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www.deportati.it
euro 2,50
TRIANGOLO IT
ROSSO
Giornale a cura
dell’Associazione nazionale
ex deportati politici
Nuova serie - anno XXII
N. 1 Marzo 2003
Sped. in abb. post. Art. 2 com. 20/c
legge 662/96 - Filiale di Milano
27
La memoria ritrovata
gennaio tra i ragazzi a scuola
Da pagina 24
Ciampi a Fossoli
visita il campo
di concentramento
A pagina 3
Ellekappa, la nota disegnatrice prima dell’“Unità” e attualmente di “Repubblica”
inizia con questa vignetta la sua collaborazione a “Triangolo Rosso”.
DALLE LEGGI RAZZIALI ALLA PERSECUZIONE, AL SACRIFICIO
Due famiglie ebree
nell’inferno del nazismo.
Una sterminata nei lager,
l’altra salvata dai partigiani
da pagina 6
L’arresto, la deportazione,
la morte a Dachau
di Calogero Marrone,
un eroe dimenticato
da pagina 10
1
Questo numero
IT
Triangolo Rosso
Giornale a cura dell’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti
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Abbonamento euro 10,00
Inviare un vaglia a: Aned
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Direttore: Gianfranco Maris
Ufficio di presidenza dell’Aned
Gianfranco Maris (presidente)
Bruno Vasari
Bianca Paganini
Dario Segre
Italo Tibaldi
Miuccia Gigante
Comitato di redazione
Giorgio Banali
Ennio Elena
Bruno Enriotti
Franco Giannantoni
Ibio Paolucci (coordinatore)
Pietro Ramella
Redazione di Roma
Aldo Pavia
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Segreteria di redazione
Francesca Ceretti
Collaborazione editoriale
Franco Malaguti
Maria Rosa Torri
Marco Micci
Isabella Cavasino
Barbara Regini
Numero chiuso in redazione
il 15 marzo 2003
Registr. Tribunale di Milano n. 39,
del 6 febbraio 1974.
Stampato da:
Via Picasso, Corbetta - Milano
Mettere
marchio Guado
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3 Ciampi visita il campo di Fossoli
4 Ma per gli ebrei la legge è disuguale. Niente indennizzo per la bambina espulsa da scuola
5 C’è chi in Italia riscrive la storia. Niente vitalizio: non era prigionia
ma solo lavoro
Le nostre storie
6 Due famiglie ebree nell’inferno del nazismo
10 L’arresto, la deportazione, la morte a Dachau di Calogero Marrone,
un eroe dimenticato
16 Gli “schiavi” della Todt. I nazisti chiedevano, i francesi rifornivano
di uomini i campi di lavoro
20 Nel museo ebraico di Praga i quattromila disegni di Terezin
I nostri ragazzi
24 Calabria. Un libro di storia “scritto” nelle aule delle elementari di
Spezzano e Tarsia
26 Calabria. Un gemellaggio per la giornata della memoria: gli alunni
protagonisti
28 Toscana. Il viaggio a Mauthausen per “sentire e vedere” coloro che
c’erano
29 Cronaca di giornate particolari
30 Varese. “I segni della Memoria” in una mostra creata dai liceali
32 Varese. L’ex deportato così racconta… Nella baracca un grido:
“Nein! Nein!”
34 Orbassano. Il lungo percorso storico dell’Istituto Sraffa
35 Siena. “Questo è stato…” Un ex deportato racconta il lager
all’Università
36 Indagate in Germania otto SS per la strage di S. Anna di Stazzema
Notizie
38 Il revisionismo storico di oggi
38 La “Memoria” celebrata dai circoli sardi della Lombardia
I nostri lutti
40 Ferdinando Zidar. Dalla deportazione a Buchenwald, alla primavera di Praga
40 “Petralia”. Alla testa dei suoi partigiani sfilò nella Torino liberata
41 In ricordo da Nadja Bunke
42 Dopo l’apartheid, la riconciliazione
44 Intervista a Danilo Franchi: “La verità non ha colore”
45 “Stroncato il sogno di vita della piccola nera Xoliswa”
Biblioteca
46 La storia di Moshe Bejski, all’ombra degli alberi del suo “Giardino
dei giusti”
47 La tragedia dei tedeschi fuggiti dai territori orientali
48 Come un tenente alla Wehrmacht ha visto la Resistenza in Liguria
49 Nasce tra gli spagnoli il Comitato di liberazione del lager
51 Un incontro fra storici apre la Fondazione della Memoria
ANNUNCIO DI RICERCA
Si cercano notizie di Magis (non meglio identificato) che abitava a Torino
in via San Secondo 9 nel febbraio del 1941. Arrestato nel marzo del 1944
è stato deportato a Mauthausen e a Gusen, matricola 58951.
Il 1° marzo 1945 era ancora in vita. Chiunque ne abbia notizia è pregato di mettersi a contatto con la sezione Aned di Roma.
IT
CIAMPI VISITA
IL CAMPO DI FOSSOLI
Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha visitato l’11 marzo il campo di concentramento di Fossoli.
Ciampi era accompagnato nella visita, oltre che dalla moglie, dal sindaco di Carpi, da parlamentari e dalle autorità
locali. A guidare il Presidente della Repubblica nel campo dove furono rinchiusi centinaia di deportati politici e di
ebrei sono stati chiamati Gianfranco Maris, presidente dell’Aned e Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle
Comunità ebraiche italiane. Il Presidente della Repubblica ha poi visitato il Museo della deportazione di Carpi.
In occasione della visita a Fossoli Maris e Luzzatto hanno rilasciato le seguenti dichiarazioni.
Un riconoscimento
della necessità della memoria
Un grande
significato storico
La presenza del Presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi nel campo di Fossoli, strumento della
criminale repressione nazista e fascista degli ebrei e
degli oppositori, conferma, da parte del Presidente della
Repubblica, la scelta di un itinerario che rappresenta
emblematicamente i valori che hanno espresso, nel
corso della guerra di liberazione, le donne e gli uomini
del nostro popolo, che il Presidente indica e ricorda,
con continua fermezza, non soltanto alla nostra
comunità nazionale, ma anche alle stesse istituzioni.
È un itinerario che passa per Marzabotto, che attraversa
tutte le regioni italiane che hanno conosciuto la lotta
della Resistenza e i lutti e le lacrime che è costata, che
oggi passa per Fossoli, tappa verso lo sterminio nei
campi di annientamento nazisti in Europa degli ebrei e
degli oppositori politici concentrati in Fossoli, che
conobbe anche il criminoso sterminio di 68 oppositori
politici, prigionieri nel campo, assassinati il mattino del
12 luglio 1944 al poligono del tiro a segno del Cibeno
in Carpi. La presenza del Capo dello Stato italiano è il
riconoscimento della necessità che questa memoria sia
difesa e non subisca squallide mistificazioni.
Gianfranco Maris presidente Aned
La prima volta a Fossoli di un Capo dello Stato italiano
è un evento di grande significato storico e simbolico.
A conferma del valore della “Giornata della Memoria”
che esprime la consapevolezza di tutto il popolo italiano e
non soltanto di quella sua componente che ricorda le
proprie sofferenze, le proprie ferite, i propri martiri,
questa visita al Campo di Fossoli, che rappresentava il
transito verso l’annientamento nei campi di sterminio,
dice agli italiani che in questo posto non si consumava un
provvedimento del Governo legittimo del nostro Paese
contro una minoranza di pubblici nemici; al contrario: era
una parte del Paese che veniva arbitrariamente e
crudelmente amputata dalla collettività nazionale,
portando alle estreme conseguenze le infami leggi del
1938 per la cosiddetta difesa della razza; era un atto
violento compiuto da coloro che si erano posti al servizio
di un esercito straniero che occupava con la forza il
nostro territorio nazionale; era una manifestazione
di odio e brutalità.
Come ebrei siamo fieri di essere in quest’occasione a
ricevere il Presidente Ciampi, per esprimergli non solo la
nostra gratitudine, ma soprattutto la nostra volontà di
cittadini italiani di impegnarci, assieme agli altri, nella
fedeltà alla democrazia
e alla libertà, allora
faticosamente
riconquistate; perché
sia questa qualità di
cittadini eguali agli
altri cittadini a
prevalere sempre,
anche in futuro, sulle
differenze culturali,
religiose, linguistiche,
ideologiche, nei
rapporti fra gli uomini
e nella considerazione
delle autorità preposte
alla guida del Paese.
Amos Luzzatto
presidente Unione
Comunità ebraiche
italiane
3
Una sezione centrale d’appello della Corte dei Conti interpreta a modo suo le leggi
a legge è uguale per
tutti, ma solo se non
sei ebreo e non hai
perso anni di scuola a causa
delle leggi razziali del 1938.
Il professor Rafael Levi, lo
ricorda con rabbia, parlando di un’ondata di revisionismo che coinvolge da anni oscuri travet del ministero del Tesoro poi ribattezzato dell’Economia.
Oggetto, l’assegno speciale
di 760 mila lire che spetta
per legge ai cittadini di origine ebraica che dopo il settembre del ‘38 non poterono
più frequentare le aule scolastiche. La madre del professor Levi non l’ha mai ottenuto, mentre due sue sorelle lo ricevono grazie a sentenze emesse da due diverse
istanze della Corte dei Conti.
Anche loro però hanno dovuto fronteggiare i ricorsi
ministeriali che negavano
un diritto che oggi appare
scontato.
La magistratura contabile,
da parte sua, non ha mai trovato l’accordo sull’argomento, emettendo negli anni sentenze contraddittorie.
Ad aumentare la confusione, contribuisce la speciale
Commissione istituita presso la presidenza del Consiglio, che da circa un anno
ha dato luce verde agli indennizzi per chi ha subito
una forma sottile - ma non
per questo meno atroce - di
persecuzione. “In questo modo - spiega il professor Levi
- si sono create almeno quattro categorie di cittadini, a
seconda che le loro ragioni
siano state accolte o respinte, prima dal ministero e poi
dalle diverse sezioni della
Corte dei Conti”.
L
4
Ma per gli ebrei
la legge
è disuguale
Niente indennizzo
per la bambina
espulsa da scuola
di Gigi Marcucci
Le valutazioni che hanno
portato al moltiplicarsi dei
contenziosi non sono chiare.
In generale, gli assegni di
benemerenza concessi ogni
anno non superano i 2 miliardi e 600 milioni di lire,
una parte minima del bilancio dello Stato.
I cittadini ebrei che ne hanno diritto sono circa 2000:
ammesso e non concesso che
tutti facciano richiesta dell’assegno speciale, non sembrano costituire una minaccia per i conti del professor
Tremonti. Eppure, entro la
prima settimana di marzo,
le Sezioni unite della Cassazione dovranno spendere
una parola definitiva sul caso di una bambina ebrea che
nel settembre del ’38 fu
espulsa dalle scuole del
Regno. Il suo nome è Nella
Padoa, viveva a Bologna e
in quel periodo avrebbe dovuto cominciare a frequentare la quarta elementare.
Un giorno fu convocata in
segreteria, dove le mostrarono il registro. Accanto al
suo nome era comparso un
timbro: “Razza ebraica”. Le
porte della scuola si chiusero per Nella e la sua sorella
minore, di due anni più giovane.
Nel ‘43, all’arrivo dei tedeschi, le due bambine trovarono rifugio a Modena, presso una famiglia. Tradite da
una soffiata, furono bloccate dai fascisti e rinchiuse in
carcere in attesa di un treno
piombato destinato ai cam-
pi di sterminio. Fortunamente partigiani e americani furono più tempestivi dei
nazisti e le due sorelle Padoa
vennero liberate.
Dal 1955 la legge italiana riconosce a entrambe lo stato
di perseguitate, ma a questo
punto i loro destini, per la
giustizia italiana, si separano.
La sorella di Nella, trasferitasi a Genova, vede accolte
le proprie ragioni dalla locale sezione della Corte dei
Conti. L’istanza di Nella, che
è rimasta a Bologna, viene
respinta da diversa sezione
della stessa magistratura. Da
qui il ricorso su cui le Sezioni
unite si pronunceranno nei
prossimi giorni. “Non parlerei di antisemitismo, secondo me ci troviamo di
fronte a un tipico esempio
di ottusità burocratica”, dice Lucio Pardo, presidente
della Comunità ebraica di
Bologna. “È evidente che
chi ha perso anni di scuola ha
subito un danno”, continua
Pardo, “io stesso, che sono
del ‘36, non potei frequentare
l’asilo e i primi tre anni di
scuola elementare. Per la mia
istruzione non ci furono problemi, perché mia madre era
un’insegnante e mio padre
un preside.
Furono bravissimi e mi fecero vivere l’arrivo dei tedeschi e la fuga in Svizzera
come una grande avventura. Quello che è mancato a
me, come agli altri bambini
ebrei, è stato un periodo fondamentale per la socializzazione. Perché una cosa è imparare a confrontarsi e a difendersi quando si è piccoli, un’altra è farlo a 20 o 30
anni”.
del ’38 e un’altra declassa a “campo di lavoro” quello di sterminio di Muldorf
è chi proclama che
bisogna riscrivere
la storia. C’è chi
presenta disegni di legge per
dire come andranno riscritti i libri di storia.
C’è chi, zitto zitto e senza
clamori, la storia già la riscrive. Una sezione centrale
di appello della Corte dei
Conti, per respingere il ricorso di un richiedente l’assegno vitalizio spettante ai
deportati nei campi di sterminio, ha ritenuto non sufficiente giudicare in merito alla condizione vissuta
in deportazione ma, animata da una irresistibile vocazione per la verità storica, ha voluto pronunciarsi
sulla natura, la vera natura, dei KZ.
Ecco la sentenza: Muldorf
non è un KZ. È, in sostanza,
un campo di lavoro, con una
direzione del cantiere assegnata alla Todt.
Poveri parlamentari tedeschi! Che figura da ignoranti
hanno fatto nel ritenere
Muldorf, sottocampo di
Dachau, un KZ, inserendolo tra i 1640 che con legge
federale e pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale tedesca
del 1977, hanno riconosciuto
essere campi “destinati allo
sterminio”.
E ancora, sempre nella sentenza: in Muldorf erano impiegati, accanto ai “non volontari”, ossia soggetti precettati, e a lavoratori coatti,
anche lavoratori civili liberi. La si smetta, quindi, di
parlare di “sterminio”. I signori con su il petto la matricola di Dachau erano “non
volontari” precettati al lavoro.
Perché, vedete, l’interpre-
C’
C’è chi in Italia
riscrive
la storia
Niente vitalizio:
non era prigionia
ma solo lavoro
di Aldo Pavia
tazione vera della legge è
che: la vigilanza delle SS o
della Gestapo non costituisce elemento decisivo per
l’attribuzione del beneficio,
occorrendo, altresì, la di-
mostrazione dell’attribuibilità , “ab initio”, della destinazione ai fini di sterminio
del campo.
E ancora: la particolare durezza della gestione della
prigionia non è idonea ad integrare il requisito di legge,
che esige una destinazione
del campo ai fini di sterminio.
Secondo questa sezione
d’appello i campi di concentramento in quegli anni
avevano caratteristiche diverse sia per i soggetti che
vi erano interessati sia per
la conseguente diversa disciplina in guisa che, solo
per taluni campi, era ipotizzabile la “soluzione finale
programmata”.
Ma allora, quali erano questi campi di sterminio? “Il
legislatore ha inteso limitare la fruizione del beneficio
in questione ai casi in cui tale evento (lo sterminio, ovviamente, ndr) sia stato deliberatamente e programmaticamente attuato, mediante predeterminate esecuzioni di massa”.
Nessuna esecuzione di massa (o poche), nessuno sterminio. Ma allora come la
mettiamo con i milioni di assassinati “per lavoro”?
Semplici “non volontari”
precettati.
Adesso sapete, amici deportati nei KZ, chi eravate
in realtà. Dopo mezzo secolo, finalmente, la Corte dei
Conti, dall’alto di una
profonda dottrina storica, vi
ha e ci ha illuminati. Adesso
aspettiamo solo che il ministero del Tesoro vi chieda la
restituzione di quanto “indebitamente percepito”.
Volutamente non esprimo il
mio parere su questa sentenza.
Lascio a voi “non volontari” precettati il diritto di
esprimervi opportunamente. Spero a voce alta.
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I SONNINO VENGONO STERMINATI NEI LAGER, I WEILLER SALVATI
Le nostre
storie
Due famiglie ebree
nell’inferno del nazismo
di Bruno Enriotti
Piera Sonnino e Guido Weiller erano due giovani ebrei,
ancora ragazzi quando nel 1938 il fascismo promulgò le
leggi razziali.
Piera aveva 16 anni, Guido 13. Vivevano in due città diverse: a Genova lei, a Milano lui, e non si sono mai conosciuti, eppure le loro vite si incontrano poiché entrambi hanno sofferto negli anni bui del fascismo esperienze simili.
Uguale è l’isolamento in cui si vengono a trovare quan-
do, ancora ragazzi, si ritrovano improvvisamente espulsi “da tutte le scuole del Regno”, ugualmente drammatica la fuga dopo l’8 settembre 1943, quando dalla discriminazione razziale si passa, con l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica di Salò, agli arresti
e alle deportazioni.
Un solo avvenimento – decisivo per il futuro di entrambe
le famiglie – imprime un segno opposto al destino loro
e delle due famiglie: una, la famiglia Sonnino, finirà ad
Auschwitz, dove i genitori e i fratelli di Piera verranno
sterminati; l’altra, la famiglia Weiller, incontrerà invece i partigiani e riuscirà a salvarsi.
Sul retro è scritto “Genova, estate 1926”. È la sola foto rimasta dei sei fratelli Sonnino
Paolo, ucciso
ad Auschwitz
a 27 anni
Bice,
morta
a Braunschweig
a 21 anni
Maria Luisa,
uccisa
a Flossenburg
a 25 anni
Piera Sonnino,
che ritornò
dai campi
e morì
a Genova
l’11 maggio
1999
Giorgio,
che morì
ad Auschwitz
a 19 anni
6
Roberto,
deceduto
in luogo e data
ignoti
DAI PARTIGIANI
Chi scrive queste note ha conosciuto personalmente sia Piera Sonnino sia Guido Weiller. Piera era
sposata con A.G. Parodi, uno dei migliori giornalisti dell’Unità di Genova che ebbe un ruolo poco conosciuto ma di primo piano nel creare le condizioni per la protesta popolare del luglio ‘60 che portò
alla caduta del governo Tambroni; Weiller è diven-
tato un esperto commentatore scientifico al tempo
del lancio degli Sputnik e della conquista della Luna,
pronto a correre in redazione a qualunque ora del
giorno o della notte per spiegare con lucidità e competenza ai lettori dell’Unità, sotto il nome di Paolo
Sassi, le affascinanti vicende delle conquiste della
scienza.
Palmiro Togliatti
circondato da
compagni di partito:
Gaetano Parodi,
marito di Piera
Sonnino, è il secondo
da destra.
Piera Sonnino
a una conferenza
per la pace alla fine
degli anni Sessanta.
La vita sconvolta
dalle leggi razziali
Piera Sonnino costretta
ad abbandonare gli studi
Le storie di Piera Sonnino e
di Guido Weiller si possono
leggere in due recenti pubblicazioni.
Sul Diario del mese, la rivista diretta da Enrico
Deaglio, è apparso nel numero dello scorso gennaio
un manoscritto di Piera (deceduta nel 1999) intitolato
La deportazione della mia
famiglia; Weiller ha pubblicato il libro autobiografico La bufera – Una famiglia di ebrei milanesi con i
partigiani dell’Ossola
(Giuntina, 19 euro). È proprio l’elemento messo in rilievo nel titolo di Weiller,
l’incontro con i partigiani,
che rese tanto diversa la sorte di queste due famigli
ebraiche.
Piera apparteneva ad una
famiglia della media borghesia. Il padre – che vantava una parentela con
Sidney Sonnino, per due
volte presidente del
Paolo, il maggiore, riuscì ad
impiegarsi presso le
Assicurazioni Generali di
Venezia ( nel 1940 si laureerà
in Economia e commercio);
il secondogenito Roberto lavorava all’Istituto nazionale
delle assicurazioni, la prima
delle femmine, Maria Luisa,
al Monopolio banane, mentre gli altri tre figli minori studiavano ancora: Piera e Bice
all’Istituto commerciale,
Giorgio al tecnico.
Con le leggi razziali – scrive
Piera – “un fulmine si è abbattuto sulla nostra casa. Nel
giro di pochissimi giorni
Paolo, Roberto e Maria Luisa
furono licenziati. Giorgio,
Bice e io fummo costretti a
lasciare le scuole statali e a
iscriverci alla scuola ebraica.
La sera in cui i miei fratelli annunciarono il loro licenziamento e dinnanzi a noi si aprì
la voragine dell’avvenire evitammo di lamentarci perché
nessuno potesse udirci, ri-
Consiglio tra il 1906 e il
1910 e ministro degli Esteri
durante la prima guerra
mondiale – era un commerciante con “fortuna alterna e sempre assai scarsa”; la madre, eccellente
pianista con un diploma di
insegnante, si dedicava alla cura dei sei figli, tre maschi e tre femmine, di cui
Piera era la terz’ultima.
Migliore la condizione sociale della famiglia Weiller,
di cui faceva parte anche un
parente che durante la prima guerra mondiale aveva
volato su Vienna con
D’Annunzio. Il padre era un
avvocato milanese abbastanza affermato che “aveva aderito al fascismo più
che altro per necessità”; la
moglie accudiva i due figli,
Silvana e Guido.
I Sonnino avevano raggiunto proprio in quegli anni una
certa tranquillità economica.
manemmo in silenzio a meditare sull’incognita terribile dell’indomani”. Anche i
due fratelli Weiller nell’autunno del ‘38 vengono espulsi dalla scuola pubblica, il liceo Parini.
Immediatamente si improvvisa una scuola per ragazzi
ebrei “la prima settimana –
scrive Guido – si utilizzava
casa nostra, la seconda casa
Luzzatto, la terza casa Fargion. Di quelle settimane ricordo più che i volti i nomi:
Morpurgo, Luzzatti, Luzzatto,
Bonfiglioli, Fargion, Dreyfus, Castelnuovo…”. Poche
settimane dopo la comunità
ebraica di Milano dà vita alla Scuola ebraica, l’Istituto
Franco da Fano, in via Eupili.
Lì Guido studia privatamente per poi dare gli esami, superati col massimo dei voti, in
una scuola pubblica, il Liceo
scientifico Schiapparelli. Piera
Sonnino è invece costretta ad
abbandonare gli studi.
7
Una sterminata nei lager,
l’altra salvata dai partigiani
“Non solo in quel tempo, ma
soprattutto negli anni che seguirono – scrive – scoprimmo attorno a noi una solidarietà umana silenziosa ma
operante. Le misure antiebraiche suscitavano generalmente nuovi motivi contro la dittatura fascista e nei
nostri confronti più simpatia
di quanto ne avessimo mai
ricevuta”.
Paolo e Roberto vengono assunti da due ditte private,
Maria Luisa da studi di avvocati e la stessa Piera, nel
1941, va a lavorare alla ditta Saic, occupando il posto
di un ebreo tedesco che era
stato rinchiuso in un campo
di concentramento a Montefiascone. Piera descrive
con molta efficacia la solidarietà ricevuta in quegli anni: “Ricordo un povero contadino di Sampierdicanne,
nei pressi di Chiavari, dove
ci eravamo rifugiati, ripetere che l’umanità non si divide in ebrei e non ebrei ma
in ricchi e poveri, tra chi possiede tutto e chi non possiede nulla, tra chi lavora la terra e non ne gode i frutti e chi
non la lavora e si appropria
della mietitura e della vendemmia”.
È in queste condizioni che
la famiglia Weiller a Milano
e la famiglia Sonnino a
Genova vivono gli anni della guerra fino alle drammatiche giornate seguenti l’8
settembre ’43.
Sopra: Piera Sonnino,
sdraiata, insieme a un’altra
sopravvissuta, nella clinica
di Cortina d’Ampezzo
dove rimase per cinque anni
e mezzo dopo la liberazione.
Sotto: Piera Sonnino nel 1952.
Genova e Binasco
i “teatri” delle due storie
L’armistizio e la conseguente
invasione nazista colgono la
famiglia Sonnino a Genova,
mentre i Weiller erano sfollati a Binasco, un paese del
sud milanese. Entrambi capiscono subito i gravi rischi
che corrono gli ebrei con i
nazisti in casa e cercano di
nascondersi.
