E - Deformazioni Culturali

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E - Deformazioni Culturali
deformazioni culturali
mensile gratuito
n. 12- dicembre 2012-gennaio 2013
deformazioniculturali.wordpress.com
Nostri cari lettori,
Ospitalità
un ringraziamento speciale va a voi che ci accogliete
ogni mese tra le vostre letture. Voi, che ci ospitate e che
ci permettete di ospitarvi, che avete una spiccata
sensibilità per gli argomenti trattati. Ogni mese noi ci
impegniamo perché il nostro modo di esprimerci su essi
ottenga la vostra attenzione. Amici e nemici, concordi o
discordi, che applaudiate o malediciate i nostri racconti,
noi continuiamo. Perché significa che, in un modo o
nell'altro, abbiamo imboccato la strada giusta. Non è
mai stato importante per la rivista il vostro appoggio,
quanto piuttosto aver stimolato la vostra curiosità, eh
già! Scatenare il dibattito, indurvi a darci ragione o
torto, ma sopra ogni cosa aprirci uno spazio nel vostro
animo, con la stessa testardaggine di un immigrato in
terra straniera che, seppur trattato con indifferenza, crea
le condizioni necessarie per formare la sua comunità e la
chiama CASA. Noi vi regaliamo anche questo mese il
nostro fastidio e vi auguriamo tutta la gioia di cui avete
bisogno, sperando di poter tornare ad infastidirvi anche
il prossimo anno, certi che saremo accolti per nuove
curiosità e nuovi spunti di discussione.
Lo Staff di Deformazioni Culturali
Michele Di Mauro
Puttana
Q
uando ho aperto gli occhi? Li tocco stasera,
con punta di dita e ripenso a quand'ero bambina.
Quand'è che s'aprirono prima, le due linee sottili,
per cui incessante s'insinua la vita?
Da qui è passata ogni cosa, pietruzze piccine montagne giganti il deserto maestoso e crudele, e storpie figure che stringono forte – le mani di ruggine:
sfregiano sempre il mio viso che non ci fa il callo,
che sempre sguarnito sta lì, a ricevere tutto.
Che ho visto per prima? Una mano una faccia una
parete?
E quanta la strada? Ce n'è tanta a sinistra e a destra, stanotte. La solita lamba nel secchio di ferro,
e 'sti tacchi che fanno un cazzo di male.
È diventare un lumino, l’inverno, che tenue bisbiglia una storia al buio dei campi. Appena sussurra,
poco più che scintilla, nell’asprezza muta del gelo.
Gracili zampe, cavallette di ferro e lamiera sono i
capannoni, che dormono. Brillano luci nelle distanze dove il vento soltanto è sovrano. E terra
nuda e nera, che ha dato la vita e accoglie la morte
e gli sfregi, il seme intossicato dei suoi varî mogli
e mariti: come quella son io.
Mani ruvide facce consunte mi prendono e capovolgono e chiedono ancora ancora e ancora.
Per chi non è una puttana c'è sempre un mistero
nel sesso. I fianchi le labbra i lombi col loro sapore e colore sono sempre una cosa lontana, una landa impervia e difficile. Io no, io sono un fodero di
carne per voglie che qui vengon solo a sfinirsi e
morire, come certi lembi d'un foglio di carta che
brucia.
Quando s'aprì la mia cosa, lo so. Ma gli occhi, mio
Dio, che grondavano lacrime ancor ieri sera?
Ho accolto ogni cosa a soltanto vent'anni, e senza
mai chiedere niente. Non soffro, ma tremo all'idea
che la vita sia questo portar fra le cosce il dolore
di ognuno. Ognuno che dono non fa del suo male,
lo tira soltanto un po' in faccia a chi può per lo
sfogo e lo torna a casa tal quale – puttana io sono e
non moglie, e per quanto stretti di sonno i miei occhi
dovranno
guardare,
languire.
Quegl'occhi che furon bambini e schiudevano al
giorno fra le braccia d'un padre. Gli occhi che donavano gioia, che trovavano asilo fra il tavolo e il
letto, gli occhi miei belli e ubriachi di luce; gli occhi che adesso soffoca il buio.
E pure non soffro e bisbiglio qualcosa al buio dei
campi, che qui danno i frutti crudeli d'un gramo
lavoro. Che vado via. L'ho detto, vado via. Faccio
un passo e ho fatto già l'altro, e affanculo 'sti tacchi da troia.
Se spazzassi le strade in città – per un di quei casi
che accadono pure – conterei i mozziconi nel fango e ascolterei la storia di ogni pezzo di carta,
giornale o salvietta che sia. Avrei una raccolta di
silenzi di mezza mattina da ciascun marciapiede,
cui puntuale darei appuntamento negli assolati
mattini a novembre; saprei dalle foglie ch'è autunno e dal cielo ch'è tardi; terrò compagnia alle campane ed al tram, e una bella casacca d'un verde
brillante, che grassa mi faccia e non bona, sicché
chi mi voglia avrà solo i miei occhi per scegliere.
E cosa canterò? Uno stornello d'angelo inciampato, ramazzando, col resto, 'sto schifo scrollato di
dosso:
'ndo vai, piccina?
'ndo te ne vai, io sapevo dov'eri
e dove tu stai io faccio mattina.
AugenBlick!
di Francesco Ferrari
U
n caldo pazzesco. Io e M beviamo qualcosa
al bar. “Ti ricordi quando eravamo ospiti
della marquise DB?”- mi fa lei così, all'improvviso. “Oddio, sì. Ah ah! Ma come ti viene? E’
passato tanto tempo!”- rispondo io facendo la gnorri:
in realtà questo è un nostro piccolo rito. Ogni volta
che c’incontriamo io e M dobbiamo fare accenno ai
nostri giorni parigini di giovani studentesse Erasmus
scapestrate e squattrinate, sempre in cerca di un posto nuovo dove pernottare almeno per un po’. Immancabilmente allora ricordiamo i tempi chez la
marquise (ma come diavolo eravamo capitate lì?),
portiamo alla mente qualche episodio di quei mesi
assai insoliti e ne ridiamo di gusto.
“Non è esatto dire che eravamo “ospiti” però” - continuo io con la mia solita aria un po’ pedante da filosofa maestra del linguaggio alla quale niente-sfuggee-non-sia-mai-se-le-sfugge - “quella stronza ci faceva pagare fior di quattrini e ci trattava come due servette!”. “Ah, ah! Sbagliato anche questo!”- m’interrompe lei - “Trattava te come la bella e pericolosa
Cinderella ma a me m’adorava: mi aveva dato la
stanza più grande e mi chiamava madame, mentre tu
sei sempre stata solo mademoiselle”. Vero, non posso contraddirla. Dopo tutto conosco i motivi per i
quali la vecchia signora mi aveva preso in antipatia e
non voglio indagarli con M.
Sin dal primo incontro con la marchesa percepii una
certa ostilità nei miei confronti. Mi presentai al numero 29 di quel gran boulevard nel 16esimo arrondissement carica di valigie come un mulo. Madame
DB mi aspettava sull’uscio. Un’aureola di capelli
candidi e sottili conferiva al suo viso rotondo come
una mela un’aria apparentemente gentile. La marchesa mi scrutò attentamente con gli occhi piccoli e
scuri come due bottoni. Subito dopo trasalì: “Je ne
sais pas si on trouvera l’espace pour toutes ces
valises!”- sbuffò scuotendo la testa. Poi tornò in sé,
si presentò, mi accolse gentilmente e mi mostrò la
mia cameretta ubicata nella zona dove un tempo alloggiava la servitù. “Maintenant il n’y a plus
personne”- aggiunse. La marquise si definì une
bonne chrétienne. Mai avrebbe negato il suo aiuto ad
una ragazza in difficoltà, specificò contando i soldi
del primo mese che le consegnai quella stessa sera.
