Isaac Asimov - Aristarco di Samo

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Isaac Asimov - Aristarco di Samo
Isaac Asimov
QUASAR 3C 279
Alcuni mesi fa ho ricevuto uno strano invito. Un’affascinante ragazza, che avevo conosciuto ad un
congresso e che era rimasta molto colpita dalle mie maniere affabili, mi scrisse per dirmi che il suo
venticinquesimo compleanno era vicino e che, per una curiosa coincidenza, la sua migliore amica
avrebbe festeggiato i suoi ventott’anni nello stesso giorno.
Sarebbe stato possibile - mi chiedeva nella lettera - solennizzare l’anniversario invitandomi a pranzo
fuori, al «Russian Tea Room»?
In un primo momento non sapevo decidermi. Nutro infatti da sempre, un sentimento di profonda
avversione - e sull’argomento tengo lunghissime concioni a chiunque vaglia stare ad ascoltarmi contro la perversione di quelli che si aspettano che io acconsenta sempre a pranzare con loro,
mentre invece non desidero altro che rimanermene incollato alla macchina per scrivere. Però,
questa volta, da qualsiasi punto di vista lo si considerasse, un pranzo con due belle e giovani ragazze,
per festeggiare il loro compleanno, era del tutto differente da un pranzo d’affari, o no? Inoltre, il
«Russian Tea Room» è uno dei miei ristoranti preferiti. Capito?
Così, alla fine, ho accettato.
A tempo debito sono andato al ristorante, dove ho trovato le due ragazze già ad aspettarmi.
Vedendomi arrivare, si sono messe a battere allegramente le mani in mio onore, e io, sentendomi a
mia volta pieno di allegria, mi sono accomodato al tavolo con loro. Ci siamo divertiti per davvero.
Abbiamo chiacchierato, raccontato barzellette, riso di gusto. Al momento del dessert mi sono
preparato a ordinare il mio solito «baklava» . Il personale del ristorante, invece, in un modo o
nell’altro aveva già capito che c’era di mezzo un compleanno, e aveva creduto che fosse il mio.
Perciò, ecco arrivare due camerieri, insieme a una magnifica torta con una candelina nel centro,
cantando «Happy Birthday to You», e posare il dolce sul tavolo, proprio davanti a me.
È abbastanza facile capire perché si siano comportati così. Se tu, lettore, dovessi vedere un uomo,
non più tanto giovane, con due belle ragazze al fianco e sapessi che c’è in giro un compleanno, non ti
verrebbe naturale pensare che è l’uomo che sta festeggiando il proprio, in un modo un po’ speciale?
A me, però, l’equivoco non piace. Così, sorridendo bonariamente, ho detto: «No, no. Sono le ragazze
che compiono gli anni. Io sono solo il regalo di compleanno!»
È stato proprio divertente osservare l’espressione di timoroso rispetto che è allora comparsa negli
occhi dei camerieri! Ma voi mi conoscete bene: con la mia solita modestia, me ne sono rimasto
tranquillamente seduto al tavolo.
La morale di questo aneddoto è che molto spesso le cose non sono, in realtà, quello che sembrano. E
questo ci porta direttamente all’argomento del mio articolo.
Il primo astronomo che ha cercato di disegnare una mappa del cielo, indicandola posizione di
almeno una parte delle innumerevoli stelle visibili, è stato Ipparco di Nicea (190 a.C. – 120 a.C.), il
quale, verso il 130 a.C., realizzò una mappa celeste su cui annotò e catalogò ben 1.080 stelle,
fornendone la relativa latitudine e longitudine (sempre celeste), determinate nel modo più esatto
ottenibile senza l’aiuto di telescopi o di cronometri moderni.
La posizione delle stelle, infatti, è una delle due caratteristiche degli astri che possono essere
stabilite anche in mancanza di apparecchiature perfezionate. L’altra caratteristica è la luminosità
relativa, e alcune stelle sono in effetti più luminose di altre.
Ipparco non poteva dunque trascurare anche questa seconda realtà, e perciò suddivise le stelle in sei
classi. La prima comprendeva le venti stelle più luminose del nostro cielo; la seconda, le stelle di
luminosità inferiore alle prime; la terza, le stelle con luminosità ancora inferiore. Seguivano,
secondo lo stesso criterio, la quarta, la quinta e la sesta classe, l'ultima delle quali era costituita da
quelle stelle appena appena distinguibili contro il nero del cielo, in una notte buia, senza luna, da
una persona con la vista acuta.