I Sonnino lasciano Genova
a fine settembre e cercano
rifugio a Sampierdicanne,
nell’entroterra ligure. Tentano ogni strada per riparare in Svizzera, ma non hanno denaro sufficiente per
emigrare.
La zona del Chiavarese dove si erano rifugiati era in
permanenza battuta dalle
truppe naziste e dai fascisti,
per cui bisognava abbandonarla al più presto. Qualcuno
8
gli parla di un alberghetto a
Pietranera di Rovegno (un
altro paesino nell’entroterra
ligure) e la famiglia Sonnino
vi si trasferisce.
Ma anche qui il rischio è
grande. Proprio riflettendo
sul periodo passato in quell’alberghetto, Piera Sonnino
fa una considerazione che,
certo inconsapevolmente,
delinea la sorte diversa che
avranno nei mesi futuri la
famiglia Sonnino e la famiglia Weiller. “La zona – scrive Piera – era percorsa quasi quotidianamente da reparti tedeschi che si dirigevano verso le montagne.
Ad ogni loro apparire abbandonavamo l’albergo o la
cucina e ci disperdevamo nei
boschi.
Un giorno fuggimmo per
l’avvicinarsi di un gruppo
di uomini in divisa e al nostro ritorno apprendemmo
che si trattava di militari inglesi evasi dai campi di prigionia.
Nessuno ci disse perché erano transitati da Pietranera.
Per oltre un mese vivemmo
in una zona controllata in
buona parte dai partigiani e
lo ignorammo.
La scheda
Guido Weiller, La bufera (Una famiglia di ebrei
milanesi con i partigiani dell’Ossola)
Giuntina, pp. 211, euro 12
È la storia per molti aspetti unica della famiglia dell’avvocato Augusto Weiller che, a differenza di molti altri ebrei, subito dopo l’armistizio, decide senza indugi, di lasciare Milano
con la famiglia, moglie e due figli, per trasferirsi sulle mon-
tagne piemontesi dove si stanno organizzando le prime
bande partigiane. Il contatto, sopra Quarna, è con il famoso
capitano Filippo Beltrami che accoglie i fuggiaschi nella
Squadra “Patrioti Vallestrona” dando loro compiti specifici
che saranno rispettati. Guido, il figlio diciottenne, partecipa
ad azioni militari, viene investito da un rastrellamento, perde
contatto con la famiglia che ritroverà poco prima di varcare
il confine con la Svizzera, scampando alla “bufera”.
L’arresto dei Sonnino
a causa di una spiata
La fuga
della famiglia Weiller
Soltanto al mio ritorno appresi che cosa racchiudessero i monti che avevamo intorno.
E appresi anche quali legami ci fossero tra quei monti
e i contadini che protessero
anche noi con il loro silenzio”.
Il mancato incontro con i
partigiani ha portato la famiglia Sonnino allo sterminio di Auschwitz; l’incontro con loro ha invece salvato la famiglia Weiller.
Non sapendo a chi appoggiarsi, la famiglia Sonnino
è costretta a fuggire anche
da Rovegno.
Sono gli stessi carabinieri
ad avvertirli: “Non potete
più stare qui, i tedeschi potrebbero prendervi. Dovete
allontanarvi.” E i Sonnino
fuggono.
Tornano a Genova, una conoscente trova loro un rifugio in un palazzo sinistrato
senza luce e gas. Poi, grazie
all’interessamento di un sacerdote, riescono ad entrare in un appartamento più
confortevole. La loro situazione si fa sempre più drammatica.
Il 12 ottobre 1944 i militi
fascisti li arrestano a causa
di una spiata.
Li portano alla Casa dello
Studente (un edificio tristemente noto quale sede
delle Brigate Nere e dove
vennero rinchiusi e torturati numerosi antifascisti);
poi al carcere di Marassi,
quindi nei campi di con-
Anche la famiglia Weiller
rischiò di fare la stessa tragica fine, ma ciò non avvenne.
Lasciata Binasco immediatamente dopo l’8 settembre,
i Weiller fuggono in Val
d’Ossola con la speranza di
raggiungere la Svizzera.
Anche la loro è un’odissea,
cambiano continuamente
paese cercando di sfuggire
ai fascisti e ai tedeschi.
A Villadossola, quando tutte
le speranze di trovare rifugio
in Svizzera sembrano svanite, Guido Weiller – allora poco più che adolescente ma
già molto intraprendente –
decide di prendere contatto
con i partigiani. Sa che in
quella zona ci sono gli uomini del comandante Beltrami, un architetto milanese
salito in montagna per combattere i fascisti.
Guido riesce ad identificarlo
lo avvicina e direttamente gli
dice: “Siamo una famiglia di
ebrei. Chiediamo protezione”. E Beltrami gli risponde:
“Siete sotto la mia protezione. Io rappresento il governo italiano. I miei uomini sono acquartierati a Damasca.
Qualunque cosa vi succeda
salite anche voi a Damasca.
Se io non ci fossi chiedete
del mio vice, il tenente Lino,
che sarà avvertito stasera”.
Così i Weiller si uniscono ai
partigiani e con loro rimarranno diversi mesi. L’intera
famiglia si rende utile (Guido
si distinguerà aggiustando
armi e preparando ordigni
centramento, prima a Bolzano infine ad AuschwitzBirkenau.
All’arrivo i genitori vengono subito destinati alle camere a gas; il figlio maggiore muore poco dopo. Ad
Auschwitz moriranno anche
gli altri due fratelli.
Delle tre sorelle una morirà
a Flossenburg e un’altra nel
campo di Braunschweig.
Piera sarà l’unica a salvarsi.
Quando rientra in Italia non
ha più nessuno. Passerà diversi anni in una clinica per
recuperare la salute, poi, tornata a Genova, sposa un giornalista dell’Unità, A.G.
Parodi e dal loro matrimonio nascono due figlie, Maria
Luisa e Bice.
Sono loro che dopo la morte dei genitori, hanno conservato la drammatica testimonianza della madre per
poi consegnarla alla rivista di
Enrico Deaglio.
esplosivi, mettendo in mostra tutta la sua abilità tecnica che dopo la guerra farà di
lui un ingegnere estroso e geniale). I Weiller rimangono
con i partigiani della Val
d’Ossola finché un imponente
rastrellamento di fascisti e
tedeschi li costringe a disperdersi e a mimetizzarsi.
Tutta la famiglia è un gravissimo pericolo e i partigiani
decidono di farli fuggire in
Svizzera.
La loro vita è salva. Anche
se – come scrive Guido – “mi
è rimasto dell’esperienza partigiana un intimo cruccio:
quello di aver lasciato la formazione, di avere abbandonato il posto di combattimento, di ‘essere scappato’”.
Comunque farà in tempo a
tornare in Italia per consegnare a Milano all’aiutante
di Luigi Longo, il 28 aprile,
la prima serie di immagini
giunta in Italia dei campi di
sterminio nazisti.
9
UN LIBRO RICORDA LA FIGURA DEL CAPO DELL’UFFICIO ANAGRAFE DI VA
Le nostre
storie
L’arresto, la deportazione,
la morte a Dachau
di Calogero Marrone,
un eroe dimenticato
“Un eroe dimenticato” è il titolo di un libro scritto da
Franco Giannantoni e Ibio Paolucci, il primo ricercatore
storico e autore di numerose opere sulla Resistenza, il
secondo giornalista politico e giudiziario dell’Unità e
critico d’arte e teatrale; entrambi sono redattori del
Triangolo Rosso.
Nel libro - di cui pubblichiamo alcuni stralci del primo
capitolo - si racconta la storia di Calogero Marrone, capo dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese, assassinato a Dachau per aver aiutato gli ebrei e gli antifascisti durante l’occupazione tedesca. Calogero Marrone
veniva dal sud, dalla provincia di Agrigento e si era trasferito a Varese, con la moglie e i quattro figli.
Diventato capo dell’ufficio anagrafe del Comune, durante l’occupazione nazista rilascia centinaia e centinaia di documenti d’identità falsi soprattutto ad ebrei,
ma anche ad antifascisti, salvando, a prezzo della propria, la loro vita. Tradito da un delatore, Calogero
Marrone, viene arrestato dai tedeschi e consegnato alle SS. Torturato, rinchiuso in diverse carceri, viene quindi deportato nel campo di sterminio di Dachau, ultima
tappa di un viaggio senza ritorno.
La lapide in memoria
di Calogero Marrone posta
nel luogo dove operò e venne
tradito. È stata inaugurata il
1° ottobre 1994, a mezzo secolo
dalla tragica morte a Dachau.
L’iniziativa fu dell’avvocato
Giorgio Cavalieri di Varese,
ebreo, del Comune di Varese
e dell’Associazione Partigiani
d’Italia (Anpi).
10
di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci
Via Sempione è una strada di
Varese un tempo periferica
e oggi senza soluzione di
continuità con il centro storico.
Durante la guerra si chiamava via Mario Chiesa, in
memoria del prefetto della
città scomparso in un incidente aereo e, in un piccolo
edificio al numero 14 di proprietà del Comune, abitava al
secondo e ultimo piano la
famiglia di Calogero Marrone, responsabile dell’ufficio anagrafe comunale.
Qui due ufficiali tedeschi,
uno dei quali parlava l’italiano, si presentarono alle
cinque del pomeriggio del 7
gennaio del 1944, per prelevare il capo famiglia, accusato di avere favorito alcuni ebrei, consegnando loro documenti falsi.
I militari che facevano parte della V a sezione della
Grenzwache, un corpo speciale di polizia della scuola di Innsbruck, suonarono
alla porta dell’unico appartamento del secondo piano
e quando la signora Giuseppina, moglie di Calogero
Marrone, aprì, chiesero con
tono aspro e minaccioso dove fosse il marito. Lui era
nella stanza accanto e comparve non appena udito il
suo nome.
Invitato a seguirli, il signor
Calogero chiese di prendere una borsa dove aveva ficcato due camicie e un rasoio per la barba, segno che
quella “visita” non era per
lui inaspettata.
Poi disse alla moglie e al figlio sedicenne Domenico,
che giaceva a letto per un
brutto mal di gola, di stare
tranquilli, che tutto si sarebbe risolto positivamente,
sperabilmente nella stessa
giornata.
ARESE
NEGLI ANNI DELLE LEGGI RAZZIALI
Il manifestino
con cui il 15 giugno
1945 i sindacati
invitavano
i lavoratori ed
i cittadini di Varese
a sospendere
il lavoro
per protestare,
nel nome di
Marrone, Molteni
e Vergani, caduti
innocenti nei campi
di sterminio,
contro i ritardi
nell’epurazione
e nella punizione dei
fascisti repubblichini
della città
e della provincia.
Castelletti, ultimo sindaco
della città nel ‘24 per libere
elezioni e poi podestà, senza incidenti di percorso sino al ‘43, “per l’accertamento delle eventuali responsabilità sull’irregolare
rilascio di carte d’identità”.
L’allarme di don Locatelli,
dunque, era ben motivato e
avrebbe dovuto essere preso
sul serio.
Ma Calogero Marrone, dopo un primo lungo colloquio
con il sacerdote e un secondo con la moglie, che l’aveva sollecitato a rifugiarsi in
L’aiuto agli ebrei
e il tradimento
Non c’era spazio per sperare in una soluzione né a breve né a lunga scadenza. Tre
giorni prima, infatti, a quella medesima porta aveva suonato il canonico della
Basilica di San Vittore don
Luigi Locatelli, che, prima
ancora di salutare, aveva sollecitato l’amico Calogero a
sparire da Varese, senza perdere troppo tempo se non
voleva finire nelle mani dei
nazisti. Da fonte certa il sacerdote aveva saputo che
Marrone era nel loro mirino
Svizzera, aveva deciso di restare nella sua casa, intanto
perché aveva dato la parola
d’onore al podestà fascista
che non avrebbe abbandonato Varese restando a sua
disposizione per le indagini e non voleva mancare a
quell’impegno. Ma soprattutto intendeva rimanere per
non esporre i familiari a una
inevitabile rappresaglia, in
caso di fuga.
A provocare la cattura di
Marrone era stata una spia,
sfortunatamente rimasta anonima e dunque impunita.
Ma nessuno di loro
si fece illusioni
e che una decisione sarebbe
stata imminente.
L’informazione l’aveva avuta da gente del Comune, dove, fino a qualche giorno prima, Calogero Marrone lavorava in un settore di estrema delicatezza.
Dall’ufficio anagrafe, un
paio di locali situati lungo il
porticato di sinistra di
Palazzo Estense, di comodo
accesso per i cittadini,
Marrone era stato sospeso
cautelativamente dal primo
giorno del ‘44 da Domenico
Che si trattasse di una delazione, tuttavia, non c’erano
dubbi. L’accusa era proprio
quella di avere rilasciato documenti d’identità contraffatti a due ebrei di Milano, i
cui nomi, ovviamente falsi,
indicati nei documenti, erano Pietro Del Giudice e
Natalina Rosati. La coppia
era stata presentata a Marrone da Alfredo Brusa
Pasquè, un esponente socialista del Cln varesino, costretto ad un certo momento, quando le probabilità
d’essere sorpreso dai nazifascisti erano diventate altissime, a riparare in Svizzera, nella cui abitazione di
piazza XX Settembre, frequentata da Marrone, si riunivano con regolarità elementi dell’antifascismo.
Quali fossero i loro nomi veri dei due ebrei non è stato
possibile accertare.
Comunque Marrone aveva
fornito fino a quel momento documenti falsi a parecchi
ebrei, non solamente a quei
due, e anche a non ebrei.
11
L’arresto, la deportazione,
la morte a Dachau
di Calogero Marrone,
un eroe dimenticato
Il ricordo di Maris
Il senatore Gianfranco Maris, attuale presidente
dell’Aned (Associazione nazionale
ex deportati politici) rammenta benissimo di essere
stato da lui per ottenere una carta d’identità falsa.
Era intestata - ricorda Maris- a
tale Gianfranco
Lanati, di professione rappresentante di commercio, nato a Caserta nel 1916.
Marrone mi aveva invecchiato di cinque anni ma
quel documento mi fu molto utile per potermi muovere da un luogo all’altro fino alla mia cattura, che avvenne non molto tempo dopo, verso la fine di gennaio
del 1944.
Io, quando cadde il fascismo, ero un giovane ufficiale sul fronte jugoslavo.
Dopo l’8 settembre gettai
la divisa e feci ritorno in
Italia, dove mi unii alle formazioni partigiane. Il nome
di Marrone me lo fece nell’ottobre o nel novembre
‘43 il compagno Salvatore
Di Benedetto, allora dirigente del Pci a Milano e futuro parlamentare della
Repubblica.
Ma il tramite, quello che mi
presentò a Marrone, fu
Alfonso Montuoro, siciliano della zona di Agrigento
(come Di Benedetto e come il capo dell’ufficio anagrafe di Varese), funzionario di una compagnia assicurativa di Milano, sfollato a Varese. Fu lui che mi
accompagnò in Comune e
che mi fece incontrare con
“
12
Marrone. Il contatto, però,
fu fuggevole, durò pochi minuti, per cui il mio ricordo
è molto vago. Se ben rammento lui dette incarico ad
uno dei suoi collaboratori
di fornirmi la carta d’identità, passandogli un biglietto
dove erano indicate le mie
false generalità.
Di Benedetto, invece, l’avevo conosciuto molto prima,
quando avevo 17 anni. Lui,
uscito dal confino di
Ventotene, passato nella
clandestinità, era venuto a
Milano. Io allora avevo per
compagno di banco, al liceo, Pietro Gaffà, col quale
c’era già stato uno scambio
di confidenze antifasciste.
Fu lui che mi presentò a suo
fratello, reduce anch’esso
dal confino di Ventotene.
Fu quest’ultimo a farmi conoscere Di Benedetto. Con
loro mi incontrai parecchie
volte. L’intenzione, evidentemente, era quella di
reclutarmi ed io, peraltro,
non chiedevo di meglio.
Infine divenne tutto chiaro
e io seppi che tutti e due erano del Pci. In quegli anni
conobbi diversi altri comunisti. Uno di questi era
Vittorio Bardini, che poi,
dopo la Liberazione, divenne uno dei massimi dirigenti del Partito, membro
della Direzione e segretario regionale in Toscana”.
Salvatore Di Benedetto, dirigente del partito comunista
italiano (a sinistra) in compagnia del partigiano Gianfranco
Maris. Di Benedetto costituì a Ponte Tresa dopo l’ 8 settembre
1943 una base per il passaggio dei ricercati politici in Svizzera.
Sia Di Benedetto che Maris entrarono in contatto a Varese con
Calogero Marrone. Maris ottenne un documento d’identità
contraffatto che gli permise di muoversi nella clandestinità
sino al giorno dell’arresto e della deportazione a Mauthausen.
Il Tresa, in genere con una modesta portata d’acqua e spesso a
secco, fu uno dei punti privilegiati per tentare di passare oltre
frontiera. Nel settembre 1943, Calogero Marrone, pistola alla
mano, impedì che un milite fascista fermasse il figlio Salvatore
mentre, con altre persone, era impegnato a guadare il torrente.
Il ricordo di Cavalieri
Un’altra testimonianza dell’opera generosa
svolta da Marrone.
“
Io - dice l’avvocato Giorgio
Cavalieri - ero
un ebreo misto,
nato nel 1921, figlio di Edgardo Cavalieri,
e avevo un fratello, Aldo,
del 1924. Eravamo tutti di
Varese. Mia madre era
ariana. Poco dopo l’8 settembre, per la precisione
il 17 settembre, andammo
a Ponte Tresa e da lì, passando il torrente Tresa, ci
rifugiammo in Svizzera, dove restammo fino al termine della guerra.
Con noi c’era anche un tale Jarach, nostro parente.
Calogero Marrone lo conobbi nel 1940. Lui, fra
l’altro, era arrivato a
Varese nel ‘31, su suggerimento di un suo parente, il
cavalier Trovato, che l’aveva informato del concorso bandito dal Comune.
Quando lo conobbi era appena iniziata l’estate e io da
un anno ero iscritto
all’Università di Milano.
Fui chiamato in Municipio
per preparare con altri studenti, sotto la direzione di
Marrone, degli elenchi di
persone che poi seppi che
erano di soldati al fronte.
Quegli elenchi servivano
per far loro avere dei pacchi-dono.
Ritrovai Marrone nel ‘43.
Lo ricordo come un uomo
buonissimo, generoso.
Posso testimoniare che nel
settembre del ‘43 alcuni
miei parenti, ricercati come ebrei, già compresi nelle liste fornite dal podestà
ai tedeschi, riuscirono a
lasciare Varese e a raggiungere l’abitato di
Mondonico sopra Ganna,
dove vissero tranquilli sino alla Liberazione.
Si trattava dei miei cugini
Laura e Ferruccio Pizzo di
17 e di 23 anni, della loro
madre e mia zia Emilia
Cavalieri di 50 anni, nonché di mia nonna Paola
Carpi Cavalieri di 76 anni. Tutti loro vissero senza
che nessuno li disturbasse, avendo documenti falsi ma sicuri, forniti da
Marrone.
Non fosse stato così l’arrivo di quattro estranei in
un piccolo paese di cento
abitanti sarebbe stato sicuramente notato.
Ho anche memoria di un
altro ebreo polacco, tale
Szia Amsterdam, commerciante di pellicce, che sopravvisse a Valle Olona,
alle porte di Varese, con la
moglie, grazie ai documenti
certamente falsi”.
Poligono di Varese. Il tiro con la pistola olimpica era l’hobby
di Marrone. Il tempo libero lo trascorreva infatti fra
millimetrici centri e buone letture.
Il fallimento
di un progetto partigiano
Arrestato dai tedeschi, sottratto sin dalle prime battute alla giurisdizione fascista
che non si occuperà mai del
suo “caso”, Calogero Marrone venne portato nel carcere giudiziario dei Miogni
che si trovava poco lontano
dalla sua abitazione, tanto è
vero - come racconta il figlio Domenico, che risiede
tuttora a Varese - “che dalla
terrazza di via Mario Chiesa,
i familiari potevano vedere
il loro congiunto, durante
l’ora d’aria”.
Per gli interrogatori il detenuto veniva tradotto poco distante, a circa un chilometro, nella “villa Concordia”
di proprietà Zanoletti, in via
Solferino 6, sede del co-
mando tedesco della Guardia
di frontiera. In quel carcere
Marrone rimase fino al 26
gennaio 1944.
La decisione di trasferire improvvisamente il detenuto
da Varese a Como aveva avuto ragioni molto serie.
Era infatti trapelata la notizia che un nucleo partigiano della 121 a brigata
d’assalto Garibaldi “Gastone Sozzi” avesse allo studio da qualche giorno un
piano per tentare di liberare Calogero Marrone non
appena la vettura germanica che lo trasferiva ogni
mattina dal carcere giudiziario dei Miogni alla sede
del comando tedesco per gli
interrogatori, fosse apparsa
13
L’arresto, la deportazione,
la morte a Dachau
di Calogero Marrone,
un eroe dimenticato
La pagina 76 del Registro dell’ufficio di
matricola del carcere di San Donnino di
Como. Accanto alla scheda di Calogero
Marrone, redatta il 25 gennaio 1944,
giorno del suo trasferimento da Varese,
l’ordine di scarcerazione del Comando SS
del 20 luglio 1944 che, per motivi
sconosciuti, non fu eseguito. Si può notare
la firma di Marrone per presa visione.
nella sede stradale. Il progetto partigiano, dopo alcune discussioni, era rientrato ma i timori che da un
momento all’altro potesse
succedere qualcosa al prezioso imputato, l’uomo che
conosceva tutti i segreti per
aiutare gli ebrei, avevano
consigliato il commissario
Werner Knop, responsabile della zona di frontiera,
un cane mastino gettato sui
confini a braccare coloro
che in quelle giornate guardavano alla Svizzera come
ad un miraggio, a dover spostare Calogero Marrone, già
duramente provato dalla detenzione, nella vicina
Como.
“Da Sant’Antonio”.
Con queste parole, l’ingegner
Camillo Lucchina, presidente
del Comitato di Liberazione
nazionale di Varese, soleva
presentarsi alla fine di ogni
mese in casa Marrone per
consegnare una somma di
denaro alla famiglia rimasta
senza mezzi. In questa
inedita fotografia del 23
luglio 1945, Camillo
Lucchina (l’uomo in primo
piano senza capelli) è alla
spalle di Charles Poletti,
il governatore alleato
della Lombardia, giunto
a Varese per ricevere
la cittadinanza onoraria.
Poletti, è morto nell’estate
2002 in Florida a 99 anni.
Dal carcere di Como
a San Vittore a Milano
Il passaggio a Bolzano-Gries
anticamera della Germania
A Como, nel carcere di San
Donnino, Marrone rimase
fino a giugno. La successiva
tappa fu a San Vittore, a
Milano, nel VI° raggio, quello dei politici, direttamente
controllato dai nazisti che
per interrogarlo lo trasferivano ogni giorno all’Hotel
Regina, sede del Comando
SS. Qui restò fino al 23 settembre e, fra le altre cose,
svolse pure la funzione di
bibliotecario.
Nel suo libro di memorie padre Giannantonio Agosti ricorda: “Io fui destinato alla
biblioteca col compito di tenere in ordine i libri e ripararli quando occorresse e distribuirli a chi li desiderava,
portandoli io stesso ai detenuti isolati degli altri raggi.
(…). Vi trovai già addetti tre
Marrone viene trasferito a
Bolzano-Gries, nel Blocco
D, Polizeiliches Durchgangslager.
Dal nuovo luogo di detenzione scrive il 23 settembre:
“Ed eccomi alla nuova residenza sempre in ottima salute e morale alto. Trovomi
in un campo di concentramento di prigionieri politici
ove non manca l’aria dei
monti respirando a pieni polmoni (..) C’è il problema degli indumenti di lana, ma pazienza, saprò adattarmi (..)
Tutto mi basta e so assuefarmi ad ogni sorta di lavoro.
Tornerò con i calli che sono
onore per l’uomo. A noi ci
è dato scrivere due volte al
mese e possiamo ricevere
senza limitazioni. Scrivetemi
14
autentiche personalità: il generale Zambon, aiutante di
campo del principe ereditario, il generale Robolotti, comandante dei bersaglieri e
l’avvocato Frezzati. In seguito vennero sostituiti dal
colonnello Rossi, addetto alla famiglia reale, dal colonnello Ratti, attualmente generale comandante di divisione, e dal signor Marrone,
impiegato del Comune di
Varese”18.
Dopo San Vittore, Marrone
fu portato nel lager di
Bolzano-Gries, dove restò
quasi certamente sino al 5
ottobre.
