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www.deportati.it euro 2,50 TRIANGOLO IT ROSSO Giornale a cura dell’Associazione nazionale ex deportati politici Nuova serie - anno XXII N. 1 Marzo 2003 Sped. in abb. post. Art. 2 com. 20/c legge 662/96 - Filiale di Milano 27 La memoria ritrovata gennaio tra i ragazzi a scuola Da pagina 24 Ciampi a Fossoli visita il campo di concentramento A pagina 3 Ellekappa, la nota disegnatrice prima dell’“Unità” e attualmente di “Repubblica” inizia con questa vignetta la sua collaborazione a “Triangolo Rosso”. DALLE LEGGI RAZZIALI ALLA PERSECUZIONE, AL SACRIFICIO Due famiglie ebree nell’inferno del nazismo. Una sterminata nei lager, l’altra salvata dai partigiani da pagina 6 L’arresto, la deportazione, la morte a Dachau di Calogero Marrone, un eroe dimenticato da pagina 10 1 Questo numero IT Triangolo Rosso Giornale a cura dell’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti Pag Pag Pag Una copia euro 2,50 Abbonamento euro 10,00 Inviare un vaglia a: Aned via Bagutta 12 - 20121 Milano. Tel. 02 76 00 64 49 - Fax 02 76 02 06 37. E - mail: [email protected] Pag Pag Pag Pag Direttore: Gianfranco Maris Ufficio di presidenza dell’Aned Gianfranco Maris (presidente) Bruno Vasari Bianca Paganini Dario Segre Italo Tibaldi Miuccia Gigante Comitato di redazione Giorgio Banali Ennio Elena Bruno Enriotti Franco Giannantoni Ibio Paolucci (coordinatore) Pietro Ramella Redazione di Roma Aldo Pavia Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag Segreteria di redazione Francesca Ceretti Collaborazione editoriale Franco Malaguti Maria Rosa Torri Marco Micci Isabella Cavasino Barbara Regini Numero chiuso in redazione il 15 marzo 2003 Registr. Tribunale di Milano n. 39, del 6 febbraio 1974. Stampato da: Via Picasso, Corbetta - Milano Mettere marchio Guado 2 Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag Pag 3 Ciampi visita il campo di Fossoli 4 Ma per gli ebrei la legge è disuguale. Niente indennizzo per la bambina espulsa da scuola 5 C’è chi in Italia riscrive la storia. Niente vitalizio: non era prigionia ma solo lavoro Le nostre storie 6 Due famiglie ebree nell’inferno del nazismo 10 L’arresto, la deportazione, la morte a Dachau di Calogero Marrone, un eroe dimenticato 16 Gli “schiavi” della Todt. I nazisti chiedevano, i francesi rifornivano di uomini i campi di lavoro 20 Nel museo ebraico di Praga i quattromila disegni di Terezin I nostri ragazzi 24 Calabria. Un libro di storia “scritto” nelle aule delle elementari di Spezzano e Tarsia 26 Calabria. Un gemellaggio per la giornata della memoria: gli alunni protagonisti 28 Toscana. Il viaggio a Mauthausen per “sentire e vedere” coloro che c’erano 29 Cronaca di giornate particolari 30 Varese. “I segni della Memoria” in una mostra creata dai liceali 32 Varese. L’ex deportato così racconta… Nella baracca un grido: “Nein! Nein!” 34 Orbassano. Il lungo percorso storico dell’Istituto Sraffa 35 Siena. “Questo è stato…” Un ex deportato racconta il lager all’Università 36 Indagate in Germania otto SS per la strage di S. Anna di Stazzema Notizie 38 Il revisionismo storico di oggi 38 La “Memoria” celebrata dai circoli sardi della Lombardia I nostri lutti 40 Ferdinando Zidar. Dalla deportazione a Buchenwald, alla primavera di Praga 40 “Petralia”. Alla testa dei suoi partigiani sfilò nella Torino liberata 41 In ricordo da Nadja Bunke 42 Dopo l’apartheid, la riconciliazione 44 Intervista a Danilo Franchi: “La verità non ha colore” 45 “Stroncato il sogno di vita della piccola nera Xoliswa” Biblioteca 46 La storia di Moshe Bejski, all’ombra degli alberi del suo “Giardino dei giusti” 47 La tragedia dei tedeschi fuggiti dai territori orientali 48 Come un tenente alla Wehrmacht ha visto la Resistenza in Liguria 49 Nasce tra gli spagnoli il Comitato di liberazione del lager 51 Un incontro fra storici apre la Fondazione della Memoria ANNUNCIO DI RICERCA Si cercano notizie di Magis (non meglio identificato) che abitava a Torino in via San Secondo 9 nel febbraio del 1941. Arrestato nel marzo del 1944 è stato deportato a Mauthausen e a Gusen, matricola 58951. Il 1° marzo 1945 era ancora in vita. Chiunque ne abbia notizia è pregato di mettersi a contatto con la sezione Aned di Roma. IT CIAMPI VISITA IL CAMPO DI FOSSOLI Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha visitato l’11 marzo il campo di concentramento di Fossoli. Ciampi era accompagnato nella visita, oltre che dalla moglie, dal sindaco di Carpi, da parlamentari e dalle autorità locali. A guidare il Presidente della Repubblica nel campo dove furono rinchiusi centinaia di deportati politici e di ebrei sono stati chiamati Gianfranco Maris, presidente dell’Aned e Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane. Il Presidente della Repubblica ha poi visitato il Museo della deportazione di Carpi. In occasione della visita a Fossoli Maris e Luzzatto hanno rilasciato le seguenti dichiarazioni. Un riconoscimento della necessità della memoria Un grande significato storico La presenza del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel campo di Fossoli, strumento della criminale repressione nazista e fascista degli ebrei e degli oppositori, conferma, da parte del Presidente della Repubblica, la scelta di un itinerario che rappresenta emblematicamente i valori che hanno espresso, nel corso della guerra di liberazione, le donne e gli uomini del nostro popolo, che il Presidente indica e ricorda, con continua fermezza, non soltanto alla nostra comunità nazionale, ma anche alle stesse istituzioni. È un itinerario che passa per Marzabotto, che attraversa tutte le regioni italiane che hanno conosciuto la lotta della Resistenza e i lutti e le lacrime che è costata, che oggi passa per Fossoli, tappa verso lo sterminio nei campi di annientamento nazisti in Europa degli ebrei e degli oppositori politici concentrati in Fossoli, che conobbe anche il criminoso sterminio di 68 oppositori politici, prigionieri nel campo, assassinati il mattino del 12 luglio 1944 al poligono del tiro a segno del Cibeno in Carpi. La presenza del Capo dello Stato italiano è il riconoscimento della necessità che questa memoria sia difesa e non subisca squallide mistificazioni. Gianfranco Maris presidente Aned La prima volta a Fossoli di un Capo dello Stato italiano è un evento di grande significato storico e simbolico. A conferma del valore della “Giornata della Memoria” che esprime la consapevolezza di tutto il popolo italiano e non soltanto di quella sua componente che ricorda le proprie sofferenze, le proprie ferite, i propri martiri, questa visita al Campo di Fossoli, che rappresentava il transito verso l’annientamento nei campi di sterminio, dice agli italiani che in questo posto non si consumava un provvedimento del Governo legittimo del nostro Paese contro una minoranza di pubblici nemici; al contrario: era una parte del Paese che veniva arbitrariamente e crudelmente amputata dalla collettività nazionale, portando alle estreme conseguenze le infami leggi del 1938 per la cosiddetta difesa della razza; era un atto violento compiuto da coloro che si erano posti al servizio di un esercito straniero che occupava con la forza il nostro territorio nazionale; era una manifestazione di odio e brutalità. Come ebrei siamo fieri di essere in quest’occasione a ricevere il Presidente Ciampi, per esprimergli non solo la nostra gratitudine, ma soprattutto la nostra volontà di cittadini italiani di impegnarci, assieme agli altri, nella fedeltà alla democrazia e alla libertà, allora faticosamente riconquistate; perché sia questa qualità di cittadini eguali agli altri cittadini a prevalere sempre, anche in futuro, sulle differenze culturali, religiose, linguistiche, ideologiche, nei rapporti fra gli uomini e nella considerazione delle autorità preposte alla guida del Paese. Amos Luzzatto presidente Unione Comunità ebraiche italiane 3 Una sezione centrale d’appello della Corte dei Conti interpreta a modo suo le leggi a legge è uguale per tutti, ma solo se non sei ebreo e non hai perso anni di scuola a causa delle leggi razziali del 1938. Il professor Rafael Levi, lo ricorda con rabbia, parlando di un’ondata di revisionismo che coinvolge da anni oscuri travet del ministero del Tesoro poi ribattezzato dell’Economia. Oggetto, l’assegno speciale di 760 mila lire che spetta per legge ai cittadini di origine ebraica che dopo il settembre del ‘38 non poterono più frequentare le aule scolastiche. La madre del professor Levi non l’ha mai ottenuto, mentre due sue sorelle lo ricevono grazie a sentenze emesse da due diverse istanze della Corte dei Conti. Anche loro però hanno dovuto fronteggiare i ricorsi ministeriali che negavano un diritto che oggi appare scontato. La magistratura contabile, da parte sua, non ha mai trovato l’accordo sull’argomento, emettendo negli anni sentenze contraddittorie. Ad aumentare la confusione, contribuisce la speciale Commissione istituita presso la presidenza del Consiglio, che da circa un anno ha dato luce verde agli indennizzi per chi ha subito una forma sottile - ma non per questo meno atroce - di persecuzione. “In questo modo - spiega il professor Levi - si sono create almeno quattro categorie di cittadini, a seconda che le loro ragioni siano state accolte o respinte, prima dal ministero e poi dalle diverse sezioni della Corte dei Conti”. L 4 Ma per gli ebrei la legge è disuguale Niente indennizzo per la bambina espulsa da scuola di Gigi Marcucci Le valutazioni che hanno portato al moltiplicarsi dei contenziosi non sono chiare. In generale, gli assegni di benemerenza concessi ogni anno non superano i 2 miliardi e 600 milioni di lire, una parte minima del bilancio dello Stato. I cittadini ebrei che ne hanno diritto sono circa 2000: ammesso e non concesso che tutti facciano richiesta dell’assegno speciale, non sembrano costituire una minaccia per i conti del professor Tremonti. Eppure, entro la prima settimana di marzo, le Sezioni unite della Cassazione dovranno spendere una parola definitiva sul caso di una bambina ebrea che nel settembre del ’38 fu espulsa dalle scuole del Regno. Il suo nome è Nella Padoa, viveva a Bologna e in quel periodo avrebbe dovuto cominciare a frequentare la quarta elementare. Un giorno fu convocata in segreteria, dove le mostrarono il registro. Accanto al suo nome era comparso un timbro: “Razza ebraica”. Le porte della scuola si chiusero per Nella e la sua sorella minore, di due anni più giovane. Nel ‘43, all’arrivo dei tedeschi, le due bambine trovarono rifugio a Modena, presso una famiglia. Tradite da una soffiata, furono bloccate dai fascisti e rinchiuse in carcere in attesa di un treno piombato destinato ai cam- pi di sterminio. Fortunamente partigiani e americani furono più tempestivi dei nazisti e le due sorelle Padoa vennero liberate. Dal 1955 la legge italiana riconosce a entrambe lo stato di perseguitate, ma a questo punto i loro destini, per la giustizia italiana, si separano. La sorella di Nella, trasferitasi a Genova, vede accolte le proprie ragioni dalla locale sezione della Corte dei Conti. L’istanza di Nella, che è rimasta a Bologna, viene respinta da diversa sezione della stessa magistratura. Da qui il ricorso su cui le Sezioni unite si pronunceranno nei prossimi giorni. “Non parlerei di antisemitismo, secondo me ci troviamo di fronte a un tipico esempio di ottusità burocratica”, dice Lucio Pardo, presidente della Comunità ebraica di Bologna. “È evidente che chi ha perso anni di scuola ha subito un danno”, continua Pardo, “io stesso, che sono del ‘36, non potei frequentare l’asilo e i primi tre anni di scuola elementare. Per la mia istruzione non ci furono problemi, perché mia madre era un’insegnante e mio padre un preside. Furono bravissimi e mi fecero vivere l’arrivo dei tedeschi e la fuga in Svizzera come una grande avventura. Quello che è mancato a me, come agli altri bambini ebrei, è stato un periodo fondamentale per la socializzazione. Perché una cosa è imparare a confrontarsi e a difendersi quando si è piccoli, un’altra è farlo a 20 o 30 anni”. del ’38 e un’altra declassa a “campo di lavoro” quello di sterminio di Muldorf è chi proclama che bisogna riscrivere la storia. C’è chi presenta disegni di legge per dire come andranno riscritti i libri di storia. C’è chi, zitto zitto e senza clamori, la storia già la riscrive. Una sezione centrale di appello della Corte dei Conti, per respingere il ricorso di un richiedente l’assegno vitalizio spettante ai deportati nei campi di sterminio, ha ritenuto non sufficiente giudicare in merito alla condizione vissuta in deportazione ma, animata da una irresistibile vocazione per la verità storica, ha voluto pronunciarsi sulla natura, la vera natura, dei KZ. Ecco la sentenza: Muldorf non è un KZ. È, in sostanza, un campo di lavoro, con una direzione del cantiere assegnata alla Todt. Poveri parlamentari tedeschi! Che figura da ignoranti hanno fatto nel ritenere Muldorf, sottocampo di Dachau, un KZ, inserendolo tra i 1640 che con legge federale e pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale tedesca del 1977, hanno riconosciuto essere campi “destinati allo sterminio”. E ancora, sempre nella sentenza: in Muldorf erano impiegati, accanto ai “non volontari”, ossia soggetti precettati, e a lavoratori coatti, anche lavoratori civili liberi. La si smetta, quindi, di parlare di “sterminio”. I signori con su il petto la matricola di Dachau erano “non volontari” precettati al lavoro. Perché, vedete, l’interpre- C’ C’è chi in Italia riscrive la storia Niente vitalizio: non era prigionia ma solo lavoro di Aldo Pavia tazione vera della legge è che: la vigilanza delle SS o della Gestapo non costituisce elemento decisivo per l’attribuzione del beneficio, occorrendo, altresì, la di- mostrazione dell’attribuibilità , “ab initio”, della destinazione ai fini di sterminio del campo. E ancora: la particolare durezza della gestione della prigionia non è idonea ad integrare il requisito di legge, che esige una destinazione del campo ai fini di sterminio. Secondo questa sezione d’appello i campi di concentramento in quegli anni avevano caratteristiche diverse sia per i soggetti che vi erano interessati sia per la conseguente diversa disciplina in guisa che, solo per taluni campi, era ipotizzabile la “soluzione finale programmata”. Ma allora, quali erano questi campi di sterminio? “Il legislatore ha inteso limitare la fruizione del beneficio in questione ai casi in cui tale evento (lo sterminio, ovviamente, ndr) sia stato deliberatamente e programmaticamente attuato, mediante predeterminate esecuzioni di massa”. Nessuna esecuzione di massa (o poche), nessuno sterminio. Ma allora come la mettiamo con i milioni di assassinati “per lavoro”? Semplici “non volontari” precettati. Adesso sapete, amici deportati nei KZ, chi eravate in realtà. Dopo mezzo secolo, finalmente, la Corte dei Conti, dall’alto di una profonda dottrina storica, vi ha e ci ha illuminati. Adesso aspettiamo solo che il ministero del Tesoro vi chieda la restituzione di quanto “indebitamente percepito”. Volutamente non esprimo il mio parere su questa sentenza. Lascio a voi “non volontari” precettati il diritto di esprimervi opportunamente. Spero a voce alta. 5 I SONNINO VENGONO STERMINATI NEI LAGER, I WEILLER SALVATI Le nostre storie Due famiglie ebree nell’inferno del nazismo di Bruno Enriotti Piera Sonnino e Guido Weiller erano due giovani ebrei, ancora ragazzi quando nel 1938 il fascismo promulgò le leggi razziali. Piera aveva 16 anni, Guido 13. Vivevano in due città diverse: a Genova lei, a Milano lui, e non si sono mai conosciuti, eppure le loro vite si incontrano poiché entrambi hanno sofferto negli anni bui del fascismo esperienze simili. Uguale è l’isolamento in cui si vengono a trovare quan- do, ancora ragazzi, si ritrovano improvvisamente espulsi “da tutte le scuole del Regno”, ugualmente drammatica la fuga dopo l’8 settembre 1943, quando dalla discriminazione razziale si passa, con l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica di Salò, agli arresti e alle deportazioni. Un solo avvenimento – decisivo per il futuro di entrambe le famiglie – imprime un segno opposto al destino loro e delle due famiglie: una, la famiglia Sonnino, finirà ad Auschwitz, dove i genitori e i fratelli di Piera verranno sterminati; l’altra, la famiglia Weiller, incontrerà invece i partigiani e riuscirà a salvarsi. Sul retro è scritto “Genova, estate 1926”. È la sola foto rimasta dei sei fratelli Sonnino Paolo, ucciso ad Auschwitz a 27 anni Bice, morta a Braunschweig a 21 anni Maria Luisa, uccisa a Flossenburg a 25 anni Piera Sonnino, che ritornò dai campi e morì a Genova l’11 maggio 1999 Giorgio, che morì ad Auschwitz a 19 anni 6 Roberto, deceduto in luogo e data ignoti DAI PARTIGIANI Chi scrive queste note ha conosciuto personalmente sia Piera Sonnino sia Guido Weiller. Piera era sposata con A.G. Parodi, uno dei migliori giornalisti dell’Unità di Genova che ebbe un ruolo poco conosciuto ma di primo piano nel creare le condizioni per la protesta popolare del luglio ‘60 che portò alla caduta del governo Tambroni; Weiller è diven- tato un esperto commentatore scientifico al tempo del lancio degli Sputnik e della conquista della Luna, pronto a correre in redazione a qualunque ora del giorno o della notte per spiegare con lucidità e competenza ai lettori dell’Unità, sotto il nome di Paolo Sassi, le affascinanti vicende delle conquiste della scienza. Palmiro Togliatti circondato da compagni di partito: Gaetano Parodi, marito di Piera Sonnino, è il secondo da destra. Piera Sonnino a una conferenza per la pace alla fine degli anni Sessanta. La vita sconvolta dalle leggi razziali Piera Sonnino costretta ad abbandonare gli studi Le storie di Piera Sonnino e di Guido Weiller si possono leggere in due recenti pubblicazioni. Sul Diario del mese, la rivista diretta da Enrico Deaglio, è apparso nel numero dello scorso gennaio un manoscritto di Piera (deceduta nel 1999) intitolato La deportazione della mia famiglia; Weiller ha pubblicato il libro autobiografico La bufera – Una famiglia di ebrei milanesi con i partigiani dell’Ossola (Giuntina, 19 euro). È proprio l’elemento messo in rilievo nel titolo di Weiller, l’incontro con i partigiani, che rese tanto diversa la sorte di queste due famigli ebraiche. Piera apparteneva ad una famiglia della media borghesia. Il padre – che vantava una parentela con Sidney Sonnino, per due volte presidente del Paolo, il maggiore, riuscì ad impiegarsi presso le Assicurazioni Generali di Venezia ( nel 1940 si laureerà in Economia e commercio); il secondogenito Roberto lavorava all’Istituto nazionale delle assicurazioni, la prima delle femmine, Maria Luisa, al Monopolio banane, mentre gli altri tre figli minori studiavano ancora: Piera e Bice all’Istituto commerciale, Giorgio al tecnico. Con le leggi razziali – scrive Piera – “un fulmine si è abbattuto sulla nostra casa. Nel giro di pochissimi giorni Paolo, Roberto e Maria Luisa furono licenziati. Giorgio, Bice e io fummo costretti a lasciare le scuole statali e a iscriverci alla scuola ebraica. La sera in cui i miei fratelli annunciarono il loro licenziamento e dinnanzi a noi si aprì la voragine dell’avvenire evitammo di lamentarci perché nessuno potesse udirci, ri- Consiglio tra il 1906 e il 1910 e ministro degli Esteri durante la prima guerra mondiale – era un commerciante con “fortuna alterna e sempre assai scarsa”; la madre, eccellente pianista con un diploma di insegnante, si dedicava alla cura dei sei figli, tre maschi e tre femmine, di cui Piera era la terz’ultima. Migliore la condizione sociale della famiglia Weiller, di cui faceva parte anche un parente che durante la prima guerra mondiale aveva volato su Vienna con D’Annunzio. Il padre era un avvocato milanese abbastanza affermato che “aveva aderito al fascismo più che altro per necessità”; la moglie accudiva i due figli, Silvana e Guido. I Sonnino avevano raggiunto proprio in quegli anni una certa tranquillità economica. manemmo in silenzio a meditare sull’incognita terribile dell’indomani”. Anche i due fratelli Weiller nell’autunno del ‘38 vengono espulsi dalla scuola pubblica, il liceo Parini. Immediatamente si improvvisa una scuola per ragazzi ebrei “la prima settimana – scrive Guido – si utilizzava casa nostra, la seconda casa Luzzatto, la terza casa Fargion. Di quelle settimane ricordo più che i volti i nomi: Morpurgo, Luzzatti, Luzzatto, Bonfiglioli, Fargion, Dreyfus, Castelnuovo…”. Poche settimane dopo la comunità ebraica di Milano dà vita alla Scuola ebraica, l’Istituto Franco da Fano, in via Eupili. Lì Guido studia privatamente per poi dare gli esami, superati col massimo dei voti, in una scuola pubblica, il Liceo scientifico Schiapparelli. Piera Sonnino è invece costretta ad abbandonare gli studi. 