Studi Internazionali A cura di

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Studi Internazionali A cura di
Studi Internazionali
A cura di
LuigiBonanate
Scritti di
Luigi Bonanate, Università di Torino
Antonio Cassese, Università di Firenze
Ennio Di Nolfo, Università di Firenze
Roberto Panizza, Università di Torino
Edizioni della
Fondazione Giovanni Agnelli
Studi internazionali / a cura di Luigi Bonanate; scritti di Luigi Bonanate, Ennio Di Nolfo, Roberto Panizza... Let — Torino, Fondazione Agnelli, 1990. - XII, 479 p. : 21 cm - (Guide agli studi di
scienze sociali).
1. Politica. Studi 2. Relazioni internazionali
I. Luigi Bonanate II. Ennio Di Nolfo
Copyright © 1990 by Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli
Via Giacosa 38, 10125 Torino
tel. (011) 6500500, fax: (011) 6502777
e-mail: [email protected], Internet: http://www.fga.it
ISBN 88-7860-034-2
La cura redazionale è di Sandro Ortona
Indice
Premessa
1.
2.
La cultura internazionalistica italiana
Sulla delimitazione degli studi internazionali
Capitolo primo
Relazioni internazionali
Luigi Bonanate
1.
2.
3.
Le risorse della ricerca internazionalistica in Italia
Le relazioni internazionali nella cultura italiana
La via italiana alle relazioni internazionali
3.1 La prima fase (1969-1976)
3.2. Il 1976
3.3. 1976-1987
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Alla ricerca dei criteri di rilevanza degli studi
internazionalistici
Metodologia e teorie generali
p. 3
3
4
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9
14
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20
23
25
5.1. Metodologia
5.2. Teoria e teorie
30
33
34
38
Studi e ricerche sulla politica estera
Tra guerra e pace
L’affannosa ricerca strategica della sicurezza
Conclusioni: un bilancio che guarda al futuro
Riferimenti bibliografici
46
53
59
65
68
VIII
Indice
Capitolo secondo
Storia delle relazioni internazionali
Ennio Di Nolfo
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Dati istituzionali sull’insegnamento e sulla ricerca
Un bilancio degli studi di storia delle relazioni internazionali
Le fonti
Le tematiche
Studi sulla politica estera fascista
Studi sulla seconda guerra mondiale e sul dopoguerra
Nuove aree geografiche
Studi sull’emigrazione
Riferimenti bibliografici
Capitolo terzo
Diritto internazionale
Antonio Cassese
1.
2.
3.
4.
p. 71
Premessa
La situazione dell’insegnamento e della ricerca
L’evoluzione della dottrina dopo il secondo dopoguerra
3.1. Le trasformazioni della comunità internazionale
e del clima generale italiano
3.2. Caratteri generali della dottrina
71
74
80
81
89
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104
108
111
113
113
114
116
116
118
Le nuove tendenze che emergono tra la fine degli
anni Sessanta ed oggi
124
Osservazioni conclusive
145
Riferimenti bibliografici
149
4.1. I «fatti nuovi» sulla scena italiana
124
4.2. I «fatti nuovi» sulla scena internazionale
125
4.3. Le nuove tendenze del positivismo
127
4.4. I principali orientamenti della scienza internazionalistica
contemporanea
136
4.5. Gli internazionalisti e il «mondo esterno»
142
5.
5.1 La scienza internazionalistica italiana può essere accusata di
essere astratta e formalistica?
145
5.2 Cosa è vivo e cosa è morto nella dottrina italiana
147
Indice
IX
Capitolo quarto
Economia internazionale
p. 159
Roberto Panizza
1. Origine e contenuti dei primi studi di economia
internazionale in Italia
159
2. Le risorse pubbliche: cattedre e centri di ricerca
sull’economia internazionale
161
3. Le risorse private: centri di ricerca sull’economia
internazionale
168
4. I tradizionali filoni di ricerca dell’economia internazionale 172
5. La crisi degli anni Settanta: un’analisi descrittiva
175
6. Flussi commerciali dell’Italia e delle principali aree
economiche mondiali
181
7. Processi di internazionalizzazione, di integrazione monetaria
e di globalizzazione dei mercati: un’analisi interpretativa
189
8. Contributi alla teoria pura del commercio internazionale
197
9. Contributi alla teoria monetaria dello scambio internazionale 204
Riferimenti bibliografici
212
APPENDICE BIBLIOGRAFICA
Premessa
1. Relazioni internazionali (Fabio Armao e Walter Coralluzzo)
1.1. Teoria e metodologia delle relazioni internazionali
1.2. Politica estera
1.3. Pacifismo e bellicosità nel sistema internazionale
1.4. Problemi strategici, sociologia e storia militare
2.
Storia delle relazioni internazionali e storia internazionale
(Ennio Di Nolfo)
2.1. Fino al 1815
2.2. Dal 1815 al 1870
2.3. Dal 1870 al 1914
2.4. Dal 1914 al 1943
2.5. Dal 1943 a oggi
2.6. Nuove aree geografiche, emigrazione e opere varie
2.7. Fonti
215
217
217
225
238
247
259
259
263
268
280
307
337
354
X
3.
Indice
Diritto internazionale (Antonio Cassese)
p. 363
3.1.1. Manuali
363
3.2.1. Storia del diritto internazionale
364
3.3.1. Diritto dei trattati
365
3.3.2. Successione di stati e trattati
367
3.3.3. Consuetudine
368
3.4.1. Stati e altri soggetti di diritto internazionale
369
3.4.2. Insorti
370
3.4.3. Autodeterminazione dei popoli
370
3.4.4. Individui
371
3.4.5. Stranieri
372
3.5.1. Organizzazioni internazionali
372
3.5.2. Nazioni Unite
374
3.5.3. Istituzioni specializzate
375
3.5.4. Altre organizzazioni governative
377
3.5.5. Organizzazioni non governative
377
3.5.6. Comunità europee
378
3.6.1. Territorio
386
3.6.2 Mare
387
3.6.3 Trasporti marittimi
393
3.6.4. Fiumi
393
3.6.5. Tutela dell’ambiente
393
3.6.6. Spazio aereo
396
3.6.7. Cattura illecita di aeromobili
396
3.6.8. Spazio extratmosferico
397
3.7.1. Rapporti tra diritto interno e diritto internazionale
397
3.7.2. Immunità giurisdizionale degli stati
405
3.7.3. Organi di stati
406
3.8.1. Diritti umani
406
3.8.2. Scritti relativi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo 410
3.8.3. Diritto penale internazionale
415
3.9.1. Cooperazione politica
417
3.9.2. Cooperazione economica e sociale
417
3.9.3. Cooperazione in campo giudiziario, civile e penale
419
3.9.4. Cooperazione in altri settori
420
3.10.1.Tutela degli investimenti all’estero
420
3.11.1.Responsabilità internazionale
422
Indice
4.
3.12.1.Soluzione delle controversie
3.12.2.Mezzi di impiego della forza diversi dalla guerra
3.12.3.Guerra e neutralità
3.12.4.Armi
Economia internazionale (Roberto Panizza)
Indice dei nomi
XI
p. 423
427
427
431
433
461
STUDI INTERNAZIONALI
Premessa
1. La cultura internazionalistica italiana
Per secoli, l’unico fatto internazionalmente rilevante — e generalmente percepito come tale — è stata la guerra: e tante se ne sono combattute (118 nel solo periodo 1816-1980, secondo i sacri testi) che alla
riflessione su questo evento, e poi sulla sua principale antitesi, il diritto,
e sulle modalità di ciascuna di quelle, la storia, ha dovuto esser concesso
un grande spazio dalla comunità scientifica in tutti i paesi del mondo.
Almeno in parte diversamente si è evoluta la cultura accademica per
quanto riguarda altre due discipline, sempre a carattere internazionalistico, che addirittura si presentavano rivendicando una sorta di primogenitura — intellettuale e non cronologica — nei confronti degli studi internazionali. La disciplina delle relazioni internazionali (cioè: la scienza
politica applicata ai problemi extra-statuali) e l’economia internazionale
pretendevano infatti di possedere una maggior specificità di approccio,
un’esclusività di attenzione per le dinamiche degli eventi internazionali,
tali da chiedere che i risultati delle loro riflessioni si imponessero su qualsiasi altra analisi si volesse compiere dei fenomeni internazionali.
Nulla di nuovo ci sarebbe in questa storia, né alcun particolare interesse nel riferirla, se non fosse che il mondo contemporaneo ha conosciuto un così impetuoso e dirompente sviluppo nell’internazionalizzazione della realtà da riproporre — e con ben altra ponderazione — il problema dell’approccio agli studi internazionali nella loro generalità. Si potrebbe addirittura suggerire che — dopo essere stata una dimensione la
cui importanza è cresciuta per anni — l’internazionalità si sia oggi trasformata in una sorta di vera e propria costante che accompagna i più
svariati fenomeni che superano i confini dello stato.
Così stando le cose, e restando anche più di un rebus da sciogliere
per quanto riguarda la storia delle discipline coinvoltevi, e in particolare
quella dei loro reciproci rapporti, il progetto della Fondazione Agnelli di
dedicare una delle sue guide agli studi internazionali si è rivelato — al
4
Premessa
di là del risultato del nostro lavoro, che il lettore valuterà — un’occasione eccezionalmente suggestiva per affrontare, per la prima volta in
Italia (ma lavori di questo genere non sono certo diffusi nel mondo),
il nodo rappresentato dallo scarso interesse (almeno comparativamente,
rispetto ad altri settori di studio) mostrato dalla comunità scientifica italiana per gli studi internazionali (va aggiunta la considerazione che questa
guida è «unica» anche nel senso che non si sovrappone a una disciplina,
accademicamente costituita, ma affronta una problematica, tra l’altro
vastissima). Come ogni generalizzazione, anche questa contiene qualche
imprecisione: il diritto internazionale e la storia delle relazioni internazionali (o, come la si chiamava una volta, la storia dei trattati) hanno
sempre goduto nella comunità accademica italiana di fiducia e rispetto:
oggi i titolari di corsi universitari nella prima disciplina sono 106, quelli
della seconda 42. Stupisce semmai — e in ogni caso, di più — che i titolari
di economia internazionale siano soltanto 31 e quelli di relazioni
internazionali addirittura solo 5; ma qui le considerazioni dovrebbero
essere più amare: nessuno dei paesi sviluppati del mondo — anche molto
dietro il quarto o il quinto più industrializzato! — conosce una situazione di tale arretratezza (la quale, è chiaro, deve pur nascondere qualche
responsabilità, e qualche colpa). Non tocca a questa premessa giustificare i diversi aspetti che saranno invece discussi approfonditamente nei
quattro capitoli della guida. È utile invece soffermarsi ora sulla definizione stessa di quegli studi che abbiamo — per la prima volta — accostato, non pretendendo di scoprire una qualche artificiosa o inesistente
omogeneità tra discipline non solo per storia, ma per metodologie, cultura, tradizioni notevolmente diverse tra loro, ma per individuare un
campo problematico, che può utilissimamente giovarsi dell’apporto pluralistico di esperienze e specializzazioni varie.
2. Sulla delimitazione degli studi internazionali
Se l’«internazionalità» non fosse concepibile altrimenti che come una
dimensione delle molteplici e incomunicanti realtà — politica, economica, sociale, giuridica, culturale, ecc. — tipiche della vita interna ai singoli
stati, allora sarebbe sufficiente operare una proiezione speculare di queste
ultime sulla scena esterna per ottenerne la definizione stessa dell’internazionalità. Se invece si tende a una concettualizzazione autonoma
e specifica dell’internazionalità come categoria a sé stante, diventa necessario affrontare un diverso cammino, che ci permetta di caratterizzare più intensamente tale ricerca.
Premessa
5
Una prima possibilità per muovere in direzione dell’individuazione dell’area degli studi internazionali è rappresentata dalla semplice giustapposizione di diversi approcci disciplinari, come ad esempio si limita a recitare la dichiarazione di intenti della British International Studies Association, nella quarta di copertina della Review of International Studies, la quale intende rivolgersi a «studiosi interessati a politica, diritto, storia, tecnologia e
a tutte quelle altre aree della scienza sociale che rivestono un interesse nello studio accademico dell’arena internazionale». Non più incisiva è la presentazione dell’International Studies Association, quando si riferisce ai
«vari fattori politici, economici, sociali o culturali che coinvolgono più di
una società». Ma la via dell’elencazione — per quanto sia la più semplice e approssimativamente accettabile — non libera tuttavia dal dubbio se
l’internazionalità possa davvero costituirsi in oggetto di studio autonomo,
dunque non come semplice «multi- disciplina» (ancora qualcosa meno dell’interdisciplinarità?), bensì come problematica complessa e — perché no?
— complicata, dia poi o no essa vita anche a una vera e propria disciplina.
La vita internazionale è piuttosto un immenso campo problematico, suscettibile di venir analizzato da diverse prospettive e con diverse competenze — né più né meno di come succede per lo stato o per un sistema sociale. Ma a ben vedere, si potrebbe addirittura argomentare che — in astratto, almeno — l’internazionalità sia ben più che l’ambiente nel quale gli
stati agiscono, dato che questi ultimi sono divisi l’uno dall’altro e autonomi soltanto in quanto sottrazioni rispetto all’unità originaria e «sconfinata» del globo. Gli stati, in altre parole, non esistono in natura, ma come artificiali suddivisioni rispetto all’idea cosmopolitica di umanità, oppure di impero universale, di Sacro romano impero, e così via (l’enorme
eterogeneità che differenzia poi gli stati — per dimensioni, risorse, popolazione, regime politico, ecc. — rende estremamente difficile abbracciarli
tutti in un solo e stesso sguardo).
In termini più propositivi, si potrà sostenere dunque che l’internazionalità è di per sé coessenziale agli stati stessi (un buon esempio, in questa
direzione, anche se non intendo qui riferirmi a ciò che esso implica, è
rappresentato dall’idea kelseniana del primato gerarchico-sistematico del
diritto internazionale rispetto a quelli statuali), cosicché l’elemento distintivo dell’internazionalità non andrà più cercato soltanto o esclusivamente
nel coinvolgimento aritmetico di più stati — che è una condizione necessaria ma non sufficiente per elevare a problematica autonoma l’internazionalità — bensì nell’autonomia e nella specificità della processualità degli eventi internazionali, i quali si svolgono secondo regole
e condizioni indipendenti da quelle che contraddistinguono lo svol-
6
Premessa
gimento di eventi della stessa natura (politica, economica, giuridica, storica) all’interno di uno o più distinti stati.
L’economia internazionale non è la somma delle economie nazionali,
così come non lo è la politica internazionale rispetto a quelle interne,
e così via. Se da un punto di vista descrittivo-materiale rientra nella vita
internazionale tutto ciò che coinvolge più di uno stato, ciò che però giustifica la «problematicità» (l’autonomia, almeno relativa) degli studi internazionali è la specificità delle spiegazioni che al suo livello si richiedono per comprenderne la spontanea, inevitabile e intrinseca complessità. La simmetria tra «guerra civile» e «guerra internazionale» è molto
più apparente ed elegante che sostanziale e effettiva (in termini interpretativi); la problematica strategica, a sua volta, non esiste invece se
non a partire dalla sua connotazione internazionale (anche se l’industria
militare di un paese, o un’economia di guerra, hanno poi tanto risvolti
internazionali quanto interni).
La rilevanza attuale (cioè proprio «tipica» del nostro tempo) degli
studi internazionali sta dunque nell’originalità di problematiche le quali
devono affrontare la specificità di fenomeni che si svolgono su una scala
tanto ampia e contraddistinta da tanti collegamenti da richiedere una
specializzazione notevole per affrontarli; specializzazione che deve inoltre
muovere dal presupposto — certo di per sé non molto incoraggiante, se
non come sfida intellettuale — che caratteristica dei problemi internazionali sia, per la loro natura, la difficoltà, determinata non soltanto dalla
vastità della loro scala, ma piuttosto e prevalentemente dalla necessità
di affrontare l’analisi di dinamiche che appaiono il più delle volte prive
di strumenti di governo, e dunque sprovviste di immediata spiegazione.
Un campo disciplinare siffatto contraddistinto da tanta intensità
tematica — non esiste nel panorama culturale mondiale, né probabilmente esisterà mai. La sua costituzione non rientra neppure nelle intenzioni tacite di questa guida, la quale tuttavia mira pur sempre a qualcosa di più di una semplice «fotografia di gruppo» raffigurante storici,
giuristi, economisti e politologi finalmente accomunati dall’unità del loro
oggetto (se non dall’interesse per i reciproci lavori — cosa che certo non
è frequentissima nelle comunità accademiche). Questo lavoro ha obiettivi ad un tempo molto meno, e anche un po’ più, ambiziosi. Molto meno:
esibire correttamente l’immenso lavoro — infinitamente più ricco, vario
e approfondito di quanto ciascuno dei responsabili delle diverse sezioni
si immaginasse all’inizio — compiuto nell’ambito delle quattro discipline
(o loro gruppi: non abbiamo fatto distinzioni, ad esempio, tra studiosi
di diritto internazionale pubblico e studiosi di organizzazione internazionale, e così via; abbiamo fatto riferimento a grandi famiglie discipli-
Premessa
7
nari): storia delle relazioni internazionali, diritto internazionale, economia
internazionale, relazioni internazionali. Valutare criticamente — come
ciascuno dei quattro responsabili ha fatto, anche senza rifuggire, quando
ne è il caso, dalle polemiche — la produzione italiana, anche tenendo
conto del grande divario che può essersi verificato nell’attenzione prestata ai diversi argomenti (raramente ciò avviene in modo casuale). Costruire in sostanza uno strumento di informazione e di consolidamento
di conoscenze finora estremamente frammentate e frammentarie (anche
tra gli specialisti dei diversi campi: ciascuno di noi, nel corso del suo
lavoro, ha fatto delle «scoperte»!), che possa offrire (per la sua parte)
la base per un più generale bilancio della ricerca scientifica svoltasi negli
ultimi decenni nel nostro paese. Ciascuna delle quattro sezioni comprende,
inoltre, una vera e propria storia della disciplina — mai tentata prima
d’ora — avendo per base un paio di decenni, ma senza rifuggire — quand’era il caso — anche dalla «preistoria».
