Rampi Marta, Casentino intangibile. Un viaggio ecomuseale tra

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Rampi Marta, Casentino intangibile. Un viaggio ecomuseale tra
Università degli Studi di Perugia
Università degli Studi di Firenze
Università degli Studi di Siena
Università degli Studi di Torino
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN BENI DEMOETNOANTROPOLOGICI Tesi di specializzazione: Casentino intangibile Un viaggio ecomuseale tra gesto, materia e dintorni Specializzando Relatore Dr. Marta Rampi Chiarissima Prof.ssa Cristina Papa anno accademico 2011 -­‐ 2012 Indice
Premessa
p. 1
Il patrimonio immateriale nel Codice dei Beni Culturali e gli strumenti del museo
p. 3
L’Ecomuseo del Casentino tra sostenibilità economica e sostenibilità culturale
p. 24
Tim Ingold e l’ecologia della cultura
p. 37
Lo scalpellino Alessandro Rialti di Castel San Niccolò.
p. 56
Angela Giordano: una voce argentina al telaio
p. 77
Conclusioni
p. 88
Appendice: gli strumenti per la lavorazione della pietra
p. 89
Bibliografia
p.105
Con CD allegato
Premessa
Se il presente lavoro assumesse una forma, diversa da quella cartacea con la rilegatura,
esso somiglierebbe al guscio di una lumaca.
La scuola, con le lezioni, i seminari, le escursioni, lo stage presso l’Ecomuseo del
Casentino, hanno costantemente interagito con l’organismo-persona di me che scrivo, tanto da
farmi uscire profondamente trasformata da questa esperienza durata due anni; la genesi e lo
sviluppo di questo scritto finale, che in un certo senso condensa quel lungo percorso
all’Università, potrebbe pertanto essere inteso come una cristallizzazione di quella
trasformazione, fatta per depositi successivi, secondo il ritmo delle spirali logaritmiche
proprie dello sviluppo della conchiglia: da un punto piccolissimo la lumachina fa aumentare il
raggio della spira a ogni giro in proporzione geometrica.
Non posso concepire il processo di formazione di un antropologo alla Scuola DEA
come una spirale aritmetica, come un intreccio uniformemente arrotolato, soprattutto nel caso
di chi come me proviene da un corso di studi diverso: la linearità di quel procedere la riservo
al futuro, se avrò la ventura di operare in ambito DEA.
Nessun esperto cesserà mai di crescere né come persona né come studioso, né di
intrecciarsi con il proprio contesto, ma un veterano potrà farlo in maniera più lineare, più
rigorosa, meno entusiastica rispetto al neofita. E la professionalità acquisita compenserà di
pari passo il decrescere degli entusiasmi iniziali.
Le pagine che seguono tentano un’indagine su alcuni aspetti del patrimonio intangibile
con i quali sono venuta in contatto nel corso dello stage svolto presso l’Ecomuseo del
Casentino.
Ad alcune riflessioni teoriche, contenute nel primo capitolo, circa l’analisi degli
strumenti di garanzia presenti nel Codice dei Beni Culturali a favore del patrimonio
immateriale con un rimando agli strumenti di garanzia internazionali, nonché circa gli
strumenti che in tal senso può avere a disposizione il museo, segue un secondo capitolo
dedicato più puntualmente all’Ecomuseo casentinese, del quale propongo di leggere la
gestione quasi fosse anch’essa una pratica abile, un sapere esperto ravvisabile nella capacità
di negoziare tra le varie componenti della vasta realtà casentinese, su cui si intreccia la messa
in valore di altre più manuali abilità.
Il terzo capitolo è un excursus sulla prospettiva ecologica della cultura proposta
dall’antropologo inglese Tim Ingold, alla quale mi sono ispirata per la lettura dei successivi
oggetti dei miei rilevamenti: il sapere della mano dello scalpellino Alessandro Rialti e quello
della tessitrice Angela Giordano trattati negli ultimi due capitoli; quello sulla lavorazione
della pietra è corredato da un’appendice in cui tento una catalogazione degli strumenti donati
al Centro di interpretazione della pietra lavorata di Castel San Niccolò dalle famiglie di
scalpellini Colozzi e Rialti.
1 L’ambientazione è quindi tutta casentinese, articolata nelle molteplici declinazioni dei
saperi di una valle che pur meritandosi l’appellativo di landscape, ha costituito il task-scape,
lo scenario dei compiti, della mia formazione antropologica.
2 Il patrimonio immateriale nel Codice dei Beni Culturali e gli strumenti del
museo
Il patrimonio immateriale nel Codice dei Beni Culturali. Siamo gente abituata
all’abbondanza, noi Italiani, soprattutto in termini di vestigia culturali provenienti dal passato,
ingolfati nel dover gestire tanta dovizia e desolati forse all’idea che, oltre ai cumuli di nobili
rovine, dovremmo oggi scomodarci ad aprire nuovi capitoli relativi all’immateriale, perché gli
altri paesi lo fanno e taluni pure egregiamente.
La Scuola di Specializzazione ha previsto dettagliate lezioni tenute da esperti di diritto
che hanno esaustivamente fornito tutti gli strumenti per una riflessione sull’anomala posizione
italiana circa la tutela dell’immateriale e circa l’interpretazione della nozione di Patrimonio
Culturale, così piena di lacune e contraddizioni; adesso, per questa mia riflessione, sarei
addirittura tentata di rileggere per l’ennesima volta il Codice dei Beni Culturali e del
Paesaggio, per suggerire quali siano le zone di miglioramento in cui apportare proficuamente
le integrazioni a favore dell’Immateriale.
Ne uscirebbe però un’oziosa esercitazione scolastica da brava studentessa e nulla di più;
è risibile pensare che il Legislatore abbia fallito dove la studente - peraltro pressoché nuova
agli studi giurisprudenziali - potrebbe integrare, attingendo ampiamente alla normativa
internazionale.
Oppure, potrei farmi ingenuamente tentare da un esercizio, quello di entrare in un
museo, lasciando fuori le categorie del bello, ed ecco legittimati i Beni
Demoetnoantropologici, cosa che – demo a parte – il Legislatore ha già fatto.
L’ulteriore passo da fare sarebbe quello di apprezzare il paesaggio lato sensu, come
rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale; e anche qui il Legislatore è
arrivato prima di me.
Il passo successivo sarebbe poi quello di redigere in maniera integrata una legge di
tutela delle rappresentazioni immateriali più o meno visibili dell’identità di una comunità
patrimoniale; in questo caso a me spetterebbe il podio, dato che il Legislatore procede con
lentezza e si lascia tranquillamente sorpassare, vuoi dagli altri Stati, ma anche dalle regioni, in
primis da quelle a statuto speciale, molto intraprendenti in fatto di tutela, oltre che di
valorizzazione.
Se il Codice innalza barriere all’ingresso dell’Immateriale, quale sarà il motivo
sottostante - viene da chiedersi -, dato che ciò non è minimamente imputabile all’incapacità
dei suoi redattori?
Quello che intendo perseguire con il presente capitolo è di illustrare gli strumenti di
garanzia nazionali – a patto che esistano – con un accenno a quelli internazionali, unitamente
alla focalizzazione di alcuni interrogativi circa il paradosso italiano. Le risposte che attendo
giungeranno più agevolmente, una volta che siano state formulate almeno le domande…
3 Per un non iniziato - quale la scrivente - rispetto ai misteri del tempio del Diritto, quale
meraviglia di esaustività potrebbe apparire la definizione di bene culturale del Codice dei
Beni culturali e del Paesaggio (d. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42)!
Quella di cose mobili e immobili che presentano un interesse normativamente
qualificato, ovvero storico, artistico, archeologico, (demo?)etnoantropologico, archeologico,
archivistico, bibliografico sembra una definizione onnivora, la ben nota borsa di Mary
Poppins. E quella frase polare, apparentemente omnicomprensiva ‘mobili e immobili’, che
enuncia una caratteristica e poi il suo contrario per comprendere una totalità, degna veramente
di Omero, butta fumo negli occhi: mobili richiama in qualche modo il movimento, la volatilità
e – perché no? – l’intangibilità.
Purtroppo però si tratta di un semplice abbaglio, dato che il termine cosa fa riferimento
alle res corporales, non a un generico quid materiale o immateriale che sia. La cosa, mobile o
immobile, è pertanto qualcosa qui potest tangi.
Attenzione però a toccare con troppa disinvoltura una res museale, qualora sia posta
fuori da una vetrina: potrebbero scaturire conseguenze poco piacevoli se non sfuggite allo
sguardo del custode… Al museo è riuscito piuttosto bene il compito di rendere intangibile un
bene tangibile: dispone di vetrine e custodi.
Oggi però il museo è chiamato anche a espletare l’azione contraria, quella molto più
impegnativa di rendere tangibile un bene intangibile. Il futuro passa di qui e sarebbe bene non
temporeggiare.
Anche in ambito economico per esempio, a fronte della crescente importanza che
assumono le risorse immateriali nella creazione del valore d’impresa, il nostro paese fa una
grande fatica ad adeguare gli strumenti tradizionali al fine di misurare e rappresentare tali
risorse. E i risultati pullulano di termini stranieri…
Fortuna vuole che esistano anche gli antropologi. Questa categoria, poco assistita dal
Legislatore, è riuscita comunque a ripensare la funzione del museo, lo ha trasformato pure in
altro, in centro vuoi d’interpretazione, vuoi di documentazione, in museo d’autore senza
collezione e si è fatta venire in mente anche mille altre soluzioni alternative al museo a tutto
vantaggio dell’Intangibile.
Quello che dovrebbe essere chiaro, anche se chiaro non lo è ancora affatto, è che i
confini tra materiale e immateriale sono labili, se non inesistenti, qualora li si comprenda nella
categoria più ampia di bene culturale.
Il lucernario etrusco come la ciabatta della nonna posta in un museo sono tangibili e non
vanno toccati, per quanto l’andata in frantumi di un lucernario etrusco potrebbe portare
conseguenze diverse dal deterioramento della ciabatta. Comunque occorre non toccare alcun
bene museale, quando l’esposizione non proponga l’interattività con gli oggetti, con questi
beni museali materiali che travalicano sempre e comunque la categoria del materico,
divenendo portatori di un valore immateriale che comprende e trascende il bene materiale
stesso.
È però ingenuo, o forse comodo, credere che i valori immateriali possano essere tutelati
occupandosi solo delle concrezioni materiali che essi producono: questo è un approccio
estremamente riduttivo e indegno della complessità dell’universo nel quale oggi viviamo.
In nessun caso il patrimonio si esaurisce nell’oggetto: l’artefice etrusco è morto, ma la
sua attività e il suo saper fare può essere studiato e, volendo, anche riproposto. Una deliziosa
4 pagnotta al sesamo impastata dalle mani sapienti di un artigiano, assolutamente meno preziosa
del lucernario, rimanda a un saper fare ancora in atto, che è bene tutelare e non far morire
perché è salvaguardando le differenze minime tra i modi di operare dei vari gruppi che è
possibile crescere culturalmente, ed è possibile divenire capaci di percepire le differenze come
ricchezza ed educati al rispetto e al valore del nostro usuale che diventa meno usuale - ma
forse più interessante - per l’altro, vicino o lontano che sia.
L’estro dell’artigiano italico che ha forgiato il lume etrusco o l’anima del mondo
contadino che si esprime in altre concrezioni producono oggetti di valore economico diverso,
ma di pari spessore culturale, come degno di attenzione e di tutela – laddove è ancora
possibile – è il saper fare di entrambi.
Trascurando per un attimo i beni culturali, vorrei porre in risalto le innumerevoli
dematerializzazioni alle quali oggi stiamo assistendo. Lavoro nella P.A. e conosco quella
degli archivi a essa relativi: la scomparsa della carta dovrebbe istruirci; sembrava un supporto
irrinunciabile, eppure la nostra attività non muore con il morire del supporto cartaceo, le
attività e i procedimenti trovano altre maniere di espletarsi.
Le nuove generazioni, più aperte all’intangibile, tanto da affidarvi talvolta anche le loro
relazioni interpersonali, trovano il cartaceo, la materia, come un fardello inutile. E chi non è
proprio giovanissimo potrebbe dotarsi di un’apertura mentale che sappia trarre quanto di
proficuo esiste in tali nuovi atteggiamenti, lui che conosce il pregresso e assiste all’avvento
del nuovo.
A me pare che circa i beni culturali, la distinzione tra materiale e immateriale sia
difficile da fare, in un altalenare di rinvii tra oggetti e concetti: non vorremo mica ricorrere
alle percentuali?
Molto più semplice, quindi, sarebbe trattare il tutto alla stessa stregua con le opportune
sottoclassi, mediante una legislazione coordinabile, ben articolata e omnicomprensiva, alla
quale però l’Italia si ostina a rimanere sorda.
II
È un punto fermo che la Repubblica tuteli il patrimonio storico e artistico della nazione;
gli artt. 9 e 117 della Costituzione parlano chiaro: non escludendo il patrimonio immateriale, è
d’obbligo che lo comprendano. Il Codice 2004 parla ancor più chiaramente, escludendo però
molte delle declinazioni dell’oggetto di detta tutela, in pratica tutte quelle intangibili. All’art.
4 del Codice, le funzioni di tutela vengono tuttavia attribuite al Ministero per i Beni e le a t t i
v i t à culturali, così che l’intangibile, fatto uscire dalla porta, tenta con fatica di rientrare
dalla finestra. Evidentissimo resta comunque il fatto che circa l’immateriale il Codice dei beni
culturali e del paesaggio è pieno di zone suscettibili di miglioramento, e vorrei poter essere
smentita se affermo che esso non tutela affatto le espressioni immateriali della nostra cultura.
Dopo il 2004, circa l’immateriale il sistema giuridico italiano si è voluto arenare: le
modifiche apportate al Codice dal d. lgs. 62/2008, come andremo a vedere, hanno addirittura
peggiorato la situazione.
Non solo nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma pure nell’intera legislazione
italiana manca una disciplina organica che prescinda dalla staticità del bene culturale,
5 occupandosi invece delle dinamiche, dei processi culturali che danno luogo alla creazione di
quei beni tutelati dal Codice stesso. Siamo molto lontani dallo spirito della Convenzione di
Faro. Pare ci sia cara l’immagine del padre affettuoso che dà più importanza al pesce pescato da altri stavolta - per il figlio, che non alla capacità del pescare e alla sua trasmissione… Si
predilige il rema della cultura piuttosto che il logos, il singolo dialogo culturale, piuttosto che
l’atto del dialogare. E questo, nonostante il fatto che l’art. 1 del Codice parli di tutela
dell’intero (!) patrimonio culturale, che dovrebbe riferirsi all’universalità delle espressioni
culturali e sociali dell’uomo. Il procedere del gambero è infatti subito in agguato, ubicato in
posizione art. 2., dove la categoria di riferimento si situa in uno spazio angusto, limitata com’è
alla sfera del tangibile.
Parrebbe che solo scorrendo a ritroso nel tempo si possa trovare qualche bagliore. Con
l’espunzione del riferimento al materiale, la categoria di bene culturale, introdotta in Italia nel
1998 col d. lgs. n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle
Regioni e agli Enti Locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997 n. 59 art. 148),
avrebbe potuto semanticamente accogliere in sé tanto il tangibile quanto l’intangibile, se ‘ai
fini del presente decreto legislativo si intendono per (…) beni culturali quelli che
compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico,
archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di
civiltà così individuati in base alla legge’; purtuttavia essa non è mai riuscita a far emergere
tutte le proprie potenzialità. Le positive aperture realizzate in tale anno con la variazione della
denominazione del Ministero, ridefinito Ministero per i beni e le a t t i v i t à culturali, non
hanno trovato lo sviluppo che era invece opportuno, tanto che le stesse attività di alcune
articolazioni della struttura ministeriale, quali quelle dedicate allo spettacolo e al cinema,
restano escluse dal sistema codicistico del 2004, facendo riferimento – meglio di niente! - a
una regolamentazione da esso distinta che rimanda ad altri provvedimenti normativi.
E le restanti espressioni immateriali?
È un vero peccato perché già nel 1966 la Commissione Franceschini aveva gettato
buoni semi; era stata infatti superata la concezione estetica del bene culturale a vantaggio
della concezione storicistica. Pur parlando sempre di cose, si era tuttavia intrapresa una strada
interessante.
Si trattò di un cambiamento importante del punto di osservazione del bene culturale,
dato che la dottrina di riferimento era da tempo arenata sul valore estetico, tanto che non
disdegnava l’uso di espressioni quali bellezze naturali e panoramiche, che oggi - fuor di
contesto (legge 29 giugno 1939 n. 1497) – destano solo tenerezza o nostalgia. Il riferimento
alla storia della civiltà, di cui il bene culturale costituiva testimonianza materiale, il bene
culturale inteso come fattore di sviluppo intellettuale della collettività ed elemento della sua
identità, dovevano essere conquiste da coltivare con attenzione e far sviluppare con impegno.
Alla vigilia dell’adozione del primo codice dei beni culturali si era quindi assistito a un
passaggio progressivo dalla concezione estetizzante dell’arte a una di carattere storicistico,
collegata alla funzione sociale di sviluppo intellettuale della collettività e della conoscenza
della sua identità.
Questa tendenza portò all’introduzione nel ‘Testo unico delle disposizioni legislative in
tema di beni culturali e ambientali’ (d. lgs. n. 490/1999) – in un testo unico, quindi, che per
sua natura sarebbe un semplice raccoglitore – di una norma innovativa e carica di potenzialità,
che prevedeva espressamente le nuove categorie di beni culturali, per quanto individuate con
6 legge (art. 4), cosa che il d. lgs. n. 112/1998, sopra richiamato, pur avendo espunto il
riferimento alla materialità e pur avendo fatto riferimento al valore di testimonianza di civiltà
del bene culturale, non aveva fatto.
Quella norma del T.U. è rimasta purtroppo una scatola vuota che nessun provvedimento
legislativo ha voluto o potuto colmare.
Il bene culturale, pur riconosciuto nel suo valore storico, per i complessi meccanismi di
individuazione amministrativa, è rimasto intrappolato in tipologie precostituite e
frammentarie, senza trovare alcuna nozione teorica unificante. Il procedere elencativo,
adottato dal legislatore fin dal 1939 (l. 1089) e riproposto nel 1999 (d.lg. n. 490/1999),
produce una frammentazione del bene culturale che non aiuta certo a concepirlo in maniera
unitaria.
È all’interno di tale percorso che si colloca il Codice dei beni culturali e del paesaggio
(d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), strumento normativo certamente imprescindibile, anche se
purtroppo parziale, dato che non riesce a fornire una adeguata forma definitoria di carattere
generale al bene culturale. Il punto fermo nell’impostazione del legislatore del 2004 è che la
nozione di bene culturale fa riferimento a una cosa oggetto di un diritto patrimoniale. Tutto il
sistema codicistico presuppone che il bene culturale sia una cosa, individuata attraverso un
provvedimento amministrativo che ha per oggetto una cosa materiale. Ancora dunque gabbie
e gessi.
La scelta legislativa si àncora quindi fortemente all’impossibilità di estendere gli
strumenti di tutela propri dei beni culturali materiali ai beni che non si estrinsecano in
concrezioni materiali, si aggrappa tenacemente all’irrazionalità dell’applicazione della legge
vincolistica al patrimonio immateriale.
A guardare bene, a voler trovare a ogni costo un qualche intervento normativo
specificamente rivolto all’immateriale, qualcosa è possibile reperire nel nostro sistema, ma è
poca cosa, trattandosi di interventi sporadici e sconnessi. Cito, a titolo di esempio, la legge 15
dicembre 1999 n. 482 recante ‘Norme di tutela delle minoranze linguistiche storiche’ attuata
dal DPR 2 maggio 2001 n. 345, in attuazione dell’art. 6 della Costituzione, che tutela la lingua
e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate, di quelle
parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. Detta
tutela si espleta nell’obbligo di utilizzo della lingua protetta nei programmi scolastici, nelle
istituzioni pubbliche locali, nella toponomastica delle aree geografiche in oggetto.
L’originaria legge di delega del 2002, in particolare l’art. 10, comma 1, legge 6 luglio
2002, n. 137 delegava il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per il riassetto delle
disposizioni legislative in materia di cinematografia, teatro, musica, danza e altre forme di
spettacolo dal vivo: sarebbe potuto nascere un Codice delle attività culturali.
Sarebbe potuto.
La refrattarietà del sistema codicistico all’immateriale pare non sia suscettibile di
revisione alcuna. Se occorresse una conferma, è pronta a fornirla la novella del 2008 del
Codice dei beni culturali e del paesaggio che all’articolo 7 bis – come accennato in
precedenza - arena la nozione di bene culturale alla materialità, pur con l’occhio rivolto alla
normativa internazionale. Essa tutela infatti quanto previsto dalle Convenzioni Unesco
adottate a Parigi nel 2003 (Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale
immateriale 17 ottobre 2003) e nel 2005 (Convenzione Unesco sulla protezione e la
7 promozione delle diversità delle espressioni culturali 20 ottobre 2005) solo se rappresentate
da testimonianze materiali e sussistano i requisiti di applicabilità previsti dall’art. 10.
La tutela dell’immateriale viene quindi negata dall’art. 7 bis né integrata da altre fonti
normative italiane.
Nonostante il superamento della nozione di cosa di interesse storico-artistico a favore
di quella di bene culturale, nonostante l’introduzione della categoria di patrimonio culturale,
nonostante l’ampliamento delle competenze ministeriali alle attività culturali in base al d. lgs
n. 368/1998, l’impianto concettuale e giuridico italiano è voluto rimanere sordo agli input
internazionali che, ovviamente, molto prima del 2003 avevano prodotto spunti interessanti.
Basti un breve cenno all’interesse dimostrato in sede Unesco alla salvaguardia della tradizione
musicale mondiale, nonché alla salvaguardia di collezioni e luoghi legati al patrimonio
immateriale, e inoltre alla cultura tradizionale dei popoli dell’Europa centro-orientale; e pur
prescindendo dall’ambito Unesco, si registrano varie iniziative sul fronte africano, che non è
comunque opportuno dettagliare in questa sede.
Eppure i popoli del mondo - compresi noi, itala gente - desideriamo vivamente che il
sistema legislativo incontri l’immateriale: alla sordità del legislatore statale fa da contraltare
l’interesse che alcune regioni, a statuto speciale e non, hanno mostrato circa la convenzione
Unesco 2003. Si pensi per esempio alla Regione Sicilia che nel 2005 ha istituito il Registro
delle eredità immateriali di Sicilia, percepite in loco come soggette a un rischio di degrado
non inferiore a quello delle eredità materiali, o alle iniziative della Regione Lombardia che nel
2008 ha emanato una legge regionale sul patrimonio culturale immateriale che ha portato a
scelte marcatamente sperimentali: per la costituzione del Registro delle eredità immateriali
della Lombardia è stato emanato un bando che invitava le comunità locali a manifestare il loro
interesse per la costituzione di suddetto registro; la Regione non ha individuato quindi essa
stessa elementi significativi, ma si è aperta alle proposte dal basso, sperimentando nuovi modi
operativi recentemente illustrati nei dettagli da Renata Meazza, che ho ascoltato in occasione
di un seminario romano sul patrimonio culturale (VI Seminario:2013).
III
La Convenzione per la salvaguardia del patrimonio immateriale, adottata il 17 ottobre
2003 nel corso della 32esima sessione della Conferenza Generale Unesco, è stata ratificata
dall’Italia solo nel 2007 con la legge n. 167. A seguito di ciò, lo abbiamo già visto, il
legislatore ha ritenuto opportuno modificare il Codice dei beni culturali con l’introduzione
dell’art. 7-bis, al fine di fare chiarezza(!), considerata l’assunzione di obblighi internazionali:
nella Relazione illustrativa al d. lgs. n. 62/2008 il legislatore argomenta infatti che
l’introduzione dell’articolo sopradetto è nata dall’esigenza di evitare interpretazioni
fuorvianti, ridefinendo settori disciplinari contigui, ma non perfettamente coincidenti, in vista
degli obblighi assunti in sede internazionale, nonché per definire i confini tra la tradizionale
tutela dei beni culturali materiali e la salvaguardia relativa a manifestazioni e valori della
cultura immateriale.
Tutto ciò, nonostante il ruolo attivo e propositivo esercitato dal nostro paese nella fase
preparatoria precedente al 2003.
8 Ma procediamo per ordine.
Per la Convenzione, è patrimonio culturale l’insieme delle prassi, le rappresentazioni, le
espressioni, le conoscenze, il know-how che le comunità, i gruppi e talvolta anche gli
individui riconoscono come parte del loro patrimonio, un patrimonio che pulsa e respira
quindi, un patrimonio vivente affiancato anche dagli strumenti, dagli oggetti, manufatti e
spazi culturali che gravitano intorno alle predette attività.
La Convenzione riconosce quindi una unità ontologica ai beni culturali. Il trattato non si
contrappone alla tutela per i beni materiali, ma si propone di integrare i vuoti, superando le
gabbie dell’impostazione tradizionale che separa le due tipologie di beni senza creare un
necessario momento di collegamento tra le stesse. La Convenzione riesce magnificamente a
bandire ogni miopia di vedute considerando unitariamente le due tipologie di beni, che
saranno - è ovvio - trattati con strumenti diversi.
Per i beni paesaggistici l’Italia è riuscita a farlo, si tratterebbe di fare un ulteriore sforzo
non impossibile: proviamo a pensare a un patrimonio culturale unico, formato da diversi
elementi costitutivi tra cui - perché no? - anche i beni immateriali. Ciò comporterà una
differenziazione degli strumenti di tutela, fatto questo che non ha impedito al legislatore
internazionale di elaborare un’unica nozione comprendente l’identità e la continuità della
produzione culturale umana.
Se la tutela dei beni tradizionali si espleta in un’azione volta alla conservazione e alla
preservazione di un bene la cui immutabilità è auspicabile, la tutela del patrimonio
immateriale mirerà al contrario a garantire vitalità e mutamento al bene oggetto di interesse.
Ma la tutela di entrambe le tipologie di beni garantirà lo sviluppo della cultura: lo farà
sia la promozione del patrimonio storico artistico, e analogamente – se non con maggiore
incisività, mi si passi - la tutela e conservazione dei beni immateriali, nelle sue declinazioni
prima fra tutte quella della diversità culturale, che è un potente strumento per riavvicinare gli
esseri umani e assicurare gli scambi e l’intesa fra loro, la via maestra per accrescere la
comprensione del sé e dell’altro, in una logica di messa in comune delle più alte acquisizioni
delle peculiarità dei singoli gruppi.
La Convenzione Unesco del 2003 ha messo a punto un importante strumento, la Lista
rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità, accompagnata dalla
Lista del Patrimonio Culturale che necessita di una salvaguardia urgente. Entrano a far parte
di tale lista quei beni ritenuti rappresentativi della creatività e della diversità culturale
dell’umanità o che rappresentino il patrimonio immateriale di gruppi e comunità.
Oggi non sono più possibili proclamazioni di beni in quanto capolavori del Patrimonio
Culturale Immateriale dell’Umanità, come invece in passato. Oggi l’inserimento nella lista
passa attraverso la via della candidatura di specifici beni, proposta dai singoli Stati membri.
Tra gli strumenti di tutela previsti dalla Convenzione del 2003, è quindi l’obbligo degli
Stati membri di salvaguardare il proprio patrimonio nazionale attraverso la compilazione di
inventari di beni culturali immateriali. Gli Stati aderenti sono altresì tenuti a creare o
potenziare le istituzioni per la formazione, per la gestione e trasmissione del sopradetto
patrimonio, a garantire un accesso non invasivo a tale patrimonio, a creare istituzioni per la
documentazione di detto patrimonio, a facilitare le possibilità di accesso dei gruppi alle azioni
di salvaguardia, a presentare al Comitato rapporti periodici in merito all’operato.
9 Oltre a prescrivere gli obblighi, la Convenzione concede agli Stati che ne facciano
richiesta un’assistenza finanziaria per la realizzazione di programmi e progetti. All’uopo è
istituito un Fondo per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale in cui affluiscono
i contributi degli Stati aderenti, i fondi stanziati dalla Conferenza Generale dell’Unesco, vari
altri eventuali contributi.
A esaminare la Convenzione Unesco 2003 emergono quindi in forte risalto le lacune
della normativa italiana, limitata com’è alle evidenze materiali della cultura umana e priva di
rinvii a una normativa speciale di settore.
Come sostiene Grossi (2006:46-47), ai beni culturali immateriali non risulteranno
ovviamente applicabili una serie di istituti concepiti per quelli materiali, come l’obbligo di
restauro, l’alienazione, la prelazione e via dicendo, ma la distinzione degli istituti non provoca
ex se la diversità ontologica delle distinte categorie di beni.
Purtroppo lo spirito della Convenzione Unesco è stato snaturato dall’art. 7 bis del
Codice dei beni culturali e del paesaggio che tira di nuovo in ballo le cose di cui all’art. 10 del
Codice, ignorando astoricamente tutte le successive evoluzioni del pensiero giuridico
internazionale.
Con la nostra affezione per le elencazioni, si è prodotta una frammentazione del diritto
dei beni culturali che non tiene conto dell’unitarietà del fenomeno culturale e della necessità
di trattarlo con strumenti che siano, se non unitari, quantomeno coordinabili.
Una frammentazione concettuale, quindi immateriale, che a mio avviso è ben più grave
della frantumazione – materiale, quella - che potrebbe occorrere a un manufatto più o meno
antico!
Come accennato in precedenza, in relazione strettissima con il patrimonio culturale
immateriale si pone la diversità culturale, tanto che la tutela e la valorizzazione del primo non
fa altro che accrescere l’ampiezza delle sfaccettature della seconda. La tutela del patrimonio
immateriale non può prescindere dalla tutela dei diversi gruppi sociali che creano quei beni,
cosa che, se applicata, costituirebbe un’ottima premessa per una convivenza pacifica e
armoniosa di gruppi sociali diversi e un ottimo antidoto per l’intolleranza.
La Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni
culturali adottata a Parigi il 20 ottobre 2005 è stata ratificata dall’Italia nel 2007, senza
ripercussione alcuna nel Codice.
Essa mira a promuovere l’interazione tra le diverse culture attraverso il dialogo e nel
rispetto reciproco. Un modo per costruire ponti immateriali e importantissimi tra popoli,
imprescindibili per uno sviluppo sostenibile a beneficio delle generazioni presenti e future.
Essa tutela anche le persone appartenenti alle minoranze e le popolazioni indigene, il cui
sapere tradizionale è considerato fonte di ricchezza materiale e immateriale. La cultura delle
minoranze, lungi dall’essere considerato un fattore di discriminazione, costituisce una enorme
ricchezza, fonte di sviluppo culturale ed economico. La diversità diviene un fattore da
incoraggiare e non un elemento perturbativo da sopprimere attraverso l’uniformazione.
Nonostante quanto detto in precedenza in maniera forse un po’ ridondante e anche in
tono talvolta forse polemico, dato che l’intento del presente scritto non è quello
massmediatico di puntare a far cassetta, ma piuttosto quello di un’analisi quanto più …
10 disinteressata possibile (obiettiva è termine troppo pretenzioso), conviene dare a Cesare quel
che è di Cesare e non gridare allo scandalo.
Col suo operato il legislatore non ha eluso nessuna norma internazionale, dato che la
Convenzione Unesco del 2003 è stata ratificata. Certo è che, come detto in precedenza, si
poteva fare di più e di meglio.
Un breve accenno all’operato del Ministero per i beni e le attività culturali nei riguardi
del patrimonio immateriale è d’uopo per controbilanciare il disinteresse riscontrato nel Codice
per l’argomento. Con tendenza diversa rispetto a quella propria del legislatore, l’azione
amministrativa di tutela dell’immaterialità si è sviluppata anche verso quanto sia privo del
supporto materiale richiesto invece dalle norme. Degno di menzione è l’Ufficio Patrimonio
Mondiale Unesco che all’interno del Ministero svolge un’attività di coordinamento circa
quanto dettato dalla Convenzione; tale ufficio è inoltre parte della Commissione per
l’implementazione delle politiche di salvaguardia e promozione del patrimonio culturale
immateriale e delle diversità culturali coordinata dal Direttore dell’Istituto Centrale per il
Catalogo e la Documentazione; fra i compiti assunti dall’ufficio in esame sono l’attività di
catalogazione del patrimonio immateriale e la cura delle procedure necessarie per la
candidatura alla Lista rappresentativa.
IV
Esiste anche una frangia di antropologi eccentrici per i quali la tutela legislativa
snaturerebbe l’essenza del bene tutelato – si pensi alle ben note affermazioni di Fabio Dei in
merito all’ottava rima (Dei 2009:241) - con i quali chi scrive non è affatto d’accordo, perchè il
poeta è un artista e come tale ha bisogno di occhi attenti su di lui. Ma anche il fornaio non
verrebbe snaturato da una legislazione che si proponga di tutelare la realtà vitale del suo saper
fare, né qualsiasi altro artefice. Chi sa fare, artista o artigiano, dedica il proprio lavoro ad altri,
in un mondo fatto di intrecci relazionali, a cui è possibile aggiungere senza danno, anzi, con
enorme vantaggio, come altra componente, una legge di tutela.
È vero che i girasoli non tingono più di giallo le ridenti campagne toscane da quando è
stato chiuso il rubinetto dei contributi per tale piantagione e che una legge può cambiare
repentinamente i colori di un paese, ma tutto è parte di un sistema di relazioni al quale è bene
prendere parte consapevolmente, per poter decidere insieme del nostro futuro.
Tutto evolve, direbbe Ingold e prima di lui Eraclito, ed è bene rallegrarsi perché, seppur
la redazione del presente capitolo sia cosa piuttosto recente, questo breve lasso di tempo tra
stesura e revisione ha riservato il 27 febbraio 2013 una sorpresa: la firma a Strasburgo da
parte del Governo italiano della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore
dell’eredità culturale per la società, la cosiddetta Convenzione di Faro… foriera –
auguriamocelo – di importanti novità.
Siamo ben consapevoli del fatto che essa non genererà sostanziali mutamenti nel quadro
normativo italiano, ma ci auguriamo che possa almeno stimolare e arricchire il dibattito
pubblico sull’eredità culturale - cultural heritage è stato volutamente tradotto come eredità
culturale per evitare confusioni con la definizione di patrimonio culturale di cui all’art. 2 del
Codice –, facendoci interrogare stavolta su cosa possa fare il patrimonio per la società nelle
sue varie declinazioni, in termini di dialogo interculturale, ambiente, qualità della vita,
11 economia, sostenibilità, con un andamento diverso quindi rispetto a quello seguito finora, che
era invece volto a osservare cosa potesse fare la società per il patrimonio.
V
Gli strumenti del museo. Giorni fa mi è capitato di rivedere un vecchio sceneggiato
della RAI dal titolo Oblomov, tratto dall’omonimo romanzo di Gončarov che anni fa ebbi il
piacere di leggere.
L’inerzia di Iljà Ilìc, l’oblomovismo, che oggi potremmo chiamare semplicisticamente
depressione, è in realtà cosa complessa, comprendente anche quel crogiolarsi nella
ricostruzione di un mondo placentare su misura, tanto caro al nostro antieroe, sempre pronto a
procrastinare ogni benché minimo atteggiamento attivo. Quell’inerzia, appunto, mi faceva e
mi fa riflettere sulla staticità dell’abbondanza.
Quando i rubinetti sono sempre aperti, qualsiasi idea può funzionare, al punto che ci si
può persino permettere di rimanere a letto inerti a sperare che non arrivi nulla di nuovo.
Alla lunga non capita mai, però, che i rubinetti restino inesauribili e, in tempi di vacche
magre come il nostro, la necessità di idee - possibilmente di buone idee - si fa vieppiù
pressante.
La crisi che stiamo vivendo è senza ritorno e abbiamo già assistito a pericolose
decapitazioni operate da chi crede che, tagliando le teste, i corpi possano continuare a vivere.
Dimenticano cioè che un organismo - istituto o essere vivente che sia -, privato della testa che
contiene il cervello, non riuscirà neppure a vegetare. Al boia forse questo non interessa, ma
occorre ricordargli che un museo può avere dei costi anche da chiuso, e che è disdicevole
trasformare in sprechi quanto già speso per la sua creazione, risorsa che se coltivata potrebbe
costituire un ulteriore investimento, innescando un virtuoso effetto domino.
Non è questione di attendere che le fontane tornino a zampillare, non accadrà. Qualche
rubinetto potrà però riprendere a funzionare e dovremo far tesoro della risorsa che fornisce,
ripensando il museo nei suoi rapporti con la comunità e nei suoi sistemi di funzionamento,
con un percorso da avviare tempestivamente, se non è già in atto, e da portare avanti con
tenacia e convinzione.
Certo, bisogna fare i conti con la politica, spesso con quella deteriore che non riesce mai
a cogliere l’importanza delle cose silenti, attratta com’è unicamente dalle risonanze
massmediatiche, dal grande restauro più che dalla spolveratura dei quadri che nessuna
impresa di pulizie fa perché è pagata per altro. E’ un’impresa complessa, ma non impossibile.
