Congresso AIG “La lettura” - Pisa, 20

Transcript

Congresso AIG “La lettura” - Pisa, 20
CHE COSA LEGGE WERTHER
Enrico DE ANGELIS (Pisa)
«Klopstock!» [38] esclama Lotte commossa, ponendo la mano su quella di Werther. Questi, a tale
detto, si commuove ancora più di lei, sprofonda nel mare delle sensazioni, si china sulla mano di
Lotte e la bacia, inondandola di lacrime. La tempesta è appena passata, i tuoni risuonano ormai
lontani e i due traducono l’esperienza in un ricordo letterario. I sentimenti sgorgano appieno solo
allora. Lotte, del resto, aveva già detto [30] di amare quegli autori nei quali poteva ritrovare in suo
mondo. Werther ne era rimasto subito commosso, anzi era andato «fuori di sé». Non solo la
letteratura, ma l’arte in genere è per entrambi una scatenatrice di sentimenti, oppure una loro
equilibratrice. Così succede a Lotte con danza e musica, così a Werther per il disegno. A Lotte basta
suonare al pianoforte [30] oppure ballare per il giardino [48] una contraddanza perché tutto torni a
posto, come dice con parole che Werther ripeterà in altra occasione quasi alla lettera. In mancanza
di contraddanze vanno bene anche dei minuetti [174-76]. Werther disegna per esprimere i suoi
sentimenti nei confronti della natura, disprezzando le regole [18] e formando il mondo dall’interno
della propria anima [16]. E quando un increscioso, umiliante incidente lo mette di malumore, gli
basta leggere Omero – l’Odissea – perché tutto torni a posto, come appunto diceva Lotte [118]. Che
cosa cerchi in Omero, ce lo dice esplicitamente: inserire nella propria vita dei tratti di vita patriarcale
[42], però, ce lo specifica, come «sensazioni», dalle quali lasciarsi colmare. «Sensazione»
(Empfindung) è la parola-chiave, così spesso ricorrente, insieme a «sentimento» (Gefühl). Un libro
non deve «piacere»; un libro deve «riempire tutti i sensi, tutte le sensazioni» [56]. In questo, libro e
amore non fanno differenza.
Werther non è un intellettuale. Non razionalizza il mondo, non lo porta a un concetto
direzionale, che gli consenta di interpretare la realtà, selezionandola, semplificandola e dirigendola
verso altri concetti subordinati. Sprofondare è quel che gli si addice, lasciarsi inondare dalle
sensazioni. Niente regole selezionatrici e gerarchizzanti.
Col progressivo immergersi nel proprio cuore, contro tutto il resto della realtà [126], Werther
arriva a preferire Ossian a Omero. Ma «preferire» è verbo troppo scialbo, Werther se ne sarebbe
risentito; no, no, è nel suo cuore che Ossian soppianta Omero. Da Ossian Werther si lascia
condurre fra tempeste, nebbie e paesaggi lunari a commoventi tragedie. Ossian gli fa
impetuosamente desiderare di sguainare la spada per trafiggere altri e poi se stesso [136-38]. Intanto
vorrebbe abbracciare Lotte [138]. Comincia col leggerle le sue traduzioni dallo stesso Ossian [176
sgg.]. Piangono insieme, lui le bacia un braccio, lei gli prende le mani e se le preme sul seno, lui
finalmente le copre le labbra di baci furiosi [188]. Ossian fu il libro e chi lo scrisse. Quindi Werther
si precipita nella notte umida e buia, tra pioggia e neve, rischiando di rompersi l’osso del collo in un
paesaggio ossianico.
Parlo a un pubblico di germanisti, perciò ritengo che questi cenni bastino per richiamare alla
memoria quel che tutti sappiamo, cioè che le letture di Werther sono momenti della sua vicenda,
organicamente inserite nel suo divenire. Non zeppe, ma parti omogenee all’insieme, che
contribuiscono a formare in maniera irrinunciabile. Voglio invece richiamare l’attenzione sull’ultima
lettura: sul leggio di Werther suicida è aperta Emilia Galotti. Questa lettura non è assolutamente in
linea con le precedenti. Del resto su di essa non ci viene detto niente, ce ne viene comunicato
esclusivamente il titolo. Il libro è aperto, ma non sappiamo a quale punto. Emilia induce il padre a
ucciderla perché teme di cedere alla seduzione del principe Gonzaga, tanto amabile e – appunto –
seducente quanto immorale e anzi criminale. Niente di simile per Werther. Lotte è certamente
amabile e anzi da lui appassionatamente amata, ma altrettanto certamente non è né immorale né
criminale. Meno che mai, poi, è una seduttrice. Di Omero, Werther voleva imitare quella che
interpretava come vita patriarcale; sbagliava radicalmente l’interpretazione dell’Odissea, ma tant’è, e
comunque non se ne rendeva conto; quel che importa è che Omero era per lui un modello di vita
BAIG IV, gennaio 2011
da imitare attraverso il filtro della Empfindung. Analogamente stavano le cose con Ossian: era il
modello dell’amore tragico, tempestoso fin nel paesaggio naturale in cui si colloca, e strettamente
imparentato con figure di morte. Erano modelli per un vivere letterario.
Emilia Galotti era il dramma lasciato aperto dal modello reale di Werther, lo studente Jerusalem.
Con la sua citazione, irrompe nel romanzo la realtà. E la realtà è la fine della finzione, la fine del
romanzo. Quella non omogeneità che tale lettura rappresenta mette fine al sistema romanzo,
omogeneo fino a quel momento. Il sistema romanzesco arriva alla fine, contemporaneamente
dall’interno e dall’esterno. Dall’interno perché Emilia Galotti è pur sempre letteratura, citata pur
sempre in un romanzo, alla sua fine, cioè al suo concludersi. Punto finale della finzione; e, conclusa
la finzione, c’è il ritorno alla realtà. Ma si conclude anche dall’esterno, perché irrompe il modello
reale Jerusalem e perché quella lettura è – se mi permettete l’espressione – una stonatura rispetto
alle altre. So bene che gli studiosi (a me non è nota alcuna eccezione) trattano questa lettura come
omogenea al sistema romanzo. Non sono d’accordo, però ne terrò conto nel prosieguo della
discussione poiché tale posizione contiene un aspetto ineludibile. Ma dapprima vogliamo riflettere
su questa doppia valenza, ricordando per l’occasione le parole di Italo Calvino: «Il senso ultimo a
cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte.» (Se
una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi 1979, p. 261).