In seguito mi trattò con cordiale diffidenza. Le cose
precipitarono il giorno in cui la cara signora decise
di sfruttare il suo gran salone per organizzare un ricevimento. Per tutto il pomeriggio si susseguirono
frenetici i preparativi per l’evento. Camerieri, pulizie, baccano di stoviglie in cucina. Quando a sera
sopraggiunsero gli innumerevoli ospiti noi fummo
presentate con molti sorrisi: “Voilà les chères hôtes
italiennes!”- cinguettò madame, dopo di che ci consigliò di ritiraci nella nostra camera per poter stare
plus tranquilles. Delle decine di torte che erano state
preparate non ci fu offerta nemmeno una fetta. Il
giorno dopo ebbi l’ardire (ubris!) di farle notare
quanto fosse incoerente presentarmi come “cara
ospite” ai suoi decrepiti amici puzzolenti di fumo e
di boria quando poi, le spectacle terminé, tutto il nostro rapporto ritornava nella fredda dinamica del “Tu
mi paghi – Io ti do un tetto”. Questa mia osservazione colpì la marquise nel suo orgoglio pazientemente
costruito in settant’anni di cene e riverenze, posate
d’argento e baciamano. Da quel momento mi accordò il dovuto rispetto ma io ben sapevo che qualcosa
s’era definitivamente rotto. I confini erano stati stabiliti. Curioso: questa piccola vittoria significò per me
una sorta di irreversibile “declassamento”.
Silvia Maria Esposito
Tout va très bien,
madame DB
“Certo, non posso darti torto” - continua M fissando
distrattamente il cubetto di ghiaccio nel bicchiere “in lei non c’era nulla di ospitale. Ricordi l’episodio
della macchinetta del caffè?”. Lo ricordo eccome. La
marchesa aveva palesemente detestato la mia moka
dall’esatto momento in cui l’aveva vista per la prima
volta appoggiata sul tavolo della sua cucina. L’aveva
afferrata con le mani nodose e l’aveva studiata a lungo: “Je ne crois pas que ça va marcher!” - aveva sentenziato con sicurezza. Nonostante le proponessi
ogni mattina di provare appena un goccio (“Un petit
peu madame!”) del mio caffè lei s’era sempre fieramente rifiutata: “Moi j’aime mon café”. Ogni sorso
che davo al mio nero 100% arabica era per lei il segno tangibile non soltanto del mio indisponente rifiuto nei confronti del suo disgustoso caffè annacquato, ma soprattutto di un ostinato attaccamento
alle mie radici che lei giudicava decisamente prive di
attrattiva. Fu così che una mattina, turbata e infastidita dal ribollire della mia macchinetta, la marquise
decise di togliere anzitempo l’odiato apparecchietto
dalle fiamme del fornello e buttare nel lavabo tutto il
contenuto: “Désolée, mais ça ne marche pas, ça ne
marche pas, ça ne marche pas!”- andava ripetendo a
gran voce facendo volteggiare le braccia nell’aria
con fare seccato. A poco valsero i miei innumerevoli
tentativi di mediazione: assaggiai ogni sorta di intruglio maleodorante che mi proponeva ogni sera; mi
mostrai disponibile ad imparare le sue ricette migliori; misi su tre chili a forza di ingollare gâteau pieni
zeppi di burro ma lei non bevve mai neppure un sorso del mio caffè.
M interrompe i miei pensieri: “Comunque arriverò al
sodo - dice cambiando bruscamente tono di voce volevo dirti che la marchesa è morta un mese fa, ho
sentito sua nipote e mi ha detto che la salma è stata
inumata nella cappella di famiglia, nei pressi del loro
castello di S. Pare che al funerale fossero presenti
tutti i suoi amici altolocati e un gran numero di parenti. La notizia però non è stata comunicata per
tempo a nessuno dei giovani che lei ha ospitato in
questi ultimi anni”. “Oh, povera!”- mi limito a rispondere. Ancora qualche commento e poi cambiamo discorso.
Quando saluto M si è fatta sera e il clima è meno
impietoso. “Tout va très bien, madame la marquise”canticchio tornando a casa.
La marchesa ci raccontava spesso del castello di famiglia a S: diceva che di tanto in tanto ci giravano
dei film e che i suoi mobili più preziosi provenivano
da lì, poi gonfiava il petto e sospirava ricordando i
tempi in cui era giovane e bella. Io immaginavo il
calpestio dei tacchi sui sentieri di quei rigogliosi
giardini e il profumo di rose. “Ce sont des choses
que tu ne peux pas comprendre”- tagliava corto lei,
gelosa dei suoi ricordi, quando si accorgeva che mi
avventuravo con lei nelle sue fantasie. Adesso giace
lì, sola, fiera e indisturbata. “Un’occasione mancata,
madame!” - dico ad alta voce.
Ospitalità a quattro ruote
Tutto è incominciato perché trovavo Amburgo squallida. E perché il trasporto pubblico non te lo regalano. Ne sentivo parlare da mesi. Ma, lo confesso, ne
avevo un po’ paura. Credevo di non capire. Poi, forse perché non ero solo, l’ho fatto. Sono andato su mitfahrgelegenheit.de e ho scelto “l’opportunità di
viaggiare con”. Questo vuol dire quel parolone che non finisce più. Un’interfaccia semplice e intuitiva, inserzioni di autisti in transito per tutta la Germania e
oltre, disposti a condividere la loro vettura in cambio di qualche palanca. Prezzi ragionevoli. Contatto diretto. Sms o fonella. A bordo di uno sconosciuto.
Postulato: fidarsi l’uno dell’altro. Cofidarsi. E a volte, anche confidarsi. Che lo sconosciuto cessa d’essere tale poi nel momento in cui gli rivolgi la parola.
Forse. In quell’abitacolo che sfreccia in mezzo al nulla della mitteleuropa. Ospite per alcune ore. Di un ignoto viandante fiducioso e ospitale. E se guida male?
Andrò dall’ospitale all’ospedale. E se va ancora peggio? Passerò dall’ospitaggio ad essere ostaggio. Ma se va bene pago trenta euro da Amburgo a Stoccarda.
Da allora è diventata una abitudine. Da Stoccarda a Jena, da Friburgo a Tubinga, da Tubinga a Francoforte. Vari autisti mi hanno accompagnato, e mi sono un
po’ divertito a immaginare le loro vite. Al volante, ragazzoni della Germania Est che vivono all’Ovest e sanno che essere dell’Est vuol dire che se si guasta una
cosa la ripari. E poi si fermano con te a mangiare un wurstel della Turingia. Biondoni di marmo bavaresi che studiano idrologia all’università e sanno tutto ciò
che ha a che fare con l’acqua. Rispettabili CDU-Frauen che ascoltano leziose musichette piene di speranza. A fianco a me, diligenti studentesse che lernano tutto
il tempo senza rivolgermi la parola, ingegneri lussemburghesi che raccontano di sorelle dottorande in storia dell’arte, calciofili della Renania che mi invitano a
vedere qualche volta una partita una volta tornati a casa. Sono così diversi tra loro. Ma accomunati dall’accomunare. Nel dare (e nel ricevere anche, suppongo)
un’ospitalità a quattro ruote. E nondirado a quattro stelle. E allora, fidatevi, fidiamoci. Il mondo è forse pronto a dare ospitalità allo sconosciuto. La mamma a
sapervi ospite di uno sconosciuto, probabilmente ancora no.
