Untitled - Barz and Hippo

Transcript

Untitled - Barz and Hippo
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
scenografia:
costumi:
musica:
distribuzione:
150 MINUTI
ITALIA, FRANCIA
2013
PAOLO SORRENTINO
PAOLO SORRENTINO
PAOLO SORRENTINO, UMBERTO CONTARELLO
LUCA BIGAZZI
CRISTIANO TRAVAGLIOLI
STEFANIA CELLA, DANIELA CIANCIO
DANIELA CIANCIO, STEFANIA CELLA
LELE MARCHITELLI
MEDUSA
interpreti:
TONI SERVILLO (Jep Gambardella), Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Carlo
Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Anna Della Rosa, Giovanna Vignola, Roberto Herlitzka,
Massimo De Francovich, Giusi Merli, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Isabella Ferrari, Franco Graziosi, Sonia
Gessner, Luca Marinelli, Dario Cantarelli, Ivan Franek, Anita Kravos, Luciano Virgilio, Vernon Dobtcheff, Serena
Grandi, Lillo Petrolo
Paolo Sorrentino
Nato a Napoli il 31 marzo del 1970, frequenta le superiori dai Salesiani; in seguito, s’iscrive alla Facoltà di
Economia e Commercio della propria città. I suoi numi tutelari sono Hobbes e Nietzsche, tra gli scrittori preferiti
ci sono Kafka, Perec, Pynchon, Arbasino, Philip Roth, il Céline di Viaggio al termine della notte. Durante il periodo
degli studi universitari frequenta pure con assiduità il cineforum del Vomero, appassionandosi sempre più al
cinema. Nel 1995 partecipa al Palermo Film Festival con Un paradiso, suo primo cortometraggio, diretto insieme
a Stefano Russo. La sua carriera nel cinema decolla però nel campo della scrittura: come sceneggiatore, vince il
Premio Solinas per la sceneggiatura di Napoletani. lungometraggio mai realizzato. Vince poi lo stesso premio per
lo script di Dragoncelli di fuoco. Ha poi scritto insieme ad Antonio Capuano la sceneggiatura di Polvere di Napoli e
ha lavorato per la serie tv La squadra. Sorrentino ha infine esordito come regista di lungometraggi con L'uomo in
più (2001), che viene presentato a Venezia e atutt’oggi è considerato da alcuni il suo capolavoro. Il film ottiene
grande successo e molti premi: il Nastro D’Argento per il Miglior Regista Esordiente, il Ciak D’Oro per la Migliore
Sceneggiatura, tre candidature al David di Donatello 2002 e la Grolla d’Oro al protagonista Toni Servillo. Fin da
questa prima prova si chiariscono alcune sue caratteristiche: sceneggiatore-regista di tutti i suoi film, si fa subito
notare per il suo stile rigoroso, intenso ed estremamente accurato nella scelta delle inquadrature e dei
movimenti di macchina, sofisticato sul piano musicale e in cerca di qualcosa di eccentrico nei personaggi e nelle
loro storie. Il suo film successivo, Le conseguenze dell'amore (2004), è selezionato per il Festival di Cannes. Il film
si costruisce anche in questo caso con estremo rigore e raffinatezza visiva intorno a una figura di anti-eroe, qui
interpretato da un ottimo Toni Servillo, che riesce a mescolare in delicato equilibrio perversioni e antipatia con
un'umanità profonda e fragile. La pellicola ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui 5 David di Donatello e 3
Nastri d'Argento. Nel 2006 Sorrentino compare come attore in un breve cameo ne Il Caimano, di Nanni Moretti.
La critica accoglie bene anche L'amico di famiglia (2006), presentato sempre a Cannes, storia del vecchio usuraio
dell'Agro Pontino Geremia de' Geremei (Giacomo Rizzo), un altro sgraziato antieroe che si aggiunge alla galleria
di creature disperate create dalla penna e dalla camera del regista napoletano.
Nel 2008 Toni Servillo è protagonista del suo nuovo lavoro cinematografico, Il divo nei panni di Giulio Andreotti,
che concorre ancora una volta a Cannes nell’ambito della selezione ufficiale. Il film vince il Premio della Giuria e
riscuote un vasto successo internazionale di critica e di pubblico.