Ciò che mi propongo di fare nei paragrafi successivi è di rispondere alla domanda
apparentemente banale che potremmo formulare così: perché i musei? indagando anche le fasi
storiche che hanno visto la trasformazione delle loro attività, non per giustificare la loro
presenza, ma per capire perché troppo spesso ci si trovi nelle circostanze di essere costretti a
giustificarla di fronte a chi contrappone la dimensione economica del museo alla sua visione
etica; per capire inoltre perché non sia immediato comprendere che i finanziamenti stanziati
12 per i musei sono importanti quanto quelli stanziati per gli ospedali; per capire perché i musei
sono più spesso luoghi ostili che amati, più spesso un peso che una risorsa nell’opinione
pubblica; per capire se sia possibile stilare una programmazione sostenibile per il loro futuro
muovendosi nei vicoli tortuosi che collegano la museologia al menagement.
VI
In questa sede è impossibile tacere l’intervento di Mario Turci a Buonconvento, in
occasione del Convegno I musei in tempo di crisi del 10 e 11 novembre 2012, una
manifestazione di portata nazionale in difesa dei musei demoetnoantropologici, fortemente
voluta da Simbdea e dal suo presidente Vito Lattanzi.
Mario Turci ha portato per mano i presenti attraverso una sua personale riflessione sul
valore dei musei, dei quali ha marcato la pregnante utilità sociale. Turci, sul campo tutti i
giorni in qualità di direttore del Museo Guatelli e del Museo degli Usi e Costumi delle Genti
di Romagna, ha portato al Convegno non sono belle parole, ma esperienze professionali
concrete, donando totalmente la sua professionalità capace di spaziare da una limpidissima
analisi delle ragioni di fondo del suo (co)operare fino a questioni contingenti di contabilità
quotidiana, mostrando come sia possibile essere al contempo in primo piano e riuscire a
mantenersi lontani da ogni sorta di autoreferenzialità.
L’intervento verteva sul tema del dono partecipativo e dei valori di legame, di cui tento
di riproporre i punti salienti.
I musei svolgono la fondamentale funzione di permettere negoziazioni interpretative
delle eredità, quindi di produrre patrimonio; tali negoziazioni diventano produttive, ovvero
utili alla collettività - sostiene Turci - quando attivano un patrimonio in forme sociali di
costruzione partecipata.
Per apportare fresca vitalità al museo, occorre porre in atto le strategie cruciali del dono
partecipativo, che attuino una critica al museo come luogo di definizione delle distinzioni
quali noi voi, dentro fuori, istituzione collettività, offerta consumo, a favore della creazione di
spazi terzi, quelli in cui le polarità si fondono, col ricorso all’etnografia che può fornire
un’ottima opportunità per una sorta di smontaggio delle referenzialità istituite.
Ponendo l’accento sul dono partecipativo e sul valore del legame da esso messo in atto,
il museo vitale rinuncia a porsi al centro della relazione, attuando così uno spostamento di
baricentro da cui far scaturire relazioni di scambio derivanti non dal potere dell’offerta,
sempre discrezionale, ma dal riconoscimento del proprio limite e provvisorietà, dal bisogno
irrinunciabile di collettività che deve caratterizzare tale tipo di museo.
La riflessione si è estesa poi a cosa sia il patrimonio. Ne è emerso che patrimonio è
ovviamente l’ereditato, che può concorrere a definire la qualità della vita della comunità, che
risulta dormiente e passivo se solo conservato e mostrato, attivo e produttivo se scambiato e
negoziato, in forme partecipative, quindi donate. Un patrimonio che sia di tutti, anche di
coloro le cui radici portano altrove. Un patrimonio che si trovi nel luogo della relazione, sul
territorio degli spazi terzi della costruzione negoziale dei prodotti creativi del noi insieme.
Il patrimonio così concepito trova sovente anguste le sale dei musei perché concepite
per altro, non certo per permettere i dialoghi e quindi le azioni collettive di produzioni di
patrimonio. Il patrimonio attivo e socialmente utile, che non sa stare nel museo così come lo
13 conosciamo, ci pone di fronte all’esistenza di due pratiche museali: la prima impegnata solo a
mostrare il patrimonio, la seconda a produrlo. A operare la scelta di aderire a una delle due –
mi permetto di dire – credo sia il capitano della nave, ecco a cosa serve la guida, direttore o
coordinatore, che lo si voglia chiamare.
Lo sguardo di chi gestisce i musei, ma anche dei fruitori, è troppo spesso rivolto alla
cosa conservata, all’eredità; è uno sguardo pacificato, mentre è ora che si volga verso il
patrimonio, che è contemporaneo, guizzante di dubbi e di vita.
Il rapporto tra la comunità e il patrimonio dovrebbe definirsi con costante riferimento
alla percezione che la prima ha del secondo, per sviluppare un sentimento di coscienza e
appartenenza a quelle relazioni patrimoniali che hanno determinato l’eredità che noi oggi
abbiamo disponibile, relazioni alle quali noi apparteniamo per storia, cultura ed eredità,
perché da esse deriviamo.
Turci propone poi il superamento dell’etica della restituzione. E’ infatti riduttivo dire
che il museo - gestendo qualcosa che è di altri – debba attuare pratiche di valorizzazione allo
scopo di restituire e arricchire la produttività del patrimonio gestito. A Turci non basta che il
talento non sia posto sotto terra. Egli propone piuttosto il superamento di quest’ottica a favore
di un’etica del Custode. Forse lui userebbe la lettera minuscola, non so. (P.S. Turci usa la
minuscola, ho trovato una sorpresa sul sito di Simbdea…). Ciò comporta la rinuncia alla
posizione autorevole di colui che dispone del bene, per assumere quella del garante del
presidio di cittadinanza. Il museo si fa dunque custode per la comunità, sentita la comunità, si
fa strumento per la costruzione di spazi terzi della gratuità e reciprocità, del dono
partecipativo, dove non esiste più un io che lavoro con te, ma un noi insieme.
Nel caso di musei etnografici che siano contenitori pacificati di oggetti, il patrimonio
resta fuori da essi, attuali al proprio tempo, poi inerti, dove l’eredità resta senza vita,
socialmente passiva e politicamente obsolescente.
La forma di museo etnografico fortemente caldeggiata è quella dei musei partecipativi,
sempre inquieti, musei mai soddisfatti, musei d’etnografia più che etnografici, di pratica e
ricerca etnografica, dove si attivi la cittadinanza, dove il patrimonio sia scambiato, attivo,
partecipativo e proiettato nel contemporaneo.
Il piccolo museo d’avamposto così concepito si regge e si nutre delle relazioni che ha
saputo tessere investendo tempo e durata, così che - attuando la pratica del dono partecipativo
– esso si offre alla collettività come un possibile approdo di speranza nella bufera dei giorni
nostri.
Il museo d’avamposto è il luogo della cura della relazione, dove fragilità e precarietà
vengono percepiti come valori, dove è possibile rassicurarci reciprocamente del fatto che in
quella nostra fragilità e precarietà sta la vera forza, quella che non ama ostentazioni e che
apprezza la ricchezza derivante dallo stare insieme.
I musei – conclude Turci citando Simic e Agamben - dovrebbero essere sempre inquieti,
precari e fuori moda, quindi permanentemente contemporanei.
VII
Il forte stimolo all’azione, soprattutto a quella semplice e quotidiana ma ponderatissima,
che scaturisce dalle parole di Turci è a mio avviso di enorme portata perché è ben lungi dal
14 buonismo di chi disdegna di parlare di denaro; il dono partecipativo va infatti oltre il pur
nobile e utilissimo tempo che il volontario mette a disposizione della collettività, lo
comprende, ma non si esaurisce in esso. Il dono partecipativo non implica affatto la gratuità in
termini economici. È dono partecipativo la relazione, la percezione di come sia utile,
gradevole, appagante riuscire a crearla; relazione che, per essere sostenibile, deve
naturalmente fare i conti anche con cifre di carattere prettamente economico.
Nell’intervento del pomeriggio, Turci ha parlato poi - dati alla mano - delle realtà da lui
dirette e ha indicato una serie di strategie messe in atto per fronteggiare la situazione in cui
oggi versano i musei, strategie riconducibili alla resilienza.
Il discorso, per quanto di estremo interesse, non sarà riferito in maniera puntuale, perché
le finalità del presente lavoro prevedono l’analisi di casi concreti tratti dall’Ecomuseo del
Casentino.
Tenterò comunque una breve sintesi delle strategie di cui egli ci ha fatto partecipi.
Turci ha sottolineato dapprima che la forte riduzione delle risorse tipica dei nostri giorni
porta come prima e immediata conseguenza alla riduzione del personale; l’assorbimento quasi
completo delle risorse disponibili è dato dalle spese di funzionamento: le risorse per la
formazione del personale, per le attività di valorizzazione, per l’attività scientifica restano
scarse, con la conseguente riduzione delle capacità operative del museo.
La stessa programmazione strategica, fondamentale per attivare strategie volte
all’ottimizzazione delle risorse stesse, è difficilmente attuabile, quando si debba campare alla
giornata.
Ulteriore e gravissima conseguenza è poi la passività del patrimonio; esso resta inerte se
non si hanno i mezzi per metterlo in gioco, e tale passività si ripercuote su tutta la collettività.
Ogni risposta sotto il segno della resistenza, ovvero nel cercare di parare il colpo, è destinata a
vita breve, se resta esclusivamente sotto il segno della difesa. Il giusto approccio è infatti
improntato alla resilienza, a quella capacità di piegarsi che non è debolezza, ma elasticità e
che, sola, permette di rispondere in modo dinamico, positivo e propositivo, con rilanci
continui dei propri progetti.
Le strategie da attuare sono volte a far diventare il museo un luogo che faciliti la
relazione, un luogo che attivi alleanze, intorno al quale si possano trovare soggetti interessati,
compagni di strada, con cui condividere anche solo qualche interesse generale, in modo da
salvare con la strategia dell’accentramento almeno i servizi comuni. Su queste basi e grazie ad
esse, poi ognuno potrà coltivare i propri interessi particolari.
La rimodulazione degli stipendi, guadagnare di meno per mantenere i posti di lavoro a
tutto quanto il gruppo, sono forme di resistenza, dalle quali non si può prescindere. Cercare di
non toccare gli stipendi più deboli, avere uno staff coeso è altrettanto indispensabile.
Sono poi da mettere massimamente in valore le competenze del personale del museo,
che conterà meno prestazioni professionali individuali, a tutto vantaggio della barca comune
nell’oceano in burrasca. Le competenze di cui sopra saranno quelle spendibili con le
amministrazioni, che ne potranno fare richiesta per la soluzione di tutti i problemi di natura
tecnica, quali la formazione del personale, i chiarimenti su cosa sia una missione o la
redazione di una carta dei servizi museali.
Qualora si creino reti museali, è bene non spendere tempo a creare parametri specifici
per l’ingresso o l’esclusione degli aspiranti. È consigliabile invece accogliere tutti e delegare
alla messa in atto degli standard museali la selezione naturale tra chi ha intenzione di correre,
15 di fermarsi o di uscire. La garanzia non è tanto nella prospettiva di un sistema eccessivamente
strutturato e chiuso, ma nella ipotesi di una comunità dinamica di cui fa parte chi sottoscrive
un patto, che comporta un dare e un avere non necessariamente economico. È chiaro che un
sistema coordinato avrà maggiori possibilità di trarre dagli enti territoriali dei proventi, sia per
il coordinamento, sia per le singole attività coordinate.
Alla museologia il compito di ripensare la missione del museo, di ridefinirne l’assetto
istituzionale, di riproporne il messaggio culturale, di individuare metodi e strumenti nuovi per
comunicare con il pubblico. E’ auspicabile che i tavoli non siano di offerta unilaterale, ma di
coprogettazione. E’ opportuno instaurare un rapporto privilegiato con la soprintendenza,
divenirne consulenti, ciò che apporta denaro, ma anche riconoscibilità, nei confronti per
esempio dei potenziali sostenitori del museo.
Questo è quanto è stato possibile ricavare dall’esperienza di Turci al Guatelli.
Nel caso di musei ufficio, non è detto che non possano trasformarsi in istituzione, e
assicurarsi quindi autonomia di bilancio, un proprio consiglio di amministrazione, pur
rimanendo enti strumentali del comune. L’esperienza del Museo degli Usi e Costumi delle
Genti di Romagna mostra come sia possibile un ulteriore passaggio, quello verso la
fondazione di partecipazione, e l’attivazione di una sorta di MAB, che integra musei, archivi e
biblioteche, ma anche cinema e teatro, al fine di coinvolgere quanto più possibile la
collettività.
Di estremo interesse è la creazione di incubatori aziendali, che vede l’incontro di chi gruppi associati, giovani cooperative o giovani imprese - disponga della nuda risorsa del
tempo unita alla formazione professionale, con chi - la fondazione - ha come nuda risorsa il
patrimonio, per sperimentare se all’interno di quel patrimonio sia possibile fare impresa.
L’impresa tiene aperto il museo col permesso di utilizzare il bookshop come un proprio
negozio in cui vendere anche del materiale estraneo al museo; i proventi di tali vendite restano
ovviamente nelle tasche della giovane impresa, almeno nella fase di incubazione: il museo si
vede garantito l’apertura per un’irrisoria somma di denaro, la giovane impresa può dispone
gratuitamente dei locali, in una sorta di virtuosissimo ‘allargamento della torta’. Se poi
avvenisse il decollo e l’impresa dovesse funzionare, potranno essere riscritte nuove forme di
rapporto. Il lavoro dell’impresa è già un risultato di rilevanza sociale, poi potranno arrivare
pure i risultati di natura economica.
Per la promozione, mettendo insieme le somme - singolarmente irrisorie - che più
soggetti sono disposti a stanziare, è possibile raggranellare risorse per un’assunzione che curi
quell’aspetto per tutti; se la cifra stanziata da ognuno sarà garantita per almeno un
quinquennio, la cooperazione permette di creare posti di lavoro anche in tempo di crisi.
La creazione di una struttura sempre più articolata finisce col divenire appetibile, al
punto che vengono avanzate le prime richieste di ingresso anche da parte di imprese private
già decollate. La nostra resilienza – conclude Turci – è stata nel cercare di fare comunità
ponendo l’accento sul valore di legame, con la creazione di una fondazione che ha impostato
la propria attività sul desiderio di ottenere dei ricavi - economici e non - proprio dalla
relazione, in un connubio sempre rinnovato tra sostenibilità economica e culturale.
16 VIII
Dopo le esperienze riferite da Turci dei paragrafi precedenti, da lui esposte a
Buonconvento in due brevi e densissimi interventi della durata complessiva di poco più di
un’ora, vorrei ora condurre – in perfetta linea con esse - una ulteriore riflessione sulla scia
delle lezioni tenute dal Prof. Lattanzi e di quanto esposto nel testo di Fabio Donato, professore
di Economia aziendale, e Anna Maria Visser Travagli, archeologa e museologa, Il museo oltre
la crisi, libro che per la stessa ragione di essere stato scritto a più mani da autori con le
professionalità sopra indicate, la dice chiara sulla possibilità di un dialogo tra museologia e
menagement.
Vorrei far ruotare il discorso intorno ad alcune parole chiave.
Autonomia
Un museo che non si limiti a conservare, ma che elabori e produca patrimonio culturale
deve essere dotato di autonomia per perseguire la sua missione, che scaturisce da quella
complessa operazione di sintesi tra una visione politica e un contenuto professionale.
Le finalità e gli obiettivi fondamentali che un museo pubblico intende perseguire
devono in primo luogo essere individuati dai decisori politici dopo un’attenta analisi del
contesto e un’articolata fase di ascolto della comunità; tali indirizzi dovranno ben adattarsi
alle peculiarità del patrimonio; le potenzialità da esso suggerite saranno poi sviluppate da chi
sappia tecnicamente utilizzarle, i professionisti del patrimonio, dai quali non è possibile
prescindere, pena – nella migliore delle ipotesi - una deriva del patrimonio culturale verso
un’attività di mera natura commerciale. La presenza di professionisti è una risorsa strategica
di prim’ordine, da incentivare a tutto tondo, dall’ambito culturale e relazionale a quello
manageriale, a quello tecnico. Sempre più spesso essa viene invece mortificata, a causa del
restringimento delle risorse.
Il direttore e i curatori devono interagire con politici e amministratori e, sinergicamente,
relazionarsi con una pluralità di soggetti esterni, in modo che interlocutori vecchi e nuovi,
potenziali apportatori di risorse aggiuntive, possano fare elargizioni generose avendo
maggiori garanzie sulla destinazione dei fondi da loro stanziati. La presenza di professionalità
tecniche rende maggiormente percepibile la sponsorizzazione come un rapporto di dare avere
ben definito, mentre talvolta si è portati a percepirla come una mera donazione,
sottovalutando il ritorno d’immagine che il mondo della cultura è in grado di garantire.
Direttore e curatori dovrebbero poi cogliere le opportunità offerte dalle innovazioni
tecnologiche e, mettendosi in relazione con le nuove professionalità tecniche, attivare
programmi e iniziative di comunicazione con nuove categorie di pubblico. Operazioni tutte
poco agevoli da compiersi con gli occhi bendati e le mani legate: il direttore dovrebbe essere
messo in grado di gestire il bilancio e le risorse umane, per rendere possibile la realizzazione
di progetti culturali di ampio respiro. Di fronte a un ricambio spesso veloce di politici,
amministratori e dirigenti tipico del sistema pubblico italiano, il direttore dovrebbe essere un
punto di riferimento, una garanzia per la continuità e la stabilità della gestione del patrimonio.
In breve, il museo dovrebbe vedersi garantita l’autonomia scientifica, amministrativa e
gestionale per poter operare nel rispetto – certo – dell’indirizzo fornito dai politici sulla base
del mandato ricevuto dai cittadini, instaurando un dialogo che non snaturi le specificità e i
17 riferimenti scientifici e culturali degli interlocutori, un dialogo in cui non ci si parli sopra, ma
si ascoltino sempre le ragioni dell’altro.
Le responsabilità delle scelte strategiche da una parte e quelle di scelte organizzative e
gestionali dall’altra, dei politici e del direttore cioè, devono essere collegate, ma sempre
distinte; integrate, ma mai confuse.
Pubblico e centralità della persona.
Oltre alla crisi economica, il museo è chiamato ad affrontare anche quella morale e
istituzionale; esso deve sempre più spesso giustificare la propria esistenza, convincere che può
giocare un ruolo nel benessere di un paese, che può apportare un contributo in termini di
occupazione, istruzione, solidarietà e solidità sociale, esplicitare che produce ricchezza,
economica e non.
Di fronte alle velocissime trasformazioni della società, il museo sta adottando indirizzi e
missioni nuove. Se nel nostro paese vi è stata una lunga fase, anteriore alla scoperta del
pubblico, durante la quale il museo si concentrava sulle élite intellettuali e sociali, in possesso
dei codici per decifrare i messaggi museali; fase a cui è seguita una seconda, quando il
pubblico venne inteso come massa da educare, nel comportamento come nell’apprendimento,
imponendo divieti e contenuti prestabiliti; la terza fase ha visto il pubblico assumere un ruolo
rilevante, ma solo alla stregua di un utente, che rimane destinatario passivo dei messaggi
trasmessi dal museo.
Oggi il museo è chiamato ad abbattere le barriere cognitive, psicologiche e sociali che
tengono il pubblico a distanza, e ciò contestualmente alla contrazione dei finanziamenti.
Mettere in atto una maggiore capacità attrattiva diviene pertanto indispensabile per questioni
di sopravvivenza, ma enfatizzare gli strumenti di marketing limitandosi a rendere efficienti
solo i servizi aggiuntivi non è una politica lungimirante. Occorre che il museo rifletta
sull’esperienza offerta ai visitatori, per instaurare con essi un dialogo di condivisione della
responsabilità del patrimonio culturale, facendosi un sistema di interpretazione, un museo
relazionale, attento ai bisogni espressi e latenti del visitatore, che è anche interlocutore e pure
cittadino. Ne deve scaturire un nuovo modello di museo comunicativo e inclusivo, che sia
capace d’interpretare l’identità nazionale e confrontarsi con espressioni di altre culture,
diffondere conoscenze, suscitare emozioni, favorire la partecipazione e l’inclusione sociale,
stimolare la discussione e il confronto sui problemi, educare alla cittadinanza attiva e alla
partecipazione consapevole.
Occorre che il museo si faccia più attraente, di un’attraenza stabile, migliore delle
lusinghe offerte dalle mostre che devono se mai divenire un mezzo strumentale del museo,
non il diretto concorrente. Il pubblico deve capire l’importanza della ricerca, dell’impegno di
lunga durata che porta alla creazione del patrimonio e deve dare il giusto peso all’effimero,
alla visibilità immediata apportatrice di consenso, che seppur seducente è solo in grado di
apportare beneficio a poche categorie economiche, senza alcuna utilità sociale. La dimensione
economica del museo, insomma, non può essere ridotta all’ottenimento di ricavi sempre più
ingenti, senza alcuna tensione etica e culturale.
Il museo deve curare il patrimonio per trarne valore, non per tradurlo immediatamente
in affare; esso deve fare bene il suo mestiere e diventare un punto di riferimento per la
collettività.
18 Sostenibilità
Qualsiasi progetto culturale perde ogni consistenza e utilità sociale se non è sostenibile.
Il patrimonio culturale ha infatti - oltre a una sua natura culturale - anche un’altra natura di
ordine economico, in quanto esistono dei costi indotti dalla sua gestione, tutela, conservazione
e comunicazione; in quanto le politiche di sviluppo e della fruizione del patrimonio culturale
non potrebbero esistere senza gli investimenti a esse destinati; in quanto intorno al patrimonio
possono svilupparsi virtuose iniziative economiche tali da generare occupazione e benessere.
La messa in valore del patrimonio, evitando l’inquadramento all’interno di operazioni
speculative o comunque di breve periodo, deve trovare spazio in politiche di ampio respiro
inserite nella visione globale di sviluppo economico e culturale del territorio, che favoriscano
la partecipazione della comunità.
L’adozione di una prospettiva economica e aziendale non deve portare il museo a
trasformarsi in un’impresa orientata al profitto e a perseguire esclusivamente logiche di
mercato in contrasto con le proprie finalità istituzionali. Tuttavia le attività del museo devono
espletarsi in condizioni di equilibrio economico a valere nel tempo, di sostenibilità economica
duratura dei progetti messi in atto. Finalità culturali e sostenibilità economica devono
intendersi collegate, anziché contrapposte, secondo la logica dell’et et, da prediligere
senz’altro, ogni volta che sia possibile, a quella dell’aut aut. Se il perseguimento di finalità
istituzionali di un museo avviene fuori dalla sostenibilità economica, esso ingenera con ogni
probabilità delle perdite di esercizio, che costituiscono – comunque le si pareggino – un danno
sociale, che può riguardare anche le generazioni future. Viene in mente la nota equazione di
Dickens: in 19, out 20 = happyness; in 20, out 21 = misery. I ricavi devono essere in grado di
coprire i costi, intendendo per ricavi non solo quelli ottenuti in maniera autonoma dal museo
attraverso iniziative commerciali, ma anche quelli provenienti da contributi pubblici,
espressione del valore economico attribuito da un’amministrazione pubblica al valore
pubblico creato dal museo all’interno di una comunità. I disavanzi si traducono sempre in un
danno economico, che si traduce a sua volta in danno sociale. L’adozione di logiche
manageriali diviene quindi una necessità in termini sociali, oltre che economici.
I due elementi cardine di ogni azione manageriale, ovvero l’efficacia, che è il grado di
raggiungimento degli obiettivi qualitativi e quantitativi programmati, e l’efficienza, ovvero la
capacità di contenere al minimo i costi sostenuti per raggiungere gli obiettivi perseguiti, sono
dunque da leggersi anche in chiave sociale.
Occorre saper gestire, organizzare, ma anche misurare quanto si è fatto, prestando
attenzione alla frequenza delle misurazioni e alla quantità degli elementi misurati. Non si può
gestire ciò che non si misura, si dice nel linguaggio manageriale; e per un museo misurare è
necessario non solo per decidere, ma anche per comunicare, per stabilire un rapporto con i
propri interlocutori basato sulla apertura e sulla trasparenza. Certo è più facile misurare il
fatturato che non l’efficacia educativa di un museo o il contributo allo sviluppo di una
sensibilità culturale nelle nuove generazioni; sono misurazioni difficili, che il museo deve
imparare a compiere evitando semplificazioni e contrapponendo complessità a complessità. Il
sistema di misurazione deve essere articolato, multidimensionale, in grado di connettere tra
loro vari aspetti e di trovare un insieme significativo di informazioni da misurare. Non troppe,
perché costoso e inutile, né troppo poche, per evitare che i risultati non siano significativi. La
conoscenza del management oggi non è più un elemento accessorio, ma una necessità da cui il
direttore di museo non può prescindere, qualunque sia la sua formazione, per non incappare in
19 facili errori, come il rischio che a fronte di minori contributi si proceda immediatamente al
taglio dei costi.
Strumenti manageriali
Occorre che l’introduzione avvenga in maniera graduale e che tutto il personale ne
percepisca l’utilità, in modo che – focalizzando l’attenzione sulle persone prima che sugli
strumenti - si possa agevolmente superare ogni resistenza al cambiamento. Per i nuovi musei
occorrerebbe che ancor prima della loro apertura, nella fase di progettazione, accanto ai
progetti architettonici vengano presentati anche quelli gestionali. L’introduzione degli stessi
sarà volta al contenimento dei costi - che andrà di pari passo col monitoraggio della qualità -,
alla comunicazione con il pubblico, al miglioramento delle condizioni organizzative.
La programmazione si baserà sull’analisi dei bisogni da soddisfare, con uno sguardo
decisamente più costruttivo di quello di tipo incrementale; secondo l’ottica suggerita da
quest’ultimo – essendo il riferimento dato dalla situazione di chiusura dell’anno precedente le decisioni dipendono dall’osservazione del passato, che a sua volta dipendeva da un passato
ancor più remoto, con un orientamento che non favorisce certo l’innovazione e la
sperimentazione. È invece senza dubbio preferibile tastare il polso dei bisogni presenti e,
partendo da essi, vedere quanto si possa fare con le risorse disponibili, mentre spesso si volge
immediatamente lo sguardo alle risorse e su quella base, in maniera del tutto fuorviante, si
calcola cosa si possa fare. Andando dal macellaio, occorre chiedere 10 euro di carne bianca,
se di quella ho bisogno, non un quantitativo più abbondante possibile di carne di qualsiasi
natura che possa rientrare nella cifra stanziata.
Si devono poi affiancare agli strumenti contabili quelli extracontabili, legati alla
misurazione del capitale intangibile, come accennato in precedenza. Occorre coniugare
l’orientamento all’efficienza con quello alla qualità, la prospettiva strategica di lungo termine
con quella operativa di breve termine.
Imprescindibili, sono i piani strategici, che trovano il loro corrispettivo nei business
plan delle imprese, definizione che per i musei è meglio evitare, in quanto evocatrice di
logiche di stretta natura commerciale, miranti al perseguimento del profitto.
Le strategie di lungo termine sono di competenza degli organi politici, sono loro i
responsabili delle grandi scelte di indirizzo, da prendersi comunque di concerto col direttore,
sulla base di una conoscenza sostanziale del museo e del contesto nel quale esso opera.
Nei fatti, l’attività d’indirizzo e di controllo propria degli organi politici che ricercano
legittimamente il consenso sociale e quella di effettiva gestione propria dei dirigenti, che
mirano altrettanto legittimamente a gratificazioni professionali e - perché no - anche
economiche, è difficilmente separabile in maniera netta, motivo per il quale è auspicabile un
dialogo continuo fatto di reciproca comprensione.
Contabilità economico-patrimoniale o contabilità finanziaria? Non tutti i musei adottano
lo stesso sistema contabile. Nei musei privati o in quei musei pubblici che operano attraverso
una forma giuridica privata (la fondazione di partecipazione), il sistema contabile di
riferimento è quello della contabilità economico-patrimoniale.
Per quei musei pubblici che operano attraverso la forma di gestione in economia, i
cosiddetti musei ufficio, il sistema contabile del museo è compreso in quello dell’ente
pubblico di riferimento. Quindi, nella grande maggioranza dei casi, si tratta di un sistema di
20 contabilità finanziaria. Quest’ultimo è un sistema contabile di tipo autorizzatorio, il cui
obiettivo è di verificare che i flussi di entrata e di uscita siano ricondotti allo svolgimento
delle attività deliberate dagli organi politici, e non si verifichino situazioni di distrazione del
denaro pubblico. È un sistema contabile coerente con un assetto istituzionale fortemente
accentrato, nel quale vi siano movimenti finanziari tra i diversi livelli dello stato, dalle
amministrazioni centrali verso quelle periferiche.
La contabilità economico–patrimoniale è invece espressamente finalizzata alla verifica
delle scelte adottate. Si concentra quindi sugli effetti delle decisioni, permette di analizzare il
grado di efficienza della gestione, ossia il consumo di risorse sostenuto per le finalità
prescelte. È questo un sistema contabile tipicamente adottato da quelle organizzazioni sia
profit che non profit che operano in condizioni di forte autonomia. Esso consente di procedere
a mirate analisi dei ricavi e dei costi; consente non solo l’analisi del valore delle voci in
termini assoluti, ma anche come ognuna di esse incida sul totale complessivo dei costi di
gestione del museo e come tale incidenza si modifichi nel corso del tempo. Permette di
distinguere tra costi interni ed esterni, fissi e variabili. Permette anche l’analisi dei ricavi,
suddivisibili in quattro grandi aree: contributi pubblici, fundraising o membership, ricavi
commerciali e ricavi da biglietteria.
Per un museo che viva principalmente di contributi pubblici ottenuti da enti sovrastanti,
è preferibile la contabilità finanziaria, in quanto i benefici derivanti dall’adozione dell’altro
sistema sarebbero nulli - dato il ridotto grado di autonomia -, e certamente minori rispetto ai
costi e ai sacrifici derivanti dalla sua introduzione.
Non esistono comunque ricette precostituite, perché, anche se il sistema di contabilità
economico – patrimoniale potrebbe in teoria convincerci di più, vi sono dei casi in cui la sua
scelta si rivelerebbe un vero e proprio spreco di tempo, soprattutto in realtà piccole e dotate di
scarsa autonomia gestionale.
Occorrono poi strumenti con un’ottica prevalentemente rivolta all’esterno, che sia
comunicativa e partecipativa. Le azioni di fundraising, per esempio, avranno buon esito solo
se il museo sia considerato una risorsa preziosa non solo dalla comunità culturale, ma
dall’intera collettività. Ben venga il bilancio sociale, se questo si emancipa dalla pura
autoreferenzialità per divenire uno strumento di raccordo tra interno ed esterno. Ben vengano
soprattutto i bilanci partecipati e le mappe di comunità.
Reti e sistemi museali
I grandi cambiamenti organizzativi hanno riguardato soprattutto l’organizzazione
esterna dei musei, il sistema delle loro relazioni con una pluralità di soggetti diversi tra loro,
che ha portato alla progettazione di reti e sistemi museali.
I soggetti aderenti a una rete sono tipicamente tutti musei di una certa natura, in una
situazione gerarchica paritaria volta a ottimizzare l’organizzazione, nella quale un soggetto
designato può svolgere un ruolo di coordinatore. Gli obiettivi saranno quelli di confronto,
dialogo e progettualità nell’ambito di un medesimo settore culturale.
Le reti sono quindi prevalentemente di carattere tipologico, raggruppando cioè solo
musei tipologicamente affini. La rete tende a non avere limiti territoriali e mostra una
propensione all’internazionalizzazione.
21 Il sistema è classicamente promosso da un’amministrazione pubblica territoriale
(Provincia, Regione o altro) che svolge un ruolo di governo e regia del sistema. Gli obiettivi
sono quelli di reciproca integrazione, di sinergico rafforzamento e di promozione dell’offerta
museale del territorio. Ai sistemi museali partecipano soggetti tipologicamente differenziati
tra loro, ubicati in un ambito territoriale ben delimitato e predefinito.
Prima di chiudere il presente capitolo, un’ultima considerazione sull’autonomia dalla
quale ero partita. Oggi la velocità del cambiamento è superiore alla possibilità di adattamento
da parte delle organizzazioni e delle persone; quando l’adattamento è avvenuto, la situazione
si è già trasformata. Per questo il museo, soprattutto quello che fa del pubblico il centro della
sua missione, è sottoposto a una tensione continua fra la conservazione e l’innovazione. E non
sempre le scelte adottate su larga scala hanno sortito l’effetto sperato. Per esempio, le novità
introdotte dalla riforma dell’amministrazione pubblica e dal nuovo orientamento all’efficienza
aziendale dei servizi tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila ha ostacolato il
cambiamento anziché favorirlo, perché la struttura amministrativa è divenuta più rigida, più
gerarchica e più burocratica.
La chiave di volta sulla quale poggiare la trasformazione e il miglioramento
organizzativo del museo è il riconoscimento dell’autonomia. È impensabile che un direttore
nel museo ufficio non possa intervenire sulla manutenzione, sugli acquisti delle necessità
quotidiane, sul personale dipendente, senza attendere le lungaggini burocratiche del transito
dei procedimenti attraverso le competenze di altri uffici. In un mondo che corre, ogni buona
occasione andrebbe colta all’istante, con il grado di autonomia che permetta di farlo.
Abbandonate le vacue chimere di visibilità e consenso immediato, occorre darsi molto
da fare, perché i nostri sono tempi duri. Lasciare che le cose si aggiustino da sole sarebbe
come se di fronte ai risultati scolastici poco gratificanti di nostro figlio che pur ama la scuola,
lo si invitasse ad attendere la fine dell’anno scolastico nella speranza di un miglioramento
dell’umore dell’insegnante. Come se dipendesse da lei.
Messi al riparo da situazioni di comodo che espongono al rischio di un individualismo
improduttivo, vorrei vedere i musei impegnati a esaltare il valore di legame perché se i beni e
i servizi hanno la capacità di creare relazioni, queste, come insegna Marco Aime, divengono
poi più importanti del bene stesso.
L’oblomovismo di cui parlavo più sopra mi fa tenerezza, perché deriva dalle scelte di un
animo ingenuo, puro di cuore, di fronte al disordine della vita. Quella di Iljà Ilìc è la storia di
un ostinato rifiuto, di una persona che non vuole crescere, che non vuole diventare adulta ed
entrare nel mondo moderno, dove per quelle strade dell’Est piene di neve è per lui faticoso
coltivare le relazioni.
I musei, ognuno secondo la propria mission, devono contrastare la posizione
oblomoviana orizzontale, inattiva e chiusa al mondo, devono invitare la cittadinanza ad alzarsi
dal letto. Lo fa anche Oblomov, che continuo ad amare, nonostante tutti i suoi lati deboli. Egli
rifiuta la bella e raffinata Olga, che lo avrebbe costretto a relazionarsi con quella parte di
società elitaria ed ambiziosa, attiva ma prevedibile, inquieta solo per nevrosi, ponendolo in
una condizione per lui insostenibile, dove il tempo incalza velocemente in modo lineare, non
ciclico come invece l’inerzia quotidiana tanto cara a Iljà Ilìc; egli le preferisce – fra
22 l’incredulità degli amici - una grossolana, seppur ancora appetibile vedova, Agaf’ja
Matveevna, infaticabile direttrice dell’orchestra della sua reggia domestica, secondo un piano
messo a punto dai truffatori di Oblomov, ma che si rivela vincente per tutti. Una cuoca
fantasiosa e premurosa, un museo etnografico vivente, non esteticamente troppo rilevante, che
sa però negoziare, coinvolgere, sposare l’apparentemente impossibile.
Spesso per risolvere le criticità, siano esse economiche o di altra natura, basta guardare
il mondo da una prospettiva meno consueta, per scoprire quanto sia lieve, piacevole,
gratificante, efficace mettere in atto pratiche alternative al consueto. E’ possibile arrivare a far
vivere personaggi di fiaba, come il nostro amato Iljà, in un mondo che fiaba non è, dove tutti
possano comunque partecipare al banchetto, truffatori e truffati nel romanzo, politici più o
meno virtuosi - siamo umani -, incorruttibili antropologi (!) e collettività nella vita reale, in
una sorta di allargamento della torta, dove gli interessi apparentemente contrapposti possono
integrarsi e crescere insieme in maniera sana e costruttiva.
23 L’Ecomuseo del Casentino tra sostenibilità economica e sostenibilità culturale
Nella certezza che una ricetta universale non sia data, dopo i vari excursus sull’analisi
degli strumenti di gestione dei musei trattati al capitolo precedente, focalizzerò adesso
l’attenzione su un history case, offertomi dall’Ecomuseo presso il quale ho svolto lo stage,
quello casentinese, per delinearne la genesi, come esso sia articolato nelle antenne più avanti
illustrate, come possa interagire con i più vari stakeholder, anche con quelli più difficili, si
pensi al Museo della Lana, una enorme struttura privata che, per quanto forte e autonoma, ha
firmato un protocollo d’intesa con l’Ecomuseo per la promozione di azioni comuni di
valorizzazione del patrimonio locale. Quella firma è da leggere alla stregua di un
riconoscimento concreto di come sia opportuno non prescindere dal sistema ecomuseale
casentinese, tanto esso è radicato e interagente col territorio.
Parlerò di autonomia e sostenibilità, nella teoria e adesso soprattutto nella pratica, in
Casentino in generale come a Stia, dove – come vedremo – ha sede la Fondazione Lombard
che gestisce il Museo della Lana sopra richiamato sul quale mi soffermerò dettagliatamente.
