E - Deformazioni Culturali
Transcript
E - Deformazioni Culturali
deformazioni culturali mensile gratuito n. 12- dicembre 2012-gennaio 2013 deformazioniculturali.wordpress.com Nostri cari lettori, Ospitalità un ringraziamento speciale va a voi che ci accogliete ogni mese tra le vostre letture. Voi, che ci ospitate e che ci permettete di ospitarvi, che avete una spiccata sensibilità per gli argomenti trattati. Ogni mese noi ci impegniamo perché il nostro modo di esprimerci su essi ottenga la vostra attenzione. Amici e nemici, concordi o discordi, che applaudiate o malediciate i nostri racconti, noi continuiamo. Perché significa che, in un modo o nell'altro, abbiamo imboccato la strada giusta. Non è mai stato importante per la rivista il vostro appoggio, quanto piuttosto aver stimolato la vostra curiosità, eh già! Scatenare il dibattito, indurvi a darci ragione o torto, ma sopra ogni cosa aprirci uno spazio nel vostro animo, con la stessa testardaggine di un immigrato in terra straniera che, seppur trattato con indifferenza, crea le condizioni necessarie per formare la sua comunità e la chiama CASA. Noi vi regaliamo anche questo mese il nostro fastidio e vi auguriamo tutta la gioia di cui avete bisogno, sperando di poter tornare ad infastidirvi anche il prossimo anno, certi che saremo accolti per nuove curiosità e nuovi spunti di discussione. Lo Staff di Deformazioni Culturali Michele Di Mauro Puttana Q uando ho aperto gli occhi? Li tocco stasera, con punta di dita e ripenso a quand'ero bambina. Quand'è che s'aprirono prima, le due linee sottili, per cui incessante s'insinua la vita? Da qui è passata ogni cosa, pietruzze piccine montagne giganti il deserto maestoso e crudele, e storpie figure che stringono forte – le mani di ruggine: sfregiano sempre il mio viso che non ci fa il callo, che sempre sguarnito sta lì, a ricevere tutto. Che ho visto per prima? Una mano una faccia una parete? E quanta la strada? Ce n'è tanta a sinistra e a destra, stanotte. La solita lamba nel secchio di ferro, e 'sti tacchi che fanno un cazzo di male. È diventare un lumino, l’inverno, che tenue bisbiglia una storia al buio dei campi. Appena sussurra, poco più che scintilla, nell’asprezza muta del gelo. Gracili zampe, cavallette di ferro e lamiera sono i capannoni, che dormono. Brillano luci nelle distanze dove il vento soltanto è sovrano. E terra nuda e nera, che ha dato la vita e accoglie la morte e gli sfregi, il seme intossicato dei suoi varî mogli e mariti: come quella son io. Mani ruvide facce consunte mi prendono e capovolgono e chiedono ancora ancora e ancora. Per chi non è una puttana c'è sempre un mistero nel sesso. I fianchi le labbra i lombi col loro sapore e colore sono sempre una cosa lontana, una landa impervia e difficile. Io no, io sono un fodero di carne per voglie che qui vengon solo a sfinirsi e morire, come certi lembi d'un foglio di carta che brucia. Quando s'aprì la mia cosa, lo so. Ma gli occhi, mio Dio, che grondavano lacrime ancor ieri sera? Ho accolto ogni cosa a soltanto vent'anni, e senza mai chiedere niente. Non soffro, ma tremo all'idea che la vita sia questo portar fra le cosce il dolore di ognuno. Ognuno che dono non fa del suo male, lo tira soltanto un po' in faccia a chi può per lo sfogo e lo torna a casa tal quale – puttana io sono e non moglie, e per quanto stretti di sonno i miei occhi dovranno guardare, languire. Quegl'occhi che furon bambini e schiudevano al giorno fra le braccia d'un padre. Gli occhi che donavano gioia, che trovavano asilo fra il tavolo e il letto, gli occhi miei belli e ubriachi di luce; gli occhi che adesso soffoca il buio. E pure non soffro e bisbiglio qualcosa al buio dei campi, che qui danno i frutti crudeli d'un gramo lavoro. Che vado via. L'ho detto, vado via. Faccio un passo e ho fatto già l'altro, e affanculo 'sti tacchi da troia. Se spazzassi le strade in città – per un di quei casi che accadono pure – conterei i mozziconi nel fango e ascolterei la storia di ogni pezzo di carta, giornale o salvietta che sia. Avrei una raccolta di silenzi di mezza mattina da ciascun marciapiede, cui puntuale darei appuntamento negli assolati mattini a novembre; saprei dalle foglie ch'è autunno e dal cielo ch'è tardi; terrò compagnia alle campane ed al tram, e una bella casacca d'un verde brillante, che grassa mi faccia e non bona, sicché chi mi voglia avrà solo i miei occhi per scegliere. E cosa canterò? Uno stornello d'angelo inciampato, ramazzando, col resto, 'sto schifo scrollato di dosso: 'ndo vai, piccina? 'ndo te ne vai, io sapevo dov'eri e dove tu stai io faccio mattina. AugenBlick! di Francesco Ferrari U n caldo pazzesco. Io e M beviamo qualcosa al bar. “Ti ricordi quando eravamo ospiti della marquise DB?”- mi fa lei così, all'improvviso. “Oddio, sì. Ah ah! Ma come ti viene? E’ passato tanto tempo!”- rispondo io facendo la gnorri: in realtà questo è un nostro piccolo rito. Ogni volta che c’incontriamo io e M dobbiamo fare accenno ai nostri giorni parigini di giovani studentesse Erasmus scapestrate e squattrinate, sempre in cerca di un posto nuovo dove pernottare almeno per un po’. Immancabilmente allora ricordiamo i tempi chez la marquise (ma come diavolo eravamo capitate lì?), portiamo alla mente qualche episodio di quei mesi assai insoliti e ne ridiamo di gusto. “Non è esatto dire che eravamo “ospiti” però” - continuo io con la mia solita aria un po’ pedante da filosofa maestra del linguaggio alla quale niente-sfuggee-non-sia-mai-se-le-sfugge - “quella stronza ci faceva pagare fior di quattrini e ci trattava come due servette!”. “Ah, ah! Sbagliato anche questo!”- m’interrompe lei - “Trattava te come la bella e pericolosa Cinderella ma a me m’adorava: mi aveva dato la stanza più grande e mi chiamava madame, mentre tu sei sempre stata solo mademoiselle”. Vero, non posso contraddirla. Dopo tutto conosco i motivi per i quali la vecchia signora mi aveva preso in antipatia e non voglio indagarli con M. Sin dal primo incontro con la marchesa percepii una certa ostilità nei miei confronti. Mi presentai al numero 29 di quel gran boulevard nel 16esimo arrondissement carica di valigie come un mulo. Madame DB mi aspettava sull’uscio. Un’aureola di capelli candidi e sottili conferiva al suo viso rotondo come una mela un’aria apparentemente gentile. La marchesa mi scrutò attentamente con gli occhi piccoli e scuri come due bottoni. Subito dopo trasalì: “Je ne sais pas si on trouvera l’espace pour toutes ces valises!”