Ho scelto Lincoln perché fu un profeta

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Ho scelto Lincoln perché fu un profeta
Miti americani / 1 Oggi esce negli Usa il film sul primo repubblicano alla Casa Bianca
«Ho scelto Lincoln
perché fu un profeta»
Lobby, corruzione e guerre senza fine. Allora come ora. Perciò
Steven Spielberg ha scelto di raccontare il presidente che abolì
la schiavitù. E con Daniel Day-Lewis ne parla a Sette in esclusiva
di Alessandra Farkas
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parallelo tra le politiche del XIX secolo e
quelle di oggi e mi è bastato attenermi
ai fatti storici», spiega Spielberg che, insieme a Daniel Day-Lewis, ci incontra in
esclusiva per Sette in una suite dell’Hotel
Ritz Carlton di New York. «Sin dall’inizio
mi sono reso conto di come, nella politica
americana, ben poco è cambiato rispetto
a 150 anni fa. L’iter dietro il passaggio di
una legge è ancora oggi improntato sul
clientelismo e lo scambio di favori tra
lobbisti».
Perché un film su Lincoln proprio ora?
Steven Spielberg: «Lincoln resta il presi-
Tra Vecchio
e Nuovo
Continente
Sopra, Daniel
Day-Lewis, 55
anni, londinese
con cittadinanza
irlandese, nei panni
del presidente
Abraham Lincoln.
A destra, è con
il regista, Steven
Spielberg, nato
a Cincinnati,
compirà 66 anni a
dicembre.
NINO MUNOZ/20TH CENTURY FOX
«Non ho dovuto
inventare
un parallelo: la
nostra politica
è cambiata
poco rispetto
a 150 anni fa»
David James/DreamWorks
U
n film straordinariamente
contemporaneo, che ritrae
un’America spaccata in due
tra Nord e Sud, con un razzismo dilagante, una guerra infinita e un
Congresso corrotto e dominato dalle lobby dove ogni legge ha un caro prezzo. E
proprio la modernità di queste intramontabili tematiche della politica americana
ha ispirato Steven Spielberg a intraprendere la sua ultima fatica, Lincoln, con cui
il 65enne regista potrebbe, secondo i critici, sbancare al prossimo Oscar.
Basato sull’acclamato saggio Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln della studiosa Doris Kearns Goodwin,
vincitrice del Pulitzer, Lincoln (in uscita
negli Usa il 16 novembre, in Italia dal 24
gennaio 2013) ritrae gli ultimi quattro mesi
di vita di Abraham Lincoln, quando si spese per porre fine alla guerra civile che stava
devastando il Paese e soprattutto per portare a termine l’abolizione della schiavitù
con l’approvazione del XIII emendamento
alla Costituzione americana.
Accanto a Daniel Day-Lewis nei panni di
Lincoln (oltre ad assomigliare come una
goccia d’acqua all’originale, secondo i fisiologi della voce ha lo stesso identico
timbro vocale) il cast stellare include Sally
Field (la moglie Mary Todd Lincoln), Tommy Lee Jones (il deputato ultraprogressista
Thaddeus Stevens), Joseph Gordon-Levitt
(il figlio maggiore dei Lincoln, Robert) e
David Strathairn (il segretario di Stato William Henry Seward).
«Non c’è stato bisogno di inventare un
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David James/DreamWorks (3)
dente più morale e coraggioso della nostra storia, soprattutto se si pensa al contesto del suo tempo. Fin da piccolo, la sua
empatia per gli oppressi e i diseredati fu
straordinaria. Era l’uomo prescelto dal destino: la persona giusta al posto giusto al
momento giusto. Non voglio paragonarlo
ai grandi profeti ebrei della Bibbia perché
è stato molto più di un profeta».
Il suo film mostra come ai tempi di Lincoln, repubblicano, il GOP era il partito
progressista e antischiavista mentre i
democratici erano conservatori, segregazionisti e antimoderni.
