Ho scelto Lincoln perché fu un profeta
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Ho scelto Lincoln perché fu un profeta
Miti americani / 1 Oggi esce negli Usa il film sul primo repubblicano alla Casa Bianca «Ho scelto Lincoln perché fu un profeta» Lobby, corruzione e guerre senza fine. Allora come ora. Perciò Steven Spielberg ha scelto di raccontare il presidente che abolì la schiavitù. E con Daniel Day-Lewis ne parla a Sette in esclusiva di Alessandra Farkas 50 50-51 sette | 46 — 16.11.2012 parallelo tra le politiche del XIX secolo e quelle di oggi e mi è bastato attenermi ai fatti storici», spiega Spielberg che, insieme a Daniel Day-Lewis, ci incontra in esclusiva per Sette in una suite dell’Hotel Ritz Carlton di New York. «Sin dall’inizio mi sono reso conto di come, nella politica americana, ben poco è cambiato rispetto a 150 anni fa. L’iter dietro il passaggio di una legge è ancora oggi improntato sul clientelismo e lo scambio di favori tra lobbisti». Perché un film su Lincoln proprio ora? Steven Spielberg: «Lincoln resta il presi- Tra Vecchio e Nuovo Continente Sopra, Daniel Day-Lewis, 55 anni, londinese con cittadinanza irlandese, nei panni del presidente Abraham Lincoln. A destra, è con il regista, Steven Spielberg, nato a Cincinnati, compirà 66 anni a dicembre. NINO MUNOZ/20TH CENTURY FOX «Non ho dovuto inventare un parallelo: la nostra politica è cambiata poco rispetto a 150 anni fa» David James/DreamWorks U n film straordinariamente contemporaneo, che ritrae un’America spaccata in due tra Nord e Sud, con un razzismo dilagante, una guerra infinita e un Congresso corrotto e dominato dalle lobby dove ogni legge ha un caro prezzo. E proprio la modernità di queste intramontabili tematiche della politica americana ha ispirato Steven Spielberg a intraprendere la sua ultima fatica, Lincoln, con cui il 65enne regista potrebbe, secondo i critici, sbancare al prossimo Oscar. Basato sull’acclamato saggio Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln della studiosa Doris Kearns Goodwin, vincitrice del Pulitzer, Lincoln (in uscita negli Usa il 16 novembre, in Italia dal 24 gennaio 2013) ritrae gli ultimi quattro mesi di vita di Abraham Lincoln, quando si spese per porre fine alla guerra civile che stava devastando il Paese e soprattutto per portare a termine l’abolizione della schiavitù con l’approvazione del XIII emendamento alla Costituzione americana. Accanto a Daniel Day-Lewis nei panni di Lincoln (oltre ad assomigliare come una goccia d’acqua all’originale, secondo i fisiologi della voce ha lo stesso identico timbro vocale) il cast stellare include Sally Field (la moglie Mary Todd Lincoln), Tommy Lee Jones (il deputato ultraprogressista Thaddeus Stevens), Joseph Gordon-Levitt (il figlio maggiore dei Lincoln, Robert) e David Strathairn (il segretario di Stato William Henry Seward). «Non c’è stato bisogno di inventare un 14-11-2012 9:47:50 David James/DreamWorks (3) dente più morale e coraggioso della nostra storia, soprattutto se si pensa al contesto del suo tempo. Fin da piccolo, la sua empatia per gli oppressi e i diseredati fu straordinaria. Era l’uomo prescelto dal destino: la persona giusta al posto giusto al momento giusto. Non voglio paragonarlo ai grandi profeti ebrei della Bibbia perché è stato molto più di un profeta». Il suo film mostra come ai tempi di Lincoln, repubblicano, il GOP era il partito progressista e antischiavista mentre i democratici erano conservatori, segregazionisti e antimoderni. S.S.: «Il Partito democratico fu fondato da Thomas Jefferson come partito agrario, per dare voce ai coltivatori nel Congresso Usa. Il partito repubblicano, che allora rappresentava gli industriali del Nord e gli operai irlandesi impiegati a basso costo nelle nascenti fabbriche, ha avuto il monopolio di entrambi i rami del Congresso fino ai primi anni del XX secolo». Daniel Day-Lewis: «Anche in America la gente ignora le origini progressiste dei repubblicani, in contrasto con quelle conservatrici dei democratici. Nello scoprire questa verità il mio viaggio di attore europeo ha finito per essere l’inverso rispetto a quello di Steven. Invece di intuire come lui il parallelo tra ieri e oggi, il film mi ha aiutato a collegare l’era di Lincoln all’origine