- sbuffò scuotendo la testa. Poi tornò in sé, si presentò, mi accolse gentilmente e mi mostrò la mia cameretta ubicata nella zona dove un tempo alloggiava la servitù. “Maintenant il n’y a plus personne”- aggiunse. La marquise si definì une bonne chrétienne. Mai avrebbe negato il suo aiuto ad una ragazza in difficoltà, specificò contando i soldi del primo mese che le consegnai quella stessa sera. In seguito mi trattò con cordiale diffidenza. Le cose precipitarono il giorno in cui la cara signora decise di sfruttare il suo gran salone per organizzare un ricevimento. Per tutto il pomeriggio si susseguirono frenetici i preparativi per l’evento. Camerieri, pulizie, baccano di stoviglie in cucina. Quando a sera sopraggiunsero gli innumerevoli ospiti noi fummo presentate con molti sorrisi: “Voilà les chères hôtes italiennes!”- cinguettò madame, dopo di che ci consigliò di ritiraci nella nostra camera per poter stare plus tranquilles. Delle decine di torte che erano state preparate non ci fu offerta nemmeno una fetta. Il giorno dopo ebbi l’ardire (ubris!) di farle notare quanto fosse incoerente presentarmi come “cara ospite” ai suoi decrepiti amici puzzolenti di fumo e di boria quando poi, le spectacle terminé, tutto il nostro rapporto ritornava nella fredda dinamica del “Tu mi paghi – Io ti do un tetto”. Questa mia osservazione colpì la marquise nel suo orgoglio pazientemente costruito in settant’anni di cene e riverenze, posate d’argento e baciamano. Da quel momento mi accordò il dovuto rispetto ma io ben sapevo che qualcosa s’era definitivamente rotto. I confini erano stati stabiliti. Curioso: questa piccola vittoria significò per me una sorta di irreversibile “declassamento”. Silvia Maria Esposito Tout va très bien, madame DB “Certo, non posso darti torto” - continua M fissando distrattamente il cubetto di ghiaccio nel bicchiere “in lei non c’era nulla di ospitale. Ricordi l’episodio della macchinetta del caffè?”. Lo ricordo eccome. La marchesa aveva palesemente detestato la mia moka dall’esatto momento in cui l’aveva vista per la prima volta appoggiata sul tavolo della sua cucina. L’aveva afferrata con le mani nodose e l’aveva studiata a lungo: “Je ne crois pas que ça va marcher!” - aveva sentenziato con sicurezza. Nonostante le proponessi ogni mattina di provare appena un goccio (“Un petit peu madame!”) del mio caffè lei s’era sempre fieramente rifiutata: “Moi j’aime mon café”. Ogni sorso che davo al mio nero 100% arabica era per lei il segno tangibile non soltanto del mio indisponente rifiuto nei confronti del suo disgustoso caffè annacquato, ma soprattutto di un ostinato attaccamento alle mie radici che lei giudicava decisamente prive di attrattiva. Fu così che una mattina, turbata e infastidita dal ribollire della mia macchinetta, la marquise decise di togliere anzitempo l’odiato apparecchietto dalle fiamme del fornello e buttare nel lavabo tutto il contenuto: “Désolée, mais ça ne marche pas, ça ne marche pas, ça ne marche pas!”- andava ripetendo a gran voce facendo volteggiare le braccia nell’aria con fare seccato. A poco valsero i miei innumerevoli tentativi di mediazione: assaggiai ogni sorta di intruglio maleodorante che mi proponeva ogni sera; mi mostrai disponibile ad imparare le sue ricette migliori; misi su tre chili a forza di ingollare gâteau pieni zeppi di burro ma lei non bevve mai neppure un sorso del mio caffè. M interrompe i miei pensieri: “Comunque arriverò al sodo - dice cambiando bruscamente tono di voce volevo dirti che la marchesa è morta un mese fa, ho sentito sua nipote e mi ha detto che la salma è stata inumata nella cappella di famiglia, nei pressi del loro castello di S. Pare che al funerale fossero presenti tutti i suoi amici altolocati e un gran numero di parenti. La notizia però non è stata comunicata per tempo a nessuno dei giovani che lei ha ospitato in questi ultimi anni”. “Oh, povera!”- mi limito a rispondere. Ancora qualche commento e poi cambiamo discorso. Quando saluto M si è fatta sera e il clima è meno impietoso. “Tout va très bien, madame la marquise”canticchio tornando a casa. La marchesa ci raccontava spesso del castello di famiglia a S: diceva che di tanto in tanto ci giravano dei film e che i suoi mobili più preziosi provenivano da lì, poi gonfiava il petto e sospirava ricordando i tempi in cui era giovane e bella. Io immaginavo il calpestio dei tacchi sui sentieri di quei rigogliosi giardini e il profumo di rose. “Ce sont des choses que tu ne peux pas comprendre”- tagliava corto lei, gelosa dei suoi ricordi, quando si accorgeva che mi avventuravo con lei nelle sue fantasie. Adesso giace lì, sola, fiera e indisturbata. “Un’occasione mancata, madame!” - dico ad alta voce. Ospitalità a quattro ruote Tutto è incominciato perché trovavo Amburgo squallida. E perché il trasporto pubblico non te lo regalano. Ne sentivo parlare da mesi. Ma, lo confesso, ne avevo un po’ paura. Credevo di non capire. Poi, forse perché non ero solo, l’ho fatto. Sono andato su mitfahrgelegenheit.de e ho scelto “l’opportunità di viaggiare con”. Questo vuol dire quel parolone che non finisce più. Un’interfaccia semplice e intuitiva, inserzioni di autisti in transito per tutta la Germania e oltre, disposti a condividere la loro vettura in cambio di qualche palanca. Prezzi ragionevoli. Contatto diretto. Sms o fonella. A bordo di uno sconosciuto. Postulato: fidarsi l’uno dell’altro. Cofidarsi. E a volte, anche confidarsi. Che lo sconosciuto cessa d’essere tale poi nel momento in cui gli rivolgi la parola. Forse. In quell’abitacolo che sfreccia in mezzo al nulla della mitteleuropa. Ospite per alcune ore. Di un ignoto viandante fiducioso e ospitale. E se guida male? Andrò dall’ospitale all’ospedale. E se va ancora peggio? Passerò dall’ospitaggio ad essere ostaggio. Ma se va bene pago trenta euro da Amburgo a Stoccarda. Da allora è diventata una abitudine. Da Stoccarda a Jena, da Friburgo a Tubinga, da Tubinga a Francoforte. Vari autisti mi hanno accompagnato, e mi sono un po’ divertito a immaginare le loro vite. Al volante, ragazzoni della Germania Est che vivono all’Ovest e sanno che essere dell’Est vuol dire che se si guasta una cosa la ripari. E poi si fermano con te a mangiare un wurstel della Turingia. Biondoni di marmo bavaresi che studiano idrologia all’università e sanno tutto ciò che ha a che fare con l’acqua. Rispettabili CDU-Frauen che ascoltano leziose musichette piene di speranza. A fianco a me, diligenti studentesse che lernano tutto il tempo senza rivolgermi la parola, ingegneri lussemburghesi che raccontano di sorelle dottorande in storia dell’arte, calciofili della Renania che mi invitano a vedere qualche volta una partita una volta tornati a casa. Sono così diversi tra loro. Ma accomunati dall’accomunare. Nel dare (e nel ricevere anche, suppongo) un’ospitalità a quattro ruote. E nondirado a quattro stelle. E