POPULAR MUSIC

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POPULAR MUSIC
POPULAR MUSIC
In Italia l'attributo 'popolare' è utilizzato per indicare la musica che negli Stati Uniti è chiamata
'folk music'. La 'popular music', argomento di questo paragrafo, in Italia è stata definita in passato
' musica leggera '; il termine, ormai desueto, è stato sostituto dal generico 'pop', contrazione del
termine 'popular' utilizzato oltreoceano fin dalla metà dell'Ottocento per definire la musica
cosiddetta di consumo. Altra confusione può nascere sul concetto di 'consumo', che nel tempo è
completamente cambiato. Se a metà dell'Ottocento la musica in quanto prodotto di consumo era
legata alla vendita degli spartiti ed alle esecuzioni dal vivo, le innovazioni tecnologiche e gli
esperimenti sui cilindri di cera di fine secolo portarono alla nascita del 78 giri e, all'inizio degli
anni venti del Novecento, al boom della vendita di dischi e di fonografi. Tin Pan Alley (v. più
avanti) si trasformava da quartiere delle case editrici di spartiti ad area in cui agivano le case
discografiche,ma la logica che aveva sottolineato il successo della popular music nell'Ottocento
non cambiava. Da una parte si produceva e si vendeva esclusivamente quello che era
maggiormente richiesto dal grande pubblico, dall'altro si tentava di condizionare ed indirizzare i
gusti del pubblico verso questo o quel genere musicale, questo o quel genere di canzoni. Quasi
contemporaneamente il concetto di consumo si ampliava ulteriormente, con il nascere e
l'affermarsi di un altro potente mezzo di divulgazione e di pubblicizzazione della musica: la radio.
Una popular song, nell'accezione del termine così come era utilizzato nell'America ottocentesca, era
un brano di semplice esecuzione, pensato per uno o più cantanti con accompagnamento di uno
strumento a corda o di piccoli complessi strumentali; nasceva e veniva resa popolare in situazioni di
intrattenimento di carattere 'secolare', principalmente in casa; aveva come obiettivo finale un
guadagno ed una pubblicità per l'autore ottenuti attraverso la vendita di spartiti (sheet music). La
pubblicazione di spartiti scavò un solco tra la popular music e la folk music – la musica rurale, di
tradizione orale. La prima divenne, alla pari della musica classica, appannaggio del mondo
cosiddetto colto, ovvero del musicista in grado di eseguire un brano leggendo uno spartito. La
seconda rimase la musica del mondo contadino non acculturato, degli emarginati, delle classi meno
abbienti. Ma la comunicazione tra i due generi non è mai venuta meno: la circolazione dal mondo
popular al mondo folk, attraverso l'apprendimento orale, ha portato le popular songs nella sfera non
acculturata dove furono sottoposte ad una azione di adattamento dei contenuti e della forma, tanto
da renderle a volte indistinguibili dal repertorio tradizionale. Viceversa, la popular music e la
musica colta attingevano a piene mani dalla tradizione orale del mondo contadino, formalizzandone
le melodie ed adattandone i contenuti. Fino alla metà dell'Ottocento, quando si parlava di popular
music, si voleva intendere soprattutto la parlor music, e la prima deriva direttamente dalla seconda.
La parlor music era un modo di fare musica che prendeva le mosse dal 'salotto' della classe media
dei grandi centri urbani e delle cittadine di provincia. Il repertorio era costituito da brani abbastanza
semplici: era sufficiente avere a disposizione uno strumento musicale – un pianoforte o un
armonium, o anche una chitarra – e un cantante. Si cercava di riprodurre in casa tutto quello che era
possibile ascoltare nelle sale o nei concerti all'aperto, con i caratteri della semplicità e
dell'immediatezza imposti dal dilettantismo degli esecutori. Negli anni Venti e Trenta dell'Ottocento
il repertorio della musica da salotto era costituito soprattutto da musica colta europea e da musica
sacra di compositori americani; con il successo della lirica italiana venivano eseguite anche melodie
riprese da opere di Rossini, Donizetti o Bellini. Sempre presenti brani tratti dalle Irish Melodies di
Thomas Moore, un autore irlandese di stampo classico che ebbe un grande successo riprendendo
melodie tradizionali ed adattandovi propri testi. Completavano il repertori i brani di successo in
Inghilterra e le prime composizioni sentimentali e nostalgiche americane. A volte si inserivano qua
e là brani di carattere religioso, tanto da indurre qualche studioso ad affermare che la parlor music
era un’assoluta mescolanza tra canzoni secolari e musica sacra. Negli anni quaranta e cinquanta le
parlor songs non erano più confinate nei salotti, ma venivano riproposte in concerto da musicisti
professionisti, spesso compositori essi stessi dei brani che eseguivano. Iniziava la transizione verso
la popular music ed in questa fase emersero, tra gli altri, Henry Russell – inglese, ma considerato
dagli americani un New Englander – e la Hutchinson Family. La Hutchinson Family inizialmente
attinse alla musica ed allo stile esecutivo degli inni delle chiese del New England, quindi brani
semplici, ripetitivi, con armonizzazione minima; solo successivamente il gruppo compose canzoni
più elaborate. Dal 1844 i fratelli Hutchinson cominciarono ad usare la popular music per trattare
argomenti di carattere sociale, politico, di attualità. Furono in pratica gli antesignani della canzone
di protesta: appoggiarono la campagna contro l'alcolismo, ma soprattutto sposarono la causa
dell'abolizionismo, partecipando a manifestazioni di piazza sull'argomento e rifiutando di suonare in
sale dove non fossero accettati spettatori di colore. Ma è Stephen Foster – per molti semplicemente
l'autore di "Oh, Susanna!" – ad essere unanimemente considerato il padre della popular music,
soprattutto per essere stato uno dei primi compositori professionisti, se non il primo in assoluto.
Stephen Collins Foster è stato indubbiamente il più noto e popolare compositore di popular music
dell'Ottocento americano. La sua figura è stata spesso sottovalutata e gli sono state rivolte numerose
critiche; è stato associato alla produzione minstrel piuttosto che a quella parlor o popular; è stato
accusato di avere preso fin troppa ispirazione dalla musica secolare e dalla folk music, nonché di
essere troppo superficiale. Una figura comunque di una popolarità molto vasta, così come popolari
sono la maggior parte delle sue composizioni. La sua vena compositiva attingeva alla musica di
tradizione orale ed alla folk music, all'opera italiana, alle Irish Melodies di Thomas Moore ed alla
parlor music di moda all'epoca. Indubbiamente è stato il più conosciuto e popolare autore di canzoni
di tutto l'Ottocento. Anticipando quello che sarà uno dei meccanismi di Tin Pan Alley, Foster
cercava di coinvolgere musicisti e cantanti nella commercializzazione dei propri brani, puntando a
ricavare un utile da questo processo pubblicitario-divulgativo. Non a caso si è trattato del primo
compositore a riuscire a vivere, seppure non nell'agiatezza, dei proventi ricavati dalla vendita dei
propri brani, anche se dimostrò in più di una occasione di non sapere curare i propri affari, non
ricavandone quanto avrebbe potuto ovvero cedendo i diritti delle proprie composizioni per pochi
dollari pur di realizzare subito, salvo pentirsene successivamente. Clamoroso il caso legato a "Old
Folks At Home" (nota anche come "Swanee River"), uno dei suoi brani più famosi. Dapprima
Foster vendette a E.P. Christy (v. più avanti) il diritto di scrivere il proprio nome sugli spartiti,
rinunciando in tal modo alle royalties; successivamente si pentì di quanto concordato. Dopo una
causa lunghissima il nome di Foster apparve finalmente sugli spartiti di "Old Folks At Home" solo
nel 1879, quindici anni dopo la sua morte, e solo allora si seppe finalmente chi era il vero autore di
uno dei più grossi successi commerciali americani. Mentre secondo alcuni critici rimane più di un
dubbio sull'originalità della sua produzione, ci sono solo conferme sul favore con il quale sono state
accolte le sue composizioni in più di un secolo e mezzo. Alcune sono eseguite ancora oggi e
continuano a riscuotere successo: basti pensare a "Oh! Susanna" o a "Camptown Races"; a "Nelly
Bly" o a "Ring, Ring the Banjar"; a "My Old Kentucky Home" oppure a "Old Folks At Home".