Nessun tipo di contabilità né qualsivoglia corredo di strumenti manageriali garantirà
risultati efficaci, se messi nelle mani delle cicale della ben nota favola. La centralità delle
persone e della loro intelligenza non conta solo in fatto di utenza nei musei; conta parimenti se non di più - quando si parli di gestione aziendale, perché la somma di tante teste ipodotate
in termini di attitudini imprenditoriali o organizzative non dà come risultato una persona
eccellente. Tante cicale non valgono una formica, insomma.
Negli spazi in cui opera lo staff dell’Ecomuseo del Casentino è tutto un brulicare di vita,
un vero e proprio formicaio, dove intorno a un mare di progetti si avvicendano stagisti,
volontari, collaboratori, impiegati, responsabili, fino ad arrivare al coordinatore, Andrea, un
uomo dalla vitalità di un ventenne. Autorevole, senza essere affatto autoritario, empatico e
disposto all’ascolto per indole; una laurea in Architettura all’attivo – a prima vista si direbbe
in Psicologia – e un’esperienza pluriennale sul campo, fanno di lui un punto di riferimento
non comune per quel tempio laico che il Casentino ha saputo creare.
Nessuna ricetta precostituita dicevamo, seppur stilata sulla base di avvedutissime regole,
può essere data per la buona riuscita di un progetto museale perché, come dimostra
l’Ecomuseo in esame, le cose maturano nel tempo, se si è capaci a investire in ascolto,
lungimiranza, costanza, e tenacia.
Potrei chiedere ad Andrea (Rossi, per completezza) quale sia il tipo di contabilità
adottata dalla struttura da lui coordinata, senza stupirmi della risposta, né del fatto che, nel
caso in esame, il museo-ufficio tanto denigrato in fase teorica in questo caso funzioni, tanto
sono ben assortiti gli interattori.
Dopo quindici anni dal suo concepimento, l’Ecomuseo casentinese è oggi dinamico e
vitale, nonostante la particolare congiuntura economica, nonostante che non sia tutto perfetto
e statico, ma permanentemente perfettibile. Le scrivanie straripanti di materiale sempre
nuovo, una rete tessuta e tesa in mille direzioni, che a tre giorni da un evento sembra sempre
che si afflosci al suolo, ma ormai si sa che, se anche qualcuno momentaneamente molla, ci
sono sempre altre mille mani a sostenerla, a dimostrazione che l’interazione degli strumenti
24 scelti, tangibili e intangibili, organizzativi e umani, su quella particolare realtà territoriale ha
trovato la propria formula. A comporre la quale, porrei in primo luogo, l’appropriatezza della
scelta delle persone con le loro peculiarità soggettive, ma subito dopo anche l’appropriatezza
dei loro ruoli: la diretta collaboratrice di Andrea, Sara Mugnai è assessore alla cultura di uno
degli undici comuni che compongono l’Unione, del Comune di Castel San Niccolò, per
l’esattezza. Sara e Andrea siedono ogni giorno allo stesso tavolo e, anche se i soggetti
partecipanti ai progetti da loro messi in atto sono un numero esponenziale, mi pare proprio
che la vicinanza delle loro scrivanie costituisca una solida base per tutto il resto.
Adesso, uno sguardo alle origini.
L’idea di creare un ecomuseo diffuso nel vasto territorio del Casentino risale
esattamente al 1996, allorché la locale Comunità montana – divenuta oggi Unione dei Comuni
Montani del Casentino -, la Provincia di Arezzo e tutti i Comuni dell'area interessata si
sedettero intorno a un tavolo di coprogettazione. Fu così valutata la possibilità di coordinare
una serie di iniziative volte alla valorizzazione del patrimonio storico e culturale casentinese.
Di lì a poco, ecco pubblicata la delibera della Giunta Esecutiva della Comunità montana del
Casentino del 12/12/1996 n. 1112, Ecomuseo del Casentino – Affidamento incarico per
progetto di fattibilità.
Alla spesa complessiva per la redazione del progetto ecomuseale concorse la Provincia
di Arezzo nella misura del 35%; il restante 65% fu a carico della Comunità montana.
Il passo successivo fu la costituzione di un Comitato Scientifico, deputato alla
ricognizione del territorio e delle risorse esistenti, nonché all'ideazione della struttura
complessiva dell'Ecomuseo e alla predisposizione del relativo progetto di fattibilità.
Data la complessità e l'eterogeneità dei possibili temi da sviluppare offerti dal
comprensorio, il Comitato Scientifico ricorse a esperti di svariati settori. Sulla base delle
indagini svolte sul campo vennero quindi individuati sei sistemi coincidenti con altrettante
tematiche elette come rappresentative delle tradizioni, della storia locale e del contesto
naturale, ovvero il sistema della civiltà castellana, il sistema del bosco, il sistema dell'acqua,
il sistema manifatturiero, quello agricolo - pastorale e, per concludere, il sistema
dell'archeologia.
Dal 1997 ai primi anni del 2000 si realizzano, con finanziamenti dell’Unione Europea
Leader II e Leader Plus, gli allestimenti tematici delle varie antenne e i principali strumenti
divulgativi.
In prosieguo di tempo si è progressivamente abbandonata la chiave di lettura tematica in
favore di una interpretazione focalizzata sulle differenze tipologiche delineatesi nel corso
degli ultimi anni di gestione, così che l’ecomuseo si articola oggi per categorie ravvisabili in
musei, collezioni, poli didattici, centri di interpretazione e quant’altro, a dimostrazione del
dinamismo e del bisogno di rinnovamento di un sistema sempre attento alle nuove istanze.
Nel 1997 vennero siglati i primi accordi tra gli enti interessati a partecipare al Sistema;
al 2000 risale la stipula della prima convenzione. Ed ecco pubblicata la Delibera della Giunta
esecutiva della Comunità montana del Casentino del 21/11/2000 n. 113, poi modificata con
Delibera della Giunta esecutiva della Comunità montana del 12/12/2000.
Per tutte le attività improntate allo spirito della missione ecomuseale, per il
coordinamento e la promozione delle stesse, l’Ecomuseo non fu dotato da subito di un centro
di coordinamento. Questo causò un primo spaesamento generale delle varie antenne
sprovviste di un riferimento univoco. In seguito, dal 2002, l’Ecomuseo si dotò di un centro di
25 sistema, individuato nel CRED (Centro Risorse Educative e Didattiche della Comunità
Montana del Casentino). Il CRED non fu creato dal nulla, ma si innestò sulla Banca
Intercomunale degli Audiovisivi del Casentino attiva dal 1988, configurandosi come un
servizio della Comunità montana, la quale ne forniva la struttura amministrativa. All'interno
dell'Ecomuseo il CRED collabora con il coordinatore per la promozione, la didattica e la
ricerca; coadiuva nella predisposizione dei piani di gestione ed esecutivo e nel coordinamento
della gestione finanziaria (artt. 4-12 del Regolamento stilato e approvato dal Consiglio della
Comunità Montana nella seduta n. 53 del 25 giugno 2004 e dagli enti partecipanti al sistema).
I musei che compongono il sistema – oggi costituito da quattordici antenne - sono tenuti
alla manutenzione delle strutture e delle attrezzature, nonché alla inventariazione di queste
ultime; detti musei vengono gestiti da associazioni locali mediante convenzioni sottoscritte
con gli enti locali proprietari delle strutture. Tale pratica è espressamente promossa nel
Regolamento del Sistema, sopra menzionato. Con detto documento è stata definita la struttura
dell'Ecomuseo e i suoi organi, individuati nel sopra richiamato Centro servizi, nel Comitato
consultivo e nel Comitato scientifico.
Il Comitato consultivo, espressione dei soggetti appartenenti al sistema, si compone dei
rappresentanti di detti soggetti: Provincia di Arezzo, Comune di Castel San Niccolò, Comune
di Ortignano Raggiolo, Comune di Castel Focognano, Comune di Bibbiena, Comune di Talla,
Comune di Chitignano, Comune di Stia, Comune di Subbiano, Comune di Poppi, Comune di
Capolona, oltre ai rappresentanti delle associazioni e dei privati coinvolti; esso ha il compito
di nominare il coordinatore del sistema di approvare le linee di intervento, i progetti speciali, i
programmi pluriennali ed il bilancio annuale di previsione.
Grazie all’attività del Comitato, è stato possibile uscire dai particolarismi e costruire un
progetto culturale che, come un motore propulsore di stimolo e di ascolto, attui una sintesi più
che una sommatoria delle varie iniziative, nelle quali hanno voce sicuramente le istituzioni
locali, ma anche tutti i soggetti in esso coinvolti a vario titolo, siano essi privati,
rappresentanti di associazioni, gruppi di interesse, gli stakeholder, (mi si passi il termine, che
risulta meno antipatico se indagato nella sua etimologia. Il termine – come è noto - fa infatti
riferimento alle tecniche catastali di misurazione tramite paletti piantati nel terreno a colpi di
mazza: lo stakeholder sarebbe colui che tiene (holder) il bastone (stake) e che guarda con
interesse e preoccupazione all’agire di chi usa la mazza!).
L’altro organo istituito è il Comitato scientifico, con funzioni di confronto e validazione
culturale delle esperienze in atto.
Vediamo adesso da dove provengano i ricavi. Lo slogan che vede il futuro nella rete ha
un suo perché; sempre più frequentemente infatti, i finanziamenti importanti, specie quelli
europei, si incanalano verso organismi complessi, ben esemplificati dall’Unione dei Comuni
che, erede delle Comunità montane, nasce con l’intento di accentrare quanti più servizi
possibile; servizi che, se svolti singolarmente dai soggetti interessati, comporterebbero inutili
sprechi di denaro.
Per la realizzazione del sistema ecomuseale del Casentino sono state utilizzate – lo
abbiamo visto - risorse relative ai finanziamenti europei di iniziative comunitarie Leader I e
Leader Plus.
I principali canali di finanziamento dell'Ecomuseo sono oggi i contributi dei Comuni
26 aderenti, dell'Ente capofila, ovvero l’Unione dei Comuni, della Provincia di Arezzo, della
Regione Toscana e delle associazioni locali, che elargiscono contributi nella forma di
prestazione di servizio; l’Ecomuseo partecipa inoltre ai bandi per i co-finanziamenti regionali
finalizzati a progetti di volta in volta definiti.
Ogni anno il piano esecutivo di gestione viene elaborato dal Centro servizi e sottoposto
alla approvazione della Giunta esecutiva dell’Unione.
Tra le finalità dell'Ecomuseo espresse nel Regolamento vi è la partecipazione alla Rete
museale aretina, che si occupa della promozione dei musei e dei sistemi museali presenti nel
territorio di pertinenza − attraverso la pubblicazione di guide e di un sito web − senza
interferire di fatto nella gestione del sistema dell’Ecomuseo.
Progressivamente – come accennato in precedenza - il sistema si è evoluto verso una
forma di organizzazione assimilabile a quella del concetto di rete o sistema museale, più che
di sistemi tematici; questo anche conseguentemente al desiderio, manifestato da alcune
strutture museali del comprensorio tipologicamente diverse, di aderire all'Ecomuseo per poter
beneficiare dei servizi di coordinamento offerti dal sistema, non ultimo quello della
promozione.
Se la gestione delle singole strutture è affidata a numerose diverse associazioni locali
attive sul territorio, i programmi delle attività comuni sono tuttavia elaborati in maniera
unitaria: si riscontra infatti una forte azione di coordinamento, fatta non solo di pubblicità
pertinente, ma anche di frequenti momenti d’incontro collettivi, ai quali a chi scrive è stato
permesso di accedere.
Ora scivolo verso la fine del paragrafo, passando il bastone (stake!) ad Andrea
(2011:13), il quale molto ponderatamente dispensa preziosi suggerimenti agli ultimi arrivati
che - senza conoscere i meccanismi del museo partecipativo - vorrebbero entrare a far parte
della realtà da lui diretta:
… l’afflusso turistico, ad esempio, invocato da molti come uno dei maggiori indicatori
di successo, pur nella sua importanza, non può rappresentare la componente preponderante a
cui aspirare, può semmai costituire un significativo effetto delle scelte gestionali. Anche
l’appiattimento verso iniziative gastronomiche e ricreative (sagre, feste paesane…), spesso
ricorrenti presso alcuni ecomusei, pur nella loro importante funzione sociale ed aggregativa,
rischia di impoverirne il messaggio culturale.
La formula che viene ribadita, in risposta a queste tendenze più o meno esplicite, e a
più riprese ripresentate soprattutto da parte dei nuovi soggetti gestori, tende a privilegiare la
necessità di esplicitazione del ruolo e del riconoscimento della struttura a livello locale. Se le
attività promosse dalle varie antenne saranno vivaci e interessati per gli stessi abitanti,
sapranno suscitare gli interessi anche dei visitatori esterni.
II
I visitatori - ricorda Andrea Rossi - sono cittadini, non importa di quale paese del
mondo. Certo, il pubblico dei musei interno e internazionale è negli ultimi anni – purtroppo
non negli ultimissimi - cresciuto in modo sensibile, per una serie di fattori, quali l’aumento
della scolarità, la diffusione del benessere, l’estensione del tempo libero, la facilità dei
27 trasporti e altro ancora. Aumentando i numeri, la visione del pubblico da parte dei decisori si
è spaccata in due: da una parte quella del visitatore, inteso come utente/cliente che paga per
l’erogazione di un servizio coincidente con la pura visita, in una parola, il turista; dall’altra il
visitatore inteso come il fruitore, che richiede di soddisfare il proprio bisogno di cultura e
diletto, in una parola, il cittadino, sia esso locale, nazionale o internazionale.
Il fatto che il museo sia sollecitato ai cambiamenti da parte dell’accresciuto numero di
visitatori è certamente un dato positivo, in un paese che non ha conosciuto per lunghissimo
tempo politica alcuna rivolta ai visitatori.
Meno esaltante è quando il museo viene inteso come un prodotto da vendere per il
tempo libero e quando si adottino nelle innovazioni gestionali tecniche di marketing mutuate
senza ritocchi dal mercato, quando cioè il visitatore viene assimilato al consumatore.
Ad arginare gli eccessi in cui potrebbe incorrere il secondo orientamento, lontano
tuttavia dalla realtà casentinese, è l’emanazione degli standard museali, che data 2001. Di
notevole interesse a questo proposito è l’Ambito VII, quello relativo ai rapporti del museo con
il pubblico e i relativi servizi, che è strutturato in maniera più articolata e matura rispetto a
quanto scaturito dalle prime esperienze dei servizi aggiuntivi. Condizioni preliminari alla
visita, informazioni sulla raggiungibilità con mezzi pubblici e privati, possibilità di
prenotazione del biglietto, danno oggi un volto umano al museo, che prima sembrava istituito
per mettere il visitatore in imbarazzo e farlo sentire spesso fuori luogo.
Se poi si sposa con Andrea Rossi la seconda visione, quella che identifica il visitatore
nel cittadino, eccogli riconosciuti diritti assai più ampi rispetto a quelli relativi al confort o
alla gradevolezza della visita, di cui ha ampiamente parlato Mario Turci.
Il museo, che non è una struttura turistica, può tuttavia essere un valido alleato del
turismo. I vantaggi di una corretta collaborazione integrata sono reciproci, il loro legame è
naturale, basta solo ricordare al museo che il turismo costituisce uno dei suoi numerosi
pubblici.
Al museo non bisogna chiedere di fare del marketing turistico - esistono all’uopo i
professionisti del turismo -, ma di fare bene il suo mestiere, che è quello di interprete, custode,
divulgatore del patrimonio culturale. Se riesce a farlo bene, allora diviene più attrattivo e
attraente anche per il turismo e possono crearsi opportunità nuove e molto interessanti per
entrambi i settori.
Se proprio occorre giudicare il museo in base al numero dei visitatori, spostiamo
l’attenzione sulle visite ripetute: è un metodo più veloce e più indicativo, secondo lo slogan
proposto da Anna Maria Visser Travagli – alla quale debbo molto per le riflessioni in merito
alla gestione dei musei - I visitatori si contano o sono i visitatori a contare?
Oggi il turismo, e soprattutto quello più qualificato, è sempre più attratto dagli aspetti
emozionali ed esperienziali di un viaggio che dai tradizionali aspetti estetici dei luoghi
visitati. Il museo deve farsi interprete di tali aspettative, facendosi un luogo vivo e partecipato.
Il museo deve essere un valore riconosciuto dall’intera comunità, fatto che avrà poi
interessanti riflessi in termini di attrazione turistica e sviluppo economico. Il museo deve
offrire un solido approdo a una società sempre più dominata dai cristalli liquidi. Io trovo che
in Casentino ci siano riusciti.
28 III
Ricorro adesso al Panno Casentino, quel tessuto concepito per durare nel tempo che, col
fascino sobrio dei suoi riccioli nati per i non abbienti, esalta da secoli tutti coloro che lo
conoscono, specialmente le persone dai gusti più raffinati, quanti non amino ostentare il
nuovo offerto dall’abbigliamento usa e getta, ma preferiscano entrare in simbiosi con pochi
capi scelti. Non ho trovato nessuno che sia rimasto indifferente di fronte ad esso, capace
com’è di evocare il piacere derivante dalla soddisfazione di quel bisogno primordiale di
difendersi dai rigori invernali, unitamente al piacere estetico dato dalla sua conformazione
tessile, che è anche il piacere culturale di conoscerne le origini e la sua evoluzione.
Per volere di Simonetta Lombard è nato intorno al Panno Casentino un museo, con sede
a Stia, che porta il nome di Museo dell’arte della Lana, un museo privato – uno dei
pochissimi: nella rete vi sono altre due strutture private, il Museo del Castello di Porciano e la
Raccolta Casa Rossi – che, pur non costituendo un’antenna ecomuseale, è legato da specifici
accordi di collaborazione con l’Ecomuseo.
A dirigerlo è un altro Andrea, Gori stavolta.
Il Museo nasce sulle rovine di una grande fabbrica della lana, articolata logisticamente
in molteplici capannoni, che chiuse i battenti nel 1985, dopo aver mosso per due secoli
l’economia della valle, arenata da una crisi sempre più acuta, che era insieme di prodotto,
finanziaria e imprenditoriale.
Dopo anni d’incuria, è stata Simonetta Lombard, discendente della ben nota dinastia
industriale, a stanziare nel 2001 due miliardi e mezzo di lire per ricomprare la fabbrica che era
stata di suo padre e di suo nonno e che era passata con alterne fortune dai Beni ai Ricci, ai
Morelli. Un’azienda alle cui dipendenze nel periodo di massima espansione, prima della
Seconda guerra mondiale, erano ben 1500 persone, un’impresa che poteva vantarsi di aver
introdotto fra i primi le macchine tessili in Italia, dalla quale si riforniva casa Savoia e che per
un certo periodo ebbe a vestire pure i soldati italiani.
A Simonetta Lombard si deve dunque la creazione della fondazione che porta il suo
nome e la scelta di Piero Della Bordella, un professore di Stia, per la progettazione del suo
sogno, ovvero la realizzazione del museo dell'arte della lana. Alla morte di Piero, subentra
Paolo Blasi, già rettore dell’Università di Firenze; di lì a poco la morte della signora Lombard
vede affluire nei canali del progetto un’ingente eredità, in denaro e beni immobili: tutto
ovviamente vincolato alla realizzazione del museo. Blasi si mette all'opera, coinvolgendo lo
studio Comes per dirigere il restauro di una parte del sito industriale, il cui costo ammonterà a
circa quattro milioni di euro.
Il sogno si è infine realizzato e il museo/fondazione - nonostante abbia potuto contare
tanti numeri, in termini di denari, ma anche di persone coinvolte –, forse proprio per questo
secondo computo, ha saputo interagire proficuamente con la rete ecomuseale.
Accanto all’esperienza museale, l’enorme piazzale propone un negozio, quello di
Tessilnova, dove comprare accessori e vestiario realizzati con il tessuto del Casentino
prodotto a Stia da mani artigiane, in una commistione vincente di museologia e menagement.
Quello che a uno sguardo esterno, quale quello di chi scrive, parrebbe il naturale
sviluppo della rete di relazioni in essere, sarebbe il veder trasformare in prosieguo di tempo il
Museo della Lana in un’antenna ecomuseale, perché se il leone deve ricordarsi che può essere
29 salvato anche da una sola formica secondo la nota favola, in questo caso siamo di fronte a un
organizzatissimo formicaio. Non bisogna dimenticare inoltre che, prima della realizzazione
del museo, esisteva una piccola raccolta di documenti e testimonianze accolte in uno spazio
messo a disposizione da Tessilnova. Il centro, allestito in seguito a una iniziativa realizzata
nel 1996 dal titolo Sul filo di lana, promossa da Andrea Rossi, faceva allora parte
dell’Ecomuseo.
L’augurio è che siano rose e che fioriscano a breve.
IV
Propongo adesso una serie di schede, dedicate alle quattordici antenne dell’Ecomuseo
del Casentino, tale da consentire una visione d’insieme circa la struttura ecomuseale.
•1
- Museo del Bosco e della Montagna - Collezione ornitologica "Carlo Beni"
30 •2
- Castello di Porciano
• 3 - Ecomuseo del Carbonaio - Banca della Memoria di Porto Franco ‘Giuseppe Baldini’ Casa dei Sapori
• 4 - Museo della Pietra Lavorata - Centro d'interpretazione Ecomuseo della Pietra
• 5 - Castello dei Conti Guidi di Poppi - Mostre permanenti
• 6 - Bottega del Bigonaio e Mostra permanente sulla guerra e la resistenza in Casentino
• 7 - Raccolta rurale Casa Rossi
• 8 - Ecomuseo della Vallesanta
• 9 - Ecomuseo della Castagna
• 10 - Ecomuseo della polvere da sparo e del contrabbando
• 11 - Centro di documentazione sulla cultura rurale del Casentino
• 12 - Casa natale di Guido Monaco
• 13 - Centro di documentazione della cultura archeologica e del territorio
• 14 - Centro di documentazione e Polo didattico dell'Acqua
1- Il Museo del Bosco e della Montagna, il Museo dello sci e la Collezione ornitologica sono
posti in Vicolo de’ Berignoli, nel centro storico di Stia.
Il primo gravita intorno a una serie di oggetti legati al bosco, L’esposizione, per mezzo di
pannelli didascalici, si articola in gruppi tematici: gli strumenti per il trasporto di uomini e
materiali, oggetti e attrezzi per il lavoro alla macchia, oggettistica relativa alle piccole
industrie forestali.
Nell’attiguo Museo dello Sci è documentato il tema della fruizione della montagna a scopo
ricreativo e l’evoluzione dello sci come disciplina sportiva attraverso l’esposizione di sci
d’epoca.
All’interno del museo è ospitata la pregevole Collezione Ornitologica ‘C. Beni’ che risale agli
ultimi decenni del XIX secolo. La collezione si articola su due sale, comprendendo 520
esemplari di 176 specie di uccelli, tutte italiane e rappresentative dell’avifauna presente nel
territorio casentinese all’epoca della sua costituzione ad opera di Carlo Beni. La collezione
permette di osservare da vicino quasi tutti gli uccelli del territorio casentinese altrimenti
difficilmente avvicinabili.
2- Quello di Porciano è un castello di proprietà privata, documentato già all’inizio del XI
secolo. Appartenne ai conti Guidi, per passare nel 1444 alla Repubblica Fiorentina. Nel
Settecento fu acquistato dalla famiglia Goretti de Flamini. Importanti operazioni di restauro
furono apportate durante tutto un decennio, dal 1963 al 1973, su iniziativa di Flaminia Goretti
de Flamini e del marito George Anderson Specht. Dal 1978 la struttura, aperta al pubblico, è
così articolata: a piano terra, la collezione di oggetti domestici e strumenti agricoli usati nella
campagna circostante raccolti dalla proprietaria o donati dagli abitanti del luogo a cui si
aggiunge un’esposizione sui nativi d’America del Nord Dakota realizzata con testimonianze
raccolte da George A. Specht; al primo livello è visitabile l’esposizione dei reperti
archeologici ritrovati durante i restauri del castello e le operazioni di svuotamento dell’antica
cisterna. Al secondo livello, il Salone di Dante, che è la sala di rappresentanza del castello. I
piani superiori costituiscono la residenza privata dei proprietari.
31 3- L’Ecomuseo del Carbonaio, la Banca della Memoria di Porto Franco ‘Giuseppe Baldini’ e
la ‘Casa dei Sapori’ (Loc. La Chiesa, Cetica, Castel San Niccolò).
I locali della vecchia scuola del paese ospitano uno spazio espositivo dedicato al lavoro del
carbonaio, una stanza polivalente per proiezioni sulla cultura materiale casentinese, la Banca
della Memoria ‘Giuseppe Baldini’ e una sala per degustazioni di prodotti e ricette tradizionali
locali denominata ‘La Casa dei Sapori’. Adiacente al museo è la ricostruzione del villaggio
del carbonaio che comprende una carbonaia didattica e alcune case di terra per i soggiorni alla
macchia.
Negli anni sono stati realizzati numerosi progetti legati a questa antenna, quali la riscoperta e
rimessa in produzione di un’antica cultivar locale, la realizzazione di un impianto di
teleriscaladamento alimentato con il legname di scarto delle segherie locali, i progetti di arte
ambientale a quelli di educazione alimentare.
4- Centro di interpretazione della pietra lavorata. Il museo è accolto negli spazi dell'ex chiesa
del Collegio dei salesiani ubicato a Strada in Casentino, comune di Castel San Niccolò. Il
Centro di interpretazione costituisce un punto di riferimento nel quale acquisire informazioni
e chiavi di lettura per poi procedere alla scoperta del territorio, delle sue emergenze e
peculiarità. Il percorso espositivo si articola in quattro sezioni di seguito dettagliate.
Genius Loci: il paesaggio, le piccole opere tradizionali della quotidianità, l’immaginario
locale.
Medievo di Pietra: breve presentazione del Medioevo in Casentino, modalità di lavoro e
criteri interpretativi propri dell’archeologia medievale. Sono esposti alcuni manufatti di pietra
particolarmente rappresentativi della Valle del Solano.
Gli scalpellini di Strada in Casentino: storia, manufatti, lavoro, testimonianze, legate alle
famiglie dedite da generazioni alla lavorazione della pietra.
L’arte della pietra oggi: iniziative di messa in valore e itinerari di visita. Completano il
percorso alcune stazioni multimediali dedicate al ‘paesaggio sonoro’ e alla presentazione di
documenti filmati raccolti nell’ambito del progetto ‘Banca della Memoria’ della Mediateca
del Casentino.
5- Il Castello dei Conti Guidi di Poppi - Mostre Permanenti (Poppi).
Il Castello accoglie il Centro di Documentazione di storia locale G.G. Miniati, nonché alcune
mostre permanenti - derivanti da precedenti mostre temporanee o da interventi mirati al
recupero di particolari ambienti – quali il plastico della battaglia di Campaldino, riferito alla
storica battaglia combattuta nel 1289 tra Guelfi e Ghibellini, alla quale prese parte anche
Dante; l’allestimento ‘Le antiche prigioni’, che è una sorta di mostra esperienziale; la
quadreria del piano nobile, ovvero una piccola pinacoteca che conserva dipinti di provenienza
locale, dal XIV al XVII secolo, e l’adiacente cappella affrescata da Taddeo Gaddi;
l’allestimento della torre campanaria, un percorso di ascesa alla cella campanaria dotata di
parafulmine, campane e orologio.
All’interno della struttura è uno spazio informativo dedicato a tutta la rete, dove ogni due
mesi le varie cellule si alternano a presentare le loro attività.
6- Bottega del Bigonaio e Mostra permanente sulla guerra e la resistenza in Casentino (Loc.
Moggiona, Poppi).
32 Il bigonaio era l’artigiano preposto alla realizzazione dei bigoni, ovvero di contenitori in
legno per la raccolta delle uve, occupazione che ha caratterizzato per secoli il paese di
Moggiona, da sempre legato alla vita della foresta.
Il piccolo allestimento ricostruisce la bottega tradizionale, raccogliendo gli antichi attrezzi
all’uopo utilizzati, documentando fotograficamente le varie fasi della lavorazione del bigone e
proponendosi non solo come centro di documentazione ma soprattutto come laboratorio attivo
di alfabetizzazione dell’antico mestiere. Le motivazioni per l’ubicazione della mostra permanente sulla guerra e sulla resistenza in
Casentino proprio nel paese di Moggiona sono dettate da precisi avvenimenti legati alla storia
recente della comunità, ripercorribili nello spazio adibito alla mostra che, provvisto anche di
una piccola biblioteca, espone pannelli, disegni e documenti storici originali.
7- La Raccolta Rurale Casa Rossi (Soci, Bibbiena).
La raccolta, costituitasi sin dal 1980 nell’antico granaio dell’azienda Rossi - proprietà della
famiglia Rossi dal 1868 -, si propone come un laboratorio relativo alle tradizioni e alla cultura
materiale locale. I circa 3.000 oggetti provenienti dalla Valle dell’Archiano connessi con le
varie pratiche agricole si propongono come una testimonianza di un mondo passato fruibile
dal visitatore.
8- Il progetto relativo all’Ecomuseo della Vallesanta ha preso avvio nel 2007 con la
realizzazione di una mappa di comunità guidata da un gruppo di lavoro costituito da una
rappresentanza di amministratori locali, mondo della scuola, associazionismo locale, nuovi e
vecchi abitanti dell’area poi costituitosi nell’Associazione Ecomuseo della Vallesanta. La
Valle, parzialmente inserita nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, ha conosciuto un
pesante esodo nel dopoguerra. Negli ultimi tempi si è tuttavia registrata una controtendenza
che ha permesso di contare un maggior numero di abitanti rispetto al passato.
L’ecomuseo si propone di ‘costruire dei ponti’ tali da mettere in relazione vecchie e nuove
generazioni creando occasioni di scambio e fiducia tra i nuovi e i vecchi residenti.
Pur diffuso su tutto il territorio, esso vanta alcune località maggiormente rappresentative per
la comunità locale come anche per il visitatore esterno, quali il Circolo di Biforco, che è luogo
di aggregazione della zona e punto informativo permanente sulle attività dell’Ecomuseo. La
Scuola di Corezzo, il centro nevralgico dell’intero progetto, nella quale è presente la ‘Stanza
dei ricordi e delle sapienze manuali’ che vede la realizzazione di incontri e laboratori. Di
notevole rilievo è il piccolo frutteto che, grazie all’opera dei bambini della scuola,
salvaguarda una varietà di meli e peri provenienti dal territorio circostante altrimenti in via di
scomparsa. E per finire, il Granaio di Narciso a Frassineta, una significativa raccolta di
testimonianze della cultura materiale della Valle.
9- L’Ecomuseo della Castagna (Via del Mulino, Raggiolo, Ortignano-Raggiolo).
La castagna, che è stata l’alimento per eccellenza delle montagne casentinesi nei secoli
passati, suggerisce un itinerario dislocato in diverse cellule distribuite lungo la Valle del
Teggina. A Raggiolo è visitabile uno spazio espositivo sul tema della raccolta e
trasformazione della castagna in prodotti per uso alimentare, un seccatoio ancora funzionante
e un mulino ad acqua sul torrente Barbozzaia. La realizzazione della Mappa di Comunità ha
tra l’altro permesso la costituzione del Consorzio della Farina di Castagne.
33 10- L’Ecomuseo della Polvere da Sparo e del Contrabbando (Loc. San Vincenzo, Chitignano).
Il centro documenta la produzione di polveri piriche sviluppatasi sin dall’Ottocento in vari
stabilimenti sul torrente Rassina e i suoi affluenti. Parallelamente a questa attività legalmente
riconosciuta, si definì anche la pratica del contrabbando di polvere da sparo, ma anche di
tabacco che veniva importato dalla vicina Val Tiberina, quindi lavorato e commerciato
clandestinamente.
Il centro suggerisce la visita alla polveriera dell’Inferno e a uno dei pilli più grandi di cui
abbonda la foresta, ricostruito a scopo dimostrativo, usati un tempo per il pestaggio delle
componenti della polvere da sparo.
11- Il Centro di Documentazione sulla Cultura Rurale del Casentino (Torre di Ronda, Castel
Focognano), allestito all’interno dell’antica Torre di Ronda di Castel Focognano, si snoda sui
tre piani della torre attraverso sezioni espositive suddivise per tematiche: la pastorizia con
riferimenti alla pratica della transumanza e alla lavorazione del latte, il lavoro forestale ed
agricolo, la lavorazione della lana, in merito alla quale sono esposti attrezzi tra quali un telaio
orizzontale, gli arcolai, l’aspo, gli scardassi, il cardatore per lana, la rocca, i fusi, il filatoio, le
forbici per tosatura e l’elenco potrebbe continuare. L’allestimento ha previsto l'eliminazione
di ogni barriera tra gli oggetti esposti e il visitatore, consentendo la manipolazione degli
oggetti per farne esperienza diretta. Corredano lo spazio espositivo dei pannelli didatticoinformativi e altro materiale grafico e fotografico.
12- La Casa natale di Guido Monaco e il Centro di Documentazione sulla Musica Medievale
(Loc. La Castellaccia, Talla).
Ospitato all’interno della presunta casa natale di Guido Monaco, il Centro propone pannelli
didascalici e dispositivi interattivi che consentono al visitatore di ripercorrere le tappe
fondamentali della storia della musica, a partire dalla rivoluzionaria notazione musicale
introdotta dal monaco aretino.
Un particolare ‘sentiero sonoro’ progettato dai bambini collega il Centro di Documentazione
al paese.
13- Il Centro di Documentazione della Cultura Archeologica del Territorio (Via Arcipretura,
Subbiano).
Il Centro è stato costituito allo scopo di riunire e conservare i materiali archeologici derivanti
da ricognizioni o saggi di scavo effettuati nel territorio dei Comuni di Subbiano e Capolona.
All’interno della struttura sono conservati reperti di varia tipologia, risalenti in massima parte
al periodo romano e medievale. È presente anche un piccolo laboratorio di restauro.
14- Il Centro di Documentazione e Polo Didattico dell’acqua (Loc. La Nussa, Capolona).
Ricavato all’interno di una centrale idroelettrica in riva all’Arno, esso illustra le molteplici
modalità di impiego dell’acqua, che è stata mezzo di trasporto del legname, ha azionato i
mulini per la produzione di energia e altri macchinari andanti ad acqua, ferriere e gualchiere
per esempio, ha dissetato uomini e animali e continua ad essere fonte di vita e salute grazie
alle particolari proprietà delle acque casentinesi. Il centro, rimandando al sistema degli opifici
idraulici e ai luoghi storicamente connessi con l’utilizzo di questo elemento, rappresenta un
34 ideale punto di partenza per un viaggio intorno all’acqua in Casentino.
Alla rete vera e propria delle strutture si aggiunge una sorta di rete di secondo livello,
chiamata ‘Rete dei luoghi di pregio’, di cui è esemplificativa la rete dei mulini ad acqua
tuttora attivi o comunque in buono stato di conservazione.
La sua nascita si è avuta grazie a un protocollo d’intesa tra l’Associazione
Intercomunale del Casentino e i proprietari delle strutture, alcune ancora funzionanti, altre
interessate da particolari progetti di recupero e valorizzazione.
Fervente è poi l’attività di ricerca e documentazione promossa dall’Ecomuseo, che si
avvale in special modo del mezzo audiovisivo, sperimentato con successo ancora prima della
nascita del sistema ecomuseale: a fine anni Novanta viene messo a punto un progetto di
educazione permanente rivolto agli ultrasessantacinquenni dei piccoli paesi di montagna, un
progetto di educazione alla rovescia, espletantesi nell’organizzazione di momenti di
aggregazione e di incontro su temi legati alla cultura materiale del territorio, nei quali gli
anziani – in quel meritatissimo momento di gloria - fungono da docenti dei discenti
ricercatori, di maniera che alla finalità documentaria e culturale si aggiunge anche quella
sociale.
Il materiale così raccolto, una volta inventariato, è andato a costituire varie Banche della
Memoria Tematiche, quali quella relativa al lavoro dei boschi, e ancora sul mestiere del
carbonaio, sulla castagna, sul fenomeno del contrabbando, implementate nel tempo con il
procedere del lavoro di documentazione. I filmati contengono forti esperienze di vita vissuta,
pratiche agro-silvo-pastorali, racconti legati alla guerra, alla maternità e al lavoro.
L’estate è poi il momento privilegiato per la restituzione alla comunità, si organizzano
allora proiezioni in piazza dell’ultimo lavoro di turno intorno al quale sono stati nel frattempo
elaborati dei percorsi narrativi alla luce di verifiche incrociate dopo l’attenta ricostruzione di
una rete di relazioni e rapporti, che prevedono sempre un’osservazione grandangolare
dell’oggetto di studio.
In collaborazione con i Dipartimenti delle Università di Firenze e di Siena si sono
instaurati rapporti di ricerca sul tema dell’archeologia medievale e dei prodotti tipici.
Validissimo il rapporto istituito con il CNR che ha prodotto interessanti approfondimenti sul
tema della tessitura.
Tra le attività volte al rafforzamento del senso di appartenenza è da menzionare
l’elaborazione della mappa di comunità di Raggiolo, che ha avuto come finalità quella di
cogliere la percezione degli abitanti circa il loro ambiente di vita. La ricerca, durata un anno e
mezzo, è stata condotta con il concorso dei residenti del paese, soprattutto gli anziani, e ha
portato alla mappatura di quei siti significativi per la storia della comunità, con i confini, i
luoghi delle paure notturne e quanto altro contribuisce a esprimere l’identità del luogo. Ne è
scaturita una vera e propria carta, lontana da quelle ufficiali, non un semplice inventario di
beni materiali e immateriali, che – focalizzando le relazioni invisibili tra gli elementi raccolti racconta il territorio di Raggiolo in un’ottica partecipativa che accomuna ricercatori e abitanti.