allora, fidatevi, fidiamoci. Il mondo è forse pronto a dare ospitalità allo sconosciuto. La mamma a sapervi ospite di uno sconosciuto, probabilmente ancora no. 2 Troppi assai Stefano Maria Caterino D ei dipendenti, cosa siamo. ecco Nulla ci è permesso di fare senza doverlo chiedere a qualcuno. Quando si è ospiti è così: si chiede e si riceve perché prendere è da irrispettosi e maleducati. E quando non si riceve ben venga essere irrispettosi, pensiamo. Del resto noi prendiamo perché ci viene negato o perché ne abbiamo bisogno. Adesso. Con la cortesia è più facile, lo spiegano così ai bambini. Ma il problema non è la forma, è l'atto in sé: il chiedere. Siamo dei dipendenti perché nulla di ciò che abbiamo ce lo siamo procurati da soli. Se abbiamo un lavoro dobbiamo ringraziare a Tizio, se abbiamo una casa è perché Caio..., se non hai, cosa ancora più grave, è perché né Tizio, né Caio, né Sempronio, né chiunque altro ti ha dato l'opportunità, o meglio, ti ha fatto la grazia di poter avere. “Se non fosse stato per...”: una formula fissa come l'antifona all'eucaristia. Sapete cosa voglio dire. Siamo proprio un paese straordinario, nel senso che ciò che abbiamo ci è permesso averlo come fuori dall'ordinario. Siamo talmente abituati alla straordinarietà che parcheggiamo in divieto di sosta e pensiamo che, parlando col vigile, riusciamo a non essere multati. Le cose si ottengono chiedendole, siamo ospiti di un Hotel, le “cose” vengono mascherate da cortesie. Ma non ci rendiamo conto che più chiediamo, più accumuliamo debiti. Non abbiamo neanche iniziato la nostra fase di maturazione che già dobbiamo ringraziare mille persone se siamo arrivati fin qui. E dobbiamo ricambiare mille favori. E guai a non essere grati! Il debito che abbiamo non è soltanto economico, ma anche sociale. Pensiamo di aver a che fare coi principi Myskin: gli “idioti”. Ma i veri idioti siamo noi, che ci facciamo trattare come ospiti. Eh già, perché la vera fregatura è che questa ospitalità ti fa sentire una pedina. E allora cominci a dire a te stesso che non sempre si può chiedere, qualche volta devi pure rinunciare, hanno fatto così tanto per te in passato che sarebbe anche il caso di fare un po' a meno. Nessuno che dica “faccio da me” : il lavoro te lo devono dare, anche se tu hai l'intelligenza necessaria per creartelo. Ma ti hanno istruito così bene che credi che non spetti a te il compito di provvedere a te stesso. Dei dipendenti. Ecco cosa siamo. Del resto non è colpa nostra se ogni tentativo di rendersi autonomi, di mettersi in società, di peccare di hybris, viene stroncato alla nascita. O forse sì? Ed è del tutto normale che viviamo una situazione di disagio. Perché se gli ospiti sono dieci volte il numero dei posti, diventa difficile accontentarli. Perché se l'autobus è uno e i passeggeri sono cento, tu devi rinunciare a prenderlo, oppure tutti d'accordo decidete di riconoscere l' eccezione come situazione “normale”. “Stringetevi” è uno dei quotidiani comandi del caporale di turno che vuole salire a bordo. “E non è colpa nostra se i mezzi pubblici non circolano” dicono i passeggeri. “E non è neanche colpa nostra se non possiamo offrire un servizio adeguato. Siete troppi, troppi assai.” Siamo troppi? Siamo l'esubero? Ho partecipato recentemente a un incontro sulle opportunità di lavoro per giovani laureati e “intraprendenti”. Il messaggio che traspariva era “Il lavoro c'è e ci sono migliaia di opportunità in tutti i settori professionali. Ma non in Italia”. Che è un po' come dire “siete utili, ma non per noi”. Inoltre c'è da dire che il comando “stringetevi” non vale solo per il contesto fisico-spaziale. “Stringetevi” significa che se volete starci tutti bisogna fare un sacrificio. Loro sono disposti a farci la cortesia di ospitarci a patto che noi siamo disposti a occupare di meno, quindi ad avere di meno, a mangiare di meno, a opporci di meno. Insomma loro sono disposti a ospitarci, ma a queste condizioni è frustrante sentirsi ospiti. C'è chi se ne va e c'è chi accetta la frustrazione. “Partire è meglio che restare” , “restare significa combattere” e altri slogan simili non andrebbero affissi sullo stipite della porta. Piuttosto varrebbe davvero la pena porre l'attenzione sul fatto che è stato permesso che succedesse questo. Non perché non ci sono i soldi (che è pur vero), non perché siamo potenzialmente inferiori, ma perché ci hanno educato, ci hanno istruito, ci hanno informato che si vive solo appesi al ramo di qualcun altro. E allora capiamo che non è vero che siamo troppi. È vero invece che ci hanno resi e ci rendono troppi. È vero che se lavoriamo da autonomi abbiamo sì, molte responsabilità. Ci ritroviamo sommersi da debiti (quelli economici) e dobbiamo scommettere di più, con i rischi che ne conseguono, primo tra tutti quello di diventare scettici. Ma ribaltiamo la nostra situazione, almeno credo, da ospiti a ospitanti. Quei troppi, se lo vogliono, possono diventare di meno. Potrebbero cooperare per realizzare qualcosa che non implica la crescita del debito (quello sociale), affinché siano coscienti che quello che hanno e quello che guadagnano lo devono a loro stessi. Ma la logica del debito sociale, dell'esubero, della dipendenza dal prossimo non cipermette di proseguire su questa strada. Qual'è la soluzione allora? Rendersene conto e prenderne atto. È questa la strada per una deformazione culturale. Credits La copertina di questo numero è presa da internet Il disegno in questa pagina è di Pàllina. Ringraziamo Antonio Manfredi, Paola Magliozzi, Antonio Piscopo. scrivici al nostro indirizzo [email protected] Segui i nostri aggiornamenti su Facebook e Google+ deformazioni culturali [email protected] mensile gratuito diretto da Michele Di Mauro Deformazioni Culturali è una rivista che afferisce alla testata Avanguardie Reg. tribunale di Napoli n. 7293 del 14/12/2009 Dir. Responsabile: Francesco Donzelli Editore: ass. culturale Alternative per il Socialismo Vicinanza e distanza Sergio Keller [I temi e gli esempi letterari sono tratti dalle lezioni di filosofia di Pier Aldo Rovatti] Quando si parla di ospitalità è naturale pensare al rapporto fra se stessi e un altro, ma ci siamo mai chiesti se siamo ospitali verso noi stessi? Si parla sempre di accogliere l’altro, il diverso, senza vedere che il primo esempio di alterità è in noi stessi. Compiere questo passaggio attraverso se stessi è una condizione necessaria per aprirsi agli altri, ma non è mica facile. Anzitutto bisogna capire chi è questo Altro e cosa ci fa in noi. Forse ci comanda? Ci contrasta oppure è a sua volta ospitale? Potrebbe essere un barbaro che sfugge al nostro controllo e, in questo caso, perché mai dovremmo