S.S.: «Il Partito democratico fu fondato da
Thomas Jefferson come partito agrario,
per dare voce ai coltivatori nel Congresso Usa. Il partito repubblicano, che allora
rappresentava gli industriali del Nord e gli
operai irlandesi impiegati a basso costo
nelle nascenti fabbriche, ha avuto il monopolio di entrambi i rami del Congresso
fino ai primi anni del XX secolo».
Daniel Day-Lewis: «Anche in America la
gente ignora le origini progressiste dei
repubblicani, in contrasto con quelle conservatrici dei democratici. Nello scoprire
questa verità il mio viaggio di attore europeo ha finito per essere l’inverso rispetto a
quello di Steven. Invece di intuire come lui
il parallelo tra ieri e oggi, il film mi ha aiutato a collegare l’era di Lincoln all’origine
dell’America, fondata grazie alla complicità del silenzio dei padri Fondatori. Che
riuscirono a unificare il paese solo perché
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concordi nel non affrontare l’esplosivo
tema della schiavitù. Se l’avessero fatto,
si sarebbero lacerati all’interno e non sarebbero mai stati capaci di combattere il
grande nemico: l’Inghilterra».
È vero che nel rimandare la risoluzione
del dilemma schiavitù, i Padri Fondatori hanno spianato la strada a un leader
come Lincoln, che si è addossato la responsabilità storica di eliminarla?
S.S.: «Pur di abolire la schiavitù, Lincoln
ritardò la conclusione della guerra civile,
la più lunga e sanguinaria della nostra storia. Se non l’avesse fatto, avremmo dovuto aspettare altri 40 anni per abolire quel
cancro e ci sarebbe stata un’altra guerra civile perché il Sud non poteva vivere senza
schiavi e il Nord non avrebbe mai accetta-
to il concetto morale di schiavitù».
D.D.L.: «La divisione era più economica
che morale. L’economia del Nord era già
industrializzata mentre il Sud agricolo sarebbe crollato senza la mano d’opera degli
schiavi. Anche se la vera ossessione di Lincoln era ricongiungere Nord e Sud, è stato
l’unico a saper leggere nel futuro e vedere
che non poteva esserci Unione senza abolire la schiavitù».
Perché ha deciso di iniziare il film con
una scena molto cruenta sul campo di
battaglia che ricorda quelle di Salvate il
soldato Ryan?
S.S.: «Oltre 700mila americani morirono
durante la guerra civile: più che in tutte le
altre guerre che hanno coinvolto l’America, dalla Prima guerra mondiale ai recenti
«Lincoln citava il Nuovo Testamento,
Shakespeare e i classici greci. Con Bill Clinton è stato
il presidente Usa più colto della storia»
À la guerre
comme à la guerre
In alto a sinistra,
Steven Spielberg
che dà alcune
indicazioni a Sally
Field; sopra,
la battaglia
che apre il film;
qui a lato,
la riunione durante
la quale è stato
pianificato l’attacco
a Fort Fisher.
conflitti in Iraq e Afghanistan passando
per la Corea e il Vietnam. Ho voluto dare
un piccolo assaggio visivo di quella brutalità per illustrare la drammatica storia che
il soldato nero Harold Green racconta al
presidente Lincoln, all’inizio del film, sulle truppe federali di soldati afro-americani
che dopo un corpo a corpo durato mesi
annientarono le truppe bianche confederali del Sud».
Quanto è stato difficile prepararsi al
ruolo di Abraham Lincoln?
D.D.L.: «Lincoln era un politico astutissimo ma anche un individuo estremamente
complesso. Ho cercato di calarmi nei panni del Lincoln uomo: orfano de facto, per
la latitanza del padre dopo la scomparsa
della madre a 9 anni, giovane innamorato
distrutto dall’improvvisa morte dell’amata, marito emancipato e padre affettuoso
con i figli. L’ispirazione più importante
per me è venuta dai suoi scritti, discorsi,
saggi e lettere: una vera e propria miniera
d’oro che ne rivela lo straordinario sense
of humour e la cultura, e che mi ha aiutato
a entrare nel personaggio».
