Congresso AIG “La lettura” - Pisa, 20
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Congresso AIG “La lettura” - Pisa, 20
CHE COSA LEGGE WERTHER Enrico DE ANGELIS (Pisa) «Klopstock!» [38] esclama Lotte commossa, ponendo la mano su quella di Werther. Questi, a tale detto, si commuove ancora più di lei, sprofonda nel mare delle sensazioni, si china sulla mano di Lotte e la bacia, inondandola di lacrime. La tempesta è appena passata, i tuoni risuonano ormai lontani e i due traducono l’esperienza in un ricordo letterario. I sentimenti sgorgano appieno solo allora. Lotte, del resto, aveva già detto [30] di amare quegli autori nei quali poteva ritrovare in suo mondo. Werther ne era rimasto subito commosso, anzi era andato «fuori di sé». Non solo la letteratura, ma l’arte in genere è per entrambi una scatenatrice di sentimenti, oppure una loro equilibratrice. Così succede a Lotte con danza e musica, così a Werther per il disegno. A Lotte basta suonare al pianoforte [30] oppure ballare per il giardino [48] una contraddanza perché tutto torni a posto, come dice con parole che Werther ripeterà in altra occasione quasi alla lettera. In mancanza di contraddanze vanno bene anche dei minuetti [174-76]. Werther disegna per esprimere i suoi sentimenti nei confronti della natura, disprezzando le regole [18] e formando il mondo dall’interno della propria anima [16]. E quando un increscioso, umiliante incidente lo mette di malumore, gli basta leggere Omero – l’Odissea – perché tutto torni a posto, come appunto diceva Lotte [118]. Che cosa cerchi in Omero, ce lo dice esplicitamente: inserire nella propria vita dei tratti di vita patriarcale [42], però, ce lo specifica, come «sensazioni», dalle quali lasciarsi colmare. «Sensazione» (Empfindung) è la parola-chiave, così spesso ricorrente, insieme a «sentimento» (Gefühl). Un libro non deve «piacere»; un libro deve «riempire tutti i sensi, tutte le sensazioni» [56]. In questo, libro e amore non fanno differenza. Werther non è un intellettuale. Non razionalizza il mondo, non lo porta a un concetto direzionale, che gli consenta di interpretare la realtà, selezionandola, semplificandola e dirigendola verso altri concetti subordinati. Sprofondare è quel che gli si addice, lasciarsi inondare dalle sensazioni. Niente regole selezionatrici e gerarchizzanti. Col progressivo immergersi nel proprio cuore, contro tutto il resto della realtà [126], Werther arriva a preferire Ossian a Omero. Ma «preferire» è verbo troppo scialbo, Werther se ne sarebbe risentito; no, no, è nel suo cuore che Ossian soppianta Omero. Da Ossian Werther si lascia condurre fra tempeste, nebbie e paesaggi lunari a commoventi tragedie. Ossian gli fa impetuosamente desiderare di sguainare la spada per trafiggere altri e poi se stesso [136-38]. Intanto vorrebbe abbracciare Lotte [138]. Comincia col leggerle le sue traduzioni dallo stesso Ossian [176 sgg.]. Piangono insieme, lui le bacia un braccio, lei gli prende le mani e se le preme sul seno, lui finalmente le copre le labbra di baci furiosi [188]. Ossian fu il libro e chi lo scrisse. Quindi Werther si precipita nella notte umida e buia, tra pioggia e neve, rischiando di rompersi l’osso del collo in un paesaggio ossianico. Parlo a un pubblico di germanisti, perciò ritengo che questi cenni bastino per richiamare alla memoria quel che tutti sappiamo, cioè che le letture di Werther sono momenti della sua vicenda, organicamente inserite nel suo divenire. Non zeppe, ma parti omogenee all’insieme, che contribuiscono a formare in maniera irrinunciabile. Voglio invece richiamare l’attenzione sull’ultima lettura: sul leggio di Werther suicida è aperta Emilia Galotti. Questa lettura non è assolutamente in linea con le precedenti. Del resto su di essa non ci viene detto niente, ce ne viene comunicato esclusivamente il titolo. Il libro è aperto, ma non sappiamo a quale punto. Emilia induce il padre a ucciderla perché teme di cedere alla seduzione del principe Gonzaga, tanto amabile e – appunto – seducente quanto immorale e anzi criminale. Niente di simile per Werther. Lotte è certamente amabile e anzi da lui appassionatamente amata, ma altrettanto certamente non è né immorale né criminale. Meno che mai, poi, è una seduttrice. Di Omero, Werther voleva imitare quella che interpretava come vita patriarcale; sbagliava radicalmente l’interpretazione dell’Odissea, ma tant’è, e comunque non se ne rendeva conto; quel che importa è che Omero era per lui un modello di vita BAIG IV, gennaio 2011 da imitare attraverso il filtro della Empfindung. Analogamente stavano le cose con Ossian: era il modello dell’amore tragico, tempestoso fin nel paesaggio naturale in cui si colloca, e strettamente imparentato con figure di morte. Erano modelli per un vivere letterario. Emilia Galotti era il dramma lasciato aperto dal modello reale di Werther, lo studente Jerusalem. Con la sua citazione, irrompe nel romanzo la realtà. E la realtà è la fine della finzione, la fine del romanzo. Quella non omogeneità che tale lettura rappresenta mette fine al sistema romanzo, omogeneo fino a quel momento. Il sistema romanzesco arriva alla fine, contemporaneamente dall’interno e dall’esterno. Dall’interno perché Emilia Galotti è pur sempre letteratura, citata pur sempre in un romanzo, alla sua fine, cioè al suo concludersi. Punto finale della finzione; e, conclusa la finzione, c’è il ritorno alla realtà. Ma si conclude anche dall’esterno, perché irrompe il modello reale Jerusalem e perché quella lettura è – se mi permettete l’espressione – una stonatura rispetto alle altre. So bene che gli studiosi (a me non è nota alcuna eccezione) trattano questa lettura come omogenea al sistema romanzo. Non sono d’accordo, però ne terrò conto nel prosieguo della discussione poiché tale posizione contiene un aspetto ineludibile. Ma dapprima vogliamo riflettere su questa doppia valenza, ricordando per l’occasione le parole di Italo Calvino: «Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte.» (Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi 1979, p. 261). La stonatura del Werther apriva un’epoca, solo che si insistette sulla continuità della vita. Nel 1799 Hölderlin concluderà