Poi l’ultima tappa, il campo
di sterminio di Dachau, dovè
morì presumibilmente il 15
febbraio del ‘45 di tifo petecchiale.
quindi per illudermi di avervi più vicini”. La realtà, invece, sarà del tutto diversa.
Lui scriverà ancora sei lettere durante la sua permanenza a Bolzano, ma non riceverà neppure una riga dai
suoi cari, che, naturalmente, di lettere gliene scrissero
parecchie.
L’ultima lettera da Bolzano
è del 5 ottobre. “Miei amati, oggi si doveva proseguire la Via Crucis ma è stata
sospesa la partenza a causa
di forte pillolamento proprio
a poca distanza da noi”. Poi
in cima alla lettera, prima di
chiuderla scrive: “Ore 12 siamo sempre in attesa di partire”.
E ancora l’angoscia di non
avere ricevuto nulla dai suoi
congiunti: “Mi duole non
✔
Una via in memoria
di Calogero Marrone?
Il sindaco tace e sfida la città
poco non avere vostre notizie e sa Dio quando potrò
averne poiché quella non
sarà residenza fissa dovendo
ancora proseguire. Proprio
una Via Crucis. Speriamo di
non arrivare al Golgota e passare alla resurrezione”. Poi,
di seguito, parole di conforto: “Sono stato fortemente
raffreddato, ma oggi mi sento un po’ bene. Non impressionatevi. Vi raccomando di
farvi sempre forza e coraggio nella fiducia di riabbracciarci al più presto.
Ma…..”.
Proprio non ce la fa ad essere sereno e ottimista. Quel
ma, seguito da cinque puntini, è indicativo di uno stato d’animo lacerante. E ancora, rivolgendosi alla moglie: “Il pacco, che certamente avrai spedito, sarà ritirato da un mio amico che rimane al campo, per ridarmelo - se possibile - alla fine”. Colme di disperazione
le ultime note: “Vorrei trattenermi con voi, miei cari,
a lungo, ma è meglio sospendere nella tema di rammollirmi il cuore.
Come sento il bisogno di un
vostro conforto! Ma pazienza. Coraggio e fortezza
da ambo le parti”.
Non spedisce la lettera, la
tiene con sé ancora un po’.
C’è un’aggiunta, difatti, in
cui dice che “ieri” aveva
preavvisato che sarebbe partito per Merano: “Beh! è stata sospesa la partenza, ma
non è escluso che si partirà,
essendo questo un campo di
transito”.
Torna ancora sul tema degli
indumenti di lana, rilevandone l’inutilità, giacché an-
che se arrivassero i tedeschi
non si sarebbero certo occupati di inoltrarli. Epperò
la preoccupazione è forte e,
dunque, “purtroppo debbo
parlarne poiché qui comincia a fare freddo non poco. I
monti oggi sono coperti di
neve ed il frescolino ci carezza.
Ed allora tentiamo e nel pericolo di smarrimento metti roba vecchia e rattoppata.
Per la spedizione cerca, anzi per guadagnare tempo,
spedisci da Milano.
Consigliati con don Bicchierai, parroco del carcere”. Infine, dopo altre considerazioni, le ultime parole: “La mia salute - ripeto è ottima e lo spirito alto, sempre pronto a sopportare qualsiasi disagio. Bacioni forti
forti e ardenti. Calogero”.
Non ci saranno più parole.
La successiva stazione della Via Crucis non sarà
Merano.
È Dachau, l’orrendo campo
di sterminio. Da BolzanoGries Calogero Marrone parte con 518 compagni di viaggio, su un treno interminabile, proprio quel 5 ottobre,
quasi certamente nel pomeriggio, una volta terminato
il bombardamento. Il “transport” per la ferrea burocrazia del Terzo Reich è il n.
90. Raggiunge l’inferno il 9
ottobre 1944.
Quattro giorni accatastati sui
vagoni-bestiame in attesa
della “soluzione finale” che
arriverà per stenti, malattie,
violenze, esecuzioni sommarie.
Di quel viaggio torneranno
in trenta e Calogero Marrone
non sarà fra questi.
La Varese razzista e fascista si è riproposta, come spesso
le capita, all’improvviso, scossa questa volta da una circostanza che non si materializzava in una partita di calcio o di basket, classici siti della più becera provocazione, ma nella richiesta civile e motivata di dedicare una
via, una piazza o un edificio pubblico, alla memoria di
Calogero Marrone, il capo dell’ufficio anagrafe del Comune,
arrestato dai tedeschi, su mandato fascista, nel gennaio 1944
e assassinato nel campo di sterminio di Dachau nel febbraio 1945.
La doverosa proposta era stata avanzata già due anni fa
dall’Aned, dai partiti politici dei Democratici di Sinistra,
della Rifondazione Comunista e ora da tutta l’opposizione
alla giunta di centro-destra, Margherita e “Varese Città”,
il gruppo dell’ex sindaco leghista Fassa, compresi.
Bene, anzi male. Se il sindaco leghista-doc Aldo Fumagalli,
preside liceale in aspettativa, ha fatto finta di niente come
spesso gli accade, evitando di dare una risposta a chi lo
aveva “interrogato”, dai consiglieri comunali ai semplici
cittadini, sfidando la decenza e dimostrando che il rispetto civico non è fra i suoi attributi migliori, di peggio hanno fatto coloro che, accettando di partecipare ad un referendum del giornale telematico Varese News (“è giusto intitolare una via a Marrone?) si sono sbizzarriti in una sequela di insulti, provocazioni, richiami all’ideologia nazifascista da far tremare i polsi.
Fa impressione ma è il caso di proporre qualche esempio.
“Marrone? ma con quel cognome terrone cosa c’entra con
Varese?” oppure “Facciamogli la via ma al posto del suo
nome scriviamo il numero che aveva tatuato sul braccio,
eh, eh, eh…” oppure “Smettiamola con questi nomi di infami”.
Fermarsi qui è opportuno, e per rispetto al caduto e per
non fare da cassa di risonanza a queste follie. Ebbene, neppure davanti a questo monumento all’imbecillità e al dileggio prolungato, il sindaco Fumagalli che passerà alla storia per aver ripescato dalle cantine il monumento ad Umberto
1°, il re sanguinario di Bava Beccaris e di Adua, e per aver
disegnato coi fiori il sole che ride nella piazza principale della città, ha ritenuto di aprire bocca.
Non solo non ha detto niente circa l’eventualità di intitolare
una via al povero Marrone (celebrato, guarda caso, con
spiegamento di spazio proprio da la Padania, come un eroe
risorgimentale, perché, ha spiegato il foglio leghista, “nonno della moglie di Bossi”!) ma non ha ritenuto di strigliare chi ha oltraggiato la memoria di un uomo del Sud, caduto
in un lager per salvare la vita a tanti altri italiai, ebrei e antifascisti.
Un silenzio pilatesco che pare richiamare, per impressionante ed oscura analogia, quello del podestà Castelletti,
che sessant’anni fa, ordinò al dipendente Calogero Marrone,
tradito mentre consegnava carte d’identità a uomini braccati, di restare a disposizione per lo sviluppo delle indagini. Marrone obbedì, fiducioso che la faccenda si risolvesse, ma a casa sua, circondato dalla moglie e dai quattro figli, arrivarono i tedeschi!
(f.g.)
15
BEN 650 MILA FRANCESI MANDATI A LAVORARE NEI CAMPI DI CONCE
Le nostre
storie
Gli “schiavi” della Todt.
I nazisti chiedevano,
i francesi rifornivano
di uomini i campi di lavoro
di Pietro Ramella
Assieme all’inumano progetto dei campi di sterminio,
i nazisti programmarono lo sfruttamento come forza
lavoro di oltre 7.000.000 di stranieri prelevati da tutti i paesi europei occupati per le esigenze della loro
economia di guerra, compresi i militari fatti prigionieri nel corso delle operazioni di guerra, in particolare polacchi, francesi, olandesi, belgi, norvegesi. I russi non furono mai considerati lavoratori ma semplicemente schiavi.
Qualificandolo come “crimine di guerra, crimine contro l’umanità”, la più alta giurisdizione internazionale,
il Tribunale militare internazionale di Norimberga costituito per il processo ai grandi criminali di guerra, definì tale programma “la più grande e la più terribile impresa di schiavitù che si sia mai vista nella storia”.
Poiché non è possibile nel breve contesto di un articolo ricordare vicende che interessarono tutta l’Europa,
qui ci si limita a quanto accadde in Francia dove fu lo
stesso governo nazionale che volle gestire lo sfruttamento dei propri cittadini.
Un milione e mezzo
di francesi in mano tedesca
All’atto dell’armistizio con
la Germania del 22 giugno
1940 non fu sollevato, da
parte francese, il problema
del milione e mezzo di prigionieri di guerra, che si trovavano in mani tedesche, fu
convenuto che sarebbero stati liberati con la firma del
trattato di pace.
La norma non aveva suscitato particolari eccezioni per-
16
ché, secondo Pétain, la Gran
Bretagna sarebbe stata sconfitta nel giro di poche settimane, la guerra sarebbe finita
ed i prigionieri francesi sarebbero ritornati a casa.
Ma le cose andarono diversamente: l’Inghilterra resistette, combatté e vinse la
battaglia aerea che avrebbe
dovuto prima fiaccarne il
morale e poi favorire l’in-
vasione dell’isola, mentre il
generale De Gaulle, superata la diffidenza britannica, riusciva ad aggregare attorno alla sua persona la
Francia che non si riconosceva vinta. L’anno seguente fu decisivo per le sorti del
conflitto, infatti, Hitler il 22
giugno iniziò l’invasione
dell’Urss e il 7 dicembre il
Giappone attaccò gli Stati
Uniti dando così al conflitto un carattere di guerra totale che allontanava ogni speranza di pace, procrastinando il ritorno a casa dei prigionieri.
La Germania, duramente
impegnata sul fronte
dell’Est e nel mantenere il
controllo dei paesi occupati, dove i movimenti di resistenza diventavano sempre più attivi, fu costretta a
chiamare sotto le armi i tedeschi che fino ad allora per
necessità legate all’industria bellica erano stati esonerati dal servizio militare,
ma per:
- mantenere gli elevati ritmi
di produzione dell’economia di guerra in Germania,
- consentire all’Organizzazione Todt di portare a termine il Vallo Atlantico, sistema di fortificazioni atte
a contrastare un eventuale
sbarco alleato sulle coste
francesi e di supportare le
installazioni militari (riparazioni d’aerodromi, porti,
linee ferroviarie, strade, ecc.
danneggiati dai bombardamenti aerei),
ricorse al reclutamento forzoso di lavoratori dai paesi
europei occupati.
L’Organizzazione Todt prendeva il nome dell’ingegnere
tedesco che l’aveva creata
nel 1933 per combattere la
disoccupazione in Germania.
Aveva dapprima costruito
grandi opere pubbliche (rete d’autostrade), poi la linea
di fortificazioni Sigfrido sul
confine francese, ora aveva
il compito di innalzare il cosiddetto Vallo Atlantico, opera difensiva che partendo dai
Paesi Bassi arrivava fino al
confine con la Spagna
sull’Oceano Atlantico.
Comprendeva oltre a trincee, fortini, installazioni di
batterie d’artiglieria anche
basi per sottomarini che operavano nell’Atlantico contro i convogli provenienti
dall’America diretti in
Inghilterra.
La Germania era diventata
un’immensa fabbrica che
impiegava tra tedeschi e stranieri circa 40 milioni di persone nello sforzo bellico,
senza considerare i deportati nei campi di sterminio,
il cui utilizzo era relativamente breve per le disuma-
NTRAMENTO IN GERMANIA: PER TRE QUARTI NON CI FU RITORNO
La targa
sulla facciata
del deposito di
Brandenburgo
a ricordo
di undici
lavoratori
francesi
deportati
e decapitati
il 13 settembre
1944.
ne condizioni in cui erano
costretti a vivere.
La razzia di mano d’opera
organizzata dai tedeschi in
tutta Europa toccò anche la
Francia di Vichy, ma il governo di Pétain e Laval non
volendo abdicare alla sua sovranità nazionale, il 16 giugno 1942 stipulò con il gauleiter Sauckel, il negrerio
d’Europa, un accordo di
scambio, la Relève, che prevedeva il rimpatrio di un prigioniero di guerra ogni tre
lavoratori inviati in Germania.
L’Etat Français si impegnava a fornire entro fine anno
250.000 lavoratori (di cui
150.000 specializzati) ai tedeschi, ma voleva farlo con
proprie leggi.
Fu emanata la legge 4.9.1942
che stabiliva: “Tutte le persone di sesso maschile di più
di 18 anni e meno di 50 e tutte le persone di sesso femminile di più di 21 anni e meno di 35 possono essere assoggettate ad effettuare tutti i lavori che il governo giudicherà utili nell’interesse
della Nazione.”
Oggetto:
Assegnazione al Servizio di Lavoro Obbligatorio
«Ho l’onore di informarvi che la Commissione francotedesca, incaricata di assegnare i giovani designati per il
S.T.O., vi ha designato per andare a lavorare nell’Organizzazione Todt in Germania.
Di conseguenza, secondo le istruzioni della Feldkommandantur, ho il piacere di invitarvi a presentarvi
all’Agenzia di Collocamento tedesca, via..... il............,
alle ore....., per prendere conoscenza delle condizioni di
lavoro oltre che della data e dell’ora di partenza.
Vi preciso che la mancata esecuzione da parte vostra di
quest’ordine d’assegnazione è soggetta alle pene previste dalla legge 15 febbraio 1943».
Il “Service
du Travail Obligatoire”...
…esteso agli uomini dai 16 ai 60
e le donne dai 18 ai 45
Malgrado una intensa campagna propagandistica per
radio, sulla stampa e con manifesti rivolta ad operai, giovani e anche donne per convincerli che il lavoro volontario in Germania era necessario all’avvenire della
Francia, i risultati furono mediocri. Neppure l’appello ad
arruolarsi per permettere la
liberazione dei prigionieri di
guerra ebbe effetto: solo
163.726 francesi risposero
all’appello di Pétain. Nel gennaio 1943 Sauckel richiese
500.000 lavoratori, di cui la
metà da mandare in
Germania, per cui visti i de-
Quando nel giugno 1943 fu
avanzata da parte tedesca la
richiesta di altri 220.000 lavoratori, il clima generale era
cambiato, quelli tornati in
permesso dalla Germania
avevano raccontato che la vita era tutt’altro che idilliaca,
come la propaganda la decantava, il salario era molto
basso perché decurtato di ogni
spesa (vitto, alloggio,…) le sistemazioni pessime, l’orario
di lavoro pesante infine il pericolo rappresentato dai bombardamenti alleati sempre più
frequenti e micidiali. Per tutto ciò molti dei rientrati decisero di non ripartire.
ludenti risultati della precedente operazione su base volontaria, il governo francese
istituì con legge 16 febbraio
1943, il Service du Travail
Obligatoire - STO che dal
settembre fu esteso anche alle donne ed ordinò la mobilitazione delle classi 1920,
1921, 1922. Ora i giovani
francesi diventavano coscritti
soggetti ad una semplice chiamata riprodotta, nel riquadro
qui sopra. Il reclutamento forzato ottenne i risultati prefissati, mentre la propaganda
governativa esaltava gli alti
salari, il buon vitto, la sistemazione confortevole, ecc.
All’ultima chiamata rispose appena il 60% dei reclutati, tanto che Sauckel nel
gennaio 1944 avanzò una
nuova richiesta di 855.000
elementi. Per far fronte a
ciò il governo emanò la legge 1° febbraio 1944 in cui
venivano ampliate le classi di requisizione comprendendovi gli uomini dai
16 ai 60 anni e le donne senza figli dai 18 ai 45 anni.
Le autorità amministrative
francesi si sforzarono in tutti i modi di ostacolare le richieste tedesche che disorganizzavano la vita sociale,
pregiudicavano la produ-
17
Gli “schiavi” della Todt.
I nazisti chiedevano,
i francesi rifornivano
di uomini i campi di lavoro
zione industriale, mettevano a rischio l’agricoltura
ma soprattutto mandavano
dei giovani francesi incontro ad un destino pieno di
pericoli. I medici cercarono di esonerare quanti più
potevano, molti furono arruolati nei corpi esentati
dalla chiamata come polizia, vigili del fuoco, ferrovie o anche nella Todt, in
quanto almeno lavoravano
in territorio francese. Molti
s’iscrissero all’Università,
altri s’impiegarono in fattorie agricole, o anche in
miniere... o si arruolarono
nel servizio di sorveglianza di strade, ponti e ferrovie, per scongiurare eventuali sabotaggi da parte dei
partigiani. Tutti questi esoneri, anche se corredati da
un crisma di regolarità, ir-
ritarono le autorità d’occupazione che aumentarono la pressione sul governo francese, quasi ormai
privo d’ogni autorità, dopo
che i tedeschi avevano occupato, in seguito agli sbarchi americani nel Nord
Africa nel novembre 1942,
anche la zona libera e dopo l’8 settembre 1943 la
parte della Francia prima
controllata dagli italiani.
Le cattive notizie, che filtravano attraverso la censura, circa la pericolosità
della vita nel Reich e la propaganda della radio inglese e dei giornali clandestini, che ripetevano slogan
quali: «Un uomo che parte
è un ostaggio nelle mani del
nemico, un uomo nel maquis è un soldato contro il
nemico.
La figura
dei “refractaires”
Se non volete subire angherie né morire sotto le bombe
inglesi non partite per la
Germania», indusse la maggior parte dei richiamati a
non rispondere alle convocazioni ed a darsi alla macchia, tanto che Sauckel venne definito il miglior reclutatore della Resistenza.
Nacque la figura del réfractaire, cioè di chi non rispondeva alla precettazione; sui treni in partenza per
la Germania diminuì sempre più il numero dei volontaires mentre aumentava
esponenzialmente quello dei
requis, cioè di quelli obbligati con la forza a partire.
La repressione tedesca contro i refractaires fu come sempre dura e non fece che accentuare l’ostilità della popolazione nei confronti dell’occupante e dei collaborazionisti. Vi furono manifestazioni di protesta alla partenza dei treni per la
Germania, le lacrime dei familiari, i canti della Marsigliese e dell’Internazionale,
i pugni levati, le scritte con il
gesso sulle porte dei vagoni:
Laval assassino, Laval al muro, viva De Gaulle. A
Montlucon i precettati fuggirono dal treno, protetti dalla
folla e dai ferrovieri che ne
avevano ritardata la partenza.
Il Monumento
di Grossbeeren
eretto presso la fossa comune
dell’Arbeitsstraflager
dove furono gettati
i cadaveri di oltre
800 lavoratori deportati.
18
A Lione nel marzo 1943 le
proteste furono così violente che la polizia vietò l’accesso alla stazione dei familiari. La misura fu presto
generalizzata, infatti, il ministero degli Interni inviò a
tutti i prefetti un telegramma che prescriveva: «Vietare
accesso stazioni e luoghi limitrofi al pubblico e alle famiglie al momento partenza o passaggio treni scambio».
Dei circa 650.000 i francesi mandati in Germania,
60.000 non tornarono, tre
quarti morirono vittime dei
bombardamenti alleati, per
denutrizione e fatica, 15.000
furono fucilati, impiccati,
decapitati per aver sabotato
la produzione o appoggiato
la Resistenza.
Alla fine della guerra i reduci dai campi si unirono in
un’associazione denominata Fédération nationale des
déportés du travail, FNDT,
che divenne nel 1978 la
Fédération nationale des victimes et rescapés des camps
nazis du travail forcé in quanto la Corte di Cassazione stabilì che solo i deportati resistenti e i deportati politici potevano vantare il diritto al titolo di déportés.
La Federazione si fece promotrice per ricordare questi
forzati del lavoro. I loro nomi vennero incisi sulle lapi-
di dei Mourts pour la France
e numerosi monumenti ne
ricordarono il sacrificio.
Il 22 giugno 1947 le spoglie
di un travailleur requis inconnu furono inumate al cimitero Père-Lachaise, presso il muro dei Federati, dove il 21 giugno 1970 venne
eretto un imponente monumento, altre steli e monumenti sorsero in tutta la
Francia, molte nella stazioni da cui partirono.
Anche in Germania furono
ricordati, con un grande monumento a Dortmund, eretto nella foresta di Bittermarck, dove erano stati inumati 347 deportati, la maggior parte francesi massacrati il venerdì santo del
1945, una targa sulla facciata della stazione di
Brandenburg, ricorda undici ferrovieri francesi decapitati il 13 settembre 1944
per fatti di Resistenza, mentre un monumento è stato
eretto a Grossbeeren dove
era la fossa comune di 800
lavoratori forzati di tutta
Europa (tra cui 185 francesi) massacrati in più volte
dai nazisti.
Il monumento eretto
dalla Municipalità
di Dortmund a ricordo
di 300 lavoratori deportati
francesi, massacrati dalle SS
nella notte del venerdì santo
del 1945; un monumento
dove ogni venerdì santo
si raccolgono migliaia di
cittadini tedeschi, francesi,
belgi e olandesi.
19
NELL’UNIVERSO CONCENTRAZIONARIO, QUESTO CAMPO DI STER
Le nostre
storie
Nel museo ebraico
di Praga i quattromila
disegni di Terezin
di Ibio Paolucci
Nata come città fortezza fatta costruire dall’imperatore Giuseppe II nel 1780 e battezzata col nome della madre, Maria Teresa, Theresienstadt venne trasformata dai nazisti in un ghetto, diciamo così, un
po’ particolare, le cui finalità, tuttavia, erano identiche a quelle di tutti gli altri campi di concentramento: lo sterminio di tutti gli ebrei.
Nell’universo concentrazionario nazista, Terezin è
conosciuta per i disegni dei bambini, quattromila dei
quali sono oggi custoditi nel Museo ebraico di Praga.
Gli autori di questi straordinari dipinti sono quasi
tutti morti nelle camere a gas di Auschwitz.
Praga, marzo 1939, l’invasione
delle armate hitleriane
Come si sa le armate di Hitler
entrarono a Praga il 15 marzo del 1939 e quattro mesi
dopo vennero emanate le leggi razziali con la conseguenza, fra le tantissime altre, di vietare ai ragazzi ebrei
di frequentare le scuole pubbliche, come, peraltro, era
già avvenuto, con un anno di
anticipo, in Italia. La deportazione in massa degli ebrei
20
della Boemia e della Moravia
venne decretata nel settembre del 1941 e un mese dopo,
il 19 ottobre, Terezin cominciò a funzionare come
ghetto. Secondo lo storico
Raul Hilberg, autore del fondamentale libro La distruzione degli ebrei in Europa
(editore Einaudi), quel ghetto servì ai nazisti anche per
dare un contentino agli alti
comandi della Wehrmacht,
che chiedevano un trattamento speciale per gli ebrei
ex combattenti della prima
guerra mondiale, che avevano meritato la Croce di ferro di prima classe o una decorazione austriaca equivalente. In sostanza, il ghetto
fu creato sulla base di due
considerazioni: creare un
campo di concentramento
per gli ebrei del Prottetorato
ceco, per poi utilizzarlo per
gli ebrei “importanti” e per
altre categorie speciali. In
ogni caso Heydrich sfruttò
la sua posizione di Reichsprotektor per ordinare la
totale distruzione della piccola città, l’evacuazione della popolazione ceca e la creazione di un insediamento
ebraico (Judensiedlung). Un
ghetto, infine, che nelle intenzioni di Himmler, capo
supremo delle SS, doveva
anche servire, eventualmente, come in effetti servì, da
specchietto per le allodole
in caso di ispezioni della
Croce rossa internazionale.
MINIO È TRAGICAMENTE NOTO PER I DISEGNI DEI BAMBINI
Il dipinto di Renzo Vespignani donato al museo ebraico di Praga raffigurante un bambino.
Accanto: i piccoli, nel dormitorio.
In realtà, il ghetto di Terezin,
dove furono inviate oltre
140.000 persone, di cui
15.000 bambini, non era
nient’altro che una tappa che
portava al grande cimitero
di Auschwitz. Valgano, al riguardo, le cifre: dei 140.000
detenuti, 33.456 morirono
nel campo, mentre ben
88.202, e cioè la quasi totalità dei restanti, furono i deportati nel campo di sterminio polacco. I liberati dall’Armata rossa, il 19 maggio del ‘45, furono 1654.
