loro beni “per lo nostro scioglimento si và lentamente, il prendere tempo, e speranza, penza Iddio pregamolo di cuore, queste Il R.D. 3036 del 7 Luglio 1866 cosi sono le nostre, potenti anime, tutti i 44 monasteri, e ritiri, e tutti i conventi ci stamo Ccoemleerifearpapadrseolle sulelggni Ĉp5e7r lÊdaenllnao „1C8o6ll6e.z‰ione incoro notte, e dì, a fare comune preghiere, e la speriamo con fiducia questa Grazia”. Nella medesima lettera informa il fratello Salvatore di non aver contratto il colera del 1866; “Impassata, ti parlavi di colera a Napoli ma noi tutti ora siamo libbere, ma stiamo con molti precauzione …”. L’anziana religiosa avrebbe concluso la propria travagliata esistenza a Palermo, il 14 Dicembre del 1881 in altro monastero, quello delle Domenicane di S. Caterina.