Non è mancata l’interpretazione del patrimonio da parte di artisti contemporanei: il
progetto Boschi ad Arte ha avuto inizio nel 2005 e ha portato alla realizzazione di opere e
istallazioni in un cospicuo numero di piccoli paesi di montagna. Gli interventi sono stati
condotti con la modalità del ‘cantiere aperto’, dove le comunità locali e gli artisti si sono
35 confrontati, in un raffrontro tra i saperi tradizionali e i linguaggi dell’arte contemporanea; al
2006-07 risale l’iniziativa Paesaggi/Passaggi che ha visto la messa in opera di due
installazioni permanenti.
Quelli citati non sono che pochi esempi della fervente attività ecomuseale.
L’ecomuseo – va sottolineato -, con lo sguardo rivolto non solo alle attività del passato,
ha saputo instaurare un rapporto anche con le realtà produttive della zona, promuovendo
particolari forme di imprenditoria e microeconomia legate alla valorizzazione del patrimonio
locale, soprattutto nel settore agroalimentare, quali la costituzione del consorzio della patata
rossa di Cetica o della farina di castagne del Pratomagno; altre iniziative hanno riguardato una
delle produzioni più tipiche e caratteristiche del territorio: il tessuto casentino.
Prima di chiudere il capitolo, è opportuno almeno un accenno al progetto Una valle allo
specchio tra passato e futuro - Il Casentino visto dalle nuove generazioni attivato nel 2011
grazie a un finanziamento proveniente dal progetto Giovani Energie in comune, promosso dal
Dipartimento della Gioventù della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall’ANCI. Questa
iniziativa, condotta con le modalità partecipative e finalizzata alla messa in valore del
patrimonio, ha coinvolto la popolazione giovanile tra i 14 e i 35 anni di tutti quei comuni del
Casentino con una popolazione inferiore ai 5000 abitanti. I giovani sono stati chiamati a
esprimere la propria percezione del contesto di vita personale, a individuare le specificità
culturali del territorio, a promuoverne la messa in valore e a dimostrarsi propositivi e creativi
nei confronti del patrimonio locale.
Le idee prolificano in maniera esponenziale su un sistema costruito con costanza e
convinzione, se è vero che – come vuole il titolo di uno dei più importanti lavori di Bruno
Munari - di cosa nasce cosa.
36 Tim Ingold e l’ecologia della cultura
Mesi fa sono stata rapita - nel senso letterale dell’espressione - dal testo Ecologia della
cultura (2001), una raccolta di cinque saggi di Tim Ingold, curata da Cristina Grasseni e
Francesco Ronzon; gli scritti, redatti tra il 1989 e il 1999, si presentano al pubblico di lingua
italiana come un insieme organico, grazie all’unità metodologica dell’autore e alle abilità
editoriali dei curatori, che hanno sacrificato il rigore filologico dell’ordine di pubblicazione
dei saggi a vantaggio di un ordine più generale. Ne è uscita una sorta di corpus appunto, i cui
capitoli sono altrettante occasioni per porre l’accento su un aspetto particolare
dell’orientamento generale di Ingold, capitoli nei quali i diversi temi – messi ora più ora meno
a fuoco - si rincorrono e si intrecciano a comporre progressivamente una mappatura sempre
più chiara e mai definitiva del pensiero dell’autore: molto coinvolgenti sono i punti in cui
Ingold ammette il proprio imbarazzo nel rivedere proprie prese di posizione su determinati
argomenti, dalle quali ha preso le distanze in prosieguo di tempo.
I saggi risultano intimamente legati tra di loro non solo sotto il profilo tematico, ma
anche per lo stile argomentativo dicotomico caro all’autore, che rifugge a gambe levate dalla
trattatistica: intorno a un tema specifico, viene introdotto un nodo problematico, vengono
esposti due tipi di risposta possibili, poi il lettore viene guidato a ricomporre quella visuale
della realtà, articolata secondo poli oppositivi, in un’unità secondo un punto di vista ecologico
che reinserisce nell’analisi i fattori di tempo, contesto e sviluppo ed approda all’osservazione
dell’uomo e del suo ambiente da un punto di vista unitario.
Il suo approccio ecologico al mondo, enormemente distante da quello tradizionale, è
stato di grande ausilio per le indagini intorno ai saperi della mano, quali quelli di Angela e
Alessandro, di cui parlerò nei prossimi capitoli.
II
Non va dimenticato che il contesto nel quale opera Ingold – il cui padre era professore
di botanica al Birkbeck College di Londra - è geograficamente lo stesso in cui a ritroso nel
tempo aveva agito pure Charles Darwin; nella rete delle relazioni del suo mondo è pertanto
normale che tanto spazio sia occupato dall’osservazione empirica, dal riferimento alle scienze
della vita, tanto che a voler assegnare etichette, potremmo collocare Tim Ingold nell’ambito
del pensiero in vario modo identificato come post-darwiniano che emerge dagli anni ’70, che
occorre tenere ben distinto dalle teorie neo-darwiniane, dalle quali Ingold prende
esplicitamente le distanze.
Per un primo e generale inquadramento della figura di Ingold nell’ambito
dell’antropologia ecologica, vorrei rifarmi brevemente al quadro che nel 1986 (tre anni prima
della redazione del primo saggio di Ingold dei cinque sopra menzionati) Angioni (1986:23)
traccia circa le correnti di pensiero dei ‘tempi moderni’ gravitanti intorno al rapporto e
distinzione tra natura e cultura, natura e società, natura e storia. Sono questioni a tutti note e
lungo dibattute nei vari campi di pensiero e ricerca dei tempi moderni, antesignane di ricerche
antropologiche specialistiche se osservate a posteriori. Due sono i modi generali, non
necessariamente alternativi - sintetizza Angioni - di interpretare la distinzione e i rapporti tra
37 natura e cultura. Il primo modo, di approccio materialistico, vede storia, cultura e società
come una sorta di processo naturale, tendendo così ad analizzare forme e processi mediante
concetti e metodi delle scienze naturali, con la conseguenza che l’uomo sarebbe un prodotto
più o meno esclusivo di rapporti e di processi naturali: approccio questo che pone fuori campo
l’attività umana soggettiva, senza preoccuparsi di riservarle una adeguata considerazione.
Il secondo approccio, contrapposto più o meno totalitariamente al primo, espressione
soprattutto della filosofia classica tedesca da Kant a Hegel, tende invece a riconoscere
all’attività umana un’importanza centrale nel funzionamento della società e dei processi
storici. Nel rapporto natura cultura viene in questo caso data centralità all’azione umana
soggettiva. L’aspetto unico nel modo ideale di vedere non è la natura, ma l’uomo, la società,
la storia, la cultura.
Nato dall’esigenza di guardare il mondo da una nuova angolazione, abbattendo senza
scrupolo delimitazioni e confini, l’approccio ingoldiano seppur del tutto incline verso il filone
materialistico, potremmo dire meglio naturalistico, attinge a piene mani anche dal secondo,
dove - per quanto distante dallo spirito – trova molti elementi a esso confacenti, quali
l’incontrollabile a priori, l’imprevedibile, il variabile e tutto quanto sia contrario a ogni sorta
di meccanicismo deterministico.
Timothy - questo il vero nome di battesimo, come ho appurato consultando il sito
dell’Università di Aberdeen dove attualmente insegna - si pone quindi in una sorta di spazio
terzo, che molto deve alla biologia di D’Arcy Thompson, all’antropologia culturale americana
di Leslie Withe, Marshall Sahlins ed Elman Service, proibitagli dal tutor ai tempi
dell’università in un contesto ancora imbevuto dal funzionalismo strutturale ormai al collasso,
al movimento neomarxista, alle ricerche sul campo che lo videro in Lapponia a studiare le
renne, esperienza che lo portò a rifiutare – e lo vedremo – la tendenza di certa antropologia a
trattare gli animali come meri oggetti simbolici di un discorso esclusivamente umano.
L’impostazione ingoldiana orientata alla pratica, in gran voga negli anni ’70 e ’80 come
correttivo all’approccio simbolista ed etno–scientifico del decennio precedente, deve molto
anche al pensiero di Bordieu, alla psicologia ecologica di James Gibson, alla filosofia di
Maurice Merleau-Ponty. L’approccio ingoldiano, attraverso un comune rimando a certi temi
della riflessione marxiana e di Leroi-Gouhran, presenta anche vari punti di contatto con il
nesso forte tra segnicità e fabrilità sviluppato in ambito italiano all’interno della scuola
ciresiana (e.g. Angioni 1986:117).
Nessuna etichetta vogliamo tuttavia attribuire a Ingold in via definitiva, nel rispetto dei
suoi propositi, volti alla creazione di un’ottica antropologica allargata tale da superare gli
specialismi tra subdiscipline, e volti soprattutto alla ri-radicazione dell’esperienza umana nel
continuum della vita organica.
Circa l’evoluzione, Ingold sposa un paradigma biologico che si basa non sulla necessità
da contrapporre al caso, che porterebbe dal disordine all’ordine, ma sulla prospettiva di
vincoli generatori di possibilità, all’interno delle quali si concretizzano gli eventi. Il vincolo è
visto non come limite, ma come opportunità, come condizione di possibilità. L’incertezza
dell’universo è poi una qualità intrinseca degli eventi, che risultano indeterminati prima che si
realizzino, e contingenti dopo che si sono verificati. Gli individui non saranno pertanto
emanazioni di programmi genetici o socioculturali, ma entità in continuo divenire, non
assemblati come macchinari, ma esseri in crescita e in continua trasformazione. L’organismo
38 vivente umano e non umano diviene così un nodo in un campo morfogenetico, nel quale
ciascuna parte prende forma in relazione con tutte le altre parti, in modo che la forma della
parte inflette al suo interno l’intero sistema delle relazioni che l’hanno resa ciò che è.
Rifiutando l’idea di programma, l’approccio naturalistico di Ingold si declina in termini
emergentisti, non istruzionisti: i fenomeni, biologici e non, si producono per Ingold grazie alle
molteplici interazioni di tutti gli elementi del sistema di riferimento. Come per l’essere
vivente, così pure per l’artefatto, il processo di formazione non sarebbe la pura trascrizione di
un progetto, la semplice imposizione di una superficie sulla materia, ma la creazione di un
intreccio dinamico in cui l’imprevedibile e il contingente è il primo attore.
III
Nei paragrafi seguenti propongo un excursus sulle pagine ingoldiane avidamente lette e
meditate, che hanno costituito la lente attraverso la quale ho indagato i saperi della tessitrice
Angela e dello scalpellino Alessandro che incontreremo nei capitoli successivi.
Ingold passo dopo passo cerca di smontare quella che lui definisce la teoria della
complementarità, che vede nell’essere umano la somma di corpo, mente e cultura e che trova
credito presso la per lui deleteria alleanza culturale tra i paradigmi teoretici del
neodarwinismo in biologia, della scienza cognitiva in psicologia, della teoria della cultura in
antropologia. L’equipaggiamento corporeo, checché ne dica Geertz – che citerò diffusamente
nel capitolo sullo scalpellino -, subisce una continua formazione nel corso della vita di ogni
uomo.
Per la biologia neodarwiniana, come è noto, gli uomini e tutte le altre creature si sono
evoluti attraverso un processo di variazione e di selezione naturale. Il postulato di detta tesi è
che la crescita e la maturazione dell’organismo individuale - altrimenti dette sviluppo
ontogenetico - è cosa separata dall’evoluzione della specie alla quale esso appartiene: ciò che
un organismo fa durante la vita è una conseguenza dell’evoluzione della sua specie e ha delle
conseguenze su di essa. Tuttavia la storia della vita non sarebbe parte di quell’evoluzione;
l’evoluzione non sarebbe infatti un processo di vita, in quanto per i neodarwisti non evolve
l’organismo vivente in sé, ma il suo disegno formale noto come genotipo, per definizione
indipendente dai vari contesi di sviluppo; tale evoluzione avverrebbe nell’avvicendarsi di
varie generazioni mediante graduali cambiamenti nella frequenza dei geni, dovuti alla
selezione naturale. Lo sviluppo ontogenetico sopra accennato sarebbe un processo attraverso
il quale le specificazioni del genotipo vengono tradotte, in un certo contesto ambientale, nella
forma manifesta del fenotipo, considerato dalla maggior parte dei biologi contemporanei
come l’interazione tra il genotipo e l’ambiente.
Il genotipo diverrebbe allora la forma organica, alla quale l’ambiente fornirebbe la
materia per la sua realizzazione concreta. Le diverse caratteristiche sviluppate dagli organismi
in ambienti diversi non sarebbero altro che espressioni fenotipiche alternative dello stesso
modello di base. Quando cambia il genotipo, il modello, solo allora si avrebbe evoluzione. Per
i neodarwinisti sarebbe quindi possibile esplicitare che cosa sia l’essere umano
indipendentemente dalle molteplici condizioni di sviluppo nelle quali si trovano a vivere gli
uomini.
39 Ingold è ovviamente su una linea del tutto diversa: egli ritiene che la distinzione tra geni
e ambiente sia frutto di un’altra divisione molto più antica e tutta occidentale, la distinzione
tra forma e sostanza; a interagire con l’ambiente - obietta ai neodarwinisti - non sono solo i
geni, ma qualsiasi altra parte di una cellula.
Si postula che gli esseri umani costituiscano una specie, cioè una classe di entità
raggruppabili secondo delle caratteristiche comuni trasmesse di generazioni in generazione a
partire da un antenato comune. La natura umana non sarebbe che la somma di queste
caratteristiche.
A questa nozione molto antica, la teoria neodarwiniana ha aggiunto che la natura umana
è il prodotto di un processo evolutivo, di modo che se il camminare fa parte della natura
umana, esso si espleterebbe sulla base di una sorta di programma per l’assemblaggio
dell’apparato bipede funzionante, evolutosi insieme a tutti gli altri elementi della dotazione
genotipica. I modi specifici del camminare non sarebbero invece evoluti, ma realizzazioni
fenotipiche alternative di un tratto genotipico stabilito. Gli uomini sarebbero dunque
universalmente equipaggiati della capacità innata di camminare su due piedi, come di
un’infinita gamma di altre capacità.
Come la biologia neodarwiniana postula un programma specifico indipendente dal
contesto per il paradigma di un corpo, analogamente - nel campo della psicologia - la scienza
cognitiva postula un modello altrettanto indipendente dal contesto per la struttura della mente,
già operativo prima di una qualsiasi trasmissione di rappresentazioni culturali. Si postulano
quindi strutture mentali innate, che non possono essere trasmesse culturalmente.
Così come l’evoluzione avrebbe equipaggiato gli esseri umani di un corpo che sa
parlare e camminare, li avrebbe anche equipaggiati di una mente provvista di meccanismi di
acquisizione che permettono di assorbire le rappresentazioni del camminare secondo modi
culturalmente specifici e del parlare determinate lingue. I meccanismi innati permetterebbero
di apprendere, senza che la mente sia una tabula rasa incapace di distinguere tra i dati di
esperienza.
Perché una tale architettura della mente predefinita alla nascita possa funzionare, essa
dovrebbe esistere non solo in maniera virtuale in un modello (come il genotipo dei biologi
evolutivi), dovrebbe piuttosto essere già un hardware nel cervello; la scienza cognitiva si
dimentica però che per apprendere occorre molto di più del semplice incontro tra dati ed
elaboratore. Un aereo disegnato su di un foglio non è pronto per il decollo, sostiene
convincentemente Ingold.
Ulteriore ingombrante bagaglio è una certa nozione di cultura, concepita come un
corpus di conoscenze trasmissibile di generazione in generazione e indipendente dalla loro
applicazione pratica. Nozione questa che risale all’antropologo Ward Goodenough, il quale
nel 1957 affermò che la cultura di una società consiste di ciò che si deve sapere o credere per
poter operare in maniera accettabile agli altri suoi membri. Si acquisirebbe una cultura per
operare e funzionare nel mondo.
Siamo di nuovo – sostiene Ingold - di fronte a una sorta di equipaggiamento genotipico
distinto dall’espressione fenotipica: l’informazione culturale conterrebbe delle specificazioni
per il comportamento, indipendenti dal contesto e codificate in programmi, regole e istruzioni.
Come il genotipo si realizzerebbe nella forma del fenotipo interagendo col contesto, così la
40 cultura si esprimerebbe nella storia di vita dell’individuo attraverso il suo comportamento
situato in un ambiente. La teoria culturalista qui sostenuta ritiene che ciascuno riceverebbe dai
predecessori un corredo di geni da una parte e di istruzioni culturali (memi) dall’altra, che
sinergicamente determinerebbero lo sviluppo del comportamento.
La biologia evolutiva, la scienza cognitiva e la teoria della cultura scompongono,
secondo Ingold, l’essere vivente in tre elementi: genotipo, mente e cultura, condividendo tutte
e tre il postulato che le forme organiche, le capacità intellettuali e le disposizioni
comportamentali degli esseri umani sono specificate e determinate indipendentemente e prima
del loro coinvolgimento nei contesti pratici dell’attività.
Ingold ritiene che sulla base delle critiche avanzate dalla biologia dello sviluppo, dalla
psicologia ecologica e dalla teoria antropologica della pratica, le divisioni convenzionali tra
corpo mente e cultura possono svanire; egli ritiene che l’organismo persona possa essere
osservato da un punto di vista unitario, che passa attraverso processi di crescita e di sviluppo
in un ambiente, contribuendo al contempo con la sua presenza e attività allo sviluppo degli
altri.
IV
Ingold non nega certo che ogni organismo cominci a vivere dotato del suo DNA nel
genoma, ma assicura che esso non agisce indipendentemente dal processo di sviluppo: non
esiste – secondo lo studioso - un disegno formale dell’organismo distinto dalla sua forma
fenotipica emergente in un particolare contesto di sviluppo; conseguentemente le capacità
degli organismi sono da attribuire alle potenzialità generative dell’intero sistema di relazioni
costituito dalla presenza dell’organismo, compresi i suoi geni, in un particolare ambiente,
altrimenti definibile come sistema evolutivo.
Ingold non nega quindi i cambiamenti genetici, né che essi avvengano in base alla
selezione naturale; nega piuttosto che il nesso tra detti cambiamenti genetici e le forme o
capacità degli organismi sia indipendente dalle dinamiche del loro sviluppo.
Lo studioso invita a ripensare l’uomo col pensiero relazionale, che non vede gli
organismi come entità predefinite, ma come luoghi di crescita e di sviluppo all’interno di un
continuo campo di relazioni; un campo che si dispiega nelle storie di vita degli organismi e
che essi introflettono attraverso processi di incorporazione nelle loro specifiche morfologie,
capacità di movimento, di coscienza e di risonanza.
Una complementarità del dispiegamento di forme e dell’introflessione di relazioni,
secondo la metafora embriologica della introflessione ed estroflessione dei tessuti, che
richiama molto da vicino la pasta fatta in casa da mia nonna, nella quale le relazioni tra
ingredienti, le uova, la farina, il sale, si introflettono per poi dispiegarsi nella forma mutevole
della sfoglia, che dopo vari aggiustamenti apportati da mani esperte diveniva davanti agli
occhi curiosi di me bambina una splendida forma geometrica pressoché circolare.
La concezione dell’evoluzione elaborata da Ingold è più topologica che statistica,
attenta a osservare il processo evolutivo dall’interno, un processo partecipe di un tutto, di una
continua vita organica, nella quale l’organismo persona riveste il ruolo di agente creativo in
un campo totale di relazioni.
41 Non è quindi possibile – sostiene lo studioso - dire che cosa sia un essere umano al di
fuori dei modi molteplici in cui gli esseri umani si pongono in un continuo divenire, nel
vivere la propria vita in ambienti diversi. Non esiste neppure un’essenza predefinita
dell’attività, che si possa isolare dalla performance dell’attività stessa in tempo reale.
Le abilità, e.g. il modo di camminare, sono per Ingold proprietà dei sistemi evolutivi,
non dei geni, né della cultura. Per questo, spiegare l’evoluzione significa capire come tali
sistemi si costituiscono e ricostituiscono nel tempo. Parlare di modelli non è solo
semplicistico, ma anche enormemente fuorviante. Gli esseri umani, al pari di tutte le altre
forme di vita, costituiscono con le loro azioni le condizioni ambientali per il proprio sviluppo
futuro, come anche per quello degli altri organismi con i quali si relazionano. Essi non sono
luoghi passivi del cambiamento, sono piuttosto agenti creativi produttori e prodotti della
propria evoluzione.
Faber est suae quisque fortunae. Quisque, come vuole Sallustio, ma anche quidque
possiamo aggiungere noi, chiunque e qualsiasi cosa, artefici di una sorte - a quel punto collettiva.
Secondo la tesi della complementarità, ogni essere umano è in parte costituito
geneticamente e in parte forgiato dall’imposizione di valori preesistenti, attraverso un
processo di formazione comunemente detto di inculturazione o socializzazione.
I veri esseri umani crescono invece – sostiene Ingold - in un ambiente caratterizzato
dalla presenza e dalle attività degli altri. Procedendo nella loro vita, essi abbandonano certi
modi di fare e ne adottano altri: l’essere umano non progredisce da uno stadio di
incompletezza biologica verso uno stadio di completezza sociale, perché ognuno di noi è
indissolubilmente organismo e persona dall’inizio alla fine. Il camminare è così al tempo
stesso biologico e sociale, non perché somma di componenti separate: è grazie al
coinvolgimento nel mondo sociale che ci si sviluppa come esseri organici, nessun bambino
impara a camminare da solo. Nella pratica quotidiana poi, i movimenti di una persona sono in
risonanza con quelli dell’ambiente circostante. L’abilità del camminare si apprende grazie a
questa sensibilità. Il camminare può di sicuro essere visto nella sua dimensione sociale più in
questo senso che non in quanto espressione di valori risiedenti in domini extra-somatici di
rappresentazioni collettive.
Per la psicologia ecologica, i vari aspetti della competenza culturale compreso il
linguaggio, non sono acquisiti, ma continuamente generati nei contesti di sviluppo, cosicché
imparare a suonare uno strumento, a maneggiare lo scalpello o il telaio, o a parlare una lingua,
non significa acquisire rappresentazioni tali dell’ambiente che soddisfino meccanismi
cognitivi precostituiti, ma è questione di formazione in un certo ambiente. L’idea che la
cultura si trasmetta di generazione in generazione come un corpus di conoscenze,
indipendentemente dalla sua applicazione pratica, è una favola o, per meglio dire, un mito
basato sull’impossibile precondizione di un’architettura cognitiva data a priori.
Nulla viene trasmesso davvero, secondo Ingold. La crescita della conoscenza pratica
nella storia di vita di una persona non è il risultato della trasmissione genetica di informazioni,
ma di una riscoperta guidata.
Ogni nuova generazione di apprendisti impara per il fatto del loro essere situati in
determinati contesti, alle prese con certi compiti: qui mani più esperte mostrano loro cosa fare
e a cosa prestare attenzione. Mostrare qualcosa a qualcuno ha il pregnante significato di
42 rendere qualcosa presente a quella persona, in modo che essa lo apprenda direttamente,
attraverso lo sguardo, l’ascolto o il tatto. Un’operazione questa che può essere declinata in
mille maniere e comprende sicuramente anche il procedere del padre Egidio nei confronti del
figlio Alessandro o i metodi degli innumerevoli insegnanti di Angela sparsi in svariate parti
del mondo. La responsabilità del tutore sta nel creare le condizioni che permettono
all’apprendista di fare esperienza senza mediazioni.
L’apprendista è invitato quindi a porgere attenzione ai vari aspetti di ciò che vede, sente
o tocca, in modo che l’approccio sia immediato. Ciò che ciascuna generazione fornisce alla
successiva, più che un insieme di regole e rappresentazioni per la produzione del
comportamento appropriato, è un ventaglio di circostanze specifiche nelle quali gli
apprendisti, crescendo in un mondo sociale, possono sviluppare le proprie abilità e
disposizioni incorporate, unitamente alle proprie capacità di coscienza e sensibilità.
Apprendere in questo senso è un’educazione dell’attenzione, riprendendo un’espressione di
James Gibson.
La tesi, basilare per la scienza cognitiva, che gli individui acquisiscono la conoscenza
per operare nel mondo attraverso l’elaborazione nella mente di input sensoriali immessi dagli
organi recettori del corpo viene risolutamente rifiutata dagli psicologi ecologici; essa separa
artificialmente le attività della mente nel corpo dalla reattività del corpo nel mondo e così
facendo ripropone la dicotomia tra mente e corpo, presente nel nostro pensiero dai tempi di
Descartes.
L’approccio ecologico di Ingold prende al contrario come punto di partenza la
condizione dell’intero organismo persona, corpo e mente inseparabili, immerso nei compiti
pratici della vita e alle prese con le componenti rilevanti del proprio ambiente. L’uomo, non
diversamente dagli altri animali, prende conoscenza del mondo in maniera diretta,
muovendosi nell’ambiente e sperimentandolo concretamente, senza rappresentazioni mentali
precostituite. Il significato per l’uomo non è la forma imposta dalla mente al flusso dei dati
sensibili attraverso schemi innati o acquisiti, ma il significato è continuamente generato nei
contesti relazionali del coinvolgimento pratico degli uomini nel mondo circostante.
Gibson sosteneva che impariamo a percepire attraverso una sintonizzazione dell’intero
sistema percettivo, compreso il cervello e gli organi ricettori periferici, rispetto a particolari
caratteristiche del nostro ambiente. Attraverso questo processo, l’essere umano assume
l’aspetto di un centro di coscienza e di intenzionalità i cui processi sono in risonanza con
quelli dell’ambiente. La conoscenza, lungi dal situarsi nella relazione tra le strutture del
mondo e quelle della mente mediate dalla persona conoscente, è immanente nella vita del
conoscente e si sviluppa nel contesto della pratica instaurata grazie alla sua presenza in quanto
essere-nel-mondo.
V
Secondo la tesi della complementarità, la cultura consisterebbe di pacchetti di regole e
rappresentazioni trasmissibili di generazione in generazione, indipendentemente dalla loro
applicazione pratica nei contesti di percezione e azione. Regole e rappresentazioni, che gli
antropologi cognitivi chiamano ‘modelli culturali’, molto simili a ciò che gli psicologi
chiamano ‘schemi’, fornirebbero alla persona ciò che essa deve sapere per poter agire nel
modo in cui agisce, fare le cose che fa e interpretare la propria esperienza nel mondo nel
43 modo specifico che le è proprio. Proprio come il modello formale che la biologia ortodossa
attribuisce al genotipo dell’organismo viene considerato inalterabile dalle contingenze della
sua storia di vita, così la conoscenza contenuta nei modelli culturali viene considerata
impermeabile alla pratica concreta del fare, del costruire, dell’esperire. Acquisita dai
predecessori, conservata nella memoria e trasmessa ai successori, questa conoscenza verrebbe
espressa nella pratica, ma non generata da essa.
Questa la concezione della cultura aborrita da Ingold e rifiutata per altro da un vasto
movimento dell’antropologia contemporanea. Si pensi soprattutto a Pierre Bourdieu, che
ritiene la conoscenza non importata dalla mente nei contesti esperienziali, ma piuttosto
generata all’interno di questi contesti nel corso del reciproco coinvolgimento con gli altri
nelle faccende ordinarie e quotidiane. Egli pensa a un tipo di conoscenza pratica, un knowhow incorporato, estremamente refrattario alla codificazione in sistemi di regole e
rappresentazioni. Abilità quali quella di allacciarsi le scarpe, rompere un uovo o stirare non si
svilupperebbero quindi attraverso istruzioni formali, quanto piuttosto attraverso performance
ripetute e spesso tacite di compiti che richiedono posture e gesti specifici del corpo.
Queste abilità, che forniscono alla persona anche un orientamento nel mondo, sono
incorporate, sviluppatesi cioè insieme al corpo, che non è un contenitore nel quale versare un
contenuto sociale o culturale.
L’abilità nel camminare, per esempio, sta nella sensibilità del movimento ai movimenti
degli altri nello spazio circostante e alle condizioni sempre in mutamento dell’ambiente non
umano. Il passo dell’oca dei militari è infatti possibile solo sulla superficie uniforme e liscia
dei viali da parata. Fuori da quel contesto, si inciamperebbe in continuazione, in quanto in
condizioni normali l’andatura umana, benché ritmica, non è mai cronometrica e i piedi e le
ginocchia non eseguono mai la stessa traiettoria passo dopo passo.
Lo scienziato russo Nicholai Bernstein osservando la pratica esperta dei fabbri notò che
la traiettoria della punta del martello di un fabbro esperto era pressoché identica nel corso di
una serie di colpi dati sull’incudine, contrariamente alla traiettoria degli arti dell’operatore,
che subiva notevoli variazioni colpo dopo colpo. Egli notò che è il moto del martello, non
quello degli arti a essere replicato in modo identico, benché siano gli arti a produrre il moto
del martello. Questo accade – dedusse - perché i movimenti del fabbro non possono essere il
risultato di un programma motorio fisso; anzi, il segreto della destrezza risiede nel continuo
aggiustamento o sintonizzazione del movimento, in risposta a un continuo monitoraggio
percettivo del compito in atto.
Il fabbro è un essere senziente mentre lavora, la percezione di un dolore o il fastidio
provocato da un elemento esterno, che sicuramente bloccherebbe un macchinario, è assorbito
da movimenti compensatori senza che ne faccia le spese il risultato del suo lavoro. Nessun
tipo di pratica esperta comunque, neppure l’azione stessa del camminare, può essere quindi
ridotta all’applicazione meccanica di un programma motorio o di una formula fissi. Né si
deve credere che attraverso la replicazione di formule siffatte le abilità vengano trasmesse di
generazione in generazione.
I modelli tradizionali dell’apprendimento sociale separano la trasmissione intergenerazionale dell’informazione specifica di particolari tecniche dall’applicazione pratica di
questa informazione: prima verrebbe stabilito un modello o schema generativo nella mente
dell’apprendista, a partire dall’osservazione dei movimenti di chi è esperto in quella pratica;
44 poi l’apprendista imiterebbe questi movimenti come esemplificazioni della tecnica in
questione a partire dallo schema che se ne è fatto.
È ovvio che l’apprendimento di determinate abilità comporta sia l’osservazione, sia
l’imitazione. L’osservazione non consiste però nel farsi rappresentazioni mentali interne del
comportamento osservato, né l’imitazione è una traduzione di queste rappresentazioni nella
pratica.
VI
Vita, non vita, organico, inorganico, il tutto inserito in un flusso, in un processo, senza
che siano tracciabili confini definiti.
Clifford Geertz ritiene che il tipo di cultura che caratterizza l’umanità consiste
nell’imposizione di un quadro di rifermento simbolico arbitrario alla realtà, che viene
immaginata come un mondo di natura esterno, fonte di materie prime e di dati sensibili per i
diversi progetti di costruzione culturale. Egli distingue tra l’ambiente reale dato
indipendentemente dai sensi dall’ambiente percepito come esso è ricostruito nella mente
attraverso la messa in ordine di dati di senso secondo schemi cognitivi acquisiti.
Il punto di partenza è sempre la distinzione tra il corpo e la mente, di modo che chi
percepisce il mondo lo deve ricostruire nella mente prima di intervenirvi.
Ingold pensa invece che la vita non sia qualcosa che viene infusa separatamente nella
materia inerte. Vita è piuttosto un nome per definire ciò che accade nel campo generativo
all’interno del quale le forme organiche si trovano e si mantengono. La vita non è in un
organismo, ma sono gli organismi a trovarsi nella vita. I processi hanno per Ingold la priorità
sugli eventi. La comparsa di un organismo non è un evento puntuale nella storia delle cose, la
vita non è un presente esteso, ma un continuo divenire. L’organismo è l’incarnazione di un
processo di vita. Lo studioso cita Cassirer che ritiene la vita organica esistente solo nella
misura in cui evolve nel tempo. Non una cosa, ma un processo, un flusso continuo di eventi.
L’organismo non è mai localizzato in un singolo istante, il passato presente e futuro formano
un tutto indivisibile. Ingold condivide quanto sostenne Bergson: l’organismo vivente non
dovrebbe essere considerato come un oggetto, ma come un essere che dura.
La vita è un movimento che progressivamente costruisce strutture emergenti. La
crescita non è solo rivelazione, essa è generazione della forma: gli organismi crescono, non
sono assemblati come le parti preesistenti di una macchina; nella macchina ogni parte si
forma indipendentemente dalle altre e con esse interagisce solo attraverso contatti esterni.
Nell’organismo vivente ciascuna parte prende forma in relazione continua con le altre, in
modo che la parte inflette al suo interno l’intero sistema delle relazioni che l’hanno resa ciò
che è. L’ordine relazionale in cui tutto si trova introflesso in tutto il resto diviene allora un
ordine implicato, diverso dall’ordine esplicato nel quale tutto si chiude a tutto il resto. Questo,
sia nelle relazioni tra le parti dell’organismo, sia in quelle tra organismo e ambiente.
L’ambiente non è qualcosa che è sempre stato lì fin dall’inizio, al quale l’organismo deve
adattarsi; esso al contrario può essere solo riconosciuto in relazione a un organismo di cui
esso è ambiente, perché è la figura a porre in essere lo sfondo. Il processo di formazione
dell’organismo è dunque anche il processo di formazione del suo ambiente.
45 L’ambiente non può essere concepito indipendentemente dagli organismi come un
insieme di vincoli esterni, né l’organismo può essere specificato indipendentemente
dall’ambiente come un insieme di geni, come vorrebbe il neodarwinismo che vede lo sviluppo
come l’effetto combinato di cause interne ed esterne. Occorre invertire l’ordine del
ragionamento e vedere organismo e ambiente emergere da un continuo processo di sviluppo;
la loro interfaccia non un contatto tra domini separati: implicata nell’organismo stesso è così
la storia intera delle sue relazioni ambientali.
VII
La sociobiologia neodarwiniana esclude la vita sociale dalle proprie teorizzazioni,
proprio come la biologia neodarwiniana esclude la vita dal proprio oggetto di studio. La
sociobiologia viene definita come lo studio sistematico delle basi biologiche di tutto il
comportamento sociale. Ma Ingold nutre seri dubbi in merito alla spavalda affermazione dei
sociobiologi neodarwiniani, che implica che tutto il comportamento sociale abbia base
biologica.
Il determinismo genetico talvolta è rifiutato dai sociobiologi, alcuni dei quali pensano
che l’esistenza di elementi replicatori del programma non sia solo nei geni, ma anche nel
cervello, e danno loro il nome di meme: un neologismo per indicare niente altro che il tratto
culturale.
Cultura e comportamento è l’ennesimo dualismo, che Ingold intende vanificare. Non
serve quella coppia – dice lui - a riempire il vuoto lasciato genotipo e fenotipo per una teoria
dell’essere umano. Input genetici e output fenotipici tagliano fuori il campo di relazioni che è
proprio quello che Ingold intende per organismo, ovvero la capacità di autorganizzazione
della vita organica. Il dualismo cultura e comportamento esclude a sua volta la coscienza, che
è il vasto campo di relazioni tra i due termini.
Ingold ritiene che la persona sia la sede della coscienza, il luogo dell’agire intenzionale.
L’individuo non è quindi inteso come un essere isolato e racchiuso in se stesso, dato
indipendentemente e prima delle sue relazioni esterne. Ogni organismo è per Ingold piuttosto
un sistema aperto, generato all’interno di un campo relazionale, che attraversa l’interfaccia col
suo ambiente, comprese le relazioni con gli altri esseri umani. Quel nesso di relazioni
costituisce un individuo come persona.
L’essere umano è - per Ingold – non due cose, individuo e persona, ma un organismo
unitario. La persona è poi un aspetto dell’organismo, come la vita sociale è un aspetto della
vita organica. Solo in questo senso si può dire che essa abbia una base biologica. Non ci sono
persone senza vita sociale e viceversa.
Ingold usa il termine persona per riferirsi al soggetto conscio delle relazioni sociale.
Non è comunque chiaro il punto di transizione che segni la prima emergenza della coscienza.
Non si sa se e che tipo di coscienza abbiano gli animali, quindi il termine persona si applica
all’umanità, ma non in modo necessariamente esclusivo. Ingold crede che diventare persona
non comporti l’innestamento di una specifica essenza umana su un substrato organico
indifferenziato, quanto piuttosto che la persona venga formandosi gradualmente nel corso
dello sviluppo dell’organismo umano. Tale sviluppo non è dato dall’imposizione di una
struttura esteriore di relazioni sociali alla materia prima data dagli individui organici
46 preformati. Ogni neonato viene al mondo già situato in un campo di relazioni sociali, che
accoglierà nelle strutture della coscienza, divenendo così una persona. Attraverso questa
introflessione delle relazioni sociali nella coscienza, la persona emerge come un agente
autonomo con la sua propria identità; essa agirà nel mondo formando nuove relazioni dalle
quali emergeranno a loro volta nuove persone, cosicché, citando Vygotsky - esponente della
psicologia storico–sociale di impostazione marxista -, Ingold sostiene che la vera direzione
dello sviluppo va dal sociale all’individuale, non viceversa.
La socialità non è una qualità preprogrammata delle persone, né risiede nella forza
collettiva opposta agli individui, essa è piuttosto la qualità essenziale delle relazioni che si
fonda sulla mutua coimplicazione di coscienza e intersoggettività.