7 Una sterminata nei lager, l’altra salvata dai partigiani “Non solo in quel tempo, ma soprattutto negli anni che seguirono – scrive – scoprimmo attorno a noi una solidarietà umana silenziosa ma operante. Le misure antiebraiche suscitavano generalmente nuovi motivi contro la dittatura fascista e nei nostri confronti più simpatia di quanto ne avessimo mai ricevuta”. Paolo e Roberto vengono assunti da due ditte private, Maria Luisa da studi di avvocati e la stessa Piera, nel 1941, va a lavorare alla ditta Saic, occupando il posto di un ebreo tedesco che era stato rinchiuso in un campo di concentramento a Montefiascone. Piera descrive con molta efficacia la solidarietà ricevuta in quegli anni: “Ricordo un povero contadino di Sampierdicanne, nei pressi di Chiavari, dove ci eravamo rifugiati, ripetere che l’umanità non si divide in ebrei e non ebrei ma in ricchi e poveri, tra chi possiede tutto e chi non possiede nulla, tra chi lavora la terra e non ne gode i frutti e chi non la lavora e si appropria della mietitura e della vendemmia”. È in queste condizioni che la famiglia Weiller a Milano e la famiglia Sonnino a Genova vivono gli anni della guerra fino alle drammatiche giornate seguenti l’8 settembre ’43. Sopra: Piera Sonnino, sdraiata, insieme a un’altra sopravvissuta, nella clinica di Cortina d’Ampezzo dove rimase per cinque anni e mezzo dopo la liberazione. Sotto: Piera Sonnino nel 1952. Genova e Binasco i “teatri” delle due storie L’armistizio e la conseguente invasione nazista colgono la famiglia Sonnino a Genova, mentre i Weiller erano sfollati a Binasco, un paese del sud milanese. Entrambi capiscono subito i gravi rischi che corrono gli ebrei con i nazisti in casa e cercano di nascondersi. I Sonnino lasciano Genova a fine settembre e cercano rifugio a Sampierdicanne, nell’entroterra ligure. Tentano ogni strada per riparare in Svizzera, ma non hanno denaro sufficiente per emigrare. La zona del Chiavarese dove si erano rifugiati era in permanenza battuta dalle truppe naziste e dai fascisti, per cui bisognava abbandonarla al più presto. Qualcuno 8 gli parla di un alberghetto a Pietranera di Rovegno (un altro paesino nell’entroterra ligure) e la famiglia Sonnino vi si trasferisce. Ma anche qui il rischio è grande. Proprio riflettendo sul periodo passato in quell’alberghetto, Piera Sonnino fa una considerazione che, certo inconsapevolmente, delinea la sorte diversa che avranno nei mesi futuri la famiglia Sonnino e la famiglia Weiller. “La zona – scrive Piera – era percorsa quasi quotidianamente da reparti tedeschi che si dirigevano verso le montagne. Ad ogni loro apparire abbandonavamo l’albergo o la cucina e ci disperdevamo nei boschi. Un giorno fuggimmo per l’avvicinarsi di un gruppo di uomini in divisa e al nostro ritorno apprendemmo che si trattava di militari inglesi evasi dai campi di prigionia. Nessuno ci disse perché erano transitati da Pietranera. Per oltre un mese vivemmo in una zona controllata in buona parte dai partigiani e lo ignorammo. La scheda Guido Weiller, La bufera (Una famiglia di ebrei milanesi con i partigiani dell’Ossola) Giuntina, pp. 211, euro 12 È la storia per molti aspetti unica della famiglia dell’avvocato Augusto Weiller che, a differenza di molti altri ebrei, subito dopo l’armistizio, decide senza indugi, di lasciare Milano con la famiglia, moglie e due figli, per trasferirsi sulle mon- tagne piemontesi dove si stanno organizzando le prime bande partigiane. Il contatto, sopra Quarna, è con il famoso capitano Filippo Beltrami che accoglie i fuggiaschi nella Squadra “Patrioti Vallestrona” dando loro compiti specifici che saranno rispettati. Guido, il figlio diciottenne, partecipa ad azioni militari, viene investito da un rastrellamento, perde contatto con la famiglia che ritroverà poco prima di varcare il confine con la Svizzera, scampando alla “bufera”. L’arresto dei Sonnino a causa di una spiata La fuga della famiglia Weiller Soltanto al mio ritorno appresi che cosa racchiudessero i monti che avevamo intorno. E appresi anche quali legami ci fossero tra quei monti e i contadini che protessero anche noi con il loro silenzio”. Il mancato incontro con i partigiani ha portato la famiglia Sonnino allo sterminio di Auschwitz; l’incontro con loro ha invece salvato la famiglia Weiller. Non sapendo a chi appoggiarsi, la famiglia Sonnino è costretta a fuggire anche da Rovegno. Sono gli stessi carabinieri ad avvertirli: “Non potete più stare qui, i tedeschi potrebbero prendervi. Dovete allontanarvi.” E i Sonnino fuggono. Tornano a Genova, una conoscente trova loro un rifugio in un palazzo sinistrato senza luce e gas. Poi, grazie all’interessamento di un sacerdote, riescono ad entrare in un appartamento più confortevole. La loro situazione si fa sempre più drammatica. Il 12 ottobre 1944 i militi fascisti li arrestano a causa di una spiata. Li portano alla Casa dello Studente (un edificio tristemente noto quale sede delle Brigate Nere e dove vennero rinchiusi e torturati numerosi antifascisti); poi al carcere di Marassi, quindi nei campi di con- Anche la famiglia Weiller rischiò di fare la stessa tragica fine, ma ciò non avvenne. Lasciata Binasco immediatamente dopo l’8 settembre, i Weiller fuggono in Val d’Ossola con la speranza di raggiungere la Svizzera. Anche la loro è un’odissea, cambiano continuamente paese cercando di sfuggire ai fascisti e ai tedeschi. A Villadossola, quando tutte le speranze di trovare rifugio in Svizzera sembrano svanite, Guido Weiller – allora poco più che adolescente ma già molto intraprendente – decide di prendere contatto con i partigiani. Sa che in quella zona ci sono gli uomini del comandante Beltrami, un architetto milanese salito in montagna per combattere i fascisti. Guido riesce ad identificarlo lo avvicina e direttamente gli dice: “Siamo una famiglia di ebrei. Chiediamo protezione”. E Beltrami gli risponde: “Siete sotto la mia protezione. Io rappresento il governo italiano. I miei uomini sono acquartierati a Damasca. Qualunque cosa vi succeda salite anche voi a Damasca. Se io non ci fossi chiedete del mio vice, il tenente Lino, che sarà avvertito stasera”. Così i Weiller si uniscono ai partigiani e con loro rimarranno diversi mesi. L’intera famiglia si rende utile (Guido si distinguerà aggiustando armi e preparando ordigni centramento, prima a Bolzano infine ad AuschwitzBirkenau. All’arrivo i genitori vengono subito destinati alle camere a gas; il figlio maggiore muore poco dopo. Ad Auschwitz moriranno anche gli altri due fratelli. Delle tre sorelle una morirà a Flossenburg e un’altra nel campo di Braunschweig. Piera sarà l’unica a salvarsi. Quando rientra in Italia non ha più nessuno. Passerà diversi anni in una clinica per recuperare la salute, poi, tornata a Genova, sposa un giornalista dell’Unità, A.G. Parodi e dal loro matrimonio nascono due figlie, Maria Luisa e Bice. Sono loro che dopo la morte dei genitori, hanno conservato la drammatica testimonianza della madre per poi consegnarla alla rivista di Enrico Deaglio. esplosivi, mettendo in mostra tutta la sua abilità tecnica che dopo la guerra farà di lui un ingegnere estroso e geniale). I Weiller rimangono con i partigiani della Val d’Ossola finché un imponente rastrellamento di fascisti e tedeschi li costringe a disperdersi e a mimetizzarsi. Tutta la famiglia è un gravissimo pericolo e i partigiani decidono di farli fuggire in Svizzera. La loro vita è salva. Anche se – come scrive Guido – “mi è rimasto dell’esperienza partigiana un intimo cruccio: quello di aver lasciato la formazione, di avere abbandonato il posto di combattimento, di ‘essere scappato’”. Comunque farà in tempo a tornare in Italia per consegnare a Milano all’aiutante di Luigi Longo, il 28 aprile, la prima serie di immagini giunta in Italia dei campi di sterminio nazisti. 9 UN LIBRO RICORDA LA FIGURA DEL CAPO DELL’UFFICIO ANAGRAFE DI VA Le nostre storie L’arresto, la deportazione, la morte a Dachau di Calogero Marrone, un eroe dimenticato “Un eroe dimenticato” è il titolo di un libro scritto da Franco Giannantoni e Ibio Paolucci, il primo ricercatore storico e autore di numerose opere sulla Resistenza, il secondo giornalista politico e giudiziario dell’Unità e critico d’arte e teatrale; entrambi sono redattori del Triangolo Rosso. Nel libro - di cui pubblichiamo alcuni stralci del primo capitolo - si racconta la storia di Calogero Marrone, capo dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese, assassinato a Dachau per aver aiutato gli ebrei e gli antifascisti durante l’occupazione tedesca. Calogero Marrone veniva dal sud, dalla provincia di Agrigento e si era trasferito a Varese, con la moglie e i quattro figli. Diventato capo dell’ufficio anagrafe del Comune, durante l’occupazione nazista rilascia centinaia e centinaia di documenti d’identità falsi soprattutto ad ebrei, ma anche ad antifascisti, salvando, a prezzo della propria, la loro vita. Tradito da un delatore, Calogero Marrone, viene arrestato dai tedeschi e consegnato alle SS. Torturato, rinchiuso in diverse carceri, viene quindi deportato nel campo di sterminio di Dachau, ultima tappa di un viaggio senza ritorno. La lapide in memoria di Calogero Marrone posta nel luogo dove operò e venne tradito. È stata inaugurata il 1° ottobre 1994, a mezzo secolo dalla tragica morte a Dachau. L’iniziativa fu dell’avvocato Giorgio Cavalieri di Varese, ebreo, del Comune di Varese e dell’Associazione Partigiani d’Italia (Anpi). 10 di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci Via Sempione è una strada di Varese un tempo periferica e oggi senza soluzione di continuità con il centro storico. Durante la guerra si chiamava via Mario Chiesa, in memoria del prefetto della città scomparso in un incidente aereo e, in un piccolo edificio al numero 14 di proprietà del Comune, abitava al secondo e ultimo piano la famiglia di Calogero Marrone, responsabile dell’ufficio anagrafe comunale. Qui due ufficiali tedeschi, uno dei quali parlava l’italiano, si presentarono alle cinque del pomeriggio del 7 gennaio del 1944, per prelevare il capo famiglia, accusato di avere favorito alcuni ebrei, consegnando loro documenti falsi. I militari che facevano parte della V a sezione della Grenzwache, un corpo speciale di polizia della scuola di Innsbruck, suonarono alla porta dell’unico appartamento del secondo piano e quando la signora Giuseppina, moglie di Calogero Marrone, aprì, chiesero con tono aspro e minaccioso dove fosse il marito. Lui era nella stanza accanto e comparve non appena udito il suo nome. Invitato a seguirli, il signor Calogero chiese di prendere una borsa dove aveva ficcato due camicie e un rasoio per la barba, segno che quella “visita” non era per lui inaspettata. Poi disse alla moglie e al figlio sedicenne Domenico, che giaceva a letto per un brutto mal di gola, di stare tranquilli, che tutto si sarebbe risolto positivamente, sperabilmente nella stessa giornata. ARESE NEGLI ANNI DELLE LEGGI RAZZIALI Il manifestino con cui il 15 giugno 1945 i sindacati invitavano i lavoratori ed i cittadini di Varese a sospendere il lavoro per protestare, nel nome di Marrone, Molteni e Vergani, caduti innocenti nei campi di sterminio, contro i ritardi nell’epurazione e nella punizione dei fascisti repubblichini della città e della provincia. Castelletti, ultimo sindaco della città nel ‘24 per libere elezioni e poi podestà, senza incidenti di percorso sino al ‘43, “per l’accertamento delle eventuali responsabilità sull’irregolare rilascio di carte d’identità”. L’allarme di don Locatelli, dunque, era ben motivato e avrebbe dovuto essere preso sul serio. Ma Calogero Marrone, dopo un primo lungo colloquio con il sacerdote e un secondo con la moglie, che l’aveva sollecitato a rifugiarsi in L’aiuto agli ebrei e il tradimento Non c’era spazio per sperare in una soluzione né a breve né a lunga scadenza. Tre giorni prima, infatti, a quella medesima porta aveva suonato il canonico della Basilica di San Vittore don Luigi Locatelli, che, prima ancora di salutare, aveva sollecitato l’amico Calogero a sparire da Varese, senza perdere troppo tempo se non voleva finire nelle mani dei nazisti. Da fonte certa il sacerdote aveva saputo che Marrone era nel loro mirino Svizzera, aveva deciso di restare nella sua casa, intanto perché aveva dato la parola d’onore al podestà fascista che non avrebbe abbandonato Varese restando a sua disposizione per le indagini e non voleva mancare a quell’impegno. Ma soprattutto intendeva rimanere per non esporre i familiari a una inevitabile rappresaglia, in caso di fuga. A provocare la cattura di Marrone era stata una spia, sfortunatamente rimasta anonima e dunque impunita. Ma nessuno di loro si fece illusioni e che una decisione sarebbe stata imminente. L’informazione l’aveva avuta da gente del Comune, dove, fino a qualche giorno prima, Calogero Marrone lavorava in un settore di estrema delicatezza. Dall’ufficio anagrafe, un paio di locali situati lungo il porticato di sinistra di Palazzo Estense, di comodo accesso per i cittadini, Marrone era stato sospeso cautelativamente dal primo giorno del ‘44 da Domenico Che si trattasse di una delazione, tuttavia, non c’erano dubbi. L’accusa era proprio quella di avere rilasciato documenti d’identità contraffatti a due ebrei di Milano, i cui nomi, ovviamente falsi, indicati nei documenti, erano Pietro Del Giudice e Natalina Rosati. La coppia era stata presentata a Marrone da Alfredo Brusa Pasquè, un esponente socialista del Cln varesino, costretto ad un certo momento, quando le probabilità d’essere sorpreso dai nazifascisti erano diventate altissime, a riparare in Svizzera, nella cui abitazione di piazza XX Settembre, frequentata da Marrone, si riunivano con regolarità elementi dell’antifascismo. Quali fossero i loro nomi veri dei due ebrei non è stato possibile accertare. Comunque Marrone aveva fornito fino a quel momento documenti falsi a parecchi ebrei, non solamente a quei due, e anche a non ebrei. 11 L’arresto, la deportazione, la morte a Dachau di Calogero Marrone, un eroe dimenticato Il ricordo di Maris Il senatore Gianfranco Maris, attuale presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) rammenta benissimo di essere stato da lui per ottenere una carta d’identità falsa. Era intestata - ricorda Maris- a tale Gianfranco Lanati, di professione rappresentante di commercio, nato a Caserta nel 1916. Marrone mi aveva invecchiato di cinque anni ma quel documento mi fu molto utile per potermi muovere da un luogo all’altro fino alla mia cattura, che avvenne non molto tempo dopo, verso la fine di gennaio del 1944. Io, quando cadde il fascismo, ero un giovane ufficiale sul fronte jugoslavo. Dopo l’8 settembre gettai la divisa e feci ritorno in Italia, dove mi unii alle formazioni partigiane. Il nome di Marrone me lo fece nell’ottobre o nel novembre ‘43 il compagno Salvatore Di Benedetto, allora dirigente del Pci a Milano e futuro parlamentare della Repubblica. Ma il tramite, quello che mi presentò a Marrone, fu Alfonso Montuoro, siciliano della zona di Agrigento (come Di Benedetto e come il capo dell’ufficio anagrafe di Varese), funzionario di una compagnia assicurativa di Milano, sfollato a Varese. Fu lui che mi accompagnò in Comune e che mi fece incontrare con “ 12 Marrone. Il contatto, però, fu fuggevole, durò pochi minuti, per cui il mio ricordo è molto vago. Se ben rammento lui dette incarico ad uno dei suoi collaboratori di fornirmi la carta d’identità, passandogli un biglietto dove erano indicate le mie false generalità. Di Benedetto, invece, l’avevo conosciuto molto prima, quando avevo 17 anni. Lui, uscito dal confino di Ventotene, passato nella clandestinità, era venuto a Milano. Io allora avevo per compagno di banco, al liceo, Pietro Gaffà, col quale c’era già stato uno scambio di confidenze antifasciste. Fu lui che mi presentò a suo fratello, reduce anch’esso dal confino di Ventotene. Fu quest’ultimo a farmi conoscere Di Benedetto. Con loro mi incontrai parecchie volte. L’intenzione, evidentemente, era quella di reclutarmi ed io, peraltro, non chiedevo di meglio. Infine divenne tutto chiaro e io seppi che tutti e due erano del Pci. In quegli anni conobbi diversi altri comunisti. Uno di questi era Vittorio Bardini, che poi, dopo la Liberazione, divenne uno dei massimi dirigenti del Partito, membro della Direzione e segretario regionale in Toscana”. Salvatore Di Benedetto, dirigente del partito comunista italiano (a sinistra) in compagnia del partigiano Gianfranco Maris. Di Benedetto costituì a Ponte Tresa dopo l’ 8 settembre 1943 una base per il passaggio dei ricercati politici in Svizzera. Sia Di Benedetto che Maris entrarono in contatto a Varese con Calogero Marrone. Maris ottenne un documento d’identità contraffatto che gli permise di muoversi nella clandestinità sino al giorno dell’arresto e della deportazione a Mauthausen. Il Tresa, in genere con una modesta portata d’acqua e spesso a secco, fu uno dei punti privilegiati per tentare di passare oltre frontiera. Nel settembre 1943, Calogero Marrone, pistola alla mano, impedì che un milite fascista fermasse il figlio Salvatore mentre, con altre persone, era impegnato a guadare il torrente. Il ricordo di Cavalieri Un’altra testimonianza dell’opera generosa svolta da Marrone. “ Io - dice l’avvocato Giorgio Cavalieri - ero un ebreo misto, nato nel 1921, figlio di Edgardo Cavalieri, e avevo un fratello, Aldo, del 1924. Eravamo tutti di Varese. Mia madre era ariana. Poco dopo l’8 settembre, per la precisione il 17 settembre, andammo a Ponte Tresa e da lì, passando il torrente Tresa, ci rifugiammo in Svizzera, dove restammo fino al termine della guerra. Con noi c’era anche un tale Jarach, nostro parente. Calogero Marrone lo conobbi nel 1940. Lui, fra l’altro, era arrivato a Varese nel ‘31, su suggerimento di un suo parente, il cavalier Trovato, che l’aveva informato del concorso bandito dal Comune. Quando lo conobbi era appena iniziata l’estate e io da un anno ero iscritto all’Università di Milano. Fui chiamato in Municipio per preparare con altri studenti, sotto la direzione di Marrone, degli elenchi di persone che poi seppi che erano di soldati al fronte. Quegli elenchi servivano per far loro avere dei pacchi-dono. Ritrovai Marrone nel ‘43. Lo ricordo come un uomo buonissimo, generoso. Posso testimoniare che nel settembre del ‘43 alcuni miei parenti, ricercati come ebrei, già compresi nelle liste fornite dal podestà ai tedeschi, riuscirono a lasciare Varese e a raggiungere l’abitato di Mondonico sopra Ganna, dove vissero tranquilli sino alla Liberazione. Si trattava dei miei cugini Laura e Ferruccio Pizzo di 17 e di 23 anni, della loro madre e mia zia Emilia Cavalieri di 50 anni, nonché di mia nonna Paola Carpi Cavalieri di 76 anni. Tutti loro vissero senza che nessuno li disturbasse, avendo documenti falsi ma sicuri, forniti da Marrone. Non fosse stato così l’arrivo di quattro estranei in un piccolo paese di cento abitanti sarebbe stato sicuramente notato. Ho anche memoria di un altro ebreo polacco, tale Szia Amsterdam, commerciante di pellicce, che sopravvisse a Valle Olona, alle porte di Varese, con la moglie, grazie ai documenti certamente falsi”. Poligono di Varese. Il tiro con la pistola olimpica era l’hobby di Marrone. Il tempo libero lo trascorreva infatti fra millimetrici centri e buone letture. Il fallimento di un progetto partigiano Arrestato dai tedeschi, sottratto sin dalle prime battute alla giurisdizione fascista che non si occuperà mai del suo “caso”, Calogero Marrone venne portato nel carcere giudiziario dei Miogni che si trovava poco lontano dalla sua abitazione, tanto è vero - come racconta il figlio Domenico, che risiede tuttora a Varese - “che dalla terrazza di via Mario Chiesa, i familiari potevano vedere il loro congiunto, durante l’ora d’aria”. Per gli interrogatori il detenuto veniva tradotto poco distante, a circa un chilometro, nella “villa Concordia” di proprietà Zanoletti, in via Solferino 6, sede del co- mando tedesco della Guardia di frontiera. In quel carcere Marrone rimase fino al 26 gennaio 1944. La decisione di trasferire improvvisamente il detenuto da Varese a Como aveva avuto ragioni molto serie. Era infatti trapelata la notizia che un nucleo partigiano della 121 a brigata d’assalto Garibaldi “Gastone Sozzi” avesse allo studio da qualche giorno un piano per tentare di liberare Calogero Marrone non appena la vettura germanica che lo trasferiva ogni mattina dal carcere giudiziario dei Miogni alla sede del comando tedesco per gli interrogatori, fosse apparsa 13 L’arresto, la deportazione, la morte a Dachau di Calogero Marrone, un eroe dimenticato La pagina 76 del Registro dell’ufficio di matricola del carcere di San Donnino di Como. Accanto alla scheda di Calogero Marrone, redatta il 25 gennaio 1944, giorno del suo trasferimento da Varese, l’ordine di scarcerazione del Comando SS del 20 luglio 1944 che, per motivi sconosciuti, non fu eseguito. Si può notare la firma di Marrone per presa visione. nella sede stradale. Il progetto partigiano, dopo alcune discussioni, era rientrato ma i timori che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa al prezioso imputato, l’uomo che conosceva tutti i segreti per aiutare gli ebrei, avevano consigliato il commissario Werner Knop, responsabile della zona di frontiera, un cane mastino gettato sui confini a braccare coloro che in quelle giornate guardavano alla Svizzera come ad un miraggio, a dover spostare Calogero Marrone, già duramente provato dalla detenzione, nella vicina Como. “Da Sant’Antonio”. Con queste parole, l’ingegner Camillo Lucchina, presidente del Comitato di Liberazione nazionale di Varese, soleva presentarsi alla fine di ogni mese in casa Marrone per consegnare una somma di denaro alla famiglia rimasta senza mezzi. In questa inedita fotografia del 23 luglio 1945, Camillo Lucchina (l’uomo in primo piano senza capelli) è alla spalle di Charles Poletti, il governatore alleato della Lombardia, giunto a Varese per ricevere la cittadinanza onoraria. Poletti, è morto nell’estate 2002 in Florida a 99 anni. Dal carcere di Como a San Vittore a Milano Il passaggio a Bolzano-Gries anticamera della Germania A Como, nel carcere di San Donnino, Marrone rimase fino a giugno. La successiva tappa fu a San Vittore, a Milano, nel VI° raggio, quello dei politici, direttamente controllato dai nazisti che per interrogarlo lo trasferivano ogni giorno all’Hotel Regina, sede del Comando SS. Qui restò fino al 23 settembre e, fra le altre cose, svolse pure la funzione di bibliotecario. Nel suo libro di memorie padre Giannantonio Agosti ricorda: “Io fui destinato alla biblioteca col compito di tenere in ordine i libri e ripararli quando occorresse e distribuirli a chi li desiderava, portandoli io stesso ai detenuti isolati degli altri raggi. (…). Vi trovai già addetti tre Marrone viene trasferito a Bolzano-Gries, nel Blocco D, Polizeiliches Durchgangslager. Dal nuovo luogo di detenzione scrive il 23 settembre: “Ed eccomi alla nuova residenza sempre in ottima salute e morale alto. Trovomi in un campo di concentramento di prigionieri politici ove non manca l’aria dei monti respirando a pieni polmoni (..) C’è il problema degli indumenti di lana, ma pazienza, saprò adattarmi (..) Tutto mi basta e so assuefarmi ad ogni sorta di lavoro. Tornerò con i calli che sono onore per l’uomo. A noi ci è dato scrivere due volte al mese e possiamo ricevere senza limitazioni. Scrivetemi 14 autentiche personalità: il generale Zambon, aiutante di campo del principe ereditario, il generale Robolotti, comandante dei bersaglieri e l’avvocato Frezzati. In seguito vennero sostituiti dal colonnello Rossi, addetto alla famiglia reale, dal colonnello Ratti, attualmente generale comandante di divisione, e dal signor Marrone, impiegato del Comune di Varese”18. Dopo San Vittore, Marrone fu portato nel lager di Bolzano-Gries, dove restò quasi certamente sino al 5 ottobre. Poi l’ultima tappa, il campo di sterminio di Dachau, dovè morì presumibilmente il 15 febbraio del ‘45 di tifo petecchiale. quindi per illudermi di avervi più vicini”. La realtà, invece, sarà del tutto diversa. Lui scriverà ancora sei lettere durante la sua permanenza a Bolzano, ma non riceverà neppure una riga dai suoi cari, che, naturalmente, di lettere gliene scrissero parecchie. L’ultima lettera da Bolzano è del 5 ottobre. “Miei amati, oggi si doveva proseguire la Via Crucis ma è stata sospesa la partenza a causa di forte pillolamento proprio a poca distanza da noi”. Poi in cima alla lettera, prima di chiuderla scrive: “Ore 12 siamo sempre in attesa di partire”. E ancora l’angoscia di non avere ricevuto nulla dai suoi congiunti: “Mi duole non ✔ Una via in memoria di Calogero Marrone? Il sindaco tace e sfida la città poco non avere vostre notizie e sa Dio quando potrò averne poiché quella non sarà residenza fissa dovendo ancora proseguire. Proprio una Via Crucis. Speriamo di non arrivare al Golgota e passare alla resurrezione”. Poi, di seguito, parole di conforto: “Sono stato fortemente raffreddato, ma oggi mi sento un po’ bene. Non impressionatevi. Vi raccomando di farvi sempre forza e coraggio nella fiducia di riabbracciarci al più presto. Ma…..”