La stonatura del Werther apriva un’epoca, solo che si insistette sulla continuità della vita. Nel
1799 Hölderlin concluderà il suo Hyperion senza dare l’ultima parola alle catastrofi che parevano
precludere ogni apertura sul futuro ma invece con le parole «Nächstens mehr [la prossima volta
scriverò più diffusamente]». Così termina questo romanzo epistolare; l’ultima lettera promette la
continuità della vita; l’apertura, non la chiusura; la continuazione, non la conclusione. Pochissimi
anni più tardi Brentano dissolverà il suo Godwi (1800-02) in una serie di narrazioni e poesie scritte
non soltanto da lui ma anche da amici, avendo come oggetto proprio il romanzo Godwi, che non è
concluso perché non siamo ancora all’ultima pagina, eppure è concluso perché è già oggetto di
commento; il sistema romanzo cessa per dar luogo alla vita, dopo tante esperienze luttuose. Goethe
stesso concluderà nel 1829 un romanzo di vita, di continue espansioni della vita, una vera e propria
enciclopedia della vita quali i Wanderjahre con le parole «(Ist fortzusetzen)». Un romanzo di vita che
si conclude con ancora più vita. Questo atteggiamento avrà un lungo successo. Ancora nel 1951
Beckett concluderà Malone meurt con le parole: «Il faut continuer.» Goethe, d’altra parte, aveva
provveduto a dichiarare incompiute anche le Episteln del 1794, preponendo loro nel 1814 il seguente
distico: «Gerne hätt’ ich fortgeschrieben, / Aber es ist liegen blieben.» (Mi sarebbe piaciuto andare
avanti, / invece le cose sono rimaste così). Un incompiuto dichiarato simmetricamente all’inizio,
mentre quindici anni dopo lo dichiarerà alla fine.
E ora si impone un deciso passaggio all’astratto, indispensabile se vogliamo arrivare al concetto.
Ci troviamo davanti a una contraddizione: il sistema si apre nel momento in cui si chiude. Si
chiude come finzione fin lì gestita; come tale, non ha più nulla da dire. E dunque si apre alla realtà,
di cui chi ha gestito la finzione è consapevole, ma sa anche che non può gestire la realtà con gli
stessi mezzi della finzione. Il sistema muore e sa che cosa lo avvicenderà. Dobbiamo chiederci come
atteggiarci. E dobbiamo presupporre che noi siamo interpreti, non scrittori che a un romanzo
rispondano con un altro romanzo. Dunque formuleremo un concetto, non una seconda finzione.
Del concetto interpretante, tutto deve essere verificabile. Ma dobbiamo tener conto di quella
frattura, di quella contraddizione; perciò l’interpretazione sarà una proposta che mentre si espone
mette in discussione se stessa. Tenderà dunque ad avere l’assolutezza del concetto, ma di un
concetto minato già mentre si costituisce.
Questo è il problema-chiave. Esso si articola in sotto-domande. Occorre infatti chiedersi se il
sistema comporti costitutivamente la propria contraddizione; chiedersi chi è a decidere che si tratta
di una contraddizione e chi e come la risolverà; chiedersi se il sistema è capace di aprirsi e chiudersi
a volontà.
Posto il problema, ecco i postulati:
Primo: Condizione dei risultati, cioè del concetto cui aspiriamo, è che esso si basi su tutto ciò
che è osservabile; cioè che il mondo osservato venga considerato concluso. Il nostro oggetto è il
Werther, quindi ci occorre tutto il sistema Werther, e precisamente tutto il sistema Werther unificato in
un oggetto solo e omogeneo. Infatti il concetto unifica il disparato e lo fa apparire un solo oggetto.
72
BAIG IV, gennaio 2011
Già questo ci dice che la visione omogeneizzante delle letture di Werther, di cui si diceva, risulta
contraddittoriamente ineludibile.
Secondo: L’oggetto Werther è oggetto per noi osservatori-interpreti entro un mondo che è tutto
oggetto di osservazione. Mentre osserviamo un solo oggetto, non dimentichiamo gli altri. La nostra
osservazione-interpretazione ha un decorso empirico, cioè si concentra su un oggetto e lo percorre
in lungo e in largo, ma più volte, tornando su di esso con esperienze fatte al suo esterno. E questo
ci dice il contrario del punto precedente, cioè che la visione omogeneizzante, necessaria a noi
osservatori, viene messa inevitabilmente in crisi da noi stessi.
Terzo: Distinguere tra finzione e realtà è un compito nostro, di noi osservatori-interpreti. Il
biologico, il vitale, l’indeducibile, l’imprevedibile, il non razionale o non ancora razionale si
presentano come compiti da affrontare da parte dell’interprete, ma sono rilevanti ben oltre
l’interpretazione. La soluzione è un atto decisionale che investe la vita; e l’oggetto osservato, nel
nostro caso il Werther, è solo uno tra gli oggetti coinvolti. La soluzione è decisione e in questo senso
è arbitrio. (Di fronte a germanisti potrei perfino utilizzare una parola fatale: è un Diktat.)
Detti succintamente: (1) Oggetto uno e concluso, (2) oggetto allargato e scardinato attraverso le
esperienze di vita, (3) arbitrio. Questi tre postulati non sono meno contraddittori della base di
partenza. Il fatto è che non siamo più ai tempi di Spinoza. Il ragionamento more geometrico non ci
assicura un successo conclusivo, ci conferma solo che il nostro compito si diffonderà in molteplici
direzioni, ovviamente contraddittorie o almeno disparate. Come la vita, appunto. E devo aggiungere
che il nostro dire (sicuramente il mio) risulterà inferiore al compito perché recepirà sì questo
paradosso ma si limiterà a esporlo, non lo mostrerà come vissuto; questa è cosa di altro dire, per
esempio di un romanzo che risponda al romanzo o almeno di una scrittura immaginifica che lo
continui in maniera non disomogenea. Col che risaremmo da capo, aprendo un nuovo circolo. Ma
siccome questa presente diceria profana si limiterà a esporre il paradosso, è pronta a far posto al
vissuto, che invece lo esperisce, aprendo così a sua volta un circolo, in ciò non disomogeneo al suo
oggetto, dal quale invece reclamava autonomia e sul quale voleva addirittura esercitare il suo arbitrio.
Avviluppatici per bene in queste contraddizioni, siamo pronti ad affrontare il compito.