Secondo Ingold, la vita sociale non è data da una serie di interazioni, quanto piuttosto da
un dispiegamento di relazioni. La relazione è cosa ben più complessa rispetto all’interazione,
in quanto comporta una serie di interazioni nel tempo tra due individui noti l’uno all’altro.
Ogni interazione in una relazione si basa su una storia precedente di coinvolgimento tra
individui e avrà una ricaduta sulle loro interazioni future. Una relazione non è né un evento,
né una semplice concatenazione di eventi, ma un processo in continua creazione nel tempo.
Scindere una relazione nelle sue interazioni costitutive significa trascurare il flusso di socialità
che le lega in quanto momenti di un processo. Il dispiegarsi creativo di una relazione è anche
un divenire delle persone che in essa interagiscono. Come incarnazioni di relazioni, le persone
esistono e persistono solo nella misura in cui esse sono attivamente mantenute all’interno del
movimento della vita sociale. Persone quindi non come individui aprioristicamente dati a
generare la vita sociale, ma vita sociale come formazione progressiva di relazioni nelle
strutture della coscienza, formazione che equivale alla generazione delle persone. La
coscienza introflette le relazioni sociali del proprio mondo e si estroflette dispiegandosi in
ulteriori relazioni sociali.
Anche in questo caso torna in gioco la sfoglia di mia nonna.
VIII
Nella vita organica ciascuna parte introflette le sue relazioni con tutte le altre parti, nella
vita sociale ciascuna persona introflette e implica le sue relazioni con tutte le altre persone.
Come l’organismo può essere ricostruito attraverso un processo di dispiegamento a partire da
una sola parte, così nella vita sociale le strutture relazionali implicate nella coscienza della
persona possono essere ricostruite attraverso il loro dispiegamento nell’azione sociale. La
socialità è una dinamica potenziale di un ordine implicato.
Nei giorni lontani del dibattito tra natura e cultura – sostiene Ingold - la prima veniva
descritta come un insieme di influenze interne ed ereditarie sul comportamento; la cultura,
come un insieme di influenze esterne e ambientali. Tuttoggi, geni e ambienti sono visti in
certa letteratura come determinazioni endogene ed esogene del comportamento.
Ciascun comportamento è da vedere invece come parte di un’interazione, imbricata
(embedded) nell’evoluzione di una relazione. In detta evoluzione, la formazione delle persone
è anche la formazione del loro ambiente, perché l’ambiente non è la somma di precondizioni
esogene e la persona la somma dei tratti endogeni. Il comportamento poi non è una somma
aritmetica di cause endogene ed esogene, ma dischiude un momento in un processo continuo
47 di sviluppo all’interno di un campo relazionale il cui risultato è la mutua integrazione e la
complementarità tra persona e ambiente.
La vita sociale è un processo che consiste nel dispiegamento creativo delle relazioni e
nella formazione delle persone; quel dispiegamento riguarda un campo generativo totale, non
è il risultato di interazioni puntuali tra individui separati. Le proprietà dinamiche di quel
campo sono individuate da Ingold nella socialità: essa sta all’informazione geneticamente o
culturalmente trasmessa come un’equazione sta ai valori dei suoi parametri.
La variazione genetica o culturale può produrre modulazioni evolutive del campo
sociale, ma ciò non significa che le forme sociali siano determinate geneticamente o
culturalmente.
La cultura ci permette di spiegare la maggior parte delle differenze tra forme sociali, ma
queste differenze sono suscettibili di trasformazione per azione della socialità, intesa –
ripetiamo – come campo generativo totale.
L’antropologia culturale tradizionale – lamenta Ingold - è invece caduta nello stesso
errore della genetica moderna, pensando che le forme si esauriscano nelle differenze. Il gene o
tratto è un concetto fuorviante, che confonde aspetti dell’agire umano con parti sostanziali. È
errato pensare che gli uomini, ricevendo per tradizione un certo insieme di tratti culturali,
siano equipaggiati di tutto ciò che è necessario a organizzare la vita sociale: la genesi
dell’ordine sociale sta invece in quei domini della coscienza e della intersoggettività, che sono
messe tra parentesi dalla partizione dell’essere umano in geni, cultura e comportamento.
L’antropologia sociale non può definire la persona come oggetto del suo studio in
opposizione alla biologia, altrimenti si accentua la dicotomia tra la parte individuale e quella
sociale dell’uomo. Occorre invece porre nuovamente il soggetto umano nel continuum della
vita organica.
La teoria delle persone di Ingold può essere così fatta rientrare in una teoria più generale
degli organismi, senza mettere in dubbio il ruolo dell’agente umano e senza negare la
creatività essenziale della vita sociale. Creatività che, elevata dalla coscienza in maniera
esponenziale, non è che un aspetto specifico della capacità universale degli organismi di dare
origine al loro stesso sviluppo.
IX
Della prospettiva del costruire e dell’abitare, delineate da Ingold sulla scia di Heidegger.
L’aspetto fondamentale della vita nella quale sono immersi gli organismi è che non ha
un punto di partenza e uno di arrivo, trattandosi di un processo continuo: un ambiente non è
mai dato, ma sempre in costruzione. Da questa angolazione, si sfumano i confini tracciati dai
molti bipolarismi del pensiero occidentale.
Gli esseri umani non abitano mondi discorsivi di significati culturalmente costruiti,
sovrapposti a un substrato materiale continuo e indifferenziato, come inizialmente e
convenzionalmente aveva creduto anche lo stesso Ingold.
È quanto mai opportuno liberarci dalla descrizione degli esseri umani come
schizofrenici, metà natura metà cultura, altrimenti rimaniamo improduttivamente invischiati
nel dualismo cartesiano. È necessario un modo nuovo di pensare gli organismi e le loro
48 relazioni con i contesti ambientali, per proporre il quale Ingold si è rifatto alla biologia
evolutiva, alla psicologia ecologica, al pensiero di Heidegger e di Maurice Merleau-Ponty.
Le fonti di Ingold sopracitate concordano sul fatto che la vita non è il dispiegamento di
una forma preesistente, ma il processo stesso attraverso il quale la forma si genera e si
mantiene. L’uomo non è quindi separato dal mondo, ma un agente nel mondo. Ed è proprio
attraverso il suo essere abitato – prima che costruito - che il mondo diventa un contesto ricco
di significato. Ecco delineata la prospettiva dell’abitare.
Clifford Geertz ha sostenuto che l’uomo è un animale impigliato nelle reti di significato
che egli stesso ha tessuto. L’affermazione vine smontata da Ingold, perché essa implicherebbe
che gli altri animali non lo sono. I ragni però fanno altrettanto, anche se con le loro tele
catturano insetti, non pensieri. Come gli umani, Ingold ritiene che anche gli animali si
costruiscano i loro mondi. A tale proposito lo studioso riporta una illuminante citazione da
Jakob von Uexküll Una passeggiata nei mondi degli animali e degli uomini che risale al
1957: ‘Come il ragno intesse la sua tela, ogni soggetto intesse relazioni con qualche aspetto
delle cose intorno a sé e le tesse in una salda rete che sostiene la sua stessa esistenza’. Il fatto
interessante è che lo studioso estone stia parlando degli acari. La differenza - tra umani e non
umani - si fa da questa angolazione via via più labile.
Si dice che gli esseri umani sono costruttori di mondi; vediamo più da vicino in cosa
differiscano o siano affini le modalità di costruzione di mondi di umani e non umani.
I mondi, più che essere costruiti, sono abitati, e a guardar bene non è scontato definire
artificiale solo ciò che è fatto dall’uomo. La conchiglia di un mollusco, la tana del castoro, le
celle delle api e l’umana abitazione hanno infatti molto in comune. La prima fa parte del
corpo del mollusco, cresce insieme ad esso, e per considerarsi artefatto dovrebbe esserne
separata, è l’obiezione più facile. Il castoro non è il progettista della tana così come il
mollusco non lo è della conchiglia, diranno altri ancora. Gli umani sarebbero invece autori dei
loro progetti attraverso processi decisionali e scelte.
Il sopracitato Von Uexküll, che fu uno dei padri fondatori dell’etologia, disse che
l’animale non poteva essere considerato come un mero assemblaggio di organi sensori e
motori, perché così facendo avremmo passato sotto silenzio il soggetto che percepisce e
agisce, che è invece opportuno considerare. Tutto ciò che un soggetto può percepire
costituisce il suo mondo percettivo e tutto ciò che fa, il suo mondo effettivo. Mondi percettivi
ed effettivi formano un’unità globale, l’ambiente, ovviamente inteso in senso diverso da ciò
che appare a un osservatore umano esterno. Noi non possiamo accedere agli ambienti,
Umwelten, di altre creature, ma possiamo immaginarli; le creature non possono fare
altrettanto: non potendo distaccare la loro coscienza dalle loro attività vitali, non possono
vedere gli oggetti per quello che sono in loro stessi. Per l’animale non umano quindi,
l’ambiente, concepito come dominio di oggetti neutrali, non può esistere. Un albero figura in
modi molto diversi negli Umwelten dei suoi numerosi abitanti, ma in nessuno di essi esiste
come un albero in sé. I modi di percepire l’albero che hanno un boscaiolo o un bambino sono
invece diversi, perché non legati al modus operandi dell’organismo. Gli uomini non
costruiscono il loro mondo in virtù di ciò che sono, ma in virtù delle concezioni delle loro
possibilità, limitate queste ultime solo dal potere dell’immaginazione. In ciò risiede la
distinzione tra i modi in cui l’esistenza soggettiva degli animali umani e non umani è sospesa
in reti di significato.
49 Negli animali non umani ogni filo della rete è una relazione tra esso e qualche oggetto o
caratteristica dell’ambiente, una relazione che viene stabilita attraverso la sua immersione
pratica nel mondo e dagli orientamenti corporei che implica tale immersione.
Per l’essere umano invece, le relazioni di cui consiste la rete sono iscritte in un piano
separato di rappresentazioni mentali, formando un ventaglio di significati sovrapposto al
mondo degli oggetti ambientali. Mentre l’animale non umano percepisce questi oggetti in
quanto immediatamente disponibili per l’uso, gli esseri umani li concepiscono inizialmente
come fenomeni i cui potenziali usi devono essere assegnati, prima di utilizzarli. Il boscaiolo
immagina la legna e adatta quell’immagine nel pensiero alla sua percezione dell’oggetto –
l’albero – prima di mettersi ad abbatterlo. Così l’appezzamento di terreno coltivabile esiste
prima come immagine mentale dell’agricoltore, alla quale egli raffronterà l’immagine di un
tratto di bosco, prima di operare quella trasformazione.
Come rappresentazioni mentali, la legna o l’appezzamento di terreno appartengono ai
mondi intenzionali del boscaiolo e dell’agricoltore; come fenomeni reali, la quercia e il tratto
di bosco appartengono all’ambiente fisico degli ‘oggetti neutrali’. I due mondi sono stati
convenzionalmente definiti dal pensiero occidentale come ‘natura’ e ‘cultura’.
Lo stesso Ingold, nelle sue riflessioni giovanili, pensava che costruire equivalesse a dare
un ordinamento culturale alla natura; oggi egli ha rivisto decisamente la sua posizione, perché
anche la sua attività di studioso, come tutta la vita, è processuale, viva e dinamica.
La prospettiva del costruire implica che i mondi siano già fatti prima che noi ci
entrassimo a vivere, che gli atti di abitazione sono preceduti da atti di costruzione del mondo.
Tornano alla mente i concetti di Grundlage e Uberbau che furono di Marx.
Ma siamo proprio certi che gli esseri umani abitino le varie case della cultura,
prefabbricate su un terreno naturalmente universale? - si chiede Ingold.
Si sono operate distinzioni tra società dotate di architettura e società senza architettura,
si è sostenuto che il punto di svolta significativo nell’evoluzione sociale umana sia stato il
passaggio dalle attività di caccia e raccolta a quella di essere abitante della città. Ingold però
nutre serie riserve circa la distinzione tra ambiente architettonicamente modificato e natura.
L’abitazione non dovrebbe essere concepita come un contenitore che deve essere
riempito di vita. L’architetto pianifica, costruisce, poi ci mette dentro le persone. Nella
prospettiva del costruire, l’organizzazione dello spazio precede cognitivamente la sua
espressione materiale, ambienti e contesti vengono prima pensati, poi realizzati.
Diverso pare il procedere del castoro nel realizzare la sua tana; si crede che gli animali
non umani non possano variare significativamente le forme che costruiscono, se non tramite
mutamenti evolutivi intervenuti nella forma essenziale delle specie. Tra gli umani invece la
forma costruita potrebbe variare indipendentemente da vincoli biologici, libera di seguire
percorsi di sviluppo propri, separata del tutto dal processo dell’evoluzione.
Questa tesi presuppone una sorta di soglia nella nostra evoluzione, un punto in cui i
nostri antenati furono sufficientemente equipaggiati con intelligenza e destrezza manuale da
diventare autori dei loro stessi progetti di costruzione.
Le grandi scimmie costruiscono il loro nido daccapo ogni sera allo scopo di dormirci. Il
nido può essere costruito ovunque e viene abbandonato la mattina successiva. Il nido umano è
invece un punto fisso, viene mantenuto per potervi tornare regolarmente. Esso ha gli attributi
di una casa, è un obiettivo nella fuga e un luogo di massima sicurezza.
50 La scimmia si costruisce il nido piegando la vegetazione intorno al proprio corpo con i
materiali che ha a disposizione, gli umani costruiscono una capanna con materiali adatti
reperiti anche a distanza, poi vi entrano. Ma siamo sicuri che gli umani risolsero il problema
di trovare riparo nelle loro menti prima di trovarne la soluzione?
Ingold intende distruggere la dicotomia tra natura e cultura e sfatare il mito della prima
capanna.
Secondo la concezione ortodossa della modernità occidentale, costruire e abitare sono
due attività separate, ma complementari, rispettivamente il mezzo e il fine. Abitare significa
occupare uno spazio abitativo, essendo l’edificio un contenitore per alcune attività della vita.
Si separano edificio e ambiente, house e home. Ma le abitazioni hanno già di per sé la
garanzia che un abitare sia in esse davvero possibile? Per fare di un edificio una casa è
sufficiente porvi dentro esseri umani? Sono questi gli interrogativi che si pone Ingold, sulla
scia di Heidegger.
A tale proposito, il filosofo tedesco, nel suo Costruire abitare pensare, indaga
sull’etimologia del termine corrente tedesco per ‘costruire’ bauen, che deriva dall’antico alto
tedesco buan che vale ‘abitare’. Significato, questo, rintracciabile in termini come l’inglese
neighbour, ‘colui che abita vicino’. In questo senso, il concetto di abitare non era limitato alla
sfera delle attività domestiche, ma si estendeva a tutte le attività, comprendeva l’intera
maniera in cui si vive sulla terra ed equivaleva in un certo senso a ‘essere’.
Un ulteriore significato di bauen è ‘preservare’, ‘avere cura’, ‘coltivare la terra’; vi è poi
un terzo significato, quello di ‘costruire’, ‘fare qualcosa’, ‘edificare una costruzione’.
Il termine per ‘abitare’ comprendeva quindi i significati di ‘coltivare’ e ‘costruire’.
Prima il costruire era limitato dall’abitare, essendo il significato principale del verbo
quello di ‘abitare’; adesso è l’abitare a essere limitato dal costruire, anche nella migliore delle
ipotesi, qualora cioè il progetto sia concepito sulla base di criteri funzionali; figuriamoci
quando gli architetti indulgono alle istanze estetiche a scapito di quelle funzionali, o quando i
sempre più frequenti ‘palazzinari’ – come chiamano a Roma i costruttori senza scrupoli,
artefici di spazi vuoti realizzati con materiali sempre più scadenti - pensano a tirar su cementi
con modalità volte solo al guadagno.
È quanto mai opportuno riconquistare la prospettiva originale, per comprendere di
nuovo come le attività del costruire – compresa quella dei palazzinari - e del coltivare
appartengano al nostro abitare il mondo. Non abitiamo perché abbiamo costruito, ma
costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo, cioè perché siamo in quanto siamo gli
abitanti. Il costruire è già di per sé un abitare.
Solo se abbiamo la capacità di abitare, potremo costruire. Parola di Heidegger.
Vediamo più da vicino le costruzioni dei non umani. La capacità di scavare tane non è
una dotazione biologica, una specie di design importato nell’organismo, un programma da
implementare, aprioristicamente dato. Per ogni animale, le condizioni di sviluppo sono
plasmate dai suoi predecessori: il castoro abita in un ambiente che è stato modificato dal
lavoro degli antenati, che costruirono dighe e tane. In tali ambienti modificati dall’attività dei
simili, si sviluppa l’orientamento spaziale dello stesso corpo del castoro, come anche i suoi
modelli di attività organizzata, non diversamente dagli esseri umani. I bambini crescono in un
ambiente conformato dal lavoro delle generazioni precedenti e, durante la loro crescita, essi
51 incorporano le forme del loro abitare, declinate in abilità, sensibilità, disposizioni specifiche.
Non le portano nei loro geni, né occorre immaginarsi un veicolo di trasmissione
intergenerazionale interno, per spiegare la diversità dei modi di vita umani. Da questa
angolazione, cadono tutte le dicotomie, tra evoluzione e storia, tra biologia e cultura. La storia
stessa va riconosciuta come un processo evolutivo, è assurdo ricercare un punto di
intersezione tra il continuum evolutivo e quello storico, come non ha senso ricercare la prima
capanna.
Anche la distinzione tra albero e casa, come ambienti costruiti e non costruiti, è del tutto
arbitraria secondo Ingold: la forma dell’albero non è immutabile, così come la forma della
casa non è definita una volta per tutte. Tutti gli abitanti, attraverso le loro varie attività di
abitazione, contribuiscono a creare le condizioni per le quali l’albero nel corso dei secoli
cresce e assume le sue peculiarità. Lo stesso accade agli umani.
X
L’artificio dell’operatore esperto non è – per Ingold - distinto in tecnico e sociale.
Quella separazione, accentuata all’avvento dei macchinari moderni che hanno tentato di
fagocitare il sapere della mano, resta comunque alquanto teorica, perché intorno alle
macchine si svilupperanno via via ulteriori saperi. A questo proposito, si possono rilevare
delle affinità con quanto sostiene Angioni (1986:78); nell’analisi della distinzione tra lavoro
intellettuale e manuale - sebbene l’approccio diverso da Ingold -, Angioni nota che nella
produzione moderna resta comunque difficile mantenere la distinzione tra progetto ed
esecuzione, proprio per il fatto che la tecnologia rende i lavoratori sempre più tecnici (nel
senso di progettisti) e i tecnici sempre più lavoratori, a significare che se i saperi esperti
artigiani vengono via via fagocitati dal macchinario, il progettista del macchinario sarà di pari
passo maggiormente coinvolto nel rapporto diretto e manuale con la macchina stessa,
sviluppando anche lui saperi manuali affini a quelli dell’operatore della macchina, che sarà a
sua volta partecipe del sapere del tecnico.
Le relazioni tecniche, dicevamo, sono imbricate nelle relazioni sociali – sostiene Ingold
- e possono essere comprese pienamente – come un aspetto della socialità umana - solo
all’interno di questa matrice relazionale.
Più che opportuno mi pare a questo punto riferire brevemente l’excursus di Ingold sulle
origini della tecnologia. Una particolare attenzione è conferita dallo studioso ai termini con
cui designiamo le nostre capacità di esseri umani e le nostre differenze dagli animali non
umani, termini che hanno una storia specifica nell’Occidente negli ultimi secoli. I termini in
questione sono società e natura.
A separare le due sfere, la tecnologia.
Nella storia del pensiero moderno, questi concetti sono posti in relazione con la
supremazia della ragione umana. La società sarebbe da intendersi come la modalità di
associazione degli esseri razionali, la natura sarebbe il mondo esterno degli oggetti quale
appare al soggetto razionale; la tecnologia il mezzo attraverso il quale una comprensione
razionale di quel mondo esterno andrebbe a diretto beneficio della società. Il termine
‘tecnologia’ contiene infatti il greco tekhné, ovvero il tipo di arte o di abilità associata alla
produzione di artefatti, unitamente al termine greco logos, con riferimento a un quadro di
52 principi razionali. Nell’antichità, i due termini ricorrono, separati, solo in ambito retorico per
definire l’arte dell’argomentazione; l’uso contemporaneo del termine, che risale al
diciassettesimo secolo, è proprio l’opposto, designando i principi razionali che governano la
produzione di artefatti, la ragione dell’arte cioè, piuttosto che l’arte della ragione.
La coniazione del neologismo, in coincidenza con la radicale trasformazione della
cosmologia occidentale introdotta da figure quali Galileo, Newton e Descartes, non è casuale:
l’universo diviene una vasta macchina, che - attraverso la comprensione razionale scientifica
dei suoi principi di funzionamento – attende di essere messa al servizio degli interessi e degli
scopi umani. Così la tecnologia sarebbe l’applicazione dei meccanismi naturali, scoperti
attraverso il ragionamento scientifico, ai fini della produzione di artefatti. Tekhné era invece
semplicemente il tipo di arte o di abilità associata alla produzione di artefatti.
Col passaggio dal concetto classico di tekhné a quello moderno di tecnologia, sono
mutate profondamente le modalità con cui considerare le relazioni tra gli esseri umani e la
loro attività: il concetto di tekhné forniva l’immagine di un artigiano immerso con tutto il suo
essere in un coinvolgimento sensoriale con il suo materiale; la tecnologia ha creato un
operatore il cui compito è di metter in moto un sistema esterno di forze di produzione,
secondo principi di funzionamento meccanico, agli antipodi rispetto alle particolari attitudini
e sensibilità umane dei sempre più rari artigiani.
L’artigiano del passato espleta la propria attività grazie ad abilità specifiche acquisite in
un lungo apprendistato nella sua arte. Il lavoro dell’operatore odierno è dettato da principi
basati sull’idea essenzialmente moderna che l’industria umana può fare meglio della natura.
L’artigiano esegue compiti familiari senza una specificazione precisa dei metodi con cui lo fa,
l’operatore implementa una tecnologia fatta di regole e procedure formali, la cui validità
prescinde dai fini specifici per cui esse vengono applicate.
Le abilità della mano non consistono – abbiamo visto - in rappresentazioni mentali
acquisite, trasmissibili di generazione in generazione, ma in capacità di attenzione e di
sensibilità, sviluppate e incarnate nel corpo.
La codificazione tecnologica delle abilità non ha potuto descrive neutralmente le attività
da codificare, con tutto il bagaglio che l’espletamento delle stesse da parte di un essere umano
comporta, ma ha potuto solo trasformarle in un processo di omologazione. All’espletamento
di tali attività codificate, la tecnologia ha imposto degli standard di correttezza procedurale;
essi influenzano senza ombra di dubbio il nostro apprezzamento della pratica, proprio come il
ricorso alla scrittura ha influenzato l’apprezzamento delle caratteristiche di un discorso.
Tuttavia, come la razionalizzazione del discorso ha avuto anche la conseguenza della
creazione della poesia - il cui potere espressivo sta nella libertà dalle regole stabilite per la
prosa -, così la razionalizzazione tecnologica della pratica abile ha mutato l’artigianato in un
genere specializzato di creazione artistica.
L’idea della tecnologia impone così una distinzione completa tra il concepimento e
l’esecuzione di un artefatto e relega la parte creativa del fare alla progettazione o al design.
L’implementazione del progetto è considerata un fattore tecnico, meccanico. Ne risulta una
dicotomia tra colui che crea e non esegue, e colui che esegue ma non crea. Occorre però
ribadire che l’abilità tecnica non scompare del tutto a favore della tecnologia, semplicemente
si riduce e si trasforma per il dilagare della produzione industriale.
L’operatore della macchina resta comunque un operatore esperto.
53 XI
Scivoliamo verso la conclusione del presente capitolo con alcune considerazioni sulle
possibili affinità tra le pratiche tecniche degli animali, umani e non umani, che verranno poi
riprese nei capitoli successivi.
Partiamo da poche e semplici domande. È possibile che gli animali non umani
possiedano una tecnologia? Possono cioè usare e produrre utensili?
Nel 1778 Benjamin Franklin definì l’uomo come un animale costruttore di strumenti; da
allora i dibattiti si sono trascinati fino a oggi senza soluzione di continuità, alimentati pure
dall’ambiguità di cosa significhi costruire o usare un utensile, e dalla poca chiarezza della
definizione stessa di utensile.
C’è differenza tra la tela del ragno e quella del pescatore? – si interroga Ingold.
Marx sosteneva che il ragno non disegna la sua tela prima di darne esecuzione
materiale; essa sarebbe il prodotto geneticamente programmato nel ragno ed eseguito senza
intenzionalità; il pescatore progetterebbe invece la propria rete.
Negli animali, tuttavia, non è difficile trovare esempi di design. Più che in oggetti
separati dal corpo, tali esempi andrebbero ricercati nel coordinamento intenzionale di arti o
altre parti del corpo delle grandi scimmie, messo in atto per formare figure corporee
temporanee: gli arti devono poi ritornare al loro uso principale!
Lo scarto tra una gestualità corporea cosciente e coordinata e l’azione di iscrivere un
disegno su un materiale durevole, esterno al corpo, è minimo.
Potremmo trovare altri esempi nella cooptazione degli oggetti tipica ancora delle grandi
scimmie. Nei non umani sono quindi individuabili almeno questi elementi: configurazione
coordinata e intenzionale di parti del corpo, cooptazione, comportamenti costruttivi non
intenzionali.
Dal modello cartesiano classico deriviamo che nella costruzione di utensili il corpo
lavora per eseguire un progetto disegnato nella mente da un processo intellettivo e che
l’azione segue meccanicamente il pensiero.
Per Ingold invece le abilità non sono delle tecniche del corpo individuale, considerato
come oggetto isolato. Esse sono piuttosto proprietà dell’intero sistema di relazioni costituito
dalla presenza dell’agente umano o non umano in un ambiente riccamente strutturato.
La pratica abile non è riducibile all’applicazione meccanica di una forza esterna, ma
comporta le qualità della cura, del giudizio e della destrezza. Qualunque cosa l’operatore
esperto faccia alle cose, questo si radica in un atteggiamento attento e percettivo, in un
coinvolgimento totale con le cose, guidato dalla intenzionalità dell’artefice, ed è del tutto
irrilevante la presenza o l’assenza di progetti sulla carta.
Lo stesso Ingold, in una fase precedente del suo pensiero, riteneva che tra il ragno e il
pescatore ci fossero delle differenze, perché poneva l’essenza del costruire nel farsi autore di
un progetto, piuttosto che nel comportamento costruttivo conseguente.
Il pescatore non è autore del progetto della rete più di quanto il ragno lo sia della sua
tela: il progetto della rete potrebbe non essere proprio del pescatore, ma far parte di una
tradizione culturale molto antica di cui si ignora l’autore. Non conviene però dare per scontato
il fatto che dietro a ogni forma ci sia sempre un design e che esso preveda tutto ciò che serve
per realizzare la forma. Questa è una tendenza tipica di coloro che scomodano la selezione
54 naturale o il suo analogo culturale per spiegare un progetto laddove non c’è traccia del
progettista. Ne segue che la costruzione sarebbe solo la trascrizione meccanica di un design
prefigurato. Le reti però non si tessono azionando un pulsante del cervello. Chiaramente
l’operatore esperto avrà le idee molto chiare circa quello che vuole ottenere ma, osservandolo
mentre lavora, si fa chiaro che la forma emerge da una serie complessa di movimenti eseguiti
con abilità, acquisita in un lungo dispiegarsi di applicazioni pratiche. A prescindere
dall’esistenza o mano di un progetto, l’emergenza di quella forma avrà sempre e comunque a
che fare con l’imprevisto e il contingente.
55 Lo scalpellino Alessandro Rialti di Castel San Niccolò
Faceva un freddo da neve la mattina dell’appuntamento. Trentotto caldi gradi di febbre
trattenevano a letto mio marito ed era chiaro che, se volevo andare, dovevo farlo da sola.
Oltre Arezzo, le colline erano puntinate di bianco, ma il fatto che Alessandro aveva dato
la sua disponibilità e che io mi ero organizzata per la figlia, mi spingeva oltre: era sciocco
tornare indietro, del resto avevo le catene nel bagagliaio e poteva essere la volta buona per
capire se era davvero facile montarle…
Lo scalpellino non mi conosceva, sapeva vagamente da dove venivo, ma se ci fosse
stato mezzo metro di neve, non avrebbe esitato a chiamarmi – mi convincevo davanti al
volante - pensando che il numero rimane impresso nella lista delle chiamate ricevute.
Un paese dopo l’altro, secondo un ritmo ormai noto, e una strada insperatamente libera
dalla neve mi porta in due ore scarse a Castel San Niccolò, in via Pegomas, più o meno
puntuale.
Il tutto accadeva a febbraio e mi vengono i brividi a pensare che solo la mattina dopo la
batteria della mia Panda si è ribellata pur essendo ancora in garanzia lasciandomi a piedi nel
parcheggio sotto casa.
Il posto mi era familiare per via del lavoro di catalogazione svolto al Centro di
interpretazione della Pietra lavorata, e non è stato difficile individuare il capannone, per
quanto non rimanga lungo la via principale. Per prima vedo l’insegna di Raffaello Colozzi,
ma non è lui che cerco: è un colosso della pietra ma so che non lavora più per via della silicosi
e che non ama le interviste. So anche che ha lasciato l’attività a un ragazzo che non discende
da una casata di scalpellini.
Più avanti un’ulteriore insegna apposta sulla facciata
di un capannone recante la scritta Scalpellino Rialti
Alessandro chiarisce che sono arrivata a destinazione.
Alessandro capisce al volo che non sono una cliente. Ci
studiamo per un attimo: io so già molto di lui; lui credeva
forse che le studenti non avessero tutti i miei anni.
Il capannone è molto grande, la radio è accesa, la
polvere depositata e sospesa nell’aria rende la pietra
onnipresente, anche all’olfatto.
Rifiuto il caffè non per scortesia, ma perché ho
bisogno di rilassarmi e scopro presto con piacere la loquacità del mio interlocutore.
Il mondo della nostra esperienza si pone in un divenire senza fine attorno a noi mentre
lo intrecciamo, sostiene Ingold nel suo saggio Intrecciare il mondo e produrre cultura (2001).
Se tale mondo ha una superficie, essa è come la superficie di un cesto: non ha un interno e un
esterno. La mente non sta al di sopra e la natura al di sotto. Tutto è compreso nell’intreccio.
Ciò che tenterò con questo capitolo è una lettura in chiave ecologica - ispirata da Ingold
- della biografia professionale del sopra menzionato Alessandro Rialti, oggi scalpellino a
Castel San Niccolò. Su come lo sia diventato, la spiegazione mitica, sotto la parvenza di
56 scientificità, invoca il DNA che deterministicamente lo legherebbe ai suoi antenati, scalpellini
da almeno tre generazioni. Io credo però che le cose siano andate diversamente.
Con il metodo di analisi che mi propongo di adottare, intendo porre l’oggetto d’indagine
– ovvero le scelte professionali e il saper fare di
Alessandro - in una rete di interazioni tra le singole
parti e il complesso di esse, riservando una
particolare attenzione all’ambiente inteso non come
aspetto separato in cui porre la rete relazionale –
ovvero l’intreccio -, ma come parte della rete stessa,
nella quale ogni singola componente, vivente o
meno, si struttura in un condizionamento reciproco
e ricorsivo con le altre.
Castel San Niccolò è un piccolo paese,
Alessandro, anno di nascita 1970, è bravo a scuola –
non stento a crederlo data la sua dialettica – e tenta la via del Liceo. Sicuramente si trova
meglio nella relazione con le persone che non in quella coi libri e i ritmi serrati delle superiori
non sono in risonanza con il suo orologio. Alle bocciature, segue l’abbandono. Negli
interstizi, si insinua comunque molto presto la pietra. La pietra non è solo macigno, è anche
polvere: ti entra dentro senza che tu te ne accorga.
Prima della costruzione dei capannoni, a Castel San Niccolò si lavorava nelle cave.
Erano di proprietà ecclesiastica, e in seguito furono vendute ai privati. Il lavoro di una volta
era massacrante, ne emergevano figure possenti, dai caratteri difficili, quali il padre Sughero
(Egidio all’anagrafe) e suo zio Feroce, ai quali la montagna non sapeva dire di no.
Parlando di tecnica e tecnologia, Ingold confuta la tesi di coloro che vedono nelle
attività dei nostri antenati cacciatori e raccoglitori un fallimento circa il tentativo di dominare
la natura. Essi in realtà non volevano vincere la natura – potremmo giocare con l’etimologia
dei verbi latini vinco-is che significa ‘vincere’ e vincio –is significa ‘legare’ da cui anche
‘vinco’ per intrecciar cesti, ‘vincolo’ etc. -, non si riproponevano neppure di legare la natura,
quanto piuttosto di intrecciarsi con essa; infatti volevano semplicemente relazionarvisi, tanto
che concepivano i loro strumenti di caccia più come veicoli di relazioni che non come
strumenti di guerra. Se la tagliola rimaneva vuota, era segno che il cervo non voleva donarsi
all’uomo e qualora invece l’animale avesse deciso di farlo, s’instaurava un rapporto nella cui
gerarchia il posto più alto era tenuto da colui che si dava.
Ecco, è esattamente in questo modo che percepisco il rapporto tra gli scalpellini di
Castel San Niccolò con la roccia delle loro montagne e credo di non sbagliarmi se anche il
termine tecnico in uso ai giorni nostri a indicare l’utilizzo di una cava è proprio quello di
‘coltivazione’ piuttosto che di ‘sfruttamento’ o simili.
Il figlio di Alessandro, otto anni compiuti, si chiama Pietro. Io trovo la cosa molto
divertente; Alessandro sostiene che si tratta di un puro caso. Il bambino ha comunque le idee
chiare: da grande farà lo scalpellino. Il suo rapporto con la pietra per ora non dura più di una
decina di minuti alla volta – il mazzolo è pesante -, ma pare sia già amore.
Diversamente andarono le cose ad Alessandro bambino. Nella narrazione della sua
infanzia campeggia la figura di quel suo padre maschio, molto intraprendente sul lavoro ed
57 estremamente ruvido nei rapporti interpersonali. Abile scalpellino – sostiene Alessandro –
infinitamente meno bravo coi figli. Ne aveva già tre negli anni Sessanta, quando la sua
determinazione lo portò a lavorare a Firenze per la Soprintendenza. Partiva ogni notte alle
4.30 per ritrovarsi di mattina a restaurare fregi e capitelli insieme agli espertissimi scalpellini
di città. Veniva pagato a cottimo, con cifre veramente interessanti. Alessandro non era ancora
nato.
- Mamma, chi l’è quest’omo? – chiese un giorno o, forse una notte, la sorella di
Alessandro additando intimorita il padre. Egidio capì allora che doveva smetterla con quella
vita e ritornare a lavorare nella cava di Strada in Casentino che in seguito avrebbe acquistato.
Grazie ai contatti con l’ambiente fiorentino, il nostro Sughero disponeva ormai di una
marcia in più rispetto agli altri scalpellini di Strada. Laddove essi si fermavano alla
funzionalità, lui proseguiva con estro e decori. Di lì a poco tutti si misero sulle sue orme. Ma
anche nella funzionalità fu maestro: importò da Firenze una cassetta polivalente, che serviva
come contenitore per gli attrezzi ma anche come sgabello a tre altezze. Un attrezzo semplice,
ma sconosciuto agli scalpellini di Strada. Si trattava di un parallelepipedo di legno, con una
delle sue facce maggiori aperta per metà per consentire di riporvi gli attrezzi di lavoro e per
essere poi impugnata agevolmente per il trasporto degli stessi; si aggiungeva poi la seconda
funzione, quella di sgabello a tre altezze, adattabili alle varie esigenze di lavoro; per maggiori
dettagli tecnici si rimanda alla rassegna degli attrezzi contenuta in appendice.
Sulla cassetta di Egidio molto avrebbe da dire Ingold, che scrive pagine dense sulle
dinamiche del mutamento tecnico e tecnologico come anche sulla cooptazione degli oggetti.
Ogni nuovo artefatto ha un antecedente – sostiene lo studioso - ogni nuova struttura non
compare dal nulla, ma è sovente frutto di una cooptazione. Con l’espressione ‘cooptare un
oggetto’ egli intende l’adattamento di un oggetto esistente a un’immagine concettuale di un
possibile utilizzo futuro. Molto se non tutto ciò che chiamiamo invenzione nella sfera tecnica
(curioso è che il latino invenio, is significhi ‘trovo’) comporta un processo di exattamento, di
scoperta di nuovi usi per cose vecchie.
Un procedere, questo, che ha precisi riscontri anche nel linguaggio. La cassetta di
Egidio usata come sgabello è un po’ come una metafora, proprio come l’uso di un cacciavite
per aprire un secchio di vernice; è un’espressione metaforica, che trae la sua forza dalla non
convenzionalità, anche se è poi probabile che in prosieguo di tempo quell’uso si regolarizzi. Il
possibile utilizzo della cassetta riponi-strumenti come sgabello, e per di più a tre altezze, portò
gli scalpellini fiorentini dei tempi andati a definirne le adeguate proporzioni, tanto che - come
in linguistica - il concetto metaforico finisce col perdersi e il nuovo significato o uso diviene
abituale, magari accanto a quello originario. Quindi, come i significati convenzionali traggono
origine da usi metaforici passati, così gli usi convenzionali degli strumenti traggono origine
dagli usi occasionali che ne furono fatti nel passato.