Lo sceneggiatore del film Tony Kushner
definisce Lincoln «un’anima ebrea» per
il suo rigore etico-morale verso la giustizia e l’affinità con il Vecchio Testamento.
S.S.: «Lincoln citava anche il Nuovo Testamento, Shakespeare e i classici greci.
Con Bill Clinton è stato il presidente più
colto della storia. Quando lo scelsi per la
parte, Daniel Day-Lewis mi pregò di dargli
almeno un anno di tempo per prepararsi
al ruolo. È stato un anno fantastico, speso
a dialogare e scambiarci idee poi divenute
parte integrante del film».
Come mai nel film non ha voluto mostrare la scena dell’assassinio di Lincoln?
S.S.: «Sarebbe stato sensazionalismo di
pessimo gusto. Sin dalla prima bozza del
copione, Kushner decise di non includere
quella scena. Io ero sulla stessa lunghezza
d’onda da quando comprai i diritti del libro
della Kearns Goodwin nel 1999, quando
non era ancora stato scritto. Alla fine abbiamo deciso di concentrarci su un singolo capitolo di 70 pagine che parla del XIII
emendamento e dell’ultima parte della vita
di Lincoln perché non ci interessava realizzare un pot-pourri di date ed eventi».
Kushner, apertamente gay, ha detto che
gli sarebbe piaciuto molto realizzare
una versione homo di Lincoln.
D.D.L.: «A dire il vero esiste già un libro
che lo descrive come un gay nascosto,
perché durante i viaggi dormiva nel letto
delle locande insieme ad altri uomini. Una
tesi assurda che travisa come a quei tempi
ciò fosse normale per i membri del Congresso e della Corte Suprema in trasferta
di lavoro. L’amicizia tra uomini allora era
universalmente più passionale e intensa
di oggi, anche se non c’era nulla di sessuale. Giudicare tutto ciò con una prospettiva
contemporanea è assurdo».
È singolare che un attore inglese naturalizzato irlandese sia diventato famoso
interpretando personaggi profondamente americani che immortalano la
psiche e l’animo yankee.
D.D.L.: «E dire che le mie uniche radici americane sono quelle di mia moglie
Rebecca Miller! Quando ho iniziato non
avrei mai immaginato che un giorno avrei
interpretato il ruolo di personaggi così
storicamente rilevanti. L’America è l’unico
paese che permette a chiunque di sentirsi
cittadino, e a questo punto conosco la storia americana molto più di quella inglese
o irlandese».
Dopo la prima mondiale al New York
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Miti americani / 2 Da Roosevelt a Bush jr, viaggio nei 13 monumenti “alla memoria”
Film Festival, i critici hanno paragonato
la sua interpretazione a quella di Henry Fonda in Young Mr. Lincoln di John
Ford, del 1939.
D.D.L.: «Ho visto quel film che esplora un
periodo della vita di Lincoln totalmente
diverso ma, se c’è una connessione tra noi
due, è del tutto inconscia».
Perché ha deciso di rimandare l’uscita
del film a dopo le elezioni presidenziali
del 6 novembre?
S.S.: «Non volevo in alcun modo interferire col voto. C’era già troppo fracasso là
fuori e non m’interessava diventare parte
del discorso politico, facendomi strumentalizzare dai repubblicani che avrebbero
potuto sfruttare il mio Lincoln per reclamare un Dna che non gli appartiene».
Ma anche i democratici hanno più volte reclamato la parentela con Lincoln,
che oltre a essere citato molto spesso da
Obama, è considerato per molte ragioni
il suo alter ego storico.