All’epoca del Werther (17741) il modo più noto per inglobare la contraddizione e renderla
funzionale all’interpretazione della storia e della politica era quello della tripartizione proposta da
Rousseau: a una prima fase di ingenua perfezione segue una fase di mondo fratto e ingiusto mentre
una terza e ultima fase di ricomposizione viene proiettata alla fine dei tempi. Sappiamo che tale
modello ebbe grande successo in Germania, dove conobbe vigorosi adattamenti, ognuno diverso
dall’altro, a opera di Schiller (v. „Die Götter Griechenlands”), di Kleist (Über das Marionettentheater),
di Novalis (Hymnen an die Nacht, 5), di Hölderlin („Brod und Wein” e altrove). Hegel fu colui che lo
sconvolse di più, con le sue triadi susseguentisi. La presenza di Rousseau che si ritrova in Goethe è
indubbiamente marcata, ma non per questo aspetto. Anzi: per questo aspetto Goethe ne è fuori.
Frattura e continuità vengono da lui affrontate, ma su altro piano e separatamente. La frattura
estrema è indicibile: Werther muore e di conseguenza tutto tace. Questa è la frattura inevitabile e
irrimediabile, e Goethe la affronta rendendole giustizia con la cessazione del sistema romanzo e
dunque col susseguente silenzio. Mentre il compito della vita è inesauribile, sia con le parole sia con
i fatti: Ist fortzusetzen. L’insieme di frattura radicale e di ripresa è stato inteso, nel corso della storia
e del dibattito storiografico, come sintesi della rivoluzione. Questo complesso affronta Goethe,
proprio quel Goethe che parlava contro la rivoluzione ogni volta che trattava di rivoluzioni storiche
(e ricordiamo che si pronunciò sia sulla rivoluzione del 1789 sia su quella del luglio 1830); quel
Goethe che voleva eliminarla perfino dalla storia della natura, prendendo partito per i nettunisti
contro i vulcanisti. Un po’ sprezzantemente – ma non poi così a torto – sentenziò che „Per quanti
capricci faccia il mosto, quello che dà alla fine è sempre vino” (Faust II, atto II, vv. 6813-14: «Wenn
sich der Most auch ganz absurd gebärdet, / Es gibt zuletzt doch noch e’ Wein.»)
Diversamente stanno le cose presso coloro che si rapportano più da vicino a Rousseau, per
quante correzioni ne facciano. Prendiamo l’esempio Hölderlin. „Nächstens mehr”, conclude
Hyperion. Quando si va a vedere nella successiva opera poetica, si constata che il „Mehr” è già qui.
Non c’è da dimenticare che c’era stata la fortissima influenza del dibattito teologico, ravvisabile non
solo in Patmos e non soltanto da allora, cioè dal 1802; peraltro Hölderlin corregge i risultati di quel
dibattito non meno profondamente di quanto non corregga Rousseau. La frattura c’è stata con
73
BAIG IV, gennaio 2011
quella che per Hölderlin è stata l’ascensione degli dèi, di tutto il divino. Da allora il senso immediato
non c’è più, trovare sensatezza nella storia e vivere una vita sensata è cosa che ricade tutta intera
sugli uomini, sui loro fatti, sulle loro imprese, sulle loro interpretazioni. Il senso non ci si presenta
più con immediatezza, ma va mediato dall’interpretazione. La quale, a sua volta, non lo dà hic et
nunc, ma solo proiettandolo in un cammino infinito. L’adempimento dovrebbe esserci alla fine dei
tempi quando (nel suo linguaggio) gli dèi torneranno. Ma l’interpretazione, la conquista del senso,
l’adempimento della promessa (la promessa del ritorno) avvengono storicamente; il loro insieme va
distribuito lungo la storia: „Denn göttliches Werk auch gleichet dem unsern, / Nicht alles will der
Höchste zumal.” (Patmos, vv. 162-63: „L’operare divino è uguale al nostro, / l’altissimo non vuole
tutto insieme”). Il «vero senso futuro sarà identico alla storia compiuta fin allora» (Kosellek 77,
parafrasando Bengel). Insomma il regno di Dio è questa nostra stessa storia, con le sue
manchevolezze e con le sue tragedie. Nell’interpretazione, cioè nella costituzione del senso, ci guida
l’ipotesi di una ricostruzione di una comunanza con gli dèi, che Friedensfeier esemplifica. Gli dèi non
ci sono, d’accordo, ma lo schema ricostruttivo è dato. Ribadisco la conclusione: il regno di Dio è
questa nostra storia (cfr. Kosellek 78) e il suo senso si riassume nei seguenti versi di Hölderlin:
«Denn alles ist gut. Drauf starb er. Vieles wäre / Zu sagen davon.» (Perché tutto è bene. Ciò detto,
morì. Molto / ce ne sarebbe da dire.)
Questa è la grande costruzione di Hölderlin detta in breve. Le grandi costruzioni di Goethe
hanno altro carattere. Parla anche lui di totalità, ma il suo modo di intendere l’intuizione
(Anschauung), l’idea, lo Urphänomen e il suo sviluppo nell’empiria gli faranno seguire tutt’altre
strade. La sua produzione è stata la più variata possibile e si è estesa su un arco di cinquant’anni;
tuttavia si possono ricavare delle costanti, pertinenti al nostro discorso. In alcune opere Goethe non
si è proposto alcuna soluzione positiva; queste vanno dal Werther alle Affinità elettive. A suo stesso
dire, Werther ebbe successo perché descriveva una situazione diffusa; fu dunque la descrizione ad
avvincere gli animi, non una qualche proposta per uscirne. Non ebbero un gran successo Le affinità
elettive, comunque nemmeno lì ci fu una proposta di senso. Se le si interpreta come bilancio della
situazione in Germania in seguito alle conquiste napoleoniche, con le conseguenze politiche del
caso, allora esse appaiono come un dimostrare all’interlocutore Rousseau che nessuna della sue
utopie era andata a buon fine. Se invece si vede l’opera in una prospettiva salvifica, come pur è
lecito, allora ci muoveremo nella direzione del mito: Ottilie si districa dal suo caos attraverso il
mutismo, cioè (letteralmente) attraverso la rinuncia al logos e la parallela rinuncia a mantenersi in
vita; ciò – la fine del logos, la morte – le apre l’accesso al mito. Questo è salvifico non solo per
Ottilie ma per tutti: il corpo di Ottilie morta si crede compia miracoli, il suo restare come idea (oltre
che come santa) dà senso alle vite rimaste. Goethe ha una sua teoria sul modo di tenere insieme
soluzione positiva ristretta e visione generale negata. E poi ha anche una sua specifica prospettiva,
che gli consente di parlare paradossalmente di soluzione positiva universale, pur nella negazione, ma
a patto di infrangere il sistema. Della soluzione positiva ristretta si ha teoria nella Farbenlehre e nei
Wanderjahre, mentre la contraddittoria prospettiva generale è alla base di Faust II. Dunque le
premesse poste in Werther sono state sviluppate in più direzioni e fino alla fine. Goethe arriverà a
porre come ideale la conoscenza della natura quale totalità; ma subito dopo negherà che tale ideale
lo si possa realizzare. La conseguenza è che quel che viene chiamato salvezza si pone al di là di un
salto logico non garantito. Fra una totalità impossibile a conoscersi e una salvezza che non esiste
senza fusione con la totalità si apre uno iato. Il punto è: come riempirlo. Se salvezza è afferrare la
totalità e se ciò è impossibile nel tempo e secondo tutte le premesse scientifiche, metafisiche,
gnoseologiche che Goethe andò esaminando fino alla conclusione di Faust II, allora la salvezza (se
c’è) è nel mito, fuori del logos, fuori della storia, arbitraria, artificiosa e non credibile dall’interno del
sistema; beninteso: dall’interno del sistema del logos. Il mito salvifico è infatti opera poetica e, come
tale, anch’esso costruzione umana. Il sistema si frantuma, il sogno globale non è garantito, la
conciliazione si struttura con la ricchezza di un’utopia. La sfera salvifica non interviene sulla
quotidianità della vita, a regolarla, a dirigerla, a normarla; e il senso offerto alla fine è l’opposto di
quel che poteva apparire dall’interno dei singoli momenti storici: il mito salvifico non realizza quasi
nessuna delle esigenze umane. Per esempio Faust torna a vedere Margarethe, non però Elena; e
dell’umanità che voleva liberare (con un proposito che gli costa la vita) non c’è più alcuna
menzione. Dunque le ipotesi umane restano umane, il mito finale non è un modello per questa vita.