Ciò che ha invece questo lavoro di «più ambizioso» è il desiderio di
imporre l’idea che la riflessione sugli eventi internazionali, la capacità
di collocarne le componenti al centro di analisi anche apparentemente
lontane da quelli, la creazione, in una parola, di una nuova e diversa
sensibilità per questa oggi fondamentale dimensione della realtà sia un
passo decisivo nella crescita culturale di una società.
Capitolo primo
Relazioni internazionali
Luigi Bonanate
1. Le risorse della ricerca internazionalistica in Italia
Se non è possibile datare precisamente il momento in cui un genuino
e specialistico interesse per i rapporti internazionali si è sviluppato in
Italia, è in ogni caso possibile limitare il periodo storico oggetto di questa
ricostruzione a partire dalla metà degli anni Sessanta — anche in considerazione del fatto che in quel periodo cadono due avvenimenti significativi ai fini del censimento delle risorse del campo: nel 1968 viene varata la riforma universitaria che ammette a pieno titolo la disciplina delle
relazioni internazionali nei curricula universitari; nel 1965 viene fondato
l’Istituto Affari Internazionali, un centro privato destinato ad avere un
ruolo rilevante nella promozione degli studi internazionali (come si vedrà
più avanti). Assumendo questi due avvenimenti come emblematici, si è
tenuto conto altresì della circostanza che essi sono anche indicativi delle
due forme principali secondo cui si aggregheranno successivamente le
risorse: ricerca universitaria e centri di ricerca privati.
Incominciamo dalla prima. Preceduta dall’insegnamento impartito da
professori di diritto internazionale oppure di storia dei trattati (così succede a Torino, ad esempio, dove G. Cansacchi è «incaricato», secondo
la formula di allora, di «relazioni internazionali» fino all’anno accademico 1971-72, o a Cagliari dove G. André insegna nientemeno che «teoria
delle relazioni internazionali», sempre per incarico), la disciplina delle
relazioni internazionali vede entrare successivamente in campo Umberto
Gori, Antonio Papisca e Luigi Bonanate (Ennio Di Nolfo impartirà per
alcuni anni corsi di relazioni internazionali, ma con programmi piuttosto
storiografici). Essi diventano professori di ruolo («vanno in cattedra»,
come si dice nel gergo accademico) nel 1975. A quei primi tre titolari
si associano (proprio nel senso giuridico della figura del «professore associato») nel 1980 Fulvio Attinà (che era già incaricato da alcuni anni)
e Carlo M. Santoro. Nel 1985 si associa nella stessa disciplina Franco
A. Casadio, purtroppo scomparso nell’estate 1989. Fino a tutto il 1989
10
Luigi Bonanate
esistono tre ricercatori di relazioni internazionali, di cui due «confermati» Giovanni Bressi e Giorgio Carnevali, più uno non ancora confermato, Luciano Bozzo. Otto persone dunque!
Anche escludendo che sia il numero a fare la forza, certo questo è
così esiguo che non si stenta a percepire quanto ridotto sia stato finora
il reclutamento accademico in questo settore — «ridotto» e non «ristretto», perché va onestamente riconosciuto che a tutt’oggi hanno avuto
riconosciuto uno status accademico tutti gli studiosi che l’hanno desiderato: come a dire che il «mercato» non ha prodotto più di tanto! A tale
sconfortante bilancio va contrapposta una sola nota positiva, derivante
dall’introduzione nell’università italiana del cosiddetto «dottorato di ricerca», il quale svolgerà proprio una delle due funzioni naturali e principali dell’università (nella sua anima di promozione scientifica): la formazione di nuovi studiosi nei diversi settori. Due dottorati hanno rilevanza per la nostra disciplina: quello svolto presso l’Università di Padova (coordinato da A. Papista), dotato di tre posti per un corso triennale formalmente intitolato alle relazioni internazionali, e quello svolto
a Firenze (sede amministrativa, coordinatore Alberto Spreafico), dedicato alla scienza politica (composto dai tre curricula di scienza politica,
scienza dell’amministrazione, relazioni internazionali), dotato dapprima
di 7 posti e poi di 6. Con la fine del 1987 sono stati licenziati due dottori
di ricerca in relazioni internazionali (più uno ammessovi in quanto
concorrente esterno), e dei sette del primo ciclo di scienza politica, uno
(l’unico che avesse seguito il profilo internazionalistico). Altri due cicli
di dottorato sono attualmente in svolgimento, e si può ipotizzare un tasso
di sviluppo all’incirca costante: non più di cinque giovani studiosi all’anno, dunque — per i quali, va subito aggiunto, non esiste, ora come
ora, alcuno sbocco accademico.
Questo per quanto riguarda le forze intellettuali. Poco più brillante
il bilancio in rapporto all’accesso a risorse e finanziamenti in ambito universitario. Fino all’entrata in vigore della riforma universitaria del 1980
(il D.P.R. n. 382) l’unico canale di finanziamento per la ricerca era rappresentato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, negli organi di consulenza del quale tuttavia non sedeva né un politologo né un internazionalista (il che non significa che fosse impossibile, ma certo non facilissimo, ottenere finanziamenti). A partire dal 1980, e cioè dall’istituzione
dei fondi per la ricerca (più noti nel linguaggio accademico come i fondi
«40%» e «60%», così denominati in riferimento alla proporzione in cui
l’ammontare totale destinato alla ricerca scientifica viene ripartito tra
progetti a carattere nazionale interuniversitario e progetti a carattere
locale), l’accesso ai fondi per la ricerca è nettamente migliorato: mentre
Relazioni internazionali
11
in pratica ogni titolare anno per armo ottiene finanziamenti «locali» (che
finiscono per venir principalmente destinati ad acquisto di pubblicazioni
scientifiche), a partire dal 1984 una prima ricerca nazionale è stata impostata sul «Sistema della politica estera italiana» (coordinata da L. Bonanate, coinvolgeva le università di Torino, Firenze, Bologna e Catania);
un’altra intestata a «Sicurezza nazionale e sistema politico italiano» (coordinata da C. M. Santoro, con le università di Bologna, Milano e Torino) è iniziata nel 1986.
Entrambe le ricerche hanno avuto — accanto, ovviamente, al loro
obbiettivi scientifici — anche la tutt’altro che disprezzabile funzione di
costruire una comunità scientifica integrata e collaborativa. Ma con queste
considerazioni si conclude già la rassegna dei centri di elaborazione internazionalistica accademica. Va aggiunto infine che almeno nelle sedi
universitarie che per prime hanno introdotto l’insegnamento di relazioni
internazionali lo stato delle infrastrutture (in sostanza libri e periodici
scientifici) è più che accettabile, consentendo a chiunque di disporre in
sostanza delle stesse pubblicazioni con cui lavora, ad esempio, uno studioso statunitense.
A fronte della rigidità e anche delle ristrettezze ben note del panorama accademico, è possibile tracciare un profilo, almeno a prima vista,
ben più ricco per quanto riguarda i centri di elaborazione privati, ivi
comprendendo anche le iniziative di tipo editoriale. Qualche cautela va
tuttavia subito espressa: se è vero — come si vedrà — che centri studi
e periodici non mancano (anzi, sono più di quanto non ci si sarebbe aspettato), dò non significa automaticamente che a tutti competa uno stesso
livello scientifico o più genericamente culturale. Incominciamo dai centri.
Essi vanno in primo luogo distinti a seconda che emanino da istituzioni
universitarie oppure che siano a pieno titolo privati. I primi sono ovviamente pochissimi: valgono per questi le considerazioni svolte per la ricerca universitaria in genere, e sono spessissimo legati all’intraprendenza
del singolo studioso. Il finanziamento dei centri privati dipende sostanzialmente dal mecenatismo proveniente da istituti di credito, imprese
pubbliche, grandi imprese private. I vari centri possono poi esser classificati per sfera di interessi: accanto ad alcune istituzioni che intendono
affrontare in generale i problemi internazionali, altre sono invece specificamente rivolte alla politica estera italiana, all’analisi strategica, oppure alla peace research, o ancora a tematiche regionali o settoriali. In
alcuni casi sarebbe possibile anche stabilire l’area di inclinazione politica — sovente nel nostro paese i centri studi hanno funzioni non del
tutto disinteressate — ma si potrebbero rischiare identificazioni frettolose, e sarà meglio trascurare questo dato (va anche ammesso che non
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Luigi Bonanate
di tutte è possibile dare notizie esaurienti: e questo può rappresentare
un valido, per quanto malizioso, indicatore!).
1) Archivio disarmo: centro di documentazione sulla pace e sul controllo degli armamenti, costituitosi a Roma nel 1982. Dal 1984 pubblica
l’edizione italiana del World Armaments ami Disarmament Sipri Yearbook,
presso l’editore Dedalo di Bari.
2) Associazione italiana studi di politica estera (Roma): pubblica il
periodico Affari esteri, dal 1969.
3) Centro di ricerca per la pace nel Mediterraneo (Catania): promosso
dal Dipartimento di analisi dei processi politici, sociali e istituzionali
dell’Università di Catania; si vale di contributi degli enti locali. Fondato nel 1987.
4) Centro di studi europei: presso l’Università di Padova.
5) Centro studi e documentazioni internazionali (CESDI): opera a
Torino, fornisce documentazioni e analisi, a livello professionale, per
operatori nei campi dell’informazione, dell’industria, dell’economia.
6) Centro di studi e formazione sui diritti dell’uomo e dei popoli:
presso l’Università di Padova. Pubblica, dal 1987, il periodico Pace-diritti
dell’uomo-diritti dei popoli.
7) Centro studi Manlio Brosio: opera a Torino e ha pubblicato dal
1984 al 1986 la Rivista italiana di strategia globale.
8) Centro per gli studi di politica estera e opinione pubblica: istituito a Milano nel 1980 grazie a una convenzione tra Università e Comune di Milano. Pubblica dei Quaderni, che sono veri e propri volumi,
e una collana di «Saggi italiani».
9) Centro di studi strategici: presso la Libera università internazionale degli studi sociali di Roma. Pubblica degli Occasionai Papers.
10) Centro di studi sulle comunità europee: presso l’Università di
Padova.
11) Centro studi di politica internazionale (CESPI): ha sede a Roma,
ed è promosso dal Partito Comunista Italiano.
12) Forum per i problemi della pace e della guerra: è promosso dall’Università di Firenze in collaborazione con gli enti locali. Pubblica una
collana presso La Nuova Italia Scientifica, i Quaderni Forum (dedicati
a rapporti di ricerca) e Forum informazioni. Promuove ricerche, convegni,
seminari. Opera dal 1986.
13) Istituto Affari Internazionali: fondato nel 1965. Pubblica, dal
1969, prima i Quaderni e poi la «Collana dello spettatore internazionale»
presso l’editore II Mulino di Bologna, fino al 1980. Dal 1973 pubblica
l’annuario L’Italia nella politica internazionale, fino al 1985 presso le Edizioni di Comunità, e quindi presso l’editore Franco Angeli. Dal 1966
Relazioni internazionali
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pubblica il bimestrale Lo spettatore internazionale, poi sospeso e ripreso
nel 1984 in lingua inglese e con cadenza quadrimestrale (The International Spectator). Diffonde tra i soci degli Occasionai Papers. Opera prevalentemente come centro di promozione di ricerche.
14) Istituto per la cooperazione politica, economica e culturale internazionale (ICIPEC): Roma.
15) Istituto per le relazioni tra l’Italia e i paesi dell’Africa, America Latina
e Medio Oriente (IPALMO): ha sede a Roma, e pubblica dal 1972 il mensile
Politica internazionale.
16) Istituto di sociologia internazionale di Gorizia (ISIG): sviluppa, tra
gli altri, temi legati al controllo degli armamenti, nell’ambito di un
«Programma di politica e relazioni internazionali». Pubblica dei Quaderni, a
circolazione limitata.
17) Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI). Fondato a
Milano nel 1933. Ha pubblicato dal 1936 fino al 1983 il settimanale Relazioni
internazionali e l’Annuario di politica internazionale dal 1951 al 1973. Si tratta della
prima, e più prestigiosa, istituzione italiana del settore. Dalla metà degli anni
Settanta incominciò a declinare, fino alla pratica totale sospensione delle sue
attività all’inizio degli anni Ottanta. Nel 1987, anche sotto l’egida del
Ministero degli Affari Esteri, ha ripreso la sua attività, organizzando
seminari e convegni. Dal 1988 ha ripreso la pubblicazione di Relazioni
internazionali, con cadenza trimestrale.
18) Istituto studi e ricerche difesa (ISTRID): Roma. Pubblica quindicinalmente, come agenzia di stampa, Informazioni parlamentari difesa.
19) Istituto universitario europeo: retto dalla collaborazione tra Università di Torino ed enti locali, svolge principalmente corsi di aggiornamento.
20) Scuola di perfezionamento sui diritti dell’uomo e dei popoli: presso
l’Università di Padova, è l’unico corso di perfezionamento del genere
esistente in Italia.
21) Società italiana per l’organizzazione internazionale (SIOI): fondata
nel 1944, si vale del patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, dal 1945
pubblica il trimestrale La comunità internazionale; una collana di volumi è
diffusa dalla casa editrice CEDAM di Padova.
22) Università per la pace: è un centro interdipartimentale di studi e
ricerche, costituito presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna.
23) Unione degli scienziati per il disarmo (USPID): raccoglie scienziati
appartenenti ai dipartimenti di Fisica di varie università italiane.
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Luigi Bonanate
L’unica altra sede di dibattito internazionalistico è rappresentata da
quei periodici che non sono direttamente legati alle istituzioni prima elencate: la Rivista di studi politici internazionali, diretta da G. Vedovato;
Progetto pace, diretta da U. Gori; Giano, diretta da L. Cortesi ne sono tre
esempi. Esistono poi testate a diverso titolo riferibili alle istituzioni
militari del paese, come la Rivista militare, la Rivista marittima, Difesa
oggi, le quali tuttavia non rientrano nell’ambito della circolazione del
dibattito culturale, ma sviluppano problematiche specifiche delle diverse
armi. Da alcuni anni a questa parte, infine, è sempre più frequente che
scritti di relazioni internazionali vengano ospitati su periodici scientifici come Il Politico ,la Rivista italiana di scienza politica, Teoria politica,
oppure su testate di cultura in generale, come Comunità, à, Il Mulino, Bozze,
Critica marxista, Democrazia e diritto, I problemi di Ulisse, testimoniando il
riconoscimento ottenuto dalla problematica internazionalistica.
Un ultimo cenno va riferito a una delle forme di diffusione culturale
oggi più sviluppate in Italia: l’attività convegnistica, nell’ambito della
quale uno spazio sempre più rilevante viene aperto alle tematiche internazionalistiche, con speciale riferimento alle grandi questioni strategiche
o allo sviluppo dell’ideale federalistico (non si è citata tra le istituzioni
attive nel settore il Movimento federalista europeo, con il suo periodico
Il federalista, per il connotato politico — nel senso nobile della parola —
che possiede). Molto sovente l’attività convegnistica di questo tipo è
organizzata sotto l’egida degli enti locali. Ma la mappa delle risorse rivolte a vario titolo nel nostro paese ai problemi internazionali non può
andare disgiunta dalla non facile storia — a cui ora ci si rivolgerà — della
formazione di una sensibilità internazionalistica.
2. Le relazioni internazionali nella cultura italiana
Le relazioni internazionali — intese come quel settore della scienza
politica che si rivolge ai rapporti politici che gli stati (e alcuni altri attori)
intrattengono tra loro — sono apparse sulla scena accademica italiana
prima ancora che nella cultura italiana si fosse sviluppata una qualche
consapevolezza dell’utilità di una tale prospettiva ai fini della comprensione
della realtà politica internazionale, contemporanea o del passato. Ancora
oggi, a vent’anni dell’inaugurazione del primo corso universitario di
relazioni internazionali — avvenuta a Firenze, presso la Facoltà di
Scienze politiche «Cesare Alfieri», nell’anno accademico 1968-69 (ma
effettivamente il corso fu impartito da Umberto Gori a partire dal febbraio 1969) — non è sempre facile per tutti comprendere quali diffe-
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renze intercorrano tra uno studioso di relazioni internazionali, appunto,
da un lato e un politologo dall’altro, o più ancora uno studioso di diritto
internazionale o di storia diplomatica o dei trattati.
Se ciò può — seppure a malincuore — esser considerato come una
mera conseguenza di certo provincialismo italiano, le cose non stanno
in modo tanto differente anche all’interno del mondo universitario, nel
quale ancora sovente si verificano le stesse confusioni — tanto che ci si dovrebbe forse chiedere se davvero esistano consistenza e indipendenza per
una prospettiva disciplinare genuinamente internazionalistica. Una prima
prova, a favore, e per quanto estrinseca, si deduce dall’enorme diffusione
che le relazioni internazionali hanno negli Stati Uniti (il paese che conosce
il maggior sviluppo di tutte le discipline politologiche): la International
Studies Association ha migliaia di soci individuali, e i corsi di relazioni internazionali impartiti ogni anno in quel paese sono diverse centinaia! Una seconda prova — ben più importante — è rappresentata dalla crescente centralità dei «fatti» politici internazionali, il che ha progressivamente, per quanto lentamente, sviluppato una qualche attenzione verso il lavoro degli specialisti delle relazioni internazionali — ai quali finalmente si potrà ricorrere
per aver lumi sulle complesse vicende della politica internazionale.
Con tutto ciò, a tutt’oggi non si può né considerare conclusa la
fase pionieristica della disciplina né verificare il suo consolidamento
attraverso l’instaurazione di un meccanismo di riproduzione disciplinare. Infatti si deve giungere al 1973 perché si contino quattro O) insegnamenti di relazioni internazionali e al 1975 perché tre di quei primi
quattro corsi (impartiti per «incarico» annuale) vengano ammessi a pieno
titolo nella comunità accademica con l’assegnazione di tre cattedre (ai
tre stessi incaricati: Gori a Firenze, Papisca a Catania, Bonanate a Torino). Ma se si guarda ad oggi, la situazione è ben poco mutata, anche
se quantitativamente si era giunti ad un raddoppiamento con l’ingresso
nella disciplina di Fulvio Attinà, di Carlo M. Santoro (Bologna e, dal
1987, supplente nella stessa materia a Milano), e di Franco Casadio
(Salerno) .