2
Troppi assai
Stefano Maria Caterino
D
ei dipendenti,
cosa siamo.
ecco
Nulla ci è permesso di fare
senza doverlo chiedere a qualcuno. Quando si è ospiti è
così: si chiede e si riceve perché prendere è da irrispettosi e
maleducati. E quando non si
riceve ben venga essere irrispettosi, pensiamo. Del resto
noi prendiamo perché ci viene
negato o perché ne abbiamo
bisogno. Adesso.
Con la cortesia è più facile, lo
spiegano così ai bambini. Ma
il problema non è la forma, è
l'atto in sé: il chiedere.
Siamo dei dipendenti perché
nulla di ciò che abbiamo ce lo
siamo procurati da soli. Se abbiamo un lavoro dobbiamo
ringraziare a Tizio, se abbiamo
una casa è perché Caio..., se
non hai, cosa ancora più grave,
è perché né Tizio, né Caio, né
Sempronio, né chiunque altro
ti ha dato l'opportunità, o meglio, ti ha fatto la grazia di
poter avere. “Se non fosse stato per...”: una formula fissa
come l'antifona all'eucaristia.
Sapete cosa voglio dire.
Siamo proprio un paese
straordinario, nel senso che
ciò che abbiamo ci è permesso
averlo come fuori dall'ordinario. Siamo talmente abituati
alla straordinarietà che parcheggiamo in divieto di sosta e
pensiamo che, parlando col vigile, riusciamo a non essere
multati.
Le cose si ottengono chiedendole, siamo ospiti di un Hotel,
le “cose” vengono mascherate
da cortesie. Ma non ci rendiamo conto che più chiediamo,
più accumuliamo debiti. Non
abbiamo neanche iniziato la
nostra fase di maturazione che
già dobbiamo ringraziare mille
persone se siamo arrivati fin
qui. E dobbiamo ricambiare
mille favori. E guai a non essere grati! Il debito che abbiamo
non è soltanto economico, ma
anche sociale.
Pensiamo di aver a che fare coi
principi Myskin: gli “idioti”.
Ma i veri idioti siamo noi, che
ci facciamo trattare come ospiti. Eh già, perché la vera fregatura è che questa ospitalità ti fa
sentire una pedina. E allora
cominci a dire a te stesso che
non sempre si può chiedere,
qualche volta devi pure rinunciare, hanno fatto così tanto
per te in passato che sarebbe
anche il caso di fare un po' a
meno. Nessuno che dica “faccio da me” : il lavoro te lo devono dare, anche se tu hai
l'intelligenza necessaria
per
creartelo. Ma ti hanno istruito
così bene che credi che non
spetti a te il compito di provvedere a te stesso.
Dei dipendenti. Ecco cosa
siamo.
Del resto non è colpa nostra se
ogni tentativo di rendersi autonomi, di mettersi in società, di
peccare di hybris, viene stroncato alla nascita.
O forse sì?
Ed è del tutto
normale
che
viviamo una situazione di disagio. Perché
se gli ospiti
sono dieci volte il numero
dei posti, diventa difficile
accontentarli.
Perché se l'autobus è uno e i
passeggeri sono cento, tu
devi rinunciare
a
prenderlo,
oppure
tutti
d'accordo decidete di riconoscere l' eccezione come situazione “normale”. “Stringetevi” è uno
dei quotidiani
comandi
del
caporale di turno che vuole
salire a bordo.
“E non è colpa
nostra se i
mezzi pubblici
non circolano” dicono i passeggeri.
“E non è neanche colpa nostra
se non possiamo offrire un
servizio adeguato. Siete troppi,
troppi assai.”
Siamo troppi? Siamo l'esubero?
Ho partecipato recentemente a
un incontro sulle opportunità
di lavoro per giovani laureati e
“intraprendenti”. Il messaggio
che traspariva era “Il lavoro c'è
e ci sono migliaia di opportunità in tutti i settori professionali. Ma non in Italia”. Che è
un po' come dire “siete utili,
ma non per noi”.
Inoltre c'è da dire che il comando “stringetevi” non vale
solo per il contesto fisico-spaziale. “Stringetevi” significa
che se volete starci tutti bisogna fare un sacrificio. Loro
sono disposti a farci la cortesia
di ospitarci a patto che noi
siamo disposti a occupare di
meno, quindi ad avere di
meno, a mangiare di meno, a
opporci di meno. Insomma
loro sono disposti a ospitarci,
ma a queste condizioni è frustrante sentirsi ospiti.
C'è chi se ne va e c'è chi accetta la frustrazione. “Partire è
meglio che restare” , “restare
significa combattere” e altri
slogan simili non andrebbero
affissi sullo stipite della porta.
Piuttosto varrebbe davvero la
pena porre l'attenzione sul fatto che è stato permesso che
succedesse questo. Non perché
non ci sono i soldi (che è pur
vero), non perché siamo potenzialmente inferiori, ma perché ci hanno educato, ci hanno
istruito, ci hanno informato
che si vive solo appesi al ramo
di qualcun altro.
E allora capiamo che non è
vero che siamo troppi. È vero
invece che ci hanno resi e ci
rendono troppi. È vero che se
lavoriamo da autonomi abbiamo sì, molte responsabilità. Ci
ritroviamo sommersi da debiti
(quelli economici) e dobbiamo
scommettere di più, con i rischi che ne conseguono, primo
tra tutti quello di diventare
scettici. Ma ribaltiamo la nostra situazione, almeno credo,
da ospiti a ospitanti.
Quei troppi, se lo vogliono,
possono diventare di meno.
Potrebbero cooperare per realizzare qualcosa che non implica la crescita del debito
(quello sociale), affinché siano
coscienti che quello che hanno
e quello che guadagnano lo
devono a loro stessi.
Ma la logica del debito sociale, dell'esubero, della dipendenza dal prossimo non
cipermette di proseguire su
questa strada.
Qual'è la soluzione allora?
Rendersene conto e prenderne
atto.
È questa la strada per una deformazione culturale.
Credits
La copertina di questo
numero è presa da
internet
Il disegno in questa pagina è
di Pàllina.
Ringraziamo
Antonio Manfredi, Paola
Magliozzi, Antonio Piscopo.
scrivici al nostro indirizzo
[email protected]
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deformazioni culturali
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mensile gratuito diretto da
Michele Di Mauro
Deformazioni Culturali è
una rivista che afferisce alla
testata
Avanguardie
Reg. tribunale di Napoli n.