74
BAIG IV, gennaio 2011
Tuttavia l’autentico agire umano ha sempre a che fare con l’infinito (impariamo dai Wanderjahre); e il
modo migliore di ottemperarvi è mimarlo in noi stessi nella sua natura e composizione, anche se
non è data alcuna garanzia di successo, già per la sola constatazione che fra la consonanza con la
totalità e la scelta dei mezzi s’apre una cesura che ci espone a ogni pericolo.
Il concetto di totalità, così come lo sto usando, si forma dalla seconda metà del Settecento ai
primi dell’Ottocento, con il contributo di tanti filosofi e teologi. La totalità si configura come
totalità progressiva. Una storia particolare viene ritenuta comprensibile solo entro la storia
universale poiché materia della storia è solo quel che è progressivo, poiché la storia in generale,
quella umana come quella divina, disvelano nel tempo il loro contenuto di verità; lo stesso regno di
Dio si sviluppa su questa terra progressivamente, inglobando il senso della storia, man mano che
esso si produce (Kosellek 62, 77, 85). La totalità diventa la misura fondamentale.
Questa fu una grande conquista culturale, addirittura liberatoria per quanto riguardava le
prospettive escatologiche, nelle quali l’interpretazione umana veniva ad assumere la funzione
decisiva. Ma fu anche un’arma a doppio taglio. Infatti la totalità ammette solo fratture ricomposte o
prossime alla ricomposizione, altrimenti, è ovvio, non c’è totalità ma solo frammentazione. Dunque
proprio la totalità, che dovrebbe comprendere tutto, non spiega le catastrofi poiché per essa non ci
sono oppure sono già passate e assorbite. Meno che mai spiega la morte.
Data la ricchezza, anzi la poliedricità delle sue posizioni, nessuna delle quali si lascia respingere
contrapponendogliene un’altra, poiché tutte sono autonome e ciascuna si regge di per sé, Goethe
può essere preferito per l’una o per l’altra prospettiva: per l’armonizzazione totale tanto quanto per
la non-risolutività totale. Ritengo però – al di là delle mie personali preferenze – che Goethe
autorizzi la domanda se in generale il suo sistema, anche e soprattutto quello in cui la salvezza finale
nasce per un salto logico (e dunque non è garantita dall’interno del sistema in cui si muove la vita)
non nasca già come fluttuante, col compito di riassestarsi ogni volta, eventualmente mediante
apporti esterni non riassorbibili nell’omogeneità. È una domanda che lascio aperta, come tema di
riflessione.
La diffusa posizione che inserisce la lettura di Emilia Galotti nella serie omogenea delle letture di
Werther ci dice che l’amore per l’armonia è dominante per la buona ragione che è essa ad assicurare
la continuità della vita. Dunque quella posizione è ineliminabile e, a suo modo, giusta – perfino se
filologicamente manchevole. Ma è ancora essa a tenere troppo stretti i confini del nuovo. Possiamo
tentare di liberarcene quanto più si può, anzi è doveroso farlo, però essa reclamerà costantemente i
suoi diritti e vincerà finché c’è vita. Ci possiamo permettere delle libertà a vantaggio della
disarmonia e della contraddizione, ma solo nelle more, finché non tornerà a profilarsi questa
vittoria. Senza nel frattempo dimenticare che le aperture che si propongono e queste stesse libertà
sono la morte. La morte fa sì parte della vita, ma come parte finale, conclusiva, assoluta; e
assolvente, aggiungerebbe Goethe. Ma senza nemmeno dimenticare che quella posizione è illusoria:
ci illude sulla realtà, sulle fratture, sulla morte. È un rifugio, non una soluzione. D’altra parte la
soluzione non c’è. Ci pensiamo immortali. Una considerazione più consona alla realtà ci deve far
presente che noi – concreatori dell’opera in quanto suoi lettori – dobbiamo pensare la frattura,
dunque contraddire la nostra voluta armonia, per poi però trovare rifugio proprio in essa. Nessuno
può parlare della propria morte per esperienza diretta. Chi ci ha provato, come per esempio
Maurice Blanchot (L’istant de ma mort, 1994 – Gallimard 2002), ha scritto cose indubbiamente
importanti, ma non convincenti fino in fondo. Altri tipi di fratture però sono state dette; e scrittori
della frattura, come Kleist o Kafka, ci hanno mostrato quanto è possibile spingersi lontano.
Werther, finché non muore, legge per imitare. Musil ha esortato a vivere secondo la lirica, non
secondo il romanzo, non secondo quel filo del racconto che finge di tenere tutto insieme.
Intendeva, con «lirica», la non connessione degli eventi, l’attimo in cui si coglie una verità attraverso
il vissuto, attraverso tutto se stesso. Si costituiscono, in tal modo, isole di significato, vivibili
attraverso una ricerca costante e comune di un senso che è per tutti solo se lo costituiscono tutti.