il suo Hyperion senza dare l’ultima parola alle catastrofi che parevano precludere ogni apertura sul futuro ma invece con le parole «Nächstens mehr [la prossima volta scriverò più diffusamente]». Così termina questo romanzo epistolare; l’ultima lettera promette la continuità della vita; l’apertura, non la chiusura; la continuazione, non la conclusione. Pochissimi anni più tardi Brentano dissolverà il suo Godwi (1800-02) in una serie di narrazioni e poesie scritte non soltanto da lui ma anche da amici, avendo come oggetto proprio il romanzo Godwi, che non è concluso perché non siamo ancora all’ultima pagina, eppure è concluso perché è già oggetto di commento; il sistema romanzo cessa per dar luogo alla vita, dopo tante esperienze luttuose. Goethe stesso concluderà nel 1829 un romanzo di vita, di continue espansioni della vita, una vera e propria enciclopedia della vita quali i Wanderjahre con le parole «(Ist fortzusetzen)». Un romanzo di vita che si conclude con ancora più vita. Questo atteggiamento avrà un lungo successo. Ancora nel 1951 Beckett concluderà Malone meurt con le parole: «Il faut continuer.» Goethe, d’altra parte, aveva provveduto a dichiarare incompiute anche le Episteln del 1794, preponendo loro nel 1814 il seguente distico: «Gerne hätt’ ich fortgeschrieben, / Aber es ist liegen blieben.» (Mi sarebbe piaciuto andare avanti, / invece le cose sono rimaste così). Un incompiuto dichiarato simmetricamente all’inizio, mentre quindici anni dopo lo dichiarerà alla fine. E ora si impone un deciso passaggio all’astratto, indispensabile se vogliamo arrivare al concetto. Ci troviamo davanti a una contraddizione: il sistema si apre nel momento in cui si chiude. Si chiude come finzione fin lì gestita; come tale, non ha più nulla da dire. E dunque si apre alla realtà, di cui chi ha gestito la finzione è consapevole, ma sa anche che non può gestire la realtà con gli stessi mezzi della finzione. Il sistema muore e sa che cosa lo avvicenderà. Dobbiamo chiederci come atteggiarci. E dobbiamo presupporre che noi siamo interpreti, non scrittori che a un romanzo rispondano con un altro romanzo. Dunque formuleremo un concetto, non una seconda finzione. Del concetto interpretante, tutto deve essere verificabile. Ma dobbiamo tener conto di quella frattura, di quella contraddizione; perciò l’interpretazione sarà una proposta che mentre si espone mette in discussione se stessa. Tenderà dunque ad avere l’assolutezza del concetto, ma di un concetto minato già mentre si costituisce. Questo è il problema-chiave. Esso si articola in sotto-domande. Occorre infatti chiedersi se il sistema comporti costitutivamente la propria contraddizione; chiedersi chi è a decidere che si tratta di una contraddizione e chi e come la risolverà; chiedersi se il sistema è capace di aprirsi e chiudersi a volontà. Posto il problema, ecco i postulati: Primo: Condizione dei risultati, cioè del concetto cui aspiriamo, è che esso si basi su tutto ciò che è osservabile; cioè che il mondo osservato venga considerato concluso. Il nostro oggetto è il Werther, quindi ci occorre tutto il sistema Werther, e precisamente tutto il sistema Werther unificato in un oggetto solo e omogeneo. Infatti il concetto unifica il disparato e lo fa apparire un solo oggetto. 72 BAIG IV, gennaio 2011 Già questo ci dice che la visione omogeneizzante delle letture di Werther, di cui si diceva, risulta contraddittoriamente ineludibile. Secondo: L’oggetto Werther è oggetto per noi osservatori-interpreti entro un mondo che è tutto oggetto di osservazione. Mentre osserviamo un solo oggetto, non dimentichiamo gli altri. La nostra osservazione-interpretazione ha un decorso empirico, cioè si concentra su un oggetto e lo percorre in lungo e in largo, ma più volte, tornando su di esso con esperienze fatte al suo esterno. E questo ci dice il contrario del punto precedente, cioè che la visione omogeneizzante, necessaria a noi osservatori, viene messa inevitabilmente in crisi da noi stessi. Terzo: Distinguere tra finzione e realtà è un compito nostro, di noi osservatori-interpreti. Il biologico, il vitale, l’indeducibile, l’imprevedibile, il non razionale o non ancora razionale si presentano come compiti da affrontare da parte dell’interprete, ma sono rilevanti ben oltre l’interpretazione. La soluzione è un atto decisionale che investe la vita; e l’oggetto osservato, nel nostro caso il Werther, è solo uno tra gli oggetti coinvolti. La soluzione è decisione e in questo senso è arbitrio. (Di fronte a germanisti potrei perfino utilizzare una parola fatale: è un Diktat.) Detti succintamente: (1) Oggetto uno e concluso, (2) oggetto allargato e scardinato attraverso le esperienze di vita, (3) arbitrio. Questi tre postulati non sono meno contraddittori della base di partenza. Il fatto è che non siamo più ai tempi di Spinoza. Il ragionamento more geometrico non ci assicura un successo conclusivo, ci conferma solo che il nostro compito si diffonderà in molteplici direzioni, ovviamente contraddittorie o almeno disparate. Come la vita, appunto. E devo aggiungere che il nostro dire (sicuramente il mio) risulterà inferiore al compito perché recepirà sì questo paradosso ma si limiterà a esporlo, non lo mostrerà come vissuto; questa è cosa di altro dire, per esempio di un romanzo che risponda al romanzo o almeno di una scrittura immaginifica che lo continui in maniera non disomogenea. Col che risaremmo da capo, aprendo un nuovo circolo. Ma siccome questa presente diceria profana si limiterà a esporre il paradosso, è pronta a far posto al vissuto, che invece lo esperisce, aprendo così a sua volta un circolo, in ciò non disomogeneo al suo oggetto, dal quale invece reclamava autonomia e sul quale voleva addirittura esercitare il suo arbitrio. Avviluppatici per bene in queste contraddizioni, siamo pronti ad affrontare il compito. All’epoca del Werther (17741) il modo più noto per inglobare la contraddizione e renderla funzionale all’interpretazione della storia e della politica era quello della tripartizione proposta da Rousseau: a una prima fase di ingenua perfezione segue una fase di mondo fratto e ingiusto mentre una terza e ultima fase di ricomposizione viene