In questo campo, dal ‘42 al
’44, venero deportati 15.000
bambini dai 7 ai 13 anni, che,
a scaglioni, furono anch’essi trasferiti ad Auschwitz. Se
ne salvarono solo un centinaio. Molti di loro lasciarono a Terezin un patrimonio
prezioso di disegni e di poesie, una rassegna dei quali
fece il giro del mondo, Italia
compresa. La mostra, fra
l’altro, fu accompagnata da
un bel catalogo con una copertina dove era riprodotto
uno stupendo dipinto di
Renzo Vespignani, dedicato ai bambini di Terezin e
donato al Museo ebraico di
Praga.
21
Le nostre
storie
Prima di finire ad Auschwitz
consegnò i dipinti allo zio
Disegni teneri e strazianti,
nati nella realtà allucinante
del campo, autori ragazzini
e ragazzine quasi tutti morti ad Auschwitz.
È impressionante, infatti,
scorrere le didascalie delle
immagini nel catalogo, dove, nove volte su dieci, si trova il nome e il cognome, la
data della nascita e quella
della morte ad Auschwitz.
Fra le bambine trasferite ad
Auschwitz, dopo una lunga
permanenza a Terezin, c’era anche Helga Weissova,
una delle pochissime sopravvissute, che, a Terezin,
aveva dipinto ciò che aveva
visto e che, quando fu obbligata a lasciare il campo
per Auschwitz, consegnò i
disegni allo zio, che li nascose e riuscì a salvarli.
“Disegna ciò che vedi”
le aveva detto il padre
“Disegna ciò che vedi” le
aveva detto il padre, finito
ad Auschwitz, e lei, dotata
di un grande talento, aveva
seguito il suggerimento. Ciò
che Helga vede non sono soltanto le cose sotto i suoi occhi, ma anche quello che vorrebbe, che sogna. Di fuggire, innanzitutto, da Terezin
per tornare nella sua casa di
22
Praga. Uno dei disegni, infatti, rappresenta la giovanissima Helga, vestita sportivamente, con tanto di zaino e coperta arrotolata in
spalla, borsetta e mani in tasca, che si lascia alle spalle
il cartello stradale con indicato Terezin mentre, con aria
soddisfatta, imbocca la via
per Praga. Questo il sogno.
La realtà, invece, è quella
dell’arrivo a Terezin, con la
fila delle persone, uomini
donne bambini, con la stella gialla di David cucita sui
cappotti, il gendarme che li
sorveglia con il fucile in spalla. Oppure la distribuzione
dello scarsissimo e poverissimo cibo in un cortile grigiastro, spoglio, squallido.
O ancora, il trasporto di ogni
cosa, compreso il pane, in
carri funebri, mentre le bare erano trasportate su tavole con le ruote. E poi di nuovo il sogno per il suo quattordicesimo compleanno,
raffigurato da un trittico, con
tre diverse date. La prima,
1929, quella della sua nascita con un bel lettino, fio-
L’ingresso del ghetto
di Terezin, a sinistra
e quello che immetteva
al campo qui a destra.
Sotto, i disegni di Helga.
ri, colori dolcissimi; la seconda, 1943, quella della
presenza nel lager, con lei
seduta su un letto a castello, meditabonda; la terza,
1957, quella dell’agognato
ritorno alla normalità, con
lei ed una amica che spingono carrozzelle, macchine
e tram che sfrecciano nelle
strade. C’è anche il disegno,
che illustra l’arrivo della
Commissione della Croce
rossa internazionale, accettata dai nazisti per dare l’impressione che a Terezin gli
ebrei erano trattati bene.
I disegni, generalmente a
penna, inchiostro e acquarelli, pur non essendo mai
troppo cupi, colpiscono per
la loro sconvolgente testi-
monianza di una realtà angosciante, dominata da una
barbarie senza limiti. Solo
rifugio i sogni: il dono più
prezioso, rappresentato dal
cibo, e nel disegno si vede
una specie di paese della cuccagna, con persone che trasportano cibarie e dolciumi
di ogni tipo, e, ricorrente,
martellante, il sogno del ri-
torno. Infine ci sono i disegni fatti subito dopo la liberazione, fra il ‘45 e il ‘46,
che riguardano la sua permanenza ad Auschwitz, questi sì cupi, tragicamente doloranti, senza speranza: il
suicidio sul filo spinato, la
selezione, la marcia della
morte: gli orrendi ritmi della shoah.
23
I nostri
ragazzi
Calabria
Un libro di storia
“scritto”
nelle elementari
di Spezzano
Albanese
Le altre iniziative per celebrare il Giorno della Memoria
“Si è realizzato un sogno”,
ha esordito l’insegnante
Maria Anna Squillace, della direzione didattica di
Spezzano Albanese (Cosenza) e curatrice del libro
Ricordando Ferramonti,
cultura della pace, dell’amicizia e della solidarietà.
“Il primo di una collana” –
ha aggiunto – “che racconta l’esperienza didattica degli alunni della nostra scuola, la scuola elementare di
Spezzano.”
“Due sono le nostre parole
d’ordine: pace e solidarietà.
In qualsiasi manifestazione che ci accingiamo a svolgere” – ha detto ancora –
“sono sempre questi gli
obiettivi finali per diffondere e rafforzare, nelle nuove generazioni, sentimenti
di pacifica convivenza, di
rispetto della libertà e della dignità umana per costruire un futuro diverso e
migliore.”
“Con l’istituzione del
Giorno della Memoria, il
dirigente scolastico ha proposto, ed il collegio ha votato, l’istituzione di una
commissione preposta ad
organizzare la manifestazione, giunta quest’anno alla seconda edizione. Per
onorare, almeno in parte,
24
le sofferenze di sei milioni
di ebrei, deportati politici
e militari che subirono atroci crudeltà, ‘che morirono
per un sì o per un no’ dedichiamo loro questo libro.
I documenti raccolti” – ha
ricordato l’insegnante – “ri-
guardano l’antisemitismo
di Hitler, la conoscenza dei
più importanti campi di
concentramento, le leggi
razziali, gli ebrei in Italia
e altro ancora.
Essi sono stati frutto di ricerche da Internet, da libri
È dedicato al campo
di concentramento
Ferramonti
Il libro Ricordando Ferramonti è frutto dell’esperienza didattica
degli alunni della scuola elementare di Spezzano Albanese
(Cosenza), a cura dell’insegnante Maria Anna Squillace.
È a lei che occorrerà rivolgersi per chiedere l’invio di copie.
L’indirizzo è via Piave 13, San Lorenzo del Vallo (CS), tel.
0981/953819. Oppure Scuola elementare di Spezzano Albanese,
tel. 0981 95 30 77, chiedendo sempre di Maria Anna Squillace.
Il campo Ferramonti di Tarsia, destinato dal 1940 a
“Internati civili di guerra”, diventerà rapidamente il
più grande in Italia destinato a questo scopo. In esso
vennero detenuti ebrei e apolidi presenti nel nostro
Paese nel periodo della seconda guerra mondiale. Fu il
primo campo europeo liberato dagli alleati e diventerà
poi un campo profughi sotto il loro controllo.
Gli internati, nel luglio 1940 erano un centinaio.
Nell’agosto 1943 avevano raggiunto il numero record
di 2019.
specifici, da film che hanno permesso agli alunni di
rendersi conto dei tragici
fatti, concretizzati poi in illustrazioni” – ha aggiunto
tra l’altro Maria Anna
Squillace – “in poesie, elaborati e riflessioni sull’argomento, guidati e aiutati
con impegno e competenza dai docenti ed, infine,
anche da esperienze dirette di testimoni viventi.”
La relatrice ha ringraziato
in conclusione “il dirigente scolastico per averci sostenuti nei momenti difficili; il sindaco di Tarsia
Panebianco per aver promosso la manifestazione;
l’editore Brenner che ha incoraggato la pubblicazione; l’assessore Luzzi del
Comune di Spezzano Albanese per l’attiva collaborazione; la professoressa
Clotilde Pontecorvo, docente di psicologia e membro della comunità ebraica
di Roma (assente per motivi di salute); la commissione organizzatrice e le olleghe per la fattiva partecipazione”.
Infine un particolare riconoscimento ai “piccoligrandi autori del libro: gli
alunni della scuola elementare”.
Una scuola
dedicata
al benefattore
ebreo
Un plastico che raffigura il campo di internamento Ferramonti.
La presidenza dell’incontro a Tarsia per la presentazione del libro “Ricordando Ferramonti”.
La deposizione di una corona al campo.
Israel Kalk nacque nel 1904
a Pilkeln, Lettonia. Si laureò in ingegneria al Politecnico di Milano. Fu funzionario della Compagnia
Generale di Elettricità.
Parallelamente all’attività
professionale dedicò la parte migliore di se stesso, quale fervente yiddishista ad
un intenso lavoro culturale. Quando intere famiglie
di perseguitati del nazismo
cominciarono ad affluire a
Milano, Israel Kalk iniziò la
sua attività assistenziale a
favore dei bambini e degli
adolescenti ebrei, fondando e dirigendo “La mensa
dei bambini”, dove giovanissimi profughi trovarono
cibo, protezione e svago.
Per tale attività Kalk visitò
più volte il campo di
Ferramonti, contribuendo
nettamente all’organizzazione più umana di quel luogo di internamento. Dopo
l’8 settembre del ‘43 con i
suoi familiari riparò in
Svizzera. A liberazione avvenuta si mise al lavoro per
raccogliere materiale documentario e testimoniale
sulle vicissitudini dei profughi stranieri, in modo particolare sulle persone che
furono internate a Ferramonti. Molte volte annunciò la pubblicazione di un libro su tale argomento, ma
il materiale era tanto e non
fece in tempo a realizzare il
progetto perché morì in seguito ad un incidente stradale. I familiari e le persone che lo conobbero non dimenticarono la generosità e
l’altruismo del loro benefattore. Per ricordare l’amore che l’ingegnere Kalk
aveva per i bambini, nel
maggio 1991 gli fu intitolata la scuola elementare di
Tarsia.
(Dal numero unico a cura
della scuola).
25
I nostri
ragazzi
Il gemellaggio tra le scuole elementari di Spezzano
Albanese e di Tarsia-Ferramonti in occasione
delle iniziative per la Giornata della Memoria,
ha avuto un pieno successo. Vi hanno partecipato
anche numerose altre scuole della provincia
Calabria
Un gemellaggio
con Tarsia
per la memoria:
gli alunni
protagonisti
Con la presenza di sindaci e dirigenti scolastici
Erano presenti il direttore
generale della Calabria Ugo
Panetta (che ha espresso la
sua soddisfazione per la preparazione degli alunni sul
tema), i sindaci del comprensorio, Trioli di San
Lorenzo del Vallo, Corsini
di Spezzano, Libonati di
Terranova.
Il sindaco di Tarsia, Panebianco, che ha dato un
grande contributo per la pubblicazione del libro su
Ferramonti, ha annunciato
la realizzazione di un museo
dedicato al campo di internamento. Presenti inoltre gli
ispettori scolastici Torchia,
Fusca e Pugliese, che si è
complimentato per aver notato un vero modo di “fare
scuola”. L’intera attività è
stata coordinata dai dirigen-
ti delle due scuole interessate. La giornalista romana
Pupa Garribba ha saputo attirare l’attenzione di un vasto pubblico. In particolare ha
intavolato un dibattito di vivo interesse con gli alunni di
quinta elementare.
“VAI DAI TUOI GENITORI!”
LE GRIDÒ SUA MADRE:
E DEBORA SI SALVÒ
Parigi occupata dai tedeschi: il giorno in cui avvenne il
rastrellamento Debora ritornò a casa dopo aver giocato
con un’amica nel cortile della scuola e notò parcheggiati nella via macchine e autocarri. Ma non significavano
nulla per lei: aveva quattro anni. Abitava al terzo piano.
Dentro il portone schiacciò il pulsante a tempo della luce. L’atrio era silenzioso e deserto, e anche questo non significava nulla per lei. La porta dell’appartamento era
aperta e dal corridoio vide due guardie e due individui in
borghese, e i suoi genitori in soggiorno che riempivano
le valigie. Stava per gridare “Mamma!” quando sua madre la scorse sulla soglia e urlò con una voce che la investì
come una scarica elettrica: “E tu cosa ci fai qui? Che cosa vuoi? Non c’è nulla da vedere! Non siamo né al circo
né allo zoo! Torna a casa dai tuoi genitori!” La voce era
un muro di energia, aveva dentro una forza tale da impedirle
ogni risposta. Sua madre la guardava con volto iroso, suo
padre le voltava le spalle e non si girò. Gli uomini la guardarono e si scambiarono un’occhiata. Lei si voltò e scappò
via. Debora si salvò.
Spezzano: la giornalista Pupa Garribba con una ragazza
(Gabriella Pinnacchio) in costume albanese.
26
Un episodio ricordato dalle classi III C e D.
RIFLESSIONI
SUL DIARIO:
“ANNA
NEI NOSTRI
CUORI”
Oggi anche noi alunni delle classi III C e III D di
Spezzano Albanese, partecipiamo alla manifestazione “Il Giorno della
Memoria”, con i nostri elaborati, frutto di riflessioni e di emozioni.
Il tema trattato è stato la
lettura e il commento di
alcune pagine tratte dal
Diario di Anna Frank.
Anna era una ragazza come noi: allegra e spensierata, felice di “vivere” la
sua giovinezza, ma a causa delle leggi razziali (poiché ebrea) fu costretta a
nascondersi in un alloggio segreto insieme alla
sua famiglia. Ad Anna piaceva scrivere e incominciò a confidare le sue
gioie, ansie, emozioni, riflessioni ad un’amica immaginaria di nome Kitty.
Catturata dai nazisti morì
nel campo di concentramento di Bergen Belsen,
insieme alla sorella
Margot.
Il padre fu l’unico superstite della famiglia, e terminata la guerra ritornò
nell’alloggio segreto,
trovò il diario di Anna e
lo fece pubblicare.
Leggendo le pagine del
Diario emerge la figura di
Anna come una ragazza
intelligente, carina, vivace e generosa.
Infatti nonostante le paure, la tristezza, l’angoscia
e le sofferenze fisiche e
morali che dovette subire,
ci lascia un messaggio di
pace e speranza.
“È un gran miracolo che
io non abbia rinunciato
alle mie speranze perché
esse sembrano assurde.
Nonostante tutto ciò credo ancora nell’intima
bontà dell’uomo.
Dopo la lettura delle commoventi pagine del Diario
di Anna è nato in noi il desiderio di scrivere un diario personale e comporre
delle poesie a lei dedicate.
Una l’abbiamo scritta in
albanese, la nostra lingua
madre.
In quel campo di “filo di ferro”
La poesia in albanese
Ed ecco la traduzione
Kur djovastim djarin tënd
Shum helëm patim ktu mbrënd
Ishe një vasherele kutjend
Çë luaje e qeshje nga mumend
Pat mbullihshe te një tavullat
Kish rrije qet dit e nat
Atj e pënxarje cë bëhej jasht
Ata shok çë luajet bashk
Ka ki djar çë djovastim nani
Dimi gjith atë çe shkove ti
Përndet një burr shum i lig
Bin e vëdiqtin gjith ata gjind
Ju sallvua vet i tat
Tek ai kopsht me firfëllat
Te parrajsi vajte ti
E për ne prigar nanì
Se nëng kat kianj monsjeri
E paqja kat rri nga shpi.
Quando abbiamo letto il tuo diario
tanto dolore abbiamo avuto qui dentro (il cuore)
eri una ragazzina contenta
e giocavi e ridevi ogni momento.
Sei stata costretta a chiuderti in una soffitta
e dovevi stare zitta giorno e notte.
Lì pensavi cosa si faceva fuori
e alle compagne con cui giocavi insieme.
Dal tuo diario che abbiamo letto adesso
sappiamo tutto quello che hai patito.
Per colpa di un “Uomo” assai cattivo
che ha fatto morire tantissima gente
si è salvato solo tuo padre
in quel campo di filo di ferro.
In paradiso tu sei andata
e adesso prega per noi
che non pianga più nessuno
e che la Pace regni in ogni casa.
Gli alunni delle classi III C e D. Le insegnanti Rosina Bartolomeo,
Italia Gentile, Irene Pisarro, Stefania Matonti, Antonietta Cimino.
…E IN
TEATRO
“IL SILENZIO
DEI VIVI”
Per commemorare il
“Giorno della Memoria”
con un progetto di gemellaggio, gli alunni delle scuole elementari di
Tarsia e di Spezzano Albanese, hanno rappresentato una drammatizzazione, tratta dal libro di
Elisa Springer: Il silenzio
dei vivi (nella foto, un momento dello spettacolo).
Elisa Springer è nata a
Vienna il 12 febbraio
1918.
Figlia unica di genitori
ebrei, fu educata secondo la propria religione,
“ma ella si considerava”
– scrivono i curatori del
numero unico stampato
nella scuola elementare
di Tarsia – “una ragazza
viennese di religione
ebraica non ebrea.”
Apparteneva ad una famiglia di nobili origini
ungheresi, molto benestante.
Venne arrestata all’età
di 26 anni e deportata nel
campo di sterminio di
Auschwitz, con un convoglio in partenza da
Verona il 2 agosto 1944.
Sopravvissuta, si trasferì
in Italia nel 1946. Oggi
vive a Mandria.
27
I nostri
ragazzi
Pubblichiamo altre testimonianze, scritte con
la volontà di riassumere anche le impressioni
e le emozioni di altri ragazzi toscani di scuole medie,
che hanno partecipato ad una visita a Mauthausen
accompagnati dall’ex detenuto Roberto Castellani
Toscana
Il viaggio
a Mauthausen
per “sentire
e vedere” coloro
che c’erano
Un’altra visita di studenti di Campi Bisenzio
In questo “pellegrinaggio”,
scrive una studentessa di
terza media di Campi
Bisenzio (Firenze), una
delle cose che mi hanno
colpito di più è la capacità
del signor Castellani di tornare nei posti dove ha sofferto tantissimo. Se io fossi al suo posto penso proprio che non ci riuscirei.
Però grazie a lui abbiamo
capito meglio come si sentiva e cosa provava una persona in un campo di concentramento.
Sinceramente prima di partire non sapevo che impressione mi avrebbe fatto vedere i campi di sterminio; invece quando sei
lì prima di tutto sei preso
dalla curiosità e dai racconti del nostro testimone. Ma se poi ti fermi, anche solo per un momento,
a riflettere i primi sentimenti che provi sono la tristezza e la paura che un
giorno le tragedie che sono successe possano ricapitare a noi e alle generazioni future.
Secondo me ascoltando una
persona come il signor
Castellani puoi capire, ancor meglio della lettura dei
libri, quello che è successo. E anche le emozioni rac-
28
contate da una persona che
le ha vissute ti rimangono
più impresse. Come il cuore dipinto da un prigioniero sul muro di una cella.
Quando al campo fu liberato la prigione venne ridipinta, ma il cuore rimase lì,
anche dopo molti tentativi
di cancellarlo. Purtroppo
non abbiamo potuto vedere l’interno delle celle perché chiuse a causa di atti di
vandalismo: infatti erano
state fatte delle scritte sui
muri.
Quando siamo
andati a visitare la camera a
gas, dopo un
po’io ed altri ragazzi siamo tornati fuori perché c’era pochissima aria.
L’impressione
era quella di
soffocare ed abbiamo pensato
ancora più intensamente alle persone che
hanno affrontato questo luogo
fino alla morte.
Mi
ricordo
un’immagine al
Memorial del
sottocampo di
Gusen dove davanti a due
forni crematori c’erano tante corone di fiori, un contrasto che dava l’idea di
quello che c’è tra la morte e
la vita. La scala della morte di Mauthausen secondo
me è una visione spaventosa, pensando che tutti i deportati dovevano percorrerla
con un pesantissimo carico
di pietre. Alcuni di noi sono scivolati percorrendola
e le condizioni erano certamente molto migliori rispetto a quel tempo.
Un’altra cosa di Mauthausen che mi ha impressionata è stata la stanza accanto ai forni crematori nella quale c’era un tavolo che
serviva per sezionare i cadaveri. Alle persone venivano presi gli organi, ma se
qualcuno aveva dei tatuaggi gli venivano asportati anche quelli, perché la moglie del comandante del
campo ne era una fanatica
collezionista.
Quando siamo andati nelle gallerie di Ebensee,
Castellani ci ha detto che i
deportati preferivano lavorare lì perché la temperatura era maggiore rispetto a
quella esterna. Ma quella
stessa sera, durante il concerto che era stato organizzato nelle gallerie, io,
pur essendo vestita di lana
e fornita di piumino, ho sentito molto freddo.
Durante la manifestazione
ad Ebensee Castellani ha
fatto un discorso che mi ha
colpito molto. Il viaggio a
Mauthausen e nei suoi sottocampi è stata un’esperienza indimenticabile e mi
auguro che tanti altri ragazzi possano farla, perché
non ci si possa mai dimenticare di quella tragedia.
Elena Paci
La prima tappa
Questa visita mi ha colpito molto. Ho visto cose che
non pensavo esistessero.
La prima mattina siamo
andati a portare una corona al monumento nella
piazza di Ebensee dove ci
attendeva il sindaco. Ci accompagnava un ex deportato, Roberto Castellani.
Con noi c’erano i rappresentanti dei comuni di
Prato, Montemurlo Vernio
e Cantagallo.
Io mi sentivo onorato di
aver depositato la corona.
Al cimitero italiano
Dopo la visita al monumento in piazza a Ebenseen siamo andati al cimitero italiano di Mauthausen. Anche lì portavo una
corona, l’abbiamo depositata sulla tomba di un
compagno di campo del
signor Castellani. Altre due
erano destinate al monumento dei caduti italiani.
La cosa che mi ha colpito
di più è stata l’area del cimitero, un grandissimo
campo verde pieno di cro-
CRONACA DI GIORNATE
PARTICOLARI
Emanuele Gherardeschi, studente della media
Garibaldi-Matteucci di Campi Bisenzio,
è stato il “cronista”, come aveva fatto anche
un suo compagno di scuola, di un indimenticabile
“viaggio” nella memoria.
ci, con intorno case e villette.
Il ricordo
Il lager di Ebensee alla fine
della guerra venne distrutto. Il terreno fu comprato da
una signora francese per utilizzarlo come cimitero in ricordo dei caduti.
Lì abbiamo assistito alla cerimonia e ai discorsi del sindaco e di Roberto Castellani. Alla cerimonia internazionale di Mauthausen
(migliaia di persone, famiglie di deportati, sopravvissuti, rappresentanti di
organizzazioni democratiche e diplomatici di tutta
Europa) c’eravamo anche
noi per depositare corone
ai monumenti che molte nazioni hanno costruito tra la
cava di pietra e l’entrata del
campo. Il monumento italiano è diverso dagli altri: un
muro costruito a metà, a significare le vite spezzate.
Con il cuore segnato
A Mauthausen mi ha segnato
il cuore vedere la camera a
gas, i forni crematori, la stanza frigorifero, quella per il
sezionamento dei cadaveri.
Abbiamo visitato i luoghi
delle selezioni, le baracche,
le piccole celle dove venivano torturati i deportati politici. Il signor Castellani e
un’altra guida di nome
Camilla, ci hanno spiegato la vita nel campo e le
atrocità che subivano i deportati. Mi ha impressionato molto una delle siringhe che i kapò usavano
per eliminare i prigionieri
sofferenti: gli iniettavano
della benzina nel cuore provocando una morte istantanea.
Dalle gallerie a Gusen.
A Ebensee abbiamo visitato anche le gallerie che,
come ci ha ricordato
Castellani, sono state costruite dai deportati con
strumenti moderni.
Rimaste incomplete a causa della fine della guerra,
servivano per nascondere
la costruzione di armi di
sterminio. Sopra le gallerie c’erano uffici per lo
studio e la progettazione
delle armi, compresa l’atomica. Un’altra visita interessante e commovente
è stata al Memorial di
Gusen II, dove è conservato un terribile simbolo:
un forno crematorio.
Ad insegnanti e autorità
DIPLOMI E TARGHE
A TORINO
PER LA GIORNATA
DELLA MEMORIA
A Palazzo Lascaris di Torino, nella Sala del Consiglio
regionale del Piemonte, sono stati consegnati, lo scorso
28 gennaio, i diplomi agli insegnanti e autorità che hanno collaborato per la diffusione della memoria. Targhe sono state consegnate anche alla Regione e al Comune di
Torino. Sono intervenuti: Lido Riba, vice presidente del
Consiglio regionale del Piemonte, Mauro Maria Marino,
presidente del Consiglio comunale di Torino, Ferruccio
Maruffi, presidente Aned Piemonte, Bruno Vasari, presidente onorario Aned Piemonte, Dario Segre, vice presidente Aned Piemonte, Anna Bravo, Anna Ariotti, Peter
Kuon dell’Università di Strasburgo, monsignor Pedrotto,
Anna Cerchi, Adalberto Alpini e Gianni Alasia.