Quel che è poi necessario mettere in rilievo è che di questi titolari,
la stragrande maggioranza (quattro) non ha potuto seguire — per l’ovvio motivo che non esistevano corsi di relazioni internazionali — studi specialistici né laurearsi in una disciplina politologica (ciò che hanno
avuto finora l’opportunità di fare i soli Bonanate e Attinà). Dunque,
chi nel corso del passato ventennio era interessato alla problematica
politica internazionale era costretto a rifugiarsi, per via di mera vicinanza, nel diritto internazionale o nell’organizzazione internazionale.
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Luigi Bonanate
Non solo: a tutt’oggi non esiste ancora un solo laureato in relazioni internazionali (e ormai sono decine e decine) che sia entrato formalmente
nel mondo universitario!
Poiché uno soltanto dei pochi ricercatori universitari è laureato
in relazioni internazionali, non ci si può stupire che la comunità accademica e culturale nazionale non abbia ancora a pieno titolo accolto
nel suo seno questa disciplina, alla luce del criterio, ragionevole, dell’attuale assenza di una catena di riproduzione culturale. È difficile
accertarsene definitivamente (data la foresta immensa costituita dai
titoli delle discipline insegnate nell’università italiana), ma non si è
certo lontani dal vero quando si osserva che le relazioni internazionali
sono una delle discipline «più piccole» di tutto l’universo accademico
italiano.
Non sarebbe tuttavia corretto concludere da ciò che dunque il panorama scientifico degli studi di relazioni internazionali compiuti in Italia
sia fallimentare. Per quanto imbarazzante sia parlare di una storia di
cui pur si fa parte, è onesto — come si cercherà di illustrare nelle pagine seguenti — dichiarare che, pur nell’esiguità materiale di una produzione scientifica affidata a così poche mani, lo standard italiano nel
campo delle relazioni internazionali può essere certamente affiancato almeno a quello degli altri paesi europei1.
Quali le cause storiche di tutto ciò? Sono molte e ragionevoli. La
prima, sia in termini genetici sia concettuali, sta nella natura stessa della
cosa, cioè di una disciplina che oggettivamente è particolarmente complessa e di difficile accesso: la specializzazione in questo campo comporta (sia ben chiaro che con ciò non si vuoi cercare alcuna patente di
nobiltà) l’approfondimento di un ambito disciplinare che è, per un verso,
amplissimo se non sconfinato — essendo ovviamente molto difficile affrontare un qualsiasi argomento internazionalistico senza saperne dominare gli inestricabili aspetti economici, politici, giuridici, strategici,
ecc. — ; e dall’altro estremamente sofisticato per quanto riguarda le tecniche di analisi e i livelli di concettualizzazione scientifica. La inevitabilmente più scarsa abitudine ad affrontare tematiche politicointernazionali rispetto a quella che tutti abbiamo ad affrontare la realtà
politica dello stato in cui viviamo inoltre diminuisce la sensibilità e la
predisposizione verso le prime, venendo a favorire o privilegiare grandi
schematizzazioni che, per rendersi comprensibili e divulgabili, rischiano
sovente di sconfinare nell’ovvio se non nell’ideologico. Ancora più deli1 Cfr. ad esempio Lyons, 1982; Grader, 1988, per quanto riguarda i casi di francese e britannico.
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cato è poi — sempre su questo piano — il rapporto che si instaura tra informazione quotidiana e riflessione scientifica, tra analisi dell’attualità
e produzione di modelli di analisi. Gli eventi internazionalmente rilevanti tendono a essere oggetto di grandi titoli sui quotidiani, cosicché
la loro evidenziazione ne consuma immediatamente la portata e la cascata di conseguenze che è spesso ricchissima, ma certo meno clamorosa
e suggestiva per l’opinione pubblica. Ne risulta una ricerca di semplicità che sconfina sovente nell’eccesso di semplificazione, a tutto scapito
dell’approfondimento e del disvelamento del significato dei singoli avvenimenti.
Il secondo ordine di impedimenti allo sviluppo — più in Italia che
negli altri paesi — è rappresentato dalla preponderanza di tradizioni culturali che hanno sia pur involontariamente (ma forse non sempre) schiacciato lo sviluppo autonomo delle relazioni internazionali. Diritto internazionale e storia diplomatica (o, come più tradizionalmente si dice, o
si diceva, storia dei trattati) appartengono a famiglie culturali e accademiche ben più affermate e solide che — comprendendo al loro interno
l’analisi di elementi di internazionalità — hanno a lungo dominato l’ambito degli studi e lo sviluppo delle loro direzioni a favore delle prospettive storiografica e giuridica, il che è naturalmente corretto e comprensibile, ma non poteva tuttavia non andare a discapito dello sviluppo di
un approccio politologico alla stessa realtà. Così — essendo da un lato
lo storicismo crociano e dall’altro la scuola giuridica italiana così seguite
e diffuse nel paese — l’emergenza delle relazioni internazionali ha finito
per essere il risultato di una specie di guerra di lunga durata o di guerra
di indipendenza disciplinare combattuta (sia pure senza spargimento di
sangue!) tra storici e giuristi da una parte e internazionalisti dall’altra.
Un terzo ordine di problemi andrà infine individuato nella difficoltà
incontrata anche all’interno del raggruppamento politologico per ottenerne un riconoscimento di legittimità: benché in astratto nessuno contesti che le tre ripartizioni classiche della disciplina siano la scienza politica (strettamente intesa: cioè in quanto analisi della politica interna),
la scienza dell’amministrazione e le relazioni internazionali2, la più
2 E una prova — per quanto estrinseca — di ciò diedero le Edizioni del Mulino di Bologna
quando, inaugurando la sezione intestata ai «Fondamenti della scienza politica» della collana «La
nuova scienza», dedicarono i primi volumi alla Introduzione alla scienza politica di R. Dahl (1967),
a La pubblica amministrazione di F. Heady (1968), e a Le relazioni internazionali di K.W.
Deutsch (1970). Considerazioni in gran parte analoghe a quelle qui svolte, ma più polemiche,
faceva Papisca (1984) nel motivare le cause dell’arretratezza italiana, anche se con particolare
riguardo al settore dell’integrazione europea.
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Luigi Bonanate
scarsa propensione per la ricerca empirica che contraddistingue queste
ultime ha finito per collocarle sovente ai margini della comunità politologica, quasi sospingendole verso i lidi della filosofia politica oppure nella
piccola — per quanto abitata da più coinquilini — isola della teoria politica, altro ambito problematico in Italia scarsamente coltivato in quanto
tale (tant’è vero che non esiste alcun titolare di una cattedra con tale
nome in Italia, cosa che invece frequentemente si verifica all’estero).
Un ulteriore elemento va aggiunto al quadro: l’inevitabile periodo di
acritica accettazione del primato statunitense nella teoria delle relazioni internazionali ovviamente non ha che aumentato la lentezza della creazione
non tanto di un’identità nazionale (il che sarebbe fin ridicolo in una disciplina internazionalistica!) quanto piuttosto di una tematica originalmente
prodotta a partire delle esigenze conoscitive specifiche di chi opera nel nostro paese. Se la centralità statunitense nella politica mondiale — maturata
in particolare dopo il secondo conflitto mondiale — era naturalmente la
base a partire dalla quale gli studi internazionalistici ottennero in quel
paese finanziamenti, risorse e interesse, lo stesso — e con segno contrario
— si potrebbe forse dire dell’Italia che, a causa della sua assoluta marginalità internazionale (o della sua politica estera di «basso profilo»3) incontrerebbe così grandi difficoltà nello sviluppo della disciplina scientifica che
di quella dovrebbe occuparsi. Per dirla con le parole di uno dei politologi
italiani che hanno sempre mostrato grande interesse e sensibilità per le relazioni internazionali, «tanto più dinamica è la politica estera di uno stato,
tanto più ampia sarà probabilmente la domanda di studiosi e di operatori
internazionali e di conseguenza tanto più grande tenderà a essere anche
l’offerta» (Pasquino, 1977, p. 27).
Può anche darsi che questa specie di «legge economica» sia sufficiente
a giustificare l’arretratezza italiana in questi studi; ma la sua applicazione
comparativa lascia qualche perplessità: la Gran Bretagna — a lungo
massima potenza mondiale — o la Francia — che ha avuto a sua volta
una tradizione imperiale di tutto rispetto — dovrebbero allora sopravanzare di gran lunga il livello scientifico italiano, mentre le cose non
stanno così. Entrambi i paesi hanno avuto e hanno cultori di grande livello, ma non incomparabili a quelli italiani o tedeschi (per ricordare un
altro paese a lungo «senza politica estera»). La ragione di tutto ciò va
quindi piuttosto ricercata in aspetti culturali profondi e «nazionali» —
come si vede se si cerca di applicare la «legge» di Pasquino in modo
analogo, all’analisi della politica interna: lo sviluppo degli studi polito3 Per l'uso di questo formula, del resto estremamente frequente nell'analisi della politica
estera italiana, si veda il paragrafo 6, più avanti.
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logici italiani è certo ben più tardo e lento che quello statunitense, ma
non si potrebbe certo da ciò dedurre che la vita politica italiana è meno
intensa o meno ricca che quella statunitense (anzi!).
3. La via italiana alle relazioni internazionali
Se da un lato si deve riconoscere la lentezza con cui una cultura internazionalistica si è fatta strada nei paesi europei, dall’altra non si può
disconoscere che in tutti questi la situazione si è progressivamente e sensibilmente modificata — anche se va tenuto sempre ben presente che
ogni studioso europeo continua a considerarsi interlocutore del collega
statunitense e non degli altri europei (il che equivale quindi a ribadire il
primato scientifico della ricerca americana). Per quanto riguarda specificamente il caso italiano non è difficile distinguere, nella sua pur breve
storia, il succedersi fondamentalmente di due fasi: la prima, durata dal
1969 alla fine degli anni Settanta (a voler essere precisi, si potrebbe datare la fine di questa prima fase al 1976, per il motivo che tra poco si
dirà); la seconda, che giunge fino al 1987, anno che andrà considerato
non esclusivamente il punto d’arrivo cronologico, ma anche quello dell’avvio di una terza, nascente, fase.
Ma — come in tutte le storie che si rispettano — anche questa ha
un antefatto, o una preistoria, a cui è ora necessario far posto. La prova, infatti, della dipendenza generale degli studi internazionalistici italiani rispetto a quelli statunitensi si trova addirittura in anni precedenti
a quelli ricordati: è infatti già nel 1962 che la casa editrice Il Mulino
inizia a pubblicare la traduzione di una serie di volumi (di grande interesse) dedicati ai problemi degli armamenti, o più correttamente alla
fondazione degli studi strategici in quanto scienza politica. Escono
così il libro di Schelling e Halperin, Strategia e controllo degli armamenti,
quello di H. Bull, Controllo e disarmo nell’età dei missili, e quello curato
da Brennan, Controllo degli armamenti, disarmo e sicurezza nazionale
(ancora un altro seguirà l’anno successivo: La riduzione degli armamenti
di D. Frisch), ai quali tocca il compito di impostare e orientare i termini del dibattito — destinato a un grandissimo sviluppo, sia in Italia sia altrove — sul ruolo che gli armamenti (specie nella loro varietà nucleare) sono chiamati a giocare nella vita politica internazionale, e dunque anche nella teoria delle relazioni internazionali4.
4 È appena il caso di ricordare l’importanza che tale dibattito assume periodica. mente - specie
in riferimento alla sicurezza europea - come mostra anche l’accordo raggiunto 1’8 dicembre 1987 tra
Stati Uniti e Unione Sovietica per l’eliminazione dei missili intermedi (gli «euromissili»).
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Luigi Bonanate
E la verifica che quella scelta editoriale non poteva non influire sui primi
passi della disciplina italiana è rappresentata proprio dal fatto che uno
dei primissimi lavori di teoria delle relazioni internazionali pubblicati
in Italia è dedicato in larga misura al posto che gli armamenti (e in particolare la bomba atomica, con la sua minaccia) occupano nella politica
internazionale (Bonanate, 1971).
3.1. La prima fase (1969-1976)
Il tratto che contraddistingue i primissimi lavori di Umberto Gori
e Antonio Papisca, i due senior researcbers italiani, è indubbiamente quello
lasciato dalla loro provenienza da studi giuridici orientati verso i problemi dell’organizzazione internazionale (cfr. Gori, 1968; Papisca, 1969).
Non a caso essi dedicano i loro primi scritti di ampio respiro (il saggio
di Gori è di 85 pagine e quello di Papisca è un libro) all’evoluzione
dell’organizzazione internazionale dalla Società delle Nazioni all’ONU,
il primo, e al ruolo dell’ONU nelle consultazioni popolari, il secondo.
Ma accanto a questi primi scritti (pre-politologici!), Gori incomincia
a pubblicare su Futuribili (un periodico che si rifà all’impostazione proposta da Bertrand de Jouvenel) una serie di brevi articoli che possono
a buon diritto essere considerati come le prime prove italiane nel territorio delle relazioni internazionali strettamente intese: vi si parla di previsione, di teoria dei sistemi, di modelli (Gori, 1969b; 1969c; 1970a),
tre tematiche destinate ad andare incontro a fecondissimi sviluppi. Essi
offrono anche l’indicazione di quella che sarà, almeno in questo primo
periodo, la problematica particolarmente sviluppata da Gori: quella della
metodologia generale delle relazioni internazionali, alla ricerca del loro
fondamento epistemologico, del procedimento per la costruzione delle
teorie («empiriche», derivate cioè dai fatti e sui fatti controllabili; Gori,
1973b, p. 37), della tecnica per l’analisi della politica estera (Gori,
1973a). Come gli sviluppi ulteriori della produzione di Gori mostreranno, sarà proprio ancora sulle stesse linee — a cui andrà ad aggiungersi il filone di ricerca sulla pace — che egli orienterà le sue ricerche
maggiori.
Ma — una volta ricordato che sempre nel 1969 esce un altro dei
primi articoli di relazioni internazionali, quello del «laico» Gianfranco
Pasquino (Pasquino, 1969), che tuttavia è prevalentemente dedicato a
illustrare i termini di una grande disputa metodologica sviluppatasi negli
Stati Uniti e che in Italia non ha ancora materia prima perché vi si
Relazioni internazionali
21
trapianti5 — bisogna concentrarsi sull’anno 1973, il quale può a buon
diritto esser considerato quello della nascita ufficiale delle relazioni internazionali in Italia. Per coincidenza sono pubblicati infatti in quell’anno quelli che possono esser giudicati (anche per il loro respiro) i primi
tre libri a pieno titolo internazionalistici. Tutti e tre sono — ciascuno a
modo suo — introduttivi; analoghi dunque, ma tanto diversi da potersi
integrare reciprocamente invece che sovrapporre (Bonanate, 1973c; Gori
1973a; 1973b; Papisca, 1973).
L’Introduzione allo studio delle relazioni internazionali di Antonio Papisca (che sistematizza le dispense dei corsi già impartiti presso l’Università di Catania a partire dall’anno accademico 1970-71) appare, almeno per la varietà dei temi trattati, quello di più ampio respiro. Nella
sua prima metà affronta problemi metodologici, quali la delimitazione
del campo d’indagine della disciplina, la giustificazione della sua scientificità e quindi neutralità, gli approcci e le tecniche di ricerca disponibili. La seconda parte verte sul sistema internazionale, di per sé assunto
come «campo» specifico dell’analisi, all’interno del quale cioè opereranno
gli «attori» internazionali più diversi (dai singoli stati alle multinazionali, ai sindacati, agli organismi sovra-nazionali, ecc.), i quali obbediscono a un insieme di condizioni strutturali, riassunte attraverso la logica dei modelli di sistema (mutuata prevalentemente dall’impostazione
classica di Kaplan, 1957).
I due principali contributi di Gori al volume Relazioni internazionali.
Metodi e tecniche di analisi (in parte proveniente, come ricordato nella
Premessa di Giovanni Sartori, da un seminario svolto in collaborazione
con l’Istituto diplomatico e con la Società italiana per l’organizzazione
internazionale) sono meno sistematici, ma si pongono a un livello di elaborazione già più «maturo» o consapevole delle capacità della nuova disciplina: nel capitolo dedicato ai recenti sviluppi nello studio delle relazioni internazionali (Gori, 1973b), si accostano ai riferimenti canonici
sulle questioni epistemologiche indicazioni sul procedimento rivolto alla
costruzione delle teorie, sulle potenzialità racchiuse nell’appena sviluppatasi analisi quantitativa, sulla querelle metodologica che in conseguenza
dei recenti sviluppi disciplinari contrappone metodo classico e metodo
scientifico — quasi che il pubblico al quale Gori intende rivolgersi sia
quello della nascente comunità scientifica italiana piuttosto che degli studenti dei primi corsi di relazioni internazionali. Considerazioni analoghe
Si trattava della polemica aperta dal saggio di H. Bull (1966), in cui si mettevano in discussione i meriti dell’allora trionfante approccio scientifico-quantitativo nell’analisi internazionalistica.
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Luigi Bonanate
valgono per l’altro capitolo contenuto nello stesso volume (Gori, 1973a),
nel quale il riferimento è invece ai policy-makers italiani che egli cerca
di indirizzare verso un’elaborazione della politica estera nazionale tecnicamente più sofisticata.
L’Introduzione all’analisi politica internazionale di Luigi Bonanate è
di nuovo rivolta agli studenti più che agli studiosi, ma obbedisce a un
progetto certo più ambizioso (altra cosa è valutare se i risultati corrispondano alle intenzioni): la fondazione originale di una metodologia
della disciplina che, pur rientrando fondamentalmente nel solco della
tradizione statunitense, la integri con la consapevolezza dell’inscindibilità delle relazioni internazionali dal più ampio mondo della politica tout
court, lo studio della quale richiede a sua volta il riferimento non esclusivamente a problemi empirici bensì anche teoretici e filosofici. A differenza degli altri due lavori, quest’ultimo si chiude con la proposta di
un modello di analisi che, pur senza rinunciare alla neutralità scientifica, mira a sviluppare un’ipotesi interpretativa, che non può — per natura — che esser considerata soltanto come una spiegazione possibile, e
non il risultato di una continua accumulazione di dati. Anche in questo
caso — come in quello di Papisca — la scelta operativa cade sulla teorica
del sistema internazionale, del quale si propone di individuare il sistema
di ipotesi (ne vengono indicate cinque, che sono tra loro gerarchicamente
collegate) che ne regge il funzionamento e che quindi mira a spiegarlo.