proiettata alla fine dei tempi. Sappiamo che tale modello ebbe grande successo in Germania, dove conobbe vigorosi adattamenti, ognuno diverso dall’altro, a opera di Schiller (v. „Die Götter Griechenlands”), di Kleist (Über das Marionettentheater), di Novalis (Hymnen an die Nacht, 5), di Hölderlin („Brod und Wein” e altrove). Hegel fu colui che lo sconvolse di più, con le sue triadi susseguentisi. La presenza di Rousseau che si ritrova in Goethe è indubbiamente marcata, ma non per questo aspetto. Anzi: per questo aspetto Goethe ne è fuori. Frattura e continuità vengono da lui affrontate, ma su altro piano e separatamente. La frattura estrema è indicibile: Werther muore e di conseguenza tutto tace. Questa è la frattura inevitabile e irrimediabile, e Goethe la affronta rendendole giustizia con la cessazione del sistema romanzo e dunque col susseguente silenzio. Mentre il compito della vita è inesauribile, sia con le parole sia con i fatti: Ist fortzusetzen. L’insieme di frattura radicale e di ripresa è stato inteso, nel corso della storia e del dibattito storiografico, come sintesi della rivoluzione. Questo complesso affronta Goethe, proprio quel Goethe che parlava contro la rivoluzione ogni volta che trattava di rivoluzioni storiche (e ricordiamo che si pronunciò sia sulla rivoluzione del 1789 sia su quella del luglio 1830); quel Goethe che voleva eliminarla perfino dalla storia della natura, prendendo partito per i nettunisti contro i vulcanisti. Un po’ sprezzantemente – ma non poi così a torto – sentenziò che „Per quanti capricci faccia il mosto, quello che dà alla fine è sempre vino” (Faust II, atto II, vv. 6813-14: «Wenn sich der Most auch ganz absurd gebärdet, / Es gibt zuletzt doch noch e’ Wein.») Diversamente stanno le cose presso coloro che si rapportano più da vicino a Rousseau, per quante correzioni ne facciano. Prendiamo l’esempio Hölderlin. „Nächstens mehr”, conclude Hyperion. Quando si va a vedere nella successiva opera poetica, si constata che il „Mehr” è già qui. Non c’è da dimenticare che c’era stata la fortissima influenza del dibattito teologico, ravvisabile non solo in Patmos e non soltanto da allora, cioè dal 1802; peraltro Hölderlin corregge i risultati di quel dibattito non meno profondamente di quanto non corregga Rousseau. La frattura c’è stata con 73 BAIG IV, gennaio 2011 quella che per Hölderlin è stata l’ascensione degli dèi, di tutto il divino. Da allora il senso immediato non c’è più, trovare sensatezza nella storia e vivere una vita sensata è cosa che ricade tutta intera sugli uomini, sui loro fatti, sulle loro imprese, sulle loro interpretazioni. Il senso non ci si presenta più con immediatezza, ma va mediato dall’interpretazione. La quale, a sua volta, non lo dà hic et nunc, ma solo proiettandolo in un cammino infinito. L’adempimento dovrebbe esserci alla fine dei tempi quando (nel suo linguaggio) gli dèi torneranno. Ma l’interpretazione, la conquista del senso, l’adempimento della promessa (la promessa del ritorno) avvengono storicamente; il loro insieme va distribuito lungo la storia: „Denn göttliches Werk auch gleichet dem unsern, / Nicht alles will der Höchste zumal.” (Patmos, vv. 162-63: „L’operare divino è uguale al nostro, / l’altissimo non vuole tutto insieme”). Il «vero senso futuro sarà identico alla storia compiuta fin allora» (Kosellek 77, parafrasando Bengel). Insomma il regno di Dio è questa nostra stessa storia, con le sue manchevolezze e con le sue tragedie. Nell’interpretazione, cioè nella costituzione del senso, ci guida l’ipotesi di una ricostruzione di una comunanza con gli dèi, che Friedensfeier esemplifica. Gli dèi non ci sono, d’accordo, ma lo schema ricostruttivo è dato. Ribadisco la conclusione: il regno di Dio è questa nostra storia (cfr. Kosellek 78) e il suo senso si riassume nei seguenti versi di Hölderlin: «Denn alles ist gut. Drauf starb er. Vieles wäre / Zu sagen davon.» (Perché tutto è bene. Ciò detto, morì. Molto / ce ne sarebbe da dire.) Questa è la grande costruzione di Hölderlin detta in breve. Le grandi costruzioni di Goethe hanno altro carattere. Parla anche lui di totalità, ma il suo modo di intendere l’intuizione (Anschauung), l’idea, lo Urphänomen e il suo sviluppo nell’empiria gli faranno seguire tutt’altre strade. La sua produzione è stata la più variata possibile e si è estesa su un arco di cinquant’anni; tuttavia si possono ricavare delle costanti, pertinenti al nostro discorso. In alcune opere Goethe non si è proposto alcuna soluzione positiva; queste vanno dal Werther alle Affinità elettive. A suo stesso dire, Werther ebbe successo perché descriveva una situazione diffusa; fu dunque la descrizione ad avvincere gli animi, non una qualche proposta per uscirne. Non ebbero un gran successo Le affinità elettive, comunque nemmeno lì ci fu una proposta di senso. Se le si interpreta come bilancio della situazione in Germania in seguito alle conquiste napoleoniche, con le conseguenze politiche del caso, allora esse appaiono come un dimostrare all’interlocutore Rousseau che nessuna della sue utopie era andata a buon fine. Se invece si vede l’opera in una prospettiva salvifica, come pur è lecito, allora ci muoveremo nella direzione del mito: Ottilie si districa dal suo caos attraverso il mutismo, cioè (letteralmente) attraverso la rinuncia al logos e la parallela rinuncia a mantenersi in vita; ciò – la fine del logos, la morte – le apre l’accesso al mito. Questo è salvifico non solo per Ottilie ma per tutti: il corpo di Ottilie morta si crede compia miracoli, il suo restare come idea (oltre che come santa) dà senso alle vite rimaste. Goethe ha una sua teoria sul modo di tenere insieme soluzione positiva ristretta e visione generale negata. E poi ha anche una sua specifica prospettiva, che gli consente di parlare paradossalmente di soluzione positiva universale, pur nella negazione, ma a patto di infrangere il sistema. Della soluzione positiva ristretta si ha teoria nella Farbenlehre e nei Wanderjahre, mentre la contraddittoria prospettiva generale è alla base di Faust II. Dunque le premesse poste in Werther sono state sviluppate in più direzioni e fino alla fine. Goethe arriverà a porre come ideale la