. Proprio non ce la fa ad essere sereno e ottimista. Quel ma, seguito da cinque puntini, è indicativo di uno stato d’animo lacerante. E ancora, rivolgendosi alla moglie: “Il pacco, che certamente avrai spedito, sarà ritirato da un mio amico che rimane al campo, per ridarmelo - se possibile - alla fine”. Colme di disperazione le ultime note: “Vorrei trattenermi con voi, miei cari, a lungo, ma è meglio sospendere nella tema di rammollirmi il cuore. Come sento il bisogno di un vostro conforto! Ma pazienza. Coraggio e fortezza da ambo le parti”. Non spedisce la lettera, la tiene con sé ancora un po’. C’è un’aggiunta, difatti, in cui dice che “ieri” aveva preavvisato che sarebbe partito per Merano: “Beh! è stata sospesa la partenza, ma non è escluso che si partirà, essendo questo un campo di transito”. Torna ancora sul tema degli indumenti di lana, rilevandone l’inutilità, giacché an- che se arrivassero i tedeschi non si sarebbero certo occupati di inoltrarli. Epperò la preoccupazione è forte e, dunque, “purtroppo debbo parlarne poiché qui comincia a fare freddo non poco. I monti oggi sono coperti di neve ed il frescolino ci carezza. Ed allora tentiamo e nel pericolo di smarrimento metti roba vecchia e rattoppata. Per la spedizione cerca, anzi per guadagnare tempo, spedisci da Milano. Consigliati con don Bicchierai, parroco del carcere”. Infine, dopo altre considerazioni, le ultime parole: “La mia salute - ripeto è ottima e lo spirito alto, sempre pronto a sopportare qualsiasi disagio. Bacioni forti forti e ardenti. Calogero”. Non ci saranno più parole. La successiva stazione della Via Crucis non sarà Merano. È Dachau, l’orrendo campo di sterminio. Da BolzanoGries Calogero Marrone parte con 518 compagni di viaggio, su un treno interminabile, proprio quel 5 ottobre, quasi certamente nel pomeriggio, una volta terminato il bombardamento. Il “transport” per la ferrea burocrazia del Terzo Reich è il n. 90. Raggiunge l’inferno il 9 ottobre 1944. Quattro giorni accatastati sui vagoni-bestiame in attesa della “soluzione finale” che arriverà per stenti, malattie, violenze, esecuzioni sommarie. Di quel viaggio torneranno in trenta e Calogero Marrone non sarà fra questi. La Varese razzista e fascista si è riproposta, come spesso le capita, all’improvviso, scossa questa volta da una circostanza che non si materializzava in una partita di calcio o di basket, classici siti della più becera provocazione, ma nella richiesta civile e motivata di dedicare una via, una piazza o un edificio pubblico, alla memoria di Calogero Marrone, il capo dell’ufficio anagrafe del Comune, arrestato dai tedeschi, su mandato fascista, nel gennaio 1944 e assassinato nel campo di sterminio di Dachau nel febbraio 1945. La doverosa proposta era stata avanzata già due anni fa dall’Aned, dai partiti politici dei Democratici di Sinistra, della Rifondazione Comunista e ora da tutta l’opposizione alla giunta di centro-destra, Margherita e “Varese Città”, il gruppo dell’ex sindaco leghista Fassa, compresi. Bene, anzi male. Se il sindaco leghista-doc Aldo Fumagalli, preside liceale in aspettativa, ha fatto finta di niente come spesso gli accade, evitando di dare una risposta a chi lo aveva “interrogato”, dai consiglieri comunali ai semplici cittadini, sfidando la decenza e dimostrando che il rispetto civico non è fra i suoi attributi migliori, di peggio hanno fatto coloro che, accettando di partecipare ad un referendum del giornale telematico Varese News (“è giusto intitolare una via a Marrone?) si sono sbizzarriti in una sequela di insulti, provocazioni, richiami all’ideologia nazifascista da far tremare i polsi. Fa impressione ma è il caso di proporre qualche esempio. “Marrone? ma con quel cognome terrone cosa c’entra con Varese?” oppure “Facciamogli la via ma al posto del suo nome scriviamo il numero che aveva tatuato sul braccio, eh, eh, eh…” oppure “Smettiamola con questi nomi di infami”. Fermarsi qui è opportuno, e per rispetto al caduto e per non fare da cassa di risonanza a queste follie. Ebbene, neppure davanti a questo monumento all’imbecillità e al dileggio prolungato, il sindaco Fumagalli che passerà alla storia per aver ripescato dalle cantine il monumento ad Umberto 1°, il re sanguinario di Bava Beccaris e di Adua, e per aver disegnato coi fiori il sole che ride nella piazza principale della città, ha ritenuto di aprire bocca. Non solo non ha detto niente circa l’eventualità di intitolare una via al povero Marrone (celebrato, guarda caso, con spiegamento di spazio proprio da la Padania, come un eroe risorgimentale, perché, ha spiegato il foglio leghista, “nonno della moglie di Bossi”!) ma non ha ritenuto di strigliare chi ha oltraggiato la memoria di un uomo del Sud, caduto in un lager per salvare la vita a tanti altri italiai, ebrei e antifascisti. Un silenzio pilatesco che pare richiamare, per impressionante ed oscura analogia, quello del podestà Castelletti, che sessant’anni fa, ordinò al dipendente Calogero Marrone, tradito mentre consegnava carte d’identità a uomini braccati, di restare a disposizione per lo sviluppo delle indagini. Marrone obbedì, fiducioso che la faccenda si risolvesse, ma a casa sua, circondato dalla moglie e dai quattro figli, arrivarono i tedeschi! (f.g.) 15 BEN 650 MILA FRANCESI MANDATI A LAVORARE NEI CAMPI DI CONCE Le nostre storie Gli “schiavi” della Todt. I nazisti chiedevano, i francesi rifornivano di uomini i campi di lavoro di Pietro Ramella Assieme all’inumano progetto dei campi di sterminio, i nazisti programmarono lo sfruttamento come forza lavoro di oltre 7.000.000 di stranieri prelevati da tutti i paesi europei occupati per le esigenze della loro economia di guerra, compresi i militari fatti prigionieri nel corso delle operazioni di guerra, in particolare polacchi, francesi, olandesi, belgi, norvegesi. I russi non furono mai considerati lavoratori ma semplicemente schiavi. Qualificandolo come “crimine di guerra, crimine contro l’umanità”, la più alta giurisdizione internazionale, il Tribunale militare internazionale di Norimberga costituito per il processo ai grandi criminali di guerra, definì tale programma “la più grande e la più terribile impresa di schiavitù che si sia mai vista nella storia”. Poiché non è possibile nel breve contesto di un articolo ricordare vicende che interessarono tutta l’Europa, qui ci si limita a quanto accadde in Francia dove fu lo stesso governo nazionale che volle gestire lo sfruttamento dei propri cittadini. Un milione e mezzo di francesi in mano tedesca All’atto dell’armistizio con la Germania del 22 giugno 1940 non fu sollevato, da parte francese, il problema del milione e mezzo di prigionieri di guerra, che si trovavano in mani tedesche, fu convenuto che sarebbero stati liberati con la firma del trattato di pace. La norma non aveva suscitato particolari eccezioni per- 16 ché, secondo Pétain, la Gran Bretagna sarebbe stata sconfitta nel giro di poche settimane, la guerra sarebbe finita ed i prigionieri francesi sarebbero ritornati a casa. Ma le cose andarono diversamente: l’Inghilterra resistette, combatté e vinse la battaglia aerea che avrebbe dovuto prima fiaccarne il morale e poi favorire l’in- vasione dell’isola, mentre il generale De Gaulle, superata la diffidenza britannica, riusciva ad aggregare attorno alla sua persona la Francia che non si riconosceva vinta. L’anno seguente fu decisivo per le sorti del conflitto, infatti, Hitler il 22 giugno iniziò l’invasione dell’Urss e il 7 dicembre il Giappone attaccò gli Stati Uniti dando così al conflitto un carattere di guerra totale che allontanava ogni speranza di pace, procrastinando il ritorno a casa dei prigionieri. La Germania, duramente impegnata sul fronte dell’Est e nel mantenere il controllo dei paesi occupati, dove i movimenti di resistenza diventavano sempre più attivi, fu costretta a chiamare sotto le armi i tedeschi che fino ad allora per necessità legate all’industria bellica erano stati esonerati dal servizio militare, ma per: - mantenere gli elevati ritmi di produzione dell’economia di guerra in Germania, - consentire all’Organizzazione Todt di portare a termine il Vallo Atlantico, sistema di fortificazioni atte a contrastare un eventuale sbarco alleato sulle coste francesi e di supportare le installazioni militari (riparazioni d’aerodromi, porti, linee ferroviarie, strade, ecc. danneggiati dai bombardamenti aerei), ricorse al reclutamento forzoso di lavoratori dai paesi europei occupati. L’Organizzazione Todt prendeva il nome dell’ingegnere tedesco che l’aveva creata nel 1933 per combattere la disoccupazione in Germania. Aveva dapprima costruito grandi opere pubbliche (rete d’autostrade), poi la linea di fortificazioni Sigfrido sul confine francese, ora aveva il compito di innalzare il cosiddetto Vallo Atlantico, opera difensiva che partendo dai Paesi Bassi arrivava fino al confine con la Spagna sull’Oceano Atlantico. Comprendeva oltre a trincee, fortini, installazioni di batterie d’artiglieria anche basi per sottomarini che operavano nell’Atlantico contro i convogli provenienti dall’America diretti in Inghilterra. La Germania era diventata un’immensa fabbrica che impiegava tra tedeschi e stranieri circa 40 milioni di persone nello sforzo bellico, senza considerare i deportati nei campi di sterminio, il cui utilizzo era relativamente breve per le disuma- NTRAMENTO IN GERMANIA: PER TRE QUARTI NON CI FU RITORNO La targa sulla facciata del deposito di Brandenburgo a ricordo di undici lavoratori francesi deportati e decapitati il 13 settembre 1944. ne condizioni in cui erano costretti a vivere. La razzia di mano d’opera organizzata dai tedeschi in tutta Europa toccò anche la Francia di Vichy, ma il governo di Pétain e Laval non volendo abdicare alla sua sovranità nazionale, il 16 giugno 1942 stipulò con il gauleiter Sauckel, il negrerio d’Europa, un accordo di scambio, la Relève, che prevedeva il rimpatrio di un prigioniero di guerra ogni tre lavoratori inviati in Germania. L’Etat Français si impegnava a fornire entro fine anno 250.000 lavoratori (di cui 150.000 specializzati) ai tedeschi, ma voleva farlo con proprie leggi. Fu emanata la legge 4.9.1942 che stabiliva: “Tutte le persone di sesso maschile di più di 18 anni e meno di 50 e tutte le persone di sesso femminile di più di 21 anni e meno di 35 possono essere assoggettate ad effettuare tutti i lavori che il governo giudicherà utili nell’interesse della Nazione.” Oggetto: Assegnazione al Servizio di Lavoro Obbligatorio «Ho l’onore di informarvi che la Commissione francotedesca, incaricata di assegnare i giovani designati per il S.T.O., vi ha designato per andare a lavorare nell’Organizzazione Todt in Germania. Di conseguenza, secondo le istruzioni della Feldkommandantur, ho il piacere di invitarvi a presentarvi all’Agenzia di Collocamento tedesca, via..... il............, alle ore....., per prendere conoscenza delle condizioni di lavoro oltre che della data e dell’ora di partenza. Vi preciso che la mancata esecuzione da parte vostra di quest’ordine d’assegnazione è soggetta alle pene previste dalla legge 15 febbraio 1943». Il “Service du Travail Obligatoire”... …esteso agli uomini dai 16 ai 60 e le donne dai 18 ai 45 Malgrado una intensa campagna propagandistica per radio, sulla stampa e con manifesti rivolta ad operai, giovani e anche donne per convincerli che il lavoro volontario in Germania era necessario all’avvenire della Francia, i risultati furono mediocri. Neppure l’appello ad arruolarsi per permettere la liberazione dei prigionieri di guerra ebbe effetto: solo 163.726 francesi risposero all’appello di Pétain. Nel gennaio 1943 Sauckel richiese 500.000 lavoratori, di cui la metà da mandare in Germania, per cui visti i de- Quando nel giugno 1943 fu avanzata da parte tedesca la richiesta di altri 220.000 lavoratori, il clima generale era cambiato, quelli tornati in permesso dalla Germania avevano raccontato che la vita era tutt’altro che idilliaca, come la propaganda la decantava, il salario era molto basso perché decurtato di ogni spesa (vitto, alloggio,…) le sistemazioni pessime, l’orario di lavoro pesante infine il pericolo rappresentato dai bombardamenti alleati sempre più frequenti e micidiali. Per tutto ciò molti dei rientrati decisero di non ripartire. ludenti risultati della precedente operazione su base volontaria, il governo francese istituì con legge 16 febbraio 1943, il Service du Travail Obligatoire - STO che dal settembre fu esteso anche alle donne ed ordinò la mobilitazione delle classi 1920, 1921, 1922. Ora i giovani francesi diventavano coscritti soggetti ad una semplice chiamata riprodotta, nel riquadro qui sopra. Il reclutamento forzato ottenne i risultati prefissati, mentre la propaganda governativa esaltava gli alti salari, il buon vitto, la sistemazione confortevole, ecc. All’ultima chiamata rispose appena il 60% dei reclutati, tanto che Sauckel nel gennaio 1944 avanzò una nuova richiesta di 855.000 elementi. Per far fronte a ciò il governo emanò la legge 1° febbraio 1944 in cui venivano ampliate le classi di requisizione comprendendovi gli uomini dai 16 ai 60 anni e le donne senza figli dai 18 ai 45 anni. Le autorità amministrative francesi si sforzarono in tutti i modi di ostacolare le richieste tedesche che disorganizzavano la vita sociale, pregiudicavano la produ- 17 Gli “schiavi” della Todt. I nazisti chiedevano, i francesi rifornivano di uomini i campi di lavoro zione industriale, mettevano a rischio l’agricoltura ma soprattutto mandavano dei giovani francesi incontro ad un destino pieno di pericoli. I medici cercarono di esonerare quanti più potevano, molti furono arruolati nei corpi esentati dalla chiamata come polizia, vigili del fuoco, ferrovie o anche nella Todt, in quanto almeno lavoravano in territorio francese. Molti s’iscrissero all’Università, altri s’impiegarono in fattorie agricole, o anche in miniere... o si arruolarono nel servizio di sorveglianza di strade, ponti e ferrovie, per scongiurare eventuali sabotaggi da parte dei partigiani. Tutti questi esoneri, anche se corredati da un crisma di regolarità, ir- ritarono le autorità d’occupazione che aumentarono la pressione sul governo francese, quasi ormai privo d’ogni autorità, dopo che i tedeschi avevano occupato, in seguito agli sbarchi americani nel Nord Africa nel novembre 1942, anche la zona libera e dopo l’8 settembre 1943 la parte della Francia prima controllata dagli italiani. Le cattive notizie, che filtravano attraverso la censura, circa la pericolosità della vita nel Reich e la propaganda della radio inglese e dei giornali clandestini, che ripetevano slogan quali: «Un uomo che parte è un ostaggio nelle mani del nemico, un uomo nel maquis è un soldato contro il nemico. La figura dei “refractaires” Se non volete subire angherie né morire sotto le bombe inglesi non partite per la Germania», indusse la maggior parte dei richiamati a non rispondere alle convocazioni ed a darsi alla macchia, tanto che Sauckel venne definito il miglior reclutatore della Resistenza. Nacque la figura del réfractaire, cioè di chi non rispondeva alla precettazione; sui treni in partenza per la Germania diminuì sempre più il numero dei volontaires mentre aumentava esponenzialmente quello dei requis, cioè di quelli obbligati con la forza a partire. La repressione tedesca contro i refractaires fu come sempre dura e non fece che accentuare l’ostilità della popolazione nei confronti dell’occupante e dei collaborazionisti. Vi furono manifestazioni di protesta alla partenza dei treni per la Germania, le lacrime dei familiari, i canti della Marsigliese e dell’Internazionale, i pugni levati, le scritte con il gesso sulle porte dei vagoni: Laval assassino, Laval al muro, viva De Gaulle. A Montlucon i precettati fuggirono dal treno, protetti dalla folla e dai ferrovieri che ne avevano ritardata la partenza. Il Monumento di Grossbeeren eretto presso la fossa comune dell’Arbeitsstraflager dove furono gettati i cadaveri di oltre 800 lavoratori deportati. 18 A Lione nel marzo 1943 le proteste furono così violente che la polizia vietò l’accesso alla stazione dei familiari. La misura fu presto generalizzata, infatti, il ministero degli Interni inviò a tutti i prefetti un telegramma che prescriveva: «Vietare accesso stazioni e luoghi limitrofi al pubblico e alle famiglie al momento partenza o passaggio treni scambio». Dei circa 650.000 i francesi mandati in Germania, 60.000 non tornarono, tre quarti morirono vittime dei bombardamenti alleati, per denutrizione e fatica, 15.000 furono fucilati, impiccati, decapitati per aver sabotato la produzione o appoggiato la Resistenza. Alla fine della guerra i reduci dai campi si unirono in un’associazione denominata Fédération nationale des déportés du travail, FNDT, che divenne nel 1978 la Fédération nationale des victimes et rescapés des camps nazis du travail forcé in quanto la Corte di Cassazione stabilì che solo i deportati resistenti e i deportati politici potevano vantare il diritto al titolo di déportés. La Federazione si fece promotrice per ricordare questi forzati del lavoro. I loro nomi vennero incisi sulle lapi- di dei Mourts pour la France e numerosi monumenti ne ricordarono il sacrificio. Il 22 giugno 1947 le spoglie di un travailleur requis inconnu furono inumate al cimitero Père-Lachaise, presso il muro dei Federati, dove il 21 giugno 1970 venne eretto un imponente monumento, altre steli e monumenti sorsero in tutta la Francia, molte nella stazioni da cui partirono. Anche in Germania furono ricordati, con un grande monumento a Dortmund, eretto nella foresta di Bittermarck, dove erano stati inumati 347 deportati, la maggior parte francesi massacrati il venerdì santo del 1945, una targa sulla facciata della stazione di Brandenburg, ricorda undici ferrovieri francesi decapitati il 13 settembre 1944 per fatti di Resistenza, mentre un monumento è stato eretto a Grossbeeren dove era la fossa comune di 800 lavoratori forzati di tutta Europa (tra cui 185 francesi) massacrati in più volte dai nazisti. Il monumento eretto dalla Municipalità di Dortmund a ricordo di 300 lavoratori deportati francesi, massacrati dalle SS nella notte del venerdì santo del 1945; un monumento dove ogni venerdì santo si raccolgono migliaia di cittadini tedeschi, francesi, belgi e olandesi. 19 NELL’UNIVERSO CONCENTRAZIONARIO, QUESTO CAMPO DI STER Le nostre storie Nel museo ebraico di Praga i quattromila disegni di Terezin di Ibio Paolucci Nata come città fortezza fatta costruire dall’imperatore Giuseppe II nel 1780 e battezzata col nome della madre, Maria Teresa, Theresienstadt venne trasformata dai nazisti in un ghetto, diciamo così, un po’ particolare, le cui finalità, tuttavia, erano identiche a quelle di tutti gli altri campi di concentramento: lo sterminio di tutti gli ebrei. Nell’universo concentrazionario nazista, Terezin è conosciuta per i disegni dei bambini, quattromila dei quali sono oggi custoditi nel Museo ebraico di Praga. Gli autori di questi straordinari dipinti sono quasi tutti morti nelle camere a gas di Auschwitz. Praga, marzo 1939, l’invasione delle armate hitleriane Come si sa le armate di Hitler entrarono a Praga il 15 marzo del 1939 e quattro mesi dopo vennero emanate le leggi razziali con la conseguenza, fra le tantissime altre, di vietare ai ragazzi ebrei di frequentare le scuole pubbliche, come, peraltro, era già avvenuto, con un anno di anticipo, in Italia. La deportazione in massa degli ebrei 20 della Boemia e della Moravia venne decretata nel settembre del 1941 e un mese dopo, il 19 ottobre, Terezin cominciò a funzionare come ghetto. Secondo lo storico Raul Hilberg, autore del fondamentale libro La distruzione degli ebrei in Europa (editore Einaudi), quel ghetto servì ai nazisti anche per dare un contentino agli alti comandi della Wehrmacht, che chiedevano un trattamento speciale per gli ebrei ex combattenti della prima guerra mondiale, che avevano meritato la Croce di ferro di prima classe o una decorazione austriaca equivalente. In sostanza, il ghetto fu creato sulla base di due considerazioni: creare un campo di concentramento per gli ebrei del Prottetorato ceco, per poi utilizzarlo per gli ebrei “importanti” e per altre categorie speciali. In ogni caso Heydrich sfruttò la sua posizione di Reichsprotektor per ordinare la totale distruzione della piccola città, l’evacuazione della popolazione ceca e la creazione di un insediamento ebraico (Judensiedlung). Un ghetto, infine, che nelle intenzioni di Himmler, capo supremo delle SS, doveva anche servire, eventualmente, come in effetti servì, da specchietto per le allodole in caso di ispezioni della Croce rossa internazionale. MINIO È TRAGICAMENTE NOTO PER I DISEGNI DEI BAMBINI Il dipinto di Renzo Vespignani donato al museo ebraico di Praga raffigurante un bambino. Accanto: i piccoli, nel dormitorio. In realtà, il ghetto di Terezin, dove furono inviate oltre 140.000 persone, di cui 15.000 bambini, non era nient’altro che una tappa che portava al grande cimitero di Auschwitz. Valgano, al riguardo, le cifre: dei 140.000 detenuti, 33.456 morirono nel campo, mentre ben 88.202, e cioè la quasi totalità dei restanti, furono i deportati nel campo di sterminio polacco. I liberati dall’Armata rossa, il 19 maggio del ‘45, furono 1654. In questo campo, dal ‘42 al ’44, venero deportati 15.000 bambini dai 7 ai 13 anni, che, a scaglioni, furono anch’essi trasferiti ad Auschwitz. Se ne salvarono solo un centinaio. Molti di loro lasciarono a Terezin un patrimonio prezioso di disegni e di poesie, una rassegna dei quali fece il giro del mondo, Italia compresa. La mostra, fra l’altro, fu accompagnata da un bel catalogo con una copertina dove era riprodotto uno stupendo dipinto di Renzo Vespignani, dedicato ai bambini di Terezin e donato al Museo ebraico di Praga. 