29
I nostri
ragazzi
L’iniziativa, promossa dallo “Scientifico”
con la collaborazione dell’“Artistico”.
La guerra, il razzismo, lo sterminio
in una serie di dipinti, disegni, sculture,
con l’uso di diverse tecniche artistiche
Varese
“I segni
della Memoria”
in una mostra
creata
dai liceali
Con il linguaggio artistico i giovani possono capire il valore della libertà
Una mostra per ricordare, per
non dimenticare: non a caso
è intitolata “I segni della
Memoria”.
L’iniziativa, promossa dal liceo scientifico “G. Ferraris”
in collaborazione con il liceo
artistico “Frattini” di Varese,
in occasione della Giornata
del 27 gennaio, ha visto una
partecipazione attiva, convinta di circa 120 studenti,
con una cinquantina di opere: disegni, quadri, sculture,
tecniche pittoriche varie.
L’obiettivo dell’esposizione
è stato quello non solo di presentare una produzione artistica, degna di attenzione,
ma soprattutto testimoniare
l’orrore dei fatti per invitare
a non dimenticare.
Si tratta di un contributo originale e nuovo per la nostra
scuola, che merita di essere
valorizzato, conosciuto perché resti viva la memoria anche attraverso la creatività,
l’immaginazione e la riflessione degli studenti, per cercare di interpretare eventi
drammatici, che hanno segnato la storia della prima
metà del secolo scorso in
Italia e in Europa.
Le opere si configurano come un “viaggio nel tempo”,
di un tempo in cui sono stati toccati gli abissi della bar-
30
barie e dell’intolleranza. La
mostra è l’immagine dell’immane tragedia causata
dal nazifascismo e dalla
guerra.
Le realizzazioni non hanno
una specifica fisionomia, non
c’è un percorso cronologico
o tematico ma è un momento di riflessione collettiva. Le
opere parlano soprattutto di
inquietudini, nel loro aspetto fortemente simbolico, dicono di angosce non descrivibili, di attese dell’uomo,
vittima dello sterminio.
La deformazione espressionistica e surreale, il cromatismo violento di alcune opere, sono simbolo di una umanità lacerata dalla violenza
subita. Le figure di donne, di
bambini, come vittime predestinate e inermi proiettano il dramma individuale in
una sorta di sacralizzazione
laica, assoluta delle sofferenze. Un filo sotterraneo unisce il lavoro di questi ragazzi: la malvagità contro il senso umano della vita, l’oppressione come dominio e
sopraffazione del potere contro chi, indifeso, ne subisce la
violenza.
La presenza di uno studio su
Guernica di Picasso è significativa. Guernica urla l’orrore del bombardamento na-
zista della cittadina basca,
che la distrusse nel 1937, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Ma potremo dire forse che la realtà di quell’immagine non si attaglia
alla crudeltà delle guerre
odierne, che il mondo di oggi non vive la sua terrificante Guernica negli eventi che
periodicamente in alcune parti si verificano?
Il messaggio di Guernica non
è il monito più forte a preservare la memoria?
L’uomo senza memoria è in
balia del destino, è un uomo
a cui manca l’energia di opporsi alle eventuali ricadute
“Non dimenticate”,
di Francesco Cucca
(liceo artistico).
cui l’eterna dialettica del bene e del male induce. Le ricadute, però, non sono un
fatto inevitabile, cui presiede un destino preventivamente segnato. L’uomo è artefice del proprio destino:
l’indifferenza e il non impegno hanno segnato nella
storia, il predominio della
violenza, della guerra, del
razzismo.
L’arte, quindi, non ha esaurito
la sua funzione. Anzi in certi momenti storici ha un alto
valore di insegnamento, ci
spinge non solo a comprendere meglio quei fatti, ma a
compararne la memoria con
il mondo in cui viviamo: sicuro argine, questo, al pericolo che sciagurate evenienze abbiano a ripetersi tragicamente.
Il linguaggio artistico, l’immagine artistica è un mezzo
perché i giovani possano sentire il valore della libertà, della democrazia, della pace. “I
segni della Memoria” è una
esperienza da ripetere, per
non dimenticare e per dare
l’opportunità alle nuove generazioni di scegliere in libertà e coscienza.
Antonio Antonellis
(docente di disegno
e storia dell’arte)
“Studio
di Guernica”,
opera
collettiva
(liceo
scientifico).
“La memoria
del dolore”,
di Laura
Malvicini,
Alice Pellegrini
(liceo
scientifico).
“Unica
uscita”,
di Desirée
Sacchiero
(liceo
artistico).
Lunedì 27 gennaio. Aula
magna del liceo scientifico “G. Ferraris” di Varese.
Diverse opere d’arte, realizzate da alcuni studenti
e professori dello stesso liceo e del liceo artistico di
Varese, disposte su freddi
pannelli di legno bianco.
Un’atmosfera surreale, resa agghiacciante dal rigoroso silenzio interrotto solamente dalle note della
banda musicale dello stesso liceo che ospita la manifestazione.
Un cospicuo numero di studenti e di visitatori che osserva, riflette e, in rigoroso silenzio, scuote la testa
girovagando fra i pannelli.
Un solo messaggio:
NON DIMENTICARE.
Dei binari che corrono
verso il cancello d’entra-
IL MESSAGGIO DI QUELLE MANI
TESE VERSO DI NOI
ta di un lager ci accolgono all’ingresso della mostra. Proprio quei freddi
binari di metallo esprimono la gelida e distaccata perfidia nazista che
ci guiderà per tutta la visita.
Ci guardiamo intorno.
Tutto esprime rassegnazione, terrore e senso di
alienazione da qualsiasi
sensazione umana. Quelle
povere vittime furono perfino private del loro nome,
sostituito da un distaccato
codice numerico. Proprio
questi codici numerici ricorrono frequentemente
nelle opere: opere pittoriche, sculture, composizioni
moderne e testimonianze
fotografiche.
L’identità di un uomo totalmente cancellata. La sua
storia, i suoi affetti, i suoi
pensieri. Nulla più. Solo
una serie di numeri che lo
identificano all’ora dell’appello. Questo il significato di quei numeri impressi sulle opere artistiche. In un angolo le poche
e sgualcite lettere inviate
da un prigioniero di un lager testimoniano la volontà, nonostante tutto, di
preservare la propria personalissima identità.
Accanto a tutto ciò attimi
di tenerezza, rubati all’odio
e all’indifferenza, in una
tela con un bambino solo
che fissa un punto imprecisato, probabilmente alla
ricerca della madre.
Ma soprattutto attimi di angoscia. Mani che tentano
di liberarsi da una rete metallica che li avvolge in una
angosciante composizione, che tentano di emergere assieme ad un volto
irriconoscibile dal gesso
di una scultura o che si protraggono in avanti dallo
sfondo imprecisato di un
bassorilievo.
Quei volti straziati e quelle mani che si protraggono verso di noi esigono una
precisa richiesta. Fare in
modo che ciò che è successo non venga dimenticato e che non si ripeta.
Matteo Boccia
(IV I liceo scientifico)
31
I nostri
ragazzi
Fra la violenza e la ferocia del campo un episodio
di solidarietà: un soldato tedesco finge
di “non vedere” e salvò la vita a due prigionieri
che rubavano patate per resistere alla fame
Varese
L’ex deportato
così racconta...
Nella baracca
un grido:
“Nein! Nein!”
Il rischio della vita per rubare patate...
Un giorno intenso, il 27 gennaio, per i licei artistici e
scientifico di Varese.
L’apertura della mostra “I
segni della Memoria”, infatti
si è accompagnata alla prestazione del libro Credere
obbedire combattere, la scuola italiana sotto il fascismo
di Franco Maccagnini, e alla testimonianza di un ex deportato, Andrea Rossi, che
ha suscitato un particolare
interesse.
Rossi (classe 1923), catturato dai tedeschi a Trento dopo l’8 settembre 1943, venne tradotto in un grande campo di concentramento per
prigionieri di guerra a
Furstenberg, una cittadina
vicina al fiume Oder nella
Germania orientale. Nel suo
incontro con i giovani ha ripercorso il tempo drammatico della prigionia, rifacendosi anche al memoriale pubblicato nel settembre del
2002 con il patrocinio del
comune di Bisuschio
(Varese) dove risiede, e dedicato ai suoi concittadini
che hanno subito la stessa
sorte.
“Il trattamento a noi riservato al pari dei prigionieri russi,” – scrive nella sua testimonianza – “era di gran lunga peggiore di tutti gli altri.
Luride baracche, pagliericci
32
“L’urlo” di Francesca Saracino (liceo artistico)
puzzolenti infestati di pidocchi e cimici, cibo scarso e una
volta al giorno. Un allucinante
andirivieni, specialmente di
notte a percorrere lo spazio
di 50-60 metri su terreno sabbioso e in salita per raggiungere le latrine. Non sempre
si arrivava in tempo. Molti di
noi, stremati, finiscono all’ospedale del campo. Uno
dei ricordi più vivi è il tentativo, fallito, di reclutare i prigionieri italiani nelle formazioni fasciste.
“Sveglia in piena notte, raggruppamenti nel cortile in
numero di 30, due pali infissi nel terreno a formare
una strettoia; un metro più
in là, lo scrivano seduto a un
tavolino con un registro.
L’altoparlante diffonde, in
lingua italiana, il seguente
quesito: Arruolarsi nell’esercito della RSI o, a scelta,
nelle formazioni speciali della SS germanica, (una sorta
di legione straniera).
“Dovevamo passare, uno alla volta, attraverso la strettoia, deporre sul tavolino la
piastrina, guardare in faccia
un ufficiale delle SS al quale dovevamo dire sì oppure
no. Il sì comportava la fine
automatica dello stato di prigioniero, il no comportava la
ripresa della piastrina e il
viaggio a ritroso verso la baracca.
“…Furono tutte le vicende
vissute fino a quel momento
che ci diedero la forza, la
convinzione e perfino l’entusiasmo a dire NO (98%).
Pur avendo coscienza della
tremenda incognita delle possibili ritorsioni ci sentivamo,
nel momento più travagliato
e drammatico dei nostri
vent’anni, uomini veri, uomini liberi! Finalmente, per
la prima volta, qualcuno ci
aveva chiesto un nostro parere: e avevamo risposto
NO!…Se la facciano senza di
noi la loro sporca guerra…Vadano affanc…
“Ricordo l’esultanza nelle
baracche al rientro di ognuno dopo il NO; ricordo un
simpatico commilitone fiorentino (un fratello gli era
morto in Russia) che al rientro disse…Ce l’ho detto nella sua lingua: NEIN!
Per un bel po’ nelle baracche risuonarono i NEIN!
NEIN!…”
Nel suo memoriale Andrea
Rossi ricorda – tra i tanti episodi – il rischio mortale per
combattere la fame e resistere. Resistere anche al freddo che gela la campagna di
Guben (Germania orientale), dove era stato trasferito.
Insieme ad un altro detenuto
decide di scavalcare il muro
per raggiungere un deposito
di patate, “stoccate” in lunghi
fossati scavati in piena campagna e coperti di paglia.
Spezzano freneticamente lo
strato di ghiaccio, frugano
nella paglia e mettono finalmente le mani sul “tesoro”.
Ma all’improvviso vedono
avvicinarsi un drappello di
prigionieri russi scortati da
un soldato tedesco, naturalmente armato.
“Non possiamo fuggire da
nessuna parte, non una buca, non un riparo. Rimaniamo
paralizzati, mentre pensieri
terribili afferrano la nostra
mente: se il soldato tedesco
ci uccidesse sul posto, verrebbe sicuramente premiato; se ci consegnasse vivi al
suo comando, la nostra sorte sarebbe ugualmente segnata! Evasione dal lager,
furto con scasso. I nazisti uccidevano per molto meno!
Il drappello, intanto, si avvicina sempre di più.
Vediamo i prigionieri russi
volgere la testa verso di noi:
ci avevano visti! Non era neppure lontanamente pensabile che il soldato tedesco al
seguito non ci avesse visti a
sua volta. Eravamo visibili
come due mosche nel latte.
“Il drappello raggiunge il punto critico (quello più vicino
a noi), lo supera; il soldato
guarda in avanti, non accenna a reazione alcuna. Un prigioniero russo volge per un
attimo la testa all’indietro per
vedere se è successo qualcosa. Non è successo nulla! Il
drappello è ormai lontano! Ci
alziamo in preda a un incontenibile tremore (non soltanto per il freddo)”.
L’episodio divenne argomento
di discussioni e commenti tra
i detenuti. In conclusione fu
unanime “se la scorta” – ricorda Rossi – “fosse stata
composta da due soldati anziché da uno solo, le conseguenze tra noi sarebbero state sicuramente drammatiche.
Essendo, invece, il soldato da
solo, doveva rispondere soltanto alla propria coscienza:
e la sua coscienza gli ha suggerito di guardare avanti e tirare diritto!”
“Per non dimenticare” di Michel Bressan,
Alessandro Farina (IV F liceo scientifico).
QUESTA LA REALTÀ
CHE SPESSO IGNORIAMO
Per ricordare la Giornata della memoria il nostro liceo ha
organizzato una mostra e una conferenza. A mio parere
sono state entrambe molto interessanti e soprattutto utili per sensibilizzare noi studenti sul tema della memoria.
Infatti, la mostra rappresenta la tragedia vissuta dal popolo ebreo e da tante altre persone. L’uso di diverse tecniche artistiche è stato anche un modo efficace per raccontare una tragedia come la Shoah.
Personalmente ho apprezzato molto questa esperienza
perché mi ha permesso di avvicinarmi a quello che è stato la tragica realtà dell’Olocausto.
Molto interessante è stata anche la conferenza che si è tenuta per l’apertura della mostra. Infatti vi sono state testimonianze dirette di persone che durante la seconda
guerra mondiale sono state deportate nei campi di concentramento.
Queste testimonianze hanno portato noi giovani a riflettere su temi che spesso ignoriamo. In conclusione ritengo che sia stata una esperienza altamente formativa.
Viviana Stecconi (IV H liceo scientifico)
GLI AGUZZINI VOLEVANO
DISTRUGGERE
ANCHE LA DIGNITÀ
“Il lavoro rende liberi”. È con questa frase che i deportati venivano accolti nei campi di “lavoro”, ed è con questa frase, proiettata su di uno spettrale lenzuolo bianco,
che i visitatori vengono accolti alla mostra “ I segni della memoria” organizzata all’interno del nostro liceo.
Per me è una mostra sul coraggio della memoria, su ciò
che c’è ora nell’immaginario di noi ragazzi tra i 16 e i 20
anni a proposito dell’Olocausto, e quindi su ciò che, virtualmente, verrà trasmesso ai ragazzi di domani. Ed è
una mostra degli orrori compiuti.
Sono tele e gessi su cui si agitano fantasmi, volti dilaniati,
urla, sangue, lacrime, occhi svuotati e facce smunte.
Riflessioni sull’inutilità del dolore, sulla sensazione di
paura e di smarrimento trasmesse dai volti scarni di persone ingiustamente massacrate, sfruttate, affamate e infine uccise.
Ciò che evidentemente mi ha colpito di più di queste
opere è la volontà, da parte degli aguzzini, di cancellare ogni traccia dei loro prigionieri, di annullare l’identità e la dignità dell’individuo. È questo il “coraggio della memoria” secondo i ragazzi, la consapevolezza che è
più crudele eliminare un individuo nel suo intimo, trasformarlo in un numero, privarlo di ciò che lo rende un
“IO”, che sopprimere la sua fisicità. Il ricordare che dietro i numeri, dietro i piedi che emergono dai cumuli di
corpi ammassati, dietro le casacche logore, dietro i tatuaggi,
gli occhi lucidi e le stelle di David, c’è stato un IO.
Fabrizio Festa (IV I liceo scientifico)
33
I nostri
ragazzi
Spettacoli teatrali, visita ai lager, progetti di cultura
europea. Incontri in Italia e in altri Paesi.
Ricerche nei luoghi in cui sono tumulate vittime
italiane nei campi tedeschi
Orbassano
Il lungo
percorso
storico
dell’Istituto
Sraffa
Il bilancio di una intensa attività in corso da anni
L’Istituto tecnico commerciale statale “P. Sraffa” di
Orbassano (Torino) da anni
collabora con l’Aned, il
Comitato per la Resistenza
Colle del Lys, il comune di
Orbassano e la Provincia di
Torino su progetti di alto contenuto etico e culturale, legati alla necessità di mantenere viva la memoria di un
recente passato che chiede
ai giovani di affrontare le
problematiche che si ripresentano nelle cronache dei
giorni in cui viviamo.
In quest’ottica è stato realizzato, già nell’anno scolastico 1996/97, lo spettacolo
teatrale in lingua tedesca Das
verletzte leben (“La vita offesa: storia e memoria dei lager nazisti nel racconto dei
sopravissuti”, adattate da
Anna Bravo e Daniele Jallà)
recitato dagli studenti
dell’Istituto a Friedrichshafen, in Germania. Lo spettacolo è stato poi inserito, in
lingua italiana nell’anno scolastico 1997/98, nel programma “Vivere la Costituzione” proposto dalla
Provincia di Cremona per
tutti gli Istituti scolastici superiori della città, rappresentato al teatro di Palazzo
Colonna.
Il percorso di ricerca stori-
34
ca, culturale ed artistica si è
sviluppato negli anni successivi con visite ai campi di
sterminio di Dachau, Uberlingen, Mauthausen ed al cimitero dei deportati di Birnau, prendendo come spunto alcune significative ricorrenze.
Nel marzo 1999 con un viaggio a Strasburgo, nell’ambito del progetto “Il ‘900: i giovani e la storia”, l’attività è
continuata con la visita al
Parlamento europeo e al lager di Natzweiler: momento
significativo è stato la rappresentazione in lingua francese de La vita offesa (“La
vie offensée”) nell’atrio
dell’Università Mark Bloch,
organizzata in collaborazione con l’Istituto italiano di
cultura.
Al viaggio hanno partecipato una delegazione di ex deportati nei campi di sterminio, guidati dal consigliere
nazionale dell’Aned, Beppe
Berruto e dal vicesindaco di
Orbassano, Marroni. Nel
2000 una delegazione di studentesse dell’Istituto Sraffa
è intervenuta alle celebrazioni tenutesi a Ravensburg,
in occasione dell’Anno internazionale della donna.
Nell’anno scolastico 2001/
2002 l’Istituto ha aderito al
progetto “Storia, memoria,
cultura europea in rete: i giovani attraverso un percorso di
pace e giustizia e tolleranza”.
Il progetto, proposto dal
Comitato per la Resistenza
Colle del Lys, ha l’obiettivo
di promuovere attività culturali congiunte sui “percorsi
della memoria” unendo e
coordinando l’attività di enti, associazioni e scuole che,
sul territorio nazionale ed
europeo, si occupano di questi temi, per mettere insieme
le idee e le competenze acquisite per trasmettere alle
nuove generazioni un patrimonio storico comune. Prima
tappa per la realizzazione del
progetto sono stati gli incontri presso la Provincia di
Gorizia fra autorità provinciali, rappresentanze dell’Aned e dell’Anpi, rappresentanze slovene, delegati
del Comitato Colle del Lys e
dell’Itc Sraffa. È emersa, tra
l’altro, la possibilità, per il
gruppo teatrale dell’Istituto,
di partecipare al “Palio teatrale transfrontaliero” che,
ogni anno nel mese di maggio, si tiene a Gorizia ed in altre città della provincia con
spettacoli presentati da allievi di scuole superiori italiane e slovene.
Il percorso didattico-formativo, incentrato su storia e
memoria, si è sviluppato con
un viaggio di istruzione a
Gorizia e in Slovenia per gli
studenti di alcune classi
dell’Istituto. In tale occasione i giovani, accompagnati da alcuni docenti, dal
sindaco di Orbassano e da
Beppe Berruto, sono stati ricevuti da tre assessori della
Giunta provinciale di Gorizia
e hanno incontrato gli allievi di una classe del locale
Istituto tecnico coomerciale Fermi. Tappa successiva
del progetto è stata la partecipazione, fuori concorso,
del laboratorio teatrale
dell’Istituto Sraffa, al Palio
teatrale, con la rappresentazione, l’undici maggio
2002 presso il Kulturni
Center di Gorizia, dello spettacolo La vita offesa.
Nello stesso periodo in
Germania, a Friedricshafen
e Uberlingen, si sono svolte
riunioni finalizzate al successivo sviluppo del progetto. Alle iniziative presso sedi sindacali e la sala congressi di Friedricshafen, hanno partecipato il sindaco della città, rappresentanti di organizzazioni sindacali tedesche (VVN e BDA, Enzo
Savarino e Joseph Kaiser),
Siena
“Questo
è stato…”
Un ex deportato
racconta il lager
all’Università
il vicesindaco di Orbassano,
rappresentanti dei comuni di
Rivoli e di Grugliasco, responsabili dell’Aned e del
Comitato Colle del Lys e l’insegnante responsabile del
coordinamento delle attività
integrative dell’istituto Sraffa,
prof. Marilena Buggia.
Il 6 luglio 2002, presso la sala consiliare del Comune di
Avigliana, delegazioni nazionali e straniere (sindaci
ed amministratori comunali
e provinciali provenienti da
varie parti d’Italia, rappresentanti di organizzazioni
sindacali tedesche, responsabili dell’Aned e del
Comitato Colle del Lys, insegnanti dell’Itc Sraffa e di altre scuole superiori) si sono
riuniti per una riflessione generale sul progetto.
Si è prospettata la possibilità di continuare il percorso con la rappresentazione
in Germania dello spettacolo La vita offesa in lingua tedesca.
È avvenuto anche in occasione della Giornata della
Memoria a Friedricshafen.
Nel salone dei Congressi lo
spettacolo, seguito con viva
attenzione, ha suscitato una
profonda emozione. In occasione del 27 gennaio è stato inoltre inaugurato un monumento dedicato ad un partigiano tedesco. La delegazione di Orbassano, con il
vicesindaco, ha partecipato
alla commemorazione.
Intanto sono in corso contatti per ricordare, il maggio
prossimo a Uberlingen (nelle gallerie scavate durante il
secondo conflitto mondiale
e in cui hanno perso la vita
numerosi deportati italiani),
i connazionali seppelliti nel
cimitero di Birnau. Nell’occasione per gli allievi dell’Itc
Sraffa, verrà anche organizzato un viaggio di istruzione
con incontro con giovani di
scuole locali. Al viaggio parteciperanno l’assessore provinciale Gianni Oliva, il sindaco di Orbassano e amministratori dei comuni della
zona, rappresentanti dell’Aned e del Comitato Colle
del Lys e allievi dell’Istituto
tecnico per le attività sociali Santorre di Santarosa di
Torino.
Nel corrente anno scolastico, un gruppo di studenti
dell’Istituto collabora, insieme a studenti dell’Itis
Majorana di Gurgliasco, ad
una ricerca, promossa da
Aned, Comitato Colle del
Lys, Comitato “Nessun uomo è un’isola” rivolta ad individuare le vittime italiane
tumulate nel cimitero di
Birnau dando informazione
alla famiglie sul possibile
luogo di sepoltura.
Chiara Bertani
(dirigente scolastico)
L’intensa testimonianza di Mauro Betti
Aderendo all’invito dell’Unione universitari di Siena
che avevano organizzato, nella facoltà di lettere, un incontro-testimonianza (nel
quale era impegnato anche
Vittorio Meoni, partigiano e
presidente dell’Istituto storico della Resistenza senese), l’ex deportato politico
Mauro Betti, del Consiglio
nazionale dell’Aned, ha illustrato con chiarezza e passione la sua drammatica esperienza nei campi di sterminio nazisti: la vita sempre a rischio, la ferocia degli aguzzini, la fame, la morte per assassinio, per tortura o sfinimento nell’orrore del lager.
Un lucido racconto sugli undici interminabili mesi trascorsi, giorno dopo giorno,
in tre campi: Gross-Rosen,
Flossemburg e Buchenvald.