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Successivamente, ogni classe finì per essere chiamata «magnitudine», dal vocabolo latino che
significa «grandezza». Era del tutto naturale usare questa parola, dato che durante tutta l’antichità e
il Medioevo si credeva che le stelle si trovassero tutte alla stessa distanza dalla Terra, conficcate nella
materia solida del «firmamento», come tante puntine da disegno luccicanti. Era quasi come se nel
firmamento ci fosse una quantità di minuscoli buchi attraverso i quali si intravedesse la gloriosa luce
del paradiso, così che la differente luminosità si sarebbe potuta attribuire alla forma o alle
dimensioni del buchetto.
Di conseguenza, riassumendo, le stelle più luminose erano di «prima magnitudine», quelle che
venivano subito dopo di «seconda magnitudine», e via di seguito.
L’opera di Ipparco non è arrivata fino a noi, ma circa tre secoli dopo di lui un altro astronomo,
Claudio Tolomeo (100-175), scrisse divulgò una summa delle conoscenze astronomiche del tempo,
basandosi soprattutto sull’opera di Ipparco. Tolomeo aggiunse alla summa la mappa celeste di
Ipparco, con qualche correzione, introducendovi anche il concetto di «magnitudine». E poiché
l’opera di Tolomeo è giunta fino ai nostri giorni, noi conserviamo ancora oggi la suddivisione delle
stelle secondo la magnitudine.
La suddivisione delle stelle secondo la magnitudine era dapprima esclusivamente qualitativa. Alcune
delle stelle classificate di prima magnitudine erano, a occhio nudo, più luminose di altre stelle della
stessa classe, ma nessuno dava importanza alla cosa. Gli astronomi non si preoccupavano
eccessivamente nemmeno del fatto chele stelle meno luminose di prima magnitudine non fossero
poi gran che più luminose delle stelle più luminose di seconda magnitudine. Tra le stelle, invece,
esiste un’ininterrotta gradazione decrescente di luminosità, ma la loro suddivisione in classi
nettamente separate nasconde questo dato di fatto.
Nel 1830 ebbero finalmente inizio i primi tentativi volti a perfezionare il sistema di Ipparco e
Tolomeo, che a quel tempo, non lo si dimentichi, era già vecchio di duemila anni.
Uno dei precursori fu l’astronomo inglese John Herschel (1792-1871). Nel 1836, mentre stava
osservando le stelle dell’emisfero meridionale dal Capo di Buona Speranza, inventò uno strumento
che riproduceva, rimpicciolendola, l’immagine della Luna piena. L’intensità luminosa di tale
immagine, che poteva essere variata a piacere mediante la regolazione di una lente, poteva anche
essere resa perfettamente uguale a quella dell’immagine di una determinata stella. Con questo
procedimento Herschel avrebbe potuto valutare con buona approssimazione la luminosità relativa
(alla Luna) delle stelle e stabilire un numero di gradazioni molto più elevato delle sole sei
magnitudini.
Tuttavia, poiché era indispensabile servirsi della Luna piena, i periodi di tempo in cui era possibile
fare le misurazioni erano molto ristretti. Inoltre solo le stelle più brillanti potevano essere
esaminate, perché la luce delle più fioche veniva totalmente annullata dalla luce della Luna.
Press’a poco nello stesso periodo un astronomo tedesco, Carl August von Steinheil (1801-1870),
aveva perfezionato uno strumento con cui potevano essere messe a confronto le immagini di due
diverse stelle, indebolendo o rafforzando la luminosità di una delle due fino a uguagliarla a quella
dell’altra. Questa è stata la nascita della «fotometria» stellare, e finalmente, per la prima volta nella
storia dell’astronomia, la magnitudine ha potuto essere misurata in modo obiettivo, con uno
strumento, e non più valutata del tutto soggettivamente dal solo occhio umano.
Arrivati a questo punto diventa importante stabilire con precisione il significato di magnitudine.
Cioè, in che modo varia la luminosità salendo o scendendo lungo la scala delle magnitudini?