essere ospitali con lui? Ogni essere umano si trova in imbarazzo se deve rispondere in modo esauriente alla domanda: «Chi sei?». Possiamo dire il nostro nome, le nostre qualità, qualcuno è così onesto da ammettere anche i propri difetti. Possiamo raccontare chi eravamo, cosa abbiamo fatto, e chi vogliamo essere, cosa intendiamo fare, ma sul futuro aleggia sempre un forte dubbio: «E se all’improvviso io diventassi folle?». In questo caso non saremmo più noi stessi, verremmo meno ai nostri progetti e propositi. Quel folle lì ci renderebbe bugiardi. Per di più non possiamo promettere di non impazzire, possiamo solo sperarlo. «Non impazzirò» ha lo stesso valore di «Ti amerò per sempre»: vale a meno di cambiamenti drastici, i quali spesso non sono prevedibili né dipendono dalla nostra volontà. Ecco chi è l’altro: è quel folle potenziale in noi stessi che può rubare la nostra identità. Come metterci al riparo da questo folle? Se teniamo la porta aperta, verrà certamente a distruggerci. Tutto sembra suggerire di chiudere quella porta, ma rischiamo di fare la fine dello strano animale, protagonista del racconto di Kafka “La tana”, il quale mette al sicuro la propria abitazione costruendo cunicoli e passaggi segreti, sistemi di sicurezza sempre più complicati. Alla fine esce dalla tana per poter sorvegliare meglio l’ingresso: paradossalmente, cercando la massima sicurezza, si espone, in modo insensato e folle, al pericolo. Insomma, se ci barrichiamo dentro noi stessi, restiamo prigionieri insieme al folle, proprio perché si trova in noi. L’unica strada percorribile è, quindi, fare i conti con questo Altro in noi, accoglierlo, conoscerlo, ospitarlo. Non che in questo modo lo depotenziamo davvero, ma almeno eliminiamo l’irruenza dell’effetto sorpresa. Se accettiamo all’interno della nostra identità quel po’ di follia, se ammettiamo che la nostra identità non è qualcosa di fisso e stabile, riduciamo il rischio di essere sopraffatti all’improvviso e dall’interno. Certo il prezzo da pagare consiste nel prendersi un po’ meno seriamente, nel non fare più quelle promesse impossibili, quindi nell’assumersi la responsabilità di valutare caso per caso (a seconda di chi siamo diventati crescendo o impazzendo) rinunciando ai principî assoluti. Quando comprendiamo la natura paradossale della nostra identità, ospitiamo l’Altro che è in noi. Tuttavia l’ospitalità non è un’apertura incondizionata, è piuttosto un equilibrio precario: creare una vicinanza, per non correre il rischio di essere sopraffatti, e mantenere una distanza, per non dover cedere a ogni capriccio e rinunciare a se stessi. L’incontro con l’alterità in noi stessi ci prepara all’autentica ospitalità verso gli altri: anche con gli altri creiamo una vicinanza quando ci apriamo e li accogliamo, ma manteniamo una distanza sia per evitare che abusino della nostra gentilezza sia per evitare che la vogliano in un certo senso ripagare, invece che con altrettanta gentilezza (incondizionata e impersonale), in modo economico o materiale. Edmond Jabès racconta un episodio che spiega molto bene quest’ultimo concetto: egli si trovava nel deserto assieme alla moglie, si erano persi e incontrarono un beduino, il quale diede loro le indicazioni di cui avevano bisogno. Anni dopo tornarono da quelle parti per salutare il beduino e ringraziarlo. Questi si mostrò molto gentile con loro anche la seconda volta, ma finse di non riconoscerli. Dapprima Jabès rimase male di fronte a questo comportamento, ma dopo aver riflettuto comprese che la vera ospitalità è proprio quella di quando ci si incontra per la prima volta: una gentilezza non motivata da un legame passato, ma rivolta all’estraneo in quanto tale. Il beduino, con il suo distacco, vuole mostrare che l’ospitalità deve mantenere la sua purezza e non deve corrompersi diventando uno scambio di favori: ci si comporta bene verso l’altro, non perché ci si aspetti un compenso, ma perché è l’unica strada sensata. 3 ‹‹E allora Casoria diventa, per forza di cose, un soggetto diverso da quello che è un vero e proprio museo di arte contemporanea, diventa una sorta di presidio territoriale aperto ovviamente alla contemporaneità e all’internazionalità ›› Così, poco dopo l’esordio del discorso, stimolato dalla domanda di Stefano, l’ “intervistato” si trova ad occupare una precisa posizione. Il presidio di cui il nostro ci parla è già una vittoria, se non altro vuol dire che qualcuno ha ben capito cosa vale la pena difendere. Ovviamente è il presidio a “presidiarsi” da solo, allo stesso modo in cui è ciò che gli vive intorno che ne risulta protetto, sostenuto, coadiuvato. L’idea che sostanzia la prima domanda di Stefano è “arte contemporanea come immigrato clandestino”, entità che ha diritto d’essere accolta, ma che agisce talvolta con prepotenza, tendendo per sua natura a scontrarsi, ancor prima del tentativo d’incontro, con la società. L’ospitalità di un opera d’arte da parte del nostro animo può persistere per una vita intera, può durare un giorno, un istante o un nulla, nel caso non le si permetta di varcare la nostra “soglia”, nel momento in cui quell’ospite non si riveli o non si ritenga degno di stabilire un contatto con noi. Ma si tratta pur sempre di uno scambio reciproco, in cui l’arte “ci accoglie” ancor prima che noi le ricambiamo il favore, rendendoci sostanzialmente ciò che in origine le doniamo, come sostanza dell’umano, e restituendocene in qualità. Ed in tutto ciò non si può prescindere dalla contemporaneità. ‹‹ Per me arte contemporanea è quello che in questo momento storico, che noi viviamo, viene prodotto dagli artisti e questo è molto interessante poiché ci avvicina anche a quella che è “arte sociale”, cioè arte che guarda attorno, che è un occhio sulla società nella quale vive e opera. ››. Egli ritiene opportuno e necessario il contributo dell’arte al cambiamento e crede nella cultura come unica possibilità di cui noi, nel nostro territorio, possiamo avvalerci (e non è affatto poco). Viene da riflettere su come la necessità di un continuo raffronto ed affronto alla società,non debba mai sovrastare, pena la perdita dell’arte stessa, che è sempre anti-funzionale e si avvicina più alla nascita d’un nuovo organismo con cui fare i conti che all’essere risultato di un intento contestativo, la libertà di azione. È in essa ciò che porta l’arte ad essere sempre anche operazione di astrazione che conduce dal di dentro al di fuori e al di sopra della società, affermo. ‹‹ Questa è poi la missione dell’artista ›› ribatte il direttore. Stefano s’interroga infatti in quale misura il Manfredi artista sia ospite dello spazio che lui stesso gestisce, con la presenza della propria