I giovani, attentissimi, gli
hanno rivolto una serie di significative domande, in un
incontro vivo e incalzante durato oltre tre ore. Poi lo hanno attorniato accompagnandolo al circolo studentesco e
continuando a chiedere per
sapere, per conoscere e approfondire. È dovere di noi
superstiti – ha commentato
Betti – diffondere tra i giovani la verità, affinché il negazionismo strisciante non
abbia nessuna possibilità di
radicarsi. Un messaggio subito raccolto: “Quel che ci ha
trasmesso non andrà perduto”, gli hanno infatti scritto
gli stessi studenti in una calorosa lettera. Eccola:
“Caro Mauro, ci scusiamo
veramente tanto per il ritardo
con cui le inviamo il numero
di In piena facoltà, con l’articolo riguardante l’iniziativa realizzata e il manifesto a
colori. La ringraziamo di cuore per il libro che custodiamo gelosamente nella sede.
Ricordiamo ancora con piacere la chiacchierata che abbiamo avuto e la sua incredibile umanità. Stia tranquillo
e sicuro” – continua la lettera – “che ciò che ci ha trasmesso non andrà perduto assolutamente: tanti qui si sono arricchiti e hanno capito
cose che sui libri non sono
scritte. Faremo di tutto per
far stampare il libro anche a
Siena con l’Università e presentarlo in sede. Grazie ancora per tutto” – conclude la
lettera – “e speriamo di rivederla quanto prima a Siena.
Un abbraccio fortissimo.”
L’Unione degli universitari.
Mauro Betti è autore
del libro Buio e luce,
edito dal Comune di Lerici.
35
Dalla magistratura tedesca uno spiraglio di luce
Indagate in Germania
otto SS per la strage
di S. Anna di Stazzema
(f.g.) - I nomi di otto appartenenti alle SS, sospettati di aver preso parte all’eccidio di Sant’Anna di
Stazzema del 12 agosto
1944 dove furono massacrati 560 civili, fra cui donne, vecchi e bambini, sono
stati iscritti nel registro degli indagati della Procura
federale di Stoccarda alla
fine dello scorso febbraio.
La notizia è ufficiale, confermata dal portavoce dell’ufficio inquirente, Eckhard Maak.
Gli otto, per ora a piede libero, sarebbero già stati
ascoltati da rappresentanti
dell’autorità giudiziaria italiana.
Proprio dalle numerose sollecitazioni dell’Italia all’inizio del 2002, agenti dell’investigazione tedesca
dell’Ufficio centrale di
Ludwisburg, incaricati dei
crimini nazisti, hanno accellerato la loro azione
giungendo a definire un
gruppo di possibili responsabili.
Un contributo indiretto era
giunto anche dalla rete televisiva tedesca Ard e dalla giornalista Christian Khol
che aveva mandato in onda
nel 1999 inediti spezzoni
sulle stragi di Sant’Anna e
di Marzabotto.
Secondo Ard, il capo del
36
gruppo sarebbe tale Gerhard
Sommer, 82 anni, di Amburgo. Questi all’epoca dei
fatti era il comandante di
compagnia nel 25° Reggimento della 16 a Panzer
Grenadier-Division Reichsfuerher SS, quella di cui fa-
Il 12 agosto
1944
furono
massacrati
560 civili,
in gran parte
donne,
vecchi
e bambini
ceva parte il battaglione incaricato di colpire l’abitato toscano.
Fra le altre ex SS sottoposte all’inchiesta per valutare le eventuali responsabilità ci sono Horst Richter,
allora sergente, oggi ottantenne di Berlino;
Theodor Sasse, allora sottotenente, 78 anni, di
Kriftel; Friedrich Crusemann, ex tenente, 78 anni
di Hamm; Alfred Leibslle,
ex sergente, 80 anni, di
Tubingen.
Si ignorano i nomi degli altri indagati. Sinora nessun
responsabile ha mai pagato per questo eccidio.
L’inchiesta, come sempre
in casi del genere, appare
lunga e complessa. Giunge
intanto notizia che il “boia
del Turchino” (59 fucilati),
l’ufficiale SS Engel, ultranovantenne, condannato il
5 luglio scorso per “strage
in condizioni di particolare crudeltà” a 7 anni dal
Tribunale di Amburgo, si
appresta a ricorrere in appello e vive in libertà malgrado non mai abbia dato
un segno di pentimento.
Del resto non è solo in
Germania che le cose vanno a rilento: in Italia è ancora incredibilmente fermo
al Senato, dopo l’approvazione in primavera alla
Camera, il provvedimento
per dare il via alla Commissione d’indagine sull’Armadio della Vergogna
dove erano stati seppelliti
negli anni ‘60 per “ragion di
Stato” da esponenti del governo dell’epoca, 695 fascicoli sulle stragi naziste e
fasciste.
Pietà
e dolore
per le loro
vittime
Facce da
carnefici
TEORICI DELLA RAPPRESAGLIA
Alcuni degli ufficiali nazisti
che operavano in provincia di Bologna.
Il primo a sinistra, nei documenti
degli Us Archives è identificato
come il “capitano Brandt”.
Nella documentazione americana,
in parte consegnata alle autorità
italiane del tempo, ci sono anche le foto
di alcuni ufficiali tedeschi appartenenti
ai reparti che si resero responsabili
dei delitti, giustificati sempre come
azioni contro i reparti partigiani.
Nella foto grande, sotto:
il giorno dopo la strage di S. Anna
di Stazzema il parroco insieme ad
alcuni civili trova i corpi degli abitanti
trucidati dai tedeschi.
37
Un giudizio di Gustavo Zagrebelsky nella prefazione alle
“Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”
IL REVISIONISMO STORICO
DI OGGI:
UN “NON FASCISMONON ANTIFASCISMO”
Secondo il fervore revisionistico
di oggi il carattere autentico dell’identità nazionale – più o meno
chiaramente è detto - sarebbe rappresentato da quella parte maggiore del popolo italiano che
avrebbe assistito da estraneo o
con atteggiamenti di puro soccorso umanitario alla lotta di liberazione, in attesa degli eventi.
Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e
antifascista, rappresenterebbero
una deviazione estranea alla nostra tradizione; una tradizione essenzialmente moderata, ostile agli
eccessi, aperta ad ogni aggiustamento e garantita dalla presenza
stabilizzatrice della Chiesa cattolica. Gli uni e gli altri, insieme
alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li contrapposero, sarebbero così da condannare alla
pubblica dimenticanza, come elementi accidentali e fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano.
In questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di equivalenza, per poter poi essere congiuntamente estromessi in nome
di una particolare concezione della nostra identità come nazione.
All’antifascismo, quale fattore
costitutivo delle istituzioni e della vita repubblicana, verrebbe così a costituirsi qualcosa come un
“non fascismo-non antifascismo”,
conforme al genio, che si pretende propriamente italiano, di procedere diritto tra gli opposti eccessi. Questa tendenza è pienamente in atto nel senso comune
alimentata da una storiografia e
una memorialistica sorprenden-
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temente sicura di sé nelle definizioni dell’attendismo come virtù
di saggezza pratica, invece che
come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura
su simili strade, è più ideologia
che scienza.
Chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista, ma, allo stesso modo, anche
chi ha combattuto sul fronte opposto, certo sarebbe preso da un
grande stupore nel constatare l’estendersi di un giudizio che non solo assolve ma addirittura valorizza l’atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi goderne i
frutti col sacrificio di altri. Ne
trarrebbe anche motivo di grande sconforto e offesa, a causa della condanna e del disprezzo che
quel giudizio implica.
Tra le leggi di Solone – come riferisce Plutarco – ve n’era una,
del tutto particolare e sorprendente che privava dei diritti civili coloro i quali, durante una “stasi” (un conflitto tra cittadini), non
si fossero schierati con nessuna
delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno
rimanesse indifferente e insensibile di fronte al bene comune, ponendo al sicuro i suoi averi e facendosi bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria;
ma volendo che ognuno, unitosi a
coloro che agivano per la causa
migliore e più giusta, si esponesse ai loro pericoli e portasse aiuto, piuttosto che attendere al sicuro
di schierarsi dalla parte dei vincitori.
GUSTAVO ZAGREBELSKY
Prefazione alle “Lettere dei
condannati a morte della
Resistenza italiana”
La “Memoria”
Era gremita di sardi e di cittadini locali
la Sala delle Carrozze a Villa Marazzi
di Cesano Boscone (città di 25000 abitanti alle porte di Milano), per la presentazione del libro postumo di Pietro
Tola, Il lager nel bosco. Due anni di
lavoro forzato nei campi di concentramento tedeschi, 1943-1945 (Cagliari,
CUEC, 2001), curato dai figli Salvatore
e Giovanni Tola, con prefazione del
prof. Manlio Brigaglia, presidente
dell’Istituto sardo per la storia della
Resistenza e dell’autonomia (Issra).
Con questa iniziativa il circolo dei sardi “Domo Nostra”, preseduto da Mario
Piu, ha dato un significativo contributo, a nome dei sardi della Lombardia
e di tutta l’Italia continentale alla celebrazione nazionale della Giornata
della Memoria, che vuole ricordare le
persecuzioni subite sia dal popolo ebraico che dai deportati militari e politici
italiani nei campi nazisti.
Ne è autore Italo Tibaldi
UN CALENDARIO
SULLA DEPORTAZIONE
Il Consiglio regionale del Piemonte e l’Istituto piemontese per
la storia della Resistenza e della società contemporanea hanno pubblicato il calendario “Giorno della Memoria 2003 –
Calendario della deportazione politica e razziale nei campi di
eliminazione e stermino nazisti 1943-1944-1945” Si tratta
di una pubblicazione dell’Aned di cui è autore Italo Tibaldi.
Come scrive nella sua presentazione Lido Riba, vice presidente
del Consiglio regionale del Piemonte nel calendario sono segnati mese per mese “i giorni della partenza dei convogli dei
deportati politici e razziali, riportando le indicazioni esatte dei
trasporti.
Di volta in volta nella pagina a fronte campeggia un paesaggio acquerellato, che contrasta con la sua bellezza la durezza dell’informazione. Da una parte, dunque, il calendario
‘bloccato’ della memoria che rinvia al passato; dall’altra il calendario della natura e delle stagioni, che riconduce a un presente e a un futuro che si vorrebbe diverso”.
L’autore, l’ex deportato Italo Tibaldi è noto ai lettori del
Triangolo Rosso per aver dedicato la sua vita alla ricostruzione della tragedia che lo coinvolse con migliaia di altri italiani.
Con questa sua nuova opera ha dato un contributo originale
alla conoscenza e alla memoria della deportazione. Gli acquarelli che illustrano il calendario sono di Rina Totini Zanderigo,
mentre l’ottimizzazione informatica è di Valeriano Zanderigo.
Il calendario è presente anche in Internet sul sito www.deportati.it con una presentazione di Dario Venegoni.
celebrata dai circoli sardi in Lombardia
Filippo Capuano, assessore alla Cultura
e Ferruccio Fabbri dell’Anpi di Cesano,
hanno sottolineato il significato di testimonianza che trasmettono ai giovani esperienze terribili come quelle
vissute da Pietro Tola e quelle raccontate attraverso le altre iniziative,
anch’esse organizzate per le scuole:
mostra di quadri sull’“universo concentrazionario”, rappresentazione teatrale ispirata alla risiera di San Sabba.
Non a caso Fabbri ha chiesto alla nipote
di Tola, Annalaura, di esprimere le sue
valutazioni di giovane impegnata a non
interrompere il filo della memoria familiare, ricco di contenuti etici, che la
tiene legata al nonno.
Approfondite analisi della struttura e
del valore educativo del libro sono state svolte da tre docenti di origine sarda di istituti medi superiori della provincia di Milano: Giuseppe Deiana
(che ha dato conto, sulla scorta delle più
recenti pubblicazioni, dei dati numerici del fenomeno della deportazione,
compresa quella degli Internati militari
italiani, com’era la guardia di finanza
Pietro Tola); Pasqualina Deriu (che si
è soffermata sul significato della scrittura, come autoaffermazione di sé e
meccanismo della fortificazione della
volontà, per chi è condannato a sopravvivere in un luogo di segregazione); Antonio Satta (ha citato alcuni degli episodi molto concreti, raccontati
da Tola, di sevizie fisiche e psicologiche inferte dagli aguzzini ai lavoratori del campo).
Gli stessi docenti nei giorni successivi hanno promosso, presso la propria
scuola, un confronto diretto con gli
studenti, già a conoscenza del contenuto del libro, con i curatori del volume, Giovanni e Salvatore Tola, i quali hanno fatto un’opera veramente apprezzabile per accrescere la nostra co-
noscenza del contesto storico in cui si
inseriscono i tremendi fatti vissuti dal
padre.
Personalmente ho sostenuto che sia il
diario di Pietro Tola (nato a Thiesi nel
1905) sia il libro del professor Diego
Are (nato a Santo Lussurgiu nel 1914,
quindi di nove anni più giovane, che ha
però vissuto un’esperienza simile e
coeva a quella di Pietro Tola), insegnano che, nei momenti di “crisi” della storia e della vita, bisogna avere il coraggio di scegliere respingendo le facili lusinghe e che per “resistere” di
fronte al male occorre riferirsi a valori morali in cui credere e da cui non
derogare.
Paolo Pulina
Responsabile informazione
e comunicazione della Federazione
delle Associazioni sarde in Italia
39
I nostri lutti
La morte del compagno Ferdinando Zidar
Dalla deportazione a Buchenwald,
alla primavera di Praga
Lo scorso 31 gennaio è deceduto a Trieste, all’età di
88 anni, il compagno Ferdinando Zidar. Impegnato nella battaglia antifascista fin
dal 1936 quando entrò a far
parte del Pci clandestino, nel
1937 venne arrestato dalla
polizia fascista, condannato e inviato al confino in
Basilicata. Tornato in libertà
si laurea a Firenze in Scienze
politiche.
L’8 settembre lo coglie a
Trieste e si unisce subito ai
reparti partigiani operanti
nell’Istria per poi passare all’attività clandestina nel
Fronte della gioventùe alla
redazione del giornale Il lavoratore.
Nuovamente arrestato viene incarcerato al Coroneo e
quindi deportato nel 1944
nel campo di concentramento di Buchenwald. Qui
Zidar svolse un delicato ruolo di collegamento del gruppo di deportati italiani con
il Comitato internazionale
clandestino che agiva all’interno del campo stesso e
partecipò all’organizzazione militare che liberò il campo di Buchenwald l’11 aprile 1945, due giorni prima
dell’arrivo delle truppe americane.
Tornato in Italia, Zidar divenne giornalista dell’Unità,
dove svolse diverse funzioni a Trieste, a Milano e all’estero. Fu corrispondente
dell’organo del Pci dalla
Cecoslovacchia nei giorni
della “primavera di Praga”,
parteggiando per i rinnovatori e portando in Italia un’esperienza diretta di quegli
eventi.
Tornato a Trieste collaborò
attivamente con la sezione
dell’Aned della quale fu eletto presidente nel 1980. Per
conto dell’Aned nazionale
è entrato a far parte del
Comitato internazionale del
campo di concentramento di
Buchenwald, finché per motivi di salute ha dovuto lasciare lo scorso anno questo
incarico e la presidenza della sezione Aned. La figura
di Ferdinando Zidar è stata
ricordata dal quotidiano in
lingua slovena Primorski
Dnevnik.
La scomparsa del comandante siciliano “Petralia”
Alla testa dei suoi partigiani
sfilò nella Torino liberata
Il 9 gennaio ci ha lasciato l’ultimo carismatico comandante
partigiano siciliano, “Petralia”
(Vincenzo Modica, già residente a Torino).
“Petralia” viene considerato il secondo comandante della Resistenza armata
nel Cuneese, vice di Pompeo Colajanni (“Barbato”)
anche lui siciliano, a capo
della zona dell’VIII zona
militare del Piemonte durante la guerra di liberazione.
Ufficiali di cavalleria entrambi, sono tra i primi ad organizzare i distaccamenti garibaldini in Piemonte; e poi le
brigate e le divisioni d’assalto Garibaldi. “Petralia”,
malgrado le gravi ferite ri-
40
portate negli scontri con il
nemico, continuò a dirigere
la sua 1a divisione d’assalto
“Leo Lanfranco”. Il 25 aprile 1945, dopo aver liberato
la città di Chieri, occuperà
Torino assieme a “Barbato”e
sfilerà alla testa della colonna partigiana portando sul
braccio la gloriosa bandiera
tricolore, che il fascismo e la
monarchia avevano buttato
nel fango.
I garibaldini che conoscevano i valori militari e umani
di “Petralia”, durante i combattimenti desideravano essere vicini a lui. La sua presenza dava forza, sicurezza
e coraggio.
Finita la guerra si dedicò all’attività per la rinascita del
paese e della nostra economia, dando anche lavoro a
moltissimi ex partigiani. Ha
creato le “Giornate” per ricordare i caduti e i martiri
della libertà sul Montoso e
nelle Valli adiacenti.
“Petralia” non ha preteso incarichi politici, anche se ha
seguito la politica; fiero dei
“suoi” garibaldini ha condiviso le loro attività culturali
e sindacali. Ha lasciato una
memoria: Dalla Sicilia al
Piemonte. Storia di un comandante partigiano. Vorrei
che i partigiani, con la Regione piemontese lo ricordassero sul Montoso e a
Torino, mentre i partigiani
siciliani e Mazara del Vallo
(la sua città natale) lo com-
memorassero a Mazara.
Il governo regionale dovrebbe
ricordarlo a Palermo insieme a Pompeo Colajanni “Barbato”. Entrambi rappresentano l’orgoglio della
libertà e della democrazia per
l’Italia e per la Sicilia.
Io li ricorderò sempre fra la
gente, in tutte le scuole e le
manifestazioni affinché le loro azioni e il loro coraggio
spesi per la libertà, non incontrino mai il tramonto.
Nunzio Di Francesco
(“Athos”) consigliere
nazionale dell’Aned
Alla famiglia del comandante “Petralia” le vive condoglianze dell’Aned e della redazione di Triangolo
Rosso
IL TELEGRAMMA DI MARIS
Alla notizia della morte, il presidente nazionale
dell’Aned, Gianfranco Maris, ha inviato alla famiglia il seguente telegramma:
“In questo momento i superstiti dei campi di concentramento nazisti che hanno conosciuto Ferdinando
Zidar e tutti i vecchi compagni che hanno seguito il
suo coraggioso cammino di lotta nell’antifascismo
militante che lo ha condotto alla dura condanna del
Tribunale militare fascista e alla impegnata Resistenza
durante la guerra di Liberazione e alla deportazione politica nel campo di annientamento di Buchenwald, sono profondamente addolorati.
Con la sua scomparsa la memoria stessa dell’antifascismo militante e della deportazione ricevono
una grave ferita perché Ferdinando Zidar ha saputo
essere per tutti gli anni che hanno fatto seguito alla
Liberazione e alla fine della guerra, sino all’ultimo
giorno della sua vita, un testimone forte del passato di lotta del nostro paese e un attivo militante di tutte le battaglie che sono state combattute e sono ancora in atto in Italia per raggiungere gli obiettivi di
pace, di libertà e di democrazia che sono state le ragioni stesse della sua vita. A tutti i suoi familiari ed
ai compagni di Trieste l’Aned esprime il suo profondo dolore”.
NECROLOGI
L’Aned di Milano ricorda
ROMEO BRAMBILLA
deceduto a 81 anni nel gennaio scorso. Aveva subito la
deportazione a Mauthausen e
nel sottocampo di Gusen.
La sezione Aned di Trieste comunica con dolore la scomparsa della compagna
ONDINA PETEANI
prima staffetta partigiana
d’Italia, arrestata dalla polizia fascista, poi deportata nel
campo di sterminio nazista di
Auschwitz e successivamente a Ravensbruck con il n°
81672. Aveva 77 anni. Fu per
molti anni dirigente attiva
dell’Anpi e dell’Aned.
È deceduto a Imola
VERO VANNINI
di 81 anni che fu deportato a
Mauthausen Gusen.
L’Aned di Pisa comunica con
tristezza la scomparsa del
compagno.
MICHELE
BARUCH-BEHOR
Rimpatriato nel 1933 da
Smirne dove era emigrato con
la famiglia, nel 1938, in seguito alle leggi razziali, fu colpito dalle persecuzioni. In seguito subì l’arresto insieme
ai familiari. Dopo il campo di
transito di Fossoli, finì ad
Auschwitz con il padre, la madre, due sorelle e due fratelli.
Fu l’unico a sopravvivere.
Venne trasportato con Primo
Levi da Fossoli fino al campo
di annientamento. Nel libro I
sommersi e i salvati, Levi ricordò la fine di uno dei
Baruch, ucciso appena giunto da Auschwitz perché aveva reagito alla violenza di un
SS. Con Michele scompare
uno dei più cari compagni, un
altro testimone dell’immensa tragedia che ha sconvolto
l’umanità.
E’deceduto a M.Beccaria (PV)
PIETRO CRESCIMBINI
che fu deportato nel campo di
concentramento di Mauthausen
E’ scomparso
ALBINO TINAZZI
di Treviso; deportato a
Mauthausen e in Ungheria
IN RICORDO
DI NADJA BUNKE
L’11 febbraio 2003 Nadja Bunke ci ha lasciati. Abitava
nella ex Berlino Est, aveva 92 anni e non aveva mai smesso di lottare per un mondo migliore.
Ci lascia il ricordo di una vita esemplare di militante comunista. A fianco del suo compagno, Erich, partecipò
ai gruppi di resistenza clandestina nella Germania nazista. Ebrea, visse in una doppia clandestinità. Dovette
tenere nascosto il suo legame con Erich e perfino la nascita del primo figlio per non incorrere nelle terribili conseguenze della violazione delle leggi razziali. Quando
il cerchio della repressione si fece insostenibile, Nadja
ed Erich, nel 1935, furono costretti ad emigrare in
Argentina, dove intrapresero la loro vita di esuli. Fu
l’inizio di un’altra militanza, di nuovo clandestina, nelle file del Partito comunista argentino, allora illegale.
Tamara Bunke, universalmente nota come “Tania la
guerrigliera”, nacque in Argentina il 19 novembre del
1937.
Dopo la caduta del nazismo, la famiglia Bunke andò a vivere nella Repubblica democratica tedesca dove Nadja
ed Erich, entrambi insegnanti, incominciarono con entusiasmo una nuova vita da pionieri in una città appena
sorta, vivendo e lavorando in una scuola ancora in costruzione. Tamara studiò e militò nelle file del Partito socialista unificato tedesco, mantenendo sempre vivi i vincoli che la legavano alla sua patria di nascita. Il suo desiderio di tornare in America Latina per lottare per il riscatto sociale dell’Argentina, la portò come prima tappa a Cuba, dove visse l’esperienza entusiasmante della
prima epoca rivoluzionaria e poi in Bolivia, nelle formazioni internazionaliste latinoamericane della guerriglia guidata dal comandante Ernesto Che Guevara.
Tania (il suo nome di battaglia) cadde in combattimento il 31 agosto 1967. Le sue spoglie mortali sono custodite a Cuba, nel mausoleo di Santa Clara, accanto a quelle del Che e degli altri combattenti della guerriglia boliviana.
Nadja, che aveva sempre condiviso l’impegno rivoluzionario della sua amatissima figlia, si dedicò a tramandarne la memoria, difendendola da ogni tipo di travisamento e calunnia volti ad offuscarla. Partecipò alla
stesura del diario-testimonianza Tania la guerillera inolvidable, che si pubblicò a Cuba nel 1970, e curò le numerose edizioni in lingua tedesca nella Rdt ed ultimamente in Germania. Concesse un’intervista per la nuova edizione in lingua italiana in cui affermava: “Finché
vivrò continuerò a combattere con tutte le mie forze per
difendere l’onore e la dignità di mia figlia. Questa è la
mia battaglia per il rispetto della verità”.
Quello di continuare quest’opera di riscatto della memoria di Tania e di tutti i rivoluzionari e di ricostruzione della verità storica è un impegno che, anche nel ricordo ed in onore di Nadja, tutti i comunisti, ma anche
tutti coloro che lottano per un mondo migliore, di libertà
e di giustizia, sono chiamati a fare proprio.
Adriana Chiaia
41
A PIÙ DI DIECI ANNI DALLA FINE DEL REGIME, IN UN LIBRO DI
Dopo l’apartheid,
Come era possibile giungere alla riconciliazione del
popolo sudafricano, ad un
faticoso ma necessario approdo fra chi aveva imposto per decenni il proprio
potere con la violenza e con
il sangue e chi l’aveva dovuta subire, irriso e piegato sempre, inesorabilmente, ogni qualvolta aveva
tentato un qualsiasi approccio nel tentativo di trovare una soluzione all’apartheid?