7293 del 14/12/2009
Dir. Responsabile:
Francesco Donzelli
Editore: ass. culturale
Alternative per il Socialismo
Vicinanza e distanza
Sergio Keller
[I temi e gli esempi letterari sono tratti dalle
lezioni di filosofia di Pier Aldo Rovatti]
Quando si parla di ospitalità è naturale pensare al rapporto fra se stessi e un altro, ma ci
siamo mai chiesti se siamo ospitali verso noi
stessi? Si parla sempre di accogliere l’altro,
il diverso, senza vedere che il primo esempio di alterità è in noi stessi. Compiere questo passaggio attraverso se stessi è una condizione necessaria per aprirsi agli altri, ma
non è mica facile. Anzitutto bisogna capire
chi è questo Altro e cosa ci fa in noi. Forse
ci comanda? Ci contrasta oppure è a sua volta ospitale? Potrebbe essere un barbaro che
sfugge al nostro controllo e, in questo caso,
perché mai dovremmo essere ospitali con
lui? Ogni essere umano si trova in imbarazzo se deve rispondere in modo esauriente
alla domanda: «Chi sei?». Possiamo dire il
nostro nome, le nostre qualità, qualcuno è
così onesto da ammettere anche i propri difetti. Possiamo raccontare chi eravamo, cosa
abbiamo fatto, e chi vogliamo essere, cosa
intendiamo fare, ma sul futuro aleggia sempre un forte dubbio: «E se all’improvviso io
diventassi folle?». In questo caso non saremmo più noi stessi, verremmo meno ai
nostri progetti e propositi. Quel folle lì ci
renderebbe bugiardi. Per di più non possiamo promettere di non impazzire, possiamo
solo sperarlo. «Non impazzirò» ha lo stesso
valore di «Ti amerò per sempre»: vale a
meno di cambiamenti drastici, i quali spesso
non sono prevedibili né dipendono dalla nostra volontà. Ecco chi è l’altro: è quel folle
potenziale in noi stessi che può rubare la nostra identità.
Come metterci al riparo da questo folle? Se
teniamo la porta aperta, verrà certamente a
distruggerci. Tutto sembra suggerire di
chiudere quella porta, ma rischiamo di fare
la fine dello strano animale, protagonista del
racconto di Kafka “La tana”, il quale mette
al sicuro la propria abitazione costruendo
cunicoli e passaggi segreti, sistemi di sicurezza sempre più complicati. Alla fine esce
dalla tana per poter sorvegliare meglio l’ingresso: paradossalmente, cercando la massima sicurezza, si espone, in modo insensato
e folle, al pericolo. Insomma, se ci barrichiamo dentro noi stessi, restiamo prigionieri insieme al folle, proprio perché si trova in
noi. L’unica strada percorribile è, quindi,
fare i conti con questo Altro in noi, accoglierlo, conoscerlo, ospitarlo. Non che in
questo modo lo depotenziamo davvero, ma
almeno eliminiamo l’irruenza dell’effetto
sorpresa. Se accettiamo all’interno della nostra identità quel po’ di follia, se ammettiamo che la nostra identità non è qualcosa di
fisso e stabile, riduciamo il rischio di essere
sopraffatti all’improvviso e dall’interno.
Certo il prezzo da pagare consiste nel prendersi un po’ meno seriamente, nel non fare
più quelle promesse impossibili, quindi nell’assumersi la responsabilità di valutare caso
per caso (a seconda di chi siamo diventati
crescendo o impazzendo) rinunciando ai
principî assoluti. Quando comprendiamo la
natura paradossale della nostra identità,
ospitiamo l’Altro che è in noi. Tuttavia l’ospitalità non è un’apertura incondizionata, è
piuttosto un equilibrio precario: creare una
vicinanza, per non correre il rischio di essere sopraffatti, e mantenere una distanza, per
non dover cedere a ogni capriccio e rinunciare a se stessi.
L’incontro con l’alterità in noi stessi ci prepara all’autentica ospitalità verso gli altri:
anche con gli altri creiamo una vicinanza
quando ci apriamo e li accogliamo, ma manteniamo una distanza sia per evitare che
abusino della nostra gentilezza sia per evitare che la vogliano in un certo senso ripagare, invece che con altrettanta gentilezza (incondizionata e impersonale), in modo economico o materiale. Edmond Jabès racconta
un episodio che spiega molto bene quest’ultimo concetto: egli si trovava nel deserto assieme alla moglie, si erano persi e incontrarono un beduino, il quale diede loro le indicazioni di cui avevano bisogno. Anni dopo
tornarono da quelle parti per salutare il beduino e ringraziarlo. Questi si mostrò molto
gentile con loro anche la seconda volta, ma
finse di non riconoscerli. Dapprima Jabès
rimase male di fronte a questo comportamento, ma dopo aver riflettuto comprese che
la vera ospitalità è proprio quella di quando
ci si incontra per la prima volta: una gentilezza non motivata da un legame passato,
ma rivolta all’estraneo in quanto tale. Il beduino, con il suo distacco, vuole mostrare
che l’ospitalità deve mantenere la sua purezza e non deve corrompersi diventando
uno scambio di favori: ci si comporta bene
verso l’altro, non perché ci si aspetti un
compenso, ma perché è l’unica strada sensata.
3
‹‹E
allora Casoria diventa, per
forza di cose, un soggetto diverso da quello che è un vero e proprio museo di arte contemporanea, diventa una sorta di presidio territoriale
aperto ovviamente alla contemporaneità e all’internazionalità ››
Così, poco dopo l’esordio del discorso, stimolato dalla domanda di Stefano, l’ “intervistato” si trova ad occupare una precisa posizione.
Il presidio di cui il nostro ci parla è già
una vittoria, se non altro vuol dire che
qualcuno ha ben capito cosa vale la
pena difendere. Ovviamente è il
presidio a “presidiarsi” da solo, allo
stesso modo in cui è ciò che gli vive
intorno che ne risulta protetto,
sostenuto, coadiuvato.
L’idea che sostanzia la prima domanda
di Stefano è “arte contemporanea
come immigrato clandestino”, entità
che ha diritto d’essere accolta, ma che
agisce talvolta con prepotenza,
tendendo per sua natura a scontrarsi,
ancor prima del tentativo d’incontro,
con la società. L’ospitalità di un opera
d’arte da parte del nostro animo può
persistere per una vita intera, può
durare un giorno, un istante o un nulla,
nel caso non le si permetta di varcare
la nostra “soglia”, nel momento in cui
quell’ospite non si riveli o non si
ritenga degno di stabilire un contatto
con noi. Ma si tratta pur sempre di uno
scambio reciproco, in cui l’arte “ci
accoglie” ancor prima che noi le
ricambiamo il favore, rendendoci
sostanzialmente ciò che in origine le
doniamo, come sostanza dell’umano, e
restituendocene in qualità. Ed in tutto
ciò non si può prescindere dalla
contemporaneità.
‹‹ Per me arte contemporanea è quello
che in questo momento storico, che
noi viviamo, viene prodotto dagli
artisti e questo è molto interessante
poiché ci avvicina anche a quella che è
“arte sociale”, cioè arte che guarda
attorno, che è un occhio sulla società
nella quale vive e opera. ››. Egli
ritiene opportuno e necessario il
contributo dell’arte al cambiamento e
crede nella cultura come unica
possibilità di cui noi, nel nostro
territorio, possiamo avvalerci (e non è
affatto poco).
Viene da riflettere su come la necessità
di un continuo raffronto ed affronto
alla società,non debba mai sovrastare,
pena la perdita dell’arte stessa, che è
sempre anti-funzionale e si avvicina
più alla nascita d’un nuovo organismo
con cui fare i conti che all’essere
risultato di un intento contestativo, la
libertà di azione. È in essa ciò che
porta l’arte ad essere sempre anche
operazione di astrazione che conduce
dal di dentro al di fuori e al di sopra
della società, affermo. ‹‹ Questa è poi
la missione dell’artista ›› ribatte il
direttore. Stefano s’interroga infatti in
quale misura il Manfredi artista sia
ospite dello spazio che lui stesso
gestisce, con la presenza della propria
opera, ed in quale per l’appunto
“oste”, per la volontà e l’impegno di
assemblare ed accogliere tante
creazioni altrui, al fine di formare il
moderno baluardo che a sua volta
accoglie il colloquio di cui siamo
protagonisti.