S.S.: «Lincoln voleva condurre la nazione
fuori dalla guerra civile, verso un sentiero di pace, riconciliazione, progresso e
ricostruzione dopo un conflitto lungo ed
estenuante. La storia si ripete e spero che
sia Obama a riscriverla. Per me, obamiano,
l’inaugurazione del primo presidente nero
della nostra storia resta uno dei giorni più
belli della mia vita».
D.D.L.: «L’Inghilterra, che ha abolito la
schiavitù ben prima dell’America, non dà
ancora segni di essere minimamente pronta a eleggere un premier nero. Anche per
me l’inaugurazione di Obama ha rappresentato un tripudio di commozione personale che non scorderò finché campo».
Se Mary Lincoln fosse viva oggi, avrebbe forse intrapreso la carriera politica
come Hillary Clinton?
D.D.L.: «Penso di sì. Ma sarebbero state
politiche formidabili anche donne quali
Kate Chase, figlia del segretario al Tesoro di Lincoln Salmon P. Chase, e Frances
Adeline Seward, moglie del suo segretario di Stato William Henry Seward. Come
Mary e tante altre donne geniali ma senza
sbocchi professionali di allora, anch’esse ebbero problemi psichiatrici. Eppure
Mary fu la prima a riconoscere le grandi
potenzialità di Lincoln, che sposò preferendolo a tanti altri pretendenti come il
giovane avvocato Stephen Douglas, proprio perché percepì la sua stoffa di leader
e di vincitore. Fu lei il vero motore della
sua ambizione politica e in questo senso
l’artefice indiretta della più importante
pagina di storia americana».
Alessandra Farkas
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Quando i presiden ti Usa finiscono in archivio
Mete di un pellegrinaggio tra le leggende della dem ocrazia americana. Le biblioteche-museo di ogni ex residente della Casa
Bianca raccolgono milioni di documenti, lettere, mem orabilia e copie dello Studio Ovale dove i leader hanno gestito crisi e rielezioni
di Ennio Caretto - foto di Jean-Baptiste Péretié e François Leininger
Herbert Hoover
La casa natale di Hoover
nel paesino di West Branch,
in Iowa (2.322 abitanti).
Repubblicano, fu presidente
per un solo mandato, dal
1928 al 1932. A destra, la
sua biblioteca presidenziale,
sempre a West Branch.
Franklin D. Roosevelt
La prima biblioteca
presidenziale, sopra, venne
fatta costruire nel 1941 dallo
stesso Roosevelt a Hyde Park,
New York. A destra, collezione
di spille elettorali di FDR,
rieletto per quattro volte alla
Casa Bianca (1932-1945).
P
Harry S. Truman
Il museo e la biblioteca di
Truman (1945-1953), il
presidente che ordinò l’attacco
nucleare sul Giappone, si
trovano a Independence, in
Missouri. Accanto, la prima
replica dello Studio Ovale.
er sapere dove Barack Obama
sceglierà di insediare la sua, c’è
tempo. Altri quattro anni. Perché
di solito è verso la fine del mandato che i presidenti degli Usa decidono
dove “archiviare” – a futura memoria – la
storia della propria esperienza al comando
dell’impero americano.
Negli scorsi 90 anni, infatti, le biblioteche
e i musei presidenziali, una sorta di tabernacolo dei leader degli Stati Uniti, qualche
volta sono state costruite nella città natale
del “comandante in capo” statunitense, in
qualche altro caso, invece, nel luogo che
l’ha consacrato politicamente. In attesa del
futuro, storici e giornalisti vanno alla ricerca
di queste “isole del tesoro” per scavare tra
i documenti più importanti della storia del
Paese. Per i cittadini – soprattutto i giovani – sono diventate mete di un pellegrinaggio nei miti e nella democrazia americani.