Come uscire dalle rovine
fumanti dell’inferno dei
ghetti, dalle profonde ferite dell’animo e del corpo per sperare di ritrovare una dignità comune,
capace di far camminare
un popolo nel suo assieme, neri e bianchi, vittime e carnefici, verso un
domani diverso?
di Franco Giannantoni
Aver fissato nelle Corti penali le responsabilità dei
colpevoli, i famigerati perpetrator, non era sufficiente. Non bastavano le loro
condanne, né lo smascheramento di una politica che
aveva fondato le proprie regole sulla prevaricazione e
sull’uso brutale del potere.
Né avrebbe avuto alcun sen-
so la dimenticanza, lasciare che “i morti seppellissero i morti”.
Occorreva trovare una via
d’uscita diversa, dal profilo originale, una formula
che riscattasse la dignità offesa e schiacciata delle vittime ma, nello stesso tempo,
purificasse, attraverso
un’ammissione ampia e liAnni
cinquanta:
la cerimonia
funebre
per seppellire
le vittime
dell’ennesima
repressione
nel ghetto
nero
di Soweto.
Si aggiunge
un’altra fila
alla lunga
teoria
dei tumuli.
42
DANILO FRANCHI E LAURA MIANI, LA TRAGEDIA DEL SUDAFRICA
Una speciale Commissione per la verità, presieduta dall’arcivescovo
anglicano Desmond Tutu, premio Nobel per la pace, ha ascoltato
dal 1996 al 1998 oltre ventimila persone, aguzzini e vittime,
bianchi e neri, uomini e donne di ogni razza, età e censo,
per ricostruire il sanguinoso passato e per ridare dignità e identità
a generazioni vissute nella violenza e nell’odio
la riconciliazione
beratoria, anche chi, al riparo da ogni possibile conseguenza, aveva massacrato, stuprato, incendiato, distrutto, esaltando la forza
brutale di un’autorità che si
era retta sull’impunità e l’aperta, diffusa illegalità.
Lo snodo più delicato era
evitare di far seguire una catena di possibili ritorsioni
a decenni di un regime che
aveva affondato i suoi artigli nel corpo della popolazione nera, negandone non
solo diritti, vita civile, possibilità di sviluppo ma anche
dignità etnica.
Era indispensabile tener lontano il fantasma dell’uhuru, la prevedibile, tremenda
vendetta dei neri, secondo il
pensiero degli afrikaner, i
discendenti dei boeri, gli
antichi colonizzatori, come
del resto si era manifestata
in forme incontrollabili in
Kenya, Mozambico e
Rhodesia.
La formula per giungere all’approdo di un rapporto
normale che potesse spianare la strada per una rifondazione politica e sociale
dell’intero Sudafrica (“solo assumendoci la responsabilità del nostro passato
- aveva sostenuto in un suo
memorabile intervento l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, Nobel per la pace nel 1984 - potremo impegnarci responsabilmente
per il nostro futuro”), è stato qualcosa di assolutamente
straordinario di cui non vi è
traccia in altra parte del vedeva radicali richieste almondo che pur è cosparsa le parti in lotta, uscite dal
di conflitti etnici laceranti, tunnel della segregazione
apparentemente senza via razziale: i bianchi dovevad’uscita. Il varo di una no ripudiare l’apartheid,
“Commissione per la verità rievocare i crimini come la riconciliazione suda- messi, accettare la parità coi
fricana” (Truth and Recon- neri, il che equivaleva a deciliation Commissione- cretare la fine del potere
TRC), presieboero; ai neri
duta dallo
era richiesto di
stesso Tutu,
rinunciare ad
una sorta di
ogni progetto
gigantesco
di vendetta e
filtro storiodi governare
grafico, attracoi bianchi il
verso il quaPaese uscito
le, senza aldal lungo tracuna remora,
vaglio.
con il sacrifiDiciassette
cio purificaerano i comtore della
missari, di cui
confessione,
cinque donne,
ai fini della
tre religiosi,
concessione
due avvocati,
dell’amnistia,
tre studiosi del
in un’ampia
diritto.
ricostruzione
Differenti le
dei fatti crietnie: due inminali fatti e
diani, due mesubiti, assasticci, due afrisini e vittime
kaner, quattro
- quest’ultime
inglesi e sette
oppresse da
neri, di cui uno
ricordi incanzulu.
cellabili - uoUna storia che
mini di pote- Nelson Mandela.
nel faticoso
re e popolo
dettaglio è
nero, polizia segreta e di- sfuggita in genere ad un apsperati ai margini della so- profondito dibattito.
pravvivenza o confinati nei Pochi hanno conosciuto il
lager di Soweto o di travaglio elaborativo della
Alexandra, hanno riversa- Commissione da quando,
to in migliaia di relazioni, il nel febbraio 1995, fu istiloro vissuto. L’accordo, fis- tuita per legge, ad un anno
sato da regole precise, pre- dalle prime e libere elezio-
ni che videro vittorioso
l’African National Congress, il partito di Nelson
Mandela, reduce quattro anni prima da ventisette anni
di carcerazione; pochi hanno avuto eco degli esiti
istruttori quando, dal febbraio del 1996 all’ottobre
del 1998, circa ventimila
persone hanno rievocato davanti ai commissari le loro
tragedie, puntando ad
un’amnistia pagata con il
prezzo salato della pubblica vergogna.
La verità è che non c’era
stato un vincitore reale al
termine di un percorso che
aveva visto i popoli aborigeni incontrarsi e scontrarsi per oltre due secoli con i
predatori, giunti a più riprese, sull’onda dei poteri
coloniali, in quelle lontane
terre.
Il potere economico era rimasto comunque sempre
saldamente nelle mani dei
bianchi mentre il vincitore
politico era stato il popolo
nero.
Ma gli uni non potevano fare a meno degli altri se si
fosse voluto superare lo
steccato, a meno di far precipitare tutto in un bagno di
sangue, in altre forse più devastanti mattanze.
Ecco allora la Commissione, una vera invenzione,
uno straordinario marchingegno che, liberando l’oppresso, potesse liberare nello stesso tempo anche l’oppressore.
43
A colloquio con Danilo Franchi, coautore con Laura Miani
“La verità non ha colore”
Danilo Franchi, 57 anni, varesino,
consulente editoriale e discografico, sceneggiatore, in uno splendido ed emozionante libro a quattro
mani con la scrittrice Laura Miani
dal titolo La verità non ha colore
(Edizioni Comedit 2000, pp. 270,
euro 14), ha attraversato con rigore e una forte dose di passione
“La lezione che si può
trarre da questa esperienza - osserva con acutezza Danilo Franchi - è
estremamente significativa perché viene da quel
popolo nero brutalizzato per secoli interi. Esso
con la Commissione invita ad andare avanti, a
trovare la strada per costruire qualcosa che non
c’è mai stato. Una civile comune convivenza nel
rispetto delle diverse culture, origini, tradizioni,
speranze”.
Se una esemplare cartina
geografica che apre il libro serve ad indirizzare il
lettore dentro il buco nero
della storia sudafricana,
se una efficace cronologia
storica fissa le tappe attraverso le quali dai colonizzatori-invasori boeri (1652-1780) si arriva
alla politica del cosiddetto sviluppo separato
(1948-apartheid), sono le
testimonianze alla Commissione, le voci autentiche dei protagonisti, dagli aguzzini alle vittime,
ventuno in tutto, scelte per
offrire un ventaglio il più
completo possibile delle
esperienze vissute, che
scuotono la coscienza, rivelando orrore e pietà, efferatezza e indulgenza,
odio e carità.
“Dal giorno in cui, del tutto casualmente, ho conosciuto questa realtà, ne sono stato travolto - spiega
44
questa tragedia, solo lontana per
le migliaia di chilometri che dividono l’Europa dall’estrema Africa,
ma terribilmente a noi vicina per
troppe cupe analogie: basti tornare alle infinite stragi nazifasciste
durante l’occupazione del Reich e
dei fantocci di Salò, non solo sul
territorio nazionale, rimaste per
con emozione Danilo
Franchi - al punto che oggi seguo la vita del libro,
passo per passo, di scuola in scuola, nelle biblioteche civiche, dove riesco
ad andare, sempre a prezzo di grandi fatiche, orgoglioso, come lo si può
essere di fronte alla scoperta di qualcosa di raro.
Le testimonianze sono state per me come la scoperta di pietre preziose. Voci
che vengono da ogni settore della società sudafricana, che spiegano bene
il dramma vissuto lungo il
terribile conflitto dagli anni ‘60 agli anni ‘90”.
La Commissione, strutturata in tre Comitati, quello per la violazione dei diritti umani, quello per
l’amnistia, quello per il
risarcimento e la riabilitazione, non aveva le funzioni di un organo giudicante nel solco dell’affermazione di Mandela che
aveva affermato come “la
Commissione non fa giustizia ma verità”.
“L’atto criminoso doveva
essere stato compiuto per
motivi politici - spiega
Franchi - senza una motivazione forte, sarebbe stato escluso dalla valutazione della Commissione.
Per la estrema delicatezza
che comportavano, i racconti di donne e bambini
sono stati affrontati da
Sezioni speciali. Era il modo perché la testimonian-
ragion di Stato senza colpevoli e
per le vittime senza verità.
Fenomeni, comunque, che non ebbero uno sbocco identico a quello
sudafricano, sol se si pensi allo strumentale richiamo alla “pacificazione” che torna periodicamente
come un ritornello nel nostro dibattito politico-storiografico.
za emergesse dentro i contorni di una realtà interamente vissuta. Solo se tutto fosse uscito alla luce del
sole, la dignità avrebbe potuto essere riconquistata.
Infatti la verità testimoniata di fronte ai commissari ha costituito, per chi
ha trovato la forza di parlare e anche di ascoltare,
la possibilità di riappropiarsi della loro storia personale e più generale. La
verità era lo strumento per
l’amnistia ed il presupposto per la riconciliazione”.
Un’amnistia che non doveva giungere come il frutto di un pentimento, di un
rimorso o di un perdono
che in molti casi è stato
concesso dalle stesse vittime o dai parenti, spontaneamente. Essenziale era
che l’aguzzino (perpetrator) avesse compiuto un interrogatorio pieno, avesse raccontato in ogni particolare il suo delitto, il
che aveva dentro di sé in
modo inevitabile il peso
incalcolabile dell’autopunizione.
Sull’altro fronte, le famiglie delle vittime, hanno
invocato notizie che potessero servire a far sapere come era maturato il delitto, i particolari degli eccidi, i luoghi delle brutalità, dove erano i resti del
caduto per ritrovarli e celebrare un simulacro di funerale.
“Il presidente del Sudafri-
ca Thabo Mbeki - ricorda
Danilo Franchi - l’8 maggio 1996 nel suo discorso
per il varo della nuova
Costituzione, trovò la forza di dire con grande realismo, seppure in una forma che poteva suonare
brutale, che per le strade
del Paese si aggiravano le
vittime di una tragedia secolare, senza più una maschera per poter proteggersi dalla nuda realtà.
Mendicanti, prostitute, drogati, disperati, gente con
la mente sconvolta, alla ricerca delle condizioni per
poter sopravvivere. Mbeki
disse testualmente: ‘Sono
le creature nate dal nostro
immorale ed amorale passato che si aggirano in
mezzo a noi’”.
Una sorta di slogan dalla
forza indelebile per incitare al riscatto morale e
civile e per andare, curate le ferite, con nobiltà
d’intenti finalmente avanti. Ha detto il vescovo Tutu:
“Il Sudafrica ha bisogno
degli afrikaner, degli inglesi, dei coloured, degli
indiani, dei neri. Siamo
fratelli e sorelle di una stessa famiglia. Abbiamo guardato negli occhi la bestia
del passato, abbiamo chiesto ed ottenuto perdono e
abbiamo fatto ammenda.
Possiamo chiudere la porta sul passato non per dimenticarlo ma per impedire che ci imprigioni”.
F.G.
Preambolo alla nuova
costituzione del Sudafrica
Noi, popolo del Sudafrica,
riconosciamo le ingiustizie del nostro passato,
onoriamo chi ha sofferto per la giustizia e la libertà
nel nostro Paese,
rispettiamo chi ha lavorato per la sua costruzione
e sviluppo.
Noi, uniti nella nostra diversità,
crediamo che il Sudafrica deve appartenere
a chi vive.
Noi intendiamo risanare le divisioni del passato
per costruire una società fondata
sui valori di democrazia e di giustizia sociale,
e basata sui fondamentali diritti umani.
Una toccante testimonianza alla Commissione
“Stroncato il sogno di vita della piccola nera Xoliswa”
La signora Theodora Tiyo aveva due figli: Sipho di 26 e
Xoliswa di 11 anni. Il marito era morto in carcere, per malattia, quando la piccola non aveva ancora cinque anni. Il figlio Sipho era attivista del “Black Power” ed era stato costretto ad espatriare.
Bambini come pecore sgozzate
SIGNORA TIYO: Una notte hanno suonato alla porta: erano due poliziotti per dirmi che mio figlio era morto.
“Questione di donne” hanno detto. Stranamente non ci sono stati problemi ad avere il corpo e abbiamo potuto fargli
il funerale. Qualche settimana dopo si sono presentati altri due poliziotti chiedendomi dove fosse mio figlio. “L’ho
seppellito un mese fa”, ho risposto. E loro a dirmi, invece,
che aveva lasciato il paese clandestinamente. A quel punto gli ho detto di farsi confermare la morte di Sipho dalle
pompe funebri oppure, se volevano, potevo mostrargli la ricevuta di pagamento del funerale.
Alcuni mesi dopo la morte del fratello, ritornando da scuola, la piccola Xoliswa fu colpita da una pallottola sparata
della polizia. Alla signora Tiyo venne detto che la bambina si trovava in ospedale e, all’ospedale, che era all’obitorio.
SIGNORA TIYO: All’obitorio mi hanno portata dentro
uno stanzone pieno di cadaveri di bambini ammucchiati
uno sull’altro, come pecore sgozzate. Non riuscivo a trovare
mia figlia... tutti quei corpicini. L’ho trovata dopo più di
un’ora... in un’altra stanza... accanto ad un’altra bambina
della sua stessa età.
Successivamente la signora Tiyo ricevette un avviso di comparizione al processo contro i presunti omicidi di sua figlia, ma il processo non iniziò mai. Si rivolse quindi a diversi avvocati senza risultato. L’ultimo le disse di mettersi l’anima in pace e le diede una banconota da cinque rand.
In seguito sarebbe venuta a sapere che sua figlia si era trovata, per caso, nel mezzo di una sparatoria della polizia.
SIGNORA TIYO: In quel periodo, praticamente ogni giorno, la città era nel caos: nella zona dove passava mia figlia
erano stati incendiati dei negozi e, oltre alla polizia, spesso sparava sui civili anche l’esercito. Avevano ucciso anche
il bambino di una famiglia che conoscevo, i Malize.
Non avendo ricevuto alcuna informazione né dalla polizia
né dal governo, la signora Tiyo chiede alla Commissione che
si indaghi sulla morte di sua figlia. Fa anche presente che
è di salute malferma e che soffre di pesanti disturbi nervosi. Inoltre, riesce a lavorare solo in modo saltuario e, recentemente, ha ricevuto lo sfratto: ho degli amici che a volte mi aiutano ma anche loro devono sopravvivere.
Sognare che cosa fare da grande
Dopo la testimonianza della signora Tiyo, il 27 giugno
1996, la dottoressa Ramashala della Commissione, riunita a Port Elizabeth, ha parole accorate per le sofferenze della testimone e per il destino di molti bambini neri durante
il conflitto.
COMMISSIONE: Quando un bambino nasce, i suoi genitori sognano. Poi, quando un bambino va a scuola inizia a
desiderare di diventare grande. E gli adulti gli chiedono:
“Che cosa farai da grande?”. E lui comincia a sognare di diventare un insegnante, un medico, un attore, un avvocato.
Ma i bambini neri del Sudafrica non hanno mai avuto il coraggio di sognare. Sognare è un aspetto del dormire. Per i
bambini neri dormire è pericoloso persino nella casa dei
loro genitori. Così, in Sudafrica, mentre i bambini degli altri andavano a scuola e sognavano, i bambini neri morivano. Mentre gli altri bambini giocavano per la strada, i bambini neri avevano paura di uscire e persino di guardar fuori dalla finestra di casa o della loro scuola. Abbiamo bisogno di piangere, abbiamo bisogno di celebrare la piccola
Xoliswa e tutti i bambini come lei ai quali è stato stroncato il sogno di una vita futura.
(da Danilo Franchi, Laura Miani, La verità non ha colore, Edizioni Comedit 2000)
45
BIBLIOTECA
Gabriele Nissim, “Il tribunale del bene”
La storia di Moshe Bejski,
all’ombra degli alberi
del suo “Giardino dei giusti”
L’uomo che creò il Giardino
dei giusti si chiama Moshe
Bejski, un ebreo polacco,
reduce dai campi di sterminio, salvato assieme a
centinaia di altri da Oskar
Schindler, l’imprenditore
tedesco ormai notissimo a
tutti grazie al bellissimo
film di Steven Spielberg
Schindler’s List.
All’origine di questa straordinaria istituzione c’è una
legge approvata nel 1953
dal Parlamento israeliano,
che impone allo stato di
onorare i salvatori degli
ebrei. Per dieci anni quella
legge è stata disattesa, finché, proprio il clamore e
l’entusiasmo suscitati dalla storia della “Fabbrica della vita” di Schindler, fatta
conoscere da Bejski, indussero il direttore del
Museo della Shoah, Leon
Kubovi, a proporre di dare
finalmente attuazione a
quella legge. Nacque così,
nell’ambito del memoriale
di Yad Vashem, l’istituzione in ricordo dei martiri e gli
eroi della Shoah, la
“Commissione dei giusti”,
presieduta da Moshe
Landau, il giudice più popolare di Israele, presidente del tribunale che nel 1961
aveva giudicato Adolf
Eichmann, condannandolo
alla pena di morte.
Landau, uomo integerrimo
e giurista intransigente, aveva avuto un percorso diverso da Bejski. Non aveva
conosciuto, per diretta esperienza, gli orrori della
46
Shoah. Bejski, invece, sapeva che cosa voleva dire
concretamente, per averlo
vissuto sulla propria pelle,
incontrare in una strada senza sbocco e senza speranza uno che ti porge una mano, che significa la salvezza. Per lui quell’uomo fu
Schindler. Per altri furono
le persone più diverse, tutte, comunque, che avevano
messo a repentaglio la propria vita per salvare quella
di uno o più ebrei. In
Polonia, dove, peraltro, anche sotto la dominazione
nazista, continuava ad imperversare l’antisemitismo,
ce ne furono almeno 5632,
riconosciuti ufficialmente,
ad ognuno dei quali è stato
assegnato un albero nel
“Giardino dei giusti”, a
Gerusalemme.
Un albero anche per
Schindler, ma solo da quando Bejski successe nella carica di presidente a Landau.
Fra i due, sul punto, c’era
stato un contrasto. Landau,
infatti, riconosceva a
Schindler di avere salvato
tanti ebrei e che dunque gli
era dovuta riconoscenza,
non però fino al punto di
assegnargli il titolo di
Giusto, per via del suo modo di vivere non proprio impeccabile: donnaiolo, imbroglione, fanfarone, spendaccione, bugiardo. Per
Bejskie, invece, tutti i difetti di Schindler erano
niente di fronte al rischio
che aveva corso per salvare da morte sicura tanta gen-
te. Se era vivo lo doveva a
lui e per questo aveva votato la propria vita alla ricerca di tutti i giusti che rischiavano di essere dimenticati dalla storia.
Una medaglia a due facce:
da un lato Simon Wiesenthal, inflessibile cacciatore di criminali nazisti;
dall’altro Moshe Bejski, ricercatore infaticabile dei
giusti. Che, fra loro, erano
molto diversi. Non tutti dalla moralità fuori discussione. C’erano anche prostitute, collaboratori, antisemiti, piccoli profittatori,
persino ufficiali nazisti e
procuratori di Cyklon B. A
tutti Bejski teneva la porta
aperta. Chiunque fosse, uno
che aveva salvato una vita
meritava attenzione e riconoscenza.
A Moshe Bejski e alla sua
vita esemplare Gabriele
Nissim ha dedicato un bellissimo libro. Tanti gli episodi raccontati in questo libro. Il più edificante è quello di un povero ebreo, che,
fuggito da un campo di sterminio, solo e pieno di paura, affamato e malvestito,
sta cercando da giorni, passando le notti sotto i ponti,
una via di salvezza per le
strade di Varsavia. Già molte porte gli sono state sbattute in faccia e quando ormai si sente perduto scorge
un piccolo negozio di orologeria e col coraggio della disperazione entra per
chiedere se hanno bisogno
di lavoro. Il proprietario lo
squadra dalla testa ai piedi, identificandolo come
ebreo, e poi gli chiede che
cosa sa fare. “Mi dia l’orologio più scassato che ha
nel negozio e glielo farò vedere”, dice l’ebreo, che è
un eccellente orefice. Avuto
l’orologio fra le mani, lo
smonta e lo rimonta e lo restituisce in perfetto stato al
padrone del negozio. Il quale, ammirato per la straordinaria professionalità, lo
rassicura, dicendogli che
d’ora in poi non gli mancherà lavoro e che potrà pasUn nuovo
albero
piantato
nel
Giardino
dei giusti.
sare le notti nel retrobottega. L’ebreo trovò così la sua
salvezza in quella botteguccia, restandovi nascosto fino all’arrivo dell’Armata Rossa. Poi emigrò in Australia, a Melbourne, dove aprì un negozio più grande e più bello.
Dopo 40 anni il caso volle
che la figlia del suo benefattore, in visita turistica
nella città australiana, entrasse proprio in quel negozio per farsi riparare un
prezioso orologio che le era
caduto malamente per terra. In breve, l’ebreo capì
che si trattava della figlia
del suo ex padrone polacco e, finalmente, si rivolse
a Bejski per fargli avere il
giusto riconoscimento, beccandosi i più aspri rimproveri per essersi scordato per
tanto tempo di ringraziare la
persona cui doveva la vita.
L’episodio più drammatico è di un tedesco di religione protestante, Kurt
Gerstein, uno dei responsabili del servizio di igiene delle Waffen SS, incaricato di acquisire i prodotti
tossici destinati allo sterminio degli ebrei. Di sentimenti antinazisti, fece sotterrare una grossa fornitura di acido prussico con la
scusa che il materiale si era
deteriorato. Soprattutto
cercò di far circolare all’estero le notizie dello sterminio nelle camere a gas.
Allo scopo ebbe un colloquio con il barone von
Otter, segretario della
Legazione svedese in
Germania, che, dopo averlo ascoltato, fece un rapporto al proprio governo.
Ma il documento restò chiuso in un cassetto fino al termine della guerra perché il
governo di Stoccolma non
volle mettere a rischio le
proprie relazioni difficili
con la Germania.
La stessa cosa, tramite un
amico olandese, Gerstein
la tentò con gli inglesi, che,
però, non gli credettero o
fecero finta di non credergli. Altro tentativo col vescovo protestante Otto
Dibelius, che restò sconvolto, ma gli disse di essere impotente. Ultimo tentativo col nunzio apostolico Cesare Orsenigo, rappresentante del Vaticano a
Berlino, che dopo averlo
ascoltato per qualche minuto, lo cacciò fuori dal suo
ufficio. A Gerstein non restò che continuare nella sua
opera di sabotaggio.
A liberazione avvenuta,
venne arrestato dai francesi e non venne creduto.
Sbattuto in prigione, trattato nel peggiore dei modi,
non sopportando di essere
accusato di orrendi crimini,
si impiccò il 25 luglio del
‘45. Saul Friedlander, uno
dei grandi storici della
Shoah, contestò le accuse.
Leon Poliakov lo difese. La
Commissione dei Giusti,
non più presieduta da
Bejski, dichiarò non accettabile la discussione sul caso.
Esemplare l’opera di Moshe
Bejski, che mai si è stancato di valorizzare le azioni coraggiose dei salvatori. “Certo - egli ha scritto i Giusti non erano in grado
di eliminare i crimini contro l’umanità, dato che intervenivano quando la violenza si era già manifestata. Eppure la loro funzione
era preziosa perché insegnavano ad assumersi una
responsabilità personale in
un mondo in cui il male è
sempre in agguato”.
i.p.