Nel 2009 gira il corto La partita lenta per il progetto “Per Fiducia”, al quale partecipano anche Ermanno Olmi e
Gabriele Salvatores. Dello stesso anno è il documentario L’assegnazione delle tende, sugli effetti del terremoto
dell’Aquila 2009, realizzato per l’edizione online de “La Repubblica”.Dopo il Successo de Il Divo si lancia in una
produzione internazionale, dirigendo Sean Penn in This must be the place, strano road-movie che vede un
malinconico ex divo del rock alla ricerca di se stesso tramite il proseguimento della caccia al nazista perseguita
per anni dal padre ormai morto. Esordisce in ambito letterario con un romanzo che risulta finalista allo Strega,
Hanno tutti ragione, in cui traccia con bizzarra ironia il profilo di Tony Pagoda, cantante avventuroso e sfrontato,
che emigra in Brasile e poi ritorna in Italia per scoprire che qui nulla è mutato, né muterà.
La parola ai protagonisti
Intervista a Paolo Sorrentino e al cast
Sorrentino, c’è stata per il film un’accoglienza molto diversa della internazionale rispetto a quella italiana…
Si pensava che questo film non sarebbe stato accolto bene all’estero e invece lo è stato, forse è stato fatto un
errore di valutazione da parte della critica italiana. Del resto era già accaduto con Il divo. E che la stampa
internazionale lo abbia accolto in maniera entusiastica, mi fa molto felice. Penso che il cinema italiano sia vivo,
con grandi autori e che per delle abitudini stravaganti lo si stronchi a priori.
Nel suo film sono stati anche diversi riferimenti a La dolce vita di Fellini…
Paolo Sorrentino: Fellini diceva che Roma se l’era inventata e non c’era corrispondenza tra la città del film e
quella vera. In La grande bellezza esiste un’interiorizzazione e la lezione di Fellini resta per tutti. Ma non esiste
nessuna relazione tra i due film, ambientati in epoche talmente diverse. C’è un’assonanza su dei temi ma non
esistono altre ragioni di somiglianza. Quello lì era un capolavoro, questo è un film. Credo che una lettura attenta
del film escluda la possibilità di un paragone.
Toni Servillo: Ho la sensazione che Fellini abbia guardato Roma appoggiato mollemente a una balaustra che
invece Paolo non ha trovato e quindi c’è caduto dentro. Quel film poi si doveva intitolare La bella confusione.
Quella era un’Italia diversa da oggi che viveva ancora sul rilancio dopo la povertà del dopoguerra: era un Paese
speranzoso ed entusiasta. Sul piano del linguaggio Paolo può fare un riferimento a Fellini. Ma in La grande
bellezza, più che speranze, ci sono occasioni mancate ed è per questo che il tono qui è più malinconico, è un
Paese dove la gente si anestetizza con la frivolezza.
Come funziona la musica in questo film?
È usata in modo molto semplice, rinforza il concetto che a Roma sacro e profano vanno a braccetto.
Come ha scoperto e deciso di rappresentare Roma?
Sono stato a Roma da ragazzo a lavorare e poi mi ci sono trasferito. E nel corso degli anni ho raccolto suggestioni
e aneddoti che la riguardavano. Quando è stata partorita l’idea del personaggio di Toni, un personaggio che è
diventato via via più complesso, abbiamo poi pensato di fare un film anche su questa città con il protagonista
come testimone. Mi pare di aver mostrato una parte di Roma che c’è, esiste, magari è il solito occhio del turista
incantato... ma mi paceva l’idea di mostrarla con un occhio affascinato, raccontando proprio la decadenza e gli
aspetti negativi, ma trovandoci dietro anche qualcosa di inatteso, che ti stupisce.
Come ha ponderato la scelta dei luoghi usati come scenografia?
Roma ha una burocrazia che non è che ti consenta molto di scegliere. Mi sono lasciato guidare dallo stupore e la
meraviglia di una città che conosco da poco tempo.
Il film è il ritratto di una società in decadenza?
Nel film c’è una battuta di Santa che dice: “la povertà non si racconta ma si vive". Forse è la frase che simboleggia
il film e che dà l’idea dell’impoverimento generale del nostro paese.
Come vi siete trovati, voi attori, a lavorare con Paolo Sorrentino?
Toni Servillo: Ho ricevuto da Sorrentino quattro sceneggiature che considero quattro regali. Ho fatto il mio primo
film con Martone, Morte di un matematico napoletano, ma poi Paolo mi ha dato il ruolo da protagonista. Forse ci
unisce il fatto di essere entrambi napoletani e l’ironia dalla passione con cui si prendono le distanze. I miei
personaggi con Sorrentino perdevano qualcosa che dovevano recuperare. Qui Gep ha invece qualcosa che vuole
perdere. Quando mi scappava di recitare in italiano, Paolo mi suggeriva di essere più napoletano nell’eloquio.