In essi giacciono milioni di lettere, testi di
discorsi e di interviste, minute di riunioni,
registrazioni di telefonate, mail e artefatti
della Casa Bianca. Ve li hanno depositati gli
stessi ex presidenti nell’intento di rendere
pubblico il loro operato. Queste biblioteche
e questi musei, grandiosi monumenti agli
eletti alla carica più difficile e prestigiosa
della Repubblica, non rivelano tutti i segreti
di Stato. E i loro pochi critici li considerano
agiografici, talvolta di cattivo gusto. Ma sono
un esempio di trasparenza politica, sia pure
postuma, che l’Italia dovrebbe seguire.
L’idea delle biblioteche e dei musei presidenziali fu di Franklin Delano Roosevelt, architetto del nuovo corso economico, il New
deal statalista che salvò l’America nella Grande Depressione degli Anni 30, e vincitore
della Seconda guerra mondiale. Roosevelt,
un democratico, ne disegnò personalmente
il piano nel 1937, all’inizio del suo secondo
mandato, e ne avviò la costruzione a Hyde
Park, la sua tenuta lungo il fiume Hudson
poco a nord di New York, finanziandola privatamente e ammassandovi a poco a poco i
L’idea venne a
Roosevelt: dal
rifugio che si
costruì a Hyde
Park teneva
i suoi “discorsi
del caminetto”
alla radio
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Richard M. Nixon
Nel lussureggiante giardino
della biblioteca di Nixon, a Yorba
Linda, in California, sua città
natale, si trova anche la tomba
del presidente del Watergate
(1969-1974). A destra, la sua
limousine blindata.
Dwight D. Eisenhower
La sua biblioteca, sopra, si trova
ad Abilene, in Kansas. A destra,
l’affresco all’entrata del museo
che racconta i successi militari
del generale “Ike” prima del
suo ingresso trionfale alla Casa
Bianca (1953-1961).
John F. Kennedy
La biblioteca di JFK a Boston,
in Massachusetts, è stata
progettata dall’architetto I.M.
Pei. A sinistra, un corridoio
del museo ispirato alla Casa
Bianca dove Kennedy visse dal
’61 fino all’assassinio nel ’63.
Lyndon B. Johnson
La biblioteca del successore di
Kennedy (’63-’69) è all’interno
del campus dell’Università
del Texas, ad Austin. Accanto,
stivali in pelle di coccodrillo,
pistola e sella in miniatura del
presidente cow-boy.
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Gerald R. Ford
Sopra, i registratori-spia usati
nel Watergate e la foto di
Gordon Liddy, l’ex funzionario
dell’Fbi coinvolto nello scandalo
che portò Ford alla presidenza
nel 1974. A sinistra, la replica del
“suo” Studio Ovale.
suoi archivi della Casa Bianca.
Da Hyde Park, il suo rifugio, che visitò l’ultima volta nel marzo del ’45, un mese prima
di morire, tenne numerosi dei suoi “discorsi del caminetto” del sabato alla radio.
Roosevelt donò la biblioteca e il museo allo
Stato nel 1940. E nel 1955, conscio della funzione che essi potevano svolgere nella storia
americana, il Congresso decretò che lo Stato
dovesse farsi carico della gestione dei monumenti per tutti i presidenti a venire, affidandola alla National archives and records
administration di Washington. Oggi ve ne
sono 13, l’ultimo dei quali, quello di George
W. Bush, sarà inaugurato l’anno prossimo.
Il primo a beneficiare della nuova legge fu
Harry Truman, l’erede di Franklin Delano
Roosevelt, anch’egli democratico. Lasciata
la Casa Bianca nel gennaio del ’53 e ritiratosi
a Independence, la sua città natale nel Missouri, Truman raccolse i fondi e diresse i lavori della sua biblioteca e del suo museo, e
vi si insediò prima che finissero nel ’57, per
scrivere le sue memorie, Mister citizen, e per
Il Congresso decretò che lo Stato dovesse farsi carico
della gestione di questi monumenti per tutti i presidenti
ricevere il pubblico. Il monumento divenne
un modello per i suoi successori, che lo visitarono tutti fino alla sua morte, nel ’72.