Istintivamente ho pensato che l’oggetto di partenza sia la cassetta, che gli scalpellini di
Firenze avrebbero poi usato come sgabello, ma non è escluso che il processo di exattamento
sia avvenuto invece in senso contrario, dallo sgabello alla cassetta. Comunque sia, Egidio a
Firenze si imbatté in cassette-sgabelli ormai collaudate, e se ne realizzò una personalmente, a
cui seguirono molte altre, con un procedere a quel punto capovolto rispetto all’exattamento:
Egidio modellava fisicamente l’oggetto nel legno per conformarsi a un’immagine preesistente
nata in quel di Firenze come metafora.
58 A Castel San Niccolò la cassetta-sgabello divenne presto l’emblema della famiglia
Rialti.
La cooptazione della cassetta non si è comunque esaurita a Firenze: mi sono infatti
imbattuta nello sgabello-cassetta proprio dentro al museo della pietra di Castel San Niccolò…
Qualche breve considerazione vorrei adesso spendere in merito alla semplicità della
cassetta, che può essere emblematica di tutto l’armamentario dello scalpellino: gli strumenti di
base per la lavorazione della pietra non hanno subito sostanziali variazioni nel corso dei
secoli, se, come sostiene Peter Rockwell, molti degli strumenti (… scil. dello scalpellino)
potrebbero essere facilmente compresi da un lavoratore della pietra egiziano del XIV sec. a.
C. Tutti o quasi potrebbero essere capiti o usati senza problemi da uno scultore romano del I
secolo d.C., o nel XIII secolo a Parigi, nel XV a Firenze, nel XVII a Istanbul. E’ un fatto di
centrale importanza per l’analisi e la comprensione della tecnica di lavorazione della pietra.
Gli strumenti di base non cambiano.
Ho colto al volo l’occasione fornitami dalla visita a Castel San Niccolò per sottoporre
all’attenta revisione di Alessandro il lavoro di schedatura degli oggetti contenuta in
appendice, ormai conclusa al momento dell’intervista. Alessandro si è intrattenuto a lungo a
disquisire sugli attrezzi, compiaciuto del fatto che riuscissi a seguirlo anche nelle distinzioni
più minute; ha precisato, tra l’altro, che l’unica vera differenza rispetto al passato sta nella
diversità dei materiali con i quali vengono realizzate le parti degli strumenti atte alla
perforazione o che comunque vengono in contatto con la pietra, che sono soprattutto quelle
degli strumenti a percussione indiretta, lo scalpello, piuttosto che il mazzuolo, per intendersi.
Parti per le quali oggi si ricorre a materiali durissimi quali il widia, (duro) come il diamante,
come vuole il nome stesso che deriva dal tedesco wie Dia(mant), sconosciuti agli scalpellini
del passato.
È molto difficile misurare il grado di complessità tecnologica di uno strumento –
sostoene Ingold -, anche partendo da dati obiettivi quali il numero delle unità tecniche di cui
l’utensile è costituito. Spesso gli strumenti semplici sono più versatili e servono per molteplici
obiettivi, basti pensare alla lancia degli aborigeni australiani, a un tempo bastone per il fuoco,
strumento per lavorare il legno, per mescolare pigmenti o tabacco, strumento da percussione
nelle danze e potrei continuare. L’arpione degli Inuit è invece enormemente complesso: serve
però per un unico scopo, ovvero a catturare prede acquatiche, inaccessibili e pericolose.
È quindi fuorviante cercare di definire la complessità delle operazioni tecniche in base
alle proprietà degli oggetti usati per un determinato scopo; più giusto è invece soffermarsi sul
know-how di chi li usa, senza stilare classifiche fra gli Inuit e gli Aborigeni o fra gli scalpellini
di Strada, di Firenze, di ieri e di oggi.
Fino a una certa soglia, potremmo dire che più semplice è l’utensile, più abile ed esperto
deve essere l’operatore.
Sulla stessa linea si pongono pure le osservazioni di Angioni (1986:94) circa il lavoro,
che nella storia dell’umanità ha sempre avuto un significato più rilevante che non l’attrezzo;
l’idea era già stata espressa da Marx che, scrivendo in vari contesti, individuava nell’uomo il
migliore strumento di lavoro, nell’uomo inteso come lavoratore addestrato e capace. Fino
all’avvento della rivoluzione industriale vera e propria – sostiene ancora Angioni (1986:99), il
59 prodotto del lavoro umano è aumentato maggiormente grazie all’abilità tecnica del produttore
che alla perfezione dei suoi strumenti.
Con Angioni, anche Ingold ritiene che sia d’uopo concentrarsi sul know-how tecnico,
sull’artificio più che sull’artefatto, non su una conoscenza scientifica oggettiva e
generalmente valida, ma su una conoscenza di tipo personale, intuitiva e implicita, e
profondamente imbricata nelle particolarità dell’esperienza. Certo è che in prosieguo di
tempo i macchinari diventano sempre più complessi, fagocitando di pari passo il lavoro di
mani abili, con la conseguenza di un disincarnamento via via più marcato del saper fare,
accompagnato purtroppo dalla divisione del tecnico dal sociale, precedentemente inesistente.
L’intera storia dell’industria moderna potrebbe essere descritta come una serie di
tentativi di catturare le abilità della manifattura da parte della macchina. Ma per quanto le
abilità antiche vengano assorbite dagli ingranaggi meccanici, nuove abilità si svilupperanno
sempre proprio intorno a quelle stesse macchine, ci tranquillizza Ingold. Anche Angioni
(1986:100) sostiene che non esiste alcuna procedura produttiva che non sia almeno in parte
algoritmizzata, così come non è possibile algoritmizzare fino in fondo nessuna delle
operazioni tecniche, perché l’attività algoritmizzante, cioè l’attività che coordina
discorsivamente l’azione trasformatrice della realtà, che di una volontà creatrice fa un lavoro
schematico, non può fare a meno di un sapere tecnico che in ultima istanza non è
programmabile, né descrivibile fuori dalla sua esecuzione.
II
In un racconto intitolato Esercizio a quattro mani con cui si apre il libro Adagio un poco
mosso, Elena Gianini Belotti, autrice dell’indimenticabile Dalla parte delle Bambine (1973),
descrive l’attesa di un’anziana signora in fila a uno sportello bancario. Assente l’impiegato di
sua fiducia, lei sceglie la coda più corta. Con un’occhiata di sfuggita al cassiere, percepisce
solo che è giovane e nulla più, poi lo schermo delle spalle dei due uomini in coda davanti a
lei.
… Ad un tratto però si è aperto uno spiraglio tra i due corpi e in quel triangolo di
spazio ritagliato come un timpano sono apparse le sue mani. Non mi avrebbero tanto colpito
se non si fossero affacciate in primo piano come su una ribalta illuminata, isolate da tutto il
resto. Così inquadrate sembravano vivide come in un’apparizione. Mi sono incantata a
fissarle: parevano creature autonome, staccate dal corpo, animate di vita propria,
indaffarate, vivaci, mobilissime, giocose. Impugnavano la penna, scrivevano rapide,
battevano velocemente, con una leggerezza da saltimbanco, sui tasti del computer,
afferravano un timbro e sferravano un colpo energico, a palmo aperto, giacevano inoperose
per brevi istanti, molli e abbandonate, si riavevano di colpo, piegavano carte e le infilavano
in un cassetto e dal cassetto estraevano mazzi di banconote, le contavano con quei movimenti
lesti, noncuranti ed efficaci propri di chi il denaro lo maneggia per mestiere, sventolavano a
mezz’aria assegni, ricevute, foglietti, contavano monete, strappavano impetuose un pezzo del
rotolo di carta della calcolatrice. Mani farfalla, mani uccello, mani sberleffo…
Di quelle mani qualunque di un uomo qualunque di cui non scorgevo la faccia –
sarebbe bastato che mi spostassi di lato di un sol passo per vederla, ma non ci tenevo affatto
– mi ha attirato, a un tratto, la raggiera dei tendini sul dorso, una nitida struttura geometrica
60 di estrema delicatezza e di forza trattenuta, una forza che prorompeva non appena le mani si
distendevano e si contraevano in movimenti veloci. I tendini guizzavano sotto la pelle in un
gioco ritmato di grande levità.
…Flirtavo con la sua intimità, se così posso esprimermi, con il suo mistero, lo inseguivo
attraverso i gesti delle sue mani, gesti banali, meccanici, nei quali tentavo di cogliere minimi
segni rivelatori della sua essenza. Chi era, quel giovane cassiere? Le sue mani ora, in attesa
che il cliente allo sportello compilasse un modulo, tamburellavano gentilmente sul ripiano,
senza impazienza, come se seguissero un motivo musicale che si svolgeva nella testa del
proprietario. Il cliente si dilungava, le mani avevano smesso di tamburellare, la sinistra si
era spostata e ora giaceva rovesciata e socchiusa in una posa teneramente infantile, con le
dita appena ripiegate, come in attesa di stringersi su un dito adulto, mostrando fiduciosa i
polpastrelli rosati come l’interno delle conchiglie e la minuta, sinuosa orografia delle
impronte digitali. E, di scorcio, le unghie. Un vero disastro, rosicchiate fino alla carne,
divorate fino ai soffici vulnerabili polpastrelli, commoventi come quelle di un ansioso
bambino delle elementari. Appartenevano a tal punto, le unghie, all’intimità del cassiere, così
sbocconcellate e rivelatrici di un animo tormentato, che la mia sensazione di violare la sua
sfera segreta si era accresciuta.
… Pensavo quanto dovesse essere arduo per un divoratore di unghie, trattenersi dal
rosicchiarsele per otto lunghe ore al giorno, quante presumibilmente il cassiere ne trascorre
in banca…
All’improvviso le sue mani immote si erano risvegliate, danzavano gioconde sui tasti
del computer, appallottolavano con veemenza un foglio di carta, spazzavano invisibili
briciole dal piano dello sportello, spostavano una pila di documenti, tendevano una penna al
signore davanti a me, la riprendevano, aprivano il cassetto, agguantavano un fascio di
banconote, le contavano a perdifiato, le contavano una seconda volta con maggiore
ponderatezza, le accatastavano l’una sull’altra, pizzicandole con forza, in un ordine
maniacale, tutte voltate nello stesso verso, le spingevano delicatamente, con la punta delle
dita, verso il cliente attraverso la fessura sotto il vetro. La catenina d’oro si era riavuta
insieme alle mani, ballava, guizzava, scintillava, e mi era parso addirittura che i due ciondoli
tintinnassero come campanelli.
… Comunque fuma, oltre a divorarsi le unghie: tra l’indice e il medio della mano
destra ha macchie gialle di nicotina. Bisogna essere forti fumatori per ridursi le dita in quel
modo e questo, aggiunto agli altri, è un ulteriore segno d’ansia tenuta a bada con un rituale
analogo al massacro delle unghie: in ambedue le pratiche sono coinvolte mani e bocca.
Il brano è a mio giudizio molto pertinente a un discorso sul sapere della mano, e
coinvolgente al punto che, anche nel trascriverlo, non posso fare a meno di rileggere il
racconto per l’ennesima volta integralmente.
Interrogandomi sul titolo esercizio a quattro mani, vi ravvedo certo il virtuosismo delle
mani che sembrano sdoppiarsi nel movimento tanto sono abili, ma anche e soprattutto lo
sdoppiamento dei ruoli delle mani (abilissime artefici di una sorta di musica muta, di un
artefatto invisibile e vacuo seppur generatore di sogni a chi lo sappia vedere, ma anche mani
oggetto di un autocannibalismo – per usare un termine della stessa Belotti – da relegare al di
fuori dell’orario lavorativo e per questo ancora più accanito). Mani, quelle dell’ansioso
bancario, barbaramente mutilate per colpa di un mestiere molto lontano da quello dei cavatori
61 di pietra, un mestiere quello del front office dei pubblici uffici che pone l’impiegato
necessariamente dinanzi al pubblico e sotto le luci di una involontaria ribalta.
Chi non ha sperimentato personalmente quanto sia lunga - per i ritmi odierni - l’attesa
dell’uscita di un foglio dalla stampante? Anche in quella circostanza la danza delle mani
dell’abile impiegato fungerà da intrattenimento rivolto al cliente, in una performance che
evita di parlare per l’ennesima volta di meteorologia o di intessere altri discorsi: troppo
impegnativi e discordanti con la fretta di smaltire le file e con la poca voglia di esporsi o
esporre l’utente in considerazioni non professionali e magari personali. Sono lontani gli anni
Settanta, quando la felicità era pubblica; essa, insieme alla tristezza, è oggi un fatto
prettamente privato…
Il bipolarismo tra vita professionale e vita privata, che il timido impiegato della Belotti
vorrebbe forse governare mantenendo le due sfere nettamente separate, porta – credo - a una
sorta di alienazione se la divisione riesce, e a un imbarazzo quando le sfere si intersecano. In
entrambi i casi sono le unghie a farne le spese.
Lo smembramento tra sfera sociale e tecnologica non credo aiuti il timido, anonimo
onicofago, felice dell’impoverimento delle relazioni tra simili che lo pongono al riparo dalle
invasioni nel privato, in un intreccio distante anni luce dal colloquio tra artefice, materia,
artefatto e committente, anche perché la materia e l’artefatto allo sportello bancario scompare
o si trasforma comunque in qualcosa di molto aleatorio: la grande abilità dell’impiegato viene
adoperata per maneggiare macchine creatrici di mondi virtuali dove la finanza fa da padrona
anche sull’economia, che ha litigato già da tempo con la società.
Intorno alle macchine nasceranno sempre nuove abilità – tranquillizza Ingold -, ma
credo che gli sdoppiamenti diverranno sempre più difficili da ricomporre.
Ingold – come ho già anticipato - non crede che quella sfera di capacità e di azione che è
propria di tutte le popolazioni umane, chiamata con termine moderno ‘tecnologia’, sia del
tutto separata dalla sfera delle relazioni sociali. Se ai giorni nostri è forte la percezione che
società e tecnologia siano separate, è tuttavia fuorviante pensare che sia sempre stato così; la
comprensione della storia dell’umanità ne risulterebbe fortemente inficiata, perché questa
separazione è cosa recente.
Il processo di complessificazione, ovvero lo sviluppo della tecnologia dal semplice al
complesso ha comportato un processo di disincarnazione, di separazione progressiva delle
relazioni tecniche da quelle sociali, esattamente come è accaduto per l’economia. Nelle
società precapitalistiche, anche le relazioni economiche erano imbricate nelle relazioni sociali;
poi, con lo sviluppo della produzione orientata al mercato, le relazioni economiche si
sarebbero progressivamente disincarnate dalla vita sociale.
Fucina di tali smembramenti è pure la povera banca di provincia mandata avanti dai vari
onicofagi di turno, ma agli sportelli la relazione, seppur impoverita, può trasformarsi ancora
in sogno, quello della voce narrante del racconto della Belotti è uno dei possibili. Si
parleranno linguaggi diversi, primo quello del corpo, vi si continueranno a espletare e - perché
no - ad apprezzare le performance danzanti delle dita sulla tastiera a produrre mondi virtuali
dai quali in futuro scompariranno probabilmente anche le variopinte banconote, ultimo povero
surrogato di artefatto. Certo, i contratti di home banking sono in agguato. Resterà comunque
la fisicità del tecnico informatico, perché il computer potrà avere qualche problema, di tanto
in tanto … Speriamo non adesso, però
62 III
Dalla narrazione del suo apprendistato, si evince chiaramente che Alessandro non ha
ancora digerito l’impazienza e i modi burberi del padre nel rapportarsi a lui: i comandi
impartiti a monosillabi, prendi questa pietra, fai una cantonata, misurala, biegala, (‘biegare’ in
gergo tecnico significa levigare una faccia della pietra fino a renderla uniforme) erano
tutt’altro che stimolanti per il giovane ragazzo. Lui si smarriva, le dimensioni della pietra con
cui aveva a che fare gli sembravano sempre insufficienti per la realizzazione di quanto
richiesto, poi invece il padre dimostrava il contrario: - Dai, ecco qua.
Gestualità a iosa direbbe Ingold, siamo agli antipodi del manuale che contiene
spiegazioni codificate e immagini puntuali. La difficoltà pratica di tradurre le istruzioni scritte
o verbali in gestualità è inesistente nel modus operandi di Egidio, poche parole, ma
dimostrazioni pratiche a volontà, nonostante le carenze (di affetto?) lamentate dal figlio.
Questo saper fare tecnico, dice Angioni (1986:111), è proprio la cosa più importante
nella misura in cui è la più nascosta, la più difficilmente descrivibile e ostentabile, la più
sfuggente sia all’osservatore che all’operatore. Egidio, nonostante quanto lamenti Alessandro,
è stato in questa prospettiva un ottimo maestro.
Alessandro nel rapporto con suo figlio si propone di starci in maniera diversa, ma potrà
solo aggiungere il calore umano e la pazienza fatta anche di spiegazioni verbali sul lavoro da
fare, non potrà certo sostituire la strategia di insegnamento riservatagli da Egidio, tutta fatta di
immersioni più o meno consapevoli nell’esperienza.
Somministrata a mo’ di punizione per gli insuccessi scolastici, la pietra non fece
innamorare Alessandro, almeno non in un primo tempo.
Picchia qui, mani gonfie, continuò a lungo il solito procedere senza che il padre gli
insegnasse niente di particolare, lamenta Alessandro.
Quel suo fare scorbutico Egidio non lo riservava solo al figlio; anche col padre (il nonno
di Alessandro) e i fratelli (gli zii) i rapporti non andavano certo meglio: a lui piaceva guardare
lontano, mentre i fratelli se ne stavano ad aspettare l’imbeccata del comune genitore. Egidio,
di ritorno da Firenze, propose a tutti i suoi parenti di acquistare un terreno e metter su
un’impresa in società. Dopo il loro rifiuto, le parole nei loro confronti, già scarse, subirono un
veloce processo di rarefazione, fino a svanire del tutto.
Scorbutico sì, ma rispettato. Al ritorno da Firenze, fu un rivale, un Colozzi, a offrirgli
una prima opportunità di lavoro: gli propose una collaborazione per la realizzazione di
un’opera commissionata ai Colozzi, che risultava piuttosto complessa e impegnativa. Fu
certamente un atto di cortesia, ma soprattutto – credo - una manifestazione di rispetto unita
alla volontà di instaurare un rapporto reciprocamente interessato con un rivale, di comprovata
abilità, che per giunta ritornava da Firenze.
Dentro al rapporto con un padre granitico trovavano posto distanza e reticenza:
Alessandro contraccambiava la scarsità delle parole con una sorta di timore che diveniva
talvolta vergogna. Anche la differenza di età era notevole: nato nel 1923, Egidio aveva fatto la
guerra e vissuto un’esperienza di prigionia in Germania lunga tre anni. Con all’attivo la
licenza di terza elementare presa alle scuole serali, Egidio era comunque a suo modo molto
incline alla lettura, per quanto poi si esprimesse solo per lo stretto necessario. Autorevole e
insieme autoritario, non metteva per nulla a proprio agio l’estro del figlio; non che non lo
volesse, ma la comunicazione verbale non era proprio nelle sue corde.
63 Per una fidanzatina, Alessandro quindicenne si cimenta nella scultura di un bocciolo di
rosa, ben attento a non farsi vedere dal padre e avendo cura di riporre il lavoro via via che
cresceva in un luogo che credeva remoto.
- I petali glieli devi stacca’ di più, specialmente quelli in fondo, sennò sembra un
carciofo… - sentenziò il padre, mentre Alessandro si sentiva morire: aveva trovato quel
piccolo dono un po’ goffo e adesso voleva aiutare il figliolo a renderlo all’altezza della
situazione…
Intorno ai venti anni, con le idee ancora confuse su cosa fare da grande, Alessandro apre
un negozio sotto gli archi di Strada: vende e noleggia videocassette, attività che negli anni
Novanta era in gran voga. Il mercoledì tuttavia, giorno di chiusura della videoteca, non resiste
al richiamo del padre, sua croce ma evidentemente anche delizia.
Clifford Geertz sostiene che tutti gli esseri umani vengono al mondo ‘naturalmente
equipaggiati’ per vivere qualsiasi tipo di vita, ma poi finiscono col viverne solo una.
L’osservazione parrebbe seducente, ma Ingold si scatena contro di essa, rifiuta il movimento
suggerito da Geertz che porta dall’universale al particolare, dalla biologia alla cultura, che fa
pensare a un graduale riempimento di capacità potenziali e a una progressiva chiusura di
possibilità. L’equipaggiamento corporeo non è dato a priori – sostiene Ingold – ma subisce
una continua formazione nel corso della nostra vita.
È assurdo chiedersi alla maniera dei neodarwinisti in quale parte del cervello stia il
programma per usare lo scalpello, o perché Alessandro abbia tardato ad accenderlo: l’uso
dello scalpello non è un software già presente nell’hardware cerebrale, occorre piuttosto
impugnare il mazzolo e cominciare a picchiare sulla testa di subbia o scalpello, con l’occhio
attento al grado di usura della pasticca di rame: in prosieguo di tempo non sarà più l’occhio,
ma la percezione del colpo che comprende e trascende l’udito e la vista, per coinvolgere tutto
il corpo dell’artefice, a dire quando sia ora di sostituirla. La pasticca, come chiarisce
l’appendice al presente capitolo, serve ad attenuate il colpo inferto alla pietra, in modo che
essa si sfaldi nella maniera voluta da chi la lavora.
Ingold non ama i bipolarismi corpo mente, o natura e cultura cultura: egli ritiene che
l’organismo persona possa essere osservato da un punto di vista unitario, che passa attraverso
processi di crescita e di sviluppo in un ambiente, contribuendo al contempo con la sua
presenza e attività allo sviluppo degli altri.
Niente geni da genotipo, niente memi, solo Alessandro (col suo corredo genetico
ovviamente, nel quale però sono contenute un numero molto inferiore di informazioni di
quanto si tende a credere), il padre, la montagna e l’intreccio completo del loro mondo.
- Ma se lui è capace, come mai io non lo posso fare? – si interroga sempre più
frequentemente il mercoledì.
IV
L’eco di quella domanda viene presto a intrecciarsi con la rabbia per la negazione di un
permesso che Alessandro aveva richiesto in comune: intendeva apportare delle modifiche
64 interne di tipo edilizio alla sua videoteca, una cosa dappoco, ma gli fu detto di no. Un diniego
inizialmente molto irritante, rivelatosi molto fertile invece, se visto con gli occhi del poi.
Il padre era intanto andato in pensione e si dilettava allora in lavori di creatività,
tranquillamente e senza esagerare per via della silicosi: nel capannone troneggia ancora
un’aquila in pietra, vi è poi un delizioso cestino colmo di frutta, intrecciato con fibre di pietra
dallo scalpello.
- Babbo, quasi quasi mi metto a fa’ lo scalpellino… - se ne esce un giorno con
convinzione.
- Tu se’ strullo, figliolo – fu la risposta.
Egidio però di questa scelta in fondo in fondo era orgoglioso, assicura Alessandro. Si
preoccupava certo del fatto che aveva settantatré anni e che non gli sarebbe potuto star dietro
a lungo, ma intanto al bar preparava il terreno per affidare l’affinamento della formazione del
figlio a un antico rivale, Raffaello Colozzi, impiegato comunale ad Arezzo allora in pensione,
ma al contempo abile scalpellino da sempre. Rivali viscerali in passato, Raffaello accoglie
allora di buon grado il testimone per la formazione professionale di Alessandro.
Nulla viene trasmesso davvero, abbiamo già analizzato il pensiero di Ingold in
proposito. Il progredire delle pratiche abili nella storia di vita di una persona non è il risultato
della trasmissione genetica di informazioni, quanto piuttosto di una riscoperta guidata, di una
educazione all’attenzione.
È interessante analizzare i fenomeni senza articolarli secondo poli oppositivi. Le attività
umane sono variabili, emergono da un contesto e sono il risultato di una operatività concreta.
È fuorviante focalizzare l’attenzione esclusivamente sugli aspetti di continuità, ripetizione e
predefinizione del tratto genetico, culturale o della regola comportamentale. Sono invece gli
aspetti della varietà, processualità e contingenza da non lasciarsi sfuggire.
Se mi fossi deciso prima… - riflette Alessandro.
Se si fosse deciso prima, non avrebbe fatto quello che ha fatto nel lasso di tempo
dell’attesa, credo.
V
Nel febbraio del ’94 Alessandro si iscrive in Camera di Commercio all’Albo delle
imprese artigiane: il codice dell’attività dichiarata è un numero che viene decodificato come
lavorazione della pietra, marmi e affini. Cosa avrà fatto scrivere sulla carta d’identità, dove,
non essendoci categorie predefinite, la scelta è più libera? - mi chiedo incuriosita. Alla mia
domanda risponde con un semplice ‘Artigiano’. Io mi aspettavo che dopo la ricostruzione
dell’albero genealogico della famiglia fatta coi registri delle professioni da Andrea Rossi, il
coordinatore dell’Ecomuseo del Casentino, Alessandro si fregiasse di un appellativo diverso,
più specialistico, credevo che avesse optato per ‘scalpellino’ o qualcosa del genere. Invece, un
semplice ‘Artigiano’, sulle orme dei pochi orpelli del padre. Risale al ’94 quindi
l’ufficializzazione del suo mestiere. Il padre sarebbe morto appena tre anni dopo, nel
dicembre del ’97.
Intanto Raffaello Colozzi, il suo nuovo tutore per così dire, si stupiva di quanto
Alessandro sapesse già fare.
Non c’è invece di che stupirci, nell’ottica di Ingold.
65 Non esiste un dominio di attitudini, credenze e stati mentali che galleggiano sopra la
vita reale. È invece dentro la vita reale che il corpo subisce processi di crescita e decadenza e
acquisisce particolari abilità, abitudini e capacità o dispiega punti deboli o incapacità che
costituiscono un unicum con la sua neurologia, muscolatura, anatomia. Ogni pratica abile è
infatti qualcosa di incorporato, che si sviluppa attraverso la pratica in un particolare contesto
ambientale.
Il corpo è organismo, come anche la mente. Sviluppare certe pratiche ripetitive di
azione nel mondo significa anche sviluppare certe modalità di attenzione per il mondo. La
mente forse non è limitata dalla pelle, si estende nell’ambiente attraverso i canali del
coinvolgimento sensoriale, e insieme al corpo subisce un processo di crescita e sviluppo
continui, secondo molteplici relazioni ambientali. Corpo e mente quindi come modi di
descrivere lo stesso processo, cioè la stessa attività dell’organismo-persona nel suo ambiente.
Il movimento diviene allora una forma di percezione, un modo di conoscere il mondo, oltre
che di agirvi.
Due organismi-persona, la studente e lo Scalpellino, con diversi seppur non diversissimi
background (non ci sono in questo caso problemi di discoevità, per esempio), posti in una
situazione analoga, quale la visione di un’enorme lastra bianca all’interno del laboratorio della
pietra, agiranno molto probabilmente in maniera diversa: io volevo usarla come sfondo per
una fotografia, senza pormi grandi problemi sul materiale che la costituiva, Alessandro non
mi nega la foto, ma mi avverte che non è marmo, bensì polistirolo! Gli antropologi cognitivi
sostengono che ciò è dovuto al fatto che le due persone trattano gli stessi input sensoriali
attraverso modelli culturali diversi o schemi di rappresentazione diversi. La teoria della
pratica crede invece che le due persone agiscono diversamente perché sono state addestrate a
orientarsi in relazione all’ambiente e a prestare attenzione alle sue caratteristiche in modi
diversi, attraverso esperienze precedenti e attraverso la risoluzione di compiti diversi. La
differenza non sta nel modo in cui la gente si rappresenta il mondo nella propria testa, ma nei
modi in cui scopre ciò che l’ambiente permette o acconsente ai fini delle proprie attività. Io
volevo ritrarre Alessandro nel suo ambiente, di cui anche il polistirolo faceva parte, dato che
si trovava nel suo laboratorio; Alessandro intuisce – come è vero – che io non l’ho
riconosciuto e mi avverte, perché secondo lui, che sa riconoscere bene il polistirolo dalla
pietra, altre cose caratterizzano più da vicino il suo ambiente e sono meritevoli di essere
fotografate.
L’apprendista non osserva la pratica esperta in completo isolamento, ma nel contesto
del suo coinvolgimento attivo e percettivo con ciò che gli sta attorno. E la buona riuscita
dell’imitazione sta nella perfetta coordinazione tra l’attenzione dell’apprendista per il
movimento degli altri e il proprio movimento. Proprio in questo consiste il ‘farsi la mano’,
che è un passare dalla goffaggine alla destrezza, dal mettere in atto meccanicamente una serie
di istruzioni, al divenire sensibili alle condizioni variabili del compito nel suo farsi. Farsi la
mano significa muoversi in modo tale da rispondere continuamente e impercettibilmente alle
sfumature della propria relazione con gli aspetti rilevanti dell’ambiente. Per raggiungere tale
destrezza non è sufficiente rubare con gli occhi, occorre sottoporsi a ripetute prove pratiche.
In tali prove è il compito che viene ripetuto, non la precisa traiettoria del movimento.
L’apprendista non acquisisce cultura, come se questa potesse essere semplicemente scaricata
nella sua testa, ma piuttosto si imbarca nel processo di comprensione della pratica, con una
66 sintonizzazione delle abilità di azione e percezione attraverso prove ripetute all’interno di un
contesto.
Che dire di Alessandro infante? Alla nascita, Alessandro è partito dal sistema totale
delle relazioni nelle quali si è trovato: ciò da cui ciascuno di noi ha inizio è un sistema che
evolve. Non si nasce uguali per poi differenziarsi a seconda delle culture. La cultura non è un
ingrediente in più che deve essere aggiunto per completare l’essere umano. Le abilità
specifiche classicamente attribuite alla cultura sono in realtà incorporate nel processo di
sviluppo come proprietà degli organismi umani, sono in un certo senso biologiche. La cultura
non è sovrabiologica, non un qualcosa di aggiunto, ma una misura delle differenze degli esseri
umani, e tali differenze derivano dai modi in cui gli uomini si sono posizionati l’uno rispetto
all’altro e rispetto ad elementi non umani dell’ambiente in vasti campi di relazioni. Tali
differenze non sono genetiche, né dipendono neppure da una cultura che si sovrapporrebbe a
un substrato universale biologico. Sono semplicemente il risultato dello sviluppo dell’intero
organismo-persona situato in un ambiente.
VI
La formazione di Alessandro sotto l’egida di Raffaello diviene in prosieguo di tempo
una sorta di collaborazione che dura circa un quinquennio; le ditte, distinte l’una dall’altra da
sempre, vedevano un avvicendarsi comune di clienti, e fu naturale allorché Alessandro
divenne autonomo che si giungesse a una sorta di scioglimento, senza litigi di sorta,
semplicemente perché era più funzionale lavorare separatamente per clienti diversi. I
capannoni, come ho avuto modo di constatare all’arrivo per l’intervista, sono molto vicini; di
quello di Alessandro, Egidio prima di andarsene fece in tempo a vedere il progetto sulla carta.
Oggi Alessandro predilige certo la pietra serena per la realizzazione di lavori degni
dell’abilità di suo padre; i clienti però in Casentino sono pochi e su Internet è pressoché
impossibile vendere manufatti che pesano quintali e che comportano notevoli spese di
trasporto, constatabili anche quando si tratti di allestire qualche stand espositivo per le varie
iniziative locali. Senza indulgere in nostalgie archeologiche dei migliori tempi andati,
Alessandro è pronto anche a … contribuire al decoro del cimitero locale, per altro poco
distante - la cui porta d’ingresso, per quanto malridotta, è una vera e propria opera d’arte -,
non disdegnando di realizzare coi marmi tombe complete per le salme inumate o laste
marmoree da apporre sui loculi in cemento. All’interno del capannone è presente pure un
repertorio di tombe di marmo, accanto ai caminetti e alle fontane. Un settore, quello,
ovviamente imprescindibile per far quadrare i bilanci, anche se oggi i committenti si orientano
verso soluzioni sempre più sobrie per motivi economici, oltre che per questioni di gusto. Un
catalogo di frasi di repertorio è appoggiato su una graziosa colonnina in pietra serena. È
sempre più inutile, sostiene Alessandro, dato che le tombe sono oggi sempre più essenziali,
nome e cognome, nient’altro. Pare che Egidio abbia fatto scuola anche sotto questo riguardo.
Più avanti vedremo come.
67 VII
Alessandro non ha sperimentato l’attività estrattiva,
nella quale eccellevano gli scalpellini della generazione
precedente, attivi nelle cave di proprietà ecclesiastica; è
vero che inizialmente, sotto la guida di Raffaello, ha
lavorato nella cava dei Colozzi, ai tempi ancora in funzione
come luogo di lavoro, non più per l’attività estrattiva. Il
capannone fu tirato su di lì a poco in un appezzamento di
terreno che era stato acquistato allo scopo.
Tu ti metti in una spesa…- aveva sentenziato Egidio
che però, grazie alle scelte del figlio, ha realizzato i sogni
giovanili di ritorno da Firenze, quando sperava di
Egidio ritratto dal figlio coinvolgere i fratelli nell’acquisto di un terreno su cui
avrebbe voluto veder nascere un piccolo laboratorio.
Guardava più avanti, non solo lì davanti e basta – commenta sicuro Alessandro.
I progetti, come ho già accennato, Egidio li poté vedere sulla carta poco prima di
morire.
Una volta nelle cave di Strada si poteva toccare con mano il processo formativo della
pietra serena, che avviene per sedimentazione: per chi lavorava in cava, la pietra non aveva
segreti, era immediato intuire quale fosse la falda e quale la recisa. La pietra serena giunge
oggi a Castel San Niccolò già segata industrialmente in grandi blocchi da una cava di Ascoli
Piceno, che Alessandro predilige per la similitudine nella grana – grossotta, la definisce - con
la pietra locale, che è tuttavia più scura. Si tratta di pietra di macigno, non dura ma uniforme,
in quanto risultato di un processo di fusione.
Certo, la segatura modifica il colore naturale della pietra e spesso occorre metterci lo
scalpello per testare quale sia il verso, o quantomeno per avere la conferma di quanto
ipotizzato a occhio. Quelli che lavoravano in miniera, l’avrebbero invece riconosciuto a
occhio nudo.
Muovendoci tra tombe, fontane e caminetti, parliamo della vita, della morte, delle
lapidi, e il discorso cade su quella che Egidio aveva scolpito per sé. È posta fuori del
capannone. La scritta non riporta il nome, ma un secco ‘qui riposa’. I familiari non hanno
avuto cuore di porla al cimitero: quella stele la dice molto lunga su quel rude genitore.
Ormai intrapresa la via della pietra, un giorno d’inverno Alessandro aveva indossato la
sua tenuta da ciclista, pronto per una escursione in bicicletta. Egidio dissuase il figlio
dall’uscire in un giorno così freddo, doveva anche essere stanco per la fatica del lavoro: Dove tu vai … ma riposati, sta un po’ con me!
Si informò allora su come andava il lavoro, Alessandro gli disse che tutto procedeva
bene, che era contento di aver ereditato un mestiere, poi aggiunse: - Tu mi lasci un lavoro, ma
se tu mi lasciavi un miliardo, sarebbe stato meglio.
Ti lascio di qua, ti pare poco? – Rispose il genitore.
Dopo qualche giorno morì. Era il dicembre del ’97.
Alessandro quel giorno rinunciò alla bicicletta. Forse in fondo in fondo – ammette - non
era poi così burbero.
68 Non può non essere cortese – dico io - uno che accetta di insegnare a lavorare la pietra a
una ragazza.
Insegnava a Montemignaio, era una maestra elementare e tutti i giorni nel tragitto da
Laterina, dove abitava, fino alla scuola, passava davanti a casa Rialti.
Se non gli dispiace, mi fermerei un po’ a guardare – chiese una volta la giovane
incuriosita dall’attività di Egidio.
Per un anno intero, tanto durò il suo insegnamento alla scuola di Montemignaio, la
ragazza giovane e bella – ricorda Alessandro - si fermava sulla via del ritorno per un paio
d’ore buone pressoché ogni giorno. Egidio le insegnò a realizzare fregi, piccole decorazioni,
giusto per una soddisfazione personale, perché quello dello scalpellino è un mestiere da
declinare solo al maschile.
Anche dopo il trasferimento in altra scuola, il maestro e l’allieva – che pure era maestra
– sono rimasti a lungo in contatto telefonico e i lavori in pietra per la nuova casa della donna
furono ovviamente affidati a Egidio.
VIII
Il fatto che la cava - dove i suoi parenti avevano fatto esplodere mine e lavorato con
mazza e ciambelle all’estrazione della pietra bigia e serena - divenga in prosieguo di tempo un
laboratorio nel quale scalpellare la pietra che giunge da fuori, unitamente alla successiva
nascita del capannone, mi hanno fatto riflettere sulla prospettiva del costruire e dell’abitare,
delineate da Ingold sulla scia di Heidegger.
Credo che la cava di proprietà ecclesiastica, poi acquistata dai Colozzi, nella quale
Alessandro affiancava Raffaello agli inizi della sua attività, sia un luogo molto simile alle
cellette dove le api depositano il miele o ai cunicoli scavati dal tasso, divenuta ciò che è
esplosione dopo esplosione, nel corso di un lungo rapporto tra uomini e pietre.