Durante gli anni della Guerra Civile la popular music conobbe una fase in cui la produzione si
orientò verso le canzoni dedicate al conflitto, sia che si trattasse di inni, che di brani di contenuto
politico o personale. Subito dopo, per un paio di decenni, si affermarono i cosiddetti melodico
-sentimentali, tra i quali spiccano George Frederick Root ed Henry Clay Work. Si trattò di una fase
di stasi, il dopoguerra lasciò anche nella popular music segni che solo il tempo avrebbe cancellato.
Verso la fine del XIX secolo si verificò una svolta nell'attività editoriale legata agli spartiti musicali,
che divenne una vera e propria industria. In precedenza tale attività era legata soprattutto a case di
edizione a carattere locale sparse sul territorio. A Boston, Chicago, Baltimora, Cincinnati, Filadelfia
ed altre città agivano editori interessati a sfruttare commercialmente il successo dei brani più diffusi
della popular music. Ma l'esplodere del fenomeno è legato all'assurgere di New York, a partire dal
1881, a centro più importante dell'editoria musicale. La data non è casuale. In quell'anno nacque
nella città la T.B. Harms, fondata dai fratelli Alex e Tom Harms. A ritmo serrato, nuove case di
edizioni musicali aprirono i loro uffici a New York: inizialmente nella zona di Union Square, poi
lungo un breve tratto della 28th Street West, fra Broadway e la Sixth Avenue. Nacque così Tin Pan
Alley. Un 'vicolo padella di latta', traduzione letterale di Tin Pan Alley, a New York non esiste,
nonostante quello che è stato riportato da giornalisti disinformati. Il soprannome fu coniato da un
paroliere, nonché giornalista, una personalità molto nota in città, Monroe H. Rosenfeld, al quale il
New York Herald aveva commissionato una ricerca sul fenomeno del successo dell'editoria
musicale. Passando dalla parte più angusta della 28a strada, fu colpito dal frastuono proveniente
dalle finestre degli uffici degli editori, prodotto da decine di pianoforti; il suono era reso ancora più
fastidioso dall'espediente di inserire strisce di carta di giornale tra le corde per attenuarlo. L'effetto,
interpretato da Rosenfeld come quello di tanti tegami di latta percossi contemporaneamente, lo
portò a coniare 'Tin Pan Alley'. Tale termine da allora identificò gli edifici, gli uffici, le stanze, nei
quali compositori, arrangiatori e compagnie di edizioni musicali concentrarono i loro affari; diventò
cioè sinonimo dell'industria musicale popular, quando non della popular music stessa. Ma
l'emergere dell'industria di Tin Pan Alley è legata anche all'affermarsi degli spettacoli di vaudeville.
Nonostante la struttura ricalcasse quella del minstrel show, vale a dire musica, danza, scenette,
imitazioni, il vaudeville era molto più vario ed articolato, ed era caratterizzato dal susseguirsi sul
palco dei vari partecipanti, compreso un cantante solista. Questa pratica si discostava da quella della
classica compagnia minstrel, con i componenti la compagnia sempre presenti sul palco a partecipare
in modo più o meno attivo alle performances dei singoli. Prima del successo di Tin Pan Alley gli
editori musicali si limitavano a sfruttare la popolarità dei brani di maggiore successo del minstrel
show o dei circhi itineranti, proponendone gli spartiti per pianoforte. La loro richiesta però era
limitata dalla scarsa diffusione dello strumento e crebbe solo con la maggiore diffusione del
pianoforte nei salotti delle famiglie bene, conseguenza della produzione di strumenti più economici.
Aumentò così anche il numero di editori: Shapiro, Bernstein, Marks, Stern, Witmark Brothers, per
la maggior parte ex commercianti ebrei di prima o seconda generazione. L'industria editoriale di Tin
Pan Alley cominciò a seguire una bieca logica di mercato, adottando quei meccanismi che
dovevano far cadere il controllo della produzione musicale nelle mani degli editori. Non esisteva
più un successo a livello nazionale che non passasse per Tin Pan Alley. Era evidente che per potere
vendere gli spartiti di un brano era necessario che questo venisse eseguito il più possibile in
pubblico. Su questo punto venne in aiuto l'espandersi del vaudeville. Occorreva dunque convincerei
cantanti ad inserire nel proprio repertorio i brani proposti dall'editore, ed i metodi di persuasione
non erano occulti, tantomeno elaborati: bastava ricompensarli con cibo, liquori, sigari, quando non
addirittura con l'offerta di pagare loro l'affitto o, addirittura (!), concedere loro una percentuale sulle
vendite. A New York, nelle strade della zona di Tin Pan Alley, stazionavano impiegati delle case
editrici che avevano il compito di agganciare i cantanti e portarli negli uffici dove, in salotti bene
arredati, accoglienti, e forniti di pianoforte e pianisti, potevano essere proposti i brani da 'piazzare'.
Il legame diretto che si instaurava con i cantanti ai quali proponevano e facevano eseguire i propri
brani, consentiva agli editori di avere un quadro preciso ed aggiornato dei gusti e delle inclinazioni
del pubblico. La produzione veniva indirizzata di conseguenza: i compositori dovevano uniformarsi
alle indicazioni degli editori, ai gusti del pubblico ed alla produzione musicale corrente, pronti però
ad eseguire improvvisi cambiamenti di rotta, dettati dall'esigenza di non trascurare nuovi e non
prevedibili fenomeni di massa. Un esempio: per Tin Pan Alley fu determinante il successo del
ragtime nell'ultimo decennio del secolo. Abbandonata la produzione di canzoni sentimentali,
l'industria editoriale si adeguò, pubblicando musica sincopata; ed il passaggio all'ibrido rivisto e
corretto derivante dalla fusione di elementi ragtime con elementi delle coon songs fornisce un'idea
degli intenti esclusivamente commerciali di Tin Pan Alley e chiarisce quale possa essere stato il suo
ruolo nel panorama musicale americano durante la fase di transizione dall'Ottocento al Novecento.