opera, ed in quale per l’appunto “oste”, per la volontà e l’impegno di assemblare ed accogliere tante creazioni altrui, al fine di formare il moderno baluardo che a sua volta accoglie il colloquio di cui siamo protagonisti. ‹‹ Non so quanto mi sento oste e quanto ospite. Qualcuno dice che questa, in realtà, è una grande installazione di Manfredi, nonostante all’interno ci siano poi mille opere di artisti. Probabilmente è vero che un creatore dà molto della propria idea dell’arte in un museo, quello che ho sempre cercato di rifuggire però è l’utilizzare forme semplici per organizzare una mostra. ›› Manfredi ci rivela quanto sia per lui fondamentale girare per il mondo alla ricerca di ciò 4 L'accoglienza che paga Conversazione con Antonio Manfredi, direttore del Casoria Contemporary Art Museum Roberta Andolfo che effettivamente si produce, pescando in Cina, Giappone, Africa, o in qualsiasi altro luogo, validi artisti, all’interno dell’ottica di un network realmente internazionale. Il nostro“oste” ci parla alla presenza, nella stanza attigua, di alcuni suoi ospiti; opere sfrattate dalla loro originaria dimora, il Tacheles, museo berlinese d’arte contemporanea (autogestito), il quale ha purtroppo dovuto lasciare il posto ad un centro commerciale. Ma non dimentichiamo di essere alla presenza di colui che si definisce provocatore per necessità ed anche perché, come artista, non potrebbe fare a meno di esserlo. ‹‹ un artista deve essere anche un provocatore, almeno se non altro provocare una reazione ››. Scivoliamo così agevolmente verso CAM Art War, performance durante la quale molte opere sono state bruciate dai loro stessi creatori (accadeva nell’aprile di quest’anno) in segno di protesta contro l’abbandono istituzionale che avrebbe avuto quale inevitabile conseguenza la dispersione delle opere del CAM, destinate così a non poter più essere fruite. Manfredi e “i suoi” hanno messo in pratica questa esasperata intenzione (la sua stessa opera MAY BE, ospitata l’anno scorso alla Biennale di Venezia, ha subìto per prima le conseguenze della decisione) senza in effetti passare inosservati da alcuno. Le figaro e BBC compresi. Risultato? Il museo è ancora lì con tutti i suoi spazi, prima reclamati dal Comune. Si è riusciti in tal modo a cogliere nel segno, attirando quell’attenzione a cui un museo “precario” deve a volte disperatamente mirare. Ma il suo “modus operandi” è originato dal connubio fra l’animo dell’artista, che emerge nella capacità di avvalersi d’uno spazio d’espressione, e quello di curatore, il quale coordina i tempi e lo spazio affinché l’artista disponga, nella totale libertà, di una possibilità concreta del contatto autentico col pubblico. ‹‹ Quella dell’artista curatore è una figura da rivalutare, anche perché in effetti ti pone in un rapporto non sterile con gli altri artisti ››. Gli espongo allora la mia idea per cui un’opera sia sempre completa in sé pur essendo frammento di un mondo e come si possa riversare quest’esigenza di completezza anche nello strumento più “razionale” della critica e nel rapporto fra essa e l’assimilare l’arte a livello emotivo, immediato. ‹‹ Penso anch’io che in realtà la critica d’arte è e deve essere una guida per poter leggere meglio l’opera grazie alla conoscenza del critico, il quale può riuscire a ricreare una storia sia dell’artista che delle correnti che intervengono in quella determinata ed aiutarci a capire (…) è anche vero che sempre più spesso si assiste alla figura del critico d’arte che diventa manager, “proprietario” degli artisti. ›› Spesso, in effetti, il critico d’arte non è più colui il quale va ad investigare il segno dell’artista, ma colui che elabora a tavolino una nuova idea di “corrente”, sceglie gli artisti e li porta a realizzare un qualcosa. ‹‹ Io non so dire se questo sia un fatto positivo o meno, così sono nate delle correnti artistiche molto importanti e diffuse. (…) Forse quegli artisti, pur essendo degli ottimi artisti, non avrebbero avuto tanto successo senza un critico che avesse dato una storia a quel che loro facevano. Poi sono stati fortunati a bravi a portare avanti quelle ricerche. Ce ne sono tantissimi, con l’arte povera è la stessa cosa. Così è stato, così è e probabilmente sarà ancora. ›› ‹‹ Le lobbies di potere finanziarie che nel mondo gestiscono le politiche europee e mondiali, in realtà lo sono anche nell’arte contemporanea. Sono le grandi gallerie e case d’asta ad avere il monopolio dell’arte. Cercare di combattere queste cose, da parte degli artisti, diventa anche abbastanza pericoloso. Probabilmente lo è meno per un museo. Bruciare un’opera d’arte, che è la massima espressione della mente umana, è qualcosa che ha fatto rabbrividire non poco. ›› Qui ci ricongiungiamo alle esigenze di cui si è detto. Manfredi non crede ci possa essere il rischio che questa continua provocazione diventi forzata? Chiaramente si parte da una volontà, ma non pensa che questa volontà possa comunque sentirsi piegata, indotta a pianificare la provocazione a tutti i costi? ‹‹ Non lo vedo un fatto negativo. (…) bisogna cercare di affrontare il potere costituito. Non che io sia un antipolitico e antipartitico, ma mi sento un uomo libero, un artista che può dare, attraverso le immagini, un contributo al pensiero. Diventa provocazione perché la si vuole vedere come tale. Qui non si tratta né del tentativo di farsi comprendere a tutti i costi, altrimenti non ci troveremmo più nell’arte contemporanea e ci dovremmo mettere a dipingere i “Vesuvi”, soprattutto nei territori in cui viviamo, né della provocazione per la provocazione. Semplicemente è una visione del mondo attraverso l’arte che viene fatta da un museo, né più né meno. ›› Per questi stessi motivi la visione artistica di Manfredi non può escludere un’esplicita condanna alla Camorra o alla corruzione. L’apertura al mondo resta in ogni caso indispensabile. Si pone, a questo punto, la questione su quanto la qualità estetico-espressiva dell’opera abbia a Le città improbabili Omocrònia di Massimo Maraviglia Nessuno straniero può restare per più di nove giorni ad Omocrònia, non certo perché qualche legge lo vieti, solo perché oltre questo tempo il rischio di annullarsi è quasi certo. Tutto questo perché ad Omocrònia ogni evento è scandito con una tale sistematicità che anche un omòcrono di tre anni sarebbe in grado di prevedere tutto quello che avverrà da questo momento all’eternità, o a un tempo che all’eternità somiglia. Nessun evento inatteso può sconvolgere la vita degli omòcroni. Persino la pioggia, il sole e il vento, il rosso, l’arancione e il verde dei semafori, i litigi, gli abbandoni e le riappacificazioni, le nascite, le