Se con le note precedenti si è dato conto di quello che potrebbe esser
considerato il corpus ufficiale che dà vita alla disciplina delle relazioni
internazionali, non si dovrà da ciò concludere che nessun altro — prima
o nello stesso periodo — si sia occupato in Italia di tematiche internazionalistiche. Va così ricordato — almeno a titolo di esempio — che studiosi provenienti dal diritto internazionale o dalla storia delle relazioni
internazionali pubblicarono tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni
Settanta corsi universitari esplicitamente intestati alle relazioni internazionali. Giorgio Cansacchi ripubblica nel 1972, con il titolo I principi
informatori delle relazioni internazionali, le lezioni prima note come Storia
dei trattati e politica internazionale, alle quali nella nuova versione premette alcune pagine introduttive dedicate alla nuova disciplina (che egli
considera «alquanto generica» sia per quanto attiene all’indirizzo generale di
ricerca sia per quanto riguarda le «dubbiosità che si profilano in
ordine ai metodi di indagine »)6. Di tutt’altro respiro — specie per
quanto riguarda la valutazione sulla legittimità dell’approccio politolo6 I due testi (Cansacchi, 1965; 1972) si scambiano titolo e sottotitolo. Il contenuto è sostanzialmente invariato. I riferimenti testuali sono a p. 3 e a p. 4 di Cansacchi, 1972.
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gico alle relazioni internazionali — sono le dispense dei corsi tenuti all’Università di Padova da Ennio Di Nolfo tra il 1970 e il 1976 (nel 1977
egli sarà titolare di relazioni internazionali presso la Libera università
internazionale degli studi sociali) significativamente intitolate Per una
teoria empirica delle relazioni internazionali.
Se — per quanto ciascuno dal suo punto di vista professionale e culturale — Cansacchi e Di Nolfo accentuano ben più di quanto non farebbe un politologo la funzione esplicativa dell’analisi storiografica, molti
altri interventi sul terreno internazionalistico si verificano nello stesso
periodo — anche in ambito non accademico — specialmente nel settore
degli studi strategici, o più in generale della sicurezza internazionale.
Questi — si vedano ad esempio i lavori di Aliboni, Calogero, Devoto,
Merlini, Silvestri — si pongono a un livello intermedio tra ínformazíone
e analisi, e hanno il merito di discutere la politica ufficiale del nostro
paese in questa materia centrando le loro analisi sul prodotto di ricerche
invece che di valutazioni partitiche (significativamente l’Istituto Affari
Internazionali — il primo centro di ricerca non universitario fondato in
Italia su temi internazionali che assomigli ad analoghe e ben più annose
istituzioni anglosassoni — inaugura la sua attività nel 1965).
3.2. Il 1976
La ragione che può consigliare di segnalare il 1976 come svolta negli
studi internazionalistici italiani dipende in primo luogo dall’avvenuto
consolidamento accademico delle relazioni internazionali, in seguito all’assegnazione delle prime tre cattedre nell’ambito del concorso per professori di ruolo nel settore della scienza politica conclusosi nell’autunno
1975 (i tre vincitori sono Gori, Papisca e Bonanate). Accanto a ciò va
ricordato che nel 1976 viene pubblicata in Italia la prima antologia intesa
a presentare al pubblico italiano l’impostazione della ricerca internazionalistica di matrice statunitense, la quale resta in ogni caso il punto
di riferimento culturale. Ne Il sistema delle relazioni internazionali (1976,
a cura di L. Bonanate) sono tradotti nove saggi giudicati particolarmente
rappresentativi ed emblematici delle diverse direzioni di ricerca — dal
problema dei livelli analitici a quello della definizione del concetto di
sistema; dai modelli sulla logica polaristica alle cause dell’arretratezza
della politica internazionale rispetto a quella interna; dal rapporto tra
politica e diritto all’impostazione dell’analisi dei collegamenti tra «interno» ed «esterno». In tutti i saggi prevale l’elemento metodologico,
l’attenzione per il quale è giudicata — per quanto con diverse conside-
24
Luigi Bonanate
razioni critiche — fondamentale nella nascente riflessione italiana. Va
messo in evidenza — specie a titolo di promemoria rispetto alle osservazioni che si svolgeranno più avanti — il carattere del tutto teorico dei
nove scritti scelti, quasi che la politica internazionale sia una materia
astratta e del tutto priva di contatti con la realtà, ciò che in effetti sarebbe ovviamente falso. Quel che con tale scelta piuttosto si mirava ad
argomentare era la natura effettivamente teoretica delle relazioni internazionali in quanto disciplina, rivolte cioè alla costruzione di modelli
interpretativi che — prima ancora che adatti alla sperimentazione, in
corpore vili, nell’attualità politica internazionale — siano dotati delle credenziali scientifiche che vengono più facilmente riconosciute ai programmi
di ricerca contraddistinti da un autonomo e originale apparato metodologico e teorico.
Sempre nello stesso anno si manifesta il primo segno della continuità
professionale, con la pubblicazione del primo libro di un «allievo». Si
tratta de I conflitti internazionali (Attinà, 1976), che è un tentativo di
presentare alla cultura italiana gli interessanti e fecondi risultati di uno
dei settori di ricerca più attivi e vivaci negli Stati Uniti: la ricerca quantitativa, che ha alla sua base i pionieristici lavori di Q. Wright, L. Richardson, D. Singer. Va segnalato a questo proposito che il libro viene
pubblicato in quella che era allora la prima (ed è rimasta tuttora l’unica)
collana editoriale dedicata espressamente alle relazioni internazionali7.
Contraddistingue ancora il 1976 il fatto che nella primavera di quell’anno viene organizzata — a cura dell’Istituto di studi nordamericani
di Bologna — una tavola rotonda dal titolo «L’insegnamento e la teoria
delle relazioni internazionali negli Stati Uniti e in Italia» (AA.VV., 1977),
che rappresenta la prima occasione in assoluto in cui in Italia un gruppo
di studiosi discute sui primi passi della neonata disciplina. Il seminario
comprendeva le relazioni di E. Krippendorff, E. Di Nolfo, G. Pasquino,
L. Bonanate, A. Papisca, R. Strassoldo, F. Attinà (parteciparono al dibattito anche G. Calchi Novati, P. Calzini, A. Gentili, U. Gori, G. Kaufmann, A. Panebianco, J. Petersen, S. Pistone). Il taglio degli interventi
è fondazionale: si va così dalla ricostruzione storica della disciplina ai
dubbi sulla consistenza della politica estera italiana, dall’utilità della disciplina ai fini della comprensione della realtà internazionale ai problemi di
impianto che essa deve affrontare, dalla individuazione di una «so7 Si tratta della collana «Scienza politica e relazioni internazionali», diretta da U. Gori, per l’editore
Franco Angeli di Milano. F. Attinà aveva già pubblicato diversi saggi, di minor respiro, negli anni
precedenti, alcuni dei quali ancora in collaborazione con Gori. Cfr. Attinà, 1973a; 1973b.
Relazioni internazionali
25
ciologia» delle relazioni internazionali al bilancio dell’esperienza accademica maturata in quei primissimi anni.
Nel 1976 infine viene pubblicato un importante Dizionario di politica
(Bobbio e Matteucci, 1976), il quale svolge nei confronti della scienza
politica — e a un livello ovviamente più elevato, dato il ben maggiore
sviluppo di quegli studi in Italia — una funzione di consolidamento disciplinare grazie al tentativo di offrire al pubblico italiano uno strumento
di riferimento inteso a costruire e poi divulgare un linguaggio comune
e chiaro per discutere di politica. A noi interessa in questo quadro il
fatto che molte voci vennero dedicate ad argomenti internazionalistici,
e che a redarle furono chiamati diversi cultori di relazioni internazionali, ma non esclusivamente: tanto che la voce Politica internazionale fu
affidata a S. Pistone8 e che soltanto nella seconda edizione dell’opera
(1983) compare il lemma Relazioni internazionali, ancora a cura di Pistone.
Grazie alla grande accelerazione impressa alla disciplina dalla svolta
del 1976, la ricostruzione del periodo successivo non può più svolgersi
unitariamente, ma richiede l’individuazione dei principali settori di interesse, ciascuno dei quali sarà caratterizzato da vicende e caratteristiche
specifiche.
3.3. 1976-1987
Facilita l’individuazione dei principali filoni di ricerca che si vanno
sviluppando a partire da questa seconda fase la storia stessa dei primi
internazionalisti italiani, dei quali ora per l’ultima volta (ecco un altro
segno del tempo) si potrà parlare come di protagonisti indisturbati. Infatti Gori, Papisca e Bonanate — proprio come in un mercato spontaneamente autoregolantesi — sviluppano il loro lavoro in tre direzioni diverse che soltanto raramente finiranno per incontrarsi (val la pena sottolineare — a titolo di testimonianza — che ciò non risultò né da accordi
né da divergenze: si trattava effettivamente del soggettivo perseguimento
di autonomi programmi di ricerca). Così. Gori affrontò da allora prevalentemente le tematiche della politica estera (sia alla ricerca di un fondamento scientifico per la sua analisi, sia nella ricerca empirica su quella
italiana) e della pace; Papisca sviluppò sempre maggiormente la tematica istituzionalistica, dapprima approfondendo — specialmente con riferimento al movimento che portò i governi dell’Europa comunitaria a
8 Allora professore di storia del pensiero politico contemporaneo, e ora di storia dell'integrazione europea
26
Luigi Bonanate
decidere di darsi un parlamento elettivo — i problemi dell’integrazione
europea, e poi inaugurando un sotto-settore del tutto nuovo nella nostra cultura, quello dell’integrazione non governativa, con riferimento
cioè a tutti quei fenomeni transnazionali sociali che potrebbero favorire
la democratizzazione della vita politica internazionale. Bonanate infine
sembrò da allora accantonare il prevalente interesse per l’analisi strategica della guerra (benché continuasse a scrivere anche di ciò)9 a favore
di quella rivolta alla natura dell’ambiente (il «sistema internazionale»)
del quale la guerra continua a essere la regina, affidando — a ciò spinto
dagli sviluppi dell’attualità — il proseguimento della sua ricerca sulla
violenza alla dimensione del terrorismo internazionale.
Anche se le risorse personali e intellettuali entrate nel campo internazionalistico dopo il 1976 non modificano drasticamente la situazione, è
indubbio che dopo questa data il ventaglio di interessi si allarga tanto
da portare la ricerca italiana su standard più simili a quelli statunitensi,
a riprova di un generale svecchiamento o di un recupero della cultura
italiana nei confronti dei grandi temi dibattuti nel mondo. Lo testimonia
il fatto che gli ambiti che incontrano l’accelerazione maggiore sono quelli
dell’analisi della politica estera — forse in corrispondenza di una nuova
(o «ritrovata»?) intraprendenza italiana sulla scena internazionale — e
della riflessione sui problemi della sicurezza, che toccano da vicino anche
il nostro paese, tanto più dopo che la famosa decisione sull’installazione
dei cosiddetti «euromissili» presa nel dicembre 1979 comportò la loro
localizzazione (per quanto riguardava l’Italia) nella base di Comiso. Ma
anche un altro elemento può esser considerato come un segno di avvenuta integrazione della nostra cultura nel dibattito internazionale: la ripresa della discussione sulle dimensioni etiche dei problemi internazionali, che era stata fino ad allora oggetto quasi esclusivo della riflessione
di Norberto Bobbio (Bobbio, 1962; 1965; 1966). Ed ecco cosi attirati
sul terreno della responsabilità etico-civile di fronte allo sviluppo delle
armi di distruzione totale romanzieri come Carlo Cassola (Cassola, 1976a;
1976b; 1978); storici come Luigi Cortesi (Cortesi, 1984; 1985a; 1985b);
filosofi come Carlo A. Viano (Viano, in Baroncelli e Pasini, 1987)10. As9 Cfr. ad esempio Bonanate, 1979a.
10 Queste indicazioni non sono che
emblematiche di una ben più vasta attenzione. Così, si
ricorderà - sempre soltanto come esempio - che anche Elsa Morante si interrogò sui Pro e
contro la bomba atomica, in una conferenza del 1965, pubblicata nel 1987; e che – in tutt’altro
ambito – una rivista come Problemi del socialismo dedica nei 1984 due interi fascicoli ai problemi
della guerra e della pace, contribuendo così a colmare una lacuna tradizionale della sinistra
italiana, la troppo sovente scarsa attenzione ai problemi internazionali.
Relazioni internazionali
27
sume addirittura le vesti di un vero e proprio movimento d’opinione
lo sviluppo del dibattito che si apre sulla responsabilità morale degli scienziati e che darà vita anche all’Unione degli scienziati per il disarmo
(USPID), la quale ha la benemerenza di aver avviato (in collaborazione
con l’Archivio disarmo) la pubblicazione italiana del più importante annuario internazionale sulla situazione degli armamenti nel mondo11.
Il decennio che va dal 1977 ai 1987 può in sostanza esser definito
come l’epoca della presa di coscienza della problematica internazionalistica e più ancora dello sviluppo di un pluralismo che è tanto scientifico
quanto civile, che spinge al dialogo e all’interscambio studiosi e movimenti di opinione, sia a carattere politico sia a carattere etico. Alla scarsa
informazione fino ad allora disponibile — specialmente per quanto riguarda la realtà degli armamenti e la dimensione della valutazione etica
(specialmente da parte dei gruppi cristiani) — si sostituisce un massiccio
intervento editoriale che colma il divario di conoscenze patito dalla pubblica opinione italiana fino ad allora, anche in conseguenza di un lento
e tardivo riconoscimento da parte dei partiti politici italiani dell’importanza di tali problematiche. Si sviluppa così anche in questo settore il
fenomeno — tipico del nostro paese — del «chierico vagante» che viene
chiamato a tenere conferenze, seminari, dibattiti in ogni parte del paese
e per ogni tipo di pubblico sui temi della pace, della sicurezza, del disarmo.
Come reagisce la professione internazionalistica a questa ventata
nuova? In primo luogo, con un sia pur minimo allargamento del suo reclutamento: accanto a Fulvio Attinà (associato di relazioni internazionali
a Catania) entra nel settore Carlo M. Santoro (che si associa nella stessa
materia all’Università di Bologna) il quale, provenendo dalla carriera
diplomatica e da precedenti interessi concentrati piuttosto sulla dimensione dell’economia internazionale converge verso la tematica politologica, sia presentando in Italia una raccolta di studi statunitensi sui
diversi aspetti della politica estera della massima potenza mondiale, sia
presentando la traduzione di un importante volume di S. Hoffmann,
ancora dedicato a un bilancio critico della politica estera statunitense12.
Attinà, a sua volta, si propone — specialmente con La politica internazionale contemporanea (Attinà, 1982a) — di offrire un panorama generale
della storia internazionale del nostro tempo interpretandola alla luce
degli strumenti di analisi politologici. Su una linea che non si discosta
11 Si tratta del World Armaments and Disarmament Sipri Yearbook, nato nel 1968, che dal
1984 è pubblicato anche in edizione italiana da Dedalo, Bari.
12 Si tratta di Santoro (1978a) e di S. Hoffmann, 1979. Si può osservare fin d’ora che la
politica statunitense resterà l’interesse prevalente di Santoro: cfr. Santoro, 1984a; 1986b.
28
Luigi Bonanate
molto da queste si muove, almeno ai suoi inizi, l’unico ricercatore di
ruolo effettivamente operante nelle relazioni internazionali, Giorgio Carnevali, con la sua analisi della categoria di interdipendenza (Carnevali,
1982a) e con uno dei primi approcci all’analisi della politica estera dei
partiti politici (Carnevali, 1982b). Un ulteriore cenno, a questo proposito, richiede l’inaugurazione a partire dal 1983, di un corso di dottorato in relazioni internazionali (coordinato all’Università di Padova da
Papisca) e di uno di scienza politica (coordinato a Firenze da Alberto
Spreafico), ai quali è affidato il reclutamento di nuovi studiosi.
La maggior ricchezza di forze intellettuali e di pubblicazioni così accumulata si presta a una qualche sistematizzazione — per correnti,
scuole, valutazioni, così come per la ben più solida professione statunitense si provarono a fare, alcuni anni fa, Alker e Biersteker (1984)? Individuando principalmente tre approcci all’analisi internazionale, essi
vi raccolsero intorno i nomi dei principali rappresentanti di ogni indirizzo, realizzando quella specie di «archeologia» delle relazioni internazionali che evocano nel loro titolo. I tre approcci sono: 1) quello tradizionale, che raccoglie al suo interno il pensiero realistico come quello
idealistico; 2) quello comportamentistico, che fa spazio sia ai neo-realisti
sia all’internazionalismo liberale; 3) quello dialettico, che si rivolge tanto
ai problemi della dependencia quanto agli sviluppi dell’internazionalismo
proletario (Alker e Biersteker, 1984, p. 130). Proiettando questa tripartizione sul caso italiano una prima constatazione si impone: è difficilissimo stabilire perentoriamente l’affiliazione degli studiosi italiani alle
diverse scuole (il che potrebbe in prima battuta essere spiegato nei termini di un loro eventuale eclettismo, tutt’altro che incomprensibile o
ingiustificabile data l’arretratezza italiana nella disciplina). Ma sarebbe
forse più preciso argomentare che i criteri distintivi — che pur ci sono
— potrebbero esser più perspicuamente ritrovati se ci si muovesse nella
direzione che va dalle tematiche scelte alla ricerca dell’approccio con cui
sono state affrontate, piuttosto che al contrario (come invece sembra
facciano Alker e Biersteker). Potremo così, in prima approssimazione,
individuare alcuni grandi campi di ricerca, lasciando da parte ora ogni
riferimento a tematiche di tipo metodologico, le quali ovviamente serviranno appunto per cogliere gli approcci caratteristici di ciascuno. Il primo
— almeno per le dimensioni — è rappresentato dal «sistema internazionale», considerato non tanto come il più ampio dei cerchi concentrici che contengono la realtà politica, quanto come arena ideale della
politica internazionale: gli altri sono la «politica estera», sia del singolo
stato sia nel suo intreccio con quella degli altri stati; l’«integrazione»,
in quanto fattore di pace, in primo luogo, e come movimento capace
Relazioni internazionali
29
di incidere sulla natura stessa della vita internazionale; la «sicurezza internazionale», comprensiva della problematica strategica pura nonché
dei problemi empirici cui la ricerca di sicurezza (o la sua perdita) dà vita.