‹‹ Non so quanto mi sento oste e
quanto ospite. Qualcuno dice che
questa, in realtà, è una grande
installazione di Manfredi, nonostante
all’interno ci siano poi mille opere di
artisti. Probabilmente è vero che un
creatore dà molto della propria idea
dell’arte in un museo, quello che ho
sempre cercato di rifuggire però è
l’utilizzare forme semplici per
organizzare una mostra. ›› Manfredi ci
rivela quanto sia per lui fondamentale
girare per il mondo alla ricerca di ciò
4
L'accoglienza che paga
Conversazione con Antonio Manfredi,
direttore del Casoria Contemporary Art Museum
Roberta Andolfo
che effettivamente si produce,
pescando in Cina, Giappone, Africa, o
in qualsiasi altro luogo, validi artisti,
all’interno dell’ottica di un network
realmente internazionale.
Il nostro“oste” ci parla alla presenza,
nella stanza attigua, di alcuni suoi
ospiti; opere sfrattate dalla loro
originaria dimora, il Tacheles, museo
berlinese
d’arte
contemporanea
(autogestito), il quale ha purtroppo
dovuto lasciare il posto ad un centro
commerciale. Ma non dimentichiamo
di essere alla presenza di colui che si
definisce provocatore per necessità ed
anche perché, come artista, non
potrebbe fare a meno di esserlo.
‹‹ un artista deve essere anche un
provocatore, almeno se non altro
provocare una reazione ››. Scivoliamo
così agevolmente verso CAM Art War,
performance durante la quale molte
opere sono state bruciate dai loro
stessi creatori (accadeva nell’aprile di
quest’anno) in segno di protesta contro
l’abbandono istituzionale che avrebbe
avuto quale inevitabile conseguenza la
dispersione delle opere del CAM,
destinate così a non poter più essere
fruite. Manfredi e “i suoi” hanno
messo in pratica questa esasperata
intenzione (la sua stessa opera MAY
BE, ospitata l’anno scorso alla
Biennale di Venezia, ha subìto per
prima le conseguenze della decisione)
senza in effetti passare inosservati da
alcuno. Le figaro e BBC compresi.
Risultato? Il museo è ancora lì con
tutti i suoi spazi, prima reclamati dal
Comune. Si è riusciti in tal modo a
cogliere
nel
segno,
attirando
quell’attenzione a cui un museo
“precario” deve a volte disperatamente
mirare. Ma il suo “modus operandi” è
originato dal connubio fra l’animo
dell’artista, che emerge nella capacità
di
avvalersi
d’uno
spazio
d’espressione, e quello di curatore, il
quale coordina i tempi e lo spazio
affinché l’artista disponga, nella totale
libertà, di una possibilità concreta del
contatto autentico col pubblico. ‹‹
Quella dell’artista curatore è una
figura da rivalutare, anche perché in
effetti ti pone in un rapporto non
sterile con gli altri artisti ››. Gli
espongo allora la mia idea per cui
un’opera sia sempre completa in sé
pur essendo frammento di un mondo e
come si possa riversare quest’esigenza
di completezza anche nello strumento
più “razionale” della critica e nel
rapporto fra essa e l’assimilare l’arte a
livello emotivo, immediato. ‹‹ Penso
anch’io che in realtà la critica d’arte è
e deve essere una guida per poter
leggere meglio l’opera grazie alla
conoscenza del critico, il quale può
riuscire a ricreare una storia sia
dell’artista che delle correnti che
intervengono in quella determinata
ed aiutarci a capire (…) è anche vero
che sempre più spesso si assiste alla
figura del critico d’arte che diventa
manager, “proprietario” degli artisti. ››
Spesso, in effetti, il critico d’arte non è
più colui il quale va ad investigare il
segno dell’artista, ma colui che
elabora a tavolino una nuova idea di
“corrente”, sceglie gli artisti e li porta
a realizzare un qualcosa. ‹‹ Io non so
dire se questo sia un fatto positivo o
meno, così sono nate delle correnti
artistiche molto importanti e diffuse.
(…) Forse quegli artisti, pur essendo
degli ottimi artisti, non avrebbero
avuto tanto successo senza un critico
che avesse dato una storia a quel che
loro facevano. Poi sono stati fortunati
a bravi a portare avanti quelle
ricerche. Ce ne sono tantissimi, con
l’arte povera è la stessa cosa. Così è
stato, così è e probabilmente sarà
ancora. ››
‹‹ Le lobbies di potere finanziarie che
nel mondo gestiscono le politiche
europee e mondiali, in realtà lo sono
anche nell’arte contemporanea. Sono
le grandi gallerie e case d’asta ad
avere il monopolio dell’arte. Cercare
di combattere queste cose, da parte
degli artisti, diventa anche abbastanza
pericoloso. Probabilmente lo è meno
per un museo. Bruciare un’opera
d’arte, che è la massima espressione
della mente umana, è qualcosa che ha
fatto rabbrividire non poco. ››
Qui ci ricongiungiamo alle esigenze di
cui si è detto. Manfredi non crede ci
possa essere il rischio che questa
continua provocazione diventi forzata?
Chiaramente si parte da una volontà,
ma non pensa che questa volontà
possa comunque sentirsi piegata,
indotta a pianificare la provocazione a
tutti i costi?
‹‹ Non lo vedo un fatto negativo. (…)
bisogna cercare di affrontare il potere
costituito. Non che io sia un
antipolitico e antipartitico, ma mi
sento un uomo libero, un artista che
può dare, attraverso le immagini, un
contributo al pensiero. Diventa
provocazione perché la si vuole vedere
come tale. Qui non si tratta né del
tentativo di farsi comprendere a tutti i
costi, altrimenti non ci troveremmo più
nell’arte
contemporanea
e
ci
dovremmo mettere a dipingere i
“Vesuvi”, soprattutto nei territori in
cui viviamo, né della provocazione per
la provocazione. Semplicemente è una
visione del mondo attraverso l’arte che
viene fatta da un museo, né più né
meno. ›› Per questi stessi motivi la
visione artistica di Manfredi non può
escludere un’esplicita condanna alla
Camorra o alla corruzione. L’apertura
al mondo resta in ogni caso
indispensabile. Si pone, a questo
punto, la questione su quanto la qualità
estetico-espressiva dell’opera abbia a
Le città improbabili
Omocrònia
di Massimo Maraviglia
Nessuno straniero può restare per più di nove giorni ad Omocrònia, non certo perché
qualche legge lo vieti, solo perché oltre questo tempo il rischio di annullarsi è quasi
certo. Tutto questo perché ad Omocrònia ogni evento è scandito con una tale
sistematicità che anche un omòcrono di tre anni sarebbe in grado di prevedere tutto
quello che avverrà da questo momento all’eternità, o a un tempo che all’eternità
somiglia. Nessun evento inatteso può sconvolgere la vita degli omòcroni. Persino la
pioggia, il sole e il vento, il rosso, l’arancione e il verde dei semafori, i litigi, gli
abbandoni e le riappacificazioni, le nascite, le malattie e le morti sono scandite da
algoritmi di tale ritmica puntualità che al cospetto, il menù di una mensa scolastica
apparirebbe come il manifesto della sregolatezza e della bizzarria… lunedì riso, patate
e cotolette, martedì pasta, zucchine e pollo, mercoledì pasta, formaggio e insalata.