21 Le nostre storie Prima di finire ad Auschwitz consegnò i dipinti allo zio Disegni teneri e strazianti, nati nella realtà allucinante del campo, autori ragazzini e ragazzine quasi tutti morti ad Auschwitz. È impressionante, infatti, scorrere le didascalie delle immagini nel catalogo, dove, nove volte su dieci, si trova il nome e il cognome, la data della nascita e quella della morte ad Auschwitz. Fra le bambine trasferite ad Auschwitz, dopo una lunga permanenza a Terezin, c’era anche Helga Weissova, una delle pochissime sopravvissute, che, a Terezin, aveva dipinto ciò che aveva visto e che, quando fu obbligata a lasciare il campo per Auschwitz, consegnò i disegni allo zio, che li nascose e riuscì a salvarli. “Disegna ciò che vedi” le aveva detto il padre “Disegna ciò che vedi” le aveva detto il padre, finito ad Auschwitz, e lei, dotata di un grande talento, aveva seguito il suggerimento. Ciò che Helga vede non sono soltanto le cose sotto i suoi occhi, ma anche quello che vorrebbe, che sogna. Di fuggire, innanzitutto, da Terezin per tornare nella sua casa di 22 Praga. Uno dei disegni, infatti, rappresenta la giovanissima Helga, vestita sportivamente, con tanto di zaino e coperta arrotolata in spalla, borsetta e mani in tasca, che si lascia alle spalle il cartello stradale con indicato Terezin mentre, con aria soddisfatta, imbocca la via per Praga. Questo il sogno. La realtà, invece, è quella dell’arrivo a Terezin, con la fila delle persone, uomini donne bambini, con la stella gialla di David cucita sui cappotti, il gendarme che li sorveglia con il fucile in spalla. Oppure la distribuzione dello scarsissimo e poverissimo cibo in un cortile grigiastro, spoglio, squallido. O ancora, il trasporto di ogni cosa, compreso il pane, in carri funebri, mentre le bare erano trasportate su tavole con le ruote. E poi di nuovo il sogno per il suo quattordicesimo compleanno, raffigurato da un trittico, con tre diverse date. La prima, 1929, quella della sua nascita con un bel lettino, fio- L’ingresso del ghetto di Terezin, a sinistra e quello che immetteva al campo qui a destra. Sotto, i disegni di Helga. ri, colori dolcissimi; la seconda, 1943, quella della presenza nel lager, con lei seduta su un letto a castello, meditabonda; la terza, 1957, quella dell’agognato ritorno alla normalità, con lei ed una amica che spingono carrozzelle, macchine e tram che sfrecciano nelle strade. C’è anche il disegno, che illustra l’arrivo della Commissione della Croce rossa internazionale, accettata dai nazisti per dare l’impressione che a Terezin gli ebrei erano trattati bene. I disegni, generalmente a penna, inchiostro e acquarelli, pur non essendo mai troppo cupi, colpiscono per la loro sconvolgente testi- monianza di una realtà angosciante, dominata da una barbarie senza limiti. Solo rifugio i sogni: il dono più prezioso, rappresentato dal cibo, e nel disegno si vede una specie di paese della cuccagna, con persone che trasportano cibarie e dolciumi di ogni tipo, e, ricorrente, martellante, il sogno del ri- torno. Infine ci sono i disegni fatti subito dopo la liberazione, fra il ‘45 e il ‘46, che riguardano la sua permanenza ad Auschwitz, questi sì cupi, tragicamente doloranti, senza speranza: il suicidio sul filo spinato, la selezione, la marcia della morte: gli orrendi ritmi della shoah. 23 I nostri ragazzi Calabria Un libro di storia “scritto” nelle elementari di Spezzano Albanese Le altre iniziative per celebrare il Giorno della Memoria “Si è realizzato un sogno”, ha esordito l’insegnante Maria Anna Squillace, della direzione didattica di Spezzano Albanese (Cosenza) e curatrice del libro Ricordando Ferramonti, cultura della pace, dell’amicizia e della solidarietà. “Il primo di una collana” – ha aggiunto – “che racconta l’esperienza didattica degli alunni della nostra scuola, la scuola elementare di Spezzano.” “Due sono le nostre parole d’ordine: pace e solidarietà. In qualsiasi manifestazione che ci accingiamo a svolgere” – ha detto ancora – “sono sempre questi gli obiettivi finali per diffondere e rafforzare, nelle nuove generazioni, sentimenti di pacifica convivenza, di rispetto della libertà e della dignità umana per costruire un futuro diverso e migliore.” “Con l’istituzione del Giorno della Memoria, il dirigente scolastico ha proposto, ed il collegio ha votato, l’istituzione di una commissione preposta ad organizzare la manifestazione, giunta quest’anno alla seconda edizione. Per onorare, almeno in parte, 24 le sofferenze di sei milioni di ebrei, deportati politici e militari che subirono atroci crudeltà, ‘che morirono per un sì o per un no’ dedichiamo loro questo libro. I documenti raccolti” – ha ricordato l’insegnante – “ri- guardano l’antisemitismo di Hitler, la conoscenza dei più importanti campi di concentramento, le leggi razziali, gli ebrei in Italia e altro ancora. Essi sono stati frutto di ricerche da Internet, da libri È dedicato al campo di concentramento Ferramonti Il libro Ricordando Ferramonti è frutto dell’esperienza didattica degli alunni della scuola elementare di Spezzano Albanese (Cosenza), a cura dell’insegnante Maria Anna Squillace. È a lei che occorrerà rivolgersi per chiedere l’invio di copie. L’indirizzo è via Piave 13, San Lorenzo del Vallo (CS), tel. 0981/953819. Oppure Scuola elementare di Spezzano Albanese, tel. 0981 95 30 77, chiedendo sempre di Maria Anna Squillace. Il campo Ferramonti di Tarsia, destinato dal 1940 a “Internati civili di guerra”, diventerà rapidamente il più grande in Italia destinato a questo scopo. In esso vennero detenuti ebrei e apolidi presenti nel nostro Paese nel periodo della seconda guerra mondiale. Fu il primo campo europeo liberato dagli alleati e diventerà poi un campo profughi sotto il loro controllo. Gli internati, nel luglio 1940 erano un centinaio. Nell’agosto 1943 avevano raggiunto il numero record di 2019. specifici, da film che hanno permesso agli alunni di rendersi conto dei tragici fatti, concretizzati poi in illustrazioni” – ha aggiunto tra l’altro Maria Anna Squillace – “in poesie, elaborati e riflessioni sull’argomento, guidati e aiutati con impegno e competenza dai docenti ed, infine, anche da esperienze dirette di testimoni viventi.” La relatrice ha ringraziato in conclusione “il dirigente scolastico per averci sostenuti nei momenti difficili; il sindaco di Tarsia Panebianco per aver promosso la manifestazione; l’editore Brenner che ha incoraggato la pubblicazione; l’assessore Luzzi del Comune di Spezzano Albanese per l’attiva collaborazione; la professoressa Clotilde Pontecorvo, docente di psicologia e membro della comunità ebraica di Roma (assente per motivi di salute); la commissione organizzatrice e le olleghe per la fattiva partecipazione”. Infine un particolare riconoscimento ai “piccoligrandi autori del libro: gli alunni della scuola elementare”. Una scuola dedicata al benefattore ebreo Un plastico che raffigura il campo di internamento Ferramonti. La presidenza dell’incontro a Tarsia per la presentazione del libro “Ricordando Ferramonti”. La deposizione di una corona al campo. Israel Kalk nacque nel 1904 a Pilkeln, Lettonia. Si laureò in ingegneria al Politecnico di Milano. Fu funzionario della Compagnia Generale di Elettricità. Parallelamente all’attività professionale dedicò la parte migliore di se stesso, quale fervente yiddishista ad un intenso lavoro culturale. Quando intere famiglie di perseguitati del nazismo cominciarono ad affluire a Milano, Israel Kalk iniziò la sua attività assistenziale a favore dei bambini e degli adolescenti ebrei, fondando e dirigendo “La mensa dei bambini”, dove giovanissimi profughi trovarono cibo, protezione e svago. Per tale attività Kalk visitò più volte il campo di Ferramonti, contribuendo nettamente all’organizzazione più umana di quel luogo di internamento. Dopo l’8 settembre del ‘43 con i suoi familiari riparò in Svizzera. A liberazione avvenuta si mise al lavoro per raccogliere materiale documentario e testimoniale sulle vicissitudini dei profughi stranieri, in modo particolare sulle persone che furono internate a Ferramonti. Molte volte annunciò la pubblicazione di un libro su tale argomento, ma il materiale era tanto e non fece in tempo a realizzare il progetto perché morì in seguito ad un incidente stradale. I familiari e le persone che lo conobbero non dimenticarono la generosità e l’altruismo del loro benefattore. Per ricordare l’amore che l’ingegnere Kalk aveva per i bambini, nel maggio 1991 gli fu intitolata la scuola elementare di Tarsia. (Dal numero unico a cura della scuola). 25 I nostri ragazzi Il gemellaggio tra le scuole elementari di Spezzano Albanese e di Tarsia-Ferramonti in occasione delle iniziative per la Giornata della Memoria, ha avuto un pieno successo. Vi hanno partecipato anche numerose altre scuole della provincia Calabria Un gemellaggio con Tarsia per la memoria: gli alunni protagonisti Con la presenza di sindaci e dirigenti scolastici Erano presenti il direttore generale della Calabria Ugo Panetta (che ha espresso la sua soddisfazione per la preparazione degli alunni sul tema), i sindaci del comprensorio, Trioli di San Lorenzo del Vallo, Corsini di Spezzano, Libonati di Terranova. Il sindaco di Tarsia, Panebianco, che ha dato un grande contributo per la pubblicazione del libro su Ferramonti, ha annunciato la realizzazione di un museo dedicato al campo di internamento. Presenti inoltre gli ispettori scolastici Torchia, Fusca e Pugliese, che si è complimentato per aver notato un vero modo di “fare scuola”. L’intera attività è stata coordinata dai dirigen- ti delle due scuole interessate. La giornalista romana Pupa Garribba ha saputo attirare l’attenzione di un vasto pubblico. In particolare ha intavolato un dibattito di vivo interesse con gli alunni di quinta elementare. “VAI DAI TUOI GENITORI!” LE GRIDÒ SUA MADRE: E DEBORA SI SALVÒ Parigi occupata dai tedeschi: il giorno in cui avvenne il rastrellamento Debora ritornò a casa dopo aver giocato con un’amica nel cortile della scuola e notò parcheggiati nella via macchine e autocarri. Ma non significavano nulla per lei: aveva quattro anni. Abitava al terzo piano. Dentro il portone schiacciò il pulsante a tempo della luce. L’atrio era silenzioso e deserto, e anche questo non significava nulla per lei. La porta dell’appartamento era aperta e dal corridoio vide due guardie e due individui in borghese, e i suoi genitori in soggiorno che riempivano le valigie. Stava per gridare “Mamma!” quando sua madre la scorse sulla soglia e urlò con una voce che la investì come una scarica elettrica: “E tu cosa ci fai qui? Che cosa vuoi? Non c’è nulla da vedere! Non siamo né al circo né allo zoo! Torna a casa dai tuoi genitori!” La voce era un muro di energia, aveva dentro una forza tale da impedirle ogni risposta. Sua madre la guardava con volto iroso, suo padre le voltava le spalle e non si girò. Gli uomini la guardarono e si scambiarono un’occhiata. Lei si voltò e scappò via. Debora si salvò. Spezzano: la giornalista Pupa Garribba con una ragazza (Gabriella Pinnacchio) in costume albanese. 26 Un episodio ricordato dalle classi III C e D. RIFLESSIONI SUL DIARIO: “ANNA NEI NOSTRI CUORI” Oggi anche noi alunni delle classi III C e III D di Spezzano Albanese, partecipiamo alla manifestazione “Il Giorno della Memoria”, con i nostri elaborati, frutto di riflessioni e di emozioni. Il tema trattato è stato la lettura e il commento di alcune pagine tratte dal Diario di Anna Frank. Anna era una ragazza come noi: allegra e spensierata, felice di “vivere” la sua giovinezza, ma a causa delle leggi razziali (poiché ebrea) fu costretta a nascondersi in un alloggio segreto insieme alla sua famiglia. Ad Anna piaceva scrivere e incominciò a confidare le sue gioie, ansie, emozioni, riflessioni ad un’amica immaginaria di nome Kitty. Catturata dai nazisti morì nel campo di concentramento di Bergen Belsen, insieme alla sorella Margot. Il padre fu l’unico superstite della famiglia, e terminata la guerra ritornò nell’alloggio segreto, trovò il diario di Anna e lo fece pubblicare. Leggendo le pagine del Diario emerge la figura di Anna come una ragazza intelligente, carina, vivace e generosa. Infatti nonostante le paure, la tristezza, l’angoscia e le sofferenze fisiche e morali che dovette subire, ci lascia un messaggio di pace e speranza. “È un gran miracolo che io non abbia rinunciato alle mie speranze perché esse sembrano assurde. Nonostante tutto ciò credo ancora nell’intima bontà dell’uomo. Dopo la lettura delle commoventi pagine del Diario di Anna è nato in noi il desiderio di scrivere un diario personale e comporre delle poesie a lei dedicate. Una l’abbiamo scritta in albanese, la nostra lingua madre. In quel campo di “filo di ferro” La poesia in albanese Ed ecco la traduzione Kur djovastim djarin tënd Shum helëm patim ktu mbrënd Ishe një vasherele kutjend Çë luaje e qeshje nga mumend Pat mbullihshe te një tavullat Kish rrije qet dit e nat Atj e pënxarje cë bëhej jasht Ata shok çë luajet bashk Ka ki djar çë djovastim nani Dimi gjith atë çe shkove ti Përndet një burr shum i lig Bin e vëdiqtin gjith ata gjind Ju sallvua vet i tat Tek ai kopsht me firfëllat Te parrajsi vajte ti E për ne prigar nanì Se nëng kat kianj monsjeri E paqja kat rri nga shpi. Quando abbiamo letto il tuo diario tanto dolore abbiamo avuto qui dentro (il cuore) eri una ragazzina contenta e giocavi e ridevi ogni momento. Sei stata costretta a chiuderti in una soffitta e dovevi stare zitta giorno e notte. Lì pensavi cosa si faceva fuori e alle compagne con cui giocavi insieme. Dal tuo diario che abbiamo letto adesso sappiamo tutto quello che hai patito. Per colpa di un “Uomo” assai cattivo che ha fatto morire tantissima gente si è salvato solo tuo padre in quel campo di filo di ferro. In paradiso tu sei andata e adesso prega per noi che non pianga più nessuno e che la Pace regni in ogni casa. Gli alunni delle classi III C e D. Le insegnanti Rosina Bartolomeo, Italia Gentile, Irene Pisarro, Stefania Matonti, Antonietta Cimino. …E IN TEATRO “IL SILENZIO DEI VIVI” Per commemorare il “Giorno della Memoria” con un progetto di gemellaggio, gli alunni delle scuole elementari di Tarsia e di Spezzano Albanese, hanno rappresentato una drammatizzazione, tratta dal libro di Elisa Springer: Il silenzio dei vivi (nella foto, un momento dello spettacolo). Elisa Springer è nata a Vienna il 12 febbraio 1918. Figlia unica di genitori ebrei, fu educata secondo la propria religione, “ma ella si considerava” – scrivono i curatori del numero unico stampato nella scuola elementare di Tarsia – “una ragazza viennese di religione ebraica non ebrea.” Apparteneva ad una famiglia di nobili origini ungheresi, molto benestante. Venne arrestata all’età di 26 anni e deportata nel campo di sterminio di Auschwitz, con un convoglio in partenza da Verona il 2 agosto 1944. Sopravvissuta, si trasferì in Italia nel 1946. Oggi vive a Mandria. 27 I nostri ragazzi Pubblichiamo altre testimonianze, scritte con la volontà di riassumere anche le impressioni e le emozioni di altri ragazzi toscani di scuole medie, che hanno partecipato ad una visita a Mauthausen accompagnati dall’ex detenuto Roberto Castellani Toscana Il viaggio a Mauthausen per “sentire e vedere” coloro che c’erano Un’altra visita di studenti di Campi Bisenzio In questo “pellegrinaggio”, scrive una studentessa di terza media di Campi Bisenzio (Firenze), una delle cose che mi hanno colpito di più è la capacità del signor Castellani di tornare nei posti dove ha sofferto tantissimo. Se io fossi al suo posto penso proprio che non ci riuscirei. Però grazie a lui abbiamo capito meglio come si sentiva e cosa provava una persona in un campo di concentramento. Sinceramente prima di partire non sapevo che impressione mi avrebbe fatto vedere i campi di sterminio; invece quando sei lì prima di tutto sei preso dalla curiosità e dai racconti del nostro testimone. Ma se poi ti fermi, anche solo per un momento, a riflettere i primi sentimenti che provi sono la tristezza e la paura che un giorno le tragedie che sono successe possano ricapitare a noi e alle generazioni future. Secondo me ascoltando una persona come il signor Castellani puoi capire, ancor meglio della lettura dei libri, quello che è successo. E anche le emozioni rac- 28 contate da una persona che le ha vissute ti rimangono più impresse. Come il cuore dipinto da un prigioniero sul muro di una cella. Quando al campo fu liberato la prigione venne ridipinta, ma il cuore rimase lì, anche dopo molti tentativi di cancellarlo. Purtroppo non abbiamo potuto vedere l’interno delle celle perché chiuse a causa di atti di vandalismo: infatti erano state fatte delle scritte sui muri. Quando siamo andati a visitare la camera a gas, dopo un po’io ed altri ragazzi siamo tornati fuori perché c’era pochissima aria. L’impressione era quella di soffocare ed abbiamo pensato ancora più intensamente alle persone che hanno affrontato questo luogo fino alla morte. Mi ricordo un’immagine al Memorial del sottocampo di Gusen dove davanti a due forni crematori c’erano tante corone di fiori, un contrasto che dava l’idea di quello che c’è tra la morte e la vita. La scala della morte di Mauthausen secondo me è una visione spaventosa, pensando che tutti i deportati dovevano percorrerla con un pesantissimo carico di pietre. Alcuni di noi sono scivolati percorrendola e le condizioni erano certamente molto migliori rispetto a quel tempo. Un’altra cosa di Mauthausen che mi ha impressionata è stata la stanza accanto ai forni crematori nella quale c’era un tavolo che serviva per sezionare i cadaveri. Alle persone venivano presi gli organi, ma se qualcuno aveva dei tatuaggi gli venivano asportati anche quelli, perché la moglie del comandante del campo ne era una fanatica collezionista. Quando siamo andati nelle gallerie di Ebensee, Castellani ci ha detto che i deportati preferivano lavorare lì perché la temperatura era maggiore rispetto a quella esterna. Ma quella stessa sera, durante il concerto che era stato organizzato nelle gallerie, io, pur essendo vestita di lana e fornita di piumino, ho sentito molto freddo. Durante la manifestazione ad Ebensee Castellani ha fatto un discorso che mi ha colpito molto. Il viaggio a Mauthausen e nei suoi sottocampi è stata un’esperienza indimenticabile e mi auguro che tanti altri ragazzi possano farla, perché non ci si possa mai dimenticare di quella tragedia. Elena Paci La prima tappa Questa visita mi ha colpito molto. Ho visto cose che non pensavo esistessero. La prima mattina siamo andati a portare una corona al monumento nella piazza di Ebensee dove ci attendeva il sindaco. Ci accompagnava un ex deportato, Roberto Castellani. Con noi c’erano i rappresentanti dei comuni di Prato, Montemurlo Vernio e Cantagallo. Io mi sentivo onorato di aver depositato la corona. Al cimitero italiano Dopo la visita al monumento in piazza a Ebenseen siamo andati al cimitero italiano di Mauthausen. Anche lì portavo una corona, l’abbiamo depositata sulla tomba di un compagno di campo del signor Castellani. Altre due erano destinate al monumento dei caduti italiani. La cosa che mi ha colpito di più è stata l’area del cimitero, un grandissimo campo verde pieno di cro- CRONACA DI GIORNATE PARTICOLARI Emanuele Gherardeschi, studente della media Garibaldi-Matteucci di Campi Bisenzio, è stato il “cronista”, come aveva fatto anche un suo compagno di scuola, di un indimenticabile “viaggio” nella memoria. ci, con intorno case e villette. Il ricordo Il lager di Ebensee alla fine della guerra venne distrutto. Il terreno fu comprato da una signora francese per utilizzarlo come cimitero in ricordo dei caduti. Lì abbiamo assistito alla cerimonia e ai discorsi del sindaco e di Roberto Castellani. Alla cerimonia internazionale di Mauthausen (migliaia di persone, famiglie di deportati, sopravvissuti, rappresentanti di organizzazioni democratiche e diplomatici di tutta Europa) c’eravamo anche noi per depositare corone ai monumenti che molte nazioni hanno costruito tra la cava di pietra e l’entrata del campo. Il monumento italiano è diverso dagli altri: un muro costruito a metà, a significare le vite spezzate. Con il cuore segnato A Mauthausen mi ha segnato il cuore vedere la camera a gas, i forni crematori, la stanza frigorifero, quella per il sezionamento dei cadaveri. Abbiamo visitato i luoghi delle selezioni, le baracche, le piccole celle dove venivano torturati i deportati politici. Il signor Castellani e un’altra guida di nome Camilla, ci hanno spiegato la vita nel campo e le atrocità che subivano i deportati. Mi ha impressionato molto una delle siringhe che i kapò usavano per eliminare i prigionieri sofferenti: gli iniettavano della benzina nel cuore provocando una morte istantanea. Dalle gallerie a Gusen. A Ebensee abbiamo visitato anche le gallerie che, come ci ha ricordato Castellani, sono state costruite dai deportati con strumenti moderni. Rimaste incomplete a causa della fine della guerra, servivano per nascondere la costruzione di armi di sterminio. Sopra le gallerie c’erano uffici per lo studio e la progettazione delle armi, compresa l’atomica. Un’altra visita interessante e commovente è stata al Memorial di Gusen II, dove è conservato un terribile simbolo: un forno crematorio. Ad insegnanti e autorità DIPLOMI E TARGHE A TORINO PER LA GIORNATA DELLA MEMORIA A Palazzo Lascaris di Torino, nella Sala del Consiglio regionale del Piemonte, sono stati consegnati, lo scorso 28 gennaio, i diplomi agli insegnanti e autorità che hanno collaborato per la diffusione della memoria. Targhe sono state consegnate anche alla Regione e al Comune di Torino. Sono intervenuti: Lido Riba, vice presidente del Consiglio regionale del Piemonte, Mauro Maria Marino, presidente del Consiglio comunale di Torino, Ferruccio Maruffi, presidente Aned Piemonte, Bruno Vasari, presidente onorario Aned Piemonte, Dario Segre, vice presidente Aned Piemonte, Anna Bravo, Anna Ariotti, Peter Kuon dell’Università di Strasburgo, monsignor Pedrotto, Anna Cerchi, Adalberto Alpini e Gianni Alasia. 