Impresa immane, che comporta rischi incessanti, forse non superati nemmeno da Musil stesso.
Siamo forse finiti in un vicolo cieco? Non credo. Il dimenticato Schleiermacher – oscurato, per
la memoria odierna, da chi ha detto cose non altrettanto importanti – ci offre eccellenti spunti per
uscirne. Ma ciò vorrebbe dire sviluppare un nuovo sistema, cosa che è preferibile delegare ad altra
sede. In questa vorrei invece concludere ricordando alcuni amici morti, eccellenti in tante cose, fra
75
BAIG IV, gennaio 2011
cui – in primis – l’ironia. Uno è Cesare Cases, il quale ammoniva a prendere sul serio lo spirito del
mondo e molto meno noi stessi. Un altro è Sandro Barbera, limitatosi alla fine alle totalità parziali,
ricordando come l’oscuro che non riusciamo a ricondurvi ci presenterà un conto di cui non è
prevedibile l’ammontare, così come non lo è la nostra capacità di reagire. Entrambi coltivavano la
categoria della totalità, però ci credevano sempre meno. E da ultimo ricordo un terzo amico:
Luciano Zagari, che alla totalità non credeva né punto né poco.
Non ho fatto in tempo a diventare amico di Sanguineti, che in questa occasione avrebbe dovuto
essere tra noi. Forse avremmo potuto chiedergli dell’epigrafe alle sue Postkarten del 1978, che è,
guarda coincidenza: «gerne hätte ich fortgeschrieben»; e di quel suo verso di Stracciafoglio (1980): «era
un mio vecchio progetto, / se ricordi, riscrivere l’Ortis: (oggi direi il Werther):». Col che siamo tornati
al Werther e alle nostre difficoltà.
Dal vicolo cieco usciremo finché ci saranno vita e chiarezza di idee. Ma alla continuità della vita
farà seguito l’ineluttabilità della morte. Ciascuno di noi deciderà, in ultima istanza, se ad
accompagnare il nostro feretro ci sarà o no un Geistlicher; in caso affermativo, se costui sarà per
forza un uomo di chiesa (come vuole il corretto intendimento del termine) oppure se lo spirito, il
Geist, verrà rappresentato in altro modo.
Nel frattempo, pace alla memoria di Werther e lunga vita a tutti noi.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Citazioni dal Werther:
I dolori del giovane Werther. A cura di Maria Fancelli. Mondadori, Milano 1983.
Reinhart Kosellek:
Storia. La formazione del concetto moderno. Traduzione a cura di Rossana Lista. Clueb, Bologna 2009.
Le considerazioni di Goethe sul Werther, e in particolare la dichiarazione cui si allude nel testo, si
trovano in Dichtung und Wahrheit, libro XIII.
Tra i germanisti è stato dibattuto se l’indicazione finale dei Wanderjahre sia da riferirsi a tutto il
romanzo oppure soltanto alle massime comunicate «Aus Makariens Archiv» oppure infine soltanto
alla poesia messa in fondo, che dagli editori ricevette il titolo «Bei Betrachtung von Schillers
Schädel». Per quanto importante sia la questione sotto altri aspetti, essa non è rilevante al nostro
fine. Quel che qui ci interessa è che la pagina finale del romanzo non reca la parola „Fine” o
comunque una chiara indicazione della fine ma, appunto, «(Ist fortzusetzen)». Il romanzo, nel suo
finire, non finisce.
DIBATTITO
De Angelis:
Avete qualcosa da dire? Qualche espettorazione urgente?
Reitani:
Sì, naturalmente questa bellissima relazione di Enrico è così ampia, così vasta, così profonda nella
sua trama, così piena di riferimenti che non riguardano soltanto il nostro tema - non riguardano
soltanto il Werther, abbracciano l’opera complessiva di Goethe, abbracciano l’intera Goethezeit,
toccano temi fondamentali della nostra vita - che mi sembra (probabilmente lo è) riduttivo, kleinig,
ritornare dal testo al tema specifico della lettura che è stato ampiamente trasceso dal discorso – un
discorso di metodo, ricco di spunti, un discorso addirittura teologico e filosofico per alcuni versi –
però la tentazione è troppo forte, anche per ingannare un po’ il tempo, di riportare il discorso sul
76
BAIG IV, gennaio 2011
nostro tema specifico e sul problema della lettura in Werther. E qui devo dire che non mi convince
quello che hai detto, perché è vero che Werther è il lettore della modernità che fa dell’esperienza del
testo un’esperienza di vita che nel testo trova una molla per scatenare le sue emozioni, per
ricomporle, ma questo presuppone evidentemente la discontinuità delle esperienze di lettura, non la
continuità, e nel romanzo ogni singola lettura è una lettura intensiva, è una lettura dissociata perché
non c’è nulla di più opposto tra l’Omero della prima parte e l’Ossian della seconda; sono
evidentemente proprio in una relazione antinomica, perché rappresentano esperienze
fondamentalmente diverse e l’idea che c’è in fondo in questo tipo di approccio è proprio quella
opposta all’intellettualismo. È vero che Werther non è un intellettuale perché non fa delle letture
estensive, perché rifiuta il sapere come orientamento del mondo, ma questa è la dimensione apriori
della sua situazione; l’apriori della sua situazione è il rifiuto di un intellettualismo, il fatto di rifiutare
un’idea di orientarsi nel mondo, di fare delle scelte, ed è il rifiuto del sapere libresco, il rifiuto del
libro come sistema, della stanza in cui si studia, si legge il libro, perché la condizione della lettura nel
Werther non ci dimentichiamo che è una lettura all’aperto. Werther legge mentre passeggia,
cammina, è immerso nella natura; l’approccio è assolutamente diverso da quello dell’intellettuale che
legge nel suo studio; non è San Giorolamo nel suo studio, circondato dai suoi libri, ma è dentro la
natura, e chiede all’amico di dargli un’edizione precisa di Omero, un’edizione in formato tascabile,
molto piccola, perché ne ha bisogno per passeggiare. Quindi questo è il segno distintivo cioè
cambia la modalità della lettura e quindi ogni esperienza è diversa, ed è ampiamente diversa:
l’esperienza della lettura di Omero, di Ossian, e quella di Lessing, e poi c’è ovviamente Klopstock,
ma questa non è una lettura, ovviamente, bensì l’evocazione di un testo di un autore rispetto a un
fenomeno che riconduce all’esperienza letteraria, quindi c’è questa corrispondenza biunivoca tra il
fenomeno della natura e l’esperienza estetica. L’esperienza di Lessing è per questa ragione
discontinua nel sistema romanzo perché ogni esperienza è diversa; ma è diversa per due ragioni di
modalità. La prima è che è una lettura al chiuso, non è una lettura fatta più all’aperto, è fatta nello
studio, e la seconda è che è una lettura interrotta, non portata a termine. C’è il libro aperto che
rimane sul leggio, quindi non è l’esperienza compiuta; ovviamente c’è il tema della morte, del
suicidio della limitazione della soggettività, ma c’è questa limitazione data dal fatto che il libro non è
compiuto e che rimane aperto. Apprendiamo soltanto in quel momento che c’è un leggio e che c’è
anche questo tipo di esperienza, quindi credo che siano tre momenti diversi, e la cosa che un po’ mi
ha colpito, e che non è emersa nemmeno nelle relazioni che abbiamo ascoltato, è che manca
quell’altro tema di cui spesso si è parlato, quello della lettura contrapposta a quella dei libri, la lettura
del mondo. È il tema della leggibilità della natura, della leggibilità del mondo come libro che si apre,
perché in Werther e in Faust c’è la contrapposizione tra il libro della natura e il libro che deve dare
degli orientamenti; in Faust è fortissima, nella famosa scena Studio, la contrapposizione tra questo
sistema polveroso, che non ha più niente da dire, che è in sé limitato, e invece il libro della natura,
che bisogna aprire, sfogliare. Questa è l’esperienza anche di Werther; la sua intelligenza passa
attraverso il rapporto con la natura. Per questo dicevo che, affascinato da questa splendida
costruzione, dalle sottigliezze che ci sono, la tua analisi dal punto di vista filologico non mi
convince; poi mi sbaglio, probabilmente.