Analogamente, a Omocrònia tutti sanno quando verrà la pioggia, quando il sole,
quando il vento e poi la pioggia, il sole, il vento… sicché è uso dire tra gli omòcroni:
“quando c’è la certezza c’è tutto” e molti di loro, di fatto, hanno soltanto quella.
che fare con il suo grado di
provocazione e partecipazione sociale,
e se così tanto da renderlo disposto ad
accettare, ad esempio, un’opera molto
provocatoria ma che egli ritiene meno
valida di altre. La risposta è negativa.
‹‹ bisogna fare anche la guerra e la
rivoluzione quando è il momento di
salvare qualcosa. ››. Stefano è colpito
dalle capacità di Manfredi di agire
senza mezzi termini, arrivando in
modo diretto al cuore di un problema e
combattendolo con azioni “violente”,
spinte al limite. E del resto, come
sostiene l’ “intervistato”, anche questo
si sposa con l’esigenza di mantenere
vivo uno spazio del genere. Quando ci
si rende conto che nessuno s’interessa
al destino del museo pare resti una
sola arma: la “guerriglia artistica”.
Adesso ad esempio i galleristi
vorrebbero (anche se il direttore non
lo permette) acquistare i pezzi delle
opere bruciate, divenuti appetibili per
il mercato. È così che Manfredi
sostiene e dimostra come anche
nell’arte (sono sue parole) nulla si crei
e nulla si distrugga.
Si ha quindi l’impressione che oggi
essa debba direzionarsi nella forma di
un attacco continuo, sempre più
estremo, aggressivo. Ma allora , in
conclusione, l’arte dove si trova? È
solo il modo stimolante di ribellarsi
agli strumenti logoranti del potere e
alle regole dettate da pochi
privilegiati, per un mondo vissuto,
finalmente, in primo piano da tutti?
C’è da dire che l’arte non è
propriamente questo. Credo che essa
abbia un corpo ed un’anima tutti suoi.
Se diviene contestativa lo diviene solo
spontaneamente, non può partire da
certe velleità, almeno non del tutto, ma
solo veicolarle in altro modo, forse in
un modo più “sfumato”, leggiadro,
spogliato di prevaricanti necessità
contestative perché fatto di essenze e
percezioni, di sensazioni che si
ritorcono nel profondo, in un vago che
non si afferra mai per intero ma che si
può solo sentir vibrare dentro. L’artista
riesce ad accumulare l’indefinito nella
concretezza di qualcosa che si possa
toccare,
vedere,
ascoltare
con
precisione pur senza che le sue origini
attendano propriamente all’ordine del
pensiero razionale.
La degna conclusione della nostra
chiacchierata me la suggerisce
l’aneddoto raccontato dal direttore
d’orchestra Daniel Baremboim in una
recente intervista. In occasione di un
concerto nella striscia di Gaza, un
signore
palestinese
lo
aveva
infinitamente ringraziato per esser
venuto lì a portar loro la sua arte. Alla
domanda di Baremboim sul perché di
tanta riconoscenza, l’uomo aveva
risposto che era importantissimo che
lui fosse venuto perché da loro si ha
l’impressione d’essere dimenticati, e si
ricevono soltanto aiuti umanitari come
cibo o medicine, la qual cosa si
farebbe anche per degli animali.
Invece il maestro, con la sua musica,
incalzava
l’uomo,
aveva
fatto
ricordare loro che sono degli esseri
umani. Al cospetto di tale suggestione
ho chiesto al direttore in che modo
l’arte del CAM potrebbe cambiare in
meglio la realtà del luogo. Il congedo
è stato piacevole e, soprattutto, carico
di aspettative per l’avvenire: ‹‹ Le
rispondo con quello che ho ascoltato
qualche settimana fa da bambini della
seconda elementare che sono venuti
qui in visita ufficiale. ›› Uno di loro ha
detto al compagno: ‹‹ Wow! Non mi
sembra di stare a Casoria, mi sembra
di stare dentro una navicella spaziale!
››. Per Manfredi tale risposta è stata in
grado di ripagare tutti i sacrifici di
questi otto anni.
Quando s’investe nella cultura non la
si deve mai pensare come fast food ma
come slow benefit, se smettiamo di
pensarla come tale e la immaginiamo
come slow benefit essa, anche a livello
di mercato, col tempo paga. La cultura
pagherà sempre ›› .
Xenoi in viaggio Dialogo sopra l'ospitalità (e non
Maria Consiglia Alvino
O
ggi al corso di italiano in Caritas è
arrivato D., un nuovo studente.
Apro il registro delle iscrizioni e con un
po’ di difficoltà, devo ammetterlo, ricopio
il suo nome dal documento sbiadito che
mi offre, su cui l’usura ha cancellato proprio la trascrizione in caratteri latini dal
cirillico del nome. Ed il nome è una cosa
importante. Chiamare qualcuno per nome,
con il suo nome, senza storpiature, è il
primo modo per farlo sentire a casa. Spero
davvero di non aver sbagliato. D. è bulgaro ed ha quarantanove anni. Nella foto sul
documento è molto più giovane ed intuisco che una volta doveva essere stato bello. Sul volto bruno e rugoso, gli occhi duri
e verdi sono ancora quelli della foto. Sul
punto di perdermi dietro la varie suggestioni sulle cose che quegli occhi hanno
visto e che sembrano rispecchiare, gli
chiedo, come da prassi, quali titoli di studio possiede.
“Sono un ingegnere”, mi risponde piano e
con gli occhi seri, pronunciando il suono
gn – davvero strano per le genti dell’Est –
con particolare attenzione. Oltre il bulgaro
ed il russo conosce un po’ di tedesco, studiato a scuola più di venti anni fa. “Poco
male, così se non capisci qualcosa posso
sempre pensare di spiegartelo in tedesco.
E così forse anche il mio Erasmus in
Germania non sarà servito proprio a nulla”, penso tra me e me mentre segno nella
sezione del registro ANNOTAZIONI
PARTICOLARI il fatto che, sì, D. per fortuna conosce anche il tedesco.
– Bene ragazzi. Cominciamo la lezione.
Oggi abbiamo un nuovo compagno, perciò facciamo vedere a D. come siamo bravi a presentarci.
In realtà oggi avrei dovuto spiegare gli
articoli, invece, per rispetto di D. dovrò
ripetere un po’ anche per gli altri gli argomenti iniziali, i più importanti: il verbo
essere, per saper dire chi siamo – come
se questo fosse facile! -, il verbo avere,
per pensare a quello che per fortuna abbiamo e, in verità, spero poco a quello
che non abbiamo o che abbiamo perso; i
numeri, perché se sei straniero in una terra straniera non puoi correre il rischio di
leggere male l’orario di un treno, non capire il conto che c’è da pagare, presentarti a lavoro ad un orario sbagliato. Poi
vengono i nomi dei giorni, dei mesi, delle
stagioni. Perché il tempo crea il mondo
dovunque e non sa aspettare e se vuoi essere libero devi saperlo addomesticare. E
poi vengono i colori, perché tutto non sia
solo un cumulo di cose perse nel grigio
degli orari, ma ci sia l’allegria di un’alba
ogni tanto a riscaldarti il cuore, al mattino presto, quando esci per andare a lavoro ed il sole che sorge sembra anche a te
una promessa di bene.