dell’America, fondata grazie alla complicità del silenzio dei padri Fondatori. Che riuscirono a unificare il paese solo perché 52 52-53 sette | 46 — 16.11.2012 concordi nel non affrontare l’esplosivo tema della schiavitù. Se l’avessero fatto, si sarebbero lacerati all’interno e non sarebbero mai stati capaci di combattere il grande nemico: l’Inghilterra». È vero che nel rimandare la risoluzione del dilemma schiavitù, i Padri Fondatori hanno spianato la strada a un leader come Lincoln, che si è addossato la responsabilità storica di eliminarla? S.S.: «Pur di abolire la schiavitù, Lincoln ritardò la conclusione della guerra civile, la più lunga e sanguinaria della nostra storia. Se non l’avesse fatto, avremmo dovuto aspettare altri 40 anni per abolire quel cancro e ci sarebbe stata un’altra guerra civile perché il Sud non poteva vivere senza schiavi e il Nord non avrebbe mai accetta- to il concetto morale di schiavitù». D.D.L.: «La divisione era più economica che morale. L’economia del Nord era già industrializzata mentre il Sud agricolo sarebbe crollato senza la mano d’opera degli schiavi. Anche se la vera ossessione di Lincoln era ricongiungere Nord e Sud, è stato l’unico a saper leggere nel futuro e vedere che non poteva esserci Unione senza abolire la schiavitù». Perché ha deciso di iniziare il film con una scena molto cruenta sul campo di battaglia che ricorda quelle di Salvate il soldato Ryan? S.S.: «Oltre 700mila americani morirono durante la guerra civile: più che in tutte le altre guerre che hanno coinvolto l’America, dalla Prima guerra mondiale ai recenti «Lincoln citava il Nuovo Testamento, Shakespeare e i classici greci. Con Bill Clinton è stato il presidente Usa più colto della storia» À la guerre comme à la guerre In alto a sinistra, Steven Spielberg che dà alcune indicazioni a Sally Field; sopra, la battaglia che apre il film; qui a lato, la riunione durante la quale è stato pianificato l’attacco a Fort Fisher. conflitti in Iraq e Afghanistan passando per la Corea e il Vietnam. Ho voluto dare un piccolo assaggio visivo di quella brutalità per illustrare la drammatica storia che il soldato nero Harold Green racconta al presidente Lincoln, all’inizio del film, sulle truppe federali di soldati afro-americani che dopo un corpo a corpo durato mesi annientarono le truppe bianche confederali del Sud». Quanto è stato difficile prepararsi al ruolo di Abraham Lincoln? D.D.L.: «Lincoln era un politico astutissimo ma anche un individuo estremamente complesso. Ho cercato di calarmi nei panni del Lincoln uomo: orfano de facto, per la latitanza del padre dopo la scomparsa della madre a 9 anni, giovane innamorato distrutto dall’improvvisa morte dell’amata, marito emancipato e padre affettuoso con i figli. L’ispirazione più importante per me è venuta dai suoi scritti, discorsi, saggi e lettere: una vera e propria miniera d’oro che ne rivela lo straordinario sense of humour e la cultura, e che mi ha aiutato a entrare nel personaggio». Lo sceneggiatore del film Tony Kushner definisce Lincoln «un’anima ebrea» per il suo rigore etico-morale verso la giustizia e l’affinità con il Vecchio Testamento. S.S.: «Lincoln citava anche il Nuovo Testamento, Shakespeare e i classici greci. Con Bill Clinton è stato il presidente più colto della storia. Quando lo scelsi per la parte, Daniel Day-Lewis mi pregò di dargli almeno un anno di tempo per prepararsi al ruolo. È stato un anno fantastico, speso a dialogare e scambiarci idee poi divenute parte integrante del film». Come mai nel film non ha voluto mostrare la scena dell’assassinio di Lincoln? S.S.: «Sarebbe stato sensazionalismo di pessimo gusto. Sin dalla prima bozza del copione, Kushner decise di non includere quella scena. Io ero sulla stessa lunghezza d’onda da quando comprai i diritti del libro della Kearns Goodwin nel 1999, quando non era ancora stato scritto. Alla fine abbiamo deciso di concentrarci su un singolo capitolo di 70 pagine che parla del XIII emendamento e dell’ultima parte della vita di Lincoln perché non ci interessava realizzare un pot-pourri di date ed eventi». Kushner, apertamente gay, ha detto che gli sarebbe piaciuto molto realizzare una versione homo di Lincoln. D.D.L.: «A dire il vero esiste già un libro che lo descrive