Gabriele Nissim
Il tribunale del bene,
Mondadori,
pagine 336, euro 18,00
Gunter Grass, “Il passo del gambero”
La tragedia dei tedeschi
fuggiti
dai territori orientali
Gunter Grass, premio Nobel
per la letteratura 1999, affronta nel suo ultimo romanzo uno dei temi a lungo volutamente ignorati dalla sinistra tedesca: la tragedia di 12 milioni di persone che fuggirono dai territori orientali per rifugiarsi in occidente di fronte all’avanzata dell’esercito sovietico. Lo scrittore tedesco - noto per le sue coerenti posizioni di sinistra –
costruisce, sullo sfondo di
questa tragedia, un romanzo in cui vengono abilmente
intrecciati eventi realmente accaduti e personaggi di
fantasia.
Appartiene infatti alla realtà
l’affondamento da parte di
un sottomarino sovietico il
30 gennaio 1945 (significativamente il 12° anniversario dell’ascesa al potere di Hitler) della
“Wilhelm Gustloff”, una
nave salpata da Gotenhafen
(l’attuale Gdynia) diretta
verso i porti occidentali della Germania e stipata da
quasi 10.000 profughi, la
maggior parte dei quali persero la vita nelle gelide acque del Mar Baltico.
La nave portava il nome di
un “martire” nazista, ucciso in Svizzera a colpi di rivoltella nel 1936 da un giovane ebreo che interdeva
vendicarsi della politica razzista del nazismo. Anche
questo secondo personaggio realmente esistito entra a far parte del romanzo
di Grass, così come il co-
mandante del sommergibile sovietico dal quale partirono i siluri che affondarono la nave stracolma di
profughi.
Accanto a loro ruotano i
personaggi creati dalla fantasia di Gunter Grass tra i
quali una donna che si trovava a bordo della nave e
che partorì pochi istanti dopo essere stata salvata, suo
figlio che assume quasi controvoglia la parte del narratore, e il figlio di quest’ultimo le cui idee neonaziste nella Germania di
oggi lo portano a commettere un delitto anch’esso di
origine razziale.
Una riflessione coraggiosa
quella di Gunter Grass che
non trascura nessun momento della recente storia
della Germania, dall’affermarsi del nazismo, alla tragedia della guerra, all’occupazione sovietica, alla
divisione della Germania
in due stati contrapposti,
alla riunificazione con il
conseguente disadattamento
di molti abitanti dell’ex Ddr.
Una riflessione che ci aiuta a capire come le conseguenze di quella guerra non
siano facilmente eliminabili anche a più di mezzo
secolo di distanza.
b.e.
Gunter Grass
Il passo del gambero,
Einaudi, euro 15,00
47
BIBLIOTECA
“Il muro di Mallare” di Hans Joachim Lange
Come un tenente
della Wehrmacht ha visto
la Resistenza in Liguria
Hans Joachim Lange era un
giovane tenente della
Wehrmacht quando venne
aggregato, come ufficiale di
collegamento, tra il settembre 1944 e il 25 aprile 1945,
ad un reparto della divisione San Marco che operava,
con scopi prevalentemente
antipartigiani, in Val Bormida, sulle alture che separano la provincia di Savona
dal Piemonte.
A mezzo secolo dalla fine
della guerra, Lange ha raccolto le sue memorie sotto
forma di romanzo in un libro, edito in Italia con il titolo
Il muro di Mallare.
Il risultato è la descrizione,
vista dall’altra parte, della
lotta partigiana in una zona
dove la guerra di Liberazione
ha avuto aspetti molto aspri.
Molto opportunamente in appendice sono raccolte le diverse versioni di alcuni scontri tra partigiani e repubblichini nella zona tratte sia
Diario di guerra della
Divisione San Marco, sia dalle Cronache militari della
Resistenza in Liguria, un’opera fondamentale di Giorgio
Gimelli (il partigiano Gregori).
Anche se sotto forma di romanzo, e quindi opera di fantasia, il libro di Lange descrive in modo abbastanza
dettagliato le azioni della
Divisione San Marco e quelle dei partigiani che operavano nella zona. Si coglie di
continuo nelle pagine del racconto l’isolamento in cui si
trovavano ad operare i mili-
48
ti fascisti a causa della forte
ostilità della popolazione di
quelle montagne schierata
nettamente dalla parte dei
partigiani (“giù a Savona,
fuori della caserma, soli come cani e guardati di sbieco. Le donne ci fuggivano,
ci guardavano con timore e
disprezzo e ci restavano solo le femmine di malaffare”,
ricorda un ex militare della
San Marco).
Vengono descritti eventi realmente accaduti, sia pure modificando il nome dei protagonisti. Si ricorda così il continuo stillicidio di diserzioni da parte di militi della San
Marco che passano con i partigiani. Il più clamoroso è
quello di sei militari che poco dopo l’arrivo della San
Marco in Liguria abbandonano di notte l’esercito di
Salò per aggregarsi ad un distaccamento partigiano.
Poche settimane dopo uno
scendeva dai monti ma veniva casualmente sorpreso
dai fascisti ad Altare. Nel libro di Lange il protagonista
di questa vicenda viene chiamato Merlini, ma il suo nome vero era Giuseppe Nebbia. Aveva lasciato il distaccamento partigiano, nel tentativo di prendere contatto
con altri suoi commilitoni
per convincerli a salire con lui
in montagna.
Riconosciuto da alcuni suoi
ex compagni in un bar,
Giuseppe Nebbia era stato
arrestato, condannato a morte e fucilato a Mallare, mentre le campane della chiesa
suonavano a morto.
Sulle montagne del Savonese
le azioni partigiane erano
molto frequenti. Lange nel
suo libro si sofferma diffusamente su una delle più audaci. È un episodio che viene così riportato dal Diario
di guerra della Divisione San
Marco: “30 gennaio 1945 Circa 20 partigiani, oggi, fermavano sulla strada AltareMallare un’autocorriera civile prelevavano sette militari
del Gruppo Collegamento
che si recavano a Mallare.
L’autocorriera e i civili venivano poi fatti proseguire.
Si è subito disposto per un’operazione di rastrellamento”. Questa azione partigiana viene raccontata in modo
più diffuso da Giorgio
Gimelli nelle sue Cronache
militari della Resistenza in
Liguria. Sempre alla data del
30 gennaio 1945, nel libro
di Gimelli si legge:
“Distaccamento Maccari. Un
posto di blocco volante porta al fermo della corriera
Altare-Mallare sulla quale
vengono catturati un grup-
po della San Marco. Ciò provoca nella stessa giornata
una puntata nemica fino alla zona del Termine. Il
Distaccamento tende una imboscata sulla via del ritorno
e riesce ad accerchiare e a
colpire una grossa pattuglia
di San Marco (sette prigionieri, quattordici morti fra
cui un capitano e un sottufficiale tedesco)”.
Il libro di Hans Joachim
Lange non non ha un alto valore letterario (in Germania
non è mai stato pubblicato)
ma utile ci è sembrata l’iniziativa di tradurre il manoscritto e farlo conoscere in
Italia. Attraverso gli occhi di
questo giovane ufficiale tedesco si può cogliere la sua
sorpresa (e la sua delusione)
di fronte allo sfaldamento
dell’esercito tedesche e alla
fuga dei militari della San
Marco isolati dalla popolazione e incalzati dalla lotta
partigiana.
b.e.
Hans Joachim Lange
Il muro di Mallare
Editoriale Le Stelle
Cengio-Savona
I repubblicani internati a Mauthausen
Nasce tra gli spagnoli
il Comitato
di liberazione del lager
L’intenzione prima degli
autori di Triangolo blu, i
repubblicani spagnoli a
Mauthausen, è spiegare in
che modo i superstiti siano
riusciti a sopravvivere all’inferno del lager, data la
loro difficoltà a rispondere alla domanda non priva di
sottintesi: “Come avete fatto a sopravvivere?”
La loro sopravvivenza sembrava un’infrazione a tutte
le regole. Ora l’interesse
dimostrato dalle nuove generazioni francesi per l’affaire Papon e lo sdegno suscitato dalle rivelazioni delle torture francesi in Algeria
hanno indotto gli editori ad
una ristampa.
La prima edizione del 1969,
era stata molto contrastata;
infatti, essa aveva urtato il
perbenismo dei francesi per
le accuse dei repubblicani
spagnoli di averli trattati
nel febbraio 1939 come une
armée ennemie, negando
loro l’aiuto per raggiungere il territorio ancora sotto
il controllo della Repubblica, rinchiudendoli in
campi d’internamento, dove il trattamento era peggiore che nelle prigioni del
tempo in Germania ed in
Italia.
Altre accuse riguardavano
gli avvenimenti successivi,
quali lo sfruttamento nelle
Compagnies de Travailleurs
Etrangers, l’arruolamento
forzato nei Battaglioni dei
Volontari Stranieri ed infine gli arresti per partecipazione alla Resistenza e
consegna ai tedeschi con
conseguente invio ai campi di sterminio.
Ulteriore motivo di polemica fu il boicottaggio del
libro da parte dei comunisti poiché uno dei testimoni, Artur London, ex combattente delle Brigate internazionali cecoslovacco,
aveva allora pubblicato
l’Aveu (La confessione) in
cui denunciava il trattamento riservato nei paesi
dell’Est a molti interbrigatisti, costretti da ex compagni di lotta in Spagna ad
autodenunciarsi sotto tortura di delitti mai commessi,
tanto che i movimenti di resistenza nei lager venivano
equiparati ad una collaborazione con i nazisti.
Sono questi movimenti il
punto focale del libro, per
gli autori essi danno legittimità alla sopravvivenza
di tanti deportati.
Nel rispetto della successione cronologica degli avvenimenti, la storia del campo viene raccontata attraverso le testimonianze di
venti spagnoli e di tre volontari delle Brigate Internazionali, tutti comunisti, che suddivise e frazionate per ricordare ogni avvenimento importante, ritrovano nell’insieme la loro organicità.
Il racconto ricorda naturalmente la vita durissima,
i lavori pesanti, le violenze gratuite e sadiche dei carcerieri, i massacri, la vigliaccheria di un’infima
parte degli internati, fatti
già oggetto di molte pubblicazioni, ma si differenzia
da altre memorie considerando questi avvenimenti
come causali alla nascita
dell’organizzazione interna di resistenza prima fra
spagnoli, poi con i diversi
gruppi nazionali, fino alla
costituzione del Comitato
internazionale di Resistenza, da cui nascerà l’Apparato militare internazionale,
organismo che guiderà la
liberazione del lager il 5
maggio 1945.
Lo sviluppo del movimento inizia con la conquista
dei posti privilegiati nell’organizzazione interna del
campo da parte degli spagnoli, gli anziani del lager,
che permette ai compagni
inseriti nel sistema concentrazionario di aiutare gli
altri, ottenere informazioni
e sottrarre materiale, che
diverrà utile al momento
della liberazione.
Non sarà tutto facile; occorrerà anzitutto superare
la diffidenza fra le diverse
nazionalità, ogni gruppo ha
qualcosa da rimproverare
all’altro, negli stessi gruppi esistono elementi sfiduciati o non motivati per paura, che solo la forte personalità e la determinazione
politica dei capi riusciranno a superare tanto da creare un blocco omogeneo di
tutti gli internati.
Di particolare interesse alla fine del libro è la raccolta dei documenti stilati dall’assemblea del 16 maggio
1945, degli ex deportati non
ancora rimpatriati, che riportano le forze confluite
nell’Ami, il suo piano d’azione nelle diverse fasi ed i
mezzi a disposizione, la storia dei combattimenti.
È un’opera che tratta nello
specifico un argomento solitamente appena accennato nelle altre memorie, che
pur dando risalto alla volontà organizzativa degli
spagnoli, coinvolge gli altri gruppi nazionali, dimostrando quindi come fu possibile sopravvivere all’inferno ed arrivare alla liberazione del campo da parte
degli stessi internati.
p.r.
Manuel Razola
e Mariano Constante,
Triangle Bleu –
Les républicains
espagnols à Mauthausen,
prefazione di Pierre
Daix, Kiron Edition
du Félin, Parigi 2002
49
BIBLIOTECA
Suggerimenti di lettura
a cura di Franco Giannantoni
Tina Merlin
Menica e le altre - Racconti partigiani
Cierre Edizioni, pp. 106, euro 11,50
Andrea Riccardi
Pio XII e Alcide De Gasperi.
Una storia segreta
Laterza, pp. 98, euro 5
Questi racconti erano già usciti tanti anni fa, nel 1957, perché
la Merlin aveva voluto spiegare con grande modestia che,
seppur non si trattasse di un’opera somma, “il parlare di piccole cose” è comunque importante “perché quelle piccole
cose hanno fatto la grande cosa: la Resistenza”. Visto l’aria
che tira oggi, rileggere questi bozzetti di vita partigiana è
molto utile: rinfresca la memoria e fa ricordare agli immemori quale sia stato il prezzo pagato per la libertà dal fascismo.
Ma c’è un aspetto a cui Tina Merlin, staffetta partigiana della
brigata “7° alpini” del Bellunese e poi giornalista dell’Unità
(fu lei sin dal 1959 a denunciare i rischi della diga del Vajont
prima che nel 1963 cedesse facendo duemila morti) teneva e
che il libro rimarca: il ruolo delle donne nella lotta al nazifascismo “perché da lì noi siamo partite, con coscienza, per
camminare avanti”.
Giorgio Rochat
Italo Balbo.
(Lo squadrista, l’aviatore, il gerarca)
Utet Libreria, pp. 439, euro 18,50
Il libro ha un notevole merito: quello di togliere Italo Balbo,
da una sterminata produzione agiografica che ha finito per
confondere i suoi veri connotati e reinserirlo nella storia del
fascismo con alcune qualità che furono celate dalla maschera
classica dello “squadrista di ferro”. In realtà se fu anche
quello, fu un trascinatore di uomini, un organizzatore capace,
un efficace propagandista. Seppe infine contemperare la sua
affermazione politica con l’accettazione della leadership di
Mussolini. Resta il mistero della morte nel cielo di Tobruk
(giugno 1940) “proprio quando i limiti intrinsechi del regime
- scrive Rochat - venivano alla luce”. Un’opera giocata sul
filo dell’equilibrio critico, dalla stagione ferrarese del manganello (omicidio di don Minzoni) all’epopea delle trasvolate oceaniche che ne fecero un eroe nazionale. Proprio la gloria finì per accecare la corte dei gerarchi, a cominciare da
Ciano, così da alimentare nei suoi confronti i sospetti di un
aperto frondismo (il rifiuto delle leggi razziali e il dissenso
per l’alleanza con la Germania).
50
Tra l’ottobre del 1951 e l’agosto del 1952, Pio XII premette
su De Gasperi per fare un’alleanza con i fascisti e con i
monarchici per battere i comunisti. Ma De Gasperi respinse
l’offerta. Fu un atteggiamento coraggioso perché in quel caso
l’interlocutore era il Papa e il primo ministro un fervente cattolico praticante ma prima di tutto un rigoroso servitore dello
Stato e del suo partito politico nel nome della laicità.
L’operazione condotta con il beneplacito dei piani alti del
Vaticano e della nobiltà nera, esce dalla penna di Andrea
Riccardi, storico cattolico e fondatore della Comunità di
Sant’Egidio che nel suo interessante libretto presenta i verbali
inediti dei due incontri riservati che monsignor Pavan, inviato
del Papa, ebbe con De Gasperi. Incontri falliti. “Non c’è alcuna legge - rispose De Gasperi - che vieti il comunismo. Ce
n’è una invece che punisce i fascisti”.
Peter Gomez, Marco Travaglio
Bravi ragazzi. (La requisitoria Boccassini,
l’autodifesa di Previti e C. Tutte le carte
dei processi Berlusconi-Toghe sporche)
Editori Riuniti, pp. 382, euro 14
È un libro che, se in Italia l’informazione non fosse in
gran parte in ginocchio e nelle mani di Berlusconi, non
sarebbe mai stato scritto. Non ce ne sarebbe stato bisogno. Invece il bisogno è grandissimo e per fortuna ci
sono giornalisti come Travaglio e i suoi collaboratori che
continuano nell’impresa di rendere pubblici gli atti di
alcune scandalose vicende, ora al vaglio della magistratura. In questo caso si tratta dei processi Sme-Ariosto,
Mondadori, Imi-Sir che vedono imputati Berlusconi,
Previti, alcuni avvocati e un gruppetto di giudici dell’ex
“giro Craxi”. Giudici comperati per sistemare le pendenze. I processi sono ricostruiti nelle fasi principali, soprattutto in quelle dove i tentativi di farli saltare è più ricorrente. La requisitoria orale del Pm Ilda Boccassini e la
testimonianza di Stefania Ariosto sono le pietre miliari
per comprendere il livello di malaffare a cui il potere
politico e affaristico era arrivato.
Mario Rigoni Stern
L’ultima partita a carte
Einaudi, pp. 107, euro 9
Un invito della Fondazione Cini di rievocare in pubblico
il percorso letterario di una intera vita, ha permesso a
Rigoni Stern di scrivere un breve, prezioso libro di straordinaria efficacia in cui biografia, storia collettiva e vicende individuali, si intersecano sullo sfondo della seconda
guerra mondiale. I grandi drammi dell’Albania, della
campagna di Russia, dell’8 settembre, della deportazione
nei lager, dall’aridità dei bollettini ufficiali e dei comandi
militari, trovano ampi lampi di tensione umana negli episodi della quotidianità.
Nuto Revelli
Gabriella Gribaudi
Terra bruciata.
(Le stragi naziste sul fronte meridionale)
L’ancora del Mediterraneo, pp. 459, euro 28
Dall’ordine del comando supremo tedesco del 18 settembre
1943 e cioè di distruggere il territorio lungo il quale si avanzava (terra bruciata), prende corpo la prima fase dei grandi
massacri del Reich sul fronte italiano. Il libro affronta la fase
relativa a Napoli e la Campania (successivi volumi studieranno la Toscana e l’Emilia Romagna). Una ricerca che non si
ferma ai combattimenti ma che affronta i temi dei rapporti
con la popolazione, la resistenza delle comunità, le sofferenze
sociali, tutto alla luce di una documentazione inedita.
Bernat Rosner, Frederic C. Tubach
Le due guerre.
(Guerra fascista e guerra partigiana)
Amici nonostante la storia.
(Dalle due sponde dell’Olocausto)
Einaudi, pp. 191, euro 12,50
Feltrinelli, pp. 181, euro 13,50
È una storia scritta dal “basso”, è la voce degli umili che racconta e che ricorda, la voce dei protagonisti, prima la follia di
Mussolini e delle guerre d’aggressione, quella greco-albanese
e quella sul fronte russo, poi la guerra di Liberazione combattuta nelle montagne e nelle strade della città contro gli invasori
nazifascisti.
La guerra del riscatto. Mediatore è Nuto Revelli, formidabile
scrittore, che, negli anni ‘80, “professore a contratto”
all’Università di Torino, svolse una serie di memorabili lezioni
riassunte in un tragitto esaltante, quello da ragazzo fascista a
comandante partigiano. È un libro utile ed appassionante,
diretto soprattutto ai giovani che hanno il dovere di conoscere
cosa accadde dal 1922 sino al crollo del regime.
Singolare, forse unica storia: due figli della tragedia nazista,
Bernat Rosner, internato ad Auschwitz quando aveva solo
dodici anni d’età (ora avvocato in una grande industria statunitense) e Frederic Tubach, coetaneo, per volere del padre soldato di Hitler (oggi professore universitario a Berkeley), si incontrano negli Stati Uniti dove sono emigrati alla fine della guerra, fanno amicizia e poi si inoltrano, ognuno con i propri ricordi, nel tunnel del passato.
Un viaggio doloroso attraverso il film della vita che è alle loro
spalle, lontanissimo ma inestirpabile: la repressione, la fabbrica del consenso, l’alimentazione dell’odio contro gli ebrei, la
perdita della libertà, tutti meccanismi che si ripropongono oggi
in tante parti del mondo.
Giuseppe Mayda
Davide Rodogno
Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945.
(Militari, ebrei e politici
nei lager del terzo Reich)
Il nuovo ordine mediterraneo.
(Le politiche di occupazione dell’Italia
fascista in Europa 1940-1943)
Bollati Boringhieri, pp. 408, euro 28
Bollati Boringhieri, pp. 586, euro 35
È la tragica storia della deportazione razziale, politica e
militare, sotto il fascismo di Salò, di oltre un milione di italiani finito nei lager di Hitler. Una ricostruzione che mancava nella sua organicità alla saggistica dell’ultimo tragico
conflitto e che offre nitida e a tutto campo l’immagine della
politica repressiva di Mussolini, ostaggio del Reich, dall’8
settembre 1943.
La macchina della morte viene esplorata in ogni suo meccanismo ed in ogni sua fase, da quella dell’arresto, alla raccolta nei campi di smistamento di Fossoli e di BolzanoGries, alla partenza verso l’inferno, da cui solo un’estrema
minoranza riuscirà a tornare. Pagine che rivelano con grande chiarezza e con dati documentari la collaborazione attiva
del fascismo repubblicano, fondamentale strumento per il
progetto di morte e che aiutano a capire perché un fenomeno di così vasta portata ebbe modo di raggiungere i suoi
obiettivi.
Tra le pagine rimosse delle guerre fasciste, spicca la “conquista” fra il 1940 ed il 1943, di alcuni territori dell’Europa
mediterranea: Corsica, parte della Francia, Slovenia meridionale, fette della Croazia, la Dalmazia, il Montenegro, la
Grecia, parte del Kossovo, la Macedonia occidentale.
Un’operazione militare condotta da un esercito di 500 mila
uomini male armati e peggio equipaggiati ma non per questo meno brutali degli alleati del Reich. Il risultato è che
pagine da mezzo secolo rimaste nell’ombra, fastidiose da
rimuovere perché rivelatrici di massacri, delitti di gruppo,
rovine, atrocità, sono oggi disponibili. Davide Rodogno, in
un’opera che si presenta come fondamentale per il suo
rigore scientifico ma anche per essere la prima in questo
specifico campo, svela, carte alla mano, il sogno imperiale
di Mussolini, rovescia la leggenda del buon italiano, rivela
la spietatezza della repressione fascista, aiuta ad inoltrarsi
in un tunnel per troppo tempo nascosto.
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Presente anche Oscar Luigi Scalfaro
NELLA SEDE DI
VIA DOGANA A MILANO
Un incontro tra storici
apre la Fondazione
della Memoria
“Fondazione
Memoria
della Deportazione
Biblioteca
Archivio
Aldo Ravelli”
Milano
via Dogana, 3
Telefono
02 87 38 32 40
Fax: 02 87 38 32 46
Orari:
dal lunedì
al venerdì 9 - 17
L’inaugurazione ufficiale non c’è ancora stata ma l’attività della Fondazione Memoria della Deportazione è già
stata avviata. Il 27 Gennaio, Giornata della Memoria, i
dirigenti dell’Aned erano troppo impegnati in manifestazioni esterne (tra le quali il grande corteo di Milano
con comizio in piazza del Duomo), per cui si è preferito rinviare l’inaugurazione ufficiale della sede della
Fondazione. Sarà fatta tra qualche settimana, in occasione della celebrazioni del 25 aprile che di fatto apriranno
le manifestazioni del 60° anniversario della Resistenza.
Nonostante questo rinvio la Fondazione ha già cominciato a funzionare.
La bella e accogliente sede di via Dogana 3 è aperta dal
lunedì al venerdì dalle 9 alle 17 e molti ex deportati e
amici dell’Aned sono già venuti a visitarla. L’archivio e
la biblioteca hanno già accolto i primi studiosi interessati a conoscere la documentazione che la Fondazione mette loro a disposizione.
Si tratta di una documentazione ancora molto incompleta. In molte parti d’Italia – in sezioni Aned o in casa
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di singoli compagni – sono infatti conservati libri e documenti che debbono essere raccolti dalla Fondazione e
messi a disposizioni di chiunque voglia conoscere e approfondire questa pagina drammatica e fondamentale
della storia dell’Italia democratica. È un compito, questo, che ci assorbirà nei prossimi mesi. Intanto, la
Fondazione è stata al centro di una iniziativa di alto valore scientifico.
Nella sede di via Dogana si è infatti riunito, nel corso
dell’intera giornata dell’8 febbraio scorso, il Consiglio
generale dell’Insmli (Istituto nazionale per la storia del
movimento di liberazione in Italia).
Erano presenti il presidente dell’Istituto Oscar Luigi
Scalfaro e i direttori degli oltre sessanta istituti per la
storia della Resistenza che agiscono nelle diverse province
italiane. Sono stati affrontati i problemi che stanno di
fronte a questi centri di cultura democratica e antifascista, in questo difficile momento politico. È stata la giusta occasione per aprire alle forze della cultura la nostra
Fondazione.