29 I nostri ragazzi L’iniziativa, promossa dallo “Scientifico” con la collaborazione dell’“Artistico”. La guerra, il razzismo, lo sterminio in una serie di dipinti, disegni, sculture, con l’uso di diverse tecniche artistiche Varese “I segni della Memoria” in una mostra creata dai liceali Con il linguaggio artistico i giovani possono capire il valore della libertà Una mostra per ricordare, per non dimenticare: non a caso è intitolata “I segni della Memoria”. L’iniziativa, promossa dal liceo scientifico “G. Ferraris” in collaborazione con il liceo artistico “Frattini” di Varese, in occasione della Giornata del 27 gennaio, ha visto una partecipazione attiva, convinta di circa 120 studenti, con una cinquantina di opere: disegni, quadri, sculture, tecniche pittoriche varie. L’obiettivo dell’esposizione è stato quello non solo di presentare una produzione artistica, degna di attenzione, ma soprattutto testimoniare l’orrore dei fatti per invitare a non dimenticare. Si tratta di un contributo originale e nuovo per la nostra scuola, che merita di essere valorizzato, conosciuto perché resti viva la memoria anche attraverso la creatività, l’immaginazione e la riflessione degli studenti, per cercare di interpretare eventi drammatici, che hanno segnato la storia della prima metà del secolo scorso in Italia e in Europa. Le opere si configurano come un “viaggio nel tempo”, di un tempo in cui sono stati toccati gli abissi della bar- 30 barie e dell’intolleranza. La mostra è l’immagine dell’immane tragedia causata dal nazifascismo e dalla guerra. Le realizzazioni non hanno una specifica fisionomia, non c’è un percorso cronologico o tematico ma è un momento di riflessione collettiva. Le opere parlano soprattutto di inquietudini, nel loro aspetto fortemente simbolico, dicono di angosce non descrivibili, di attese dell’uomo, vittima dello sterminio. La deformazione espressionistica e surreale, il cromatismo violento di alcune opere, sono simbolo di una umanità lacerata dalla violenza subita. Le figure di donne, di bambini, come vittime predestinate e inermi proiettano il dramma individuale in una sorta di sacralizzazione laica, assoluta delle sofferenze. Un filo sotterraneo unisce il lavoro di questi ragazzi: la malvagità contro il senso umano della vita, l’oppressione come dominio e sopraffazione del potere contro chi, indifeso, ne subisce la violenza. La presenza di uno studio su Guernica di Picasso è significativa. Guernica urla l’orrore del bombardamento na- zista della cittadina basca, che la distrusse nel 1937, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Ma potremo dire forse che la realtà di quell’immagine non si attaglia alla crudeltà delle guerre odierne, che il mondo di oggi non vive la sua terrificante Guernica negli eventi che periodicamente in alcune parti si verificano? Il messaggio di Guernica non è il monito più forte a preservare la memoria? L’uomo senza memoria è in balia del destino, è un uomo a cui manca l’energia di opporsi alle eventuali ricadute “Non dimenticate”, di Francesco Cucca (liceo artistico). cui l’eterna dialettica del bene e del male induce. Le ricadute, però, non sono un fatto inevitabile, cui presiede un destino preventivamente segnato. L’uomo è artefice del proprio destino: l’indifferenza e il non impegno hanno segnato nella storia, il predominio della violenza, della guerra, del razzismo. L’arte, quindi, non ha esaurito la sua funzione. Anzi in certi momenti storici ha un alto valore di insegnamento, ci spinge non solo a comprendere meglio quei fatti, ma a compararne la memoria con il mondo in cui viviamo: sicuro argine, questo, al pericolo che sciagurate evenienze abbiano a ripetersi tragicamente. Il linguaggio artistico, l’immagine artistica è un mezzo perché i giovani possano sentire il valore della libertà, della democrazia, della pace. “I segni della Memoria” è una esperienza da ripetere, per non dimenticare e per dare l’opportunità alle nuove generazioni di scegliere in libertà e coscienza. Antonio Antonellis (docente di disegno e storia dell’arte) “Studio di Guernica”, opera collettiva (liceo scientifico). “La memoria del dolore”, di Laura Malvicini, Alice Pellegrini (liceo scientifico). “Unica uscita”, di Desirée Sacchiero (liceo artistico). Lunedì 27 gennaio. Aula magna del liceo scientifico “G. Ferraris” di Varese. Diverse opere d’arte, realizzate da alcuni studenti e professori dello stesso liceo e del liceo artistico di Varese, disposte su freddi pannelli di legno bianco. Un’atmosfera surreale, resa agghiacciante dal rigoroso silenzio interrotto solamente dalle note della banda musicale dello stesso liceo che ospita la manifestazione. Un cospicuo numero di studenti e di visitatori che osserva, riflette e, in rigoroso silenzio, scuote la testa girovagando fra i pannelli. Un solo messaggio: NON DIMENTICARE. Dei binari che corrono verso il cancello d’entra- IL MESSAGGIO DI QUELLE MANI TESE VERSO DI NOI ta di un lager ci accolgono all’ingresso della mostra. Proprio quei freddi binari di metallo esprimono la gelida e distaccata perfidia nazista che ci guiderà per tutta la visita. Ci guardiamo intorno. Tutto esprime rassegnazione, terrore e senso di alienazione da qualsiasi sensazione umana. Quelle povere vittime furono perfino private del loro nome, sostituito da un distaccato codice numerico. Proprio questi codici numerici ricorrono frequentemente nelle opere: opere pittoriche, sculture, composizioni moderne e testimonianze fotografiche. L’identità di un uomo totalmente cancellata. La sua storia, i suoi affetti, i suoi pensieri. Nulla più. Solo una serie di numeri che lo identificano all’ora dell’appello. Questo il significato di quei numeri impressi sulle opere artistiche. In un angolo le poche e sgualcite lettere inviate da un prigioniero di un lager testimoniano la volontà, nonostante tutto, di preservare la propria personalissima identità. Accanto a tutto ciò attimi di tenerezza, rubati all’odio e all’indifferenza, in una tela con un bambino solo che fissa un punto imprecisato, probabilmente alla ricerca della madre. Ma soprattutto attimi di angoscia. Mani che tentano di liberarsi da una rete metallica che li avvolge in una angosciante composizione, che tentano di emergere assieme ad un volto irriconoscibile dal gesso di una scultura o che si protraggono in avanti dallo sfondo imprecisato di un bassorilievo. Quei volti straziati e quelle mani che si protraggono verso di noi esigono una precisa richiesta. Fare in modo che ciò che è successo non venga dimenticato e che non si ripeta. Matteo Boccia (IV I liceo scientifico) 31 I nostri ragazzi Fra la violenza e la ferocia del campo un episodio di solidarietà: un soldato tedesco finge di “non vedere” e salvò la vita a due prigionieri che rubavano patate per resistere alla fame Varese L’ex deportato così racconta... Nella baracca un grido: “Nein! Nein!” Il rischio della vita per rubare patate... Un giorno intenso, il 27 gennaio, per i licei artistici e scientifico di Varese. L’apertura della mostra “I segni della Memoria”, infatti si è accompagnata alla prestazione del libro Credere obbedire combattere, la scuola italiana sotto il fascismo di Franco Maccagnini, e alla testimonianza di un ex deportato, Andrea Rossi, che ha suscitato un particolare interesse. Rossi (classe 1923), catturato dai tedeschi a Trento dopo l’8 settembre 1943, venne tradotto in un grande campo di concentramento per prigionieri di guerra a Furstenberg, una cittadina vicina al fiume Oder nella Germania orientale. Nel suo incontro con i giovani ha ripercorso il tempo drammatico della prigionia, rifacendosi anche al memoriale pubblicato nel settembre del 2002 con il patrocinio del comune di Bisuschio (Varese) dove risiede, e dedicato ai suoi concittadini che hanno subito la stessa sorte. “Il trattamento a noi riservato al pari dei prigionieri russi,” – scrive nella sua testimonianza – “era di gran lunga peggiore di tutti gli altri. Luride baracche, pagliericci 32 “L’urlo” di Francesca Saracino (liceo artistico) puzzolenti infestati di pidocchi e cimici, cibo scarso e una volta al giorno. Un allucinante andirivieni, specialmente di notte a percorrere lo spazio di 50-60 metri su terreno sabbioso e in salita per raggiungere le latrine. Non sempre si arrivava in tempo. Molti di noi, stremati, finiscono all’ospedale del campo. Uno dei ricordi più vivi è il tentativo, fallito, di reclutare i prigionieri italiani nelle formazioni fasciste. “Sveglia in piena notte, raggruppamenti nel cortile in numero di 30, due pali infissi nel terreno a formare una strettoia; un metro più in là, lo scrivano seduto a un tavolino con un registro. L’altoparlante diffonde, in lingua italiana, il seguente quesito: Arruolarsi nell’esercito della RSI o, a scelta, nelle formazioni speciali della SS germanica, (una sorta di legione straniera). “Dovevamo passare, uno alla volta, attraverso la strettoia, deporre sul tavolino la piastrina, guardare in faccia un ufficiale delle SS al quale dovevamo dire sì oppure no. Il sì comportava la fine automatica dello stato di prigioniero, il no comportava la ripresa della piastrina e il viaggio a ritroso verso la baracca. “…Furono tutte le vicende vissute fino a quel momento che ci diedero la forza, la convinzione e perfino l’entusiasmo a dire NO (98%). Pur avendo coscienza della tremenda incognita delle possibili ritorsioni ci sentivamo, nel momento più travagliato e drammatico dei nostri vent’anni, uomini veri, uomini liberi! Finalmente, per la prima volta, qualcuno ci aveva chiesto un nostro parere: e avevamo risposto NO!…Se la facciano senza di noi la loro sporca guerra…Vadano affanc… “Ricordo l’esultanza nelle baracche al rientro di ognuno dopo il NO; ricordo un simpatico commilitone fiorentino (un fratello gli era morto in Russia) che al rientro disse…Ce l’ho detto nella sua lingua: NEIN! Per un bel po’ nelle baracche risuonarono i NEIN! NEIN!…” Nel suo memoriale Andrea Rossi ricorda – tra i tanti episodi – il rischio mortale per combattere la fame e resistere. Resistere anche al freddo che gela la campagna di Guben (Germania orientale), dove era stato trasferito. Insieme ad un altro detenuto decide di scavalcare il muro per raggiungere un deposito di patate, “stoccate” in lunghi fossati scavati in piena campagna e coperti di paglia. Spezzano freneticamente lo strato di ghiaccio, frugano nella paglia e mettono finalmente le mani sul “tesoro”. Ma all’improvviso vedono avvicinarsi un drappello di prigionieri russi scortati da un soldato tedesco, naturalmente armato. “Non possiamo fuggire da nessuna parte, non una buca, non un riparo. Rimaniamo paralizzati, mentre pensieri terribili afferrano la nostra mente: se il soldato tedesco ci uccidesse sul posto, verrebbe sicuramente premiato; se ci consegnasse vivi al suo comando, la nostra sorte sarebbe ugualmente segnata! Evasione dal lager, furto con scasso. I nazisti uccidevano per molto meno! Il drappello, intanto, si avvicina sempre di più. Vediamo i prigionieri russi volgere la testa verso di noi: ci avevano visti! Non era neppure lontanamente pensabile che il soldato tedesco al seguito non ci avesse visti a sua volta. Eravamo visibili come due mosche nel latte. “Il drappello raggiunge il punto critico (quello più vicino a noi), lo supera; il soldato guarda in avanti, non accenna a reazione alcuna. Un prigioniero russo volge per un attimo la testa all’indietro per vedere se è successo qualcosa. Non è successo nulla! Il drappello è ormai lontano! Ci alziamo in preda a un incontenibile tremore (non soltanto per il freddo)”. L’episodio divenne argomento di discussioni e commenti tra i detenuti. In conclusione fu unanime “se la scorta” – ricorda Rossi – “fosse stata composta da due soldati anziché da uno solo, le conseguenze tra noi sarebbero state sicuramente drammatiche. Essendo, invece, il soldato da solo, doveva rispondere soltanto alla propria coscienza: e la sua coscienza gli ha suggerito di guardare avanti e tirare diritto!” “Per non dimenticare” di Michel Bressan, Alessandro Farina (IV F liceo scientifico). QUESTA LA REALTÀ CHE SPESSO IGNORIAMO Per ricordare la Giornata della memoria il nostro liceo ha organizzato una mostra e una conferenza. A mio parere sono state entrambe molto interessanti e soprattutto utili per sensibilizzare noi studenti sul tema della memoria. Infatti, la mostra rappresenta la tragedia vissuta dal popolo ebreo e da tante altre persone. L’uso di diverse tecniche artistiche è stato anche un modo efficace per raccontare una tragedia come la Shoah. Personalmente ho apprezzato molto questa esperienza perché mi ha permesso di avvicinarmi a quello che è stato la tragica realtà dell’Olocausto. Molto interessante è stata anche la conferenza che si è tenuta per l’apertura della mostra. Infatti vi sono state testimonianze dirette di persone che durante la seconda guerra mondiale sono state deportate nei campi di concentramento. Queste testimonianze hanno portato noi giovani a riflettere su temi che spesso ignoriamo. In conclusione ritengo che sia stata una esperienza altamente formativa. Viviana Stecconi (IV H liceo scientifico) GLI AGUZZINI VOLEVANO DISTRUGGERE ANCHE LA DIGNITÀ “Il lavoro rende liberi”. È con questa frase che i deportati venivano accolti nei campi di “lavoro”, ed è con questa frase, proiettata su di uno spettrale lenzuolo bianco, che i visitatori vengono accolti alla mostra “ I segni della memoria” organizzata all’interno del nostro liceo. Per me è una mostra sul coraggio della memoria, su ciò che c’è ora nell’immaginario di noi ragazzi tra i 16 e i 20 anni a proposito dell’Olocausto, e quindi su ciò che, virtualmente, verrà trasmesso ai ragazzi di domani. Ed è una mostra degli orrori compiuti. Sono tele e gessi su cui si agitano fantasmi, volti dilaniati, urla, sangue, lacrime, occhi svuotati e facce smunte. Riflessioni sull’inutilità del dolore, sulla sensazione di paura e di smarrimento trasmesse dai volti scarni di persone ingiustamente massacrate, sfruttate, affamate e infine uccise. Ciò che evidentemente mi ha colpito di più di queste opere è la volontà, da parte degli aguzzini, di cancellare ogni traccia dei loro prigionieri, di annullare l’identità e la dignità dell’individuo. È questo il “coraggio della memoria” secondo i ragazzi, la consapevolezza che è più crudele eliminare un individuo nel suo intimo, trasformarlo in un numero, privarlo di ciò che lo rende un “IO”, che sopprimere la sua fisicità. Il ricordare che dietro i numeri, dietro i piedi che emergono dai cumuli di corpi ammassati, dietro le casacche logore, dietro i tatuaggi, gli occhi lucidi e le stelle di David, c’è stato un IO. Fabrizio Festa (IV I liceo scientifico) 33 I nostri ragazzi Spettacoli teatrali, visita ai lager, progetti di cultura europea. Incontri in Italia e in altri Paesi. Ricerche nei luoghi in cui sono tumulate vittime italiane nei campi tedeschi Orbassano Il lungo percorso storico dell’Istituto Sraffa Il bilancio di una intensa attività in corso da anni L’Istituto tecnico commerciale statale “P. Sraffa” di Orbassano (Torino) da anni collabora con l’Aned, il Comitato per la Resistenza Colle del Lys, il comune di Orbassano e la Provincia di Torino su progetti di alto contenuto etico e culturale, legati alla necessità di mantenere viva la memoria di un recente passato che chiede ai giovani di affrontare le problematiche che si ripresentano nelle cronache dei giorni in cui viviamo. In quest’ottica è stato realizzato, già nell’anno scolastico 1996/97, lo spettacolo teatrale in lingua tedesca Das verletzte leben (“La vita offesa: storia e memoria dei lager nazisti nel racconto dei sopravissuti”, adattate da Anna Bravo e Daniele Jallà) recitato dagli studenti dell’Istituto a Friedrichshafen, in Germania. Lo spettacolo è stato poi inserito, in lingua italiana nell’anno scolastico 1997/98, nel programma “Vivere la Costituzione” proposto dalla Provincia di Cremona per tutti gli Istituti scolastici superiori della città, rappresentato al teatro di Palazzo Colonna. Il percorso di ricerca stori- 34 ca, culturale ed artistica si è sviluppato negli anni successivi con visite ai campi di sterminio di Dachau, Uberlingen, Mauthausen ed al cimitero dei deportati di Birnau, prendendo come spunto alcune significative ricorrenze. Nel marzo 1999 con un viaggio a Strasburgo, nell’ambito del progetto “Il ‘900: i giovani e la storia”, l’attività è continuata con la visita al Parlamento europeo e al lager di Natzweiler: momento significativo è stato la rappresentazione in lingua francese de La vita offesa (“La vie offensée”) nell’atrio dell’Università Mark Bloch, organizzata in collaborazione con l’Istituto italiano di cultura. Al viaggio hanno partecipato una delegazione di ex deportati nei campi di sterminio, guidati dal consigliere nazionale dell’Aned, Beppe Berruto e dal vicesindaco di Orbassano, Marroni. Nel 2000 una delegazione di studentesse dell’Istituto Sraffa è intervenuta alle celebrazioni tenutesi a Ravensburg, in occasione dell’Anno internazionale della donna. Nell’anno scolastico 2001/ 2002 l’Istituto ha aderito al progetto “Storia, memoria, cultura europea in rete: i giovani attraverso un percorso di pace e giustizia e tolleranza”. Il progetto, proposto dal Comitato per la Resistenza Colle del Lys, ha l’obiettivo di promuovere attività culturali congiunte sui “percorsi della memoria” unendo e coordinando l’attività di enti, associazioni e scuole che, sul territorio nazionale ed europeo, si occupano di questi temi, per mettere insieme le idee e le competenze acquisite per trasmettere alle nuove generazioni un patrimonio storico comune. Prima tappa per la realizzazione del progetto sono stati gli incontri presso la Provincia di Gorizia fra autorità provinciali, rappresentanze dell’Aned e dell’Anpi, rappresentanze slovene, delegati del Comitato Colle del Lys e dell’Itc Sraffa. È emersa, tra l’altro, la possibilità, per il gruppo teatrale dell’Istituto, di partecipare al “Palio teatrale transfrontaliero” che, ogni anno nel mese di maggio, si tiene a Gorizia ed in altre città della provincia con spettacoli presentati da allievi di scuole superiori italiane e slovene. Il percorso didattico-formativo, incentrato su storia e memoria, si è sviluppato con un viaggio di istruzione a Gorizia e in Slovenia per gli studenti di alcune classi dell’Istituto. In tale occasione i giovani, accompagnati da alcuni docenti, dal sindaco di Orbassano e da Beppe Berruto, sono stati ricevuti da tre assessori della Giunta provinciale di Gorizia e hanno incontrato gli allievi di una classe del locale Istituto tecnico coomerciale Fermi. Tappa successiva del progetto è stata la partecipazione, fuori concorso, del laboratorio teatrale dell’Istituto Sraffa, al Palio teatrale, con la rappresentazione, l’undici maggio 2002 presso il Kulturni Center di Gorizia, dello spettacolo La vita offesa. Nello stesso periodo in Germania, a Friedricshafen e Uberlingen, si sono svolte riunioni finalizzate al successivo sviluppo del progetto. Alle iniziative presso sedi sindacali e la sala congressi di Friedricshafen, hanno partecipato il sindaco della città, rappresentanti di organizzazioni sindacali tedesche (VVN e BDA, Enzo Savarino e Joseph Kaiser), Siena “Questo è stato…” Un ex deportato racconta il lager all’Università il vicesindaco di Orbassano, rappresentanti dei comuni di Rivoli e di Grugliasco, responsabili dell’Aned e del Comitato Colle del Lys e l’insegnante responsabile del coordinamento delle attività integrative dell’istituto Sraffa, prof. Marilena Buggia. Il 6 luglio 2002, presso la sala consiliare del Comune di Avigliana, delegazioni nazionali e straniere (sindaci ed amministratori comunali e provinciali provenienti da varie parti d’Italia, rappresentanti di organizzazioni sindacali tedesche, responsabili dell’Aned e del Comitato Colle del Lys, insegnanti dell’Itc Sraffa e di altre scuole superiori) si sono riuniti per una riflessione generale sul progetto. Si è prospettata la possibilità di continuare il percorso con la rappresentazione in Germania dello spettacolo La vita offesa in lingua tedesca. È avvenuto anche in occasione della Giornata della Memoria a Friedricshafen. Nel salone dei Congressi lo spettacolo, seguito con viva attenzione, ha suscitato una profonda emozione. In occasione del 27 gennaio è stato inoltre inaugurato un monumento dedicato ad un partigiano tedesco. La delegazione di Orbassano, con il vicesindaco, ha partecipato alla commemorazione. Intanto sono in corso contatti per ricordare, il maggio prossimo a Uberlingen (nelle gallerie scavate durante il secondo conflitto mondiale e in cui hanno perso la vita numerosi deportati italiani), i connazionali seppelliti nel cimitero di Birnau. Nell’occasione per gli allievi dell’Itc Sraffa, verrà anche organizzato un viaggio di istruzione con incontro con giovani di scuole locali. Al viaggio parteciperanno l’assessore provinciale Gianni Oliva, il sindaco di Orbassano e amministratori dei comuni della zona, rappresentanti dell’Aned e del Comitato Colle del Lys e allievi dell’Istituto tecnico per le attività sociali Santorre di Santarosa di Torino. Nel corrente anno scolastico, un gruppo di studenti dell’Istituto collabora, insieme a studenti dell’Itis Majorana di Gurgliasco, ad una ricerca, promossa da Aned, Comitato Colle del Lys, Comitato “Nessun uomo è un’isola” rivolta ad individuare le vittime italiane tumulate nel cimitero di Birnau dando informazione alla famiglie sul possibile luogo di sepoltura. Chiara Bertani (dirigente scolastico) L’intensa testimonianza di Mauro Betti Aderendo all’invito dell’Unione universitari di Siena che avevano organizzato, nella facoltà di lettere, un incontro-testimonianza (nel quale era impegnato anche Vittorio Meoni, partigiano e presidente dell’Istituto storico della Resistenza senese), l’ex deportato politico Mauro Betti, del Consiglio nazionale dell’Aned, ha illustrato con chiarezza e passione la sua drammatica esperienza nei campi di sterminio nazisti: la vita sempre a rischio, la ferocia degli aguzzini, la fame, la morte per assassinio, per tortura o sfinimento nell’orrore del lager. Un lucido racconto sugli undici interminabili mesi trascorsi, giorno dopo giorno, in tre campi: Gross-Rosen, Flossemburg e Buchenvald. I giovani, attentissimi, gli hanno rivolto una serie di significative domande, in un incontro vivo e incalzante durato oltre tre ore. Poi lo hanno attorniato accompagnandolo al circolo studentesco e continuando a chiedere per sapere, per conoscere e approfondire. È dovere di noi superstiti – ha commentato Betti – diffondere tra i giovani la verità, affinché il negazionismo strisciante non abbia nessuna possibilità di radicarsi. Un messaggio subito raccolto: “Quel che ci ha trasmesso non andrà perduto”, gli hanno infatti scritto gli stessi studenti in una calorosa lettera. Eccola: “Caro Mauro, ci scusiamo veramente tanto per il ritardo con cui le inviamo il numero di In piena facoltà, con l’articolo riguardante l’iniziativa realizzata e il manifesto a colori. La ringraziamo di cuore per il libro che custodiamo gelosamente nella sede. Ricordiamo ancora con piacere la chiacchierata che abbiamo avuto e la sua incredibile umanità. Stia tranquillo e sicuro” – continua la lettera – “che ciò che ci ha trasmesso non andrà perduto assolutamente: tanti qui si sono arricchiti e hanno capito cose che sui libri non sono scritte. Faremo di tutto per far stampare il libro anche a Siena con l’Università e presentarlo in sede. Grazie ancora per tutto” – conclude la lettera – “e speriamo di rivederla quanto prima a Siena. Un abbraccio fortissimo.” L’Unione degli universitari. Mauro Betti è autore del libro Buio e luce, edito dal Comune di Lerici. 