conoscenza della natura quale totalità; ma subito dopo negherà che tale ideale lo si possa realizzare. La conseguenza è che quel che viene chiamato salvezza si pone al di là di un salto logico non garantito. Fra una totalità impossibile a conoscersi e una salvezza che non esiste senza fusione con la totalità si apre uno iato. Il punto è: come riempirlo. Se salvezza è afferrare la totalità e se ciò è impossibile nel tempo e secondo tutte le premesse scientifiche, metafisiche, gnoseologiche che Goethe andò esaminando fino alla conclusione di Faust II, allora la salvezza (se c’è) è nel mito, fuori del logos, fuori della storia, arbitraria, artificiosa e non credibile dall’interno del sistema; beninteso: dall’interno del sistema del logos. Il mito salvifico è infatti opera poetica e, come tale, anch’esso costruzione umana. Il sistema si frantuma, il sogno globale non è garantito, la conciliazione si struttura con la ricchezza di un’utopia. La sfera salvifica non interviene sulla quotidianità della vita, a regolarla, a dirigerla, a normarla; e il senso offerto alla fine è l’opposto di quel che poteva apparire dall’interno dei singoli momenti storici: il mito salvifico non realizza quasi nessuna delle esigenze umane. Per esempio Faust torna a vedere Margarethe, non però Elena; e dell’umanità che voleva liberare (con un proposito che gli costa la vita) non c’è più alcuna menzione. Dunque le ipotesi umane restano umane, il mito finale non è un modello per questa vita. 74 BAIG IV, gennaio 2011 Tuttavia l’autentico agire umano ha sempre a che fare con l’infinito (impariamo dai Wanderjahre); e il modo migliore di ottemperarvi è mimarlo in noi stessi nella sua natura e composizione, anche se non è data alcuna garanzia di successo, già per la sola constatazione che fra la consonanza con la totalità e la scelta dei mezzi s’apre una cesura che ci espone a ogni pericolo. Il concetto di totalità, così come lo sto usando, si forma dalla seconda metà del Settecento ai primi dell’Ottocento, con il contributo di tanti filosofi e teologi. La totalità si configura come totalità progressiva. Una storia particolare viene ritenuta comprensibile solo entro la storia universale poiché materia della storia è solo quel che è progressivo, poiché la storia in generale, quella umana come quella divina, disvelano nel tempo il loro contenuto di verità; lo stesso regno di Dio si sviluppa su questa terra progressivamente, inglobando il senso della storia, man mano che esso si produce (Kosellek 62, 77, 85). La totalità diventa la misura fondamentale. Questa fu una grande conquista culturale, addirittura liberatoria per quanto riguardava le prospettive escatologiche, nelle quali l’interpretazione umana veniva ad assumere la funzione decisiva. Ma fu anche un’arma a doppio taglio. Infatti la totalità ammette solo fratture ricomposte o prossime alla ricomposizione, altrimenti, è ovvio, non c’è totalità ma solo frammentazione. Dunque proprio la totalità, che dovrebbe comprendere tutto, non spiega le catastrofi poiché per essa non ci sono oppure sono già passate e assorbite. Meno che mai spiega la morte. Data la ricchezza, anzi la poliedricità delle sue posizioni, nessuna delle quali si lascia respingere contrapponendogliene un’altra, poiché tutte sono autonome e ciascuna si regge di per sé, Goethe può essere preferito per l’una o per l’altra prospettiva: per l’armonizzazione totale tanto quanto per la non-risolutività totale. Ritengo però – al di là delle mie personali preferenze – che Goethe autorizzi la domanda se in generale il suo sistema, anche e soprattutto quello in cui la salvezza finale nasce per un salto logico (e dunque non è garantita dall’interno del sistema in cui si muove la vita) non nasca già come fluttuante, col compito di riassestarsi ogni volta, eventualmente mediante apporti esterni non riassorbibili nell’omogeneità. È una domanda che lascio aperta, come tema di riflessione. La diffusa posizione che inserisce la lettura di Emilia Galotti nella serie omogenea delle letture di Werther ci dice che l’amore per l’armonia è dominante per la buona ragione che è essa ad assicurare la continuità della vita. Dunque quella posizione è ineliminabile e, a suo modo, giusta – perfino se filologicamente manchevole. Ma è ancora essa a tenere troppo stretti i confini del nuovo. Possiamo tentare di liberarcene quanto più si può, anzi è doveroso farlo, però essa reclamerà costantemente i suoi diritti e vincerà finché c’è vita. Ci possiamo permettere delle libertà a vantaggio della disarmonia e della contraddizione, ma solo nelle more, finché non tornerà a profilarsi questa vittoria. Senza nel frattempo dimenticare che le aperture che si propongono e queste stesse libertà sono la morte. La morte fa sì parte della vita, ma come parte finale, conclusiva, assoluta; e assolvente, aggiungerebbe Goethe. Ma senza nemmeno dimenticare che quella posizione è illusoria: ci illude sulla realtà, sulle fratture, sulla morte. È un rifugio, non una soluzione. D’altra parte la soluzione non c’è. Ci pensiamo immortali. Una considerazione più consona alla realtà ci deve far presente che noi – concreatori dell’opera in quanto suoi lettori – dobbiamo pensare la frattura, dunque contraddire la nostra voluta armonia, per poi però trovare rifugio proprio in essa. Nessuno può parlare della propria morte per esperienza diretta. Chi ci ha provato, come per esempio Maurice Blanchot (L’istant de ma mort, 1994 – Gallimard 2002), ha scritto cose indubbiamente importanti, ma non convincenti fino in fondo. Altri tipi di fratture però sono state dette; e scrittori della frattura, come Kleist o Kafka, ci hanno mostrato quanto è possibile spingersi lontano. Werther, finché non muore, legge per imitare. Musil ha esortato a vivere secondo la lirica, non secondo il romanzo, non secondo quel filo del racconto che finge di tenere tutto insieme. Intendeva, con «lirica», la non connessione degli eventi, l’attimo in cui si coglie una verità attraverso il vissuto, attraverso tutto se stesso. Si costituiscono, in tal modo, isole di significato, vivibili attraverso una ricerca costante e comune di un senso che è per tutti solo se lo costituiscono tutti. Impresa