Amo profondamente questo personaggio.
Paolo Sorrentino: Le ragioni per cui lavoriamo spesso insieme dipendono dall’ottimo equilibrio tra senso di
famiglia e l’imprevedibilità proprio di Toni. E sono queste due cose che ci rendono gioiosi. Toni è anche il mio
miglior critico cinematografico, anzi l’unico che ho di riferimento.
Carlo Verdone: Nel mio sito, ci sono sei registi preferiti e tra questi c’è Paolo Sorrentino. Lui non è neanche un
regista, è un’artista. Dopo il film mi ha chiesto: “Come l’ho filmata Roma?”. Io gli ho detto: “Nella notte gli hai
ridato quello splendore che è così mortificato durante il giorno. Io vengo dalla commedia e questo è il mio primo
film drammatico. E spero di farne altri
Sabrina Ferilli: Chi ama il cinema nel modo più profondo non può essere incantato da questo film. Questo è uno
spettacolo straordinario. Per me La grande bellezza non è solo Roma ma è anche la bellezza della vita che può
rischiare anche di restare vuota. Questo film ha la messa in scena migliore di quelli che ho visto e sono orgogliosa
di averne fatto parte
Per voi Verdone e Servillo, che siete anche registi (il primo di cinema, il secondo di teatro) come ci si sente nelle
mani di un altro cineasta?
Toni Servillo: Sono un regista di teatro che non ha nessuna intenzione di passare dietro la macchina da presa. In
generale poi anche a teatro dirigo gli altri attori da attori.
Carlo Verdone: Quando ami un regista, capisci qual è il suo stile e cosa pretende da un’attore. Ho faticato
soltanto il primo giorno di riprese quando ho dovuto fare la scena del monologo a teatro. Pensavo di sapere bene
la parte, poi quando l’abbiamo provata in roulette, Paolo mi ha detto: “Non è così, devi essere più ironico”.
Recensioni
Elisa Battistini, Il Fatto quotidiano
[…] La Grande Bellezza è il racconto di un panorama umano che solo nel passato trova blanda giustificazione per
un presente mortuario. Attraversando la vacuità dell‘alta borghesia romana, Jep mantiene una curiosità che
diventa necessità di rinnovamento.
Rapsodico nella forma, coerente nella sostanza questa istantanea sul qui e ora diretta da Paolo Sorrentino e
scritta con Umberto Contarello parla soprattutto del bisogno di riappropriarsi di un’esistenza sfuggita di mano,
sfidando la pigrizia. Per non esser più incastrati nelle consuetudini, nel primo romanzo a cui non si è dato seguito,
nell’origine smarrita, nella rendita di posizione.
Se vogliamo proprio trovarlo, è questo il dato “politico” di un film non direttamente su Roma, ma su una
congrega di fantasmi che si credono al centro del mondo ma sono a un passo dalla morte. Quel che si muove
attorno a Jep trasuda morte, con personaggi imprigionati nelle proprie abitudini sfinite. Sola viva è la Santa
sdentata che dirà solo “La povertà non si racconta, si vive”.
Il problema talvolta non è il film, ma l’attesa riservata a un film. Sorrentino è un regista che si aspetta al varco
perché è bravo e ambizioso (evviva). Così, prima ancora che fosse presentato a Cannes, La Grande Bellezza era
già “un caso” che prevedeva l’esistenza di adoranti e detrattori. Poi, per fortuna, si va al cinema e si vede,
semplicemente, un buon film. Frutto di una scrittura precisa, girato con grazia e gusto.