All’occhio umano sembra che la variazione di luminosità tra una magnitudine e la successiva sia
sempre la stessa. Ovvero che i gradi di luminosità dalla prima alla sesta magnitudine siano uguali
uno all’altro.
Ma allora questi gradi possono essere rappresentati simbolicamente con la scala dei numeri naturali
1, 2, 3, 4, 5 e 6?
E ancora, la, differenza di una magnitudine tra due stelle equivale al raddoppio della luminosità, la
differenza di due equivale a tre volte tanto, la differenza di tre a quattro volte tanto, e via di seguito?
Se da un grado all’altro di magnitudine la luminosità subirebbe aumenti o diminuzioni uguali tra
loro, noi avremmo ciò che si chiama una «progressione aritmetica».
Von Steinheil, però, non la pensava così. Lui riteneva infatti che, se la stella di sesta magnitudine
equivaleva a 1 e quella di quinta magnitudine a 2, la stella di quarta magnitudine sarebbe equivalsa,
a 4, quella di terza a 8, quella di seconda a 16 e quella di prima magnitudine a 32, Questa si chiama
«progressione logaritmica».
Von Steinheil aveva ragione e, tempo dopo, i fisiologi hanno effettivamente dimostrato che i sensi
umani generalmente funzionano in modo logaritmico.
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Potete verificare questo fatto anche da soli, se vi procurate una lampadina elettrica in grado di
irradiare luce a diverse intensità, per esempio a 50, a 100 e a 150 watt di potenza. Se passate dalla
potenza di 50 watt a quella di 100 watt, noterete un notevole aumento della luminosità. Arrivate fino
a 150 watt, e il relativo aumento di luminosità vi sembrerà considerevolmente inferiore al
precedente, anche se in realtà c’è stato, proprio come nel primo passaggio, un aumento di potenza di
50 watt.
Nell’identico modo, si può con facilità distinguere la differenza tra un oggetto che pesa mezzo chilo e
un altro oggetto, di uguali dimensioni, che pesa un chilo, semplicemente soppesandoli in mano. Ma
con questo stesso metodo non si riuscirà più a distinguere la differenza di peso che esiste tra un
oggetto di quindici chili e un altro di quindici chili e mezzo, nonostante che la variazione sia sempre
di mezzo chilo. Nel primo caso, infatti, avremo avvertito una differenza di peso del 100%, mentre nel
secondo non saremo riusciti ad avvertirne una del 3% scarso.
Naturalmente sarebbe stato troppo aspettarsi che, secondo il sistema di magnitudini di Ipparco,
basato sulle capacità dell’occhio umano, si fosse riusciti a suddividere le stelle in gruppi tali che a
ognuno di essi appartenessero corpi di luminosità esattamente doppia di quella dei corpi
appartenenti al gruppo precedente. Il rapporto tra un gruppo e l’altro avrebbe senza dubbio avuto
così un valore un po’ troppo addomesticato.
Nel 1856, l’astronomo inglese Norman Robert Pogson (1829-1891) fece notare che la stella media di
prima magnitudine era circa cento volte più luminosa della stella media di sesta magnitudine, e
questo in base alla fotometria. Ora, per fare sì che la somma dei cinque intervalli tra le magnitudini
risulti esattamente uguale a 100, è necessario che il valore di ognuno dei cinque sia rapportato alla
radice quinta di 100, che; arrotondando, è uguale a 2,512. (In altre parole, moltiplicando 2,512x
2,512x2,512x2,512x2,512 il risultato è circa 100) .
Di conseguenza, se scegli a piacere una determinata stella di magnitudine 1,0, in modo che qualche
altra stella appartenente alla prima magnitudine tradizionale sia più brillante di essa e qualche altra
meno brillante, puoi ricavare le altre cinque magnitudini relative moltiplicando 1 per 2,512.
Con il perfezionarsi della fotometria, gli astronomi sono riusciti a determinare le magnitudini a un
decimale, e persino, in qualche occasione, ad arrivare al secondo decimale. La più luminosa, di due
stelle che differiscano di un solo decimo di magnitudine è 1,1 volte circa più luminosa dell’altra. La
più luminosa, di due stelle che differiscono di un centesimo di magnitudine è 1,01 volte circa più
luminosa, dell'altra.