Come si distribuiscono i contributi italiani allo studio di questi problemi, nelle quattro sezioni individuate? Se il primo dei criteri di Alker
e Biersteker — che risente delle polemiche, ormai un po’ superate, di
una fase iniziale della disciplina — viene corretto con quello che si può
definire un «approccio teoretico», inteso come riferimento costante a
un sistema interpretativo generale (rientri poi esso nel modo di procedere tipico dell’idealista o del realista è una questione successiva), ecco
che la loro proposta può essere applicata anche al nostro caso. Vedremo
così che la problematica del sistema internazionale è affrontata da Bonanate in modo prevalentemente teoretico, da Attinà in modo comportamentistico e da Carnevali in modo dialettico. Il livello della politica
estera sarà oggetto principalmente di analisi comportamentistiche compiute da Gori e da Santoro. La problematica dell’integrazione sarà affrontata da Gori in termini teoretici, da Papisca sia in termini teoretici
sia in termini comportamentistici e da Carnevali ancora in modo comportamentistico. La sicurezza internazionale infine sarà oggetto teoretico per Bonanate, comportamentistico per Santoro e per la maggior parte
degli studiosi «non accademici» (dei quali si parlerà più avanti); a questa
problematica si accosteranno infine in termini dialettici i lavori che emanano in qualche modo dalle attività dei movimenti culturali impegnati
nella trasformazione della società.
Pur non potendosi sopravvalutare il valore essenzialmente impressionistico di questa catalogazione, non di meno emerge in modo abbastanza chiaro la prevalenza dei primi due approcci rispetto al terzo, la
superiorità (quantitativa) del secondo sul primo, l’incapacità attuale di
coprire esaurientemente tutte e dodici le combinazioni possibili (quattro
restano del tutto scoperte). Essa consente comunque di scattare una fotografia di gruppo sufficientemente approssimata allo stato della ricerca
internazionalistica fino agli anni più vicini a noi, anche se altri giovani
studiosi più recentemente stanno facendo il loro ingresso sulla scena (come
Luciano Bozzo ricercatore a Firenze in relazioni internazionali, Gabriele
Patrizio, Susanna Bacci, Marco Cesa e Walter Coralluzzo, dottori di
ricerca, e Pierangelo Isernia e Fabio Armao dottorandi).
Svolge, ancora una volta, la funzione di cerniera una nuova antologia, Teoria e analisi nelle relazioni internazionali, curata da Bonanate
e Santoro (1986), la quale si segnala, in primo luogo, per l’allargamento
della prospettiva: non più soltanto la presentazione di lavori di impostazione generale, ma anche introduzioni all’analisi empirica (come mo-
30
Luigi Bonanate
stra la scansione tra una parte dedicata alla teoria contemporanea e una
seconda rivolta ai modelli interpretativi e alle teorie strategiche); e poi
per l’immagine di consolidamento disciplinare che propone, con un’introduzione alla prima parte che delinea una storia mondiale della disciplina fin dalle sue origini, e l’introduzione alla seconda che mostra l’«operazionalizzabilità» dei concetti ai fini della ricerca empirica. In alcuni
casi, inoltre, la scelta dei saggi ha ovviamente un chiaro scopo propositivo, come nel caso del saggio di S. Krasner sul concetto — attualmente
al centro di un vivacissimo dibattito negli Stati Uniti — di regime internazionale, o come di quelli di Snyder sul dilemma della sicurezza e
di Levy sulla categoria di guerra mondiale. Non è da trascurare infine
la notazione — per quanto estrinseca — che questa venga ospitata, finalmente, in una collana editoriale esplicitamente rivolta al pubblico studentesco, pubblicata da una delle case editrici più impegnate nel settore, Il Mulino, quasi consacrando il riconoscimento accademico della
disciplina delle relazioni internazionali, ribadito poi anche dalla pubblicazione, sempre presso lo stesso editare, della traduzione di una delle
più importanti opere di teoria generale delle relazioni internazionali degli
ultimi 25 anni, la Teoria della politica internazionale di K.N. Waltz
(dunque più fortunata dell’ancora più famoso Politics among Nations di
H.J. Morgenthau, mai tradotto in italiano).
4. Alla ricerca dei criteri di rilevanza degli studi internazionalistici
Se costruita con le maglie straordinariamente strette e fitte della mera
appartenenza professionale-accademica, la rete che ci dovrà servire a selezionare gli studi che compongono il pensiero italiano sulla vita internazionale non raccoglierebbe che pochissimi lavori di altrettanto pochi
studiosi — poche migliaia di pagine. Ma se le maglie si allargassero tanto
da includere tutti quegli scritti che hanno tematiche internazionalistiche
per oggetto, ci troveremmo di fronte a una mole di scritti impossibile
da dominare e da ricondurre a un qualche principio sistematico. È così
necessario — dopo aver individuato gli approcci prevalenti e prima di
averne analizzato la fecondità in relazione alla diverse aree tematiche
— dotarsi di un qualche criterio selettivo che si sforzi di essere quanto
più neutrale possibile: compito tanto necessario quanto delicato, se non
ci si vuoi ergere arrogantemente a giudici del lavoro altrui, a depositari
dei principi di inclusione ed esclusione di una comunità scientifica.
A prima vista, il criterio di base sembra discendere proprio da quest’ultima parola: la scientificità. Ma che cosa distingue un’analisi «scien-
Relazioni internazionali
31
tifica» della politica, estera italiana, ad esempio, da una che tale non è?
Soltanto l’assenza o la presenza di un esplicito ricorso a giudizi di valore,
o ideologici, la volontà interpretativa della prima contro la mera
descrittività della seconda? Ma forse che un’analisi descrittiva vale meno
che una interpretativa, la quale a sua volta — proprio per questo suo intento — può rivelarsi meno utile o accettabile? La portata di queste domande va ben al di là — è ovvio — del nostro attuale problema, riguardando in effetti qualsiasi settore di ricerca. Ma almeno ai fini operativi
che ci siamo proposti — come selezionare la letteratura rilevante nel nostro settore — è possibile proporre qualche distinzione, individuando innanzi tutto i livelli di impegno a cui i diversi lavori possono esser classificati. La cosiddetta «ricerca scientifica» può, a sua volta e in primo luogo,
esser assoggettata a una distinzione interna tra lavori scientifici teorici,
e lavori scientifici ma applicativi: saranno del primo tipo le ricerche totalmente astratte e prive di riferimenti specifici alla realtà; rientreranno
nel secondo i programmi di ricerca che si propongono di applicare una
teoria o un modello interpretativo. Accanto a questa prima coppia ne
esiste una seconda — programmaticamente non scientifica — la quale si
organizza intorno a intenti descrittivo-informativi, da un lato, e all’intervento o all’influenza politica, dall’altro (casi — come vedremo più
avanti. — molto frequenti). Non si può escludere inoltre che ciascuna
delle quattro intenzionalità messe ora in evidenza obbedisca poi a qualche
fine operativo-propositivo, come quando in uno scritto in cui si espongono le potenzialità dell’arsenale nucleare si giunga a proporre che il proprio paese lo sviluppi, oppure e al contrario si perori l’abolizione di tutti
i tipi di armamento13.
Va da sé che, in generale, qualsiasi studio, nel momento in cui lascia
spazio alla valutazione politica, cessa di essere scientifico (il che non vuol
dire che debba anche risultare meno interessante!); analogamente il
lavoro di un giornalista può offrire sia all’opinione pubblica sia anche
allo studioso occasioni di riflessione di estremo interesse. Non essendo
dunque giusto negare ad alcuna di queste quattro possibilità di venir
esercitata, la distinzione fondamentale che dovremo porre alla base
della nostra selezione discenderà dal rapporto in cui il singolo lavoro
si colloca rispetto alla teoria: considereremo «scientifici» (almeno fino
a prova contraria) quei lavori che conducono a formulazioni teoriche o
13 Come osservava Papisca (1974a), in un’opera dedicata alle istituzioni europee,
«ciò che vien fatto passare per “scienza politica” è in realtà opera di saggistica, intesa
a volgarizzare e diffondere (...). Il suo scopo non è fare teoria, ma informare e sensibilizzare l’opinione pubblica» (p. 31).
32
Luigi Bonanate
che da queste discendono, che producono deduttivamente teoria o che
induttivamente la applicano (potendosi far rientrare in questo ambito
anche tutto il lavoro di chiarificazione concettuale, che è sovente descrittivo, ma non per questo meno fecondo); saranno esclusi dalla nostra sfera di interesse tutti quei lavori — oltre ovviamente a quelli che
hanno espliciti fini operativi o propagandistici — che si limitano alla
mera cronaca, che non favoriscono neppure una qualche forma di accumulazione di dati (il che non sempre comporta che siano anche inutili).
Nei termini ricognitivi che ci interessano — e che hanno presieduto
quindi alla selezione bibliografica che correda questa sezione — ciò comporta che nella nostra bibliografia dovrebbero ritrovarsi tutti gli scritti
(salvo eccezionalmente scritti brevissimi non sempre originali) «scientifici» — il che consente anche, in un caso come il nostro (che non è caratterizzato né da troppi cultori né da troppi scritti) di offrire un’informazione completa — più tutti quelli (ma con maggior rigore selettivo)
che pur senza apportare novità scientifiche nel settore delle relazioni
internazionali ne coltivano con neutralità di analisi le tematiche prevalenti. Va da sé naturalmente che questi criteri verranno utilizzati in modo
vieppiù restrittivo man mano che ci si allontanerà dai lavori di più ampio
respiro e si entrerà in quelli di tipo giornalistico.
Non resta dunque che indicare a quali capitoli ideali di un ancora
mai scritto trattato italiano di relazioni internazionali i presupposti appena illustrati dovranno applicarsi. Non esiste — tuttora — nel mondo
che un solo esempio di presentazione generale della problematica delle
relazioni internazionali, quella contenuta nel volume VIII dell’Handbook of
Political Science (Greenstein e Polsby, 1975), i cui sei capitoli erano dedicati
alla teoria delle relazioni internazionali (Waltz), alla ricerca empiricoquantitativa (Zinnes), al sistema politico mondiale (Quester), alla
sicurezza nazionale (Smoke), all’interdipendenza e integrazione (Keohane)
e al diritto internazionale (Lipson); il tutto in meno di 500 pagine.
Essendo questa scansione ancora estremamente sintetica, può esser il
caso — almeno come ipotesi di lavoro su cui ritornare una volta che si
sarà consolidata la disciplina — di osservare che un’impostazione sistematica dell’analisi politica internazionale dovrebbe distinguere innanzi
tutto due grandi sezioni: una dedicata ai «fondamenti della disciplina»
e un’altra riservata ai «principi di analisi». Nella prima parte si distingueranno poi tre capitoli dedicati: 1) alla natura della vita internazionale,
affrontata a partire dal concetto di stato e dalla sua evoluzione storica,
nei suoi diversi aspetti politico, economico, sociale, giuridico; 2) alla
metodologia, la quale da un lato dovrà occuparsi delle questioni epistemologiche, dei problemi di confine con altre discipline, dei rapporti
Relazioni internazionali
33
tra la politica negli stati e tra gli stati; e dall’altro delle tecniche di ricerca, qualitative e quantitative; 3) alle teorie, che offrono grandi strumenti
di analisi, come l’equilibrio di potenza, l’utilizzo della teorica del sistema
internazionale, l’interpretazione alla luce del concetto di imperialismo. La
seconda parte dovrà sviluppare l’analisi delle vicende internazionali, in relazione, 4) alla politica estera, sia in termini soggettivi sia nell’intreccio che ciascuna determina con altre, dando vita a configurazioni come sistemi di
alleanze, modelli di integrazione, ecc.; 5) alla guerra e alla pace, con riferimento alla nozione di violenza da un lato e di ordine dall’altro (questo
sarà certamente il capitolo più lungo»; 6) alla sicurezza, categoria specifica,
ma centrale nella vita degli stati, sia per quanto riguarda l’esigenza di
perseguirla, sia per quanto riguarda le sue condizioni internazionali e, infine, 7) all’ordine internazionale, inteso come quel progressivo programma di
fuoriuscita dall’anarchia che sempre più insistentemente si va precisando
(anche grazie alla caduta di quasi tutti i simboli della «guerra fredda»,
muro di Berlino compreso) e concretizzando in forme integrative di
straordinario interesse.
Indubbiamente nella nostra cultura scientifica le risorse, intellettuali
e umane, per realizzare un così ambizioso progetto non sono ancora disponibili: basta constatare, sia detto senza sfiducia nell’opera di alcuno, che
esempi come quello del Politics among Nations di Morgenthau (1948) o di
Paix et guerre entre les nations di Aron (1962) sono tuttora improponibili,
nella loro capacità di dominare il complesso della realtà internazionale alla luce di una teoria e basandosi su una tecnica di analisi. Ma si entra così ormai nella fase della valutazione specifica della produzione internazionalistica e quindi — avvertito infine che saranno soltanto quattro le sezioni in cui ora verrà organizzata l’analisi, per non spezzettarla troppo di
fronte all’esiguità che alcuni capitoli tutt’ora esibirebbero — si passerà
nelle pagine seguenti a questo bilancio, concentrando in un solo paragrafo i primi tre punti sopra esposti, e conservando invece l’autonomia dei
tre successivi.
5. Metodologia e teorie generali
Ribadito che quanto verrà ora discusso non potrà non ispirarsi alle
osservazioni già svolte a proposito della «via italiana alle relazioni internazionali» (si veda il paragrafo 3), scontatane dunque la natura «primitiva» e fondazionale — in assenza di una tradizione condivisa e quindi
di punti di riferimento consolidati — si dovrà preliminarmente avvertire che in generale l’apporto italiano all’analisi delle relazioni interna-
34
Luigi Bonanate
zionali si mantiene, nella stragrande maggioranza dei casi, a livello propositivo piuttosto che applicativo, si rivolge al «come» e al «perché» fare,
piuttosto che direttamente al «fare» — come inevitabilmente succede
alle culture «povere» o quando sono nella loro fase iniziale, in cui le risorse per la ricerca empirica sono molto più difficili da rinvenire che
non quelle per la riflessione di carattere generale (va aggiunto inoltre,
non a scopo autodenigratorio, bensì autocritico e consapevole, che anche
nei diversi ambiti nei quali la ricerca si è potuta sviluppare ciò è successo sovente in modo rapsodico e non sistematico — ancora e sempre
a causa della limitatezza delle risorse, più che altro umane e intellettuali).
5.1. Metodologia
Non è un caso che il primo importante volume curato da Gori (Bruschi, Gori e Attinà, 1973) si aprisse — imprevedibilmente — con un capitolo non-internazionalistico di un non-internazionalista (Bruschi), dedicato a Scienza, tecnica e senso comune, nel quale in sostanza ci si proponeva di
offrire agli internazionalisti futuri un background preliminare di
conoscenze epistemologiche (differenza tra senso comune e scienza, la
scoperta e la validazione, le proprietà del discorso scientifico, ecc.) che
offrissero una base condivisa alla ricerca ormai nascente, corrispondendo
così (probabilmente) al timore da Gori sovente (giustamente) manifestato
che la giovane disciplina cadesse immediatamente preda del discorso
comune, che si accontentasse di descrizioni cronistiche, e non si
attrezzasse con strumenti di autocontrollo. Il secondo capitolo di quel
libro, del resto, scritto appunto da Umberto Gori, sviluppava quell’intenzionalità applicandola «ufficialmente» alle relazioni internazionali:
così, dopo aver stabilito che la distinzione tra approcci storico-ricostruttivi
e giuridici da una parte e quello politologico dall’altra consiste nella natura nomotetica di quest’ultimo, di contro alla natura idiografica dei primi, si
discuteva della costruzione della teoria nelle relazioni internazionali e
della necessità che esse — in ossequio allo spirito prevalentemente
empirico-generalizzante della scienza politica — si sforzassero di operazionalizzare i loro concetti, specialmente attraverso il ricorso a tecniche
di analisi quantitative.
Scontava inevitabilmente questo primo programma — un interessante tentativo di procedere nel solco del quale era I conflitti internazionali di F. Attinà (1976c), che significativamente nel sottotitolo recitava
Analisi e misurazione — una sorta di dipendenza dai risultati metodologici raggiunti dalla ricerca statunitense, per certi versi troppo astratta
Relazioni internazionali
35
e «tecnologica» per il livello degli studi italiani. Il tentativo di colmare
il divario tra quella cultura e quella (più umanistica?) locale era invece
al centro del programma di ricerca contenuto nell’Introduzione all’analisi
politica internazionale di L. Bonanate (1973c), scritta esplicitamente a
fini didattici e intesa proprio a integrare la prospettiva internazionalistica
tra le scienze dell’uomo, senza trascurare tra queste ultime la filosofia
politica, alla quale veniva specificamente affidato il compito di sollevare i
problemi teorici principali — quali l’essenza della politica tra gli stati, la
discussione sulla natura dell’anarchia internazionale, la causa delle
guerre, e così via — ai quali cercare però una risposta empiricamente
fondata e controllata.