Natalia Aspesi. Repubblica
Ecco la Roma del benessere inquieto ed esibito, quella del frenetico presenzialismo, che si arrocca nei suoi riti
faticosi e nervosi; quella che non vuole più saperne del resto del mondo, essendo lei stessa il mondo, e guai da
quel mondo essere scartato, dimenticato, lasciato solo con le proprie macerie, tra gli altri che non contano. Oggi
quel che conta per chi conta è l' esibizionismo, il brusio della conversazione, della battuta, del pettegolezzo, il
cinismo malinconico dei rapporti, il catering stravagante, l' ospite impensabile; per esempio il cardinale gourmet
che sa come si soffrigge la lepre, la santa centenaria che mangia solo radici, il più grande poeta vivente che non
parla mai, la bodyartista nuda che sbatte la testa contro le mura dell' acquedotto romano, la bambina che fa
action painting coi secchi di colore su una tela, il lanciatore di coltelli che li infilza attorno al corpo della ricca
padrona di casa. Sarà davvero così straziante, spaventoso, inutile, essere ricchi e apparentemente fortunati,
almeno oggi a Roma? Paolo Sorrentino sembra voler convincere che sì, quella che racconta è davvero "una
Babilonia disperata" nel cuore oscuro e invidiato della capitale: e sembra riuscirci con la forza delle immagini e i
virtuosismi visivi (di Luca Bigazzi), con il montaggio implacabile (di Cristiano Travaglioli), la colonna sonora (di Lele
Marchitelli), che stordisce con la disco music e incanta con la musica sacra, una sceneggiatura (di Sorrentino, che
è un vero scrittore, e Umberto Contarello) veloce e crudele. Non è più il tempo, 1960, della Roma di La dolce vita
di Fellini, con il suo ormai perduto paradiso di confusione e peccato, né quello, 1980, della Roma di La terrazza di
Scola, in cui politica e cultura erano già un pretesto di vite intaccate da indifferenza e corruzione. Ma La grande
bellezza, 53 anni dopo Fellini e 33 dopo Scola, è altro, e all' inizio del film l' autore lo spiega con l' esergo tratto da
Viaggio al termine della notte di Céline: «Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco, la sua forza, va
dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato...». In questo viaggio "inventato" eppure così
vero, ci accompagna Jep Gambardella, re della mondanità capitolina, ridotto a fare il giornalista ma diventato
famoso con L' apparato umano, il suo primo e unico romanzo, scritto a 20 anni, perché poi «Roma ti
deconcentra». Ogni tanto porta a letto una bella donna ricca «ma a 65 anni non posso più perdere tempo a fare
cose che non mi va di fare», la notte si pigia con quelli che contano, per ballare sulle terrazze o negli attici ultimo
design, o si affloscia sui divani «a parlare di vacuità, perché non vogliamo misurarci con la nostra meschinità».
Per quanto Toni Servillo sia sempre un grande attore, a teatro e al cinema (questo è il suo quarto film con
Sorrentino) il suo Jep è di lancinante genialità, capace di giudicare e giudicarsi, «Siamo tutti sull' orlo della
disperazione, non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po' in giro». Con la dolce inflessione
napoletana, le magnifiche giacche, arancioni o gialle sui pantaloni bianchi, il cappello bianco, la sigaretta sempre
tra le dita, il sorriso compiacente di chi è sempre al centro della festa ma non della sua vita: e che ritrova nel
silenzio, nel... tanto, come un prezioso reperto della sua storia, mentre la folla dei privilegiati guarderà le facce
rifatte delle signore, l' agitarsi nel ballo sguaiato degli uomini di potere, il mondo di Ultracafonal e del
matrimonio di Valeria Marini. Attorno a Jep e quindi a Servillo, una folla di personaggi dalle vite naufragate nel
denaro e nella menzogna, tutti attori di talento [...]. Sono momenti di magia, in cui si lascia andare al ricordo di
un amore inconcluso della prima giovinezza, quando il suo futuro era intatto e pieno di preziose promesse ormai
fallite. Sono le pause dal baccano e dal caos, in cui si può ritrovare la grande bellezza: quella di una città
meravigliosa, consegnata ai turisti, invispogliarellista in età cui Jep dice con tenerezza, «è stato bello non fare l'
amore con te»; e tutti gli altri, tra cui Isabella Ferrari, Iaia Forte, Massimo de Francovich, Roberto Herlitzka. In
quelle vite scontente e incapaci di trovare serenità e senso, Sorrentino fa scivolare via la morte, come un fastidio,
un incidente breve, che ha il suo momento solenne solo nell' occasione mondana del funerale. Poi viene
cancellata: il vedovo sicuro di dedicare ogni suo pensiero all' amatissima moglie defunta, si consola subito con
una nuova, servizievole compagna, la madre che ha perso il figlio vaa far beneficenza in Africa, Jep, rifiuta la
morte dell' amica come se fosse solo un trucco, «perché prima c' è stata la vita, anche se nascosta sotto il
blabla».