Usando questo nuovo sistema non siamo più costretti a dire che Polluce e Fomalhaut sono ambedue
stelle di prima magnitudine. Adesso possiamo precisare che Polluce ha una magnitudine di 1,16 e
che Fomalhaut ne ha una di 1,19. Il che vuol dire che Polluce, avendo il numero più basso, è più
luminosa di 0,03 magnitudini.
A questo punto potremmo anche convenire che ogni stella con una magnitudine compresa tra 1,5 e
2,5 è una stella di seconda magnitudine. E poi, procedendo, che ogni stella con magnitudine
compresa tra 2,5 e 3,5 è di terza magnitudine, e così di seguito, fina ad arrivare alle stelle con
magnitudine compresa tra 5,5 e 6,5 che sono di sesta magnitudine e che pertanto apparterrebbero
alla classe di stelle originariamente definite come le meno luminose che fosse possibile vedere.
Tuttavia, già nel periodo in cui Pogson elaborava la sua scala di magnitudini, le stelle di sesta
magnitudine non erano affatto le meno luminose (o le più fioche) che si potessero vedere. Il
telescopio aveva rivelato la presenza di stelle molto meno luminose e i successivi miglioramenti delle
apparecchiature ottiche ne rivelarono di ancora meno luminose.
Ma questo non costituisce un problema. Continuando a usare il rapporto 2,512, si possono avere
stelle di settima, ottava, nona, eccetera, magnitudine, assegnando a ognuna valori tanto precisi
quanto i nostri strumenti ci permettono di fare. Se guardiamo dentro all’oculare dei migliori
telescopi attualmente in uso, riusciamo a vedere stelle di luminosità pari alla ventesima
magnitudine. E poi, se invece di adoperare l’occhio, colleghiamo all’oculare una lastra fotografica e
la lasciamo esposta alla luce convergente per un po’ di tempo, possiamo captare stelle fino alla
ventiquattresima magnitudine.
Questo non è davvero poco, poiché un oggetto della ventiquattresima magnitudine è di ben diciotto
magnitudini più fioco (o meno luminoso) dell’oggetto meno luminoso che possiamo vedere a occhio
nudo. Inoltre, secondo la scala logaritmica delle nostre sensazioni, ciò significa che la stella dalla
luce più fioca che gli antichi potevano vedere è in realtà circa sedici milioni (16.000.000) più
luminosa della più fioca che noi siamo in grado di vedere oggi.
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Qualche capoverso più sopra abbiamo preso in considerazione, successivamente, le stelle via via
meno luminose, partendo dalla seconda magnitudine. Ritorniamo daccapo e partiamo di nuovo da
quel punto, ma questa volta vediamo di prendere in considerazione le stelle via via più luminose.
Se le stelle con magnitudine compresa tra 1,5 e 2,5 sono di seconda magnitudine, significa che le
stelle che ne possiedono una tra 0,5 e 1,5 appartengono alla prima magnitudine. Ma nel nostro cielo
esistono non meno di otto stelle con magnitudine inferiore al valore 0,5. Come si farà a classificarle
secondo la scala delle magnitudini? Alcune stelle hanno una luminosità persino maggiore di quella
che sarebbe rappresentata dal valore 0,0 e perciò le loro magnitudini dovrebbero esprimersi con un
numero negativo. Possiamo parlare di una «zeresima magnitudine» e definirla come la classe di
stelle comprese tra le magnitudini da -0,5 a +0,5? Ci sono sei stelle di zeresima magnitudine nel
nostro cielo, con valori varianti dal +0,38 di Procione al -0,27 di Alpha Centauri.
Oltre a queste, ci sono altre due stelle con magnitudine inferiore a -0,5, le quali, di conseguenza,
appartengono alla «prima magnitudine negativa». Si tratta di Canopo, con magnitudine di -0,72, e
di Sirio con magnitudine di -1,42.
