Diario calais e dunkerque III

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Diario calais e dunkerque III
30/4/2016
M^C^O
viale Molise 68
The way up
(to) here
#daquassùlaterraèbellissima
Diario calais e dunkerque III
Basta poco per sentirsi parte di qualcosa,
per ambientarsi, per adattare i propri
ritmi e rivalutare la scala delle proprie
priorità. Nonostante la permanenza alla
wharehouse si rivela estremamente poco
confortevole, ci si sveglia la mattina
presto carichi ed energici per iniziare
un’altra giornata di lavoro.
Oggi non è un giorno qualunque però,
perché purtroppo è l’ultima giornata
piena che abbiamo a disposizione dal
momento che domani a quest’ora
staremo già viaggiando verso casa.
In effetti quando ci si immerge in questo
tipo di contesti, si inizia a ragionare in
funzione delle cose da fare tralasciando
tutto il resto. E un po’ anche a noi, è
quasi sfuggito il fatto che una delle
ragioni per le quali ci siamo messi
in viaggio sono gli aiuti. E’ vero che
siamo arrivati carichi di donazioni il
primo giorno, ma è anche vero che
disponevamo anche di una discreta
somma di denaro accumulata durante
una serie di eventi svoltisi a macao sul
tema delle migrazioni e che era arrivato il
momento di utilizzarla.
Una cosa interessante che apprendiamo
passando del tempo nella wharehouse,
è che arriva veramente di tutto e in
qualsiasi formato, ma per qualche strana
ragione statistica alcune particolari
necessità non vengono coperte. Magari
mancano le scarpe di numero 42 a fronte
di centinaia numero 43 o 41, magari
mancano taglie piccole di vestiario a
fronte di abbondanza di altre dimensioni
e via così. Quella mattina facciamo
una chiacchierata con chi si occupa
di coordinare gli arrivi di materiali e
che ha quindi bene in mente cosa di
assolutamente necessario manca in quel
momento: si tratta appunto di scarpe
di una certa dimensione, biancheria
maschile in certe taglie e guanti per il
freddo da uomo. Ah, e tonno in scatola!
Già perché anche la maggior parte dei
viveri sono frutto di donazioni spontanee
e spesso mancano piccole quantità
di alcuni alimenti per permettere ai
volontari di configurare delle razioni
di cibo non deperibile da distribuire in
momenti di estrema necessità a lato della
distribuzione dei pasti caldi quotidiani.
Nel giro di un oretta facciamo ritorno al
magazzino con il materiale acquistato ma
prima di scaricarlo veniamo coinvolti nella
conta di coperte e trapunte. “Ne servono
500 e anche urgentemente” mi dicono
mentre parcheggiano un furgone pronto
per essere caricato. Non riesco a capire
a quale dei campi sono destinate ma con
molta probabilità andranno a Dunkerque,
luogo nel quale la maggior parte delle
energie sono concentrate negli ultimi
giorni.
Decidiamo di non seguire il camion
verso il campo nuovo ma ci rechiamo
nuovamente alla Junglee, sapendo che
anche oggi la tensione sarebbe stata
molto alta. Quando arriviamo ci sono
due grossissimi incendi e un cordone
di polizia in assetto antisommossa che
impedisce a chiunque di avvicinarsi.
Le fiamme sono altissime e si sentono
numerose esplosioni provenire dal rogo.
Ci spiegano che si trattava di uno dei
ristoranti autogestiti del campo, che ha
preso fuoco accidentalmente. La cosa
sconcertante però è che la situazione non
era affatto critica e i presenti stavano
iniziando a svuotare la baracca dai
materiali pericolosi come le bombole del
gas e il legname per i forni, ma la polizia
ha immediatamente colto l’occasione per
far bruciare l’ennesimo pezzo del campo
sud, impedendo l’intervento di chi si era
recato sul posto con gli estintori nonché
dei vigili del fuoco spesso spettatori
inermi dei roghi costanti del campo.
Da li a poco le fiamme si estenderanno
anche alle piccole abitazioni circostanti
costringendo gli occupanti a scappare
velocemente lasciandosi ogni cosa
alle spalle. La tensione, già alta, sale
ulteriormente quando la polizia inizia
a trascinare fuori dalle baracche chi si
rifiuta di abbandonarle. Dal rogo si alza
una colonna di fumo nero di plastica che
rende l’aria irrespirabile obbligando tutti
ad allontanarsi ulteriormente dall’area,
sempre incitati e spinti dagli agenti.
Si sentono urla provenire al di la del
cordone, al di la del fuoco, dall’altra parte
del campo. In lontananza la scia di un
lacrimogeno e fischi. Questa è ormai la
quotidianità nella Jungle di Calais.
Dopo qualche peripezia, riusciamo
a raggiungere il lato opposto, quello
dal quale si sentivano le urla, dove
però situazione si è completamente
riappacificata. Folti gruppi di persone
radunati nell’ampia distesa di sabbia
circondata anch’essa da un cordone di
polizia, si sfidano in improbabili prove
sportive. Buffe rivisitazioni di lotta grecoromana, lancio del peso e salto in lungo
vengono messe in scena fra urla di tifo,
scommesse e risate. La tensione è stata
sostituita dall’ilarità. Di nuovo la forza
di queste persone, di chi vive in questa
condizione da molti mesi mesi, viene fuori
tutta assieme lasciandoti completamente
senza parole. Tutto intorno, le facce cupe
e serie degli agenti, quasi indispettite
dall’atmosfera di allegria e distensione
venutasi a creare intorno a loro.