Fra questi monumenti, spesso estesi come
una cittadina, forse il meno facilmente accessibile è quello di Dwight Eisenhower, il
capo supremo delle forze alleate in Europa
nella Seconda guerra mondiale, presidente
repubblicano dal ’53 al ’61. Si trova nel centro di Abilene, meno di 7mila abitanti, nel
suo Stato del Kansas. È il più grande, oltre
8 ettari, esibisce una sua statua di bronzo di
oltre 3 metri, la tomba di famiglia, dipinti
murali sulla sua carriera, oggetti personali.
Il più innovativo è il Presidential Center and
Park di Bill Clinton, presidente democratico dal ’93 al 2001, che si trova a Little Rock,
nell’Arkansas, terzo in ordine di grandezza
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William J. Clinton
Situata in un antico quartiere
di Little Rock, in Arkansas,
la biblioteca ospita una
ricostruzione dello Studio
Ovale, sopra, e della “cabinet
room” dove Bill, in carica dal
1993 al 2001, riuniva i ministri.
Jimmy Carter
Accanto, disegno in onore
del presidente “peanut”
(’77-’81), così chiamato
perché aveva fatto fortuna
commerciando con le
arachidi. Sopra, manifesto
elettorale nella sua biblioteca
ad Atlanta, in Georgia.
Ronald Reagan
Chi visita la biblioteca di
“Ronnie” a Simi Valley, in
California, è accolto dalle
statue del presidente (’81’89) e della moglie Nancy.
A sinistra, la “sala militare”
dove gli scolari “giocano” alla
guerra di Grenada (1983).
George H.W. Bush (padre)
La biblioteca di Bush senior è a
College Station, in Texas. Sopra,
la replica dello Studio Ovale,
dove per 5 dollari ci si può fare
una “fotografia presidenziale”
e, accanto, la ricostruzione della
“situation room”, la sala di crisi.
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George W. Bush (figlio)
Facciata della faraonica
biblioteca del predecessore di
Barack Obama, che dovrebbe
essere aperta nel 2013 a
Dallas, in Texas, lo Stato del
petrolio di cui è originaria la
dinastia politica dei Bush.
(il secondo sarà quello di George W. Bush).
Il mausoleo si alza con la forma di un ponte,
visto che “ponte al XXI secolo” Clinton volle
chiamare la propria presidenza, ed è anche
un’opera di risanamento urbano, con la stazione ferroviaria restaurata. Clinton vi ha instaurato la sua fondazione, una Scuola universitaria e ne ha digitalizzato la biblioteca.
Ogni biblioteca e museo presidenziali ha
qualcosa di diverso dagli altri. Quello di
John Kennedy a Boston nel Massachusetts è
uno dei massimi centri culturali americani.
Quello di Lyndon Johnson, il suo successore, a Austin nel Texas, è un peana ai cow
boys. Quello di Richard Nixon, in California,
illustra coraggiosamente il Watergate, lo
scandalo che nel ’74 gli costò la Casa Bianca.
Gerald Ford, che gli subentrò, volle che la
sua Bibilioteca-museo inneggiasse allo “spirito” del football americano, mentre Jimmy
Il mausoleo più innovativo è quello di Clinton, ispirato all’idea
del “ponte verso il XXI secolo” che ispirò la sua presidenza
Carter, nella sua Atlanta, in Georgia, preferì
ricordare le battaglie per i diritti umani.
Ronald Reagan, in California, e George
Bush padre, in Texas, hanno scelto invece di
celebrare la fine della Guerra Fredda: il primo con una scultura di cavalli che saltano
il Muro di Berlino, il secondo con un pezzo
del Muro stesso. L’America si chiede quindi
quale Stato sceglierà come sede Obama: le
native Hawaii, o lo quello adottivo, l’Illinois,
che lo ha lanciato nel firmamento politico
americano? Ha ancora tempo: in fondo, «il
meglio deve ancora venire», come ha detto
appena rieletto. Ennio Caretto
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