Gli astronomi, tuttavia, non riescono mai a rompere con la tradizione, e comunque non fino a questo
punto. Riescono infatti a capire che è indispensabile andare al di là della sesta magnitudine di
Ipparco, ma non accettano di andare al di qua della sua prima magnitudine. Così considerano tutte
le stelle con magnitudine minore di 0,5, come Sirio, stelle della prima magnitudine. E ciò significa
che la stella più luminosa, della prima magnitudine tradizionale, la citata Sirio, è in realtà tre
magnitudini più luminosa della stella Castore, la meno luminosa della prima magnitudine
tradizionale, la cui luminosità, equivalente a 1,58, la pone in effetti, anche se di poco, entro i limiti
della seconda magnitudine. In termini di luminosità, poi, Sirio è circa sedici volte più luminosa di
Castore e circa quindici miliardi (15.000.000.000) di volte più luminosa, della stella più fioca che i
nostri telescopi sono in grado di mostrarci.
Ma nel cielo esistono corpi più luminosi di Sirio.
Ipparco aveva limitato la sua classificazione, secondo la magnitudine, alle sole stelle, ma oggi che le
magnitudini sono state ridotte a semplici numeri e a rapporti matematici costanti, gli astronomi
potrebbero andare avanti nella classificazione, servendosi anche della scala dei numeri negativi e
portando in su, a loro piacimento, il livello o il valore di luminosità considerata.
Ad esempio, quando è al massimo della sua luminosità, il pianeta Giove raggiunge la magnitudine di
-2,5, ma nessun astronomo ne parla come di un corpo celeste di seconda magnitudine negativa (o di
una qualunque altra magnitudine), anche se è ovviamente possibile assegnargli un numero
corrispondente alla sua luminosità.
E ancora, Marte può raggiungere una magnitudine di -2,8, e Venere, la gemma più splendente del
nostro cielo, può arrivare a una magnitudine di -4,3: Al massimo della sua luminosità Venere è di
circa quindici volte più luminosa di Sirio.
E questo non è ancora il massimo assoluto. Infatti la Luna è molto più luminosa di Venere. Quando
è piena, raggiunge la magnitudine totale di -12,8. Il che vuol dire che la Luna piena è circa duemila
volte più luminosa di Venere. E siamo arrivati al Sole, la cui magnitudine è -26,91. Pertanto il Sole è
cinquecentoventicinquemila volte più luminoso della Luna piena, un miliardo (1.000.000.000) di
volte più luminoso di Venere, quindici miliardi (15.000.000.000) di volte più splendente di Sirio e
duecentocinquanta miliardi di miliardi (250.000.000.000.000.000.000) di volte più splendente
del corpo celeste meno luminoso visibile al telescopio.
E poiché nel cielo non si può vedere niente di meno luminoso della più fioca stella che il telescopio è
in grado di rivelarci, siamo pervenuti al limite estremo della scala in entrambe le direzioni,
percorrendo una gamma, di cinquantun magnitudini. Ma, come ho detto nell’introduzione, molto
spesso le cose non sono proprio quelle che sembrano.
Tutte le magnitudini di cui abbiamo parlato fino a questo momento riguardano la luminosità
«apparente».
La luminosità di un corpo, infatti, non dipende, solo dalla quantità di luce emessa, ma anche dalla
distanza del corpo stesso dall’osservatore. Un oggetto che in realtà è estremamente poco luminoso in
senso assoluto, come una lampadina da 100 watt, ai nostri occhi può risultare più luminoso di
quanto sia la Luna, se collocato molto vicino agli occhi stessi. E, d’altra parte, una stella che irradia
molta più luce del Sole può essere così lontana da noi da non esserci nemmeno rivelata dal
telescopio.
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Di conseguenza, per determinare il valore della luminosità reale, cioè per misurare la quantità di
luce effettivamente emessa da un corpo celeste (il termine usato in astrofisica è «luminosità» tout
court) dobbiamo immaginare che i corpi in questione si trovino tutti a un’unica determinata
distanza da noi. Si è anche stabilito, del tutto arbitrariamente, che questa distanza determinata sia di
10 parsec (=32,6 anni luce).
Una volta che si conosca esattamente la distanza di un certo corpo luminoso e che si sia misurata la
sua luminosità a quella distanza, possiamo anche calcolare quale sarebbe il suo splendore a qualsiasi
altra distanza. Perciò la magnitudine, che un certo corpo avrebbe alla distanza di 10 parsec da noi, è
la sua «magnitudine assoluta» .