Le formule musicali ed i testi, nei primi decenni di vita di Tin Pan Alley, non erano forse
eccessivamente standardizzati, ma la struttura era abbastanza universale: una successione di strofe
intercalate da un chorus che si ripeteva sempre uguale tra una strofa e l'altra. Nell'opinione del
pubblico i brani erano associati all'autore della musica più che a quello dei testi, mentre in genere è
proprio il testo alla base del successo di una canzone. La popular music conobbe un nuovo rilancio
ed anni d'oro quando, sulla scia del vaudeville si affermò, a livello internazionale, il Musical
americano.
DAL MINSTREL SHOW AL VAUDEVILLE, AL MUSICALGLI ANNI D'ORO DI TIN PAN
ALLEY
All'inizio del ‘900 si affermano prima il vaudeville, poi la musical comedy, la commedia musicale,
– sinteticamente 'musical' – uno spettacolo tipicamente americano che troverà imitatori in tutto il
mondo. Anche in questo caso si può seguire un percorso lineare che attraversa tutta l'America
dell'800 e della prima metà del Novecento e che ha le sue radici nel minstrel show. Il minstrel show
ottocentesco era uno spettacolo di improvvisazione teatrale su canovacci tradizionali, una specie di
varietà, con caricature, imitazioni, satire, musica, danza. Alla base dello spettacolo c'era la
rappresentazione dell'afroamericano e del suo ambiente visti dai bianchi. Il difetto era che chi
rappresentava queste realtà lo faceva senza conoscerle realmente. Il risultato fu che i minstrels,
bianchi con il volto annerito con sughero bruciato, descrivevano gli afroamericani come
chiacchieroni, presuntuosi, disonesti, pigri, bugiardi ed indirizzavano loro epiteti offensivi (nigger,
buck, coon). Le cose non andavano meglio sul fronte musicale: l'idioma musicale dei minstrels era
più vicino alla ballata inglese, alla marcia ed all'inno, che alla musica nera. Queste deformazioni
erano prodotte dalla scarsa conoscenza del nero del Sud, ma soprattutto dal disinteresse verso
l'autentica cultura degli afroamericani. Lo show era un'occasione per guadagnare e non erano certo
il rigore e l'autenticità folklorica i problemi principali che si ponevano i black face entertainers. La
preferenza, da parte del pubblico, verso spettacoli che alternassero tragedie, farse, canzoni e danze,
accrebbe le possibilità di lavoro dei blackfaces. Inizialmente i loro interventi erano semplici pieces
teatrali; a partire dagli anni Trenta alcuni di questi entertainers cominciarono ad utilizzare il banjo
per accompagnare le loro esibizioni. L'associazione tra l'afroamericano ed il banjo divenne a questo
punto un dato di fatto nella cultura americana, anche se diffuse immagini distorte. È stato proprio
attraverso gli spettacoli dei negro entertainer se l'iconografia ottocentesca sulla vita degli schiavi
afroamericani che si è composta, nell'immaginario dell'americano bianco, una figura falsa e senza
fondamenti storici; immagine che si impose sia negli Stati Uniti che in Europa. Il minstrel show
divenne un modo per affrontare e discutere –dietro la maschera di sughero bruciato – temi che il
perbenismo dei borghesi bianchi tendeva ad eludere, quali sesso e violenza, razzismo e critica
sociale. Questi elementi contribuirono a rendere popolare lo spettacolo e convinsero P.T. Barnum –
il famoso impresario statunitense inventore del circo itinerante – a diventare uno dei suoi mecenati.
Ma tale interpretazione in termini progressisti e liberatori può avere avuto un senso agli inizi
dell'attività dei black face entertainers, quando i primi attori che in America diedero vita a questo
tipo di rappresentazione avevano atteggiamenti meno derisori e meno discriminatori;
successivamente lo spettacolo rischiò di acquisire un carattere dichiaratamente razzista. Nei primi
anni del minstrel show cominciarono ad essere pubblicati gli spartiti dei brani eseguiti sul palco, il
che contribuì ad estendere il loro successo: "Long Tail Blue", "Zip Coon", "Jim Crow" i più noti e
George Washington Dixon, Thomas Dartmouth 'Daddy' Rice e Joel Walker Sweeney i personaggi
principali dello Show prima dell'avvento di Dan Emmett. Il febbraio del 1843 è considerata la data
di nascita ufficiale del minstrel show: uno spettacolo di ampio respiro, con la presenza sul palco di
un gruppo di quattro elementi, musicisti ed intrattenitori in black face, per una performance basata
soprattutto sull'aspetto musicale, ma che prevedeva anche danze, battute, sketch, imitazioni. Si
trattava di Dan Emmett e il suo gruppo (Billy Whitlock, Dick Pelham e Frank Brower), vale a dire i
Virginia Minstrels. Il loro spettacolo prevedeva un set musicale nel quale, come quartetto – banjo,
violino, tamburello e bones (ossa)–, suonavano e cantavano brani ripresi dal repertorio popular
dell'epoca o scritti appositamente per lo Show. C'erano poi discorsi nel solito finto dialetto degli
schiavi e scenette comiche, sempre centrati sul personaggio del nero sempliciotto messo alla berlina
attraverso situazioni inverosimili, lontane comunque dalla realtà della vita nelle piantagioni.