immane, che comporta rischi incessanti, forse non superati nemmeno da Musil stesso. Siamo forse finiti in un vicolo cieco? Non credo. Il dimenticato Schleiermacher – oscurato, per la memoria odierna, da chi ha detto cose non altrettanto importanti – ci offre eccellenti spunti per uscirne. Ma ciò vorrebbe dire sviluppare un nuovo sistema, cosa che è preferibile delegare ad altra sede. In questa vorrei invece concludere ricordando alcuni amici morti, eccellenti in tante cose, fra 75 BAIG IV, gennaio 2011 cui – in primis – l’ironia. Uno è Cesare Cases, il quale ammoniva a prendere sul serio lo spirito del mondo e molto meno noi stessi. Un altro è Sandro Barbera, limitatosi alla fine alle totalità parziali, ricordando come l’oscuro che non riusciamo a ricondurvi ci presenterà un conto di cui non è prevedibile l’ammontare, così come non lo è la nostra capacità di reagire. Entrambi coltivavano la categoria della totalità, però ci credevano sempre meno. E da ultimo ricordo un terzo amico: Luciano Zagari, che alla totalità non credeva né punto né poco. Non ho fatto in tempo a diventare amico di Sanguineti, che in questa occasione avrebbe dovuto essere tra noi. Forse avremmo potuto chiedergli dell’epigrafe alle sue Postkarten del 1978, che è, guarda coincidenza: «gerne hätte ich fortgeschrieben»; e di quel suo verso di Stracciafoglio (1980): «era un mio vecchio progetto, / se ricordi, riscrivere l’Ortis: (oggi direi il Werther):». Col che siamo tornati al Werther e alle nostre difficoltà. Dal vicolo cieco usciremo finché ci saranno vita e chiarezza di idee. Ma alla continuità della vita farà seguito l’ineluttabilità della morte. Ciascuno di noi deciderà, in ultima istanza, se ad accompagnare il nostro feretro ci sarà o no un Geistlicher; in caso affermativo, se costui sarà per forza un uomo di chiesa (come vuole il corretto intendimento del termine) oppure se lo spirito, il Geist, verrà rappresentato in altro modo. Nel frattempo, pace alla memoria di Werther e lunga vita a tutti noi. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Citazioni dal Werther: I dolori del giovane Werther. A cura di Maria Fancelli. Mondadori, Milano 1983. Reinhart Kosellek: Storia. La formazione del concetto moderno. Traduzione a cura di Rossana Lista. Clueb, Bologna 2009. Le considerazioni di Goethe sul Werther, e in particolare la dichiarazione cui si allude nel testo, si trovano in Dichtung und Wahrheit, libro XIII. Tra i germanisti è stato dibattuto se l’indicazione finale dei Wanderjahre sia da riferirsi a tutto il romanzo oppure soltanto alle massime comunicate «Aus Makariens Archiv» oppure infine soltanto alla poesia messa in fondo, che dagli editori ricevette il titolo «Bei Betrachtung von Schillers Schädel». Per quanto importante sia la questione sotto altri aspetti, essa non è rilevante al nostro fine. Quel che qui ci interessa è che la pagina finale del romanzo non reca la parola „Fine” o comunque una chiara indicazione della fine ma, appunto, «(Ist fortzusetzen)». Il romanzo, nel suo finire, non finisce. DIBATTITO De Angelis: Avete qualcosa da dire? Qualche espettorazione urgente? Reitani: Sì, naturalmente questa bellissima relazione di Enrico è così ampia, così vasta, così profonda nella sua trama, così piena di riferimenti che non riguardano soltanto il nostro tema - non riguardano soltanto il Werther, abbracciano l’opera complessiva di Goethe, abbracciano l’intera Goethezeit, toccano temi fondamentali della nostra vita - che mi sembra (probabilmente lo è) riduttivo, kleinig, ritornare dal testo al tema specifico della lettura che è stato ampiamente trasceso dal discorso – un discorso di metodo, ricco di spunti, un discorso addirittura teologico e filosofico per alcuni versi – però la tentazione è troppo forte, anche per ingannare un po’ il tempo, di riportare il discorso sul 76 BAIG IV, gennaio 2011 nostro tema specifico e sul problema della lettura in Werther. E qui devo dire che non mi convince quello che hai detto, perché è vero che Werther è il lettore della modernità che fa dell’esperienza del testo un’esperienza di vita che nel testo trova una molla per scatenare le sue emozioni, per ricomporle, ma questo presuppone evidentemente la discontinuità delle esperienze di lettura, non la continuità, e nel romanzo ogni singola lettura è una lettura intensiva, è una lettura dissociata perché non c’è nulla di più opposto tra l’Omero della prima parte e l’Ossian della seconda; sono evidentemente proprio in una relazione antinomica, perché rappresentano esperienze fondamentalmente diverse e l’idea che c’è in fondo in questo tipo di approccio è proprio quella opposta all’intellettualismo. È vero che Werther non è un intellettuale perché non fa delle letture estensive, perché rifiuta il sapere come orientamento del mondo, ma questa è la dimensione apriori della sua situazione; l’apriori della sua situazione è il rifiuto di un intellettualismo, il fatto di rifiutare un’idea di orientarsi nel mondo, di fare delle scelte, ed è il rifiuto del sapere libresco, il rifiuto del libro come sistema, della stanza in cui si studia, si legge il libro, perché la condizione della lettura nel Werther non ci dimentichiamo che è una lettura all’aperto. Werther legge mentre passeggia, cammina, è immerso nella natura; l’approccio è assolutamente diverso da quello dell’intellettuale che legge nel suo studio; non è San Giorolamo nel suo studio, circondato dai suoi libri, ma è dentro la natura, e chiede all’amico di dargli un’edizione precisa di Omero, un’edizione in formato tascabile, molto piccola, perché ne ha bisogno per passeggiare. Quindi questo è il segno distintivo cioè cambia la modalità della lettura e quindi ogni esperienza è diversa, ed è ampiamente diversa: l’esperienza della lettura di Omero, di Ossian, e quella di Lessing, e poi c’è ovviamente Klopstock, ma questa non è una lettura, ovviamente, bensì l’evocazione di un testo di un autore rispetto a un fenomeno che riconduce all’esperienza letteraria, quindi c’è questa corrispondenza biunivoca tra il fenomeno della natura e l’esperienza estetica. L’esperienza di Lessing è per questa ragione discontinua nel sistema romanzo perché ogni esperienza è