Le forme che le persone costruiscono, nell’immaginazione come in concreto, emergono
dal flusso delle loro attività, nei contesti specifici di relazione del loro coinvolgimento pratico
con ciò che li circonda. Il costruire così inteso non può essere allora un semplice processo di
trascrizione su un substrato di materia prima di un progetto preesistente, che prescrive nei
dettagli come dovrà essere il prodotto finale. È vero che gli esseri umani, forse unici tra gli
animali, hanno la capacità di immaginare le forme prima della loro realizzazione, ma questa
capacità è comunque un’attività espletata da persone reali in un ambiente reale. Solo perché
abitano in quel mondo, esse possono pensare i pensieri che pensano.
Potremmo cercare di vedere emergere le forme degli edifici come una specie di
cristallizzazione dell’attività umana in un ambiente, in modo da dissolvere la dicotomia tra
progetto ed esecuzione. La cava che diventa laboratorio mi pare un esempio pertinente, non è
il frutto di un progetto, ma diviene ciò che è per cooptazione, di un luogo stavolta.
Anche il capannone, di cui Egidio ha fatto in tempo a vedere il progetto, non è il
risultato ultimo e definitivo del design, come se esso fluisse automaticamente e senza
problemi dal progetto. La prospettiva dell’abitare ascrive la generazione della forma a
processi creativi. La creatività di questi processi viene negata da quanti vedono in ogni forma
la realizzazione concreta di una soluzione intellettuale a un problema di design. Possono
69 esserci state varianti in corso d’opera, che hanno trovato riscontro sulla carta, ma varianti
minime e continui aggiustamenti sono riscontrabili soprattutto nell’attività quotidiana del
muratore prima e dell’abitatore poi: una volta che l’impresa edile se ne è andata, il capannone
non cessa certo di crescere.
Potremmo dire che la differenza tra casa (o laboratorio) e albero sta solo nel differente
grado di coinvolgimento umano nel processo generatore della forma. Le case sono organismi
viventi, proprio come gli alberi, con molteplici storie di vita, che consistono nel
dispiegamento delle relazioni con le componenti umane e non umane dei loro ambienti. Esse
sembrano più costruite nella misura in cui prevale la componente umana. Costruire un
ambiente è tuttavia un processo che va di pari passo con l’abitare quell’ambiente, perché è nel
processo stesso dell’abitare che costruiamo.
IX
Molto soddisfatta di tutto ciò che mi è stato narrato, considerata pure l’ora e il fatto che
alcuni clienti sopraggiunti potevano essere intrattenuti più a lungo se non fossi stata lì,
comincio a raccogliere le mie cose e a ringraziare di cuore per l’intervista rilasciata.
Percepisco però che Alessandro non ha alcuna fretta, tanto che si mette a parlarmi di Meo.
Meo, all’anagrafe Amedeo Folli, era considerato un poeta e un filosofo da quanti lo
conoscevano; era un barbone, uno senza fissa dimora, o, meglio, la dimora era fissa, ma si
trattava di un capanno nel bosco. Se lo ricorda bene Alessandro, che da bambino ne aveva una
paura terribile: camminava curvo, scendeva spesso dal bosco in paese, a incontrare gli umani.
Guarda, io ti do a Meo quando passa, ti mando via con lui! – minacciava la madre di
Alessandro, ogni volta che il bambino combinava qualche birbonata.
La giornalista Fabrizia Fabbroni ritrae il personaggio in un libro in versi, Canto di Meo
il filosofo di Battifolle in Casentino, un testo del ‘91 che non conoscevo prima che me lo
segnalasse Alessandro, pur essendomi occupata a lungo del Casentino. L’ho letto tutto d’un
fiato.
Un paio di capitoli sono dedicati agli scalpellini:
Gli scalpellini
Pensando al salimonti arrivò a Strada
e trovò per primo Egidio dei Rialti,
scalpellino per vocazione e per mestiere di famiglia,
mentre se ne stava intento a rimirare
l’ultima sua creatura impegnativa
con sguardo critico e in uno amorevole:
la gran pietra frontale di un camino.
Provetti erano stati nel passato
tutti i Rialti e quelli dei Colozzi,
famiglie intere dedite nei secoli
a ricavare da ogni pezzo di pietra
quel che ogni pezzo presuppone essere.
70 Le terre in Casentino ed altre
ne portano le tracce più evidenti
su scale colonnati stipiti frontoni e lapidi
angolari balconi architravi basamenti e stemmi
per non parlare delle chiese più vecchie
alcune già scomparse, ma resta sempre il nome
del lor tenace maestro battitore
e resta ancora oggi chi lo porta.
Colozzo Colozzi rimane inciso
sopra un architrave d’una vecchia casa su a La Torre
e chissà quando mai colui visse e cosa fece,
ma certo fu scalpellino e si compiacque
a lasciare di sé traccia evidente.
Furono sempre gli scalpellini di Strada a portare il vanto
d’aver ricostruito a Firenze dopo guerra
la parte bombardata intorno a Ponte Vecchio
ed altri punti ancora.
Adesso il secondo, dal titolo
Uomini e pietre
Ma qualche tempo fa si tagliava ancora nella cava
ogni pezzo di pietra facendo pel suo verso
prima una scanellatura col mazzolo e lo scalpello
profonda tanto che potesse tenere bene a coppie
una fila di ciabatte di ferro fatte a foglia,
di quelle che non servivano più sotto gli unghioni ai bovi,
e poi un subbiolo in mezzo a ogni due.
Così batti e ribatti in successione un po’ alla volta
gli scalpellini, decisi e delicati, davano sempre alla pietra
il modo d’aprirsi come un libro e di svelarsi.
Antichi sacerdoti dell’arcano
depositari di un segreto antico
seguivano le tracce della pietra e della mente
e poi le davano forma con risoluzione e cura
che la pietra non vuol ripensamenti.
Tanti n’aveva visti lavorar così
e Meo se ci posava gli occhi
faticava ogni volta a distoglierne lo sguardo
che sarebbe rimasto lì fisso a guardare
finché ogni pezzo di pietra rozza, lungo o quadro
bigio alle vene che del sereno non ce n’era punto
oppur sereno autentico di quello vero ambrato,
71 sotto la sgorbia e sotto lo scalpello
non arrivava a diventar qualcosa
come qualcuno che giunto a compimento
alfin si dona e dice i suoi segreti.
Tutte le volte che un uomo
l’aveva avuta vinta sulla pietra
gli rinnovava la chiara convinzione che in natura
nulla fosse duro a tal punto da non cedere
se lavorato per il verso giusto. Forse neppure gli uomini.
O forse no, con loro è più fatica
che molti non han fede e fan tenaglia
e vorrebbero prima sbriciolarsi.
Dopo essere stato con Egidio a rimirar l’oggetto
la testa reclinata sulla spalla come lui
e senza proferir parola alcuna, fece un cenno d’assenso
come un saluto e una benedizione
a uno degli ultimi di una lunga progenie di scultori
che per tanto s’erano dati da fare a incidere le pietre
e ormai si vede il tempo che spezza la catena
perché dopo di questi non ci sarà nessuno
a batterle per trarne forme e utilità.
Su quelle che rimangono in case altari e strade
gli sguardi continuano a posarsi e oltre a loro vedono
tutti gli sguardi che si posaron già gli uni sopra gli altri
a strati lungo i secoli, che le pietre ne sono tutte rivestite
e parlano di sé e anche di chi le vide.
Alessandro è ben felice di aver smentito la previsione della Fabbroni circa la catena che
si sarebbe dovuta interrompere con Egidio, ed è orgoglioso di aver procurato con le sue scelte
professionali un nitido errore proprio in un libro: col suo rifiuto dei libri e l’orientamento
verso la pietra, egli provoca un errore, nero su bianco, inchiostro nero su carta bianca
stampata, proprio in una pagina scritta, dalla cui autorità ai tempi della scuola si era sentito
soverchiato.
X
Preoccupata di non riuscire a trovare il libro della Fabbroni, orami datato e –
immaginavo a ragione - pubblicato da una casa editrice minore, chiedo ad Alessandro se,
qualora in biblioteca non ottenessi risultati, potesse farmi avere le fotocopie o le scansioni
almeno delle pagine relative agli scalpellini.
Meglio le fotocopie! – risponde Alessandro con un mezzo sorriso – Io sono ancora
all’età della pietra, con la tecnologia non vado molto d’accordo…
72 È divertente detto da uno scalpellino che tiene molto alla sua impresa artigianale! A chi
non ci crede o vuole coglierne il tono, posso fornire le registrazioni.
Tornando sul discorso della tecnologia, vorrei porre Alessandro - potremmo chiamarlo
anche Gundino, Beppe di Gunda era suo nonno, lui non sa cosa significhi né perché al nonno
fu dato questo soprannome – vorrei porre il nostro Gundino, dicevo, tra api e conchiglie,
poiché abbiamo indagato con Ingold e concluso che non è poi così necessario distinguere tra
le abilità degli esseri umani e quelle degli animali, perché le possibili affinità tra le pratiche
tecniche degli animali, umani e non umani sono innumerevoli.
Il produrre non ha luogo infatti all’interfaccia tra l’immaginazione culturale e il mondo
materiale, e non è pertanto un’attività esclusivamente umana. Le api, gli uccelli, i castori non
costruirebbero, secondo i più. Alveari nidi e dighe non sono ammessi come oggetti di cultura
materiale. Noi abbiamo forti perplessità in merito.
Il nostro Gundino si trova quindi affiancato ad api e conchiglie, al fine di attenuare il
bipolarismo tra artefice umano e non umano. Un ulteriore passo, magnificamente riuscito a
Ingold grazie al suo approccio ecologico alle cose, è adesso quello di attenuare la differenza
tra artefatti ed esseri viventi. Per riuscirvi, basta solo vedere se è possibile distinguere sempre
tra i processi che pongono in essere gli uni e gli altri. Occorre dapprima stabilire cioè se la
loro formazione è dovuta all’applicazione di forze esteriori alla materia che li costituisce
oppure se la loro formazione è dovuta ad interazioni morfogenetiche interne agli oggetti in
questione: i primi sarebbero prodotti, i secondi crescerebbero per conto loro.
Nel separare la forma imposta dall’esterno in un caso da quella dispiegata dall’interno
nell’altro, è immediato - per il comune modo di vedere il mondo - distinguere fra produzione
e crescita. Nel processo di produzione, si immagina una superficie che divide il dentro dal
fuori, dove la sostanza solida incontra lo spazio di azione di forze plasmatrici che si scontrano
con essa.
Come la mettiamo però con gli alveari, visto che non crescono da soli? Frutto di una
forza esteriore, si esita però a considerarli un ‘prodotto’. Nel produrre artefatti si immagina
comunemente infatti che la mente imponga le proprie forme ideali sulla natura, un operare che
sarebbe precluso alle api. La superficie del manufatto sarebbe la superficie stessa del mondo
materiale della natura opposto alla mente umana creativa, mentre la crescita viene immaginata
come un processo che accade in natura. Le classificazioni non sono però così semplici.
Nel laboratorio troneggia un massiccio cestino in pietra, frutto del lavoro e della
creatività di Egidio. La pietra finge sopra la frutta, sotto l’intreccio dei vimini. In questo caso
il dentro e il fuori, definito dalla forza morfogenetica dello scalpello, pare reggere. Pensiamo
ora però a un cesto di materiale fibroso; può considerarsi cresciuto o piuttosto un artefatto? La
sua costruzione esula dalle normali aspettative della produzione oggetti. Diversa è la
topologia superficie, così pure l’applicazione della forza; la generazione della forma avviene
poi in maniera del tutto particolare. Sotto questi aspetti l’intrecciare cesti elude tutte le
distinzioni tra produrre e crescere. Si sfuma il bipolarismo tra artefatti ed esseri viventi, in
fondo non siamo poi così diversi. L’artefice del cesto infatti, una volta preparato il materiale
fibroso, non interviene più sulla superficie, che non subisce una trasformazione, quanto una
formazione, senza alcuna coincidenza tra la superficie del cestino e quella della fibra:
l’intreccio è reversibile, non ha un dentro e un fuori ben determinato.
73 Il vasaio lotta contro la forza di gravità; l’argilla, pesante, duttile, tenderà ad afflosciarsi,
senza esercitare alcuna resistenza. Diversamente stanno le cose per le fibre da intrecciare. La
forma del cesto è la risultante di un gioco di forze sia interne sia esterne al materiale che lo
costituisce, l’artefice è coinvolto in un dialogo reciproco e fisico con il suo materiale. La
forma concreta del cesto non sgorga dall’idea, si dispiega all’interno di quel campo di forze
che non è né interno al materiale né interno all’artefice, ma attraversa la superficie emergente
tra di loro. La forma del cesto avviene attraverso una serie di movimenti abili ed avrà una
forma regolare grazie alla ripetizione ritmica di quei movimenti.
Le forme sia degli organismi sia degli artefatti sono in forte grado sotto-determinate
dagli stampi o modelli che le sottendono. Molte caratteristiche degli organismi e degli artefatti
sono infatti semplicemente accidentali, dovute a motivi contingenti e rivelatrici non del piano
che le sottende, ma dei limiti di quello.
Non vi è design per la spirale della conchiglia del gasteropode. La sua forma emerge
attraverso un processo di crescita all’interno del proprio campo morfogenetico, cioè il sistema
totale di relazioni che è stabilito in virtù della presenza dell’organismo che si sviluppa nel suo
ambiente. Il ruolo dei geni non è quello di specificare la forma, ma di stabilire i parametri
attraverso i quali essa si dispiega.
Proprio come la forma organica è generata dal dispiegamento del campo morfogenetico,
così la forma dell’artefatto evolve all’interno di un campo di forze. Entrambi i tipi di campo
attraversano l’interfaccia tra l’oggetto (organismo o manufatto) e un ambiente che nel caso di
un artefatto include imprescindibilmente anche il suo produttore. Dove l’organismo impegna
il suo ambiente nel processo di sviluppo ontogenetico, l’artefatto impegna il suo costruttore in
una serie di attività abili. Questo è letteralmente un coinvolgimento creativo, che dà luogo alle
forme dell’artefatto e non si limita a trascrivere una forma preesistente nella materia.
Vedeva bene mia nonna quando, insegnandomi a lavorare a maglia, mi chiedeva
ripetutamente: - Fammi vedere quanto ti è cresciuto il lavoro!
Ingold ritiene che, se il dispiegarsi del campo morfogenetico viene descritto come un
processo di crescita, sarebbe corretto riuscire a vedere che anche gli artefatti - le cui forme
evolvono analogamente all’interno di un campo di forze – crescono, seppur secondo principi
diversi.
Lo studioso inglese descrivere questa crescita come un processo di autopoiesi, cioè di
autotrasformazione nel tempo del sistema di relazioni all’interno delle quali un organismo o
un artefatto vengono posti in essere. Poiché l’artigiano è coinvolto nello stesso sistema del
materiale che lavora, la sua attività non trasforma quel sistema, ma è piuttosto – al pari della
crescita di piante e animali – un tutt’uno con la trasformazione del sistema stesso. Attraverso
il processo autopoietico i ritmi temporali della vita sono gradualmente incorporati nelle
proprietà strutturali delle cose. Per dirla con Boas, il ritmo del tempo appare - nel cesto, come
nella pietra - tradotto in termini di spazio: nei lavori di scheggiatura, in quelli martellati, nella
tessitura, c’è un legame necessario tra regolarità di forma e ripetizione ritmica dello stesso
movimento.
74 XI
Spero di essere riuscita a leggere la biografia professionale di Alessandro in termini
fluidi, di rapporti costruttivi, circolari in cui il vincolo ha creato delle possibilità all’interno
delle quali si sono realizzati gli eventi reali.
Grazie agli input avuti da Ingold ho tentato di focalizzare l’attenzione sull’azione situata
in quel contesto casentinese, sulla fase dell’apprendistato, che diviene poi affinamento delle
abilità lungo quanto il processo vitale, sul sapere in corporato nella persona-organismo di
nome Alessandro che è il locus dell’attenzione, dell’apprendimento e coinvolgimento nel
mondo, su Alessandro come nodo di un certo campo di relazioni, all’interno del quale nel
corso del tempo emergono e si evolvono le sue qualità, proprietà e conformazioni, le sue mani
provate da un intenso utilizzo degli strumenti come il suo saper fare coi clienti, perché il
processo di diventare persona è integrale a quello di diventare organismo: nella persona che
ho intervistato credo di aver colto l’intera storia delle sue relazioni ambientali, quel sistema
che ha reso Alessandro ciò che è.
Ho ritenuto opportuno porre in appendice la catalogazione degli strumenti dello
salpellino per fare chiarezza su quanto Alessandro ha raccontato circa i distinguo tra subbia,
scalpelli e gli altri attrezzi ai quali ha fatto riferimento, mostrandomene pure l’utilizzo. Una
schedatura resa viva dai rinvii al sapere della mano di Alessandro, oltre che da quanto ho
raccolto al museo della pietra lavorata. Mi sovviene un curioso aneddoto, raccontatomi al
museo - di cui Alessandro non si ricordava -, rivelatore del fatto che il lavoro dello scalpellino
non può essere narrato solo attraverso le tracce materiali dello stesso, siano esse i ferri del
mestiere o il risultato finale.
Gli scalpellini erano soliti cantare al suono del mazzuolo filastrocche popolari, storie
più o meno conosciute, canti improvvisati. Si dice che uno scalpellino – in un passato
imprecisato - muoveva il mazzuolo al ritmo un po’ svogliato delle parole pane e baccelli. Un
passante suggerì allora al committente di rinvigorire le forze del lavoratore con vino e cacio: il
suggerimento fu ascoltato, tanto che ne sortì l’effetto sperato, gradito allo stomaco del
lavoratore come alle tasche del committente, che vide quasi raddoppiato il lavoro al più
veloce ritmo delle parole pane vino cacio e baccelli.
La visita ad Alessandro mi ha fatto inoltre capire quale grossa perdita comporti scindere
lo scalpello dal caratteristico rumore che produce. Un bene davvero volatile, il ticchettìo dello
scalpello, secondo un termine caro a Cirese, indimenticabile una volta che lo si sia udito
anche per un attimo, capace com’è di mettere in atto una risonanza, che rimanda pure a un
particolarissimo paesaggio sonoro, sul quale hanno opportunamente lavorato all’Ecomuseo
nell’allestire il Centro di interpretazione della pietra lavorata inaugurato a ottobre 2012 a
Castel San Niccolò, perché non a tutti può capitare di accedere al labortorio Rialti solo per
ascoltare quell’indimenticabile ticchettìo.
Concludo adesso con un primo piano del protagonista dell’intervista che è poi in realtà
divenuta narrazione. Fra i vari scatti ho scelto quello che ho ritenuto più discreto: non gli
faccio violenza, non è un primissimo piano, non gli rubo neppure lo sguardo. Scopro però –
potenza della tecnologia che diversamente dall’occhio umano registra ogni informazione – le
unghie di Alessandro. Non le avevo notate, forse per via dei guanti… non posso crederci!
75 76 Angela Giordano:
una voce argentina al telaio
Arazzo per il palio di Prato, torneo antico gioco della palla grossa (cm 300 x 170) ricamato, tessuto, imbottito da Angela e da
due sue allieve nel 1981 su tela dipinta da Alfio Rapisardi
Non ho conosciuto Angela per caso. Il nostro incontro, avvenuto in occasione delle
visite in Casentino richieste dallo stage della scuola, ha costituito un’esperienza gradevole e
costruttiva, umana e professionale a un tempo, producendo in parallelo tessuti e racconti: i
miei imparaticci sono infatti cresciuti insieme a quanto Angela ha voluto raccontarmi di sé, a
partire dal suo viaggio incosciente fino in Argentina in compagnia del fratello dentro la pancia
della madre, conclusosi con la sua nascita a Buenos Aires dove il padre, un francese di origini
italiane, e la madre, italiana di Bari si recarono, condividendo i progetti e la disperazione di
77 quanti allora numerosi si imbarcavano alla volta di un sogno noto grazie solo a qualche foto
con lo sfondo finto che giungeva d’oltreoceano.
Quanto dai nostri incontri è scaturito desidero che ora trovi spazio nella narrazione di
come sono trascorse le giornate casentinesi, senza la quale narrazione esse rimarrebbero nel
bagaglio esperienziale personale come una materia grezza, come il vello tratto dalla pecora
mediante tosatura, morbido e gradevole certo, che invece è suscettibile di essere trasformato
in filo, il filo logico di quanto ho colto dall’ascolto della sua storia di vita, il filo conduttore
della riflessione su quanto ho appreso in fatto di pettini, licci, telai, italiani, argentini,
precolombiani, fissi, da tavolo, portatili, piccoli, enormi – ne ho visti di tutti i tipi, e – perché
no – il filo che mi aiuta a riflettere anche su quanto bene si sposino diletto e apprendimento,
fili tutti che confluiscono in quello complesso della presente narrazione, improntata anche
stavolta al pensiero ingoldiano.
In questo senso, dopo aver molto tessuto fuor di metafora, mi sto ora accingendo a
filare.
II
Angela ama la vita. La sua voce, squillante, lo dice.
L’ho chiamata un pomeriggio sul cellulare, il numero lo avevo avuto da Andrea, il
coordinatore dell’ecomuseo del Casentino.
L’ho chiamata perché la visita invernale al Museo dell’arte della Lana di Stia non mi
aveva appagato abbastanza, nel senso che mi aveva stimolato a tornarvi per entrare nel cuore
di vetro del museo, il laboratorio, in quell’occasione chiuso per l’assenza del suo genio
tutelare.
Avevo sbirciato a lungo oltre le pareti trasparenti, percorrendo con lo sguardo fili,
tessuti, telai, le creazioni delle artiste tessitrici e tutto un armamentario che volevo vedere in
azione.
Volevo incontrare la regina del luogo attraverso il telaio e il telaio attraverso di lei.
- Si chiama Angela Giordano, la mail è litagio@**** -, mi fa sapere Andrea. Ecco
come sono andate precisamente le cose, il numero me lo ha poi dato Angela stessa con una email in risposta, molto aerea: caratteri enormi, qualche incertezza lessicale, la mail di una
persona molto comunicativa.
Angela Giordano, un nome così familiare, che ha il suono caldo dei ricordi
dell’infanzia: la marca del triciclo era Giordani, ma che altro?
L’indirizzo e-mail suona meno familiare ma, a ben pensare, Angela può diventare
Angelita e questo può rimanere Lita; quanto a Gio, sta con molta probabilità per Giordano.
Ma, nonostante io abbia un marito di nome Pablo, non ci sono arrivata subito.
Intanto non ho saputo resistere a sbirciare su internet il volto della maestra, che sarebbe
poi stato anche quello di una probabile collaboratrice, dato il progetto sulla filiera corta
proposto dall’Ecomuseo in relazione al mio stage. Dopo qualche alchimia non proprio facile,
mi imbatto in un’immagine che è proprio quello della persona che sto cercando e scopro che
la vitale signora dai capelli corti e bianchi con la quale avrò a che fare è nata a Buenos Aires
15 anni prima di me.
78 Coordinare gli impegni di tutti non è cosa da poco: il fine settimana successivo alla
telefonata vedeva Angela impegnata nelle attività di laboratorio per bambini al Museo della
Lana; in quella circostanza – è ovvio – avrebbe avuto poco tempo da dedicarmi. Ho pensato
così di andare a Stia con tutta la famiglia, figlioletta compresa, e coinvolgere anche una
povera bambina nelle trame della madre…
Nel tardo pomeriggio, conclusi i laboratori, il Museo non ha chiuso i battenti: era da
poco arrivato al museo un magnifico esemplare antico di telaio Jacquard e in molti erano
impegnati a montarlo a regola d’arte.
Nonostante il trambusto, ci siamo intrattenuti a lungo con Angela e, parlando del più e
del meno, il discorso è caduto sulle collaborazioni che negli anni Settanta e Ottanta Angela
ebbe con importanti periodici femminili, quali Rakam, Brava, Confidenze, e non ultimo
Famiglia Cristiana, sul quale curava l’inserto centrale staccabile, la pagina dei ragazzi, in
collaborazione con una valida
giornalista, Carla Ruffinelli. È stato
in quel momento che ho provato un
brivido.
Quando ero bambina, a casa di
mia nonna, abile tessitrice – come
avrò modo di dire -, la copia
settimanale di Famiglia Cristiana
non mancava mai: vestire bambole
con abiti di carta, dopo averli
debitamente incollati sul cartone e
ritagliati, era una sorta di rito
magico. Da due semplici pagine piatte emergevano bambole che, se non erano
tridimensionali, potevano starsene in piedi poggiate sul tavolo grazie alle apposite alette
bianche da ripiegare lungo il tratteggio…
Il triciclo Giordani mi aveva posto proprio fuori strada ma, sul fatto che Angela
evocasse la mia infanzia, non mi ero affatto sbagliata!
III
Desidero avvicinarmi a un telaio da sempre, mia nonna se ne è andata da poco alla
magnifica età di novantasette anni e in passato ha risposto a tante mie domande ma, senza il
supporto materiale di un telaio concreto, le sue spiegazioni apparivano ogni volta più arcane.
Oggi i telai della prima metà del secolo scorso – quelli di mia nonna insomma - hanno
nella mia zona ormai esaurito anche la fase di obsolescenza della loro vita, troppo
ingombranti per essere riposti in cantina o in soffitta, nella stragrande maggioranza dei casi
sono stati smembrati in una migrazione di forma di uso che li avrà visti finire con buona
probabilità dentro ai focolari.
79 Nei racconti della nonna, l’orditoio, la rocca, la spola…, sempre collocate in un
iperuranio intangibile, vuoi perché il suo era un sapere implicito proprio nel fare, che non si
insegna se non facendo, vuoi perché la nonna in quanto a tessitura era la più brava del paese,
tanto gelosa dei segreti del mestiere che viene da pensare che, se le figlie avessero voluto
imparare – cosa comunque poco probabile -, avrebbero dovuto trovare altri maestri.
Il saper fare di mia nonna era tutto pratico, povero di algoritmizzazioni, appreso senza
mezzi pedagogici formalizzati e pertanto indicibile e poco propenso alla descrizione verbale,
proprio come Angioni descrive il sapere tecnico nel lavoro preindustriale (Angioni 1986:92);
un sapere tecnico implicito – come vuole lo studioso - se non del tutto indicibile, sicuramente
non detto dagli stessi operatori, che alla spiegazione preferiscono l’esecuzione esplicativa. I
loro discorsi e le loro rappresentazioni sono per lo più frammentari, atomistici, nel senso che
di solito sanno solo balbettare intorno a ciò che invece sanno benissimo fare. Un’abilità
incorporata, una capacità acquisita nel fare, depositata nella memoria corporea.
Notevole è il fatto che negli ultimi mesi di vita, la nonna, sempre più assente al
presente, fosse tutta impegnata a filare o cucire, ovviamente senza ago né fuso, espletando
un’abitudine somatica appresa che la riportava a un amato passato, in un ricordare corporeo
favorito dalle conseguenze dell’età avanzata; di contro – dicevo – al saper fare implicito della
nonna, sta tutta la capacità comunicativa di Angela, che sa formulare pertinentemente a parole
le proprie competenze tecniche esplicitandone verbalmente la loro effettiva messa in opera.
Un saper fare incorporato, adeguatamente accompagnato da un’eccellente abilità
nell’esprimersi, degno del ruolo di maestra tessitrice, rivestito all’interno del museo.
Per Ingold comunque, il sapere della mano di mia nonna non è in nulla diverso da
quello di Angela. Enormemente diversa è la loro storia, come l’età in cui si sono avvicinate al
loro primo telaio. Il sapere di entrambe tuttavia è stato appreso - seppur in tempi diversi e in
differenti circostanze -, senza però prescindere dall’inevitabile processo di incorporamento
delle abilità che avanza costante nella misura in cui si abbandona la goffaggine alla ricerca
della destrezza.
Un’enorme differenza riscontro invece tra le due nel loro rapportarsi a me in veste di
allieva: la nonna non ha saputo, forse voluto o potuto creare le condizioni tali da consentirmi
di mettere in atto quella riscoperta guidata – di cui parla Ingold - di quanto avevo sentito dire
da altri o mi aveva detto lei stessa circa il telaio. Ci mancava proprio lo strumento, e in tutta
sincerità forse nonna non credeva fino in fondo che quel mondo ormai a suo giudizio fuori
moda mi interessasse davvero, unitamente al fatto che – come rileva Angioni (1986 passim) –
la difficoltà nel ricordare è una conseguenza della difficoltà del rappresentare ciò che si è fatto
tante volte senza essere mai ricorsi a una rappresentazione esplicita preventiva all’operare, a
un momento preliminare del progettare, di solito assente nei sistemi tecnici premacchinisti, in
cui si sa quello che si sa fare, anche se non se ne sa comunicare il sapere in un discorso
comunque codificato.
L’assenza di un discorso tecnico come momento separato, separabile, indipendente,
preliminare o successivo all’operare, pur non implicando che si tratti di una tecnicità
inconscia, ha costituito un ostacolo - unitamente all’assenza del telaio - agli insegnamenti che
potevo trarre da mia nonna.
Angela invece non si risparmia in quanto a istruzioni verbali. Le sue algoritmizzazioni
non annullano tuttavia il suo sapere incorporato, anzi, lo arricchiscono, rendendolo fruibile in
maniera piacevole e rassicurante. Credo che la sua voce suadente contribuisca alla
80 gradevolezza dell’apprendimento, costituendo cioè quello che Alessandro ha cercato invano
in suo padre; tutto il corredo comunicativo verbale è comunque un elemento aggiuntivo,
generatore delle migliori condizioni che permettono la riscoperta guidata del sapere abile, ma
privo di efficacia se isolato dal contesto. Ne ho una prova tangibile: ho registrato le prime e
basilari lezioni sull’orditura della mia maestra, ma sfido qualsiasi profano a trarne giovamento
se dovesse consultarle avulse dal contesto nel quale sono state generate. Non nego che il
riascoltarle possa essere di giovamento, ma solo nella misura in cui riesco ad associarle alla
gestualità di cui sono stata spettatrice, e poi a mia volta artefice.
A mia nonna e ad Angela, accomunate dal saper fare incorporato, possiamo senza
esitazione alcuna affiancare – seguendo Ingold – anche l’uccello tessitore, che tesse solo il
suo nido, ma tesse.
Con lunghe strisce di foglie strappate da erbe particolari, l’uccello intreccia con grande
abilità una rete regolare; una volta tessuto, il lavoro è tenuto insieme da una serie di punti e
nodi apportati col becco in posizioni strategiche. Sembra incredibile, ma questi uccelli
padroneggiano l’operazione dell’intrecciare con una maestria non umana… Anzi, invece è
proprio molto simile a quella umana. Essa, al pari del sapere esperto dell’abile tessitore,
richiede una lunga pratica, che gli uccelli acquisiscono manipolando col becco ogni tipo di
oggetti fin da quando vengono al mondo. Nei maschi – riferisce Ingold - questo interesse
aumenta col tempo, nelle femmine invece si affievolisce. Tuttavia, anche i maschi, se privati
delle opportunità di fare pratica o se non sono reperibili i materiali adatti, non sviluppano le
abilità necessarie alla tessitura del loro nido. Questo dimostra che le capacità di un uccello
tessitore, analogamente a quelle di un cestinaio, si sviluppano grazie a una lunga pratica
connessa alle possibilità concesse dall’ambiente. Ciò che l’uccello impara è la capacità di
aggiustare i propri movimenti con squisita precisione in relazione alla forma in evoluzione
della sua costruzione.
L’abilità non è dovuta all’istinto; nel caso dell’uccello tessitore accade ciò che accade
fra gli umani. Una serie di movimenti regolari genera la forma, non è l’idea a generarla né un
programma. La pratica esperta nell’uccello, come nell’uomo, è incarnata nel modus operandi
del corpo attraverso la pratica costantemente ripetuta, consentita da un certo tipo di ambiente.
Sotto quest’ottica vengono a cadere anche le contraddizioni che in una maniera tra il
giocoso e il provocatorio Angioni (1986:17) faceva notare tra quanto affermato da Paolo di
Tarso e dal suo Maestro, il primo dei quali sosteneva che mangia solo chi lavora, contraddetto
dal secondo che additava invece l’esempio degli animali, che mangiano pur non lavorando.
IV
Dopo tre mesi dall’arrivo in Argentina dei genitori, Angela venne al mondo a Quilmes,
distante circa venti chilometri da Buenos Aires ma, nella prima fase della sua vita, i fili non
dovettero interessarle un granché.
Mentre il padre lavorava in ambito metallurgico, la madre svolgeva dei lavoretti di
cucito a domicilio, quasi mai aiutata dalla figlia, che preferiva altre attività. Qualche piccolo
orlo Angela non poté negarlo alla sua madrina di battesimo, che fu così madrina anche
81 dell’attività che avrebbe segnato tutta la sua vita professionale. Al momento, è ovvio, sarebbe
stato difficile immaginare dove quei fili l’avrebbero condotta.
Durante le ore di tessitura, non faccio molte domande ad Angela, preferisco che si
racconti a ruota libera, anche se devo dire che lei arriva a se stessa attraverso i filati,
rifuggendo da ogni egocentrismo. A porsi bene in ascolto, emergono comunque anche
indirettamente vari aspetti della sua personalità, che è creativa e disciplinata a un tempo, come
le sue creature di stoffa.
Le ho chiesto di focalizzare l’attenzione su un oggetto che la rappresentasse. Non a
caso, lei ha indicato la spola. La spola, o navetta, è quella che conduce la sua vita dall’Italia
all’Argentina in viaggi non frequenti ma più o meno costanti di andata e di ritorno, dove
l’andata si con-fonde col ritorno, spostamenti che la fanno divenire migrante senza prefissi,
non e-migrante né im-migrante, bensì migrante in senso assoluto, ovvero che migra nelle due
direzioni, i bordi geografici della tela della sua vita.
In questo suo andare e venire, che è poi anche un movimento cerebrale, non
necessariamente fisico, tra i due mondi, sta tutta la ricchezza umana di chi tesse gli opposti ed
entrambi ama, la vita non facile a Quilmes e gli atelier di lusso italiani, la sobrietà nel vestire
e il maneggiare talvolta fili d’oro, in un confronto tra i due mondi perennemente aperto,
volutamente lasciato senza vinti né vincitori.
Angela è arrivata in Italia a tredici anni compiuti, l’ha accolta una Milano brulicante di
attività, dove, fingendosi più grande per motivi legali, si è fatta assumere in un negozio di
calzature.
Dopo qualche anno, le scarpe le andavano strette al punto che si è licenziata, nonostante
la madre la invitasse a riflettere sul valore del denaro.
A premiare il suo coraggio, è stato l’incontro con Gioia Falk, la vera madrina dei suoi
fili. La signora milanese stava cercando un’insegnante di mezzopunto, incarico che Angela ha
accettato all’istante, per quanto all’attivo avesse solo qualche orlo eseguito di controvoglia da
bambina.
Un anno dopo la troviamo attiva sempre a Milano, in Galleria Passerella, nel celebre
negozio di Elio Fiorucci. La fortuna, è il caso di dirlo, premia gli audaci.
V
Sto imparando a tessere su un telaio a tensione precolombiano, portatile, pratico, che
fisso a un punto fermo quale un albero, una colonna o lo stipite di una porta, lego la cintura
sul subbio e mi siedo sopra la cintura, per non gravare troppo sulla schiena, come previene
argutamente Angela e come sperimento a mie spese nei momenti di distrazione. Il video
allegato al presente lavoro ne chiarisce il funzionamento nei dettagli.
82 Non sempre rimaniamo all’interno del museo. Un bel
sabato pomeriggio, per esempio, in vero stile
ecomuseale, ho raggiunto Angela al castello di Porciano
dove lei vive e da dove ora si sta trasferendo, perché la
spola non è per sua natura statica.
Il tempo era meraviglioso e ci siamo poste
nell’atrio di una antica abitazione a godere del nostro
lavoro e della bella visuale, la torre di Porciano, a pochi
metri da noi. L’ampia sala all’interno della torre è
intitolata a Dante, il quale fu ospite dei Conti Guidi
durante i giorni dell’esilio. Certissimo è quello che Dante
avrebbe pensato di noi tessitrici, se pone nelle Malebolge
le femmine che per dedicarsi alle arti divinatorie
abbandonarono i lavori tessili, definendole in questi
termini:
Le triste che lasciaron l’ago,
la spola e ‘l fuso, e fecensi indovine
Inf. XX, 121-122
mentre le donne virtuose, nel pensiero del Poeta, stanno al fuso e al pennacchio, come
racconta a Cacciaguida in Par. XV, 115-117.
In Toscana Angela arriva, poco dopo l’esperienza milanese, in compagnia di una amica
e collaboratrice, mentre lavorano a una collezione di ricami a punto lanciato, che prenderà il
nome di Elsa Point, come l’impresa da esse costituita nel 1974, che si occupava anche della
vendita per corrispondenza di materiale per il ricamo. Qui si aprono altri flashback non più
sulla mia infanzia, ma sull’adolescenza e gioventù, in quanto le riviste alle quali Angela
collaborava e dove venivano proposti i prodotti di Elsa Point sono sempre circolate per casa.
Angela è quindi a Colle di Val d’Elsa, in un perpetuo oscillare tra piccoli paesi e grandi
città. È in questa fase che incontra il primo telaio, quando ha già ventitré anni, un dettaglio
molto stimolante per chi non più bambino si voglia avvicinare alla tessitura. Il telaio non è un
nemico come può essere il violino, seppure abbiano entrambi corde tese, la tessitura non
mette veti o limiti all’età per chi voglia apprendere e superare la fase di apprendistato. Va
comunque riconosciuto che Angela era già da molto tempo in contatto coi fili, seppur trattati
con altre tecniche.