Se si volesse avere un'idea del sound prodotto, c’è chi ha concluso che l'unico riferimento possibile
sono le band di Old Time Music appalachiana degli anni Venti. Attraverso gli spettacoli e di circhi
itineranti, infatti, il minstrel show penetrò nell'area dei Southern Appalachians dove, a partire dagli
ultimi decenni dell'Ottocento, si affermarono gli insiemi strumentali – banjo più fiddle, ma niente
percussioni – ed il repertorio tipici dello Show. Negli anni Quaranta anche la danza divenne una
componente rilevante del minstrel show. Si trattava di esibizione individuali nelle quali il ritmo
veniva sottolineato dal battito dei piedi. In seguito cominciarono ad essere utilizzati gli zoccoli, con
i quali erano eseguiti degli heels solos come breaks tra i brani; infine i danzatori cominciarono ad
usare tutte le parti del corpo, assumendo contemporaneamente posizioni che scatenassero gli
applausi o le risate del pubblico. Dopo il successo dei Virginia Minstrels la popolarità di Dan
Emmett crebbe enormemente ed i suoi brani cominciarono a circolare. Emmett fu un compositore
prolifico. La sua attività come autore di negro songs (un termine decisamente improprio per
indicare le canzoni scritte per lo show) cominciò nel 1938; tra il1840 ed il '41 imparò a suonare
banjo e fiddle e cominciò ad esibirsi, in black face, nei circhi. Da allora le sue composizioni non si
contano: i suoi brani più popolari hanno avuto un successo duraturo, alcuni fanno parte ancora oggi
del repertorio dei banjoisti, altri hanno avuto un rilancio all'epoca del folk revival, negli anni
Sessanta del Novecento. Ma la sua popolarità è legata soprattutto a "Dixie" (titolo completo: "I
Wish I Was In Dixie's Land"),un termine che già all'epoca circolava come sinonimo di 'Sud'; il
brano finì per divenire l'inno dei Confederati. Un altro personaggio centrale nella storia del minstrel
show è stato E.P. (Edwin Pearce) Christy, che standardizzò la struttura dello show in due parti, con
tutti i partecipanti presenti sul palco e disposti a semicerchio. Sketch e brani musicali, a volte
l'esibizione di un danzatore, costituivano la prima parte dello spettacolo. La seconda parte, definita
'Olio' [letteralmente: miscellanea, miscuglio], era dedicata alle esibizioni dei singoli partecipanti,
che facevano sfoggio delle proprie capacità: un numero comico, una danza, esecuzioni strumentali
virtuosistiche. In pratica una esibizione strutturata che precorrerà il vaudeville, la rivista ed il
musical. La convinzione di impresari e organizzatori locali che il futuro dello spettacolo fosse nella
realizzazione di proposte sempre più vaste e mastodontiche portò al declino dello show. Dal 1880
l'atteggiamento del pubblico cambiò: lo show era considerato uno spettacolo minore e la sua
popolarità venne superata, verso la fine del secolo, da quella del vaudeville. Questo termine, usato
spesso in alternativa a 'varietà', indicava un tipo di spettacolo che ricalcava la struttura della seconda
parte dello show, in cui ogni artista si esibiva individualmente, mettendo in evidenza la propria
'specialità', che poteva essere il canto, la danza, la recitazione ovvero le imitazioni. Il personaggio
che più di ogni altro contribuì all'affermarsi del vaudeville fu Tony Pastor. Dopo aver cominciato la
sua attività lavorando nei circhi e come blackface minstrel (suonava il tambourine e cantava
accompagnandosi con il banjo), nel 1865 aprì a New York, a Bowery, il Tony Pastor's Opera House,
che divenne quasi subito il centro più importante in città per gli spettacoli di varietà. Nel 1881, dopo
che Pastor ebbe aperto un altro teatro a New York, la moda del vaudeville e del variety house si
diffuse in tutti gli Stati Uniti, facendo diventare tale spettacolo la fonte principale per ascoltare e per
pubblicizzare la popular music. E proprio al vaudeville ed alle variety houses, con l'emergente ed
appetibile (per l'editoria musicale) figura del cantante solista, è legata la storia dei primi due
decenni di storia di Tin Pan Alley. Agli inizi del 900 si hanno le prime rappresentazioni di quello
che diventerà il musical (ovvero musical comedy, commedia musicale), grazie a George Cohan ed
alla sua concezione del teatro come insieme di recitazione, danza e canto. Non è un caso che suo
padre avesse lavorato sia nel minstrel show che nel vaudeville, coinvolgendo George e gli altri
membri della famiglia. L'attività di George Cohan a Broadway fu intensa a partire dal primo
decennio del 900 e continuò fino a tutti gli anni Trenta come autore di spettacoli teatrali, interprete e
regista: quaranta i lavori da lui composti per il teatro. La storia ed i personaggi del musical si
sovrappongono alla storia di Tin Pan Alley, in particolare negli anni tra le due guerre. Brani
musicali di autori popular venivano utilizzati nel teatro musicale, brani composti per il musical
diventavano automaticamente dei successi popular. E negli anni d'oro di Tin Pan Alley, tra le due
guerre, autori esecutori ed impresari avevano una stessa provenienza etnica: erano ebrei. Fin dai
primi anni della nascita della nazione americana gli ebrei erano arrivati numerosi, in particolare
dall'Inghilterra e dalla Germania, e si erano stabiliti un po' dappertutto, dedicandosi al commercio
ed agli affari. Visti gli ambiti di interesse, si insediarono soprattutto nelle città: New York contava
nel 1880 un nucleo di 80.000 ebrei. Abbiamo già visto come gli editori che portarono alla nascita di
Tin Pan Alley – Shapiro, Bernstein, Marks, Stern, Witmark Brothers– fossero tutti ebrei, in genere
commercianti che avevano intuito l'occasione di arricchirsi sfruttando il filone dell'editoria
musicale. La comunità jewish di New York crebbe decisamente dopo l'assassinio, in Russia, dello
zar Alessandro II, nel 1881, che ebbe come conseguenza una crescita dell'oppressione che
storicamente gli ebrei subivano in quel paese. Diversi milioni si riversarono negli Stati Uniti, al
punto che intorno al 1910 nella sola New York erano più di un milione. Determinati, pieni di
iniziativa, intelligenti e con capacità sperimentate per secoli nell'Europa dell'Est, finirono per
condizionare se non monopolizzare settori come il cinema, il teatro, il circuito dei vaudeville.
Questo periodo è perfettamente rappresentato dalla figura di Irving Berlin. Le sue canzoni coprono
tutti i filoni dell'era d'oro di Tin Pan Alley e molte di esse sono eseguite ancora oggi. A soli 23 anni,
componendo "Alexander's Ragtime Band" – che, fra parentesi, non aveva musicalmente nulla del
ragtime! – emerse alla notorietà, segnando solo il primo di una serie incredibile di successi. Ma, al
di là dell'etichetta di ragtime o jazz applicato alle sue composizioni, Berlin stabilì lo standard della
ballad, una canzone introspettiva e dal ritmo moderato, che avrebbe dominato la scena ed avrebbe
costituito il modello per tutta la produzione musicale tra le due guerre. La formula elaborata da
Berlin sembrava andare esattamente incontro alle esigenze del pubblico e solo l'esaurimento della
vena compositiva o il cambiamento dei gusti del pubblico avrebbero potuto limitarne il successo.
Forse proprio l'assoluta continuità dello stile musicale di Tin Pan Alley per quasi tre decenni ha
costituito la sua caratteristica più sorprendente. Al termine degli anni venti nasceva una nuova
forma di spettacolo che si andava ad affiancare al musical: il film musicale, che avrebbe costituito
un potente mezzo di diffusione della produzione musicale di Tin Pan Alley. I più famosi
compositori di popular music, di canzoni per musical e per il cinema di quell'epoca sono nomi
ancora oggi apprezzati e le loro composizioni eseguite i diversi ambiti. Basti citare Jerome Kern
(“Smoke Gets In Your Eyes”, “All the Things You Are”), George Gershwin (“Summertime”,
“Nobody But You”, “The Man I Love”, “Embraceable You”, “I Got Rhythm”), Richard Rodgers
(“It's Easy to Remember”, “Blue Moon”), Harold Arlen (“It's Only a Paper Moon”), Cole Porter
(“What Is This Thing Called Love?”, “Night and Day”, “Begin the Beguine”, “Just One of Those
Things”).
George Gershwin è stato il primo compositore americano che riuscì a svincolarsi dai modelli
europei, creando una musica autonoma, in equilibrio tra musica d'arte, musica popolare e jazz. In
Porgy and Bess, pur basandosi su moduli operistici europei, egli cercò di cogliere aspetti musicali e
di costume del proletariato nero del Sud, basandosi su uno studio ben documentato degli spirituals.