diversa; ma è diversa per due ragioni di modalità. La prima è che è una lettura al chiuso, non è una lettura fatta più all’aperto, è fatta nello studio, e la seconda è che è una lettura interrotta, non portata a termine. C’è il libro aperto che rimane sul leggio, quindi non è l’esperienza compiuta; ovviamente c’è il tema della morte, del suicidio della limitazione della soggettività, ma c’è questa limitazione data dal fatto che il libro non è compiuto e che rimane aperto. Apprendiamo soltanto in quel momento che c’è un leggio e che c’è anche questo tipo di esperienza, quindi credo che siano tre momenti diversi, e la cosa che un po’ mi ha colpito, e che non è emersa nemmeno nelle relazioni che abbiamo ascoltato, è che manca quell’altro tema di cui spesso si è parlato, quello della lettura contrapposta a quella dei libri, la lettura del mondo. È il tema della leggibilità della natura, della leggibilità del mondo come libro che si apre, perché in Werther e in Faust c’è la contrapposizione tra il libro della natura e il libro che deve dare degli orientamenti; in Faust è fortissima, nella famosa scena Studio, la contrapposizione tra questo sistema polveroso, che non ha più niente da dire, che è in sé limitato, e invece il libro della natura, che bisogna aprire, sfogliare. Questa è l’esperienza anche di Werther; la sua intelligenza passa attraverso il rapporto con la natura. Per questo dicevo che, affascinato da questa splendida costruzione, dalle sottigliezze che ci sono, la tua analisi dal punto di vista filologico non mi convince; poi mi sbaglio, probabilmente. De Angelis: Non potremmo essere effettivamente più lontani. Ecco la dimostrazione vivente – grazie! – di come il concetto di continuità riesce a vincere; ma l’avevo anche annunciato. Tu parli di discontinuità all’interno di un sistema chiuso, di piccole fratture all’interno di un sistema che è comunque chiuso, la lettura. La lettura è discontinua, da Omero a Ossian. D’altra parte lo dice Werther stesso: «Nel mio cuore (non cervello: cuore!) Ossian ha soppiantato Omero». In questo senso è discontinua, sono due autori opposti, o almeno presentati come opposti. La continuità, però, è stata detta subito attraverso Werther quando, la prima volta che viene citato Ossian, dice: «Uno mi ha chiesto ieri se mi piace Ossian. Piacere?» E si scatena là, «deve investirmi tutte le fibre», eccetera.... Con Omero è esattamente lo stesso. Come legge Omero? Lo definisce. Sono schleiermacheriano in due sensi: nel senso della lettura grammaticale e nel senso della lettura interpretativa. Grammaticalmente viene detto che la lettura, qualunque lettura, viene fatta perché devo produrre il mondo dal mio interno; una volta lo produce leggendo o citando Omero, un’altra volta lo produce attraverso Ossian, ma 77 BAIG IV, gennaio 2011 non interpreta il mondo, non legge il mondo. Lo dice: proietta il suo cuore sul mondo, una volta fingendo che il mondo sia patriarcale, e crede che l’Odissea parli di cose patriarcali, un’altra volta abbandonandosi alle tempeste del cuore; una volta cercando rifugio dalla società cattiva e vile che l’ha appena cacciato dalla sala in cui sono entrati i nobili, e va a leggere la storia del porcaro guardando il tramonto, cioè producendo dal suo interno tutto questo patriarcalismo, e un’altra volta rischiando di rimetterci l’osso del collo perché va nella notte buia e tempestosa su per un colle e poi la mattina dopo si meraviglia che non sia già morto allora. Perché dici che la lettura dell’Emilia Galotti è interrotta? Chi te l’ha detto? Non c’è scritto. C’è scritto: aufgeschlagen. E chi ti dice che non sia sull’ultima pagina? Non lo sappiamo, perché questa lettura interrompe il romanzo, finisce il romanzo. Questa lettura non è rapportabile a nient’altro perché non hai nessun elemento per rapportarla ad altro, siamo filologi. Di come Werther legge Omero sappiamo tutto; di come Werther legge Ossian sappiamo addirittura di più, perché lo traduce perfino; che cosa ci stia a fare lì l’Emila Galotti non lo conosce nessuno. E a che punto l’ha letta? Prendiamone atto. Prendiamo atto che sta lì come oggetto misterioso, e all’ultima pagina del romanzo. Questo vuol dire qualche cosa. Se finisce il romanzo, alla fine del romanzo che c’è? C’è il non romanzo, e via di questo passo. Chiarloni: Questa può essere anche un’occasione per ripassare le cose che abbiamo imparato da giovani. Io mi ricordo che Lessing – forse nel Mittner, non sono sicura – quella lettura viene inserita come riferimento molto preciso, e cioè come nell’Emilia Galotti l’aristocrazia è colpevole di..., così Werther, che è cacciato dal salotto aristocratico e via discorrendo, potrebbe essere interpretato come una vittima del sistema. Per questo parlo di ripasso e anche del nostro fare con gli studenti; questa ipotesi tu la escludi? Perché mi ha colpito questo tuo isolare Emilia Galotti come un elemento così spurio e strano. De Angelis: Se vogliamo armonizzare lodiamo la vita, e tutti la vogliamo lodare; se vogliamo prendere atto della realtà, dopo la vita c’è la fine della vita, diciamola così. Chi te lo dice che l’Emilia Galotti sia lì come protesta contro l’aristocrazia? Se ne ricorda dopo metà romanzo, finalmente? Caspita, quanto è lento di riflessi! Può darsi, ma non c’è scritto. Noi sappiamo perché non c’è scritto, se vogliamo ragionare esteriormente al romanzo, cioè se vogliamo fare i positivisti: perché Kerner, che scrive il famoso Bericht su Jerusalem, dice: «Sono andato là, ho visto l’Emilia Galotti, però non mi ricordo più a che punto fosse aperta». E quindi Goethe non ce l’ha messo. Ma non ne sappiamo nulla perché era talmente emozionato quando andò a vedere il cadavere di Jerusalem che non se lo ricorda più. Ma queste sono cose esterne al romanzo; se noi leggiamo il romanzo, noi sappiamo che non sappiamo niente. Basta. E se noi siamo lettori e interpreti di romanzo, questa è la constatazione da fare. Stona, non è stata spiegata; che ci sta a fare lì? La stonatura va interpretata, non scartata. Destro: Ma anche accettando la tua posizione, noi non sappiamo a che pagina è aperta l’Emilia Galotti, però non sappiamo neanche che pagine aveva letto di