Angela perfeziona il suo saper fare al telaio in Sicilia, in Sardegna, nel sud
dell’Argentina, precisamente presso gli Araucani. E lo perfeziona al punto da lavorare per
nomi quali Ferragamo o Linea Più.
All’età di cinquantacinque anni, la socia colligiana parte per il Canada. Dopo qualche
tempo, nel 1978, il pendolo-spola di Angela, dal piccolo paese di Colle punta alla volta di
Firenze, dove insieme a Gioia Falck apre un laboratorio che fa dialogare ricamo e tessitura,
dal nome Punti e Licci.
Ormai Angela è una professionista di prim’ordine: il Museo Correr sceglie lei per la
catalogazione di un ingente quantitativo di tessuti copti di indicibile valore, realizzati con una
83 tecnica che dopo un attento studio Angela sarà in grado di individuare: di primo acchito
percepiti come ricamati, sono in realtà completamente tessuti al telaio; la tessitura piana
laterale si coordina con la parte centrale tessuta alla maniera dell’arazzo - solitamente con
disegno circolare -, la tessitura piana completa poi la tela fino in fondo, come nella parte
iniziale. Relativamente facile è il fare, molto più complesso è interpretare il già fatto.
Ingold, riflettendo sull’universo del tessile, rileva l’abitudine molto diffusa di
considerare il tessuto come un tipo di materiale, quasi che il processo di tessitura non
producesse forma alcuna, ma solo la materia prima per la successiva realizzazione di un più
concreto prodotto. L’intreccio tridimensionale del cestinaio sarebbe invece almeno a prima
vista da porre su un altro piano, come se cesti e tessuti non potessero essere accomunati, ma
divisi d’imperio nel comune modo ci concepire il mondo da una dicotomia che oppone la
forma alla sostanza. L’azione dell’intrecciare il cesto potrebbe somigliare a quella di plasmare
un vaso, entrambe producono un oggetto. Nel caso della tessitura invece, l’aspetto della
produzione parrebbe ancora prematuro, rimandato a un secondo momento, e a un altro
artigiano, il sarto per esempio.
Sicuramente le osservazioni di Ingold, che poi non sono solo le sue, ma anche quelle del
pensare comune, valgono per la produzione industriale delle stoffe, non per i tessuti di
Angela; quelli non sono fatti per essere tagliati - ne andrebbe della loro integrità -, sono forme
geometriche che divengono mantelle, arazzi, cuscini, borse, sciarpe e molto altro ancora, più
vicine ai prodotti di vimini che non ai chilometrici tessuti industriali.
Pur tuttavia, ostinarsi a distinguere tra cesti e tessuti – continua Ingold - significa porre
l’attenzione più sul prodotto che non sul processo di produzione. Spostando invece l’accento
sul processo, è possibile cogliere infinite analogie di trame: con l’intrecciar cesti che
precedette forse la tessitura, e fu a sua volta preceduto con tutta probabilità dalla
fabbricazione delle reti dei pescatori.
Nella prospettiva ecologica, suggerisce Ingold, non conviene considerare il cesto
intrecciato come un prodotto, quanto piuttosto conviene invertire il punto di osservazione e
considerare il produrre come una forma di intreccio.
La parola inglese telaio loom deriva dall’inglese medio lome, originariamente indicante
un utensile o uno strumento di qualsiasi tipo; molto probabilmente, per i nostri predecessori
anglosassoni, la costruzione di una superficie attraverso il tessere assorbiva l’essenza dei
processi tecnici in generale, più dell’imposizione di una forza plasmatrice su una superficie
preesistente. Tessere era insomma il processo tecnico per antonomasia.
Se la nozione di produzione mira al prodotto, quella del tessere enfatizza il processo. A
guardar bene, enfatizzare la produzione significa considerare l’oggetto come l’espressione di
un’idea, enfatizzare il processo significa invece considerare l’oggetto come l’incorporamento
di un movimento ritmico. Per questo, invertire l’ordine tra produrre e intrecciare significa
anche invertire la priorità tra idea e movimento e vedere il movimento come generatore
dell’oggetto e non come rivelazione di un oggetto che è già presente, in forma ideale,
concettuale o virtuale prima del processo che lo rivela.
È bene non strappare l’oggetto dal contesto della sua creazione, né interpretarlo poi
indipendentemente da quello, costretti a quel punto a cercare il significato dell’oggetto
nell’idea che esso esprime, piuttosto che nell’attività che lo ha generato. Tale contemplazione
astratta degli oggetti porta a ridefinire gli oggetti ordinari della vita quotidiana come elementi
84 di una cultura materiale il cui significato sta non nell’incorporazione di una routine abituale,
ma solo nel loro valore simbolico.
Il capovolgimento della relazione tra produrre e intrecciare intende riportare in vita
questi prodotti dell’attività umana e restaurarli come parte dei processi in cui essi sono
assorbiti. Quindi l’intreccio non è una produzione, è piuttosto la produzione ad essere un
intreccio.
L’intrecciare, come il tessere, rappresentano così l’essenza dell’attività tecnica umana.
In questo senso, non solo Angela, ma anche lo scalpellino, tessono quando sono all’opera.
VI
Cos’è una sciarpa se non un vincolo fatto di vincoli? Un accessorio utile ed estetico, una
compagna talvolta insostituibile al pari di un animale da compagnia. Un oggetto che ti
abbraccia, un legame liberamente scelto che, con le dovute eccezioni1, ti è di conforto e
supporto.
Nel 2008 proprio sulla sciarpa Angela ha organizzato una mostra concorso itinerante,
che è arrivata persino in Argentina e negli Stati Uniti (Tennese, Arkansas, Texas, New York)
ospite nelle università.
Lo scorso anno un capolavoro di Angela dal titolo Amicizia è stato in mostra a Parma, in
una esposizione itinerante dal titolo Wool Art, biodiversità e mestieri d’arte. L’installazione è
costituita da un arazzo con due fessure centrali, con cui a me piacerebbe avvolgermi come in
una sciarpa, tessuto appunto alla maniera dell’arazzo con le dita e col pettine liccio. Il filato è
costituito da lana di pecore cornigliesi - intrecciata da Bruno Tessa e tinta dall’amica
Diamantina (con la quale Angela condivide il paese di origine) con tinture vegetali nei delicati
colori del rosa, del grigio melange e del color melanzana. A essa si aggiunge una lana mohair
filata in Sud Africa, tinta da Ines, sua allieva e amica napoletana. Il tessuto è poi arricchito da
inserti di legno raccolto sulla spiaggia di Lerici da Angela stessa e da una pietra ricevuta in
dono. Un intreccio di relazioni al quale è stato dato un titolo molto pertinente.
Quelle narrate sono le tappe salienti del percorso umano e professionale di Angela che
non pretendono di esaurire la geografia della sua vita. Abbiamo trascurato la Liguria, dove ha
a lungo insegnato a ragazzi e ragazze, perché – non dimentichiamolo - solo in tempi e spazi
determinati la tessitura è stata prerogativa delle donne. Potremmo anche andare a ritroso e
parlare del Musée de l’Homme, dove Angela negli anni Settanta ha appreso la tessitura
precolombiana e navajo. Non mi pare tuttavia questo il luogo per fare l’elenco della sua
intensa attività degli ultimi anni, immaginabile, date le altissime competenze. Esperienze alle
quali lei non ha fatto grandi cenni, ma che ho potuto reperire in un curriculum che Angela non
sapeva neppure fosse pubblicato sul web.
Mi alletta invece l’idea di non mettere la parola fine, ma di rimandare la sanatoria delle
lacune della presente narrazione a un lungo capitolo futuro, capitolo che Angela sta scrivendo
ogni giorno sulla stoffa, con la solita intensità del suo ritmo vitale.
1
Non posso non pensare alla danzatrice Isadora Duncan la cui tragica fine per strangolamento fu dovuta alla sciarpa le cui
frange rimasero intrappolate nei raggi delle ruote della Bugatti da corsa sulla quale era appena salita. 85 Di fronte all’universo tessitura, il mondo femminile con cui sono in contatto mi pare
oscilli fra due opposte tendenze: quella dell’interesse stupìto, unito all’ammirazione per il
ritorno all’essenza delle cose - in risposta all’invito alla decrescita di cui tanto si parla - da una
parte; e un atteggiamento invece di sufficienza verso un sapere considerato retrogrado e
antiquato, verso un lavoro di pazienza e di schiavitù femminile, tipico insomma della fazione
di coloro che vedono nel vincolo un’offesa all’ansia di libertà.
Ma se il fuso, la spola, e così il pendolo, l’aquilone non fossero appesi, vorrei dire a
costoro, precipiterebbero verso l’abisso dopo breve e folle volo.
Come insegna Francesca Rigotti e, prima di lei, Maria Zambrano, la spola sapiente sa
che il vincolo è importante per vivere e che il legame è in grado di liberare mentre costringe; i
vincoli non sono limitazioni dell’agire, bensì opportunità per spingersi avanti e ottenere
risultati sempre nuovi.
Non è detto poi che la felicità stia necessariamente nell’ascesa: ci si può anche lanciare
da un ponte con una buona imbragatura.
Credo inoltre che i denigratori del telaio debbano superare la fase di familiarità col
mondo della tessitura, quando il telaio veniva usato per le esigenze di prima necessità, in un
periodo che si colloca anche in Italia in un passato non troppo remoto.
L’invito lanciato da persone come Angela è quello di osservare i fili attraverso uno
sguardo straniante, che risvegli le cose dallo stato di congelamento nel quale le hanno fissate
la familiarità e l’abitudine: esse potranno così acquistare nuova vita e stimolare la creatività di
quanti vi si avvicinino.
Il lavoro intrapreso in Casentino, quello lato sensu stavolta, ha prodotto col filo una
rete, fatta di rapporti fra oggetti, persone, saperi. Una rete che mi piace percorrere in maniera
analogica, dove da un nodo all’altro ci si debba spostare camminando sul filo, anche se è
ormai impossibile prescindere dalla modalità digitale, che ci fa balzare da un nodo all’altro
senza continuità, annullando il tempo e la distanza2.
Sono intercorse – è ovvio – numerosissimi colloqui telefonici ed e-mail tra Angela e
me, ma i momenti più significativi sono sempre scaturiti dagli incontri de visu: entrambe
amiamo il tempo lineare, quello della funicella di lino, magari tinto di viola, il colore che
Angela predilige.
2
A magra consolazione dei cultori dell’analogico, va notato comunque che stare on-line significa comunque stare sulla linea,
seppur quella della rete informatica (lat. linea da linum ovvero ‘lino’, quindi linea ‘filo di lino’, ‘spago’, ‘funicella’) che,
abbiamo visto, ama i balzi, non il continuum.
86 Angela Giordano
87 Conclusioni
Il viaggio tra gesto e materia intrapreso da quasi più di un anno si avvia verso il termine.
Il titolo che avevo immaginato Casentino intangibile - Un viaggio ecomuseale tra
gesto, materia e dintorni potrebbe arricchirsi di ulteriori specificazioni, in quanto l’oggetto
d’indagine che mi ero prefissata ha trovato in corso d’opera ulteriori declinazioni: non è mai
stato solo l’arazzo ben tessuto o il fregio decorosamente lavorato; neppure l’intangibile saper
fare di mani esperte intorno al telaio o sopra lo scalpello, né le abilità organizzative intorno
alle scrivanie dell’Ecomuseo esauriscono quanto ho tratto dall’esperienza casentinese e
cercato di restituire in queste pagine.
Di sicuro, riflettendo sulla maniera in cui Ingold intende il know-how, ho compreso che
il sapere incorporato non si limita ai mestieri tradizionali, che plasmano o, meglio, intrecciano
il mondo in maniera concreta, perché esso si estende oltre, forse al complesso dell’agire
umano. Chi dinanzi a un nuovo programma installato in uno qualsiasi degli uffici del mondo,
voglia prendere appunti e avere dal tecnico di turno le istruzioni complete circa il suo
funzionamento, fa parte ormai di un mondo al tramonto che vide nelle scatole magiche dei
computer, prima lontane dal quotidiano, un’illusoria panacea. I giovani sanno bene che con il
computer si deve interagire, assecondarlo, aggiustare il colpo volta per volta, proprio come fa
il fabbro quando forgia il metallo, perché saper dialogare col calcolatore è un’abilità
incorporata che si acquisisce col tempo e si fa beffe di appunti e manuali.
Osservando i miei oggetti di studio ho inoltre compreso che qualsiasi de-formazione
professionale è in realtà una con-formazione personale, ché non esistono soglie nette tra i vari
ruoli che assume una persona vivendo la propria esistenza; ho percepito inoltre che le stesse
categorie di tangibile e intangibile sono solo utili strumenti da far valere in sede giuridica,
perché nella realtà non esistono Rubiconi da attraversare per spostarsi tra i due mondi.
Ho compreso infine che l’attività di tessitura, quella delle relazioni innescatesi tra
soggetto studente, (s)oggetti studiati, facilitatori gravitanti intorno all’Ecomuseo, e destinatari
del lavoro, è ciò che ha apportato la vera completezza e conferito densità di significato alla
presente indagine antropologica. Non vi riscontro un dentro, non un fuori, tutto è compreso in
un intreccio operato a mille mani che continuerà a crescere spero a lungo intorno a un telaio
che vogliamo strappare alle Parche.
88 Appendice
Catalogazione degli strumenti dello scalpellino
donati al Museo della Pietra lavorata di
Castel San Niccolò (AR) dalle famiglie
Colozzi e Rialti
Scalpellini ticchi ticchi
Sempre poveri mai ricchi
(Filastrocca casentinese)
Per la redazione del presente catalogo, mi sono posta sul solco tracciato dal linguista
Scheuermeier con la sua opera sul lavoro dei contadini, per estenderne le modalità operative a
quello degli scalpellini; ciò ha ovviamente comportato la necessità di adattare la metodologia
del grande maestro a tempi, luoghi e situazioni diverse - la preparazione di un capitolo della
tesi a fronte del magnifico lavoro del linguista svizzero e della sua équipe –, con le
conseguenti inevitabili, ma spero perdonabili banalizzazioni.
La formazione filologica di chi scrive, mi consente di apprezzare l’approccio all’oggetto
a partire dal nome e il raccordo di saperi linguistici e cicli produttivi, ma non può farsi
garanzia del buon risultato della catalogazione.
Si parva licet componere magnis, confesso di condividere con Scheuermeier l’amore
per la fotografia, che ho però utilizzato solo per rappresentare gli oggetti e non il contesto
umano intorno a essi gravitante.
Con la mia Canon Eos 600 D, alla quale a malincuore ho concesso di sostituire la
precedente analogica Eos 300, e un teleobiettivo fisso Canon EF 200mm f1:2.8 L II USM,
affiancato in pochi casi da altre focali, ho fotografato gli attrezzi, molti dei quali
singolarmente, altri per gruppi omogenei per tipologia o donatore.
Le immagini di seguito proposte non possono porsi in relazione reciproca in merito alle
dimensioni, in quanto le foto sono state scattate con obiettivi diversi e da distanze diverse
rispetto agli oggetti riprodotti, data la notevole varietà di dimensioni degli stessi. Nel redigere
il catalogo, sono partita dalla denominazione degli attrezzi, individuando laddove era
possibile anche ulteriori denominazioni, ne ho specificato l’uso generale e ho poi tentato di
darne una descrizione, ricorrendo talvolta ai disegni, quando la fotografia non mi pareva
sufficientemente esplicativa; ho poi riportato le dimensioni degli oggetti, nell’ordine
larghezza, altezza, profondità, oltre a eventuali altri dati tecnici.
L’ordinamento scelto è di tipo alfabetico, seguito però non in maniera assolutamente
rigorosa, ho forzato per esempio - credo pertinentemente - le teste di bocciarda
immediatamente sotto all’attrezzo di riferimento, ritenendo con questo procedere di rendere
più agevole la consultazione.
89 BOCCIARDA - La bocciarda è
uno strumento a percussione
diretta, impiegato cioè per colpire
direttamente la pietra; è una sorta
di martello dalla testa
quadrangolare col bordo da taglio
reticolato. La forma piramidale di
ogni casella del reticolo rende la
superficie da taglio composta da
un numero di punte, chiamate col
temine maschile di punti o denti,
variabile da 4 fino a 36; le forme
intermedie ne contano 9, 16 e 24.
NOMI: in Casentino viene più
frequentemente chiamata
FIG. 1. Bocciarda, dono della famiglia
pucciarda.
Rialti
USO GENERALE: l’utilizzo di tale
strumento prevede che tutti i punti tocchino la pietra nello stesso momento al fine di ottenere
una superficie butterata, ma uniformemente piatta, sulla quale tutte le tacche presentino la
stessa profondità. La bocciarda viene più frequentemente usata per la lavorazione
architettonica che non in scultura.
Quella in esame è stata donata al Museo dalla famiglia Rialti.
DATI TECNICI: La testa conta 16 punti; la lunghezza dell’immanicatura lignea,
complessivamente considerata anche nella parte nascosta dal metallo, è di cm 30; la parte
metallica è larga cm 16,5; la testa misura cm 5x5. Il parallelepipedo metallico presenta sulla
faccia lunga esterna un congegno cilindrico che consente il cambio della testa.
TESTE DI BOCCIARDA
- A un maggior numero di
FIG. 2. Teste di bocciarda, dono della famiglia
Rialti
punti contenuti nella testa
corrisponde un risultato di
maggiore levigatezza della
superficie della pietra
trattata con la bocciarda.
Le teste di bocciarda in
esame sono state donate al
Museo dalla famiglia Rialti.
DATI TECNICI: sono in
numero di 3, hanno 16 punti
sul recto, mentre sul verso è
visibile un incavo cilindrico
che consente l’applicazione
della testa alla bocciarda
stessa. Ciascuna di esse
misura cm 4,2x4,2.
90 BORSA DA LAVORO –
Si tratta di una borsa da
lavoro porta utensili comune
anche ad altre attività.
DATI TECNICI: è realizzata
in cuoio, ha una larghezza di
cm 39,9 e un’altezza
complessiva comprendente
lato anteriore, posteriore e
risvolto di cm 70.
L’impugnatura di cm 15, in
cuoio color terra di Siena, si
fissa sulla parte alta della
borsa mediante due fibbie
FIG. 3. Borsa da lavoro, dono della famiglia
metalliche. La chiusura è
Colozzi
costituita da tre cinghie di
cuoio, di cui quella centrale,
sempre in cuoio ma di colore più chiaro, non è originale. Le tre parti di cinghia con i fori, che
misurano cm 16 le laterali e cm 9 quella centrale, sono fissate all’aletta mediante altrettanti
bulloni. Le rispettive fibbie metalliche, di cm 4,5 la centrale e cm 3 le laterali, sono invece
fissate alla parte infero-anteriore della borsa, permettendone la chiusura.
CASSETTA
SGABELLO
PORTASCALPELLI –
È un elemento della
strumentazione di lavoro
che contraddistingueva i
Rialti dagli altri scalpellini
casentinesi.
Fu introdotta da Egidio,
nato nel 1923, figlio
maggiore di Giuseppe
Rialti, che in gioventù aveva
lavorato a Firenze.
E’ una cassetta di legno a
FIG. 4. Cassetta sgabello portascalpelli, dono
forma di parallelepipedo,
della famiglia Rialti
con una delle sue facce
maggiori aperta per metà
per consentire di riporvi gli attrezzi di lavoro e per essere poi impugnata agevolmente per il
trasporto degli stessi.
Notevole è la sua seconda funzione, quella di sgabello a tre altezze, adattabili alle varie
esigenze di lavoro.Essa divenne l’oggetto-simbolo della famiglia Rialti.
DATI TECNICI: la cassetta misura cm 50,5x29,5x14, è realizzata con assi di legno di
castagno giustapposti senza colla e fissati mediante un gran numero di chiodi nel punto di
intersezione delle facce.
91 CASSETTA DA
LAVORO – E’ una cassetta
realizzata in legno di
castagno; ha la forma di un
parallelepipedo, è aperta
sulla faccia alta e munita di
un manico costituito da
un’asticciola lignea fissata
alla cassetta mediante chiodi
metallici, che divide la parte
superiore esattamente in due
metà.
Le dimensioni sono di cm
34x18x18.
FIG. 5. Cassetta da lavoro, dono della famiglia
L’assemblaggio delle varie
Colozzi
facce è ottenuto mediante
l’incastro dei lati
combacianti preventivamente dentati in maniera alterna in modo da permettere la presa.
È uno strumento che serve per riporvi gli strumenti di lavoro.
CIAMBELLA – Si tratta di
ferri per la ferratura delle
vacche chiamati in Casentino
ciambelle; esse vengono
usate per estrarre la pietra
unitamente ai cunei metallici
dei quali potenziano la
funzione: le ciambelle
svolgono un compito similare
a quello delle alette del cuneo
alettato, volto a ottenere uno
spacco nella pietra più grande
e profondo.
Esse si pongono tra la pietra e
FIG. 6. Ciambelle, dono della famiglia Rialti
i lati larghi del cuneo, sono
ovviamente più larghe del
cuneo stesso, di cui costituiscono una sorta di protesi. Le tre ciambelle in esame hanno una
forma semicircolare che richiama svariati prodotti alimentari da forno di oggi e di ieri,
costituite come sono da un cerchio metallico ripiegato su se stesso e forato in cinque punti per
consentire la ferratura degli animali. Il diametro del cerchio di partenza è di cm 11; il lato
corto della ciambella, nella sua estensione massima è di cm 5. Le tre ciambelle in esame,
dono della famiglia Rialti, hanno pari dimensioni, ma un grado di usura diverso, dato che in una di
esse – come è visibile nella fotografia - un foro si è aperto verso l’esterno.
92 CIAMBELLE – Si tratta di
FIG. 7. Ciambelle, dono della famiglia Colozzi
due ciambelle, dono della
famiglia Colozzi, ognuna
delle quali misura cm
11x4,5. Una di esse non
presenta le tipiche forature
per la ferratura degli
animali, ma solo le impronte
di detti fori, probabilmente
ostruiti dalla ruggine e altro
materiale depositatovisi nel
tempo.
CUNEI – Il cuneo è un
pezzo di metallo o di legno
duro con i lati a forma di V e
quadrato in cima.
USO GENERALE: esso viene
usato per spaccare la pietra. Il
cuneo di legno viene spinto a
martellate entro un taglio
rettangolare fatto nella pietra
e successivamente bagnato
perché con la sua dilatazione
faccia separare la pietra. Il
cuneo di metallo viene posto
in un foro rettangolare
FIG. 8. Cunei, dono della famiglia Colozzi
praticato nella pietra; tra la
La forma più moderna di cuneo è quello alettato, munito cioè di alette semicircolari via via
più spesse verso le estremità. Esse vengono inserite nel foro praticato sulla pietra dove
successivamente viene inserito il cuneo stesso a colpi di mazza. Lungo la linea del taglio ne
vengono posti più di uno.
NOMI: in Casentino viene più frequentemente chiamato cugno.
I quattro cunei in esame dovevano essere molto simili appena forgiati, ma l’uso ne ha
trasformato la forma e le dimensioni, conferendo loro un vago aspetto di funghi variegati.
DATI TECNICI: essi misurano, rispettivamente, il primo cm 12 di lunghezza complessiva, di
cui cm 6 di smussatura che termina col bordo da taglio; la testa ha una circonferenza
irregolare per l’usura il cui diametro è di cm 3. Il secondo cm 13,5 e cm 6,5 di smussatura
sulla punta; il diametro irregolare della testa oscilla tra i 3 e i 4 cm. Il terzo è lungo cm 13, di
cui 3 di smussatura; la circonferenza della testa oscilla tra i 3 e i 4 cm. L’ultimo ha una
lunghezza di cm 13, di cui 5 di smussatura in punta; la testa ha una circonferenza di cm 4 ed
è, come tutte le altre, irregolare per l’usura.
93 MARTELLINA – Si tratta di
uno strumento a percussione
diretta, con due trancianti
perpendicolari
all’immanicatura, piani o
dentellati.
FIG. 9. Martellina, dono della famiglia Colozzi
I trancianti della martellina in esame sono piani; essa
ha un’altezza complessiva di cm 30, di cui 26 dati
dall’immanicatura lignea e i restanti 4 dati dalla parte
metallica, che si restringe a imbuto per incastrarsi nel
legno come mostrato nel disegno b).
a) cm 11x8
le rientranze
misurano cm
1
per ogni
parte
b) la
martellina
vista di lato
MAZZA – Si tratta di un
FIG. 10. Mazza, dono della famiglia Rialti
grosso martello dal manico
lungo usato soprattutto per
lavori di sgrossatura della
pietra, ma anche per
percuotere i cunei e altri
compiti analoghi; essa è
pertanto uno strumento da
cava.
Quella in esame, dono della
famiglia Rialti, ha una
lunghezza complessiva di
cm 42, di cui cm 36 dati
dall’immanicatura lignea
visibile e cm 6 dati dalla
parte nascosta dal metallo. Il
diametro dell’asta è di cm
4,5. La testa – ovvero il
parallelepipedo metallico – è
pressoché quadrata e misura
cm 16x6x5,5.
94 MAZZETTA – Si tratta di
FIG. 11. Mazzetta, dono della famiglia Colozzi
un martello in acciaio dalle
dimensioni più contenute della
mazza esaminata in
precedenza, dalla testa di
metallo (cm 9x3,5x3,5) e dal
manico di legno lungo cm
19,5. Lo stato di
conservazione non è
eccellente, in quanto la testa è
usurata e il manico risulta
spaccato in due parti, come è
rilevabile anche dalla foto.
USO GENERALE: E’ usata
con la subbia per le
lavorazioni più pesanti.
MAZZETTA – Simile in
quanto a funzione a quella
precedentemente esaminata,
ma in uno stato di
conservazione decisamente
migliore, la mazzetta in
esame ha un’asta di cm 26.
La testa, quadrangolare,
misura cm 10x3,5x3,5.
FIG. 12. Mazzetta, dono della famiglia Rialti
95 MAZZUOLO – Si tratta di
un martello
di ferro dolce con pasticca di
rame nei punti d’impatto di
entrambe le estremità della
testa.
NOMI: in Casentino viene
indicato più frequentemente
col nome più popolare di
mazzolo.
USO GENERALE: esso serve
per scalpellare e rendere più
dolce il colpo inferto alla
pietra.
FIG. 13. Mazzuolo, dono della famiglia Colozzi
Il manico è alquanto corto per
permettere l’esecuzione di lavori di precisione. Quello in esame ha un’asta di cm 21 di cui
cm 17 di immanicatura, il cui diametro di cm 3 alla base si assottiglia procedendo verso
l’innesto nella testa. La testa, dall’aspetto di una caramella incartata con svolazzi alle
estremità, è la più plastica tra tutte; è alquanto massiccia e misura cm 9x6x6, con variabili
dovute all’usura. Dopo un uso intensivo si produce un affossamento nel centro della
superficie che colpisce.
MAZZUOLO – Simile a
quello precedentemente
esaminato, ha un’asta di cm
24,5, di cui 19 di impugnatura.
La testa, con pasticche di rame
alle estremità, misura cm
10x5x4,5.
FIG. 14. Mazzuolo, dono della famiglia Rialti
96 MAZZUOLO – Molto
più usurato rispetto ai
precedenti, ha una testa
dalla forma di barilotto,
più che di caramella
incartata e non ha le
pasticche di rame
incorporate. L’asta è lunga
cm 18 di cui 13 di
impugnatura. La testa
misura cm 7x3x3,5.
FIG. 15. Mazzuolo, dono della famiglia Colozzi
METRO A STECCHE –
FIG. 16. Metri a stecche, dono della famiglia
Colozzi
Si tratta di due comuni metri
a stecche di legno di colore
giallo e giallo arancio. Ogni
stecca – in tutto 10 - misura
e permette di misurare cm
10. Le due facce del metro,
dato dalle due parti del
continuum delle stecche
distese, sono complementari,
in quanto la numerazione
sulla seconda faccia parte da
101 cm e arriva fino a due
metri. Lo stato di
conservazione del metro
giallo arancio non è
eccellente, in quanto la
vernice in prossimità delle
giunture è caduta, pur
permettendo ancora la
misurazione. Quello di
colore giallo è in uno stato di
conservazione migliore.
97 METRO A STECCHE –
FIG. 17. Metri a stecche, dono della famiglia
Colozzi
Si tratta di due metri a
stecche di plastica, di colore
giallo; ogni stecca – in tutto
5 - misura e permette di
misurare cm 20. Le due
facce sono uguali, non
complementari come nel
metro precedentemente
esaminato, e riportano le
indicazioni da 0 a 100 cm
ciascuna.
MICCIA E POLVERE
DA MINA – Polvere da
mina e micce erano
comunemente usate per le
operazioni di cavatura; i fori
nella roccia preventivamente
preparati venivano riempiti
di polvere esplosiva e
successivamente incendiati
mediante una miccia.
Il sacchetto di plastica
trasparente contenente la
polvere esplosiva misura cm
14x26. Sul lato anteriore
FIG. 18. Miccia e polvere da mina, dono della
un’etichetta bianca con
famiglia Rialti
scritte rosse porta i disegni
di una figura umana maschile sulla sinistra e il giglio fiorentino sulla destra. La scritta recita:
industria prodotti esplodenti, Società Faini Sesto Fiorentino, Polvere da mina a scaglia tipo
forte kg. 1.
Il sacchetto è stato parzialmente utilizzato e richiuso con una cordicella chiara.
La miccia misura cm 158 e ha una circonferenza di cm 1,5.
98 OCCHIALI DA
LAVORO CON
CUSTODIA – Si tratta di
un paio di occhiali comuni
che, oltre a correggere la
presbiopia di un esponente
della famiglia Rialti,
servivano anche a
proteggere gli occhi dalla
polvere e dalle schegge
prodotte durante la
lavorazione della pietra.
Lo stato di conservazione
non è eccellente, la stabilità
FIG. 19. Occhiali da lavoro, dono della famiglia
della lente destra sulla
Rialti
montatura è assicurata da
vari giri di nastro adesivo
opaco.
Le aste misurano cm 15 ciascuna e la larghezza massima della parte anteriore della montatura
è di cm 14; l’altezza massima è di cm 4,5. Le lenti sono chiare e trasparenti, la montatura è di
color marrone, di un materiale plastico tipo celluloide. La custodia misura cm 8,5x17 e il
risvolto di cm 6 ha una forma stondata.
PASTICCA DI RAME
– Si tratta di una pasticca
discoidale di rame,
dall’aspetto di una moneta,
da apporre – come già
visto – sul mazzuolo per
renderne più dolce
l’impatto sulla pietra.
Il diametro è di cm 3.
FIG. 20. Pasticca di rame, dono della famiglia
Colozzi
99 PIETRE PER
AFFILATURA – Si
tratta di n. 3 pietre usate
per l’affilatura del bordo
da taglio dei vari
strumenti.
FIG. 21. Pietre per affilatura, dono della famiglia
Colozzi
SCALPELLO - Lo
scalpello è il più comune
tra gli strumenti di
rifinitura; è uno strumento
a percussione indiretta,
composto da un’asta con
terminazione a taglio; la
lunghezza si aggira intorno
a 20 cm. La forma della
testa è simile alla subbia o
alla gradina ma spesso il
diametro della barra di
acciaio è più piccolo. Il
bordo da taglio è una piatta
superficie affilata
FIG. 22. Scalpello, dono della famiglia Colozzi
perpendicolare alla linea
dell’asta e può variare in
larghezza da meno di mezzo cm fino ad alcuni cm. Quello in esame è uno scalpello in widia
(materiale la cui denominazione deriva dall’espressione tedesca wie diamant, a indicare la
durezza come il diamante) da usare col martello pneumatico; la testa presenta infatti un
restringimento e non la sporgenza simile a quella dei chiodi atta a essere battuta dal mazzolo;
esso misura cm 13,5; la smussatura che termina col bordo di taglio misura cm 2,5, nella parte
centrale ha forma cilindrica per ulteriori cm 3, mentre è esagonale nella parte volta verso la
testa.
100 SCALPELLO – Lo
scalpello in esame è in
acciaio, ha forma
cilindrica e ha la testa da
martello pneumatico. Esso
è lungo cm 10, di cui 2,5
costituiscono la
smussatura che termina
col bordo di taglio.
FIG. 23. Scalpello, dono della famiglia Rialti
SESTA – Si tratta di uno
strumento fondamentale per
la misurazione della pietra,
utilizzato anche oggi, ma
soprattutto in tempi in cui
gli scalpellini non erano in
grado di leggere i numeri e
lavoravano con un’unica
misura predisposta a priori.
La sesta è costituita da due
aste collegate da uno snodo,
una sorta di compasso a
punte fisse, più spesso di
legno, ma anche di metallo.
FIG. 24. Sesta, dono della famiglia Colozzi
NOMI: Il nome deriva dal
fatto che lo strumento
misura la sesta parte del cerchio tracciato dalla sua apertura, che è come dire che il raggio del
cerchio tracciato con tale strumento è anche il lato dell’esagono inscritto.
In Casentino è ampiamente attestato anche il nome seste, al plurale, forse sulla falsariga di
forbici, anch’esse costituite da due parti simmetriche.
Quella in esame è di metallo, con le aste di lunghezza leggermente diversa (cm 29 e cm 29,5)
e lo snodo del diametro di cm 2.
101 SUBBIA – E’ uno
strumento a percussione
indiretta le cui dimensioni
sono molto variabili da un
esemplare all’altro; si
compone di un’asta con
terminazione a punta, a
sezione conica o piramidale.
Una sorta di scalpello a
punta.
Le tracce lasciate possono
essere costituite da piccoli
punti o da linee parallele
vicine tra loro a seconda
FIG. 25. Subbia, dono della famiglia Colozzi
dell’inclinazione dello
strumento rispetto alla
superficie al momento
dell’impatto sulla pietra.
NOME: dal lat. subula, lesina, da correlarsi con suere cucire. Quella in esame ha una testa atta
a essere colpita dal mazzuolo e un’asta piuttosto particolare, data la presenza di una sorta di
zigrinatura, che farebbe pensare che sia realizzata con materiali di recupero. La lunghezza è di
cm 31,5 di cui la punta a piramide quadrata misura cm. 3.
SUBBIE – Si tratta di n. 3
FIG. 26. Subbie, dono della famiglia Colozzi
subbie donate dalla
famiglia Colozzi, tali da
essere usate col martello
pneumatico. L’asta di
ognuna ha sezione
ottagonale irregolare, con
quattro lati più lunghi e
quattro più corti. La
lunghezza complessiva
delle subbie è di cm 26,5
la prima; cm 25,5 la
seconda; cm 26 la terza.
La punta di ognuna di esse
misura cm 3,5.
102 SUBBIE – Si tratta di n. 4
FIG. 27. Subbie, dono della famiglia Colozzi
subbie, dono della famiglia
Colozzi, il cui stato di
conservazione è migliore
rispetto alle precedenti, in
quanto la punta presenta
un’affilatura più netta.
La seconda dall’alto è da
utilizzarsi col mazzuolo, le
altre col martello
pneumatico. Misurano cm
27, di cui cm 4,5 di punta la
prima; cm22 con punta di
cm 3 la seconda con testa a
chiodo; cm25,5 con punta
di cm 3 la terza; cm 24 con
punta di cm 3la quarta.
La sezione è ottagonale; per
quella con testa a chiodo la
sezione è incerta tra la
ottagonale e la cilindrica.
SUBBIE – Si tratta di n.
6 subbie donate al museo
dalla famiglia Rialti, tutte
con testa a chiodo, da
usare quindi col mazzuolo.
Di esse una misura cm 29
con punta di cm 3, ha
sezione cilindrica e punta
a piramide quadrata.
Un’altra sempre a sezione
cilindrica e con punta a
piramide quadrata, misura
cm 24 con punta di cm 3;
un’altra, a sezione
ottagonale con quattro
FIG. 28. Subbie, dono della famiglia Rialti
facce grandi e quattro
piccole, misura cm 34 con punta di cm 3 a piramide quadrata. Un’altra ancora, a sezione
cilindrica irregolare, ovvero tra il cilindrico e l’ottagonale, misura cm 27,5 con punta di cm 4
a piramide quadrata. Una successiva, a sezione ottagonale con 4 lati grandi e 4 piccoli, misura
cm 34 con punta a piramide quadrata di cm 4. Infine una a sezione ottagonale di cm 28 con
punta di cm 2,5 molto usurata.
103 SUBBIETTO – Si tratta di
uno strumento utilizzato per
spaccare la pietra da inserire
nelle fessure e colpire con la
mazza o la mazzetta. Una
sorta di cuneo appuntito.
NOME: il diminutivo
riguarda solo la lunghezza,
in quanto rispetto alla subbia
è molto più massiccio.
Quelli in esame sono in
numero di tre e misurano cm
8,8 con punta di cm 5 il
primo dall’alto in foto. La
FIG. 29. Subbietti, dono della famiglia Colozzi
circonferenza nel suo punto
massimo è di cm 6, la testa
ha un diametro variabile da cm 2,2 a cm 1,8. Il secondo è lungo cm 16, di cui cm 5,5 dati
dalla punta e cm 8 di circonferenza massima. Il terzo è lungo cm 10 di cui cm 8 di punta. La
testa, molto usurata, ha un diametro che oscilla tra cm 3 e cm 5.
104 Bibliografia e sitografia
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Convegno I Musei in tempo di crisi - Intervento di Mario Turci, Buonconvento 10 e 11
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105 •
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106