Il nostro Sole, per esempio; si trova a circa 150.000.000 di chilometri dalla Terra, ovvero a
1/200.000 di parsec. Immaginandolo lontano 10 parsec, aumenteremmo la sua distanza di due
milioni (2.000.000) di volte, e di conseguenza la sua luminosità apparente verrebbe ridotta del
quadrato di questo numero, cioè di quattro bilioni (4.000.000.000.000) di volte. Questo vuol dire
che la sua luce verrebbe ridotta di trentun magnitudini e mezzo e che la sua «magnitudine assoluta»
è di circa 4,7.
Il Sole, visto da una distanza di 10 parsec, sarebbe perciò visibile a occhio nudo, ma la sua luce
sarebbe molto fioca, simile a quella di una stella di limitatissima importanza, quasi insignificante.
E invece, cosa succederebbe di Sirio? Questa stella si trova già a una distanza di 2,65 parsec da noi.
Se l’immaginassimo lontana 10 parsec, la sua luminosità si affievolirebbe di quasi tre magnitudini e
la sua magnitudine assoluta sarebbe -come infatti è- di 1,3 .Così, pur non essendo più la stella
maggiormente brillante del nostro cielo, sarebbe sempre una stella di prima magnitudine.
Le magnitudini assolute, che nel calcolo della luminosità eliminano totalmente la differenza di
distanza, ci dicono che Sirio è circa ventitré volte più luminosa del Sole.
Sirio, comunque, non è affatto là stella giù luminosa che ci sia.
Consideriamo la stella di prima magnitudine più lontana da noi. Si tratta di Rigel, che dista dalla
Terra ben centosessantacinque parsec [misure più recenti danno il valore di 237±45 parsec n.d.r.], che è soltanto la settima
stella tra le più luminose del nostro cielo e che ha una luminosità apparente uguale a un quarto
quella di Sirio. Tuttavia, la distanza di Rigel è di ben sessanta volte maggiore di quella di Sirio [90 volte
n.d.r.], e perciò, per avere una luminosità relativa così accentuata, pur essendo tanto lontana, Rigel
deve essere molto luminosa.
E in effetti lo è. La sua magnitudine assoluta è -6,2 [-6,69±0,42 n.d.r.]. Piazzatela all’ipotetica e
convenzionale distanza di 10 parsec, e anche se in questa posizione verrebbe a trovarsi quasi quattro
volte più lontana di quanto sia in realtà Sirio, non solo eclisserebbe quest’ultima, ma risulterebbe
persino più luminosa di Venere (circa sei volte più luminosa). Infatti Rigel è realmente mille volte
[1150±2525 volte n.d.r.] più luminosa di Sirio e ventitremila volte [40000±15000 volte n.d.r.] più luminosa del Sole.
Con tutto questo Rigel non detiene il record di luminosità. È sì la stella più luminosa che conosciamo
nella nostra Galassia, ma ci sono altre galassie nell’universo! Nella Nube di Magellano Maggiore, che
è una specie di galassia satellite della nostra Via Lattea, si trova una stella chiamata S Doradus. La
sua luce è troppo fioca per essere vista senza l’aiuto di un telescopio, ma è a una distanza di circa
quarantacinquemila parsec da noi. Quando venne scoperta gli astronomi rimasero sbalorditi dal
fatto che fosse così brillante nonostante l’immensa distanza. S Doradus risultò avere una
magnitudine assoluta di -9,5, cosa che la rende circa ventuno volte più luminosa di Rigel e quasi
mezzo milione di volte più luminosa del nostro Sole.
Se S Doradus si trovasse al posto del Sole, per vederne la luce brillare con intensità uguale a quella
del Sole visto dalla Terra, un eventuale pianeta ruotante intorno a essa dovrebbe trovarsi a una
distanza pari a diciassette volte quella reale di Plutone dal Sole.
S Doradus, infine, è la stella in equilibrio stabile più luminosa che si conosca. Giorno per giorno,
secolo dopo secolo, essa emette più luce di qualsiasi altra a noi nota. Ma non tutte le stelle si trovano
in equilibrio stabile. Di quando in quando ce ne sono alcune che esplodono diventando «novae», e
aumentando così in modo notevole la loro luminosità, anche se temporaneamente.
L’aumento di luminosità dipende dalle dimensioni della stella. Più una stella è grossa e compatta,
più potente sarà l'esplosione. E l’esplosione veramente eccezionale di una «supernova» può portare,
per brevissimo tempo, una sola stella dalla notevole massa alla magnitudine assoluta di circa -19.