Alcune sue composizioni hanno riscosso e riscuotono ancora oggi grande successo nell'ambito della
pop music. Un'altra caratteristica del decennio d'oro di Tin Pan Alley fu la completa
specializzazione dei ruoli: a parte Berlin e Porter –autori di testo e musica– tutti gli altri o erano
compositori o scrivevano i versi, mentre gli interpreti si limitavano ad eseguire i brani scritti dai
professionisti. Ma anche i fruitori di questa musica erano in un certo senso specializzati: si trattava
della middle e upper class bianca urbana. La popolazione rurale, sia quella dei Southern
Appalachians che quella sparsa nella parte meridionale del Midwest, continuava a rivolgersi alla
propria musica di tradizione orale che il boom discografico degli anni venti rivitalizzò e diffuse a
livello nazionale.
DALLA BRASS BAND AL JAZZ
Gli ultimi due decenni dell'Ottocento furono caratterizzati musicalmente, in America, dalla moda
dilagante delle bande musicali, eredi di quelle brass bands che avevano sottolineato musicalmente la
parte centrale del secolo, prima come forma di intrattenimento, poi accompagnando in guerra le
truppe nordiste e sudiste. I componenti di queste bande, una volta rientrati alla loro vita civile,
avevano continuato a suonare ed a tenere in vita la musica da banda, divenuta in breve un piacevole
passatempo e un’occasione per socializzare anche nelle più isolata provincia americana. Mentre
cresceva il numero delle bande, le tecniche costruttive degli strumenti miglioravano ulteriormente.
Le bande della fine del secolo risultavano ben diverse da quelle di alcuni decenni prima; con il
dilagare delle marching bands, poi, furono privilegiati aspetti spettacolari, coreografici e di
divertimento rispetto a quelli puramente musicali. L'età d'oro delle marching bands in America è il
periodo che va dal 1880 al 1910. La popolarità della band di Patrick Gilmore fece esplodere la
moda in tutti gli Stati Uniti; il successivo affermarsi delle bands di John Philip Sousa e di T.P.
Brooke aprì un'era. Se fino alla Guerra Civile erano in attività soprattutto bande militari,
successivamente cominciarono a nascere bande civili in ogni cittadina americana. Gruppi musicali
che percorrevano le strade delle cittadine americane suonando erano di moda già da alcuni decenni,
ed erano le bande dei circhi itineranti. La moda dilagò, le street parades si andarono trasformando in
veri e propri spettacoli e le bande cittadine di fine secolo ripresero il gusto per l'abbigliamento
sgargiante e chiassoso di quelle del circo. Le street parades divennero una delle tradizioni musicali
più spiccatamente americane, e anche le più modeste marching bands locali avevano modo di
esibirsi con grande soddisfazione dei loro stessi componenti, oltre che degli ascoltatori. Le bande
cittadine erano formate in genere da musicisti dilettanti, a volte con precedenti nelle bande militari:
ma l'importante non era tanto la qualità individuale quanto il sound complessivo. Molto spesso i
componenti erano attratti soltanto dall'idea di suonare in una banda e di sfilare per le vie cittadine,
possibilmente con una divisa sgargiante. Mentre città anche grandi non potevano permettersi
un’orchestra sinfonica, anche i paesi più piccoli avevano una brass band e un palco nella piazza
principale, ovvero un gazebo nel parco pubblico, per consentire le esibizioni della banda stessa. Le
occasioni non mancavano di certo: le brass band suonavano nei circhi, per il Carnevale, nei minstrel
e medicine show, durante le campagne politiche, nelle chiese, durante i picnic, per le danze, durante
le gare di atletica, per festività di qualsiasi genere. Patrick Sarsfield Gilmore fu l'incontrastato re
della musica da banda in America fino all'anno della sua morte, sopraggiunta nel 1892. La figura di
John Philip Sousa (1854-1932) è più controversa, anche se il suo successo, posteriore a quello di
Gilmore, si è allargato a livello internazionale. La sua banda aveva raggiunto una qualità di livello
concertistico e, intorno alla fine dell'Ottocento, Sousa era divenuto il musicista più popolare del
paese. Oltre ad essere stato il più geniale compositore ed esecutore di marce, ebbe un ruolo centrale
nella storia della musica americana in senso lato, al di là delle critiche che gli furono rivolte
soprattutto dagli ambienti colti europei. Tra le altre cose, eseguì anche del ragtime, la musica
sincopata degli afroamericani di moda all'epoca e fu tra i primi a farla conoscere in Europa, anche
se le sue interpretazioni fecero storcere il naso ai puristi. Nel 1892, – l'anno della morte di Gilmore
– Sousa, che era già noto come ‘The March King’ negli Stati Uniti ed in Europa, lasciò la banda
della Marina per metterne in piedi una propria. Da allora, per circa venti anni girò il mondo con un
repertorio in cui la parte più apprezzata continuava ad essere costituita da quelle marce per le quali
era diventato giustamente famoso. La teoria più condivisa è che il jazz sia nato dall'incontro delle
brass bands e dei loro strumenti con la musica afroamericana, attraverso le street marching bands
dei neri e dei creoli di New Orleans. Che poi queste ultime facessero veramente del jazz o fossero
semplicemente bande come ce n'erano in tutte le cittadine americane è una domanda alla quale non
è semplice dare una risposta. La difficoltà principale nell'affrontare le origini del jazz a New
Orleans è quella che, oltre a non esistere ovviamente materiale sonoro, non c’è traccia neanche di
spartiti dai quali desumere, se non i caratteri più specifici della musica eseguita dalle street bands
nere, perlomeno il tipo di repertorio, gli arrangiamenti, i tempi con i quali veniva eseguita la
musica. Gli unici elementi sono le dichiarazioni di anziani musicisti, intervistati peraltro diversi
decenni dopo, e le conclusioni dei musicologi. New Orleans fu, nel corso di tutto l'Ottocento, uno
dei centri musicalmente più attivi, tanto da provocare sorpresa nei visitatori per la quantità di eventi
proposti. New Orleans era multietnica: spagnoli, anglosassoni, cittadini francofoni e cajuns delle
paludi, creoli nativi o provenienti dalle isole caraibiche e afro-americani schiavi o liberi. Ed è
principalmente ai creoli e agli afroamericani che è legata la storia delle marching bandsdi pre-jazz.