– Io sono E. e sono polacca. Ho trentaquattro anni e sono una badante. Vivo a
Italia da due anni. Ho detto bene?
– Sì, bravissima. Però si dice “Io vivo in –
Italia, non a”.
– Questo lo sbaglio sempre, scusa.
– Non devi chiedere scusa, ci vuole pazienza. Vedrete che più parlerete, più imparerete.
E. sorride con i suoi occhi azzurri e tondi. Ed io penso in cuor mio a quanto vorrei che fosse vero quello che ho detto. A
quanto vorrei che davvero E., D. e gli altri incontrassero qualche Italiano in un
bar, per strada, in una piazza, e non solo
a lavoro, negli uffici o in Caritas, e si
mettessero a chiacchierare di cose semplici e banali, di come stanno, del calcio,
di casa che gli manca, della famiglia che
sta per venire a trovarli tra poco, a Natale. Vorrei che incontrassero davvero un
Italiano che li invitasse a mangiare una
pizza o a fare una passeggiata, non per
elemosina, ma solo per la curiosità di conoscere un’altra persona. Forse chiedo
troppo: è già abbastanza difficile incontrare qualcuno della tua stessa nazionalità
che sia interessato a te così come sei, non
solo per quello che hai o che sai fare o
Filippo Costantini
solo)
L
e onde avevano trascinato a riva
un’ottantina di corpi. La maggior
parte erano ragazzi giovani, a volte nemmeno ventenni. Il barcone era naufragato
la notte precedente, quando il mare non
aveva avuto pietà per quei poveretti. I funerali furono sommessi e alcuni di loro furono sepolti nel cimitero del paese lì accanto. Ma correvano tempi duri, di crisi e
il legno delle casse era scadente (si era infatti saggiamente deciso di risparmiare sui
morti e non, come si era fatto fino ad allora, sui materiali per costruire case, asili o
scuole): fu così che dopo la sepoltura una
di queste casse si ruppe facendo fuoriuscire il corpo di un giovane. La stessa sorte
era toccata al suo vicino di tomba: un
grasso podestà locale. I due ebbero in tal
modo l’occasione di conoscersi.
PODESTA’ Fatti in là tu, non vedi che mi
sei franato addosso? Mi stai togliendo l’aria.
IMMIGRATO Scusa signore, ma qui sotto
non mi potere muovere. È buoi e stretto. E
poi l’aria non servire più a noi. Non si è
accorto che siamo morti?
P Me ne sono accorto, me ne sono accorto… piuttosto, parli strano, tu. Non sei di
queste parti vero?
I No, io non essere di queste parti. Io essere venuto qui per cercare fortuna, un lavoro per poter aiutare la mia famiglia, ma
il mare avere inghiottito la barca su cui
ero. E così io ora mi trovare qui dove…
P Un immigrato sei tu!!! Ma guarda un
po’ con chi mi tocca stare ora! Io, uomo
probo e stimabile! Io, che ho speso tutta la
vita a cercare di mandarvi via dal nostro
paese, ora mi trovo qui, con due metri di
terra sopra la testa e devo sorbirmi anche
questo! Chi potrà mai aiutarmi in questa
situazione??? Nessuno! Che orrore; gnanca da morto me axè in paxe!
I Non se la prenda così signore; io non
avere lei fatto niente di male. E poi ora
che sembri. A volte tra di noi accade, ma
è raro. Tanto più difficile è per gli stranieri. Mi piace chiamarli così, e non immigrati, perché in fondo migranti lo siamo tutti e non ritengo la condizione dell’essere in viaggio una differenza tra gli
esseri umani. Mi piace di più la parola
stranieri. Forse perché mi ricorda quella
greca, xénos, che mi è cara e che vuol
dire sia straniero, sia ospite. Tutti siamo
un po’ xénoi, stranieri, prima che agli altri, a noi stessi, ed ospiti, perché a casa
non si è mai, forse perché una casa vera,
intesa come un posto sempre fisso, immutabile e sicuro in cui ritornare, non c’è, né
possiamo meritarcela. Non è per un merito personale, infatti, che nasciamo più
ricchi o più poveri, più belli o più brutti,
intelligenti o stupidi, né è solo per merito
che possiamo sperare di mantenere ciò
che il caso o un dio ci ha donato. Se siamo tutti xénoi in cammino, l’unica cosa
che possiamo fare è tentare di farci compagni di viaggio gli uni degli altri, condividendo il molto o il poco che non è nostro, ma ci è solo dato in custodia.
– Ora devi presentarti tu, mi dice K.,
muratore marocchino di cinquanta anni.
– Io sono C., ho venticinque anni, studio
Italiano, Latino e Greco all’università.
Sono la vostra insegnante di Italiano. Vi
ringrazio per aver scelto di imparare la
mia lingua e spero che vi troviate bene
qui. Spero anche di potervi aiutare a parlare ed a scrivere presto bene, così potrete trovare un lavoro migliore…E spero
anche che diventiamo amici.
Vorrei dirvi anche “vi capisco”, perché
mi sento più precaria e straniera di voi,
ma sarebbe troppo complicato. E vorrei
potervi ringraziare, perché le vostre vite
mi insegnano il coraggio, la fiducia, la
speranza che ci vogliono ogni giorno per
farsi straniero ed ospite. Vorrei ringraziarvi perché mi insegnate ogni volta l’arte dell’ospitalità: non sentirsi mai a casa,
neanche a casa propria.
noi non potere fare più niente: non potere muoverci, non potere scappare,
non potere neanche respirare. Noi due
dovere stare vicini per molto tempo, io
pensare. Eppure noi potere parlare…
io non capire…
P Ma che stai dicendo?! Smettila di
blaterare. Che sei venuto a fare, a lamentarti? E po’, fame un piàxer, vedito de parlar in itagliàn, se no no capixo
cosa che te dixi!
I Io avere già detto: io volere lavorare,
solo lavorare.
P Lavorare? Dite tutti così! E con questa scusa venite qui, rubate, spacciate;
siete gente pericolosa voi! Cosa pretendete: che ci fidiamo di voi? Non
possiamo uscire di casa la sera, perché
si ha paura di essere rapinati; non si
possono frequentare certi quartieri,
perché li controllate come se fossero
di vostra proprietà. E sai cosa odio ancora più di voi? Tutti quelli che stanno
dalla vostra parte; quei coglioni, per
usare un eufemismo, che vi vorrebbero
accogliere a braccia aperte, che vogliono aiutarvi, dividere il nostro paese con voi, il nostro lavoro con voi, le
nostre donne con voi e non si accorgono che stiamo facendo la fine degli indiani d’America: perché voi, si proprio
voi, ci state rinchiudendo nelle riserve!
Ma non mi farò certo mangiare i risi in
testa, io, da voi! Non permetterò di
certo che le città divengano delle zingaropoli! Torturarve e spararve a vista
se dovaria: no se miga reato a legitima difesa, ahahah.
- Il vecchio podestà scoppiò in una
crassa risata. Non si era accorto della
gravità delle sue parole, come non se
ne accorge uno che su quelle parole ha
bevuto bicchieri su bicchieri all’osteria
con gli amici. Ma l’immigrato non si
scompose; al contrario, nonostante non
si esprimesse nella sua lingua madre,
non aveva per nulla perso il senso
dell’umorismo.I Meno male che lei essere uomo
onesto e stimabile! Se l’onestà
significare sparare alle persone, chissà
cosa dovere aspettare dai disonesti?