De Angelis:
Non potremmo essere effettivamente più lontani. Ecco la dimostrazione vivente – grazie! – di come
il concetto di continuità riesce a vincere; ma l’avevo anche annunciato. Tu parli di discontinuità
all’interno di un sistema chiuso, di piccole fratture all’interno di un sistema che è comunque chiuso,
la lettura. La lettura è discontinua, da Omero a Ossian. D’altra parte lo dice Werther stesso: «Nel
mio cuore (non cervello: cuore!) Ossian ha soppiantato Omero». In questo senso è discontinua,
sono due autori opposti, o almeno presentati come opposti. La continuità, però, è stata detta subito
attraverso Werther quando, la prima volta che viene citato Ossian, dice: «Uno mi ha chiesto ieri se
mi piace Ossian. Piacere?» E si scatena là, «deve investirmi tutte le fibre», eccetera.... Con Omero è
esattamente lo stesso. Come legge Omero? Lo definisce. Sono schleiermacheriano in due sensi: nel
senso della lettura grammaticale e nel senso della lettura interpretativa. Grammaticalmente viene
detto che la lettura, qualunque lettura, viene fatta perché devo produrre il mondo dal mio interno;
una volta lo produce leggendo o citando Omero, un’altra volta lo produce attraverso Ossian, ma
77
BAIG IV, gennaio 2011
non interpreta il mondo, non legge il mondo. Lo dice: proietta il suo cuore sul mondo, una volta
fingendo che il mondo sia patriarcale, e crede che l’Odissea parli di cose patriarcali, un’altra volta
abbandonandosi alle tempeste del cuore; una volta cercando rifugio dalla società cattiva e vile che
l’ha appena cacciato dalla sala in cui sono entrati i nobili, e va a leggere la storia del porcaro
guardando il tramonto, cioè producendo dal suo interno tutto questo patriarcalismo, e un’altra volta
rischiando di rimetterci l’osso del collo perché va nella notte buia e tempestosa su per un colle e poi
la mattina dopo si meraviglia che non sia già morto allora. Perché dici che la lettura dell’Emilia
Galotti è interrotta? Chi te l’ha detto? Non c’è scritto. C’è scritto: aufgeschlagen. E chi ti dice che
non sia sull’ultima pagina? Non lo sappiamo, perché questa lettura interrompe il romanzo, finisce il
romanzo. Questa lettura non è rapportabile a nient’altro perché non hai nessun elemento per
rapportarla ad altro, siamo filologi. Di come Werther legge Omero sappiamo tutto; di come
Werther legge Ossian sappiamo addirittura di più, perché lo traduce perfino; che cosa ci stia a fare lì
l’Emila Galotti non lo conosce nessuno. E a che punto l’ha letta? Prendiamone atto. Prendiamo atto
che sta lì come oggetto misterioso, e all’ultima pagina del romanzo. Questo vuol dire qualche cosa.
Se finisce il romanzo, alla fine del romanzo che c’è? C’è il non romanzo, e via di questo passo.
Chiarloni:
Questa può essere anche un’occasione per ripassare le cose che abbiamo imparato da giovani. Io mi
ricordo che Lessing – forse nel Mittner, non sono sicura – quella lettura viene inserita come
riferimento molto preciso, e cioè come nell’Emilia Galotti l’aristocrazia è colpevole di..., così
Werther, che è cacciato dal salotto aristocratico e via discorrendo, potrebbe essere interpretato
come una vittima del sistema. Per questo parlo di ripasso e anche del nostro fare con gli studenti;
questa ipotesi tu la escludi? Perché mi ha colpito questo tuo isolare Emilia Galotti come un elemento
così spurio e strano.
De Angelis:
Se vogliamo armonizzare lodiamo la vita, e tutti la vogliamo lodare; se vogliamo prendere atto della
realtà, dopo la vita c’è la fine della vita, diciamola così. Chi te lo dice che l’Emilia Galotti sia lì come
protesta contro l’aristocrazia? Se ne ricorda dopo metà romanzo, finalmente? Caspita, quanto è
lento di riflessi! Può darsi, ma non c’è scritto. Noi sappiamo perché non c’è scritto, se vogliamo
ragionare esteriormente al romanzo, cioè se vogliamo fare i positivisti: perché Kerner, che scrive il
famoso Bericht su Jerusalem, dice: «Sono andato là, ho visto l’Emilia Galotti, però non mi ricordo
più a che punto fosse aperta». E quindi Goethe non ce l’ha messo. Ma non ne sappiamo nulla
perché era talmente emozionato quando andò a vedere il cadavere di Jerusalem che non se lo
ricorda più. Ma queste sono cose esterne al romanzo; se noi leggiamo il romanzo, noi sappiamo che
non sappiamo niente. Basta. E se noi siamo lettori e interpreti di romanzo, questa è la constatazione
da fare. Stona, non è stata spiegata; che ci sta a fare lì? La stonatura va interpretata, non scartata.