Durante questo brevissimo tempo, la supernova in questione avrebbe una luminosità di circa seimila
volte superiore a quella di S Doradus e di circa dieci miliardi (10.000.000.000) di volte superiore a
quella del nostro Sole. E perciò, a una distanza di 10 parsec, splenderebbe trecentosessanta volte più
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intensamente della Luna piena, anche se la sua luminosità apparente sarebbe pari a un solo
millesimo di quella del Sole.
Possiamo allora dire, adesso, di avere raggiunto il record assoluto di luminosità?
Probabilmente no.
Una supernova è infatti una stella singola; ma se prendessimo in esame la luminosità di un gruppo
di stelle?
Una coppia di stelle, poste a ragionevole distanza l’una dall’altra, appare da lontano come un singolo
corpo luminoso. Se entrambe le stelle sono di uguale luminosità, però, la somma delle due
luminosità sarà di 0,75 magnitudini più brillante di ognuna delle due considerata singolarmente.
Le stelle doppie sono molto frequenti, e anche le stelle triple. Persino le quadruple non sono
eccessivamente rare. In realtà tutti sanno che esistono anche stelle che formano grandi ammassi,
dato che si conoscono circa centoventicinque «ammassi globulari» che fanno parte della nostra
Galassia, ognuno dei quali comprende un totale da diecimila a parecchie centinaia di migliaia di
stelle, densamente raggruppate secondo schemi validi in tutto l’universo.
E allora, supponendo di avere a che fare con un ammasso globulare formato da un milione di stelle,
ognuna con luminosità paria quella del Sole, potremmo calcolarne la magnitudine assoluta totale in
-10,3. Un ammasso così vasto sarebbe però, nonostante tutto, solo due volte più luminoso della
singola stella S Doradus. E una gigantesca supernova può raggiungere una luminosità pari a tremila
volte quella di un grande ammasso globulare. Perciò, nessun ammasso globulare può detenere il
record di luminosità.
Ma una galassia possiede, nel suo nucleo, l’equivalente di un ammasso globulare di gigantesche
proporzioni. Il centro della nostra Galassia, per esempio, è un densissimo ammasso di stelle formato
da un centinaio di miliardi di astri, e la sua magnitudine assoluta può essere calcolata intorno al
valore di -22,8. (Al di fuori del nucleo, quello che resta della nostra Galassia è costituito da sistemi
stellari sparsi, relativamente radi, la cui luminosità, volendola aggiungere a quella del nucleo,
farebbe salire il totale della magnitudine a solo -22,9).
Sembrerebbe che questo fosse il nuovo record. Il nucleo galattico splende infatti con una luminosità
più di tre volte maggiore di quella di una supernova al suo punto culminante. (Però questo, tutto
considerato, non è un grandissimo scarto, e quando una supernova molto potente divampa in una
particolare galassia è facile che, nel suo punto culminante, emetta tanta luce quanta ne emette il
resto della galassia presa in considerazione, tutta insieme).
E poi la nostra galassia, ovviamente, non è la più grande che esista. Una galassia di dimensioni
notevoli può benissimo avere una massa dieci volte maggiore di quella della Via Lattea e una
magnitudine assoluta di -25.
Ad ogni modo, si incontrano notevoli difficoltà quando si cominciano a calcolare le magnitudini
degli ammassi globulari delle galassie, per il fatto che si ha a che fare con corpi celesti molto estesi.
Un grosso ammasso globulare potrebbe estendersi persino per cento parsec, e un nucleo galattico
per oltre cinquemila parsec. Perciò la loro magnitudine assoluta può sì essere calcolata, ma non la si
può ottenere con il tradizionale metodo sperimentale.
Di fatto, se immaginassimo il punto centrale di un ammasso globulare o di un nucleo galattico
distante da noi solo 10 parsec, ci troveremmo «all'interno» dell'agglomerato stesso. Vedremmo cioè
le stelle tutt’intorno a noi e non riusciremmo ad avere il senso della luminosità totale del complesso,
che è, più o meno, la stessa difficoltà che incontriamo quando prendiamo in esame la totalità della
nostra Galassia.