Omero... De Angelis: Ce lo dice sempre. Sappiamo tutti i capitoli che legge. Destro: Sappiamo la chiave di lettura, l’interpretazione patriarcale – fa a pugni con una larga parte di Omero, dell’Odissea –; su Ossian sappiamo di più, perché abbiamo ancora delle traduzioni con i passi specifici... Quello che voglio dire: in entrambi i casi, nel caso di Omero e nel caso di Ossian, abbiamo l’impostazione generale della sua lettura di Omero e di Ossian, siamo in grado di identificare alcuni punti specifici ma quello che interessa poi è il quadro generale, la sua interpretazione generale di questi testi. Per l’Emilia Galotti potremmo applicare la stessa cosa: non sappiamo quale scena specifica lui ha davanti, però sappiamo che ha letto Emilia Galotti. Sappiamo che ha letto solo fino a questo punto e non ha letto fino alla fine oppure sappiamo che l’aveva letta 78 BAIG IV, gennaio 2011 e che è una rilettura, come nel caso sia di Omero sia di Ossian? Se è una rilettura allora perde importanza sapere a quale pagina fosse aperta, allora entra in ballo l’interpretazione generale dell’Emilia Galotti. L’interpretazione generale – e qui mi rifaccio a un vecchissimo corso che ho fatto; è un po’ di anni che non torno sul Werther – è il problema di un conflitto che non si dissolve se non con la morte nel caso di Emilia Galotti, del conflitto tra una norma e una pulsione interna Emilia Galotti che è oggetto di una pulsione sessuale ma che in fondo partecipa in qualche maniera a questa pulsione sessuale e quindi si sente colpevole...Mettere in ballo l’Emilia Galotti a proposito degli ultimi momenti di vita di Werther si può leggere come un Werther che è preso da una contraddizione irresolubile, come è propriamente, e che quindi sceglie la morte. Non è il padre che lo uccide come nel caso dell’Emilia Galotti ma è lui stesso che si uccide per sottrarsi a una contraddizione da cui non riesce a venire fuori. Ecco che allora questa comparsa di Emilia Galotti nelle ultime pagine non è più così ambigua, così misteriosa... Certo, se avessimo l’indicazione „Atto terzo, scena seconda”, potremmo elaborare più in dettaglio, però anche la nostra interpretazione delle letture di Omero e di Ossian si basa molto più sulla sua lettura complessiva di questi autori che non sui singoli passi che noi possiamo identificare. Parlando della lettura del Werther bisogna distinguere tra quelle che io finora avevo chiamato le sue letture in situazione, cioè Omero, Ossian, Emilia Galotti, e le memorie di lettura. La prima, quella che hai citato tu, è Klopstock, l’altra, meno evidente - tanto è vero che la critica l’ha scoperta solo 150 anni dopo la pubblicazione del romanzo - è la serie di riferimenti evangelici dal titolo in poi, dai „dolori” che sono la passione di Werther e via via un’infinità di altri riferimenti meno evidenti, ma una volta messi in luce assolutamente non discutibili. Questi sono dei campi di riferimento di cui senza dubbio l’impatto maggiore può essere riconosciuto alle letture attuali, alle letture in situazione, ma anche le memorie di lettura hanno un loro ruolo. Kruse: La relazione mi sembrava così bella che all’inizio non volevo intervenire, però visto che siamo entrati nel merito...Per quanto riguarda l’Emilia Galotti, a me invece sembra che sia azzeccata proprio alla fine del Werther, perché Werther è un lettore molto empatico: Klopstock, Omero, poi Ossian...Emilia Galotti in fondo sfugge alle sue passioni, che vengono suscitate; per questo vuole suicidarsi, ma è il padre a ucciderla. Ambedue temono di essere sopraffatti dai sentimento della propria passione, ambedue finiscono la propria passione attraverso la morte. Per quel che riguarda l’interpretazione della lettura – posso solo ricordarla nell’interpretazione di un altro germanista morto – Werther era un lettore empatico, che nella lettura vuole realizzare la sua vena artistica. Lui stesso riesce a disegnare, a trasformare la sua vita in arte, man mano che perde il controllo della propria vita, mentre Goethe questo controllo non lo perde, scrive il Werther, che sembra scritto seguendo la passione ma non lo è, è costruito proprio con dei riferimenti puntuali, come un’opera artistica, e quindi l’opera come artefatto si contrappone e sopravvive al confronto del personaggio. Quindi è un tipo di lettura non empatica ma segue quel modello di empatia a distanza che ci porta a una lettura artistica, quindi è l’arte, che aiuta a vivere e a continuare a vivere. Reitani: Mi scuso se intervengo un’altra volta. Io volevo chiarire che, a mio modestissimo avviso, il libro lasciato aperto sul leggio è uno dei tanti segni che Werther lascia alla posterità per dare un senso al proprio gesto. Werther prepara in modo assolutamente razionale la propria morte: decide come morire, prende le pistole in prestito, decide il giorno, la data... è tutto altamente simbolico, è una Selbstinszenierung, è un atto costruito. Inoltre decide di lasciare il libro aperto: questo è un testamento che lui lascia alla posterità e un segno preciso per dare un senso alla sua operazione. Perché un libro aperto? Perché in quel momento l’Emilia Galotti veniva letto – questa è l’interpretazione più diffusa – come la giustificazione del suicidio; il gesto di Emilia viene letto come un suicidio attraverso la spada del padre che la trafigge – perché il suicidio ha un senso per preservare la virtù contro l’oppressione. Il suicidio di Werther vuole andare in questa direzione, vuole essere una legittimazione del suicidio e chiama a testimone quello che è il testo unanimemente diffuso con questo significato. 