Mangiare bambini, forse???
P Che fai, ti me toi anca pal cùeo
‘ndesso?
Sono
una
persona
rispettabile, io! In passato ho
amministrato un grosso comune e tutti
in paese mi stimavano! Quando c’era
bisogno di un consiglio da chi
venivano? Da me venivano. E quando
c’era bisogno di un aiuto, da chi
venivano? Sempre da me venivano. E
di un favore, di un prestito, di una
buona parola?
I Da lei venivano…
P Come ti permetti! Rispetto devi
portarmi! Ma in fondo con chi sto
parlando? Che ne vuoi saper tu di
rispettabilità? Ho lavorato una vita, io,
per costruirmi una buona reputazione,
altro che voi!
I Avere anche io lavorato tutta la vita!
Avere cominciato da bambino, prima
otto poi dieci fino a quattordici ore al
giorno, per un pezzo di pane e una
misera paga. Poi mi essere sposato e
avere avuto tre bambini. Ma tre
bocche da sfamare essere tante e così
avere deciso di partire in cerca di
condizioni migliori; avere deciso di
lasciare mia moglie e i miei tre
bambini – il piccolo di appena undici
mesi – con la speranza di potere
procurare loro qualcosa per vivere.
I La solita storia strappalacrime! A chi
credete di farla, voi??? Non sono mica
un ingenuo, io!
I Convincere lei essere mia ultima
preoccupazione. E a me non importare
niente di quello che lei pensare! Lei
credere forse che un uomo che lascia
la sua famiglia per andare in un posto
il cui nome non sa nemmeno
pronunciare correttamente, che passare
giorni e settimane intere viaggiando,
prima rischiando di morire disidratato
e poi affogato, che si umiliare facendo
i lavori più pesanti per una misera pa-
ga, credere forse lei che un uomo
così importare quello che pensa uno
come lei? A me importare solo di mia
famiglia! E poi voi vivere bene,
avere cibo in abbondanza e acqua da
bere (voi avere così tanta acqua
potabile che ci fare i vostri bisogni
sopra!!!) e noi dovere lottare per un
pezzo di pane! Dire lei a me: non è
giusto che anche i miei bambini
potere mangiare e andare a scuola
come i suoi?
P Non cambiare discorso adesso!
Non fate altro che delinquere e poi
parlate di bambini! Voi mandate i
bambini e a fare l’elemosina solo per
impietosirci! Che disgusto!
- Il vecchio podestà avrebbe voluto
alzarsi in mezzo alla folla, puntare il
dito verso l’immigrato, scaricando
così in quel gesto deittico una vita
fatta di retorica; quella retorica non
paga finché non abbia smascherato
una volta per tutte il colpevole, la
causa di tutti i mali. Ma lì sotto non
c’era nessuno che potesse vederli. E
forse questo era un bene.I Questo essere sbagliato! I bambini
non dovere subire le lotte e i
problemi dei grandi. Ha ragione ad
adirarsi con coloro che usare i
bambini in questo modo! Ma non
essere sempre così. Lei mettere
assieme cose diverse. E poi ciò non
significare che i miei bambini dovere
morire di fame perché lei non volere
che noi lavorare e vivere qui!
P Non ho di certo detto ciò. Non ho
affermato che non voglio che veniate
onestamente a lavorare da noi. Mi
sono limitato a criticare tutti coloro
che vengono qui solo per delinquere.
Per i tuoi bambini… mi spiace
veramente… quando ero vivo avevo
anche io una figlia e posso capire le
tue preoccupazioni. Ora che i vermi
mi divorano qui sotto, chi penserà a
lei? Me lo chiedo sempre più spesso
da quando mi trovo in questa umida
buca.
I Ma almeno lei vivere qui, in un
paese ricco, dove la gente non morire
di fame e poi…
P Forse non si morirà di fame, ma
poco ci manca! Evidentemente non
sei informato della nostra situazione
attuale: i disoccupati aumentano così
come le tasse, gli stipendi
diminuiscono così come le imprese
che chiudono perché falliscono. Non
c’è nemmeno più pesce da pescare da
quanto inquinati sono i nostri mari! È
un vero disastro. Non si trova lavoro
neanche a pagarlo! Tu non lo hai
visto, ma i tuoi compagni
sopravvissuti al mare se ne
renderanno ben presto conto: non
siete giunti al paradiso! Coxa poemo
fare noàltri par voàltri?
I Ma con questo non avere voi il
diritto di cacciare noi! Questa
situazione non avere noi provocata
ma il vostro modo di vivere, le vostre
società e i vostri mercati. Voi avere
vissuto pensando solo al vostro
orticello e non vi essere domandati
cosa rendere quell’orto vostro. Avere
vissuto pensando solo a guadagnare
dimenticandovi che se uno guadagna
è solo perché qualcun altro perde.
Dovere voi ospitare noi, essere un
nostro diritto! Noi non vi chiedere di
abbandonare vostro stile di vita, solo
avere un po’ più di rispetto anche per
noi e trattarci come vostri pari!
P Volete il rispetto? È giusto che lo
abbiate! Ma mi chiedo: può bastare?
Vi può bastare? No, certo che no.
Poi
chiederete
l’uguaglianza
economica.
Vi
moltiplicherete,
porterete le vostre usanze, la vostra
religione, le vostre tradizioni. Il
mondo in cui sono nato e cresciuto
sparirà – anzi forse è già sparito – e
dove potrò io dire di sentirmi a casa,
se anche casa è divenuta un’estranea?
Io sono vecchio e refrattario al cambiamento; ho mille paure, mille
preoccupazioni. Vedo il mondo
cambiare con una velocità impres-
sionante e non riesco a
starci dietro: mi sento
fuori dal mondo, dalla
vita, dalla società. Puoi
capire che difendere
quelle quattro cose che
mi
sono
rimaste
significa per me difendere quello che sono,
la mia identità, la mia
esistenza? È una battaglia persa, di questo ne
sono consapevole, ma
è l’unica che so combattere. C’è forse
un’alternativa?
– La domanda non
ebbe
una
eco
immediata. In fondo
entrambi conoscevano
la risposta: parlare,
dialogare,
guardarsi
finalmente faccia a
faccia e non nascondersi dietro stereotipi che illudono
con la promessa di una
identità solida, forte e
inamovibile, ma che
chiedono di pagare il
prezzo della falsità e
della menzogna. Ma
c’era in entrambi un
riserbo a rispondere:
l’ovvietà di quella risposta
nascondeva
un’ombra inquietante,
una sfida in cui non si
aveva alcuna garanzia
di successo. Perché la
parola, se da un lato
può guarire e avvicinare
le
parti,
dall’altro è essa stessa
che
ferisce,
che
allontana, che crea
incomprensioni: riuscire a evitare quest’ultima possibilità, muovendosi con estrema
delicatezza, è la sfida
dell’ospitalità. E di
questo
il
vecchio
podestà e l’immigrato
erano ben consapevoli. –
P Forse un’alternativa
c’è, ma mi pare ardua e
tutta in salita e richiede
tempo.
In
fondo
imparare è difficile e
mi no so mai sta bravo
scuoa!
I Non si preoccupare
lei di questo. Con il
tempo si può imparare
tutto e i morti, a
differenza dei vivi, di
tempo ne hanno un’eternità!
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