Si proponeva così in quel libro un percorso che portasse — dopo
aver chiarito la necessità di stabilire il punto di vista autonomo delle relazioni internazionali (risolvendo il cosiddetto «problema dei livelli analitici», impostato da D. Singer in un notissimo saggio del 196114) — alla
determinazione dello strumento di analisi fondamentale della realtà internazionale: il sistema internazionale, attorno al quale si intrecciano momento metodologico e proposta teorica. Riconoscere nel sistema internazionale il principale concetto internazionalistico non significa infatti
esclusivamente farne il sinonimo esterno del sistema politico interno, o
il corrispettivo materiale di quel che lo stato significa per i singoli cittadini che vi appartengono — il sistema internazionale, in altre parole,
non è semplicemente l’ambiente all’interno del quale gli stati interagiscono — bensì considerarlo l’elemento basilare attorno al quale ruotano
i singoli comportamenti, muovendo dal presupposto che lo stato esista,
in un certo senso, esclusivamente in funzione del sistema stesso, non
perché ne faccia materialmente parte, ma perché a quest’ultimo tocca
spiegare le ragioni del suo soggettivo comportamento. Il sistema internazionale rappresentava dunque in quell’impostazione uno strumento per
fare ordine concettuale nell’enorme massa di dati osservativi che sono
disponibili, più ancora (o prima che) uno strumento di spiegazione. La
portata metodologica di questa scelta non era senza conseguenze, impegnando il ricercatore che la accettasse a muoversi secondo regole
ipotetico-deduttive piuttosto che empirico-induttive, in ciò discostandosi non poco dalla impostazione prevalentemente condivisa nella letteratura statunitense, molto più interessata alla scoperta di correlazioni
empiriche, provenienti direttamente da dati osservativi, che non alla formulazione di ipotesi che inevitabilmente hanno un contenuto teorico,
14
Compreso anche in Bonanate (1976f).
36
Luigi Bonanate
il che dunque trasferisce il dibattito sul piano astratto dalla concorrenza
tra ipotesi 15.
Specialmente se riportata ai termini generali in cui tale questione fu al
centro di un vivacissimo dibattito sviluppatosi nel mondo anglosassone16,
essa mostra quanto difficile — se non astratto, e quindi inutile — sia
affrontare temi metodologici senza che si abbia in vista un qualche
problema concreto, empirico o teorico che poi esso sia. E quanto del
resto emerge da quella che può esser considerato l’unica discussione di
tipo metodologico finora svoltasi in Italia — nel 1973 — fra A. Panebianco e L. Bonanate. Riassumendo i termini della questione «tradizionescienza» nelle relazioni internazionali — se cioè debba continuare a
esser prediletto il metodo intuitivo che si fonda sulle conoscenze storicofilosofico-giuridiche, oppure se sia necessario affidarsi a più moderne
e sofisticate tecniche di indagine che si appoggino su ricche e inequivocabili raccolte di dati empirici — Panebianco finiva per sconfinare nell’altra questione metodologica (più arretrata, una sorta di battaglia di
retroguardia) che è rappresentata dalla discussione se le relazioni internazionali non siano altro che un settore della scienza politica oppure se
debbano esser considerate una disciplina autonoma. La sua risposta —
se esse vengono giudicate indipendenti l’una dall’altra «le connessioni
e i legami tra l’uno e l’altro livello vengono logicamente a trovarsi relegati in una sorta di “terra di nessuno” ove, teoricamente almeno, né lo
scienziato politico né il cultore di relazioni internazionali sono in grado
di muoversi con competenza» (Panebianco, 1973, p. 135) — veniva perentoriamente respinta da Bonanate, secondo il quale non soltanto la
temuta «terra di nessuno» non esisteva, ma anzi essa rappresentava proprio il territorio conquistando il quale l’internazionalista poteva mostrare
la sua autonomia problematica, e dunque il suo buon diritto a dotarsi
di strumenti metodologici specialistici. Il problema, in altri termini, non
era: chi dovesse occuparsi di che cosa; bensì: quali sono i rapporti che
intercorrono tra «interno» ed «esterno», tra politica interna e politica
internazionale17? Ai dubbi confinari Bonanate opponeva quindi la portata euristica dell’apparato concettuale offerto dal sistema internazionale, a patto che esso venisse utilizzato non nella sua versione empirico15 Si veda con quanta acrimonia Singer (Singer e Jones, 1972) diffidasse gli internazionalisti dallo
sconfinare dal procedimento induttivo in quello deduttivo pena la caduta nel folklore o
nell’astrologia (p. 3)!
16 Si veda la nota 5.
17 Questo stesso problema in una prospettiva più ampia sarà reimpostato in Bonanate
(1984a). Panebianco a sua volta ribadirà la sua posizione a favore della (con-?) fusione delle due
prospettive in Panebianco, 1986.
Relazioni internazionali
37
descrittiva, ma in quella teorico-ipotetica. Solo attraverso questa impostazione anche i limiti disciplinari che Panebianco intravvedeva nella
concezione delle relazioni internazionali di studiosi come Aron o Hoffmann — il primo dei quali enfatizzava la centralità analitica della
guerra, e il secondo l’assenza di qualsiasi principio di ordine, a differenza del caso della politica interna (Panebianco, 1973, p. 132) — venivano superati grazie alla capacità del concetto di sistema di mostrare,
in primo luogo, che la sommatoria delle politiche estere non conduceva
all’analisi politica internazionale, e in secondo che lo strumento del sistema aveva la duplice funzione di mettere ordine nelle conoscenze e
poi di offrirne un principio interpretativo (Bonanate, 1973b, p. 773),
costruendo la base a partire dalla quale soltanto le divergenze metodiche
(metodo empirico-quantitativo oppure ipotetico-deduttivo) potevano
venir ricondotte alla loro corretta natura di proposte alternative e concorrenziali, fugando così anche il timore che dietro il dibattito metodologico potessero nascondersi inesistenti (o ingiustificabili) insofferenze
inter-disciplinari.
Nei suoi termini generali, il dibattito metodologico non ha altro da
dire; anche se ovviamente ciascuno degli studiosi italiani aderisce a una
delle scuole esistenti nel mondo (anglosassone) e, nella sua pratica di
ricerca, si mostra sempre consapevole della necessità di rispettarne le
regole. Così, la linea perseguita da Gori si caratterizza e si distingue
per l’appello alla scientificità (prevalentemente garantita dai riferimenti
quantitativi), in ciò seguito ad esempio da F. Attinà, il quale offriva,
nel 1976 (Attinà, 1976c), un’interessante presentazione dello stato della
ricerca quantitativa, promuovendone dunque l’utilizzazione (ma senza
poi tenerne egli stesso sufficientemente conto). Così Papisca, la maggior parte degli studi del quale saranno dedicati a tematiche definibili
(per ora, e sinteticamente) «integrazionistiche», si terrà sempre nel solco
della più sofisticata e attenta metodologia elaborata nel settore; così C.
M. Santoro — il quale, come vedremo, rivolgerà parte dei suoi studi
più originali all’analisi della politica estera e ai problemi della sicurezza
— svilupperà su quei temi non esclusivamente un approccio empiricoricostruttivo, ma ne affronterà anche i risvolti metodologici discutendo
la modellistica prodotta al riguardo (cfr. ad esempio Santoro, 1987). Va aggiunto inoltre che mentre tale situazione contraddistingue gli studiosi «accademici» delle relazioni internazionali, qualche osservazione di diverso tenore richiederebbe la produzione «non scientifica» (nel senso precisato nel paragrafo 4), il rigore che manca alla quale effettivamente non
può che esser dovuto all’assenza di un solido apparato metodologico.
38
Luigi Bonanate
5 .2. Teoria e teorie
Considerando che in pratica scrivere dí teoria (nel senso generale della parola) o proporre (o applicare) una teoria sono due cose nettamente distinte
(così com’è diverso riferirsi alla teoria economica in generale, ad esempio,
dall’evocare la teoria keynesiana della moneta), dovremo affrontare, separatamente, questi due livelli — estremamente rarefatto il primo, un po’
più consistente il secondo.
Al primo livello — quello della teoria generale, ovvero dell’indagine teorico-definitoria del concetti — sono state affrontate essenzialmente due
problematiche, quella del sistema internazionale e quella dell’integrazione
sovranazionale: la prima da Bonanate, la seconda da Papisca. Entrambi faranno discendere — come si vedrà — dalla loro impostazione generale delle
specifiche proposte di analisi, cioè delle teorie nel secondo dei due sensi prima ricordati, collegando, nel primo caso, al concetto di sistema internazionale
una teoria dell’ordine internazionale; e nel secondo all’integrazione una teoria della dernocratizzazione della vita internazionale.
L’introduzione del concetto di sistema nella scienza politica, così come nelle
relazioni internazionali, appare ancora, dopo quasi 40 anni, uno dei grandi
momenti di svolta: The Political System di David Easton inaugurò quella che
sarebbe poi stata definita la «rivoluzione comportamentista», alla quale
toccò di imprimere un’enorme accelerazione allo sviluppo e alla specializzazione nello studio della politica (interna o internazionale che poi essa fosse)18. Dal 1957 poi (cioè quando M. Kaplan propose la prima estensione del
concetto di sistema alle relazioni internazionali con System and Process in International Politics) il «sistema internazionale» è diventato l’oggetto principale
delle riflessioni teoriche degli internazionalisti, sia per la sua natura onnicomprensiva — del comportamento soggettivo degli stati, delle ricostruzioni tipologiche e polaristiche che consente, dell’applicabilità a una pluralità di
soggetti anche non-stati, come le multinazionali, gli organismi sovranazionali, le «internazionali» partitiche, ecc. — sia per la sua fecondità, avendo
finito per ispirare la prima grande alternativa teorica a quello che fino ad allora era stato il solo vero modello di spiegazione elaborato per la vita internazionale: l’anarchia19.
Per un bilancio storico-teorico di questa vicenda, cfr. Easton, 1985.
Anche se il primo tentativo di introdurre ii concetto di sistema nella teoria delle relazioni internazionali finì per rivelarsi piuttosto contraddittorio, dato che K. Waltz (1959) definì l’anarchia internazionale come il segno distintivo del sistema internazionale! Cfr. a questo riguardo l’Introduzione (Bonanate, 1987a) a Waltz (1987).
18
19
Relazioni internazionali
39
Nei suoi termini generali, il concetto di sistema internazionale è studiato e discusso da Bonanate in due saggi (1979b; 1981b) destinati a
due diversi volumi de Il mondo contemporaneo diretto da Nicola Tran- faglia.
Nel primo vengono presentati — con particolare attenzione per la
ricostruzione del dibattito internazionale — gli aspetti generali dell’utilizzazione di questo concetto, proponendo una serie di indicatori rivolti alla sua traduzione empirica e ai criteri per l’inclusione dei diversi
attori nella problematica del sistema, mostrando la capacità di quest’ultima di fondare un modo originale per affrontare la storia della politica
internazionale, applicandolo infine alla ricostruzione della struttura del
sistema internazionale contemporaneo. Ma era affidato piuttosto al saggio
successivo il compito di discutere il fondamento teorico del sistema internazionale, mettendone in primo luogo in evidenza la portata teoretica, non trattandosi di uno strumento inteso a descrivere i rapporti tra gli
stati — come invece in molti casi è successo — ma invece a studiarla,
fondandosi sull’ipotesi, tutt’altro che ovvia o consensuale, che soltanto
considerando la politica internazionale come se fosse un sistema (ciò che
materialmente non è!) sia possibile giungere a comprenderne la natura e
le caratteristiche. La teoria del sistema internazionale diviene così non la
via maestra lungo la quale ciascuno potrà scegliere dove soffermarsi, ma
al contrario una via concorrenziale rispetto ad altre, una proposta per
sua natura unilaterale, in quanto caratterizzata, inevitabilmente, da un
principio di selezione dei dati informativi giudicati rilevanti. Per non fare
che un esempio, in quel saggio si sosteneva che la sviluppatissima
letteratura sui sistemi bi- o multi- polari non fosse in grado di insegnarci
alcunché sulle ragioni dei comportamenti degli stati (data la loro matrice esclusivamente descrittiva), mentre il sistema internazionale realizza la sua natura teorica quando «propone una serie di principi che,
pur con grande attenzione nei confronti della realtà empirica, collochino
la realtà stessa al suo interno, in modo coerente e complessivo, anche
se probabilmente mai esaustivo» (Bonanate 1981b, p. 344)20.
Anche per verificare la centralità che l’integrazione ha nel pensiero
di Papisca, una coppia di saggi può esser utilizzata ai nostri fini. Nel
primo di essi, egli compie una amplissima ricognizione nel campo degli
studi sull’integrazione intesa come categoria analitica, rivendicando la
necessità di superare l’impasse che sembra essersi verificata in quel settore
(che egli valuta come «un intero campo teoretico»; Papisca, 1981a, p. 95)
se non si vuol perdere l’occasione di dominare uno dei fenomeni
20 Come si vedrà tra poco, questa impostazione .è finalizzata alla costruzione di una teoria dell’ordine politico internazionale.
40
Luigi Bonanate
più vistosi e — per quanto lenti — significativi della vita internazionale
contemporanea: lo sviluppo appunto di forme di integrazione regionale,
la più importante delle quali è da lui individuata nella Comunità europea.
La portata metodologico-teorica di questa constatazione è tale da portare l’autore a mettere in discussione, in primo luogo, l’esclusività, o
quanto meno la prevalenza, dell’attore-stato nel sistema internazionale,
e poi a proporre innovazioni in termini analitici, relative alla necessità
di studiare la nuova categoria di «collaborazione politica» a livello regionale, al modello parlamentaristico europeo con la conseguente originale sfera del comportamento elettorale su tale scala, alla prefigurazione
di elementi originali e forieri di democratizzazione che vengono attivati
dai successi dell’istanza integrativa.
Nel secondo saggio, Papisca affronta l’analisi delle ragioni che impediscono che il modello teorico integrazionistico trovi cultori e, perché
no?, sostenitori. Dopo aver inizialmente osservato che nel caso degli studi
sull’integrazione (europea, in particolare) non valgono le tradizionali ragioni di arretratezza affacciate per le relazioni internazionali — dato che
il campo dell’integrazione è, per natura, tanto internazionale quanto interno — egli ne individua di più specifiche, ambientali le une (come l’arretratezza della cultura politico-internazionalistica dei partiti politici italiani, lo scarso interesse per il tema e la disinformazione sovente fornita
dai mass-media, «l’imprecisa identità e la scarsa vitalità dei vari centri e
scuole di studi europei»; Papisca, 1984 a, p. 79) e disciplinari le altre
(l’ottica pervicacemente stato-centrica della scienza politica, con speciale
riferimento a quanto nel settore gli statunitensi hanno saputo fare — di
più e meglio che gli europei —, l’atteggiamento anti-europeistico e il disimpegno di gran parte della cultura politica, le ambiguità del pensiero
europeistico militante)21. La seconda parte — ricostruttiva, dopo quella
critica — del saggio (nella quale Papisca si sforza, coniando nuove parole, come «europologia», e espressioni come il «federatore reale», di
far percepire il senso di novità che caratterizza la sua problematica) è
dedicata ai diversi e successivi approcci analitici: quello funzionalistico
(o normativo), secondo il quale lo sviluppo della collaborazione economica precede quella politica e la innesta; quello neo-funzionalistico, nel
quale molta maggior attenzione è rivolta alle componenti politiche del
processo integrativo; quello eclettico, che osserva con ugual attenzione
diversi gruppi di variabili indipendenti (Papisca, 1984 a, pp. 87-89). Le
21 Particolare asprezza (e certo passione) mette Papisca nel criticare quest’ultimo, che vede
formato da «un gruppo di vestali che elevano preghiere e lanciano invocazioni dall’interno del tempio,
ma non si peritano di uscire sulla piazza» (Papisca, 1984a, p. 85).
Relazioni internazionali
41
conclusioni vertono sulla possibilità che la «politologia europeistica» abbia
un importante ruolo nel processo di rifondazione epistemologica della
scienza politica in generale, grazie alla convergenza di attenzioni che vengono tanto dall’interno quanto dall’esterno verso la tematica della political
economy che sembra capace, così come di rompere i tradizionali confini tra
analisi politica e analisi economica, di infrangere anche la separatezza tra
analisi della politica interna, analisi della politica europea, analisi della
politica internazionale22.
Possiamo così passare ora al settore delle teorie, ai sistemi esplicativi di
fondo cui diversi autori italiani hanno fatto riferimento nella loro ricostruzione della logica della politica internazionale. In un recente saggio
dedicato agli approcci italiani all’analisi politica internazionale, preparato per un periodico inglese, F. Attinà enuclea tre principali settori cui
gli studiosi italiani si sarebbero dedicati prevalentemente — l’analisi teorica del sistema internazionale, la politica estera, l’integrazione europea
(Attinà, 1987b, p. 326) — e i tre (dei quattro esistenti) paradigmi ai
quali nelle loro ricerche essi fanno riferimento: quello anarchicohobbesiano, quello comunitario-groziano, quello transnazionale-pluralistico (il quarto essendo quello economico-marxiano) (Ibid., p. 324). Settori
e paradigmi si corrisponderebbero almeno in parte, nello stesso ordine in
cui sono stati ora ricordati: così Io studio del sistema internazionale si
rifarebbe prevalentemente ad impostazioni anarchiche, quello della politica
estera (anche nella sua versione plurima, dell’incrocio tra politiche che
dà vita alla politica internazionale) al modello comunitario, quello
dell’integrazione al filone pluralistico.
La prima coppia è, delle tre, quella che certamente pretende la maggior attenzione, non fosse altro perché racchiude l’impostazione anarchica che è universalmente e secolarmente la più diffusa. Neppure la
pur scarna storia italiana della riflessione internazionalistica fa eccezione,
specie se si considera che uno dei più genuini e autonomi pensieri politici — quello federalistico — che l’Italia abbia conosciuto, tra il XIX e
il XX secolo (andando da Cattaneo a Bobbio, per intenderci) pone al
centro della giustificazione dello stato federale proprio la necessità di
superare la altrimenti incoercibile situazione di anarchia
internazionale23. Ma lo studioso che con più continuità e coerenza ha
applicato all’analisi internazionalistica le categorie federalistiche è un
22 Va ricordato infine che alla fondazione della problematica europeistica in chiave politologica Papisca aveva già dedicato diversi anni prima – come si è detto – un intero volume
(Papisca, 1974a).
23 Per la ricostruzione del percorso federalistico di Bobbio, cfr. Bonanate (in Bonanate e
Bovero, 1986), specialmente pp. 21-28.