Destro:
Ma anche accettando la tua posizione, noi non sappiamo a che pagina è aperta l’Emilia Galotti, però
non sappiamo neanche che pagine aveva letto di Omero...
De Angelis:
Ce lo dice sempre. Sappiamo tutti i capitoli che legge.
Destro:
Sappiamo la chiave di lettura, l’interpretazione patriarcale – fa a pugni con una larga parte di
Omero, dell’Odissea –; su Ossian sappiamo di più, perché abbiamo ancora delle traduzioni con i
passi specifici... Quello che voglio dire: in entrambi i casi, nel caso di Omero e nel caso di Ossian,
abbiamo l’impostazione generale della sua lettura di Omero e di Ossian, siamo in grado di
identificare alcuni punti specifici ma quello che interessa poi è il quadro generale, la sua
interpretazione generale di questi testi. Per l’Emilia Galotti potremmo applicare la stessa cosa: non
sappiamo quale scena specifica lui ha davanti, però sappiamo che ha letto Emilia Galotti. Sappiamo
che ha letto solo fino a questo punto e non ha letto fino alla fine oppure sappiamo che l’aveva letta
78
BAIG IV, gennaio 2011
e che è una rilettura, come nel caso sia di Omero sia di Ossian? Se è una rilettura allora perde
importanza sapere a quale pagina fosse aperta, allora entra in ballo l’interpretazione generale
dell’Emilia Galotti. L’interpretazione generale – e qui mi rifaccio a un vecchissimo corso che ho
fatto; è un po’ di anni che non torno sul Werther – è il problema di un conflitto che non si dissolve
se non con la morte nel caso di Emilia Galotti, del conflitto tra una norma e una pulsione interna Emilia Galotti che è oggetto di una pulsione sessuale ma che in fondo partecipa in qualche maniera
a questa pulsione sessuale e quindi si sente colpevole...Mettere in ballo l’Emilia Galotti a proposito
degli ultimi momenti di vita di Werther si può leggere come un Werther che è preso da una
contraddizione irresolubile, come è propriamente, e che quindi sceglie la morte. Non è il padre che
lo uccide come nel caso dell’Emilia Galotti ma è lui stesso che si uccide per sottrarsi a una
contraddizione da cui non riesce a venire fuori. Ecco che allora questa comparsa di Emilia Galotti
nelle ultime pagine non è più così ambigua, così misteriosa... Certo, se avessimo l’indicazione „Atto
terzo, scena seconda”, potremmo elaborare più in dettaglio, però anche la nostra interpretazione
delle letture di Omero e di Ossian si basa molto più sulla sua lettura complessiva di questi autori che
non sui singoli passi che noi possiamo identificare. Parlando della lettura del Werther bisogna
distinguere tra quelle che io finora avevo chiamato le sue letture in situazione, cioè Omero, Ossian,
Emilia Galotti, e le memorie di lettura. La prima, quella che hai citato tu, è Klopstock, l’altra, meno
evidente - tanto è vero che la critica l’ha scoperta solo 150 anni dopo la pubblicazione del romanzo
- è la serie di riferimenti evangelici dal titolo in poi, dai „dolori” che sono la passione di Werther e
via via un’infinità di altri riferimenti meno evidenti, ma una volta messi in luce assolutamente non
discutibili. Questi sono dei campi di riferimento di cui senza dubbio l’impatto maggiore può essere
riconosciuto alle letture attuali, alle letture in situazione, ma anche le memorie di lettura hanno un
loro ruolo.
Kruse:
La relazione mi sembrava così bella che all’inizio non volevo intervenire, però visto che siamo
entrati nel merito...Per quanto riguarda l’Emilia Galotti, a me invece sembra che sia azzeccata proprio
alla fine del Werther, perché Werther è un lettore molto empatico: Klopstock, Omero, poi
Ossian...Emilia Galotti in fondo sfugge alle sue passioni, che vengono suscitate; per questo vuole
suicidarsi, ma è il padre a ucciderla. Ambedue temono di essere sopraffatti dai sentimento della
propria passione, ambedue finiscono la propria passione attraverso la morte. Per quel che riguarda
l’interpretazione della lettura – posso solo ricordarla nell’interpretazione di un altro germanista
morto – Werther era un lettore empatico, che nella lettura vuole realizzare la sua vena artistica. Lui
stesso riesce a disegnare, a trasformare la sua vita in arte, man mano che perde il controllo della
propria vita, mentre Goethe questo controllo non lo perde, scrive il Werther, che sembra scritto
seguendo la passione ma non lo è, è costruito proprio con dei riferimenti puntuali, come un’opera
artistica, e quindi l’opera come artefatto si contrappone e sopravvive al confronto del personaggio.
Quindi è un tipo di lettura non empatica ma segue quel modello di empatia a distanza che ci porta a
una lettura artistica, quindi è l’arte, che aiuta a vivere e a continuare a vivere.
Reitani:
Mi scuso se intervengo un’altra volta. Io volevo chiarire che, a mio modestissimo avviso, il libro
lasciato aperto sul leggio è uno dei tanti segni che Werther lascia alla posterità per dare un senso al
proprio gesto. Werther prepara in modo assolutamente razionale la propria morte: decide come
morire, prende le pistole in prestito, decide il giorno, la data... è tutto altamente simbolico, è una
Selbstinszenierung, è un atto costruito. Inoltre decide di lasciare il libro aperto: questo è un
testamento che lui lascia alla posterità e un segno preciso per dare un senso alla sua operazione.
Perché un libro aperto? Perché in quel momento l’Emilia Galotti veniva letto – questa è
l’interpretazione più diffusa – come la giustificazione del suicidio; il gesto di Emilia viene letto
come un suicidio attraverso la spada del padre che la trafigge – perché il suicidio ha un senso per
preservare la virtù contro l’oppressione. Il suicidio di Werther vuole andare in questa direzione,
vuole essere una legittimazione del suicidio e chiama a testimone quello che è il testo unanimemente
diffuso con questo significato.
79
BAIG IV, gennaio 2011
Sanna:
C’era un pasaggio della relazione di Enrico in cui diceva „teoria dell’interpretazione”, „vissuto
dell’interpretazione”. Noi stiamo mettendo al centro il vissuto dell’interpretazione, un aspetto che
tutto sommato nella relazione di Enrico era marginale, ma su cui noi non troviamo un accordo.