Giona A. Nazzaro. Micromega
[…] Annunciato da quel fulmine a ciel sereno che è stato L’uomo in più, a nostro avviso a tutt’oggi l’esito più
convincente del cinema del regista, Sorrentino ha saputo prendere posto in seno al cinema italiano
contemporaneo grazie al suo spiccato gusto per la composizione dell’inquadratura e il piacere contagioso di una
narrazione che non teme di corteggiare l’eccesso e il grottesco. Non è un caso che già con Le conseguenze
dell’amore Sorrentino abbia inteso dimostrarsi autore in grado anche di ragionare per sottrazione offrendo a Toni
Servillo un ruolo in netta controtendenza rispetto alla sua possanza fisica.
Paolo Sorrentino, in questo senso, è senz’altro uno dei pochissimi registi italiani che ragiona in termini globali.
Pur profondamente italiani, i suoi sono film pensati per un mercato ampio, globale, e in particolar modo,
europeo. A Sorrentino non interessa il cinema italiano in quanto nicchia di mercato ma in quanto dismisura di
una provincia dell’impero che, muovendo dalla propria irriducibile specificità, si colloca in un alveo dove i numi
del cinema europeo, che siano Ozon o Haneke o Kechiche, sono i suoi interlocutori diretti e privilegiati.
In questo senso non si può non apprezzare lo sforzo produttivo che sta dietro ogni suo film. Sorrentino non usa
l’italiano come narcisismo del limite di un cinema incapace di guardare oltre Lugano, ma come strumento
privilegiato per ricordare e affermare una possibilità di cinema, il cosiddetto cinema d’autore industriale, che è
stato sempre il fulcro della nostra produzione.
[…] Stare a lamentare ciò che c’è o che manca ne La grande bellezza è un esercizio fine a se stesso. Inteso come
un poema visivo sinfonico, Paolo Sorrentino con il suo film è come se avesse voluto raccontare un momento
cruciale del nostro paese dalla trincea del benessere e del privilegio. Ovvio che il regista partecipando del
medesimo mondo che racconta ne è inevitabilmente parte in causa e per certi versi questa è proprio una delle
qualità contradditorie più interessanti del film stesso.
Bene ha fatto Servillo a evidenziare le profonde differenze fra il Marcello della dolce vita e il suo Jep
Gambardella: il boom economico fa tutta la differenza del mondo. L’Italia non è più l’Italia, ammesso che l’Italia
sia mai stata… l’Italia. Quindi Sorrentino filma Roma come una necropoli. Più Satyricon che dolce vita a dire il
vero. Morti viventi che si compiacciono della loro putrefazione. Anzi: che la esibiscono come uno stato sociale.
Sorrentino la può filmare perché è il cantore di questa fine del mondo che conosce dall’interno.
Teso fra una contemplazione ieratica incantata, i dolly volanti dell’incipit, e una tensione a voler fustigare i
costumi (l’increscioso episodio con Anita Kravos, una delle migliori attrici italiane degli ultimi anni), Sorrentino si
ritrova fra le mani un film a tratti potente e fascinoso (l’episodio delle chiavi su tutti, il rito del Botox officiato da
Popolizio) alternato a momenti francamente irrisolti (l’inutile prelato del pur ottimo Herlitzka, i flashback, la
suora-zombi…). A nostro avviso il senso del film sta tutto nelle passeggiate di Servillo, attore che ha regalato al
cinema italiano alcune delle più belle camminate degli ultimi anni di cinema italiano.
In quelle camminate emerge lo stupore e l’incanto del cinema di Sorrentino che si libera del suo discorso e trova
una leggerezza inusitata, la medesima leggerezza che gli permette di esaltare la malinconia di Carlo Verdone,
godere della ferocia di Carlo Buccirosso e contemplare il venire meno di Sabrina Ferilli attraverso un taglio di
montaggio che sorprende per la sua sintetica efficacia.
Regista d’attori e di movimenti di macchina, in Sorrentino vivono e resistono alcune delle migliori caratteristiche
del cinema italiano di una volta e al tempo stesso, inevitabilmente, alcune delle contraddizioni odierne mai
risolte. La grande bellezza, al di là, delle partigianerie che impediscono sempre di ragionare sullo specifico
filmico, recupera da un lato la sensualità delle opere migliori di Sorrentino e dall’altro tenta di ricontestualizzare il
suo respiro potentemente formalista che sovente entra in conflitto con la sua voglia di “dire”.
Resta il fatto che La grande bellezza è uno dei pochi film italiani a grande budget che ha tentato di porsi il
problema dell’oggi sia come discorso sulla forma (qualsiasi cosa se ne pensi) che come discorso vero e proprio
(contenuto). Ovvio che ci siano delle frizioni; ovvio che non tutto torni; ovvio che il risultato inevitabilmente è
imperfetto. Segno questo, a nostro sentire, che c’è vita.