malattie e le morti sono scandite da algoritmi di tale ritmica puntualità che al cospetto, il menù di una mensa scolastica apparirebbe come il manifesto della sregolatezza e della bizzarria… lunedì riso, patate e cotolette, martedì pasta, zucchine e pollo, mercoledì pasta, formaggio e insalata. Analogamente, a Omocrònia tutti sanno quando verrà la pioggia, quando il sole, quando il vento e poi la pioggia, il sole, il vento… sicché è uso dire tra gli omòcroni: “quando c’è la certezza c’è tutto” e molti di loro, di fatto, hanno soltanto quella. che fare con il suo grado di provocazione e partecipazione sociale, e se così tanto da renderlo disposto ad accettare, ad esempio, un’opera molto provocatoria ma che egli ritiene meno valida di altre. La risposta è negativa. ‹‹ bisogna fare anche la guerra e la rivoluzione quando è il momento di salvare qualcosa. ››. Stefano è colpito dalle capacità di Manfredi di agire senza mezzi termini, arrivando in modo diretto al cuore di un problema e combattendolo con azioni “violente”, spinte al limite. E del resto, come sostiene l’ “intervistato”, anche questo si sposa con l’esigenza di mantenere vivo uno spazio del genere. Quando ci si rende conto che nessuno s’interessa al destino del museo pare resti una sola arma: la “guerriglia artistica”. Adesso ad esempio i galleristi vorrebbero (anche se il direttore non lo permette) acquistare i pezzi delle opere bruciate, divenuti appetibili per il mercato. È così che Manfredi sostiene e dimostra come anche nell’arte (sono sue parole) nulla si crei e nulla si distrugga. Si ha quindi l’impressione che oggi essa debba direzionarsi nella forma di un attacco continuo, sempre più estremo, aggressivo. Ma allora , in conclusione, l’arte dove si trova? È solo il modo stimolante di ribellarsi agli strumenti logoranti del potere e alle regole dettate da pochi privilegiati, per un mondo vissuto, finalmente, in primo piano da tutti? C’è da dire che l’arte non è propriamente questo. Credo che essa abbia un corpo ed un’anima tutti suoi. Se diviene contestativa lo diviene solo spontaneamente, non può partire da certe velleità, almeno non del tutto, ma solo veicolarle in altro modo, forse in un modo più “sfumato”, leggiadro, spogliato di prevaricanti necessità contestative perché fatto di essenze e percezioni, di sensazioni che si ritorcono nel profondo, in un vago che non si afferra mai per intero ma che si può solo sentir vibrare dentro. L’artista riesce ad accumulare l’indefinito nella concretezza di qualcosa che si possa toccare, vedere, ascoltare con precisione pur senza che le sue origini attendano propriamente all’ordine del pensiero razionale. La degna conclusione della nostra chiacchierata me la suggerisce l’aneddoto raccontato dal direttore d’orchestra Daniel Baremboim in una recente intervista. In occasione di un concerto nella striscia di Gaza, un signore palestinese lo aveva infinitamente ringraziato per esser venuto lì a portar loro la sua arte. Alla domanda di Baremboim sul perché di tanta riconoscenza, l’uomo aveva risposto che era importantissimo che lui fosse venuto perché da loro si ha l’impressione d’essere dimenticati, e si ricevono soltanto aiuti umanitari come cibo o medicine, la qual cosa si farebbe anche per degli animali. Invece il maestro, con la sua musica, incalzava l’uomo, aveva fatto ricordare loro che sono degli esseri umani. Al cospetto di tale suggestione ho chiesto al direttore in che modo l’arte del CAM potrebbe cambiare in meglio la realtà del luogo. Il congedo è stato piacevole e, soprattutto, carico di aspettative per l’avvenire: ‹‹ Le rispondo con quello che ho ascoltato qualche settimana fa da bambini della seconda elementare che sono venuti qui in visita ufficiale. ›› Uno di loro ha detto al compagno: ‹‹ Wow! Non mi sembra di stare a Casoria, mi sembra di stare dentro una navicella spaziale! ››. Per Manfredi tale risposta è stata in grado di ripagare tutti i sacrifici di questi otto anni. Quando s’investe nella cultura non la si deve mai pensare come fast food ma come slow benefit, se smettiamo di pensarla come tale e la immaginiamo come slow benefit essa, anche a livello di mercato, col tempo paga. La cultura pagherà sempre ›› . Xenoi in viaggio Dialogo sopra l'ospitalità (e non Maria Consiglia Alvino O ggi al corso di italiano in Caritas è arrivato D., un nuovo studente. Apro il registro delle iscrizioni e con un po’ di difficoltà, devo ammetterlo, ricopio il suo nome dal documento sbiadito che mi offre, su cui l’usura ha cancellato proprio la trascrizione in caratteri latini dal cirillico del nome. Ed il nome è una cosa importante. Chiamare qualcuno per nome, con il suo nome, senza storpiature, è il primo modo per farlo sentire a casa. Spero davvero di non aver sbagliato. D. è bulgaro ed ha quarantanove anni. Nella foto sul documento è molto più giovane ed intuisco che una volta doveva essere stato bello. Sul volto bruno e rugoso, gli occhi duri e verdi sono ancora quelli della foto. Sul punto di perdermi dietro la varie suggestioni sulle cose che quegli occhi hanno visto e che sembrano rispecchiare, gli chiedo, come da prassi, quali titoli di studio possiede. “Sono un ingegnere”, mi risponde piano e con gli occhi seri, pronunciando il suono gn – davvero strano per le genti dell’Est – con particolare attenzione. Oltre il bulgaro ed il russo conosce un po’ di tedesco, studiato a scuola più di venti anni fa. “Poco male, così se non capisci qualcosa posso sempre pensare di spiegartelo in tedesco. E così forse anche il mio Erasmus in Germania non sarà servito proprio a nulla”, penso tra me e me mentre segno nella sezione del registro ANNOTAZIONI PARTICOLARI il fatto che, sì, D. per fortuna conosce anche il tedesco. – Bene ragazzi. Cominciamo la lezione. Oggi abbiamo un nuovo compagno, perciò facciamo vedere a D. come siamo bravi a presentarci. In realtà oggi avrei dovuto spiegare gli articoli, invece, per rispetto di D. dovrò ripetere un po’ anche per gli altri gli argomenti iniziali, i più importanti: il verbo essere, per saper dire chi siamo – come se questo fosse facile! -, il verbo avere, per pensare a quello che per fortuna abbiamo e, in verità, spero poco a quello che non abbiamo o che abbiamo perso; i numeri, perché se sei straniero in una terra straniera non puoi correre il rischio di leggere male l’orario di un treno, non capire il conto che c’è da pagare, presentarti a lavoro ad un orario sbagliato. Poi vengono i nomi dei giorni, dei mesi, delle stagioni. Perché il tempo crea il mondo dovunque e non sa aspettare e se vuoi essere libero devi saperlo addomesticare. E poi vengono i colori, perché tutto non sia solo un cumulo di cose perse