42
Luigi Bonanate
«laico», Sergio Pistone, storico del pensiero politico e in particolare dell’integrazione europea, il quale fin dal 1973 introduceva in Italia i classici
— sia di scuola tedesca, come Ranke, Hintze, Dehio; sia di scuola
anglosassone, come Lothian e Robbins — sui quali appoggiava la sua interpretazione, ispirata al concetto di «politica di potenza», della natura
della politica internazionale (cfr. Pistone, 1973). Nella voce Relazioni
internazionali redatta per la seconda edizione del Dizionario di politica
(Bobbio, Matteucci e Pasquino, 1983), pur sforzandosi di recepire almeno in parte i risultati delle ricerche politologiche, che collocando al
centro del loro lavoro il concetto di sistema internazionale mettono in
evidenza gli aspetti conservatori e razionalizzatori dei rapporti internazionali, egli ribadisce che fin tanto che esisterà la sovranità non si potrà
negare «l’esistenza di una situazione anarchica» (Pistone, 1983, p. 974).
Se questa utilizzazione del concetto di anarchia internazionale si innesta in una tradizione di pensiero internazionalmente diffusa e condivisa, non è tuttavia quella a cui si riferiva Attinà nel saggio citato, nel
quale invece ricorda come Bonanate abbia cercato di raggiungere —
muovendo pur sempre dall’idea dell’anarchia — risultati del tutto opposti a quelli espressi dal pensiero federalistico. Il programma di fondare una teoria dell’ordine internazionale è incardinato da Bonanate su
una lettura analogica del pensiero hobbesiano: così come, secondo
Hobbes, gli individui per uscire dallo stato di natura si rassegnano a
conferire la loro quota-parte di sovranità naturale al Leviatano, così
(analogicamente) si può pensare che gli stati — anche per essi una
situazione di anarchia assoluta sarebbe insostenibile — si vengano a
trovare in rapporti di tale disuguaglianza reciproca che non possano più
esser considerati tutti ugualmente (qualitativamente e quantitativamente)
sovrani. Ma questa configurazione non sarebbe il risultato del caso o
della natura, bensì dell’esito di particolari guerre — definite «costituenti»
— alle quali, per la portata delle loro conseguenze, toccherebbe di
disegnare la struttura dei rapporti gerarchici pacifici che si instaurano tra
gli stati alla fine di una grande guerra (Bonanate, 1976c). Alla luce di
questa ipotesi — presentata non alla stregua di un dato di fatto, non
come frutto di una generalizzazione empirica, bensì in quanto proposta
teorica il cui scopo è di spiegare più e meglio di quanto non facciano le
altre teorie, anche se non tutto — la maggior parte degli scritti teorici
successivi di Bonanate (1980b; 1981c; 1984a; 1984b; 1985b; 1986a;
1986d) saranno dedicati al rafforzamento di questa impostazione al culmine della quale egli intravvede nel concetto di regime internazionale lo
strumento concettuale capace di mostrare nei fatti lo sviluppo di forme
di ordine nei rapporti internazionali (Bonanate, 1986b; Bonanate e San-
Relazioni internazionali
43
toro, 1986)24. In un altro suo saggio Attinà riassume il modello di Bonanate: «l’ordine viene imposto a ogni sistema internazionale dall’esito
di una guerra e lo stato o gli stati vincitori sono i soggetti costituenti
del sistema e del suo ordine» (Attinà, 1987a, p. 116), di cui mette tuttavia in evidenza l’eccessiva staticità nonché la difficoltà che incontra
a sistematizzare al suo interno la ricchezza e l’etrerogeneità delle variabili non esclusivamente politico-militari (Attinà, 1987b, p. 327).
Precisato che, per quanto riguarda la posizione di Bonanate, un elemento centrale della sua analisi è rappresentato dalla critica che svolge
del principio di equilibrio, che secondo la maggior parte degli studiosi
è la chiave di volta di ogni assetto (o sistema) internazionale — critica
ovviamente impostagli dal tentativo di sostituire l’ordine all’uguaglianza
internazionale (Bonanate, 1974b; 1984a), potremo affrontare il secondo
dei tre modelli evidenziati da Attinà, quello groziano, una premessa per
il passaggio al quale è rappresentato dalla posizione di Santoro, che accetta la posizione di Bonanate quanto al superamento dell’anarchia, ma
insiste più di quello sulla presenza di forme di organizzazione orizzontale tra gli stati, dovute più che a volontà pacifica, all’incapacità degli
stati dominanti di impedire che si verifichino forme di «diffusione di
potenza» (Santoro, 1981c), cioè di tentativi di stati di media levatura
o minori e insofferenti di liberarsi del dominio esercitato da quelli. Si
delinea così un’immagine meno rigida delle regole del gioco internazionale, che dà vita a un principio organizzativo fondato su convenzioni
e istituzioni che guidano ogni stato nella sua azione, consentendo di analizzare la politica internazionale come un «continuum teorico» nel quale
«l’organizzazione del sistema passa da una forma di pura democrazia orizzontale, nella quale convenzioni e istituzioni rispettano compiutamente
la parità degli stati, a una forma imperiale assoluta o verticale, nella quale
convenzioni e istituzioni favoriscono la sottomissione di tutti gli stati
alla volontà di uno solo» (Attinà, 1987b, p. 328).
L’ultimo dei paradigmi che secondo Attinà hanno avuto successo in
Italia è quello transnazional-pluralista, che guarda al di là degli stati nazionali (anzi ne critica la prepotenza) per segnalare lo sviluppo e il consolidarsi di un’altra forma di soggettività internazionale, quella rappresentata dai soggetti non-stati, in primo luogo «individui e masse che hanno
raggiunto la consapevolezza di essere soggetti internazionali primari in
quanto destinatari di diritti civili, politici, economici, sociali e cultu24 La letteratura sui «regimi internazionali» è oggi in pieno sviluppo. Cfr. Krasner, 1982 (Ia
traduzione del suo saggio introduttivo è compresa in Bonanate e Santoro, 1986). Per una rassegna,
cfr. Caffarena, 1987.
44
Luigi Bonanate
rali» (Ibid., p. 330). A questo filone può essere ricondotto innanzitutto il
pensiero di U. Gori — ancora una volta il primo ad affrontare la tematica della cosiddetta «diplomazia culturale» (Gori, I969a; 1970c;
1974b) — nonché quello di A. Papisca, il quale, come si è già visto, ha
rivolto sempre maggior attenzione ai temi di quello che potrebbe esser
considerato il «sistema sociale internazionale», guardando al quale nell’ottica della teoria dell’integrazione (come anche Gori, 1974a) egli approderà negli anni più recenti all’analisi di quegli «interstizi» che l’organizzazione internazionale a raggio globale riesce a creare nella struttura dell’ordine mondiale, grazie all’innesco di processi di partecipazione
politica (Papisca, 1987a, pp. 49, 57), destinati a introdurre per la prima
volta nella vita internazionale forme di vera e propria democrazia (per
tutt’altra via, e in base a tutt’altro tipo di osservazioni empiriche anche
Bonanate {1986a, 1987b] affronterà il tema dell’applicabilità del concetto di democrazia alla vita internazionale).
Seguendo una logica che esula dalla ricostruzione sintetica proposta
da Attinà, è possibile indicare ancora un altro filone teorico — estremamente attuale — che anche in Italia ha incontrato qualche attenzione:
si tratta del tentativo di coniugare teoria e storia proponendo una lettura della storia internazionale che si «pieghi» a un modello interpretativo di natura teorica. Questo approccio — che ha in I. Wallerstein il
suo sostenitore più recente, mentre risalendo nel tempo ci si potrebbe
rifare a studiosi come Q. Wright (1942) o A. Toynbee (1954) — mira
a cogliere (come direbbe G. Modelski, lo studioso oggi più attivo in questo
settore) i «cicli lunghi» della storia sforzandosi di scoprire addirittura
delle periodizzazioni sulla base delle quali sarebbe possibile determinare
la loro cadenza e dunque affrontare anche il miraggio della previsione
(cfr. Modelski, 1987a; 1987b). Possono esser ricondotti a tale impostazione alcuni lavori di Attinà (1983b; 1986a), tra i quali va segnalato il
tentativo di costruire anche un approccio originale (definito l’approccio
delle aggregazioni) inteso a interpretare la storia della politica internazionale contemporanea tenendo conto del «comportamento dei governi
di fronte all’interdipendenza, al planetarismo, alla politicizzazione diffusa e alla svalutazione della forza fisica» (Attinà, 1982a, p. 385); il volume di M. Cesa (1987) dedicato all’analisi storico-teorica del concetto di
equilibrio di potenza, che dovrebbe esser capace di offrire un principio
esplicativo alla politica internazionale di ogni tempo; un saggio di
Bonanate, nel quale — pur limitando l’ambito dell’analisi al periodo
1919-1985 — ci si propone di analizzare diversi modelli di periodizzazione (quello della «continuità», quello del «ciclo» e quello della «rottura») che vengono applicati alla storia della politica internazionale per
Relazioni internazionali
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capire se i diversi sistemi internazionali che si sono succeduti nella storia si
siano semplicemente innestati l’uno sull’altro secondo una logica incrementalistica, oppure se sia dato di scoprirvi una legge ciclica, o se infine —
e questa è la posizione sostenuta dall’autore — ciascun sistema internazionale debba esser considerato come il prodotto del crollo del sistema precedente e dunque analizzato nella sua specificità e unicità (Bonanate, 1986d).
Questo programma di ricerca meriterebbe maggior attenzione: basti
pensare ai problemi teorici e storiografici che un’innovazione come l’apparizione della bomba atomica crea sia alle logiche cicliche sia a quelle
dell’unicità: è possibile — in altri termini — una transizione «pacifica»
da un sistema a un altro? O al contrario: un’innovazione tecnologica (sia
pure di tanta portata) può sconvolgere le regole della vita internazionale? Quanto, ancora, la politica degli armamenti dirige la politica internazionale? — o ne è diretta? Si tratta di una serie di interrogativi che
con ogni probabilità susciteranno nel futuro prossimo crescente attenzione da parte dei teorici delle relazioni internazionali, non soltanto nella
comunità scientifica mondiale in generale, ma con ogni probabilità anche
in Italia. Non va scordato, del resto, che l’applicazione della teoria al
materiale empirico della storia offre agli internazionalisti una delle poche
(ma anche più suggestive) occasioni di ricerca empirica.
Un’ultima osservazione, prima di chiudere l’analisi di questo «capitolo» iniziale della ricerca internazionalistica italiana: come mai una cultura così sensibile all’approccio marxista all’analisi della politica non ha
prodotto alcuna sua estensione alle relazioni internazionali? Effettivamente — come osserva Attinà (1987b) — il filone di analisi dell’imperialismo non conosce sostanzialmente cultori italiani, fatte salve le analisi
specificamente economiche o le ricostruzioni storiografiche (come quelle
di Monteleone, 1974; 1979). Un solo saggio è esplicitamente dedicato
all’analisi marxista delle relazioni internazionali, ed è di un filosofo, Norberto Bobbio (1981), il quale del resto si propone di mostrare l’inutilizzabilità di tale approccio ai fini della spiegazione di quel momento fondamentale della vita internazionale che è la guerra. Tutte le diverse teorie
dell’imperialismo «devono essere considerate come teorie che non offrono strumenti adeguati per comprendere il fenomeno della guerra (...),
quel fenomeno che caratterizza da sempre i rapporti internazionali, verso
il quale è costantemente orientata la politica degli stati rivolta agli altri
stati e in base al quale si giudica la compiutezza o meno di una teoria
dei rapporti internazionali» (Bobbio, 1981, p. 312). La centralità della
guerra resta dunque inspiegata nella logica marxista, incapace di trasferire
correttamente sul piano internazionale il suo modello di analisi delle
46
Luigi Bonanate
classi all’interno dello stato — l’antitesi tra sfruttatori e sfruttati (Ibid.,
p. 309). A chi intravvedesse in questa critica un’applicazione dell’opposizione mostrata dal pensiero federalistico nei confronti del marxismo
— a cui è affine per quanto riguarda la necessità di superare la fase del
dominio dello stato: ma nel caso del federalismo si tratterà di erigere
un super-stato, in quello del marxismo di abolire ogni stato — risulterà
così del tutto ovvio che forse il solo altro tentativo di applicare il pensiero marxista alle relazioni internazionali sia quello compiuto da S. Pistone il quale (sempre nell’ottica federalistica) finirà per annullare il concetto di imperialismo facendone null’altro che una delle forme di analisi
che la teoria della ragion di stato adotta per giustificare l’esistenza della
cosiddetta anarchia internazionale (Pistone, 1983, lemma Imperialismo).
La questione è di portata tale da non poter essere risolta qui: va osservato ad ogni modo in primo luogo che è certo mancato (e non soltanto in Italia) uno sforzo serio e sistematico di aggiornare e ampliare
la dottrina leninista dell’imperialismo di fronte alle moltissime innovazioni incontrate dalla politica internazionale negli ultimi. settant’anni (Bonanate, 1987c, p. 69); e, in secondo luogo, che un più sistematico e paziente sforzo di applicazione alla realtà internazionale potrebbe consentire al marxismo di costruire strumenti di analisi forse meglio di altri
capaci di render conto della portata delle disuguaglianze tra gli stati, in
particolare per quanto riguarda il divario tra paesi sviluppati e sottosviluppati, tra centro e periferia dell’economia internazionale (un esempio
politologico di ciò è rappresentato dalla teoria della dependencia, molto
sviluppata negli Stati Uniti, una prova della quale è il saggio di Caporaso tradotto in Pasquino, 1981).
6. Studi e ricerche sulla politica estera
È sufficiente soffermarsi a considerare il fatto che molti giornali —
stampati o televisivi — intestino normalmente la loro sezione dedicata
alla politica internazionale con la formula «politica estera» (o simili), per
comprendere immediatamente quanto poco chiara sia la differenza che
passa tra la politica internazionale e la politica estera (per paradossale che ciò
possa apparire). Da un punto di vista logico-sistematico, non c’è dubbio
che l’insieme delle politiche (se le si potesse sommare) verrebbe a
costituire il tessuto connettivo di quella che chiamiamo «politica internazionale», cosicché nel caso della sommatoria esse verrebbero addirittura a coincidere. Potremmo in altri termini dire che la politica estera
è il versante soggettivo (dal punto di vista del singolo stato) della poli-
Relazioni internazionali
47
tica internazionale. Ma quel che conta in particolare mettere in evidenza
è che la «politica estera» in quanto tale sta sempre ad indicare un qualche
cosa che muove dall’interno di uno stato e si rivolge a uno o più altri
stati25. Ne consegue che quando in una delle pagine intestate «politica
estera» si riferisce del summit Reagan-Gorbaciov del dicembre 1987 si
commette un vero e proprio errore terminologico; se invece vi si parla
della visita del premier israeliano Shamir a Roma, allora la collocazione
sarà esatta.
Sarebbe pura pignoleria precisare aspetti così ovvi della realtà se non
fosse che a sua volta anche la politica estera può rappresentare un importantissimo settore dell’analisi politologica (sia dal punto di vista della
politica interna, sia da quello della politica internazionale). La collocazione della politica estera a metà tra questi due ambiti ne fa emergere
immediatamente la complessità analitica: andrà privilegiato il punto di
vista dell’interno o quello dell’esterno? Si dovrà analizzare soltanto ciò
che è prodotto della volontà politica interna, oppure vedere la politica
estera come un qualcosa di naturalmente «reattivo» nei confronti dell’ambiente circostante? La difficoltà di questi — e di altri più sofisticati
— problemi ha fatto del settore degli studi sulla politica estera una
specie di sotto-disciplina (se non addirittura di «sottoprodotto») rispetto
alle relazioni internazionali, come se in esso ci fosse meno da scoprire
che non nella disciplina generale. Può esser vero che l’analisi della politica estera nasconda una minor quantità di problemi concettuali, ma certo
non lo è che essa non presenti problemi di metodo (tutt’altro che indifferenti), prospettive estremamente interessanti dal punto di vista dell’analisi del funzionamento degli apparati predisposti alla sua elaborazione (è presumibile che la tecnica di formazione delle decisioni sia analoga in tutti i ministeri degli esteri), occasioni di analisi empiriche, fondamentali anche ai fini della comprensione del ruolo tenuto dal singolo
stato nel quadro generale della struttura di un sistema internazionale.
Alla luce dello stato degli studi internazionali in Italia, non ci sarebbe
da stupirsi se anche di fronte al settore degli studi di politica estera le
osservazioni fossero ancora le stesse. Ma in questo caso la situazione
è soltanto in parte così lamentevole. E pur vero che mancano solidi lavori di impostazione teoretica della problematica della politica estera,
ma accanto a ciò va immediatamente segnalato che l’attenzione verso
quest’ultima è eccezionalmente alta — e ciò nonostante la rituale dichiarazione che tutti gli specialisti almeno una volta hanno fatto, essere la
politica estera italiana irrilevante, inesistente, poco interessante. Come
25
Sicché, se in Italia si parla di politica estera, ebbene questa è appunto italiana!
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Luigi Bonanate
vedremo ora, le cose stanno — almeno in parte notevole — in tutt’altro
modo. Non sarebbe certo sufficiente appellarsi alla grande quantità di
scritti sulla politica estera italiana, per convalidare tale affermazione;
ma essa è intanto un punto di partenza non del tutto irrilevante. Ma
se a tale constatazione se ne aggiunge poi una seconda (relativa all’ultimo dei capitoli prima elencati e di cui dobbiamo quindi ancora occuparci, quello della problematica della sicurezza) dalla quale risulta che
anche quest’altro è tra i settori di ricerca privilegiati dagli studiosi italiani, si potrà agevolmente concludere che i temi più facilmente suscettibili di analisi empirica o descrittiva sono evidentemente anche i più
attraenti e frequentati. Si potrebbe aggiungere a ciò la considerazione
che i temi della politica estera e della sicurezza si prestano più di altri
anche ad un trattamento di tipo storiografico, il che quindi consente
l’apporto proveniente da una disciplina molto più ricca (in fatto di risorse umane) che non le relazioni internazionali, tant’è vero che non
sarà sempre facile distinguere quali lavori dovranno esser attribuiti a
un’impostazione politologica e quali a una storiografica.