Quindi, al netto di tutte le considerazioni, resta, e ci pare un dato abbastanza incontestabile, un piacere del
cinema che Paolo Sorrentino accoglie abbracciando anche tutti i rischi legati a esso.
La grande bellezza è anche questo piacere intossicante di un film follemente imperfetto attraversato da lampi di
vera malinconia e distanza. Un film che rischia e paga in prima persona. Di conseguenza un film con il quale si
può ancora dialogare.
Dario Zonta. Mymovies
[...] Anche Paolo Sorrentino, come molti registi dalla sicura ambizione, cade nella tentazione fatale di raccontare
Roma e lo fa affondando le mani nel suo cuore nero, scoperchiandone il sarcofago da dove fuoriescono i fantasmi
della città eterna, esseri notturni che spariscono all'alba, all'ombra di un colonnato, di un palazzo nobiliare, di
una chiesa barocca. Un carnevale escheriano, mai realmente tragico ma solo miseramente grottesco, una ronde
impietosa ritratta con altrettanta mancanza di pietà. A nessun personaggio di questa Grande bellezza è dato di
evadere, e anche chi fugge lo fa per morte sicura o per sparizione improvvisa (ad esclusione del personaggio di
Verdone, una sorta di Moraldo laziale, che si ritrae dal gioco al massacro tornando nella provincia da cui è
venuto). Le figure di Sorrentino non hanno vita propria, sono burattini comandati da mangiafuoco, eterodiretti
da una scrittura tirannica, verticale, sempre giudicante. Non hanno spazio di manovra, sembrano non respirare.
Come fossero terrorizzati di non piacere al loro demiurgo, sembrano creature soprannaturali, evanescenti, eterne
macchiette bidimensionali, schiacciate dall'imperativo letterario che le ha pensate. Con l'eccezione di quei
personaggi cui è dedicato uno spazio più congruo come la Ramona di Sabrina Ferilli (davvero notevole) e il
Romano di Carlo Verdone, gli altri animatori di questo circo hanno diritto a pochi concisi passaggi. Il domatore
Jep Gambardella li doma tutti dispensando frusta e carota. La crisi di cui si dice portatore è senza convinzione,
come i trenini delle sue feste, non porta da nessuna parte. Ma questa condanna sconfortata che cade su tutto e
tutti, alla fine è assolutoria; e il ritratto di questa società decadente che si nasconde dentro i palazzi romani, mai
visibile agli occhi di un comune mortale, sempre staccata dalla realtà, diventa solamente pittoresca.
Il Fellini della Dolce vita, cui si pensa immancabilmente, aveva una pietas profonda verso i suoi personaggi, e
quella compassione permetteva allo spettatore di allora come di adesso, di agire una qualche proiezione
emotiva. La grande bellezza di Sorrentino è invece abissale, freddissima, distanziata, un ologramma sullo sfondo.
A favorire questo distanziamento c'è anche l'approccio volutamente anti-narrativo, già sperimentato in This Must
Be the Place, ma qui ancora più evidente. Citando Celine e il suo Viaggio al termine della notte, Sorrentino
sperimenta una narrazione errante, fatta di continue effrazioni, smottamenti, deliberati scivolamenti da un piano
all'altro, da una situazione all'altra, lasciando tracce, abbozzi, improvvisi vagheggiamenti. Alla storia preferisce
l'elzeviro, l'affondo veloce, la critica sferzante e sempre erudita. Al dialogo preferisce un monologo
straordinariamente punteggiato (e nel film si monologa anche quando si dialoga). [...]
Federico Gironi. Coming Soon
La "grande bellezza" è qualcosa che Paolo Sorrentino ha inseguito da sempre, con il suo cinema complesso e
ricercato, sovrabbondante anche laddove lineare e minimalista.
Sembra quasi, allora, che il regista abbia voluto raccontare anche parte di sé stesso nel personaggio di Jep
Gambardella, come lui napoletano trapiantato a Roma e come lui alla ricerca di qualcosa di puro pur calato in un
contesto decadente, gaudente e a tratti grottesco come quello del cinema italiano.
Forse l’opera più ambiziosa di Sorrentino fino ad oggi, La grande bellezza è un film che vive delle stesse
contraddizioni che racconta, di eccessi barocchi e intimità commoventi, momenti di un surrealismo concretissimo
come di puro e cristallino godimento estetico essenziale, di una crepuscolarità costante e ininterrotta perfino
dalla luce del giorno e momenti di straordinaria lucidità su sé stessi e sul mondo.