Sembra che tutte le occasioni fossero buone per dare vita ad una parade: già nel 1814, negli anni
della guerra con gli inglesi, numerose bande sfilavano per le vie della città, prendendo spunto da
qualsiasi episodio bellico. Le brass bands anticiparono a New Orleans la moda che sarebbe esplosa
alla metà del secolo in tutti gli Stati dell'Unione. Le bande potevano suonare in concerto, oppure per
accompagnare danze, nei teatri o all'aperto nei parchi, o potevano marciare suonando in occasione
dell'anniversario della nascita di Washington così come per festeggiare il "Fourth of July" (il 4
luglio, festa dell'Indipendenza americana), per sottolineare le campagne elettorali o per la ricorrenza
di battaglie più o meno famose, per una festività o per la visita in città di una personalità, per
cerimonie speciali come per semplici matrimoni. E si marciava suonando anche in occasione dei
funerali. Fin dai primi resoconti sui costumi degli schiavi era stato sottolineato come il canto e la
danza fossero presenti in quasi tutte le manifestazioni collettive, religiose o sociali, non esclusi i
funerali, e i commenti andavano dalla sorpresa alla condanna. Probabilmente chi assistette a queste
cerimonie non colse il significato culturale e religioso, limitandosi a considerarle, in modo
superficiale, ‘divertenti’ o ‘sacrileghe’. Non erano solo i neri a celebrare in musica i funerali: ci
sono diverse testimonianze che riferiscono di processioni a New Orleans per i funerali di bianchi o
di creoli seguite da una banda musicale. I documenti sull'argomento non consentono di interpretare
questo tipo di manifestazione come una sopravvivenza, in America, di costumi africani. Il 'pre-jazz'
di fine Ottocento si andò modellando tra i neri dei ceti inferiori e tra i creoli di New Orleans. Questi
ultimi, figli di aristocratici francesi e concubine nere, contribuirono con elementi della musica
francese. Basti pensare alle tecniche, soprattutto sugli strumenti ad ancia, ed al tipo di repertorio:
marce, quadriglie, valzer. Molti tra i musicisti del primo jazz erano creoli: il clarinettista Sidney
Bechet, che nella parte finale della sua carriera si stabilì in Francia, creando uno stile di successo
ma meno autentico; il banjoista e chitarrista Johnny St. Cyr, che partecipò a tutte le leggendarie
sedute di registrazione degli Hot Five e Hot Seven di Louis Armstrong; Barney Bigard, dalla
carriera lunghissima, il clarinettista più apprezzato da molti critici; e poi ancora il clarinettista
Alphonse Picou, esponente tipico della scuola creola, e il violinista Armand Piron, che fondò
l'orchestra più rappresentativa dello stile creolo di New Orleans. Nell'ultimo decennio del secolo
forme di pre-jazz si andavano sviluppando anche in altre città americane: fra tutte St. Louis, dove
prese forma uno stile perfettamente riconoscibile, identificato come uno degli elementi che daranno
vita al jazz del Novecento: il ragtime, un genere autonomo, con caratteristiche musicali specifiche.
Il termine ragtime fu usato per la prima volta soltanto nel 1897 da un compositore newyorchese,
Kerry Mills. In inglese 'to rag' vuole dire stracciare, e con ragtime si vuole intendere il suonare un
brano con un tempo spezzato, sincopato. Una buona definizione è quella per cui "una melodia
fortemente sincopata si sovrappone ad un accompagnamento rigorosamente regolare". Anche se tale
musica verrà ripresa più tardi dalle bande di strumenti a fiato, la sua nascita è legata ai pianisti delle
barrel-houses delle città del Sud dell'ultima parte del secolo. Musica pianistica neI ragtime
coinvolse anche i banjoisti di fine secolo, tra cui il nero Vance Lowry ed i bianchi Sylvester Vess
Ossman e Fred Van Eps. Questi ultimi incisero, tra il 1896 ed il 1897, alcuni cilindri di cera. I
pianisti neri, inventori di questo genere musicale, furono invece praticamente esclusi dalle prime
incisioni discografiche e solo alcuni di essi, tra i quali Scott Joplin, riuscirono ad affidare ai rulli
perforati alcune delle loro composizioni, lasciando una parziale documentazione di un'epoca. Nella
prima parte del Novecento la musica afroamericana comincia a differenziarsi. Il blues del Delta–
che vedrà una evoluzione moderna nel blues di Chicago – comincerà ad influenzare tutti gli ambiti
musicali. A New Orleans nasce il jazz classico, versione finale dai connotati afroamericani e creoli
di quella che nell'Ottocento era statala moda delle brass bands – musica da banda dei bianchi. Su
una sezione armonico-ritmica (pianoforte, batteria, banjo) si intrecciavano le linee melodicoarmonico dei tre fiati: clarinetto, tromba e trombone. Il repertorio comprendeva sia brani ritmati ed
allegri che composizioni lente e suggestive, ma ovunque era presente il blues, ovvero quelle 'note
blue' che contraddistinguono tutta la musica afroamericana. Da New Orleans verso gli anni venti –
complice la fine dell'era dei bordelli, le case chiuse – il jazz si sposta verso le città del Nord, New
York e Chicago in primo piano. Si cominciano a differenziare scuole e stili ed il jazz comincia a
passare anche nelle mani dei bianchi (i Chicagoans). Negli anni trenta esplode la moda dello swing
e nascono le prime big bands, formazioni allargate che avevano soprattutto la funzione di suonare
musica da ballo. Duke Ellington, Count Basie, Benny Goodman sono solo alcuni dei nomi di
direttori d'orchestra che hanno fatto epoca. Nel secondo dopoguerra il jazz poteva rischiare di
cristallizzarsi e diventare una musica del passato. Fortunatamente a New York, in particolare nel
Minton's Playhouse di Harlem, ma più in generale nei locali della 52nd Street, si incontrarono
musicisti con idee innovative e fu all'interno di questo gruppo che nacque il bebop. C'erano
Thelonious Monk e Coleman Hawkins, Charlie Christian, Mary Lou Williams e "Bud" Powell, Roy
Eldridge e Lester Young, ma soprattutto Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Non è un mistero che le
elaborate strutture e variazioni armoniche create da Dizzy e Charlie tendessero a dissuadere i
musicisti meno dotati dal partecipare alle sessions, selezionando solo i migliori; ma alla base c'era
la voglia di creare qualcosa di nuovo, lontano dallo stile ormai sclerotizzato delle big bands. Questo
significò per i boppers, e non solo nei primi tempi, l'emarginazione. Fino agli anni sessanta, quando
le rivolte studentesche prima e le rivendicazioni degli afroamericani poi avrebbero contribuito a
scuotere le basi consolidate di tutte le musiche, la fece da padrone il cool jazz, il jazz 'rilassato' (non
'freddo'!), dalle sonorità morbide e dalle rigide partiture, elaborato da jazzisti bianchi come Lee
Konitz, Jerry Mulligan e John Lewis. Poi, la storia del jazz diventa attuale. Dopo una fase nella
quale si riproducevano settorialmente gli stili più accreditati – il jazz classico di New Orleans, lo
swing, il bebop ed il cool, – negli anni settanta il panorama di questa musica viene attraversato dal
free jazz, una parentesi dal carattere provocatorio, figlia degli anni della contestazione. Negli ultimi
decenni del Novecento si è imposta una musica risultato della contaminazione del jazz con la
musica rock, alla quale sono state affibbiate via via etichette diverse: jazz-rock, electric jazz, fusion.
Si è trattato del risultato della sperimentazione di alcuni jazzisti, tra i quali fanno spicco il
caposcuola Miles Davis, trombettista, autore di quella pietra miliare che è stato il disco Bitches
Brew; i Weather Report, il gruppo che forse meglio ha interpretato questa fusione; e, più tardi, il
chitarrista Pat Metheny. Pur mantenendo caratteristiche del linguaggio del jazz, questa musica ha
ripreso dal rock parte della strumentazione, poi le amplificazioni spinte, l'uso di effetti elettronici, e
la ritmica – batteria e basso elettrico – molto presente.