35 Dalla magistratura tedesca uno spiraglio di luce Indagate in Germania otto SS per la strage di S. Anna di Stazzema (f.g.) - I nomi di otto appartenenti alle SS, sospettati di aver preso parte all’eccidio di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944 dove furono massacrati 560 civili, fra cui donne, vecchi e bambini, sono stati iscritti nel registro degli indagati della Procura federale di Stoccarda alla fine dello scorso febbraio. La notizia è ufficiale, confermata dal portavoce dell’ufficio inquirente, Eckhard Maak. Gli otto, per ora a piede libero, sarebbero già stati ascoltati da rappresentanti dell’autorità giudiziaria italiana. Proprio dalle numerose sollecitazioni dell’Italia all’inizio del 2002, agenti dell’investigazione tedesca dell’Ufficio centrale di Ludwisburg, incaricati dei crimini nazisti, hanno accellerato la loro azione giungendo a definire un gruppo di possibili responsabili. Un contributo indiretto era giunto anche dalla rete televisiva tedesca Ard e dalla giornalista Christian Khol che aveva mandato in onda nel 1999 inediti spezzoni sulle stragi di Sant’Anna e di Marzabotto. Secondo Ard, il capo del 36 gruppo sarebbe tale Gerhard Sommer, 82 anni, di Amburgo. Questi all’epoca dei fatti era il comandante di compagnia nel 25° Reggimento della 16 a Panzer Grenadier-Division Reichsfuerher SS, quella di cui fa- Il 12 agosto 1944 furono massacrati 560 civili, in gran parte donne, vecchi e bambini ceva parte il battaglione incaricato di colpire l’abitato toscano. Fra le altre ex SS sottoposte all’inchiesta per valutare le eventuali responsabilità ci sono Horst Richter, allora sergente, oggi ottantenne di Berlino; Theodor Sasse, allora sottotenente, 78 anni, di Kriftel; Friedrich Crusemann, ex tenente, 78 anni di Hamm; Alfred Leibslle, ex sergente, 80 anni, di Tubingen. Si ignorano i nomi degli altri indagati. Sinora nessun responsabile ha mai pagato per questo eccidio. L’inchiesta, come sempre in casi del genere, appare lunga e complessa. Giunge intanto notizia che il “boia del Turchino” (59 fucilati), l’ufficiale SS Engel, ultranovantenne, condannato il 5 luglio scorso per “strage in condizioni di particolare crudeltà” a 7 anni dal Tribunale di Amburgo, si appresta a ricorrere in appello e vive in libertà malgrado non mai abbia dato un segno di pentimento. Del resto non è solo in Germania che le cose vanno a rilento: in Italia è ancora incredibilmente fermo al Senato, dopo l’approvazione in primavera alla Camera, il provvedimento per dare il via alla Commissione d’indagine sull’Armadio della Vergogna dove erano stati seppelliti negli anni ‘60 per “ragion di Stato” da esponenti del governo dell’epoca, 695 fascicoli sulle stragi naziste e fasciste. Pietà e dolore per le loro vittime Facce da carnefici TEORICI DELLA RAPPRESAGLIA Alcuni degli ufficiali nazisti che operavano in provincia di Bologna. Il primo a sinistra, nei documenti degli Us Archives è identificato come il “capitano Brandt”. Nella documentazione americana, in parte consegnata alle autorità italiane del tempo, ci sono anche le foto di alcuni ufficiali tedeschi appartenenti ai reparti che si resero responsabili dei delitti, giustificati sempre come azioni contro i reparti partigiani. Nella foto grande, sotto: il giorno dopo la strage di S. Anna di Stazzema il parroco insieme ad alcuni civili trova i corpi degli abitanti trucidati dai tedeschi. 37 Un giudizio di Gustavo Zagrebelsky nella prefazione alle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana” IL REVISIONISMO STORICO DI OGGI: UN “NON FASCISMONON ANTIFASCISMO” Secondo il fervore revisionistico di oggi il carattere autentico dell’identità nazionale – più o meno chiaramente è detto - sarebbe rappresentato da quella parte maggiore del popolo italiano che avrebbe assistito da estraneo o con atteggiamenti di puro soccorso umanitario alla lotta di liberazione, in attesa degli eventi. Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e antifascista, rappresenterebbero una deviazione estranea alla nostra tradizione; una tradizione essenzialmente moderata, ostile agli eccessi, aperta ad ogni aggiustamento e garantita dalla presenza stabilizzatrice della Chiesa cattolica. Gli uni e gli altri, insieme alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li contrapposero, sarebbero così da condannare alla pubblica dimenticanza, come elementi accidentali e fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano. In questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di equivalenza, per poter poi essere congiuntamente estromessi in nome di una particolare concezione della nostra identità come nazione. All’antifascismo, quale fattore costitutivo delle istituzioni e della vita repubblicana, verrebbe così a costituirsi qualcosa come un “non fascismo-non antifascismo”, conforme al genio, che si pretende propriamente italiano, di procedere diritto tra gli opposti eccessi. Questa tendenza è pienamente in atto nel senso comune alimentata da una storiografia e una memorialistica sorprenden- 38 temente sicura di sé nelle definizioni dell’attendismo come virtù di saggezza pratica, invece che come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura su simili strade, è più ideologia che scienza. Chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista, ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto sul fronte opposto, certo sarebbe preso da un grande stupore nel constatare l’estendersi di un giudizio che non solo assolve ma addirittura valorizza l’atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi goderne i frutti col sacrificio di altri. Ne trarrebbe anche motivo di grande sconforto e offesa, a causa della condanna e del disprezzo che quel giudizio implica. Tra le leggi di Solone – come riferisce Plutarco – ve n’era una, del tutto particolare e sorprendente che privava dei diritti civili coloro i quali, durante una “stasi” (un conflitto tra cittadini), non si fossero schierati con nessuna delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno rimanesse indifferente e insensibile di fronte al bene comune, ponendo al sicuro i suoi averi e facendosi bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria; ma volendo che ognuno, unitosi a coloro che agivano per la causa migliore e più giusta, si esponesse ai loro pericoli e portasse aiuto, piuttosto che attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori. GUSTAVO ZAGREBELSKY Prefazione alle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana” La “Memoria” Era gremita di sardi e di cittadini locali la Sala delle Carrozze a Villa Marazzi di Cesano Boscone (città di 25000 abitanti alle porte di Milano), per la presentazione del libro postumo di Pietro Tola, Il lager nel bosco. Due anni di lavoro forzato nei campi di concentramento tedeschi, 1943-1945 (Cagliari, CUEC, 2001), curato dai figli Salvatore e Giovanni Tola, con prefazione del prof. Manlio Brigaglia, presidente dell’Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell’autonomia (Issra). Con questa iniziativa il circolo dei sardi “Domo Nostra”, preseduto da Mario Piu, ha dato un significativo contributo, a nome dei sardi della Lombardia e di tutta l’Italia continentale alla celebrazione nazionale della Giornata della Memoria, che vuole ricordare le persecuzioni subite sia dal popolo ebraico che dai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. Ne è autore Italo Tibaldi UN CALENDARIO SULLA DEPORTAZIONE Il Consiglio regionale del Piemonte e l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea hanno pubblicato il calendario “Giorno della Memoria 2003 – Calendario della deportazione politica e razziale nei campi di eliminazione e stermino nazisti 1943-1944-1945” Si tratta di una pubblicazione dell’Aned di cui è autore Italo Tibaldi. Come scrive nella sua presentazione Lido Riba, vice presidente del Consiglio regionale del Piemonte nel calendario sono segnati mese per mese “i giorni della partenza dei convogli dei deportati politici e razziali, riportando le indicazioni esatte dei trasporti. Di volta in volta nella pagina a fronte campeggia un paesaggio acquerellato, che contrasta con la sua bellezza la durezza dell’informazione. Da una parte, dunque, il calendario ‘bloccato’ della memoria che rinvia al passato; dall’altra il calendario della natura e delle stagioni, che riconduce a un presente e a un futuro che si vorrebbe diverso”. L’autore, l’ex deportato Italo Tibaldi è noto ai lettori del Triangolo Rosso per aver dedicato la sua vita alla ricostruzione della tragedia che lo coinvolse con migliaia di altri italiani. Con questa sua nuova opera ha dato un contributo originale alla conoscenza e alla memoria della deportazione. Gli acquarelli che illustrano il calendario sono di Rina Totini Zanderigo, mentre l’ottimizzazione informatica è di Valeriano Zanderigo. Il calendario è presente anche in Internet sul sito www.deportati.it con una presentazione di Dario Venegoni. celebrata dai circoli sardi in Lombardia Filippo Capuano, assessore alla Cultura e Ferruccio Fabbri dell’Anpi di Cesano, hanno sottolineato il significato di testimonianza che trasmettono ai giovani esperienze terribili come quelle vissute da Pietro Tola e quelle raccontate attraverso le altre iniziative, anch’esse organizzate per le scuole: mostra di quadri sull’“universo concentrazionario”, rappresentazione teatrale ispirata alla risiera di San Sabba. Non a caso Fabbri ha chiesto alla nipote di Tola, Annalaura, di esprimere le sue valutazioni di giovane impegnata a non interrompere il filo della memoria familiare, ricco di contenuti etici, che la tiene legata al nonno. Approfondite analisi della struttura e del valore educativo del libro sono state svolte da tre docenti di origine sarda di istituti medi superiori della provincia di Milano: Giuseppe Deiana (che ha dato conto, sulla scorta delle più recenti pubblicazioni, dei dati numerici del fenomeno della deportazione, compresa quella degli Internati militari italiani, com’era la guardia di finanza Pietro Tola); Pasqualina Deriu (che si è soffermata sul significato della scrittura, come autoaffermazione di sé e meccanismo della fortificazione della volontà, per chi è condannato a sopravvivere in un luogo di segregazione); Antonio Satta (ha citato alcuni degli episodi molto concreti, raccontati da Tola, di sevizie fisiche e psicologiche inferte dagli aguzzini ai lavoratori del campo). Gli stessi docenti nei giorni successivi hanno promosso, presso la propria scuola, un confronto diretto con gli studenti, già a conoscenza del contenuto del libro, con i curatori del volume, Giovanni e Salvatore Tola, i quali hanno fatto un’opera veramente apprezzabile per accrescere la nostra co- noscenza del contesto storico in cui si inseriscono i tremendi fatti vissuti dal padre. Personalmente ho sostenuto che sia il diario di Pietro Tola (nato a Thiesi nel 1905) sia il libro del professor Diego Are (nato a Santo Lussurgiu nel 1914, quindi di nove anni più giovane, che ha però vissuto un’esperienza simile e coeva a quella di Pietro Tola), insegnano che, nei momenti di “crisi” della storia e della vita, bisogna avere il coraggio di scegliere respingendo le facili lusinghe e che per “resistere” di fronte al male occorre riferirsi a valori morali in cui credere e da cui non derogare. Paolo Pulina Responsabile informazione e comunicazione della Federazione delle Associazioni sarde in Italia 39 I nostri lutti La morte del compagno Ferdinando Zidar Dalla deportazione a Buchenwald, alla primavera di Praga Lo scorso 31 gennaio è deceduto a Trieste, all’età di 88 anni, il compagno Ferdinando Zidar. Impegnato nella battaglia antifascista fin dal 1936 quando entrò a far parte del Pci clandestino, nel 1937 venne arrestato dalla polizia fascista, condannato e inviato al confino in Basilicata. Tornato in libertà si laurea a Firenze in Scienze politiche. L’8 settembre lo coglie a Trieste e si unisce subito ai reparti partigiani operanti nell’Istria per poi passare all’attività clandestina nel Fronte della gioventùe alla redazione del giornale Il lavoratore. Nuovamente arrestato viene incarcerato al Coroneo e quindi deportato nel 1944 nel campo di concentramento di Buchenwald. Qui Zidar svolse un delicato ruolo di collegamento del gruppo di deportati italiani con il Comitato internazionale clandestino che agiva all’interno del campo stesso e partecipò all’organizzazione militare che liberò il campo di Buchenwald l’11 aprile 1945, due giorni prima dell’arrivo delle truppe americane. Tornato in Italia, Zidar divenne giornalista dell’Unità, dove svolse diverse funzioni a Trieste, a Milano e all’estero. Fu corrispondente dell’organo del Pci dalla Cecoslovacchia nei giorni della “primavera di Praga”, parteggiando per i rinnovatori e portando in Italia un’esperienza diretta di quegli eventi. Tornato a Trieste collaborò attivamente con la sezione dell’Aned della quale fu eletto presidente nel 1980. Per conto dell’Aned nazionale è entrato a far parte del Comitato internazionale del campo di concentramento di Buchenwald, finché per motivi di salute ha dovuto lasciare lo scorso anno questo incarico e la presidenza della sezione Aned. La figura di Ferdinando Zidar è stata ricordata dal quotidiano in lingua slovena Primorski Dnevnik. La scomparsa del comandante siciliano “Petralia” Alla testa dei suoi partigiani sfilò nella Torino liberata Il 9 gennaio ci ha lasciato l’ultimo carismatico comandante partigiano siciliano, “Petralia” (Vincenzo Modica, già residente a Torino). “Petralia” viene considerato il secondo comandante della Resistenza armata nel Cuneese, vice di Pompeo Colajanni (“Barbato”) anche lui siciliano, a capo della zona dell’VIII zona militare del Piemonte durante la guerra di liberazione. Ufficiali di cavalleria entrambi, sono tra i primi ad organizzare i distaccamenti garibaldini in Piemonte; e poi le brigate e le divisioni d’assalto Garibaldi. “Petralia”, malgrado le gravi ferite ri- 40 portate negli scontri con il nemico, continuò a dirigere la sua 1a divisione d’assalto “Leo Lanfranco”. Il 25 aprile 1945, dopo aver liberato la città di Chieri, occuperà Torino assieme a “Barbato”e sfilerà alla testa della colonna partigiana portando sul braccio la gloriosa bandiera tricolore, che il fascismo e la monarchia avevano buttato nel fango. I garibaldini che conoscevano i valori militari e umani di “Petralia”, durante i combattimenti desideravano essere vicini a lui. La sua presenza dava forza, sicurezza e coraggio. Finita la guerra si dedicò all’attività per la rinascita del paese e della nostra economia, dando anche lavoro a moltissimi ex partigiani. Ha creato le “Giornate” per ricordare i caduti e i martiri della libertà sul Montoso e nelle Valli adiacenti. “Petralia” non ha preteso incarichi politici, anche se ha seguito la politica; fiero dei “suoi” garibaldini ha condiviso le loro attività culturali e sindacali. Ha lasciato una memoria: Dalla Sicilia al Piemonte. Storia di un comandante partigiano. Vorrei che i partigiani, con la Regione piemontese lo ricordassero sul Montoso e a Torino, mentre i partigiani siciliani e Mazara del Vallo (la sua città natale) lo com- memorassero a Mazara. Il governo regionale dovrebbe ricordarlo a Palermo insieme a Pompeo Colajanni “Barbato”. Entrambi rappresentano l’orgoglio della libertà e della democrazia per l’Italia e per la Sicilia. Io li ricorderò sempre fra la gente, in tutte le scuole e le manifestazioni affinché le loro azioni e il loro coraggio spesi per la libertà, non incontrino mai il tramonto. Nunzio Di Francesco (“Athos”) consigliere nazionale dell’Aned Alla famiglia del comandante “Petralia” le vive condoglianze dell’Aned e della redazione di Triangolo Rosso IL TELEGRAMMA DI MARIS Alla notizia della morte, il presidente nazionale dell’Aned, Gianfranco Maris, ha inviato alla famiglia il seguente telegramma: “In questo momento i superstiti dei campi di concentramento nazisti che hanno conosciuto Ferdinando Zidar e tutti i vecchi compagni che hanno seguito il suo coraggioso cammino di lotta nell’antifascismo militante che lo ha condotto alla dura condanna del Tribunale militare fascista e alla impegnata Resistenza durante la guerra di Liberazione e alla deportazione politica nel campo di annientamento di Buchenwald, sono profondamente addolorati. Con la sua scomparsa la memoria stessa dell’antifascismo militante e della deportazione ricevono una grave ferita perché Ferdinando Zidar ha saputo essere per tutti gli anni che hanno fatto seguito alla Liberazione e alla fine della guerra, sino all’ultimo giorno della sua vita, un testimone forte del passato di lotta del nostro paese e un attivo militante di tutte le battaglie che sono state combattute e sono ancora in atto in Italia per raggiungere gli obiettivi di pace, di libertà e di democrazia che sono state le ragioni stesse della sua vita. A tutti i suoi familiari ed ai compagni di Trieste l’Aned esprime il suo profondo dolore”. NECROLOGI L’Aned di Milano ricorda ROMEO BRAMBILLA deceduto a 81 anni nel gennaio scorso. Aveva subito la deportazione a Mauthausen e nel sottocampo di Gusen. La sezione Aned di Trieste comunica con dolore la scomparsa della compagna ONDINA PETEANI prima staffetta partigiana d’Italia, arrestata dalla polizia fascista, poi deportata nel campo di sterminio nazista di Auschwitz e successivamente a Ravensbruck con il n° 81672. Aveva 77 anni. Fu per molti anni dirigente attiva dell’Anpi e dell’Aned. È deceduto a Imola VERO VANNINI di 81 anni che fu deportato a Mauthausen Gusen. L’Aned di Pisa comunica con tristezza la scomparsa del compagno. MICHELE BARUCH-BEHOR Rimpatriato nel 1933 da Smirne dove era emigrato con la famiglia, nel 1938, in seguito alle leggi razziali, fu colpito dalle persecuzioni. In seguito subì l’arresto insieme ai familiari. Dopo il campo di transito di Fossoli, finì ad Auschwitz con il padre, la madre, due sorelle e due fratelli. Fu l’unico a sopravvivere. Venne trasportato con Primo Levi da Fossoli fino al campo di annientamento. Nel libro I sommersi e i salvati, Levi ricordò la fine di uno dei Baruch, ucciso appena giunto da Auschwitz perché aveva reagito alla violenza di un SS. Con Michele scompare uno dei più cari compagni, un altro testimone dell’immensa tragedia che ha sconvolto l’umanità. E’deceduto a M.Beccaria (PV) PIETRO CRESCIMBINI che fu deportato nel campo di concentramento di Mauthausen E’ scomparso ALBINO TINAZZI di Treviso; deportato a Mauthausen e in Ungheria IN RICORDO DI NADJA BUNKE L’11 febbraio 2003 Nadja Bunke ci ha lasciati. Abitava nella ex Berlino Est, aveva 92 anni e non aveva mai smesso di lottare per un mondo migliore. Ci lascia il ricordo di una vita esemplare di militante comunista. A fianco del suo compagno, Erich, partecipò ai gruppi di resistenza clandestina nella Germania nazista. Ebrea, visse in una doppia clandestinità. Dovette tenere nascosto il suo legame con Erich e perfino la nascita del primo figlio per non incorrere nelle terribili conseguenze della violazione delle leggi razziali. Quando il cerchio della repressione si fece insostenibile, Nadja ed Erich, nel 1935, furono costretti ad emigrare in Argentina, dove intrapresero la loro vita di esuli. Fu l’inizio di un’altra militanza, di nuovo clandestina, nelle file del Partito comunista argentino, allora illegale. Tamara Bunke, universalmente nota come “Tania la guerrigliera”, nacque in Argentina il 19 novembre del 1937. Dopo la caduta del nazismo, la famiglia Bunke andò a vivere nella Repubblica democratica tedesca dove Nadja ed Erich, entrambi insegnanti, incominciarono con entusiasmo una nuova vita da pionieri in una città appena sorta, vivendo e lavorando in una scuola ancora in costruzione. Tamara studiò e militò nelle file del Partito socialista unificato tedesco, mantenendo sempre vivi i vincoli che la legavano alla sua patria di nascita. Il suo desiderio di tornare in America Latina per lottare per il riscatto sociale dell’Argentina, la portò come prima tappa a Cuba, dove visse l’esperienza entusiasmante della prima epoca rivoluzionaria e poi in Bolivia, nelle formazioni internazionaliste latinoamericane della guerriglia guidata dal comandante Ernesto Che Guevara. Tania (il suo nome di battaglia) cadde in combattimento il 31 agosto 1967. Le sue spoglie mortali sono custodite a Cuba, nel mausoleo di Santa Clara, accanto a quelle del Che e degli altri combattenti della guerriglia boliviana. Nadja, che aveva sempre condiviso l’impegno rivoluzionario della sua amatissima figlia, si dedicò a tramandarne la memoria, difendendola da ogni tipo di travisamento e calunnia volti ad offuscarla. Partecipò alla stesura del diario-testimonianza Tania la guerillera inolvidable, che si pubblicò a Cuba nel 1970, e curò le numerose edizioni in lingua tedesca nella Rdt ed ultimamente in Germania. Concesse un’intervista per la nuova edizione in lingua italiana in cui affermava: “Finché vivrò continuerò a combattere con tutte le mie forze per difendere l’onore e la dignità di mia figlia. Questa è la mia battaglia per il rispetto della verità”. Quello di continuare quest’opera di riscatto della memoria di Tania e di tutti i rivoluzionari e di ricostruzione della verità storica è un impegno che, anche nel ricordo ed in onore di Nadja, tutti i comunisti, ma anche tutti coloro che lottano per un mondo migliore, di libertà e di giustizia, sono chiamati a fare proprio. Adriana Chiaia 41 A PIÙ DI DIECI ANNI DALLA FINE DEL REGIME, IN UN LIBRO DI Dopo l’apartheid, Come era possibile giungere alla riconciliazione del popolo sudafricano, ad un faticoso ma necessario approdo fra chi aveva imposto per decenni il proprio potere con la violenza e con il sangue e chi l’aveva dovuta subire, irriso e piegato sempre, inesorabilmente, ogni qualvolta aveva tentato un qualsiasi approccio nel tentativo di trovare una soluzione all’apartheid? Come uscire dalle rovine fumanti dell’inferno dei ghetti, dalle profonde ferite dell’animo e del corpo per sperare di ritrovare una dignità comune, capace di far camminare un popolo nel suo assieme, neri e bianchi, vittime e carnefici, verso un domani diverso? di Franco Giannantoni Aver fissato nelle Corti penali le responsabilità dei colpevoli, i famigerati perpetrator, non era sufficiente. Non bastavano le loro condanne, né lo smascheramento di una politica che aveva fondato le proprie regole sulla prevaricazione e sull’uso brutale del potere. Né avrebbe avuto alcun sen- so la dimenticanza, lasciare che “i morti seppellissero i morti”. Occorreva trovare una via d’uscita diversa, dal profilo originale, una formula che riscattasse la dignità offesa e schiacciata delle vittime ma, nello stesso tempo, purificasse, attraverso un’ammissione ampia e liAnni cinquanta: la cerimonia funebre per seppellire le vittime dell’ennesima repressione nel ghetto nero di Soweto. Si aggiunge un’altra fila alla lunga teoria dei tumuli. 