Un film opulento per ragionata necessità, ma nel quale il regista trova perfino, niente affatto paradossalmente, lo
spazio per calmierare la scalmatezza della sua vorticosa macchina da presa.
Basta grattare appena la superficie per capire che La grande bellezza non è un film su Roma, non è un film
sull’Italia, non è un film per il quale tirare necessariamente sempre in ballo Fellini o Scola. Non perché tutti questi
riferimenti siano errati, ma perché Sorrentino ha dato al suo film una personalità singolare e autonoma, e
soprattutto universale. Intellettuali di sinistra e nobili decaduti, porporati e galleristi d’arte, direttori di riviste
prestigiose e ricchi della più disparata origine sono il mondo in cui si aggira via via più insoddisfatto e malinconico
il personaggio di Toni Servillo (dal quale il regista è sempre in grado di distillare il meglio), un uomo che per
accidia o timore, narcisisimo o cinismo, superbia o semplice pigrizia, ha lasciato che il vuoto mediocre della
chiacchiera e della mondanità, della superfice, anestetizzasse un cuore dolente, e che improvvisamente sente la
necessità di cambiare, di ritrovare (nel)la sua vita la bellezza e (quindi) il sentimento.
Sorrentino si tiene lontano da ogni moralismo, non mette in scena il mondo della politica (o dei berlusconismi)
perché quello che racconta è comunque politico, e fa del percorso di Jep (e forse anche suo) un discorso etico nel
quale tutti noi possiamo e dovremmo rispecchiarci.
Inutile sentirsi superiori alle brutture e al ridicolo di un mondo pervasivo, sfuggire alla sua corruzione
nascondendosi altrove o perdendovisi bizantinamente dentro.
Al contrario, serve il coraggio di sentirsi parte di esso, di ammettere le brutture e il ridicolo di tutti noi, i propri
vizi e difetti, le sconfitte interiori durate decenni. E da lì ripartire dalle radici, per (ri)raccontare e raccontarsi la
verità, il sentimento. Per ritrovare la grande bellezza dell’uomo e del mondo. Quella nascosta, e chiusa dietro
portoni la cui chiave, sapendola trovare, portiamo sempre dentro di noi.
Fabio Ferzetti. Il Messaggero
Una città in cui il sordido sconfina nel sublime, il kitsch rasenta l’estasi, l’ignobile diventa spirituale. Un
protagonista tutto abiti sgargianti e segreti rimpianti, re della mondanità e fustigatore dei mondani, un occhio sul
nulla variopinto in cui sguazza e l’altro sul nulla che lo divora da dentro. Un film bulimico, barocco, ora geniale ora
perfino banale, fatto di maestosi movimenti di macchina, visioni notturne, personaggi che appaiono e
scompaiono, immagini folgoranti o al contrario insistenti.
Nel travolgente e imperfetto La Grande bellezza tutto ha due facce e due velocità, come se la duplicità fosse la
chiave a volte un po’ scoperta del lavoro di Sorrentino, della città che esplora e reinventa sulla scia di Fellini (più
Fellini Roma che La dolce vita però). E naturalmente del suo protagonista Jep Gambardella: un Toni Servillo
ancora più barocco e molteplice di tutto il resto, giornalista mondano e scrittore di un solo romanzo, schifato del
mondo e di sé ma ancora curioso e capace di stupore.
È il lato più fecondo del film, che di festa in festa, di passeggiata in passeggiata, accumula incontri bizzarri, cortili
segreti, grottesche epifanie trapunte di aforismi e bons mots com’è da sempre nello stile di Sorrentino. Ed ecco la
terrazza di Jep, con vista sul Colosseo e sui giardini di un monastero, dove si consumano affettuose vendette e
tediose riunioni mondane. Ecco che mentre quel gran fritto misto di giornalisti, galleriste, porporati, attricette,
ex-attricette, nati ricchi, nati stanchi, veri mostri, trucidi generici, si insegue e si mescola tra balli e inviti
«esclusivi», Jep fugge solitario e il ritmo cambia. Compaiono strane figure, come promesse di un mondo migliore
o almeno diverso. Fanny Ardant sorridente nella notte, una giraffa persa a Caracalla, un amico (Giorgio Pasotti
invecchiato e claudicante) che ha le chiavi di tutti i palazzi patrizi e dischiude meraviglie invisibili; mentre le
vecchie principesse giocano a carte come portinaie in un salottino dimesso, e altri nobili si offrono addirittura a
noleggio per occasioni ufficiali.