come un gay nascosto, perché durante i viaggi dormiva nel letto delle locande insieme ad altri uomini. Una tesi assurda che travisa come a quei tempi ciò fosse normale per i membri del Congresso e della Corte Suprema in trasferta di lavoro. L’amicizia tra uomini allora era universalmente più passionale e intensa di oggi, anche se non c’era nulla di sessuale. Giudicare tutto ciò con una prospettiva contemporanea è assurdo». È singolare che un attore inglese naturalizzato irlandese sia diventato famoso interpretando personaggi profondamente americani che immortalano la psiche e l’animo yankee. D.D.L.: «E dire che le mie uniche radici americane sono quelle di mia moglie Rebecca Miller! Quando ho iniziato non avrei mai immaginato che un giorno avrei interpretato il ruolo di personaggi così storicamente rilevanti. L’America è l’unico paese che permette a chiunque di sentirsi cittadino, e a questo punto conosco la storia americana molto più di quella inglese o irlandese». Dopo la prima mondiale al New York sette | 46 — 16.11.2012 53 14-11-2012 9:47:51 Miti americani / 2 Da Roosevelt a Bush jr, viaggio nei 13 monumenti “alla memoria” Film Festival, i critici hanno paragonato la sua interpretazione a quella di Henry Fonda in Young Mr. Lincoln di John Ford, del 1939. D.D.L.: «Ho visto quel film che esplora un periodo della vita di Lincoln totalmente diverso ma, se c’è una connessione tra noi due, è del tutto inconscia». Perché ha deciso di rimandare l’uscita del film a dopo le elezioni presidenziali del 6 novembre? S.S.: «Non volevo in alcun modo interferire col voto. C’era già troppo fracasso là fuori e non m’interessava diventare parte del discorso politico, facendomi strumentalizzare dai repubblicani che avrebbero potuto sfruttare il mio Lincoln per reclamare un Dna che non gli appartiene». Ma anche i democratici hanno più volte reclamato la parentela con Lincoln, che oltre a essere citato molto spesso da Obama, è considerato per molte ragioni il suo alter ego storico. S.S.: «Lincoln voleva condurre la nazione fuori dalla guerra civile, verso un sentiero di pace, riconciliazione, progresso e ricostruzione dopo un conflitto lungo ed estenuante. La storia si ripete e spero che sia Obama a riscriverla. Per me, obamiano, l’inaugurazione del primo presidente nero della nostra storia resta uno dei giorni più belli della mia vita». D.D.L.: «L’Inghilterra, che ha abolito la schiavitù ben prima dell’America, non dà ancora segni di essere minimamente pronta a eleggere un premier nero. Anche per me l’inaugurazione di Obama ha rappresentato un tripudio di commozione personale che non scorderò finché campo». Se Mary Lincoln fosse viva oggi, avrebbe forse intrapreso la carriera politica come Hillary Clinton? D.D.L.: «Penso di sì. Ma sarebbero state politiche formidabili anche donne quali Kate Chase, figlia del segretario al Tesoro di Lincoln Salmon P. Chase, e Frances Adeline Seward, moglie del suo segretario di Stato William Henry Seward. Come Mary e tante altre donne geniali ma senza sbocchi professionali di allora, anch’esse ebbero problemi psichiatrici. Eppure Mary fu la prima a riconoscere le grandi potenzialità di Lincoln, che sposò preferendolo a tanti altri pretendenti come il giovane avvocato Stephen Douglas, proprio perché percepì la sua stoffa di leader e di vincitore. Fu lei il vero motore della sua ambizione politica e in questo senso l’artefice indiretta della più importante pagina di storia americana». Alessandra Farkas © riproduzione riservata 54 54-55 sette | 46 — 16.11.2012 Quando i presiden ti Usa finiscono in archivio Mete di un pellegrinaggio tra le leggende della dem ocrazia americana. Le biblioteche-museo di ogni ex residente della Casa Bianca raccolgono milioni di documenti, lettere, mem orabilia e copie dello Studio Ovale dove i leader hanno gestito crisi e rielezioni di Ennio Caretto - foto di Jean-Baptiste Péretié e François Leininger Herbert Hoover La casa natale di Hoover nel paesino di West Branch, in Iowa (2.322 abitanti). Repubblicano, fu presidente per un solo mandato, dal 1928 al 1932. A destra, la sua biblioteca presidenziale, sempre a West Branch. Franklin D. Roosevelt La prima biblioteca presidenziale, sopra, venne fatta costruire nel 1941 dallo stesso Roosevelt