Per fare le cose come si deve, dovremmo adattare, come distanza convenzionale per la misurazione
della luminosità, un milione di parsec, e allora vedremmo che una grande galassia supererebbe in
splendore, in ogni caso, qualsiasi stella presa singolarmente. Ma tutti i corpi celesti osservati da una
tale distanza apparirebbero estremamente fiochi e praticamente sarebbero invisibili.
Pertanto, se vogliamo trovare un record di luminosità ancora più elevato di quello stabilito da una
supernova, dobbiamo cercare se esiste qualcosa che, a una distanza di 10 parsec, appaia come un
singolo corpo di dimensioni ragionevolmente ridotte e che, nonostante ciò, sia in grado di superare
decisamente, in luminosità, la temporanea comparsa di una supernova.
Questo «qualcosa» è già stato trovato. Ciò che noi chiamiamo «quasar» sono, con ogni probabilità,
nuclei galattici così densi e così brillanti da poter esser visti (con un telescopio) a distanze di
centinaia di milioni di parsec. A una tale distanza nessun altro corpo può essere osservato. Si pensa
inoltre che un quasar normale abbia, un diametro di forse solo mezza parsec o giù di lì, e che tuttavia
splenda con la luminosità di un centinaio di galassie simili alla nostra.
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Mezzo parsec è senz’altro un diametro notevole, poiché corrisponde a circa dodici milioni di volte il
diametro del nostro Sole, ed è più di mille volte maggiore del diametro dell’orbita di Plutone.
Piazziamo ora un quasar alla distanza convenzionale di 10 parsec. Troveremo che il suo diametro
apparente si estende ancora per quasi tre gradi dei trecentosessanta dell’intero orizzonte (ciò
significa che è circa sei volte maggiore del diametro del nostro Sole o della Luna piena), e vedremo
ancora il quasar come un unico corpo fiammeggiante.
Il quasar medio avrà pertanto una magnitudine assoluta di -28. Cioè, anche a una distanza di 10
parsec, brillerà con un’intensità quasi doppia di quella del Sole nel nostro cielo, nonostante si trovi
due milioni di volte più lontano.
Arrivati a questo punto rimane da risolvere il mistero della natura del luminosissimo quasar. La
luminosità di ogni quasar tende, di tanto in tanto, a variare impercettibilmente. Nei nostri telescopi
questi corpi appaiono simili a normali stelle particolarmente fioche (a causa della loro grande
distanza, naturalmente), tanto che sebbene fossero state fotografate già da parecchi anni, passò
molto tempo prima che si scoprissero le loro particolari caratteristiche e la loro natura. (La scoperta
fu fatta grazie alle loro emissioni di scariche molto intense di onde radio). Ora, se gli astronomi
riprendessero in esame le registrazioni fotografiche degli anni passati, verrebbero alla luce
sconcertanti e strani massimi di luminosità.
Nel 1975 due astronomi, Lola J. Eachus e William Liller, riesaminarono a ritroso tutte le
registrazioni in cui compariva il quasar 3C 279. Questo brilla di solito con una magnitudine
apparente di 18, ma nel 1937, per brevissimo tempo, ne raggiunse una di 11.
Brillare con un'intensità pari all'undicesima magnitudine alla distanza di quasi due miliardi di
parsec ha dell’incredibile. Al suo apice, il quasar 3C 279 brillò infatti con la luce di altre un migliaio
di normali galassie, tanto che i due astronomi citati calcolarono che la sua magnitudine assoluta
avesse allora raggiunto un valore di -31.
Immaginiamo adesso che il quasar 3C 279 si trovi a 10 parsec da noi: brillerebbe con uno splendore
quaranta volte maggiore di quello del Sole.
Quindi, un quasar come il 3C 279 può raggiungere punte di luminosità centomila miliardi
(100.000.000.000.000) di volte più intensa di quella del Sole, ovvero cinquecento milioni di volte
più intensa di quella di S Doradus, o ancora oltre sessantamila volte quella di una grande supernova
al suo apice, o infine un migliaio di volte quella della nostra Galassia considerata come un singolo
corpo celeste.
Perciò questo, per quanto ne sappiamo oggi, è il vero record di luminosità assoluta.
Titolo originale: «Quasar, Quasar, Burning Bright!» - Traduzione di Pierluca Serri © 1976 by Mercury Press Inc. e 1977 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
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