Anch’io a proposito ho la mia idea, cioè che sembra meno ambigua la lettura dell’Emilia Galotti
perché inserita in una struttura del testo, per esempio, come le altre letture importanti di Omero e
Ossian, che hanno la loro dialettica di domanda e risposta, proprio il fatto che all’Emilia non ci sia
risposta indica in realtà una Leerstelle che troviamo attraverso tutto il testo, quindi il problema si
pone come si è posto per le altre letture importanti. In secondo luogo metterei per esempio in
rapporto – diversamente dalle opinioni sentite finora dai colleghi, se non vado errata – l’intervento
dello Herausgeber con questo finale apparentemente aperto. Non sappiamo a quale pagina sia
aperta la lettura perché nell’originale, nella vita, non c’è indicazione della pagina, ma a Goethe sta
bene, altrimenti potrebbe cambiare le carte in tavola, nessuno glielo avrebbe impedito; vedo in
questo finale aperto una ripresa del dilemma tra pubblico e privato che attraversa tutto il Werther, e
un’accentuazione in qualche modo della prospettiva pubblica, cioè è il versante pubblico che in
questo modo viene reintrodotto nel Werther e questo è parallelo alle modifiche tra primo e secondo
Werther. Questa però è un’opinione come tutte le altre; bisognerebbe tornare al testo e verificare
tante altre cose, ne sentirei veramente il bisogno, per cui ben vengano le neuroscienze – la butto lì
ma lo dico in realtà sul serio – se per esempio non solo in questo modo si riuscisse a trovare un
accordo tra linguistica e letteratura, ma anche un punto di partenza per noi letterati per verificare il
ventaglio delle nostre opinioni.
Cambi:
Grazie, Enrico, per questa ricchezza che poi nella discussione si sta ulteriormente allargando.
Bisogna cercare anche un po’ di mediare tra alcune posizioni. Sono d’accordo anch’io con Luigi ma
anche con Simonetta, il libro aperto è un messaggio che volutamente Goethe vuole lasciare alla
posterità. D’altra parte io penso che intenzionalmente Goethe abbia inserito quest’opera,
estremamente attuale, estremamente dibattuta, uscita due anni prima, e qui vado incontro a Enrico,
in quanto si pone sostanzialmente in questi anni per la prima volta il grosso problema della lettura
della morte all’interno di un’opera, che sia teatrale, che sia narrativa come Werther. Quindi il tema
della morte, della rottura, dell’ineludibilità, dell’inevitabilità della morte, è un tema sulla fine degli
anni Sessanta e gli anni Settanta. Gerstenberg nel 1768 propone una conclusione dell’Ugolino che
non lo soddisfa, però dice: «Me la sento io di rappresentare un suicidio?», cosa che farà nella
seconda Fassung del 1815, dopo quanti mai anni, siamo alla Spätromantik. Lessing stesso, nel
quarto atto (ci sono sue dichiarazioni, a parte le sue crisi consuete nel momento in cui costruisce il
quarto atto), visto che si trova a Braunschweig ha dei timori per la rappresentazione di un possibile
suicidio. Emilia Galotti è l’opera che i giovani coetanei di Goethe apprezzano moltissimo, Lessing è
uno dei pochi autori che si salva. Quindi diciamo che secondo me in fondo Goethe nell’attualità del
momento si fa anche forte, anche per rafforzare la dimensione pubblica di cui parlava un attimo fa
Simonetta, di un’opera che indubbiamente pone al centro un tema scottante. È un tema scottante
quello della lettura della morte inserita all’interno di un’opera letteraria, tenuto conto che era da
considerarsi un enorme peccato sul piano religioso, sul piano teologico. Dovremo attendere poi la
lettura della morte dell’autore stesso, come Kleist, un autore che si uccide, siamo nel 1811; io credo
molto in una ricontestualizzazione, ma anche nel fatto – e qui l’ampiezza della relazione di Enrico,
la densità di riferimenti nella parabola che lui ha percorso nella relazione ponendo dei temi
estremamente complessi - che in fondo la discontinuità, la rottura, le fratture, saranno in definitiva
anche teorizzate, senza rappresentare le conclusioni tragiche della morte nel saggio di Schiller, cioè
la conflittualità, la rottura del soggetto nei confronti di ciò che gli sta intorno, cioè che o è natura o
è condannato a cercare la ricomposizione con la natura, è condannato a cercare una ricomposizione
in una totalità. Qui veniamo a un tema che poi sarà il filo conduttore soprattutto del Novecento;
partendo appunto dall’Ottocento, da Hegel, queste riflessioni tra piccole fratture e piccole
discontinuità da ricomporre possibilmente oppure irricomponibili come citava Enrico nel capitolo
122, se non ricordo male, «Heimkehr», dove Ulrich riflette e Musil ci dice che sarebbe bello poter
ricomporre...beato colui che può dire «prima che.., dopo che...», stabilire dei nessi causali di causa-
80
BAIG IV, gennaio 2011
effetto, ma in realtà le cose stanno in modo diverso.
De Angelis:
Ci sono altri interventi? Credo che ci siamo detti sostanzialmente tutto. Come era facile attendersi,
l’ipotesi armonizzante è schiacciantemente maggioritaria, non da oggi; nella tradizione del Werther
questa è l’ipotesi base, totale; piccole variazioni ci sono qua e là, se riempire questa lacuna in un
modo – non sappiamo, ripeto, che cosa legge dell’Emilia Galotti - , se riempirla in un altro, però va
riempita. Per voi. Per me no, io non ho paura delle fratture; sarà che forse ho letto troppo Musil,
come diceva Cambi, sarà forse che ho letto troppo Schleiermacher, come preferisco pensare io, ma
non mi fa paura, perché è vero che vogliamo tutti continuare a vivere e che questo congresso non
seguiti a portare ulteriore jella come invece ha fatto finora, però sappiamo anche, nei momenti in
cui vogliamo confessarcelo, che non sarà così. E allora, se la maggior parte del nostro tempo
vogliamo riempirla dicendo: «Voglio continuare a vivere», va benissimo; se ogni tanto vogliamo dire:
«Ma non sarà così», lasciamo spazio anche per quello. La filologia ci aiuta a fare una cosa, l’illusione
ci aiuta a farne un’altra; la filologia ci aiuta a dire: «Non lo so», e quindi qui c’è una frattura. «Quod
perditum est, perditum ducas.» Non c’è nessun filologo che conosca io in vita mia che si rassegni a
questa semplice frase. Se non c’è, non c’è, e d’altra parte, lo diceva Calvino, la continuità della vita...
Ricordate come finisce Se una notte d’inverno un viaggiatore? I due si sono sposati, sono a letto... Lei:
«Caro, ti prego, spegni la luce»; e lui: «Ancora un momento. Sto per finire Se una notte d’inverno un
viaggiatore di Italo Calvino.»
81