nel grigio degli orari, ma ci sia l’allegria di un’alba ogni tanto a riscaldarti il cuore, al mattino presto, quando esci per andare a lavoro ed il sole che sorge sembra anche a te una promessa di bene. – Io sono E. e sono polacca. Ho trentaquattro anni e sono una badante. Vivo a Italia da due anni. Ho detto bene? – Sì, bravissima. Però si dice “Io vivo in – Italia, non a”. – Questo lo sbaglio sempre, scusa. – Non devi chiedere scusa, ci vuole pazienza. Vedrete che più parlerete, più imparerete. E. sorride con i suoi occhi azzurri e tondi. Ed io penso in cuor mio a quanto vorrei che fosse vero quello che ho detto. A quanto vorrei che davvero E., D. e gli altri incontrassero qualche Italiano in un bar, per strada, in una piazza, e non solo a lavoro, negli uffici o in Caritas, e si mettessero a chiacchierare di cose semplici e banali, di come stanno, del calcio, di casa che gli manca, della famiglia che sta per venire a trovarli tra poco, a Natale. Vorrei che incontrassero davvero un Italiano che li invitasse a mangiare una pizza o a fare una passeggiata, non per elemosina, ma solo per la curiosità di conoscere un’altra persona. Forse chiedo troppo: è già abbastanza difficile incontrare qualcuno della tua stessa nazionalità che sia interessato a te così come sei, non solo per quello che hai o che sai fare o Filippo Costantini solo) L e onde avevano trascinato a riva un’ottantina di corpi. La maggior parte erano ragazzi giovani, a volte nemmeno ventenni. Il barcone era naufragato la notte precedente, quando il mare non aveva avuto pietà per quei poveretti. I funerali furono sommessi e alcuni di loro furono sepolti nel cimitero del paese lì accanto. Ma correvano tempi duri, di crisi e il legno delle casse era scadente (si era infatti saggiamente deciso di risparmiare sui morti e non, come si era fatto fino ad allora, sui materiali per costruire case, asili o scuole): fu così che dopo la sepoltura una di queste casse si ruppe facendo fuoriuscire il corpo di un giovane. La stessa sorte era toccata al suo vicino di tomba: un grasso podestà locale. I due ebbero in tal modo l’occasione di conoscersi. PODESTA’ Fatti in là tu, non vedi che mi sei franato addosso? Mi stai togliendo l’aria. IMMIGRATO Scusa signore, ma qui sotto non mi potere muovere. È buoi e stretto. E poi l’aria non servire più a noi. Non si è accorto che siamo morti? P Me ne sono accorto, me ne sono accorto… piuttosto, parli strano, tu. Non sei di queste parti vero? I No, io non essere di queste parti. Io essere venuto qui per cercare fortuna, un lavoro per poter aiutare la mia famiglia, ma il mare avere inghiottito la barca su cui ero. E così io ora mi trovare qui dove… P Un immigrato sei tu!!! Ma guarda un po’ con chi mi tocca stare ora! Io, uomo probo e stimabile! Io, che ho speso tutta la vita a cercare di mandarvi via dal nostro paese, ora mi trovo qui, con due metri di terra sopra la testa e devo sorbirmi anche questo! Chi potrà mai aiutarmi in questa situazione??? Nessuno! Che orrore; gnanca da morto me axè in paxe! I Non se la prenda così signore; io non avere lei fatto niente di male. E poi ora che sembri. A volte tra di noi accade, ma è raro. Tanto più difficile è per gli stranieri. Mi piace chiamarli così, e non immigrati, perché in fondo migranti lo siamo tutti e non ritengo la condizione dell’essere in viaggio una differenza tra gli esseri umani. Mi piace di più la parola stranieri. Forse perché mi ricorda quella greca, xénos, che mi è cara e che vuol dire sia straniero, sia ospite. Tutti siamo un po’ xénoi, stranieri, prima che agli altri, a noi stessi, ed ospiti, perché a casa non si è mai, forse perché una casa vera, intesa come un posto sempre fisso, immutabile e sicuro in cui ritornare, non c’è, né possiamo meritarcela. Non è per un merito personale, infatti, che nasciamo più ricchi o più poveri, più belli o più brutti, intelligenti o stupidi, né è solo per merito che possiamo sperare di mantenere ciò che il caso o un dio ci ha donato. Se siamo tutti xénoi in cammino, l’unica cosa che possiamo fare è tentare di farci compagni di viaggio gli uni degli altri, condividendo il molto o il poco che non è nostro, ma ci è solo dato in custodia. – Ora devi presentarti tu, mi dice K., muratore marocchino di cinquanta anni. – Io sono C., ho venticinque anni, studio Italiano, Latino e Greco all’università. Sono la vostra insegnante di Italiano. Vi ringrazio per aver scelto di imparare la mia lingua e spero che vi troviate bene qui. Spero anche di potervi aiutare a parlare ed a scrivere presto bene, così potrete trovare un lavoro migliore…E spero anche che diventiamo amici. Vorrei dirvi anche “vi capisco”, perché mi sento più precaria e straniera di voi, ma sarebbe troppo complicato. E vorrei potervi ringraziare, perché le vostre vite mi insegnano il coraggio, la fiducia, la speranza che ci vogliono ogni giorno per farsi straniero ed ospite. Vorrei ringraziarvi perché mi insegnate ogni volta l’arte dell’ospitalità: non sentirsi mai a casa, neanche a casa propria. noi non potere fare più niente: non potere muoverci, non potere scappare, non potere neanche respirare. Noi due dovere stare vicini per molto tempo, io pensare. Eppure noi potere parlare… io non capire… P Ma che stai dicendo?! Smettila di blaterare. Che sei venuto a fare, a lamentarti? E po’, fame un piàxer, vedito de parlar in itagliàn, se no no capixo cosa che te dixi! I Io avere già detto: io volere lavorare, solo lavorare. P Lavorare? Dite tutti così! E con questa scusa venite qui, rubate, spacciate; siete gente pericolosa voi! Cosa pretendete: che ci fidiamo di voi? Non possiamo uscire di casa la sera, perché si ha paura di essere rapinati; non si possono frequentare certi quartieri, perché li controllate come se fossero di vostra proprietà. E sai cosa odio ancora più di voi? Tutti quelli che stanno dalla vostra parte; quei coglioni, per usare un eufemismo, che vi vorrebbero accogliere a braccia aperte, che vogliono aiutarvi, dividere il nostro paese con voi, il nostro lavoro con voi, le nostre donne con voi e non si accorgono che stiamo facendo la fine degli indiani d’America: perché voi, si proprio voi, ci state rinchiudendo nelle riserve! Ma non mi farò certo mangiare i risi in testa, io, da voi! Non permetterò di certo che le città divengano delle zingaropoli! Torturarve e spararve a vista se dovaria: no se miga reato a legitima difesa, ahahah. - Il vecchio podestà scoppiò in una crassa risata. Non si era accorto della gravità delle sue parole, come non se ne accorge uno che su quelle parole ha bevuto bicchieri su bicchieri all’osteria con gli amici. Ma l’immigrato non si scompose; al contrario, nonostante non