Nell'ultima parte del Novecento e all'inizio del nuovo secolo anche i jazzisti, condizionati dal
montare del fenomeno world music, cominciano a contaminare in questo senso la loro musica. Si
tratta di un filone che aveva avuto un’avanguardia importante, lontana dalle mode, con i gruppi di
John McLaughlin: Shakti e la Mahavishnu Orchestra. Oggi la contaminazione imperversa e jazzisti
di nome collaborano con percussionisti persiani, suonatori di oud marocchini o di sitar indiani,
flautisti egiziani.
UNA MISCELA ESPLOSIVA: IL ROCK'N'ROLL
ll rock'n'roll è nato alla metà del ‘900, e lo si potrebbe definire il risultato di una miscela esplosiva:
riff dei pianisti di boogie afroa-mericani mescolati a repertori e strumentazioni caratteristici del
country & western in auge a Nashville e nel Sud-Ovest, e del rhythm'n'blues di Chicago (tutti generi
di cui si è parlato diffusamente nella prima parte di questo articolo, pubblicata sul numero di luglio).
La Depressione del 1929 aveva avuto effetti negativi su tutto il mondo musicale: crollo delle
vendite dei dischi, diminuzione dell’attività degli spettacoli itineranti, restrizione delle opportunità
di vivere di musica ad un ristretto numero di professionisti. Questi ultimi, soprattutto i pianisti,
lasciarono i circuiti meno rispettabili e si concentrarono nelle città. Furono proprio i pianisti neri
urbani ad inserire elementi di novità nel blues: nasceva il boogie. Clarence 'Pinetop' Smith nel 1928
aveva pubblicato un disco con un brano, “Pinetop’s Boogie-Woogie”, nel quale era utilizzato per la
prima volta questo termine per indicare uno schema di basso – eseguito con la mano sinistra – che
era molto in voga tra i pianisti blues della seconda generazione, come Leroy Carr e Georgia Tom. Il
boogie venne presto abbandonato, per tornare di moda alla fine degli anni trenta, ripreso dai gruppi
di afroamericani che si esibivano nelle taverne e nelle sale da ballo frequentate dai neri. A Chicago,
negli anni della seconda guerra mondiale, cominciò ad essere eseguito il jump blues, una musica per
ballare con riff boogie ed una strumentazione che vedeva, accanto a chitarre elettriche e batteria, il
sassofono. Ma era ancora il pianoforte in primo piano, ad eseguire con la mano sinistra quei
caratteristici riff, quei fraseggi standardizzati che saranno ripresi dal country-boogie prima e dal
rock’n’roll poi. Il rhythm'n'blues vero e proprio nasce verso la fine degli anni quaranta a Chicago,
proprio mentre nel country & western, soprattutto per merito del grande Hank Williams,
esperimenti di cosiddetto hillbilly boogie davano vita alle prime forme di pre-rock'n'roll. Per molti è
sorprendente scoprire che una delle radici del rock è la country music, in particolare il country &
western del secondo dopoguerra, ma in fondo lo stesso termine Rock'n'Roll fu coniato per
sostituirlo a rockabilly, termine con il quale veniva sinteticamente indicata la nuova musica suonata
dagli hillbillies (un termine dispregiativo usato per indicare le popolazioni rurali e montanare non
acculturate dell'area dei Southern Appalachians), il "beat-heavy boogie-bop made by hillbillies" (il
‘boogie-bop dal ritmo pesante suonato dagli hillbillies’). Tra la metà e la fine degli anni quaranta
infatti il country & western aveva ripreso il ritmo ed i riff caratteristici del boogie e ne era nato
quello che inizialmente venne definito anche country-boogie o hillbilly-boogie. Molti artisti country
& western – la musica che andava per la maggiore negli anni quaranta a Nashville, la capitale della
country music – incisero dei boogie; e tra loro fu Hank Williams quello che più si avvicinò al sound
che sarà del rock degli anni cinquanta. Purtroppo morì troppo presto (il 1°gennaio del 1953) e non
potette partecipare all’età d’oro del rock’n’roll.
Bill Haley and His Saddlemen incisero il loro primo country-boogie nel 1951. Questo gruppo, che
fondeva elementi del country & western con elementi del rhythm'n'blues, nel 1954 cambiò il
proprio nome in Bill Haley & His Comets ed incise il brano più famoso della storia del rock’n’roll:
“Rock Around The Clock”, quello che divenne in breve l'inno di una generazione. Tutto era pronto
perché il rock’n’roll sfondasse: come mai fino al 1954 non si era parlato di questa musica?
Probabilmente perché i due ambiti in cui era eseguita erano, per motivi diversi, fuori dai circuiti
commerciali. Da una parte c'era la country music, indirizzata alla popolazione rurale del Sud-Est;
dall'altra c'erano le sperimentazioni jump blues e rhythm'n'blues dei musicisti afroa-mericani di
Chicago, indirizzate al pubblico nero. Questi generi non potevano avere grande effetto sul pubblico
giovanile: troppo legati a specifici gruppi etnico-sociali; strumentazioni e repertori erano legati alla
tradizione; i musicisti e i cantanti erano troppo anziani. Altra importante considerazione è infatti
quella che, a partire dal secondo dopoguerra, il pubblico dei giovani rappresentava una larga parte
degli acquirenti ed aveva cominciato ad indirizzare le scelte dell'industria discografica. Per avere
successo, la musica, i cantanti e le canzoni dovevano incontrare i gusti dei giovani. Tutti questi
elementi – musicali e commerciali – si miscelarono al meglio negli studi discografici della Sun
Records di Memphis, Tennessee, una etichetta di proprietà di tale Sam Phillips. Lì venne prodotto il
sound che avrebbe imposto il rock, e fu opera di un gruppo di cantanti – bianchi – che ebbero un
forte impatto sui giovani: c'erano Carl Perkins, Jerry Lee Lewis, ma soprattutto Elvis Presley, il
personaggio più rappresentativo del rock delle origini. Elvis aveva tutti gli ingredienti per avere
successo: era giovane, bello, in scena si muoveva in modo eccitante e sensuale, piaceva alle
ragazze, ma divenne il cantante preferito anche dai ragazzi. Aveva perfino una bella voce, ed in
breve conquistò il titolo legittimo di "re del Rock'n'Roll". Bill Haley, meno bello e meno giovane
ma anche più grasso di Elvis, dovette accontentarsi delle briciole. Il repertorio di inizio carriera di
Elvis – che fu soprannominato ‘the pelvis’ per il modo sensuale con il quale agitava il bacino
mentre cantava – includeva molti brani country & western. Sul suo primo 45 giri ad esempio
c’erano “That's All Right, Mama” (una vecchia race song) e “Blue Moon of Kentucky” (un brano
bluegrass di Bill Monroe). Ma il rock'n'roll, da Elvis in poi, perse qualsiasi connotato country, a
cominciare dal nome: rockabilly non poteva sfondare – troppo legato alla cultura rurale del Sud –;
rock'n'roll divenne una parola d'ordine tra giovani e non giovani di tutto il mondo. L'influenza
esercitata da Elvis sui teenagers fu forte: la tendenza a riconoscersi nell'idolo, ad imitare tutto di lui,
dal modo di vestire alla pettinatura, agli atteggiamenti, raggiunse punte imprevedibili. A distanza di
cinquant’anni, nei molteplici raduni legati alla celebrazione del rock'n'roll che si continuano a
svolgere in tutto il mondo, si vede ancora circolare una quantità incredibile di sosia – o presunti tali
– di Elvis. Se Elvis rappresentava la parte ‘buona’ del rock'n'roll, con la sua aria da bravo ragazzo e
da buon americano, dall’altra c’erano i ‘cattivi’, quelli che con uno stile di vita non proprio
impeccabile contribuirono ad associare alla nuova musica dei connotati negativi. Uno di questi fu
Chuck Berry, il quale, a parte le critiche sulla persona ed alcune ‘disavventure’ con la giustizia, era
nero. Già verso la fine degli anni quaranta era inserito nel filone jump blues di Chicago, con
influenze boogie. Ha lasciato al rock'n'roll alcuni dei brani più belli ed ancora oggi più eseguiti del
repertorio classico: basti citare “Maybelline”, “Roll Over Beethoven”, “Johnny B. Goode”.