42 DANILO FRANCHI E LAURA MIANI, LA TRAGEDIA DEL SUDAFRICA Una speciale Commissione per la verità, presieduta dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, premio Nobel per la pace, ha ascoltato dal 1996 al 1998 oltre ventimila persone, aguzzini e vittime, bianchi e neri, uomini e donne di ogni razza, età e censo, per ricostruire il sanguinoso passato e per ridare dignità e identità a generazioni vissute nella violenza e nell’odio la riconciliazione beratoria, anche chi, al riparo da ogni possibile conseguenza, aveva massacrato, stuprato, incendiato, distrutto, esaltando la forza brutale di un’autorità che si era retta sull’impunità e l’aperta, diffusa illegalità. Lo snodo più delicato era evitare di far seguire una catena di possibili ritorsioni a decenni di un regime che aveva affondato i suoi artigli nel corpo della popolazione nera, negandone non solo diritti, vita civile, possibilità di sviluppo ma anche dignità etnica. Era indispensabile tener lontano il fantasma dell’uhuru, la prevedibile, tremenda vendetta dei neri, secondo il pensiero degli afrikaner, i discendenti dei boeri, gli antichi colonizzatori, come del resto si era manifestata in forme incontrollabili in Kenya, Mozambico e Rhodesia. La formula per giungere all’approdo di un rapporto normale che potesse spianare la strada per una rifondazione politica e sociale dell’intero Sudafrica (“solo assumendoci la responsabilità del nostro passato - aveva sostenuto in un suo memorabile intervento l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, Nobel per la pace nel 1984 - potremo impegnarci responsabilmente per il nostro futuro”), è stato qualcosa di assolutamente straordinario di cui non vi è traccia in altra parte del vedeva radicali richieste almondo che pur è cosparsa le parti in lotta, uscite dal di conflitti etnici laceranti, tunnel della segregazione apparentemente senza via razziale: i bianchi dovevad’uscita. Il varo di una no ripudiare l’apartheid, “Commissione per la verità rievocare i crimini come la riconciliazione suda- messi, accettare la parità coi fricana” (Truth and Recon- neri, il che equivaleva a deciliation Commissione- cretare la fine del potere TRC), presieboero; ai neri duta dallo era richiesto di stesso Tutu, rinunciare ad una sorta di ogni progetto gigantesco di vendetta e filtro storiodi governare grafico, attracoi bianchi il verso il quaPaese uscito le, senza aldal lungo tracuna remora, vaglio. con il sacrifiDiciassette cio purificaerano i comtore della missari, di cui confessione, cinque donne, ai fini della tre religiosi, concessione due avvocati, dell’amnistia, tre studiosi del in un’ampia diritto. ricostruzione Differenti le dei fatti crietnie: due inminali fatti e diani, due mesubiti, assasticci, due afrisini e vittime kaner, quattro - quest’ultime inglesi e sette oppresse da neri, di cui uno ricordi incanzulu. cellabili - uoUna storia che mini di pote- Nelson Mandela. nel faticoso re e popolo dettaglio è nero, polizia segreta e di- sfuggita in genere ad un apsperati ai margini della so- profondito dibattito. pravvivenza o confinati nei Pochi hanno conosciuto il lager di Soweto o di travaglio elaborativo della Alexandra, hanno riversa- Commissione da quando, to in migliaia di relazioni, il nel febbraio 1995, fu istiloro vissuto. L’accordo, fis- tuita per legge, ad un anno sato da regole precise, pre- dalle prime e libere elezio- ni che videro vittorioso l’African National Congress, il partito di Nelson Mandela, reduce quattro anni prima da ventisette anni di carcerazione; pochi hanno avuto eco degli esiti istruttori quando, dal febbraio del 1996 all’ottobre del 1998, circa ventimila persone hanno rievocato davanti ai commissari le loro tragedie, puntando ad un’amnistia pagata con il prezzo salato della pubblica vergogna. La verità è che non c’era stato un vincitore reale al termine di un percorso che aveva visto i popoli aborigeni incontrarsi e scontrarsi per oltre due secoli con i predatori, giunti a più riprese, sull’onda dei poteri coloniali, in quelle lontane terre. Il potere economico era rimasto comunque sempre saldamente nelle mani dei bianchi mentre il vincitore politico era stato il popolo nero. Ma gli uni non potevano fare a meno degli altri se si fosse voluto superare lo steccato, a meno di far precipitare tutto in un bagno di sangue, in altre forse più devastanti mattanze. Ecco allora la Commissione, una vera invenzione, uno straordinario marchingegno che, liberando l’oppresso, potesse liberare nello stesso tempo anche l’oppressore. 43 A colloquio con Danilo Franchi, coautore con Laura Miani “La verità non ha colore” Danilo Franchi, 57 anni, varesino, consulente editoriale e discografico, sceneggiatore, in uno splendido ed emozionante libro a quattro mani con la scrittrice Laura Miani dal titolo La verità non ha colore (Edizioni Comedit 2000, pp. 270, euro 14), ha attraversato con rigore e una forte dose di passione “La lezione che si può trarre da questa esperienza - osserva con acutezza Danilo Franchi - è estremamente significativa perché viene da quel popolo nero brutalizzato per secoli interi. Esso con la Commissione invita ad andare avanti, a trovare la strada per costruire qualcosa che non c’è mai stato. Una civile comune convivenza nel rispetto delle diverse culture, origini, tradizioni, speranze”. Se una esemplare cartina geografica che apre il libro serve ad indirizzare il lettore dentro il buco nero della storia sudafricana, se una efficace cronologia storica fissa le tappe attraverso le quali dai colonizzatori-invasori boeri (1652-1780) si arriva alla politica del cosiddetto sviluppo separato (1948-apartheid), sono le testimonianze alla Commissione, le voci autentiche dei protagonisti, dagli aguzzini alle vittime, ventuno in tutto, scelte per offrire un ventaglio il più completo possibile delle esperienze vissute, che scuotono la coscienza, rivelando orrore e pietà, efferatezza e indulgenza, odio e carità. “Dal giorno in cui, del tutto casualmente, ho conosciuto questa realtà, ne sono stato travolto - spiega 44 questa tragedia, solo lontana per le migliaia di chilometri che dividono l’Europa dall’estrema Africa, ma terribilmente a noi vicina per troppe cupe analogie: basti tornare alle infinite stragi nazifasciste durante l’occupazione del Reich e dei fantocci di Salò, non solo sul territorio nazionale, rimaste per con emozione Danilo Franchi - al punto che oggi seguo la vita del libro, passo per passo, di scuola in scuola, nelle biblioteche civiche, dove riesco ad andare, sempre a prezzo di grandi fatiche, orgoglioso, come lo si può essere di fronte alla scoperta di qualcosa di raro. Le testimonianze sono state per me come la scoperta di pietre preziose. Voci che vengono da ogni settore della società sudafricana, che spiegano bene il dramma vissuto lungo il terribile conflitto dagli anni ‘60 agli anni ‘90”. La Commissione, strutturata in tre Comitati, quello per la violazione dei diritti umani, quello per l’amnistia, quello per il risarcimento e la riabilitazione, non aveva le funzioni di un organo giudicante nel solco dell’affermazione di Mandela che aveva affermato come “la Commissione non fa giustizia ma verità”. “L’atto criminoso doveva essere stato compiuto per motivi politici - spiega Franchi - senza una motivazione forte, sarebbe stato escluso dalla valutazione della Commissione. Per la estrema delicatezza che comportavano, i racconti di donne e bambini sono stati affrontati da Sezioni speciali. Era il modo perché la testimonian- ragion di Stato senza colpevoli e per le vittime senza verità. Fenomeni, comunque, che non ebbero uno sbocco identico a quello sudafricano, sol se si pensi allo strumentale richiamo alla “pacificazione” che torna periodicamente come un ritornello nel nostro dibattito politico-storiografico. za emergesse dentro i contorni di una realtà interamente vissuta. Solo se tutto fosse uscito alla luce del sole, la dignità avrebbe potuto essere riconquistata. Infatti la verità testimoniata di fronte ai commissari ha costituito, per chi ha trovato la forza di parlare e anche di ascoltare, la possibilità di riappropiarsi della loro storia personale e più generale. La verità era lo strumento per l’amnistia ed il presupposto per la riconciliazione”. Un’amnistia che non doveva giungere come il frutto di un pentimento, di un rimorso o di un perdono che in molti casi è stato concesso dalle stesse vittime o dai parenti, spontaneamente. Essenziale era che l’aguzzino (perpetrator) avesse compiuto un interrogatorio pieno, avesse raccontato in ogni particolare il suo delitto, il che aveva dentro di sé in modo inevitabile il peso incalcolabile dell’autopunizione. Sull’altro fronte, le famiglie delle vittime, hanno invocato notizie che potessero servire a far sapere come era maturato il delitto, i particolari degli eccidi, i luoghi delle brutalità, dove erano i resti del caduto per ritrovarli e celebrare un simulacro di funerale. “Il presidente del Sudafri- ca Thabo Mbeki - ricorda Danilo Franchi - l’8 maggio 1996 nel suo discorso per il varo della nuova Costituzione, trovò la forza di dire con grande realismo, seppure in una forma che poteva suonare brutale, che per le strade del Paese si aggiravano le vittime di una tragedia secolare, senza più una maschera per poter proteggersi dalla nuda realtà. Mendicanti, prostitute, drogati, disperati, gente con la mente sconvolta, alla ricerca delle condizioni per poter sopravvivere. Mbeki disse testualmente: ‘Sono le creature nate dal nostro immorale ed amorale passato che si aggirano in mezzo a noi’”. Una sorta di slogan dalla forza indelebile per incitare al riscatto morale e civile e per andare, curate le ferite, con nobiltà d’intenti finalmente avanti. Ha detto il vescovo Tutu: “Il Sudafrica ha bisogno degli afrikaner, degli inglesi, dei coloured, degli indiani, dei neri. Siamo fratelli e sorelle di una stessa famiglia. Abbiamo guardato negli occhi la bestia del passato, abbiamo chiesto ed ottenuto perdono e abbiamo fatto ammenda. Possiamo chiudere la porta sul passato non per dimenticarlo ma per impedire che ci imprigioni”. F.G. Preambolo alla nuova costituzione del Sudafrica Noi, popolo del Sudafrica, riconosciamo le ingiustizie del nostro passato, onoriamo chi ha sofferto per la giustizia e la libertà nel nostro Paese, rispettiamo chi ha lavorato per la sua costruzione e sviluppo. Noi, uniti nella nostra diversità, crediamo che il Sudafrica deve appartenere a chi vive. Noi intendiamo risanare le divisioni del passato per costruire una società fondata sui valori di democrazia e di giustizia sociale, e basata sui fondamentali diritti umani. Una toccante testimonianza alla Commissione “Stroncato il sogno di vita della piccola nera Xoliswa” La signora Theodora Tiyo aveva due figli: Sipho di 26 e Xoliswa di 11 anni. Il marito era morto in carcere, per malattia, quando la piccola non aveva ancora cinque anni. Il figlio Sipho era attivista del “Black Power” ed era stato costretto ad espatriare. Bambini come pecore sgozzate SIGNORA TIYO: Una notte hanno suonato alla porta: erano due poliziotti per dirmi che mio figlio era morto. “Questione di donne” hanno detto. Stranamente non ci sono stati problemi ad avere il corpo e abbiamo potuto fargli il funerale. Qualche settimana dopo si sono presentati altri due poliziotti chiedendomi dove fosse mio figlio. “L’ho seppellito un mese fa”, ho risposto. E loro a dirmi, invece, che aveva lasciato il paese clandestinamente. A quel punto gli ho detto di farsi confermare la morte di Sipho dalle pompe funebri oppure, se volevano, potevo mostrargli la ricevuta di pagamento del funerale. Alcuni mesi dopo la morte del fratello, ritornando da scuola, la piccola Xoliswa fu colpita da una pallottola sparata della polizia. Alla signora Tiyo venne detto che la bambina si trovava in ospedale e, all’ospedale, che era all’obitorio. SIGNORA TIYO: All’obitorio mi hanno portata dentro uno stanzone pieno di cadaveri di bambini ammucchiati uno sull’altro, come pecore sgozzate. Non riuscivo a trovare mia figlia... tutti quei corpicini. L’ho trovata dopo più di un’ora... in un’altra stanza... accanto ad un’altra bambina della sua stessa età. Successivamente la signora Tiyo ricevette un avviso di comparizione al processo contro i presunti omicidi di sua figlia, ma il processo non iniziò mai. Si rivolse quindi a diversi avvocati senza risultato. L’ultimo le disse di mettersi l’anima in pace e le diede una banconota da cinque rand. In seguito sarebbe venuta a sapere che sua figlia si era trovata, per caso, nel mezzo di una sparatoria della polizia. SIGNORA TIYO: In quel periodo, praticamente ogni giorno, la città era nel caos: nella zona dove passava mia figlia erano stati incendiati dei negozi e, oltre alla polizia, spesso sparava sui civili anche l’esercito. Avevano ucciso anche il bambino di una famiglia che conoscevo, i Malize. Non avendo ricevuto alcuna informazione né dalla polizia né dal governo, la signora Tiyo chiede alla Commissione che si indaghi sulla morte di sua figlia. Fa anche presente che è di salute malferma e che soffre di pesanti disturbi nervosi. Inoltre, riesce a lavorare solo in modo saltuario e, recentemente, ha ricevuto lo sfratto: ho degli amici che a volte mi aiutano ma anche loro devono sopravvivere. Sognare che cosa fare da grande Dopo la testimonianza della signora Tiyo, il 27 giugno 1996, la dottoressa Ramashala della Commissione, riunita a Port Elizabeth, ha parole accorate per le sofferenze della testimone e per il destino di molti bambini neri durante il conflitto. COMMISSIONE: Quando un bambino nasce, i suoi genitori sognano. Poi, quando un bambino va a scuola inizia a desiderare di diventare grande. E gli adulti gli chiedono: “Che cosa farai da grande?”. E lui comincia a sognare di diventare un insegnante, un medico, un attore, un avvocato. Ma i bambini neri del Sudafrica non hanno mai avuto il coraggio di sognare. Sognare è un aspetto del dormire. Per i bambini neri dormire è pericoloso persino nella casa dei loro genitori. Così, in Sudafrica, mentre i bambini degli altri andavano a scuola e sognavano, i bambini neri morivano. Mentre gli altri bambini giocavano per la strada, i bambini neri avevano paura di uscire e persino di guardar fuori dalla finestra di casa o della loro scuola. Abbiamo bisogno di piangere, abbiamo bisogno di celebrare la piccola Xoliswa e tutti i bambini come lei ai quali è stato stroncato il sogno di una vita futura. (da Danilo Franchi, Laura Miani, La verità non ha colore, Edizioni Comedit 2000) 45 BIBLIOTECA Gabriele Nissim, “Il tribunale del bene” La storia di Moshe Bejski, all’ombra degli alberi del suo “Giardino dei giusti” L’uomo che creò il Giardino dei giusti si chiama Moshe Bejski, un ebreo polacco, reduce dai campi di sterminio, salvato assieme a centinaia di altri da Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco ormai notissimo a tutti grazie al bellissimo film di Steven Spielberg Schindler’s List. All’origine di questa straordinaria istituzione c’è una legge approvata nel 1953 dal Parlamento israeliano, che impone allo stato di onorare i salvatori degli ebrei. Per dieci anni quella legge è stata disattesa, finché, proprio il clamore e l’entusiasmo suscitati dalla storia della “Fabbrica della vita” di Schindler, fatta conoscere da Bejski, indussero il direttore del Museo della Shoah, Leon Kubovi, a proporre di dare finalmente attuazione a quella legge. Nacque così, nell’ambito del memoriale di Yad Vashem, l’istituzione in ricordo dei martiri e gli eroi della Shoah, la “Commissione dei giusti”, presieduta da Moshe Landau, il giudice più popolare di Israele, presidente del tribunale che nel 1961 aveva giudicato Adolf Eichmann, condannandolo alla pena di morte. Landau, uomo integerrimo e giurista intransigente, aveva avuto un percorso diverso da Bejski. Non aveva conosciuto, per diretta esperienza, gli orrori della 46 Shoah. Bejski, invece, sapeva che cosa voleva dire concretamente, per averlo vissuto sulla propria pelle, incontrare in una strada senza sbocco e senza speranza uno che ti porge una mano, che significa la salvezza. Per lui quell’uomo fu Schindler. Per altri furono le persone più diverse, tutte, comunque, che avevano messo a repentaglio la propria vita per salvare quella di uno o più ebrei. In Polonia, dove, peraltro, anche sotto la dominazione nazista, continuava ad imperversare l’antisemitismo, ce ne furono almeno 5632, riconosciuti ufficialmente, ad ognuno dei quali è stato assegnato un albero nel “Giardino dei giusti”, a Gerusalemme. Un albero anche per Schindler, ma solo da quando Bejski successe nella carica di presidente a Landau. Fra i due, sul punto, c’era stato un contrasto. Landau, infatti, riconosceva a Schindler di avere salvato tanti ebrei e che dunque gli era dovuta riconoscenza, non però fino al punto di assegnargli il titolo di Giusto, per via del suo modo di vivere non proprio impeccabile: donnaiolo, imbroglione, fanfarone, spendaccione, bugiardo. Per Bejskie, invece, tutti i difetti di Schindler erano niente di fronte al rischio che aveva corso per salvare da morte sicura tanta gen- te. Se era vivo lo doveva a lui e per questo aveva votato la propria vita alla ricerca di tutti i giusti che rischiavano di essere dimenticati dalla storia. Una medaglia a due facce: da un lato Simon Wiesenthal, inflessibile cacciatore di criminali nazisti; dall’altro Moshe Bejski, ricercatore infaticabile dei giusti. Che, fra loro, erano molto diversi. Non tutti dalla moralità fuori discussione. C’erano anche prostitute, collaboratori, antisemiti, piccoli profittatori, persino ufficiali nazisti e procuratori di Cyklon B. A tutti Bejski teneva la porta aperta. Chiunque fosse, uno che aveva salvato una vita meritava attenzione e riconoscenza. A Moshe Bejski e alla sua vita esemplare Gabriele Nissim ha dedicato un bellissimo libro. Tanti gli episodi raccontati in questo libro. Il più edificante è quello di un povero ebreo, che, fuggito da un campo di sterminio, solo e pieno di paura, affamato e malvestito, sta cercando da giorni, passando le notti sotto i ponti, una via di salvezza per le strade di Varsavia. Già molte porte gli sono state sbattute in faccia e quando ormai si sente perduto scorge un piccolo negozio di orologeria e col coraggio della disperazione entra per chiedere se hanno bisogno di lavoro. Il proprietario lo squadra dalla testa ai piedi, identificandolo come ebreo, e poi gli chiede che cosa sa fare. “Mi dia l’orologio più scassato che ha nel negozio e glielo farò vedere”, dice l’ebreo, che è un eccellente orefice. Avuto l’orologio fra le mani, lo smonta e lo rimonta e lo restituisce in perfetto stato al padrone del negozio. Il quale, ammirato per la straordinaria professionalità, lo rassicura, dicendogli che d’ora in poi non gli mancherà lavoro e che potrà pasUn nuovo albero piantato nel Giardino dei giusti. sare le notti nel retrobottega. L’ebreo trovò così la sua salvezza in quella botteguccia, restandovi nascosto fino all’arrivo dell’Armata Rossa. Poi emigrò in Australia, a Melbourne, dove aprì un negozio più grande e più bello. Dopo 40 anni il caso volle che la figlia del suo benefattore, in visita turistica nella città australiana, entrasse proprio in quel negozio per farsi riparare un prezioso orologio che le era caduto malamente per terra. In breve, l’ebreo capì che si trattava della figlia del suo ex padrone polacco e, finalmente, si rivolse a Bejski per fargli avere il giusto riconoscimento, beccandosi i più aspri rimproveri per essersi scordato per tanto tempo di ringraziare la persona cui doveva la vita. L’episodio più drammatico è di un tedesco di religione protestante, Kurt Gerstein, uno dei responsabili del servizio di igiene delle Waffen SS, incaricato di acquisire i prodotti tossici destinati allo sterminio degli ebrei. Di sentimenti antinazisti, fece sotterrare una grossa fornitura di acido prussico con la scusa che il materiale si era deteriorato. Soprattutto cercò di far circolare all’estero le notizie dello sterminio nelle camere a gas. Allo scopo ebbe un colloquio con il barone von Otter, segretario della Legazione svedese in Germania, che, dopo averlo ascoltato, fece un rapporto al proprio governo. Ma il documento restò chiuso in un cassetto fino al termine della guerra perché il governo di Stoccolma non volle mettere a rischio le proprie relazioni difficili con la Germania. La stessa cosa, tramite un amico olandese, Gerstein la tentò con gli inglesi, che, però, non gli credettero o fecero finta di non credergli. Altro tentativo col vescovo protestante Otto Dibelius, che restò sconvolto, ma gli disse di essere impotente. Ultimo tentativo col nunzio apostolico Cesare Orsenigo, rappresentante del Vaticano a Berlino, che dopo averlo ascoltato per qualche minuto, lo cacciò fuori dal suo ufficio. A Gerstein non restò che continuare nella sua opera di sabotaggio. A liberazione avvenuta, venne arrestato dai francesi e non venne creduto. Sbattuto in prigione, trattato nel peggiore dei modi, non sopportando di essere accusato di orrendi crimini, si impiccò il 25 luglio del ‘45. Saul Friedlander, uno dei grandi storici della Shoah, contestò le accuse. Leon Poliakov lo difese. La Commissione dei Giusti, non più presieduta da Bejski, dichiarò non accettabile la discussione sul caso. Esemplare l’opera di Moshe Bejski, che mai si è stancato di valorizzare le azioni coraggiose dei salvatori. “Certo - egli ha scritto i Giusti non erano in grado di eliminare i crimini contro l’umanità, dato che intervenivano quando la violenza si era già manifestata. Eppure la loro funzione era preziosa perché insegnavano ad assumersi una responsabilità personale in un mondo in cui il male è sempre in agguato”. i.p. Gabriele Nissim Il tribunale del bene, Mondadori, pagine 336, euro 18,00 Gunter Grass, “Il passo del gambero” La tragedia dei tedeschi fuggiti dai territori orientali Gunter Grass, premio Nobel per la letteratura 1999, affronta nel suo ultimo romanzo uno dei temi a lungo volutamente ignorati dalla sinistra tedesca: la tragedia di 12 milioni di persone che fuggirono dai territori orientali per rifugiarsi in occidente di fronte all’avanzata dell’esercito sovietico. Lo scrittore tedesco - noto per le sue coerenti posizioni di sinistra – costruisce, sullo sfondo di questa tragedia, un