79 BAIG IV, gennaio 2011 Sanna: C’era un pasaggio della relazione di Enrico in cui diceva „teoria dell’interpretazione”, „vissuto dell’interpretazione”. Noi stiamo mettendo al centro il vissuto dell’interpretazione, un aspetto che tutto sommato nella relazione di Enrico era marginale, ma su cui noi non troviamo un accordo. Anch’io a proposito ho la mia idea, cioè che sembra meno ambigua la lettura dell’Emilia Galotti perché inserita in una struttura del testo, per esempio, come le altre letture importanti di Omero e Ossian, che hanno la loro dialettica di domanda e risposta, proprio il fatto che all’Emilia non ci sia risposta indica in realtà una Leerstelle che troviamo attraverso tutto il testo, quindi il problema si pone come si è posto per le altre letture importanti. In secondo luogo metterei per esempio in rapporto – diversamente dalle opinioni sentite finora dai colleghi, se non vado errata – l’intervento dello Herausgeber con questo finale apparentemente aperto. Non sappiamo a quale pagina sia aperta la lettura perché nell’originale, nella vita, non c’è indicazione della pagina, ma a Goethe sta bene, altrimenti potrebbe cambiare le carte in tavola, nessuno glielo avrebbe impedito; vedo in questo finale aperto una ripresa del dilemma tra pubblico e privato che attraversa tutto il Werther, e un’accentuazione in qualche modo della prospettiva pubblica, cioè è il versante pubblico che in questo modo viene reintrodotto nel Werther e questo è parallelo alle modifiche tra primo e secondo Werther. Questa però è un’opinione come tutte le altre; bisognerebbe tornare al testo e verificare tante altre cose, ne sentirei veramente il bisogno, per cui ben vengano le neuroscienze – la butto lì ma lo dico in realtà sul serio – se per esempio non solo in questo modo si riuscisse a trovare un accordo tra linguistica e letteratura, ma anche un punto di partenza per noi letterati per verificare il ventaglio delle nostre opinioni. Cambi: Grazie, Enrico, per questa ricchezza che poi nella discussione si sta ulteriormente allargando. Bisogna cercare anche un po’ di mediare tra alcune posizioni. Sono d’accordo anch’io con Luigi ma anche con Simonetta, il libro aperto è un messaggio che volutamente Goethe vuole lasciare alla posterità. D’altra parte io penso che intenzionalmente Goethe abbia inserito quest’opera, estremamente attuale, estremamente dibattuta, uscita due anni prima, e qui vado incontro a Enrico, in quanto si pone sostanzialmente in questi anni per la prima volta il grosso problema della lettura della morte all’interno di un’opera, che sia teatrale, che sia narrativa come Werther. Quindi il tema della morte, della rottura, dell’ineludibilità, dell’inevitabilità della morte, è un tema sulla fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Gerstenberg nel 1768 propone una conclusione dell’Ugolino che non lo soddisfa, però dice: «Me la sento io di rappresentare un suicidio?», cosa che farà nella seconda Fassung del 1815, dopo quanti mai anni, siamo alla Spätromantik. Lessing stesso, nel quarto atto (ci sono sue dichiarazioni, a parte le sue crisi consuete nel momento in cui costruisce il quarto atto), visto che si trova a Braunschweig ha dei timori per la rappresentazione di un possibile suicidio. Emilia Galotti è l’opera che i giovani coetanei di Goethe apprezzano moltissimo, Lessing è uno dei pochi autori che si salva. Quindi diciamo che secondo me in fondo Goethe nell’attualità del momento si fa anche forte, anche per rafforzare la dimensione pubblica di cui parlava un attimo fa Simonetta, di un’opera che indubbiamente pone al centro un tema scottante. È un tema scottante quello della lettura della morte inserita all’interno di un’opera letteraria, tenuto conto che era da considerarsi un enorme peccato sul piano religioso, sul piano teologico. Dovremo attendere poi la lettura della morte dell’autore stesso, come Kleist, un autore che si uccide, siamo nel 1811; io credo molto in una ricontestualizzazione, ma anche nel fatto – e qui l’ampiezza della relazione di Enrico, la densità di riferimenti nella parabola che lui ha percorso nella relazione ponendo dei temi estremamente complessi - che in fondo la discontinuità, la rottura, le fratture, saranno in definitiva anche teorizzate, senza rappresentare le conclusioni tragiche della morte nel saggio di Schiller, cioè la conflittualità, la rottura del soggetto nei confronti di ciò che gli sta intorno, cioè che o è natura o è condannato a cercare la ricomposizione con la natura, è condannato a cercare una ricomposizione in una totalità. Qui veniamo a un tema che poi sarà il filo conduttore soprattutto del Novecento; partendo appunto dall’Ottocento, da Hegel, queste riflessioni tra piccole fratture e piccole discontinuità da ricomporre possibilmente oppure irricomponibili come citava Enrico nel capitolo 122, se non ricordo male, «Heimkehr», dove Ulrich riflette e Musil ci dice che sarebbe bello poter ricomporre...beato colui che può dire «prima che.., dopo che...», stabilire dei nessi causali di causa- 80 BAIG IV, gennaio 2011 effetto, ma in realtà le cose stanno in modo diverso. De Angelis: Ci sono altri interventi? Credo che ci siamo detti sostanzialmente tutto. Come era facile attendersi, l’ipotesi armonizzante è schiacciantemente maggioritaria, non da oggi; nella tradizione del Werther questa è l’ipotesi base, totale; piccole variazioni ci sono qua e là, se riempire questa lacuna in un modo – non sappiamo, ripeto, che cosa legge dell’Emilia Galotti - , se riempirla in un altro, però va riempita. Per voi. Per me no, io non ho paura delle fratture; sarà che forse ho letto troppo Musil, come diceva Cambi, sarà forse che ho letto troppo Schleiermacher, come preferisco pensare io, ma non mi fa paura, perché è vero che vogliamo tutti continuare a vivere e che questo congresso non seguiti a portare ulteriore jella come invece ha fatto finora, però sappiamo anche, nei momenti in cui vogliamo confessarcelo, che non sarà così. E allora, se la maggior parte del nostro tempo vogliamo riempirla dicendo: «Voglio continuare a vivere», va benissimo; se ogni tanto vogliamo dire: «Ma non sarà così», lasciamo spazio anche per quello. La filologia ci aiuta a fare una cosa, l’illusione ci aiuta a farne un’altra; la filologia ci aiuta a dire: «Non lo so», e quindi qui c’è una frattura. «Quod perditum est, perditum ducas.» Non c’è nessun filologo che conosca io in vita mia che si rassegni a questa semplice frase. Se non c’è, non c’è, e d’altra parte, lo diceva Calvino, la continuità della vita... Ricordate come finisce Se una notte d’inverno un viaggiatore? I due si sono sposati, sono a letto... Lei: «Caro, ti prego, spegni la luce»; e lui: «Ancora un momento. Sto per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino.» 81