a Hyde Park, New York. A destra, collezione di spille elettorali di FDR, rieletto per quattro volte alla Casa Bianca (1932-1945). P Harry S. Truman Il museo e la biblioteca di Truman (1945-1953), il presidente che ordinò l’attacco nucleare sul Giappone, si trovano a Independence, in Missouri. Accanto, la prima replica dello Studio Ovale. er sapere dove Barack Obama sceglierà di insediare la sua, c’è tempo. Altri quattro anni. Perché di solito è verso la fine del mandato che i presidenti degli Usa decidono dove “archiviare” – a futura memoria – la storia della propria esperienza al comando dell’impero americano. Negli scorsi 90 anni, infatti, le biblioteche e i musei presidenziali, una sorta di tabernacolo dei leader degli Stati Uniti, qualche volta sono state costruite nella città natale del “comandante in capo” statunitense, in qualche altro caso, invece, nel luogo che l’ha consacrato politicamente. In attesa del futuro, storici e giornalisti vanno alla ricerca di queste “isole del tesoro” per scavare tra i documenti più importanti della storia del Paese. Per i cittadini – soprattutto i giovani – sono diventate mete di un pellegrinaggio nei miti e nella democrazia americani. In essi giacciono milioni di lettere, testi di discorsi e di interviste, minute di riunioni, registrazioni di telefonate, mail e artefatti della Casa Bianca. Ve li hanno depositati gli stessi ex presidenti nell’intento di rendere pubblico il loro operato. Queste biblioteche e questi musei, grandiosi monumenti agli eletti alla carica più difficile e prestigiosa della Repubblica, non rivelano tutti i segreti di Stato. E i loro pochi critici li considerano agiografici, talvolta di cattivo gusto. Ma sono un esempio di trasparenza politica, sia pure postuma, che l’Italia dovrebbe seguire. L’idea delle biblioteche e dei musei presidenziali fu di Franklin Delano Roosevelt, architetto del nuovo corso economico, il New deal statalista che salvò l’America nella Grande Depressione degli Anni 30, e vincitore della Seconda guerra mondiale. Roosevelt, un democratico, ne disegnò personalmente il piano nel 1937, all’inizio del suo secondo mandato, e ne avviò la costruzione a Hyde Park, la sua tenuta lungo il fiume Hudson poco a nord di New York, finanziandola privatamente e ammassandovi a poco a poco i L’idea venne a Roosevelt: dal rifugio che si costruì a Hyde Park teneva i suoi “discorsi del caminetto” alla radio sette | 46 — 16.11.2012 55 14-11-2012 9:47:53 Richard M. Nixon Nel lussureggiante giardino della biblioteca di Nixon, a Yorba Linda, in California, sua città natale, si trova anche la tomba del presidente del Watergate (1969-1974). A destra, la sua limousine blindata. Dwight D. Eisenhower La sua biblioteca, sopra, si trova ad Abilene, in Kansas. A destra, l’affresco all’entrata del museo che racconta i successi militari del generale “Ike” prima del suo ingresso trionfale alla Casa Bianca (1953-1961). John F. Kennedy La biblioteca di JFK a Boston, in Massachusetts, è stata progettata dall’architetto I.M. Pei. A sinistra, un corridoio del museo ispirato alla Casa Bianca dove Kennedy visse dal ’61 fino all’assassinio nel ’63. Lyndon B. Johnson La biblioteca del successore di Kennedy (’63-’69) è all’interno del campus dell’Università del Texas, ad Austin. Accanto, stivali in pelle di coccodrillo, pistola e sella in miniatura del presidente cow-boy. 56 56-57 sette | 46 — 16.11.2012 Gerald R. Ford Sopra, i registratori-spia usati nel Watergate e la foto di Gordon Liddy, l’ex funzionario dell’Fbi coinvolto nello scandalo che portò Ford alla presidenza nel 1974. A sinistra, la replica del “suo” Studio Ovale. suoi archivi della Casa Bianca. Da Hyde Park, il suo rifugio, che visitò l’ultima volta nel marzo del ’45, un mese prima di morire, tenne numerosi dei suoi “discorsi del caminetto” del sabato alla radio. Roosevelt donò la biblioteca e il museo allo Stato nel 1940. E nel 1955, conscio della funzione che essi potevano svolgere nella storia americana, il Congresso decretò che lo Stato dovesse farsi carico della gestione dei monumenti per tutti i presidenti a venire, affidandola alla National archives and records administration di Washington. Oggi ve ne sono 13, l’ultimo dei quali, quello di George W. Bush, sarà