si esprimesse nella sua lingua madre, non aveva per nulla perso il senso dell’umorismo.I Meno male che lei essere uomo onesto e stimabile! Se l’onestà significare sparare alle persone, chissà cosa dovere aspettare dai disonesti? Mangiare bambini, forse??? P Che fai, ti me toi anca pal cùeo ‘ndesso? Sono una persona rispettabile, io! In passato ho amministrato un grosso comune e tutti in paese mi stimavano! Quando c’era bisogno di un consiglio da chi venivano? Da me venivano. E quando c’era bisogno di un aiuto, da chi venivano? Sempre da me venivano. E di un favore, di un prestito, di una buona parola? I Da lei venivano… P Come ti permetti! Rispetto devi portarmi! Ma in fondo con chi sto parlando? Che ne vuoi saper tu di rispettabilità? Ho lavorato una vita, io, per costruirmi una buona reputazione, altro che voi! I Avere anche io lavorato tutta la vita! Avere cominciato da bambino, prima otto poi dieci fino a quattordici ore al giorno, per un pezzo di pane e una misera paga. Poi mi essere sposato e avere avuto tre bambini. Ma tre bocche da sfamare essere tante e così avere deciso di partire in cerca di condizioni migliori; avere deciso di lasciare mia moglie e i miei tre bambini – il piccolo di appena undici mesi – con la speranza di potere procurare loro qualcosa per vivere. I La solita storia strappalacrime! A chi credete di farla, voi??? Non sono mica un ingenuo, io! I Convincere lei essere mia ultima preoccupazione. E a me non importare niente di quello che lei pensare! Lei credere forse che un uomo che lascia la sua famiglia per andare in un posto il cui nome non sa nemmeno pronunciare correttamente, che passare giorni e settimane intere viaggiando, prima rischiando di morire disidratato e poi affogato, che si umiliare facendo i lavori più pesanti per una misera pa- ga, credere forse lei che un uomo così importare quello che pensa uno come lei? A me importare solo di mia famiglia! E poi voi vivere bene, avere cibo in abbondanza e acqua da bere (voi avere così tanta acqua potabile che ci fare i vostri bisogni sopra!!!) e noi dovere lottare per un pezzo di pane! Dire lei a me: non è giusto che anche i miei bambini potere mangiare e andare a scuola come i suoi? P Non cambiare discorso adesso! Non fate altro che delinquere e poi parlate di bambini! Voi mandate i bambini e a fare l’elemosina solo per impietosirci! Che disgusto! - Il vecchio podestà avrebbe voluto alzarsi in mezzo alla folla, puntare il dito verso l’immigrato, scaricando così in quel gesto deittico una vita fatta di retorica; quella retorica non paga finché non abbia smascherato una volta per tutte il colpevole, la causa di tutti i mali. Ma lì sotto non c’era nessuno che potesse vederli. E forse questo era un bene.I Questo essere sbagliato! I bambini non dovere subire le lotte e i problemi dei grandi. Ha ragione ad adirarsi con coloro che usare i bambini in questo modo! Ma non essere sempre così. Lei mettere assieme cose diverse. E poi ciò non significare che i miei bambini dovere morire di fame perché lei non volere che noi lavorare e vivere qui! P Non ho di certo detto ciò. Non ho affermato che non voglio che veniate onestamente a lavorare da noi. Mi sono limitato a criticare tutti coloro che vengono qui solo per delinquere. Per i tuoi bambini… mi spiace veramente… quando ero vivo avevo anche io una figlia e posso capire le tue preoccupazioni. Ora che i vermi mi divorano qui sotto, chi penserà a lei? Me lo chiedo sempre più spesso da quando mi trovo in questa umida buca. I Ma almeno lei vivere qui, in un paese ricco, dove la gente non morire di fame e poi… P Forse non si morirà di fame, ma poco ci manca! Evidentemente non sei informato della nostra situazione attuale: i disoccupati aumentano così come le tasse, gli stipendi diminuiscono così come le imprese che chiudono perché falliscono. Non c’è nemmeno più pesce da pescare da quanto inquinati sono i nostri mari! È un vero disastro. Non si trova lavoro neanche a pagarlo! Tu non lo hai visto, ma i tuoi compagni sopravvissuti al mare se ne renderanno ben presto conto: non siete giunti al paradiso! Coxa poemo fare noàltri par voàltri? I Ma con questo non avere voi il diritto di cacciare noi! Questa situazione non avere noi provocata ma il vostro modo di vivere, le vostre società e i vostri mercati. Voi avere vissuto pensando solo al vostro orticello e non vi essere domandati cosa rendere quell’orto vostro. Avere vissuto pensando solo a guadagnare dimenticandovi che se uno guadagna è solo perché qualcun altro perde. Dovere voi ospitare noi, essere un nostro diritto! Noi non vi chiedere di abbandonare vostro stile di vita, solo avere un po’ più di rispetto anche per noi e trattarci come vostri pari! P Volete il rispetto? È giusto che lo abbiate! Ma mi chiedo: può bastare? Vi può bastare? No, certo che no. Poi chiederete l’uguaglianza economica. Vi moltiplicherete, porterete le vostre usanze, la vostra religione, le vostre tradizioni. Il mondo in cui sono nato e cresciuto sparirà – anzi forse è già sparito – e dove potrò io dire di sentirmi a casa, se anche casa è divenuta un’estranea? Io sono vecchio e refrattario al cambiamento; ho mille paure, mille preoccupazioni. Vedo il mondo cambiare con una velocità impres- sionante e non riesco a starci dietro: mi sento fuori dal mondo, dalla vita, dalla società. Puoi capire che difendere quelle quattro cose che mi sono rimaste significa per me difendere quello che sono, la mia identità, la mia esistenza? È una battaglia persa, di questo ne sono consapevole, ma è l’unica che so combattere. C’è forse un’alternativa? – La domanda non ebbe una eco immediata. In fondo entrambi conoscevano la risposta: parlare, dialogare, guardarsi finalmente faccia a faccia e non nascondersi dietro stereotipi che illudono con la promessa di una identità solida, forte e inamovibile, ma che chiedono di pagare il prezzo della falsità e della menzogna. Ma c’era in entrambi un riserbo a rispondere: l’ovvietà di quella risposta nascondeva un’ombra inquietante, una sfida in cui non si aveva alcuna garanzia di successo. Perché la parola, se da un lato può guarire e avvicinare le parti, dall’altro è essa stessa che ferisce, che allontana, che crea incomprensioni: riuscire a evitare quest’ultima possibilità, muovendosi con estrema delicatezza, è la sfida dell’ospitalità. E di questo il vecchio podestà e l’immigrato erano ben consapevoli. – P Forse un’alternativa c’è, ma mi pare ardua e tutta in salita e richiede tempo. In fondo imparare è difficile e mi no so mai sta bravo scuoa! I Non si preoccupare lei di questo. Con il tempo si può imparare tutto e i morti, a differenza dei vivi, di tempo ne hanno un’eternità! 5