Ci spostiamo all’interno delle viuzze del
campo per bere un chai. Mi trovo molto
più a mio agio accomodato su un tappeto
in una di queste baracche-ristorante
che nella maggior parte dei locali in
cui mi sono seduto negli ultimi anni.
Si chiacchiera con tutti e tutti vogliono
farci domande: gli Italiani fanno sempre
l’effetto di “ah Italia! Milano, Roma,
Napoli!”.
Non mi sorprende che moltissime
persone, soprattutto di origine afgana,
parlino discretamente l’italiano: si tratta
di persone con regolare permesso di
soggiorno che hanno perso il lavoro o
comunque non hanno prospettive al di
fuori della stagione estiva. Tutti cercano
in un modo o nell’altro di raggiungere il
Regno Unito, ma in caso di insuccesso
sarebbero pronti a ritornare in Italia.
Parliamo con persone che sono state
specialmente al sud, nella stagione dei
raccolti a lavorare nei campi per pochi
spiccioli al giorno. Si parla di Italia, di
lavoro, di soldi ma anche di mafie: è qui
che realizzo, con molta inquietudine,
che molti di loro con le mafie ci hanno
avuto a che fare. La cosa più assurda è
che tutti, nessuno escluso, considerano
queste organizzazioni criminali come
qualcosa di positivo, qualcosa che da
opportunità… “Italiano! Mafia, mafia
buona! Lavoro!”. E’ da queste cose
che capisci quando una nazione ha
completamente sbagliato le proprie
politiche sul lavoro e sull’immigrazione…
quando le organizzazioni criminali come
quelle di stampo mafioso diventano una
speranza concreta persino per persone
che arrivano da fuori questi contesti,
ti rendi conto di quanto sia necessario
buttare via tutto e ricominciare da zero.
Nel frattempo il grande incendio della
parte sud è stato domato e il cordone di
polizia si rompe ricongiungendo le due
parti di campo che erano state isolate
per molte ore. La calca per raggiungere
le macerie ancora fumanti è piuttosto
grossa: tutti si aggirano fra i residui
inceneriti delle costruzioni alla ricerca di
qualcosa da recuperare che si sia salvato
dalla furia del fuoco.
E’ una scena abbastanza deprimente,
considerato tutto. Alcuni di loro hanno
perso tutto ciò che avevano e che magari
avevano impiegato mesi a costruire. Si
parla di una piccola attività nel campo,
ma anche semplicemente del giaciglio
dove coricarsi, di vestiti e oggetti d’uso
quotidiano. Nulla è rimasto, spazzato via
dall’indifferenza di chi non ha permesso
di domare le fiamme ore prima.
Oramai la sera è calata e ci rintaniamo
in un altro locale all’interno del campo
scambiando parole con attivisti e migranti
in un unica lunga tavolata.
Di li a poche ore saremmo stati sulla
strada del rientro e nessuno ancora
sarebbe riuscito a realizzarlo fino
all’istante prima della partenza. E’
impossibile lasciarsi un posto del
genere alle spalle. C’è troppo da fare
per andarsene via. Come abbiamo fatto
a non pensarci? Come abbiamo fatto
a convincerci che 4 notti sarebbero
state sufficienti? E’ vero, avevamo una
missione di consegna di aiuti, ma allora
perché non li abbiamo spediti? Perché
abbiamo sentito la necessità di venire di
persona? Di partecipare attivamente alla
quotidianità dei campi?
Forse più dei banali, seppur vitali, aiuti
materiali c’era la volontà di vedere e
di capire davvero cos’è la Jungle, chi
sono le persone che l’hanno costruita e
che la abitano ma soprattutto cosa sta
succedendo. Perché, nella civilissima
europa, migliaia di persone sono state
costrette a crearsi un rifugio dal fango e
dal nulla? Perché ora che, nell’instabilità
totale della loro eterna ricerca di un
passaggio al di la della Manica che non
arriverà mai, erano riusciti almeno a
costruirsi un luogo per l’attesa, glielo
stanno radendo al suolo col fuoco?
Quattro giorni bastano a consegnare
degli scatoloni, ma non a rispondere
a domande come queste e mentre ci
allontaniamo dal campo per rientrare
alla wharehouse, dove ci aspetta l’ultima
notte, si manifesta la convinzione di tutti:
presto torneremo qua.
Il rientro purtroppo non si può rimandare,
ma si guarda il calendario, si cerca un
buco tra i mille impegni di ognuno, si
pianifica come ci si potrebbe muovere a
brevissimo, nel prossimo futuro.
In fondo Pasqua è vicinissima, con un
po’ di organizzazione, magari di aiuto, si
potrebbe portare presto un nuovo carico
di materiale, soprattutto umano.
Questo breve viaggio ha risvegliato in noi
istinti dormienti, che saranno difficili da
placare, consapevoli che in quattro giorni
non abbiamo visto niente, non abbiamo
fatto niente, in proporzione al piccolo
universo che abbiamo trovato a Calais.
Accio