Il rock delle origini includeva elementi sia bianchi che neri ed i primi nomi importanti di questa
musica furono musicisti/cantanti che provenivano da entrambi i gruppi etnici ed i cui stili esecutivi
convergevano verso una forma abbastanza comune. Gli afroamericani che ottennero successo tra il
pubblico dei bianchi furono quelli che più si avvicinavano al sound uscito dalla Sun Records:
Chuck Berry, Fats Domino, Bo Diddley, Little Richard. Viceversa ebbero molto successo i bianchi
che riprendevano elementi afroamericani: Bill Haley, Elvis Presley, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis.
Ma alla lunga il rock fu caratterizzato come musica dei bianchi. Rock significa soprattutto canzoni,
anche se non sono stati rari i gruppi che hanno proposto dei brani strumentali, ottenendo anche un
discreto successo. Ma sono le storie narrate e le sensazioni descritte che, al pari della musica,
decretano il successo di una canzone rock. La sua struttura non è molto diversa da quella di una
tipica popular song di Tin Pan Alley, forse solo più complessa: numerose strofe alternate dal refrain
(ritornello), come nella folk music. Negli stili di canto si ritrovano elementi chiaramente derivati dal
blues: possono essere l'uso del falsetto, l'urlo, le parole gridate. Poi, individualmente, ogni interprete
elabora uno stile assolutamente personale con caratteristi che evidenti che diventano un vero e
proprio prototipo per schiere di imitatori. L'effetto del rock sulla roccaforte della popular music, Tin
Pan Alley, fu dirompente. Il mercato era allora dominato da poche case discografiche, le cosiddetta
'major' – Decca, RCA, Columbia, Capitol, Mercury – che studiavano ed imponevano i loro 'prodotti'
con operazioni di vero e proprio marketing e che riuscivano a mantenere i loro brani nelle
classifiche per mesi. La loro opposizione iniziale all'ondata del rock comportò l'esplosione delle
piccole case discografiche indipendenti, le cosiddette 'indies', le stesse che si erano adoperate per
supportare il mercato del rhythm'n'blues. Tin Pan Alley rivide col tempo le proprie posizioni, gli
autori rock da parte loro si aprirono a compromessi, allontanandosi musicalmente dagli schemi
troppo rigidi del rhythm'n'-blues o del country & western, e le major entrarono nel nuovo mercato,
dinamico e aggressivo, in continua evoluzione. Un elemento importante di crescita e di evoluzione
della storia del rock è stato il contributo dato, nel corso degli anni sessanta,dal cosiddetto british
rock, detto anche beat. La scena musicale inglese, tra gli anni cinquanta e i sessanta, aveva assorbiti,
fatti propri e rielaborati alcuni contenuti tecnico-stilistici della tradizione americana, restituendo
all'America una musica matura e ricca di spunti creativi. Il fenomeno era nato nel corso degli anni
cinquanta, con lo sviluppo in Inghilterra del cosiddetto skiffle, un movimento musicale giovanile
collegato al folk revival, che si rivolse alla musica popolare nordamericana, in particolare a quella
afroamericana: canti di lavoro, ballate, blues rurale. Ci fu un revival delle jug bands, quindi chitarre,
washboard, kazoo, washtube: il risultato fu una musica trascinante ed originale. Ci fu soprattutto la
riscoperta del blues, che rese famosi in Inghilterra personaggi trascurati dagli americani e che
impostò un'intera generazione di futuri chitarristi rock-blues inglesi. Ci fu l'accoglienza riservata al
rhythm'n'blues e soprattutto ai primi esponenti afroamericani del Rock'n'Roll, come Bo Diddley e
Chuck Berry. Su questa base molto 'bluesy' si formarono quasi tutti i gruppi che avrebbero fatto la
storia della musica del decennio successivo, e non solo in Inghilterra: gli anni Sessanta sono gli anni
di Beatles, Rolling Stones, Animals, Them, Yardbyrds, Kinks, Searchers, Who, Hollies, per
nominarne solo una parte. Gli Yardbirds – insieme agli Animals– sono stati il gruppo del beat
inglese il cui sound denunciava, più degli altri, di essere figlio dello skiffle. Profondamente
influenzati dal blues e dal rhythm'n'blues, i musicisti alternavano nel loro repertorio canzoncine pop
a citazioni dai predecessori afroamericani di Chicago. Nel gruppo hanno militato, tra gli altri, due
grandi chitarristi elettrici di rock-blues, Eric Clapton e Jeff Beck. Anche il sound degli Animals
denunciava la profonda influenza dal rhythm-and-blues: pur senza includere strumentisti
d'eccezione, avevano il vantaggio di avere una delle più belle voci rock-blues dell'epoca, un vero e
proprio negro-bianco: Eric Burdon. Nella prima parte degli stessi anni Sessanta, mentre in
Inghilterra imperversava l'era beat, l'America era attraversata dalla fase finale e commerciale del
folk revival e dalla canzone di protesta. Ma verso la fine del decennio molti interpreti che avevano
privilegiato la musica acustica e ritmi meno sostenuti furono coinvolti bene o male dalla musica
rock: folk-rock o come altro si voglia etichettarlo è stato quello di Paul Simon o di Leonard Cohen,
di Judy Collins o Joni Mitchell, per non parlare della vera e propria svolta elettrica di Bob Dylan,
passato da menestrello acustico a cantante di una vera e propria rock band (The Band). La verità su
Dylan deve essere ancora scritta. Personaggio indecifrabile, per alcuni anni (i primi anni sessanta)
folk singer acustico e bandiera del folk revival e della canzone di protesta, ne ha preso decisamente
le distanze per trasformare il proprio repertorio e le sue esecuzioni in puro rock. Qui termina la
parte che riguarda le radici della musica rock. Da queste radici sono nate, nei decenni, altre
musiche, altri sotto stili, altri filoni, che pur nella varietà di etichette sono accomunate dai caratteri
distintivi della cultura rock: il rifiuto di omologazione; il rifiuto di adeguarsi a schemi
predeterminati; il desiderio di libertà; il bisogno di innovazione. E la lista potrebbe continuare, a
dimostrazione dell’ampiezza di un fenomeno musicale che ha improntato tutta la musica dell'ultimo
mezzo secolo.