romanzo in cui vengono abilmente intrecciati eventi realmente accaduti e personaggi di fantasia. Appartiene infatti alla realtà l’affondamento da parte di un sottomarino sovietico il 30 gennaio 1945 (significativamente il 12° anniversario dell’ascesa al potere di Hitler) della “Wilhelm Gustloff”, una nave salpata da Gotenhafen (l’attuale Gdynia) diretta verso i porti occidentali della Germania e stipata da quasi 10.000 profughi, la maggior parte dei quali persero la vita nelle gelide acque del Mar Baltico. La nave portava il nome di un “martire” nazista, ucciso in Svizzera a colpi di rivoltella nel 1936 da un giovane ebreo che interdeva vendicarsi della politica razzista del nazismo. Anche questo secondo personaggio realmente esistito entra a far parte del romanzo di Grass, così come il co- mandante del sommergibile sovietico dal quale partirono i siluri che affondarono la nave stracolma di profughi. Accanto a loro ruotano i personaggi creati dalla fantasia di Gunter Grass tra i quali una donna che si trovava a bordo della nave e che partorì pochi istanti dopo essere stata salvata, suo figlio che assume quasi controvoglia la parte del narratore, e il figlio di quest’ultimo le cui idee neonaziste nella Germania di oggi lo portano a commettere un delitto anch’esso di origine razziale. Una riflessione coraggiosa quella di Gunter Grass che non trascura nessun momento della recente storia della Germania, dall’affermarsi del nazismo, alla tragedia della guerra, all’occupazione sovietica, alla divisione della Germania in due stati contrapposti, alla riunificazione con il conseguente disadattamento di molti abitanti dell’ex Ddr. Una riflessione che ci aiuta a capire come le conseguenze di quella guerra non siano facilmente eliminabili anche a più di mezzo secolo di distanza. b.e. Gunter Grass Il passo del gambero, Einaudi, euro 15,00 47 BIBLIOTECA “Il muro di Mallare” di Hans Joachim Lange Come un tenente della Wehrmacht ha visto la Resistenza in Liguria Hans Joachim Lange era un giovane tenente della Wehrmacht quando venne aggregato, come ufficiale di collegamento, tra il settembre 1944 e il 25 aprile 1945, ad un reparto della divisione San Marco che operava, con scopi prevalentemente antipartigiani, in Val Bormida, sulle alture che separano la provincia di Savona dal Piemonte. A mezzo secolo dalla fine della guerra, Lange ha raccolto le sue memorie sotto forma di romanzo in un libro, edito in Italia con il titolo Il muro di Mallare. Il risultato è la descrizione, vista dall’altra parte, della lotta partigiana in una zona dove la guerra di Liberazione ha avuto aspetti molto aspri. Molto opportunamente in appendice sono raccolte le diverse versioni di alcuni scontri tra partigiani e repubblichini nella zona tratte sia Diario di guerra della Divisione San Marco, sia dalle Cronache militari della Resistenza in Liguria, un’opera fondamentale di Giorgio Gimelli (il partigiano Gregori). Anche se sotto forma di romanzo, e quindi opera di fantasia, il libro di Lange descrive in modo abbastanza dettagliato le azioni della Divisione San Marco e quelle dei partigiani che operavano nella zona. Si coglie di continuo nelle pagine del racconto l’isolamento in cui si trovavano ad operare i mili- 48 ti fascisti a causa della forte ostilità della popolazione di quelle montagne schierata nettamente dalla parte dei partigiani (“giù a Savona, fuori della caserma, soli come cani e guardati di sbieco. Le donne ci fuggivano, ci guardavano con timore e disprezzo e ci restavano solo le femmine di malaffare”, ricorda un ex militare della San Marco). Vengono descritti eventi realmente accaduti, sia pure modificando il nome dei protagonisti. Si ricorda così il continuo stillicidio di diserzioni da parte di militi della San Marco che passano con i partigiani. Il più clamoroso è quello di sei militari che poco dopo l’arrivo della San Marco in Liguria abbandonano di notte l’esercito di Salò per aggregarsi ad un distaccamento partigiano. Poche settimane dopo uno scendeva dai monti ma veniva casualmente sorpreso dai fascisti ad Altare. Nel libro di Lange il protagonista di questa vicenda viene chiamato Merlini, ma il suo nome vero era Giuseppe Nebbia. Aveva lasciato il distaccamento partigiano, nel tentativo di prendere contatto con altri suoi commilitoni per convincerli a salire con lui in montagna. Riconosciuto da alcuni suoi ex compagni in un bar, Giuseppe Nebbia era stato arrestato, condannato a morte e fucilato a Mallare, mentre le campane della chiesa suonavano a morto. Sulle montagne del Savonese le azioni partigiane erano molto frequenti. Lange nel suo libro si sofferma diffusamente su una delle più audaci. È un episodio che viene così riportato dal Diario di guerra della Divisione San Marco: “30 gennaio 1945 Circa 20 partigiani, oggi, fermavano sulla strada AltareMallare un’autocorriera civile prelevavano sette militari del Gruppo Collegamento che si recavano a Mallare. L’autocorriera e i civili venivano poi fatti proseguire. Si è subito disposto per un’operazione di rastrellamento”. Questa azione partigiana viene raccontata in modo più diffuso da Giorgio Gimelli nelle sue Cronache militari della Resistenza in Liguria. Sempre alla data del 30 gennaio 1945, nel libro di Gimelli si legge: “Distaccamento Maccari. Un posto di blocco volante porta al fermo della corriera Altare-Mallare sulla quale vengono catturati un grup- po della San Marco. Ciò provoca nella stessa giornata una puntata nemica fino alla zona del Termine. Il Distaccamento tende una imboscata sulla via del ritorno e riesce ad accerchiare e a colpire una grossa pattuglia di San Marco (sette prigionieri, quattordici morti fra cui un capitano e un sottufficiale tedesco)”. Il libro di Hans Joachim Lange non non ha un alto valore letterario (in Germania non è mai stato pubblicato) ma utile ci è sembrata l’iniziativa di tradurre il manoscritto e farlo conoscere in Italia. Attraverso gli occhi di questo giovane ufficiale tedesco si può cogliere la sua sorpresa (e la sua delusione) di fronte allo sfaldamento dell’esercito tedesche e alla fuga dei militari della San Marco isolati dalla popolazione e incalzati dalla lotta partigiana. b.e. Hans Joachim Lange Il muro di Mallare Editoriale Le Stelle Cengio-Savona I repubblicani internati a Mauthausen Nasce tra gli spagnoli il Comitato di liberazione del lager L’intenzione prima degli autori di Triangolo blu, i repubblicani spagnoli a Mauthausen, è spiegare in che modo i superstiti siano riusciti a sopravvivere all’inferno del lager, data la loro difficoltà a rispondere alla domanda non priva di sottintesi: “Come avete fatto a sopravvivere?” La loro sopravvivenza sembrava un’infrazione a tutte le regole. Ora l’interesse dimostrato dalle nuove generazioni francesi per l’affaire Papon e lo sdegno suscitato dalle rivelazioni delle torture francesi in Algeria hanno indotto gli editori ad una ristampa. La prima edizione del 1969, era stata molto contrastata; infatti, essa aveva urtato il perbenismo dei francesi per le accuse dei repubblicani spagnoli di averli trattati nel febbraio 1939 come une armée ennemie, negando loro l’aiuto per raggiungere il territorio ancora sotto il controllo della Repubblica, rinchiudendoli in campi d’internamento, dove il trattamento era peggiore che nelle prigioni del tempo in Germania ed in Italia. Altre accuse riguardavano gli avvenimenti successivi, quali lo sfruttamento nelle Compagnies de Travailleurs Etrangers, l’arruolamento forzato nei Battaglioni dei Volontari Stranieri ed infine gli arresti per partecipazione alla Resistenza e consegna ai tedeschi con conseguente invio ai campi di sterminio. Ulteriore motivo di polemica fu il boicottaggio del libro da parte dei comunisti poiché uno dei testimoni, Artur London, ex combattente delle Brigate internazionali cecoslovacco, aveva allora pubblicato l’Aveu (La confessione) in cui denunciava il trattamento riservato nei paesi dell’Est a molti interbrigatisti, costretti da ex compagni di lotta in Spagna ad autodenunciarsi sotto tortura di delitti mai commessi, tanto che i movimenti di resistenza nei lager venivano equiparati ad una collaborazione con i nazisti. Sono questi movimenti il punto focale del libro, per gli autori essi danno legittimità alla sopravvivenza di tanti deportati. Nel rispetto della successione cronologica degli avvenimenti, la storia del campo viene raccontata attraverso le testimonianze di venti spagnoli e di tre volontari delle Brigate Internazionali, tutti comunisti, che suddivise e frazionate per ricordare ogni avvenimento importante, ritrovano nell’insieme la loro organicità. Il racconto ricorda naturalmente la vita durissima, i lavori pesanti, le violenze gratuite e sadiche dei carcerieri, i massacri, la vigliaccheria di un’infima parte degli internati, fatti già oggetto di molte pubblicazioni, ma si differenzia da altre memorie considerando questi avvenimenti come causali alla nascita dell’organizzazione interna di resistenza prima fra spagnoli, poi con i diversi gruppi nazionali, fino alla costituzione del Comitato internazionale di Resistenza, da cui nascerà l’Apparato militare internazionale, organismo che guiderà la liberazione del lager il 5 maggio 1945. Lo sviluppo del movimento inizia con la conquista dei posti privilegiati nell’organizzazione interna del campo da parte degli spagnoli, gli anziani del lager, che permette ai compagni inseriti nel sistema concentrazionario di aiutare gli altri, ottenere informazioni e sottrarre materiale, che diverrà utile al momento della liberazione. Non sarà tutto facile; occorrerà anzitutto superare la diffidenza fra le diverse nazionalità, ogni gruppo ha qualcosa da rimproverare all’altro, negli stessi gruppi esistono elementi sfiduciati o non motivati per paura, che solo la forte personalità e la determinazione politica dei capi riusciranno a superare tanto da creare un blocco omogeneo di tutti gli internati. Di particolare interesse alla fine del libro è la raccolta dei documenti stilati dall’assemblea del 16 maggio 1945, degli ex deportati non ancora rimpatriati, che riportano le forze confluite nell’Ami, il suo piano d’azione nelle diverse fasi ed i mezzi a disposizione, la storia dei combattimenti. È un’opera che tratta nello specifico un argomento solitamente appena accennato nelle altre memorie, che pur dando risalto alla volontà organizzativa degli spagnoli, coinvolge gli altri gruppi nazionali, dimostrando quindi come fu possibile sopravvivere all’inferno ed arrivare alla liberazione del campo da parte degli stessi internati. p.r. Manuel Razola e Mariano Constante, Triangle Bleu – Les républicains espagnols à Mauthausen, prefazione di Pierre Daix, Kiron Edition du Félin, Parigi 2002 49 BIBLIOTECA Suggerimenti di lettura a cura di Franco Giannantoni Tina Merlin Menica e le altre - Racconti partigiani Cierre Edizioni, pp. 106, euro 11,50 Andrea Riccardi Pio XII e Alcide De Gasperi. Una storia segreta Laterza, pp. 98, euro 5 Questi racconti erano già usciti tanti anni fa, nel 1957, perché la Merlin aveva voluto spiegare con grande modestia che, seppur non si trattasse di un’opera somma, “il parlare di piccole cose” è comunque importante “perché quelle piccole cose hanno fatto la grande cosa: la Resistenza”. Visto l’aria che tira oggi, rileggere questi bozzetti di vita partigiana è molto utile: rinfresca la memoria e fa ricordare agli immemori quale sia stato il prezzo pagato per la libertà dal fascismo. Ma c’è un aspetto a cui Tina Merlin, staffetta partigiana della brigata “7° alpini” del Bellunese e poi giornalista dell’Unità (fu lei sin dal 1959 a denunciare i rischi della diga del Vajont prima che nel 1963 cedesse facendo duemila morti) teneva e che il libro rimarca: il ruolo delle donne nella lotta al nazifascismo “perché da lì noi siamo partite, con coscienza, per camminare avanti”. Giorgio Rochat Italo Balbo. (Lo squadrista, l’aviatore, il gerarca) Utet Libreria, pp. 439, euro 18,50 Il libro ha un notevole merito: quello di togliere Italo Balbo, da una sterminata produzione agiografica che ha finito per confondere i suoi veri connotati e reinserirlo nella storia del fascismo con alcune qualità che furono celate dalla maschera classica dello “squadrista di ferro”. In realtà se fu anche quello, fu un trascinatore di uomini, un organizzatore capace, un efficace propagandista. Seppe infine contemperare la sua affermazione politica con l’accettazione della leadership di Mussolini. Resta il mistero della morte nel cielo di Tobruk (giugno 1940) “proprio quando i limiti intrinsechi del regime - scrive Rochat - venivano alla luce”. Un’opera giocata sul filo dell’equilibrio critico, dalla stagione ferrarese del manganello (omicidio di don Minzoni) all’epopea delle trasvolate oceaniche che ne fecero un eroe nazionale. Proprio la gloria finì per accecare la corte dei gerarchi, a cominciare da Ciano, così da alimentare nei suoi confronti i sospetti di un aperto frondismo (il rifiuto delle leggi razziali e il dissenso per l’alleanza con la Germania). 50 Tra l’ottobre del 1951 e l’agosto del 1952, Pio XII premette su De Gasperi per fare un’alleanza con i fascisti e con i monarchici per battere i comunisti. Ma De Gasperi respinse l’offerta. Fu un atteggiamento coraggioso perché in quel caso l’interlocutore era il Papa e il primo ministro un fervente cattolico praticante ma prima di tutto un rigoroso servitore dello Stato e del suo partito politico nel nome della laicità. L’operazione condotta con il beneplacito dei piani alti del Vaticano e della nobiltà nera, esce dalla penna di Andrea Riccardi, storico cattolico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio che nel suo interessante libretto presenta i verbali inediti dei due incontri riservati che monsignor Pavan, inviato del Papa, ebbe con De Gasperi. Incontri falliti. “Non c’è alcuna legge - rispose De Gasperi - che vieti il comunismo. Ce n’è una invece che punisce i fascisti”. Peter Gomez, Marco Travaglio Bravi ragazzi. (La requisitoria Boccassini, l’autodifesa di Previti e C. Tutte le carte dei processi Berlusconi-Toghe sporche) Editori Riuniti, pp. 382, euro 14 È un libro che, se in Italia l’informazione non fosse in gran parte in ginocchio e nelle mani di Berlusconi, non sarebbe mai stato scritto. Non ce ne sarebbe stato bisogno. Invece il bisogno è grandissimo e per fortuna ci sono giornalisti come Travaglio e i suoi collaboratori che continuano nell’impresa di rendere pubblici gli atti di alcune scandalose vicende, ora al vaglio della magistratura. In questo caso si tratta dei processi Sme-Ariosto, Mondadori, Imi-Sir che vedono imputati Berlusconi, Previti, alcuni avvocati e un gruppetto di giudici dell’ex “giro Craxi”. Giudici comperati per sistemare le pendenze. I processi sono ricostruiti nelle fasi principali, soprattutto in quelle dove i tentativi di farli saltare è più ricorrente. La requisitoria orale del Pm Ilda Boccassini e la testimonianza di Stefania Ariosto sono le pietre miliari per comprendere il livello di malaffare a cui il potere politico e affaristico era arrivato. Mario Rigoni Stern L’ultima partita a carte Einaudi, pp. 107, euro 9 Un invito della Fondazione Cini di rievocare in pubblico il percorso letterario di una intera vita, ha permesso a Rigoni Stern di scrivere un breve, prezioso libro di straordinaria efficacia in cui biografia, storia collettiva e vicende individuali, si intersecano sullo sfondo della seconda guerra mondiale. I grandi drammi dell’Albania, della campagna di Russia, dell’8 settembre, della deportazione nei lager, dall’aridità dei bollettini ufficiali e dei comandi militari, trovano ampi lampi di tensione umana negli episodi della quotidianità. Nuto Revelli Gabriella Gribaudi Terra bruciata. (Le stragi naziste sul fronte meridionale) L’ancora del Mediterraneo, pp. 459, euro 28 Dall’ordine del comando supremo tedesco del 18 settembre 1943 e cioè di distruggere il territorio lungo il quale si avanzava (terra bruciata), prende corpo la prima fase dei grandi massacri del Reich sul fronte italiano. Il libro affronta la fase relativa a Napoli e la Campania (successivi volumi studieranno la Toscana e l’Emilia Romagna). Una ricerca che non si ferma ai combattimenti ma che affronta i temi dei rapporti con la popolazione, la resistenza delle comunità, le sofferenze sociali, tutto alla luce di una documentazione inedita. Bernat Rosner, Frederic C. Tubach Le due guerre. (Guerra fascista e guerra partigiana) Amici nonostante la storia. (Dalle due sponde dell’Olocausto) Einaudi, pp. 191, euro 12,50 Feltrinelli, pp. 181, euro 13,50 È una storia scritta dal “basso”, è la voce degli umili che racconta e che ricorda, la voce dei protagonisti, prima la follia di Mussolini e delle guerre d’aggressione, quella greco-albanese e quella sul fronte russo, poi la guerra di Liberazione combattuta nelle montagne e nelle strade della città contro gli invasori nazifascisti. La guerra del riscatto. Mediatore è Nuto Revelli, formidabile scrittore, che, negli anni ‘80, “professore a contratto” all’Università di Torino, svolse una serie di memorabili lezioni riassunte in un tragitto esaltante, quello da ragazzo fascista a comandante partigiano. È un libro utile ed appassionante, diretto soprattutto ai giovani che hanno il dovere di conoscere cosa accadde dal 1922 sino al crollo del regime. Singolare, forse unica storia: due figli della tragedia nazista, Bernat Rosner, internato ad Auschwitz quando aveva solo dodici anni d’età (ora avvocato in una grande industria statunitense) e Frederic Tubach, coetaneo, per volere del padre soldato di Hitler (oggi professore universitario a Berkeley), si incontrano negli Stati Uniti dove sono emigrati alla fine della guerra, fanno amicizia e poi si inoltrano, ognuno con i propri ricordi, nel tunnel del passato. Un viaggio doloroso attraverso il film della vita che è alle loro spalle, lontanissimo ma inestirpabile: la repressione, la fabbrica del consenso, l’alimentazione dell’odio contro gli ebrei, la perdita della libertà, tutti meccanismi che si ripropongono oggi in tante parti del mondo. Giuseppe Mayda Davide Rodogno Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945. (Militari, ebrei e politici nei lager del terzo Reich) Il nuovo ordine mediterraneo. (Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa 1940-1943) Bollati Boringhieri, pp. 408, euro 28 Bollati Boringhieri, pp. 586, euro 35 È la tragica storia della deportazione razziale, politica e militare, sotto il fascismo di Salò, di oltre un milione di italiani finito nei lager di Hitler. Una ricostruzione che mancava nella sua organicità alla saggistica dell’ultimo tragico conflitto e che offre nitida e a tutto campo l’immagine della politica repressiva di Mussolini, ostaggio del Reich, dall’8 settembre 1943. La macchina della morte viene esplorata in ogni suo meccanismo ed in ogni sua fase, da quella dell’arresto, alla raccolta nei campi di smistamento di Fossoli e di BolzanoGries, alla partenza verso l’inferno, da cui solo un’estrema minoranza riuscirà a tornare. Pagine che rivelano con grande chiarezza e con dati documentari la collaborazione attiva del fascismo repubblicano, fondamentale strumento per il progetto di morte e che aiutano a capire perché un fenomeno di così vasta portata ebbe modo di raggiungere i suoi obiettivi. Tra le pagine rimosse delle guerre fasciste, spicca la “conquista” fra il 1940 ed il 1943, di alcuni territori dell’Europa mediterranea: Corsica, parte della Francia, Slovenia meridionale, fette della Croazia, la Dalmazia, il Montenegro, la Grecia, parte del Kossovo, la Macedonia occidentale. Un’operazione militare condotta da un esercito di 500 mila uomini male armati e peggio equipaggiati ma non per questo meno brutali degli alleati del Reich. Il risultato è che pagine da mezzo secolo rimaste nell’ombra, fastidiose da rimuovere perché rivelatrici di massacri, delitti di gruppo, rovine, atrocità, sono oggi disponibili. Davide Rodogno, in un’opera che si presenta come fondamentale per il suo rigore scientifico ma anche per essere la prima in questo specifico campo, svela, carte alla mano, il sogno imperiale di Mussolini, rovescia la leggenda del buon italiano, rivela la spietatezza della repressione fascista, aiuta ad inoltrarsi in un tunnel per troppo tempo nascosto. 51 Presente anche Oscar Luigi Scalfaro NELLA SEDE DI VIA DOGANA A MILANO Un incontro tra storici apre la Fondazione della Memoria “Fondazione Memoria della Deportazione Biblioteca Archivio Aldo Ravelli” Milano via Dogana, 3 Telefono 02 87 38 32 40 Fax: 02 87 38 32 46 Orari: dal lunedì al venerdì 9 - 17 L’inaugurazione ufficiale non c’è ancora stata ma l’attività della Fondazione Memoria della Deportazione è già stata avviata. Il 27 Gennaio, Giornata della Memoria, i dirigenti dell’Aned erano troppo impegnati in manifestazioni esterne (tra le quali il grande corteo di Milano con comizio in piazza del Duomo), per cui si è preferito rinviare l’inaugurazione ufficiale della sede della Fondazione. Sarà fatta tra qualche settimana, in occasione della celebrazioni del 25 aprile che di fatto apriranno le manifestazioni del 60° anniversario della Resistenza. Nonostante questo rinvio la Fondazione ha già cominciato a funzionare. La bella e accogliente sede di via Dogana 3 è aperta dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17 e molti ex deportati e amici dell’Aned sono già venuti a visitarla. L’archivio e la biblioteca hanno già accolto i primi studiosi interessati a conoscere la documentazione che la Fondazione mette loro a disposizione. Si tratta di una documentazione ancora molto incompleta. In molte parti d’Italia – in sezioni Aned o in casa 52 di singoli compagni – sono infatti conservati libri e documenti che debbono essere raccolti dalla Fondazione e messi a disposizioni di chiunque voglia conoscere e approfondire questa pagina drammatica e fondamentale della storia dell’Italia democratica. È un compito, questo, che ci assorbirà nei prossimi mesi. Intanto, la Fondazione è stata al centro di una iniziativa di alto valore scientifico. Nella sede di via Dogana si è infatti riunito, nel corso dell’intera giornata dell’8 febbraio scorso, il Consiglio generale dell’Insmli (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia). Erano presenti il presidente dell’Istituto Oscar Luigi Scalfaro e i direttori degli oltre sessanta istituti per la storia della Resistenza che agiscono nelle diverse province italiane. Sono stati affrontati i problemi che stanno di fronte a questi centri di cultura democratica e antifascista, in questo difficile momento politico. È stata la giusta occasione per aprire alle forze della cultura la nostra Fondazione.