inaugurato l’anno prossimo. Il primo a beneficiare della nuova legge fu Harry Truman, l’erede di Franklin Delano Roosevelt, anch’egli democratico. Lasciata la Casa Bianca nel gennaio del ’53 e ritiratosi a Independence, la sua città natale nel Missouri, Truman raccolse i fondi e diresse i lavori della sua biblioteca e del suo museo, e vi si insediò prima che finissero nel ’57, per scrivere le sue memorie, Mister citizen, e per Il Congresso decretò che lo Stato dovesse farsi carico della gestione di questi monumenti per tutti i presidenti ricevere il pubblico. Il monumento divenne un modello per i suoi successori, che lo visitarono tutti fino alla sua morte, nel ’72. Fra questi monumenti, spesso estesi come una cittadina, forse il meno facilmente accessibile è quello di Dwight Eisenhower, il capo supremo delle forze alleate in Europa nella Seconda guerra mondiale, presidente repubblicano dal ’53 al ’61. Si trova nel centro di Abilene, meno di 7mila abitanti, nel suo Stato del Kansas. È il più grande, oltre 8 ettari, esibisce una sua statua di bronzo di oltre 3 metri, la tomba di famiglia, dipinti murali sulla sua carriera, oggetti personali. Il più innovativo è il Presidential Center and Park di Bill Clinton, presidente democratico dal ’93 al 2001, che si trova a Little Rock, nell’Arkansas, terzo in ordine di grandezza sette | 46 — 16.11.2012 57 14-11-2012 9:47:56 William J. Clinton Situata in un antico quartiere di Little Rock, in Arkansas, la biblioteca ospita una ricostruzione dello Studio Ovale, sopra, e della “cabinet room” dove Bill, in carica dal 1993 al 2001, riuniva i ministri. Jimmy Carter Accanto, disegno in onore del presidente “peanut” (’77-’81), così chiamato perché aveva fatto fortuna commerciando con le arachidi. Sopra, manifesto elettorale nella sua biblioteca ad Atlanta, in Georgia. Ronald Reagan Chi visita la biblioteca di “Ronnie” a Simi Valley, in California, è accolto dalle statue del presidente (’81’89) e della moglie Nancy. A sinistra, la “sala militare” dove gli scolari “giocano” alla guerra di Grenada (1983). George H.W. Bush (padre) La biblioteca di Bush senior è a College Station, in Texas. Sopra, la replica dello Studio Ovale, dove per 5 dollari ci si può fare una “fotografia presidenziale” e, accanto, la ricostruzione della “situation room”, la sala di crisi. 58 58-59 sette | 46 — 16.11.2012 George W. Bush (figlio) Facciata della faraonica biblioteca del predecessore di Barack Obama, che dovrebbe essere aperta nel 2013 a Dallas, in Texas, lo Stato del petrolio di cui è originaria la dinastia politica dei Bush. (il secondo sarà quello di George W. Bush). Il mausoleo si alza con la forma di un ponte, visto che “ponte al XXI secolo” Clinton volle chiamare la propria presidenza, ed è anche un’opera di risanamento urbano, con la stazione ferroviaria restaurata. Clinton vi ha instaurato la sua fondazione, una Scuola universitaria e ne ha digitalizzato la biblioteca. Ogni biblioteca e museo presidenziali ha qualcosa di diverso dagli altri. Quello di John Kennedy a Boston nel Massachusetts è uno dei massimi centri culturali americani. Quello di Lyndon Johnson, il suo successore, a Austin nel Texas, è un peana ai cow boys. Quello di Richard Nixon, in California, illustra coraggiosamente il Watergate, lo scandalo che nel ’74 gli costò la Casa Bianca. Gerald Ford, che gli subentrò, volle che la sua Bibilioteca-museo inneggiasse allo “spirito” del football americano, mentre Jimmy Il mausoleo più innovativo è quello di Clinton, ispirato all’idea del “ponte verso il XXI secolo” che ispirò la sua presidenza Carter, nella sua Atlanta, in Georgia, preferì ricordare le battaglie per i diritti umani. Ronald Reagan, in California, e George Bush padre, in Texas, hanno scelto invece di celebrare la fine della Guerra Fredda: il primo con una scultura di cavalli che saltano il Muro di Berlino, il secondo con un pezzo del Muro stesso. L’America si chiede quindi quale Stato sceglierà come sede Obama: le native Hawaii, o lo quello adottivo, l’Illinois, che lo ha lanciato nel firmamento politico americano? Ha ancora tempo: in fondo, «il meglio deve ancora venire», come ha detto appena rieletto. Ennio Caretto © riproduzione riservata sette | 46 — 16.11.2012 59 14-11-2012 9:47:58