Ma La grande bellezza non è solo digressioni, apparizioni, squarci surreali e potenti sull’Italia di oggi (Massimo
Popolizio chirurgo estetico che ha troppi clienti e li chiama col numeretto, come dal droghiere; Iaia Forte
bersaglio di un artista-lanciatore di coltelli; i tre potenti volgari che distribuiscono poltrone facendo jogging sul
Tevere, etc.). Da qualche parte Jep ha ancora un’anima, e la riscoprirà grazie al breve e insolito amore con una
sorprendente Sabrina Ferilli, bella figura di spogliarellista attempata e paziente, fragile e carnale, cuore del
segmento più vibrante del film. Eppure proprio su questo fronte il racconto mostra la corda. Tolto l’episodio della
Ferilli, quando si avvicina a Jep, al suo unico vero amico (grande Carlo Verdone in un personaggio di ingenuo
respinto dalle donne che meritava di più) o alla sua gioventù perduta, evocata da una faticosa sottotrama e
inutilissimi flashback, tutto diventa ovvio e farraginoso. Le intenzioni sopraffanno la visione, Jep perde smalto e
profondità, tutti quei tesori di acutezza e malinconia cadono nello stampo un po’ logoro dell’intellettuale
amareggiato. E gli occhiali di Flaiano, poggiati sul naso del giornalista di provincia Verdone, più che un omaggio
diventano un monito. Come se le due parti di cui è composto il grande affresco di Sorrentino - metà bloc notes
brulicante di immagini e intuizioni, metà bilancio di una vita e una vocazione meno dense del necessario - non
sempre combaciassero.
Robbie Collin. The Telegraph
Rome is the Eternal City, but it is also one of the great cities of cinema, which means continuous change and
flow. The Great Beauty, the new film from Paolo Sorrentino, plunges headlong into the current. All you can do is
plunge in there with it and clamber out two and a half hours later, sopping wet, gulping the air and perhaps
having lost a shoe.
Sorrentino’s picture sets out to explain Rome today, as city, mindset and belief system. That’s a fantastically
ambitious project, but other Italian film-makers have been spurred to action in the past by similarly fantastic
ambitions, and thank goodness they were: we have Rome, Open City and La Dolce Vita to show for it.
The Great Beauty screened in competition at the Cannes Festival on Monday evening, and it positions itself as a
direct successor to those two unimpeachable masterpieces. Roberto Rossellini and Federico Fellini’s films
immortalised the Italian capital during two eras so extraordinary we need cinema to make full sense of them.
Rossellini covered the Nazi occupation of 1944; Fellini the seductive, empty hedonism of the years that followed.
Sorrentino's plan is to do the same for the Berlusconi era. His film is a carnival of loosely connected vignettes, set
at all-night parties, high society jamborees and shadowy religious congresses. The revellers are old but their
faces are tight, drawn back by plastic surgery, and Sorrentino’s camera glides around them like the ghost at the
feast.
The eye of this storm is Jep Gambardella, a playboy of pensionable age who made his fortune as a journalist and
his reputation with a novel called "The Human Apparatus", which he wrote in his early twenties – either “a
masterpiece of Italian literature” or “a narrow-minded, frivolous book, as pretentious as its title” depending on
whom he talks to. (One spiteful former lover, in a fit of unconscionable cruelty, calls it "a novelette”.)
Jep is played by Sorrentino’s regular collaborator Toni Servillo, and his walnut-wrinkled face, inquisitive as a
meerkat’s, is there smiling enigmatically in almost every frame. We are of course supposed to recall Marcello
Mastroianni’s similar inky-fingered gadabout in the Fellini film; Sorrentino even gives Jep a pair of thick-rimmed
spectacles to help hammer home the point. (Subtlety, as you may have already gathered, is not The Great
Beauty’s strong suit.)
[…] Can The Great Beauty really stand alongside Rome, Open City and La Dolce Vita? Check back in half a century.
Until then, all that matters is that it might, and theoretically could. It certainly soars above Sorrentino’s earlier
work and is by far the most ambitious film to have screened so far in the competition strand; a shimmering coup
de cinema to make your heart burst, your mind swim and your soul roar. When the credits began to roll at the
press screening, some critics rose to their feet and just stared dumbly at the screen. I’m happy to admit I was
among them.