La fenomenologia che può essere ricondotta alla dimensione della politica estera è — in secondo luogo — estremamente ampia, andando dalla
emanazione ufficiale della politica di uno stato al comportamento di singoli
uomini politici (che sovente traggono dal successo in politica estera occasioni per consolidare la loro posizione all’interno), dalla politica svolta
da grandi complessi industriali o finanziari, dei quali sovente si finisce
per giudicare che abbiano una politica estera ben più coerente e lungimirante di quella di molti stati (se non si pensa addirittura che siano
in grado di «determinarla»!) alla politica estera di «internazionali» partitiche oppure di organismi sovranazionali (si pensi alle vicende dell’UNESCO!), dalla ricostruzione delle costanti che caratterizzano nel tempo
la linea di un paese ai «giri di valzer» che altri invece amano tentare.
A tutto ciò dovrà naturalmente essere premessa una griglia concettuale
che consenta di sistematizzare correttamente i dati informativi, e di giungere alla proposta di teorie per l’analisi della politica estera: ne risulterà
dunque un campo estremamente vasto e differenziato, rispetto al quale
gli studi italiani hanno mostrato notevole sensibilità e vivacissima attenzione. Così disponiamo di studi metodologici e teorici, di infiniti lavori riassuntivi sulla politica estera italiana, di analisi che collegano quest’ultima ai grandi problemi dell’età contemporanea (dalla politica nucleare alla decolonizzazione), di ricerche settoriali sugli specifici rapporti
intercorrenti tra il nostro paese e il suo principale alleato (gli Stati Uniti)
o gli altri alleati europei (con particolare attenzione allora ai problemi
dell’integrazione europea fino all’analisi della cosiddetta «politica estera
Relazioni internazionali
49
europea»), di analisi geo-politiche connesse a determinate situazioni locali
(come il Mediterraneo, la questione medio-orientale, la dislocazione degli
«euromissili», ecc.) .
Salvo errore, non soltanto le analisi empirico-descrittive sovrastano quelle
teorico-interpretative in termini quantitativi, ma le precedono anche in
termini cronologici — come se a lungo si fosse giudicata quest’area non
suscettibile di riflessione teorica. Addirittura, si può constatare che l’interesse per la politica estera in Italia è stato coltivato e sviluppato inizialmente e prevalentemente in ambiti di ricerca non accademici, in organismi come l’Istituto Affari Internazionali, o come l’IPALMO, intorno a
gruppi di ricercatori legati insomma più sovente a centri-studi che non
a cattedre universitarie. In ambito accademico si studia invece dapprima
la metodologia della ricerca (Gori, 1973a; ma ricordo anche nello stesso
anno un’incursione nel tema da parte nientemeno che di G. Sartori), e poi
il tema — destinato a infinite riprese e/o dibattiti — della povertà (se non
addirittura dell’inesistenza) della politica estera italiana (Pasquino, 1974;
1977; 1982; Levi, 1974; Panebianco 1977; 1982; Santoro 1985)26. La
questione non è né semplice né di scarsa rilevanza, investendo in quanto
tale il più ampio problema della collocazione italiana nel sistema
internazionale formatosi alla fine della seconda guerra mondiale. Così il
dibattito apertosi sull’inconsistenza o l’indeterminatezza della posizione
internazionale dell’Italia non è che un oggetto polemico (di dibattito
politico interno, dunque!) fin tanto che non si sia riconosciuto o ammesso
che la fonte di quella collocazione risiede nella struttura di un sistema
internazionale il quale — una volta costruitosi intorno a determinati
principi — non consente in pratica a nessuno dei suoi attori di modificare
il suo atteggiamento, o meglio di mutare il suo sistema di alleanze.
La necessità di analizzare il momento «nascente» del sistema internazionale contemporaneo e il modo nel quale l’Italia entrò a farne parte
erano quindi al centro del provocatorio lavoro di L. Bonanate (1973c),
secondo il quale i margini di libertà lasciati al singolo stato (tanto più
se sconfitto) al termine di una guerra da parte dei suoi vincitori sono
talmente ridotti da non consentire in pratica alcuna possibilità di scelta
autonoma. Questa tesi, apparentemente irrispettosa della autonomia e
delle prerogative dello stato, ma strettamente coerente alla teoria proposta del sistema internazionale, non poteva non cozzare contro la prevalente tradizione storiografica che argomentava invece che — essendo
26 Per una presentazione di ampio respiro — essenzialmente storiografica — dei problemi della
politica estera dell’Italia repubblicana, cfr. Di Nolfo, 19S1.
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Luigi Bonanate
il sistema internazionale, alla fine della guerra, in fieri — ogni stato poteva ritagliarsi la posizione che preferiva (Gallerano, 1975; Di Nolfo,
1979). Quale che sia il punto di vista più corretto, resta in ogni caso evidente che l’allineamento italiano alla posizione statunitense negli anni della guerra fredda aveva le sue origini nell’esito della guerra calda
precedente, e che la passività della politica estera italiana poteva esser
interpretata sia come consapevole (e forse cinica) valutazione dei propri limiti, sia come passiva e interessata acquiescenza al «partito americano» (sia interno, sia italo-americano).
La svolta del centro-sinistra in Italia appare un po’ come la sigla della
fine del dopoguerra; la passività nazionale non può più affondare le radici in un passato ormai lontano, e il dibattito internazionalistico si sposta
appunto sul «basso profilo», sull’«indeterminatezza», sull’inconsistenza
di una posizione che — specie tenuto conto della collocazione geografica — meriterebbe ben altra attenzione e riflessioni di più ampia portata. Il 1967 è l’anno della svolta negli studi sulla politica estera, grazie
alla pubblicazione degli atti di un importante convegno organizzato dal
neo-nato Istituto Affari Internazionali, in tre sostanziosi volumi (Bonanni, 1967). Va sottolineato a questo proposito che, se da una parte
in quel periodo si badava ai nuovi spazi che si andavano aprendo all’intraprendenza italiana, dall’altra ciò veniva riferito proprio al mutamento
delle condizioni generali del sistema internazionale, a quel processo di
distensione al quale si doveva l’allargamento delle maglie del controllo
da parte dei più potenti alleati. Ma non si riconosceva così il primato
delle condizioni generali del sistema internazionale sulla libertà d’azione
del singolo stato — insomma, proprio allo stesso modo in cui le cose
erano andate (anche se dispiaceva ammetterlo) vent’anni prima? Lo stesso
Altiero Spinelli nel suo discorso d’apertura, non si faceva eccessive illusioni: «Nessuna persona ragionevole può pretendere che l’Italia assuma
ruoli originali o esemplari nella politica internazionale» (in Bonanni, 1967,
p. 47). Quel che metteva conto discutere era allora non tanto la scelta
di fondo «quanto il modo in cui, avendola fatta, [i nostri statisti] hanno
poi agito nell’ambito di essa» (Ibid.).
Dieci anni dopo, proprio per festeggiare il decennale dell’Istituto Affari Internazionali, un nuovo convegno fu dedicato alla politica estera
italiana (Ronzitti, 1977b); ma anche in questo caso, come nel precedente,
accanto ad analisi storiografiche, economiche, strategiche, culturali, lo
spazio lasciato alla riflessione di tipo politologico era nullo o quasi (al
solo G. Galli era stata affidata una relazione su «Il sistema politico italiano e la politica estera»; Galli, 1977). La realtà non può essere artificialmente spezzettata e quel che conta è che finalmente la politica estera
Relazioni internazionali
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riacquistasse il suo buon diritto a essere oggetto di attento interesse —
non importa poi tanto da parte di chi. Ma in realtà ormai anche i politologi italiani incominciavano a rivolgersi alla stessa problematica, proponendosi ovviamente non tanto di ricostruire la storia della nostra politica estera, quanto dapprima — come si è detto — di valutarne l’arretratezza e la subalternità, e poi di esaminarne le caratteristiche attraverso
il ricorso a strumenti di analisi adeguati. Così, dopo che Panebianco (1977)
aveva inaugurato l’analisi politologica, Santoro sviluppava, a più riprese,
la sua ipotesi che la categoria di politica estera dovesse esser inserita
nel più ampio contesto dell’«interdipendenza», assunto a «cardine concettuale della politica estera» (così in 1984a, ma vedi anche Santoro,
1980a; 1982a; 1982b) per giungere infine, nel suo più recente scritto
su tale problematica (Santoro, 1987), alla suggestiva proposta di verificare i modelli di sistemi di partito proposti per l’Italia anche di fronte
alla politica estera, in quelli tradizionalmente trascurata, mettendone giustamente in evidenza lacune e insufficienti approfondimenti (va aggiunto
che anche in questo caso — come in quello del rapporto tra sistema internazionale e sistemi politici interni — dall’apporto degli internazionalisti la scienza politica interna potrebbe trarre molti e significativi stimoli). Attinà, a sua volta, dopo aver pubblicato un primo lavoro introduttivo (e un po’ generico) sulla politica estera (Attinà, 1970a), affrontava in termini politologicamente più centrati il rapporto tra la formazione della politica estera e il sistema politico al cui interno quella è elaborata (Attinà, Cutuli e Scorciapino, 1982; Attinà, 1983c; 1983d). Val
la pena osservare subito — anche se di passaggio — che sviluppando
questa linea dell’approfondimento del radicamento interno delle politiche estere, Attinà passerà negli anni successivi ad applicare il suo modello anche ai partiti europei (Attinà 1986c) e ancora più in generale
al parlamento europeo (Attinà 1986b). Veniva poi infine affrontato (e
non a caso in quel momento) da U. Gori il problema della struttura del
Ministero degli Esteri (Gori, 1982; ma sui rapporti tra politica interna
e politica estera vedi, ancora precedentemente, Gori, 1978), che non
era altro che la prova dell’interesse per i risvolti operativi di quella che
si stava profilando come una possibile svolta nella politica estera italiana
dovuta, in generale, alle mutate condizioni del sistema internazionale
e, in particolare, alle conseguenze della «diffusione di potenza» (cioè
la fine dell’oppressivo dominio delle superpotenze) nonché alla crescente
centralità (in quanto bacino di crisi) del Mediterraneo. Il convergere di
queste circostanze spinge a ripensare la possibilità di una politica estera
autonoma dell’Italia, quanto meno nell’ambito del suo sistema di alleanze,
una politica da «media potenza» (Santoro, 1986c; 1986e).
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Luigi Bonanate
Si ispira certamente ad analoghe valutazioni di ordine generale l’imponente lavoro che, parallelamente a quello compiuto in sede accademica, conduce l’Istituto Affari Internazionali che sviluppa, accanto alla
vocazione europeistica, l’analisi delle tematiche mediterranee, nell’ambito delle quali ovviamente toccherà anche all’Italia un ruolo tutt’altro
che marginale (si vedano i volumi curati da Silvestri, 1969; 1976; 1977;
quello curato da Zevi, 1975; e ancora Conflitti e sviluppo nel Mediterraneo,
1970, e Cooperazione nel Mediterraneo occidentale, 1972; tutti pubblicati sotto gli auspici dell’IAI. In buona parte anche annuario L’Italia nella politica internazionale, pubblicato sempre dallo stesso Istituto a partire dal
1973 è dedicato all’informazione relativa alla stessa tematica). Ma l’IAI
riprendeva anche la lezione europeistica di Altiero Spinelli, e all’Europa venivano dedicati moltissimi volumi della collana dello «Spettatore
internazionale» (nome che dal 1965 era stato dato al periodico dell’Istituto e che da alcuni anni, in versione inglese, caratterizza la stessa rivista; vedi, tra i tanti, Per l’Europa, 1966; Bonvicini e Merlini, 1972; Merlini e Panico, 1974; Agostini, 1976; Walker, 1976; Bonvicini e Solari,
1979; Bonvicini, 1980). Non si dimentichi inoltre che alla domanda
che a tutti i fautori dell’europeismo sta a cuore (come certezza, dubbio, timore) l’IAI aveva nel 1973 dedicato la traduzione di un volume
di Kohnstamm e Hager, a cui era stato significativamente dato il titolo
Europa potenza?.
Molto frequentati — e in alcuni casi con risultati scientifici significativi, specie in termini di originalità — sono stati in Italia i temi legati
alla politica estera di altri paesi, e primo fra tutti, ovviamente, gli Stati
Uniti, in quanto tali (come nei lavori di Santoro, 1984a; 1987) o nei loro rapporti con l’Europa (Mammarella 1973); e poi quelli mediorientali
(questo ha rappresentato il settore di lavoro più costantemente perseguito dall’IPALMO e dal suo periodico mensile Politica internazionale,
diretto da G. Calchi Novati. Vedi tra gli altri i volumi ‘PALMO, 1982;
1983; 1985, dedicati rispettivamente alla cooperazione allo sviluppo, al
ruolo italiano nella crisi del golfo Persico, alla partecipazione italiana
alla forza multinazionale nella guerra in Libano). Contraddistingue tuttavia gran parte di questi ultimi scritti — ma ciò non venga considerato un giudizio di valore — un orientamento all’intervento nel dibattito
politico culturale nazionale, trascendendo così almeno in parte l’analisi
neutrale del politologo. Storia, informazione, dibattito e polemica si
intrecciano, forse di fronte all’assenza di consolidati modelli di analisi
che consentano una più sistematica accumulazione e sistemazione dei
dati: si tratta per di più di problematiche nelle quali l’impegno politico
personale non sempre è assente (e non senza giustificazione).
Relazioni internazionali
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Questo è principalmente il caso dell’europeismo, che in Italia —
come negli altri paesi europei — ha visto svilupparsi un dibattito vivacissimo tra fautori e oppositori, anche se i termini della polemica non
riguardano quasi mai il lato ideale della questione, bensì la sua praticabilità o la sua opportunità27. La cultura italiana si distingue del resto
per la costanza di una venatura federalistica — per non risalire troppo
all’indietro basta pensare al Manifesto di Ventotene (1941, ora in Spinelli
e Rossi, 1982) — e per l’impegno attivo di alcuni suoi statisti a favore
della costruzione di un’Europa unita (da Einaudi a De Gasperi, da U.
La Malfa a Spinelli). Ma anche sul piano scientifico e/o dell’analisi degli sviluppi o degli arretramenti dell’ideale europeistico si è avuto un
intensissimo dibattito in Italia, caratterizzato, se così si può dire, da
una sorta di «equilibrato estremismo»: fautori e oppositori hanno raramente tenuto conto delle ragioni dell’antagonista, preferendo ribadire
piuttosto la validità della propria idea, il che ha naturalmente finito per
allontanare, in più d’un’occasione, i loro scritti dall’arena scientificoaccademica per farli entrare in quella della lotta politica (le più utili
fonti di informazione su tale vicenda sono, oltre la bibliografia curata
da Marena, Butteri e Console, 1987, gli scritti di L. Levi, 1979; Levi e
Pistone, 1973; Pistone, 1982).
7. Tra guerra e pace
Se si guardasse alle relazioni internazionali in un’ottica tradizionale,
i temi della guerra e della pace sarebbero i primi, se non gli unici, a dover
essere presi in considerazione. Ancora oggi, del resto, cercando una definizione sintetica del nostro campo potremmo ben dire che esso ha al
suo centro lo studio della guerra e dunque del suo contrario, la pace:
tutto il resto potrebbe anche esser giudicato accessorio. E si può ancora
a ragione argomentare che la riflessione sulla guerra continua in ogni
caso ad essere il momento centrale — fondante rispetto agli altri temi
— dell’analisi politica internazionale: spiegare il perché delle guerre,
come mai esistano, se e come si possano evitare, quali conseguenze producano vorrebbe dire, in altri termini, risolvere i problemi fondamentali della disciplina. Lo studio della guerra (più ancora che quello della
pace) offre un campo di convergenze interdisciplinari tra i più ampi e
complessi che possano esistere; di pochi altri fenomeni si può propor27 Non si riprende qui l'analisi dell'apporto di A. Papisca alla tematica europeistica, di cui si
è già detto nel paragrafo 5.
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Luigi Bonanate
re un approccio che sia: storico, sociologico, psicologico, psicoanalitico,
antropologico, giuridico, strategico-militare, etico-filosofico, fisico-matematico, oltre naturalmente che politologico. Non soltanto ciascuno di
questi approcci è in grado di affrontare aspetti centrali della problematica bellica, ma sovente i loro intrecci (si pensi ad esempio a quello tra etica, psicanalisi e antropologia) impongono di dominare problematiche
di per sé già estremamente vaste e complesse. D’altra parte, queste stesse ragioni possono ritrovarsi alla radice dell’eclettismo, per non dire la
superficialità, di molte ricerche sulla guerra, la quale — non dimentichiamolo — resta uno dei fenomeni di maggiore portata (in tutti sensi
— quasi sempre negativi) che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare
— o si possa in futuro trovare ad affrontare — e quindi più di altri capace di mobilitare valori, affetti, emozioni.
Per queste ragioni non è semplice il compito di chi si proponga una
ricognizione degli studi su tutto ciò, anche se con il limite geografico di
un solo stato. Altre osservazioni di carattere preliminare vanno ora
svolte. La prima riguarda la quasi totale assenza dell’apporto di una disciplina altrimenti sviluppatissima in Italia: la storia, la quale si è poco
interessata alle guerre — in quanto tali — sia in passato sia attualmente: non mancano singole ricerche su singoli conflitti, ma è sempre mancata l’attenzione all’evoluzione storica della guerra nelle sue diverse forme, all’interno di una dimensione diacronica, affrontata invece frequentemente nel mondo anglosassone (Hale, 1987; Kiernan, 1985; Mallett,
1983; McNeill, 1984; Montross, 1960), ma anche francese (Garlan,
1985), per non dire della tradizione tedesca (basta ricordare Ritter,
1967-1973)28. Osservazioni in gran parte analoghe — ma con qualche
eccezione — valgono per quanto riguarda l’approccio filosofico alla
guerra: se già nel 1911 Giorgio Del Vecchio affrontava Il fenomeno della
guerra e l’idea della pace, bisogna fare un salto di mezzo secolo per vedere
nuovamente — e alla luce dell’innovazione nucleare — discussa la stessa tematica dal punto di vista filosofico, con gli scritti di N. Bobbio
(1962; 1965; 1966). In parte diverso — anche se dall’attuale punto di vista forse marginale — il caso degli studi sulla nonviolenza, che nel nostro paese vantano una tradizione di grande valore, andando da A. Capitivi a don Milani, che ne assunsero anche le valenze pedagogiche, da
Bobbio ancora (Bobbio, 1975; 1984b) a Pontara (1969; 1984), a E. Balducci (1984; Balducci e Grassi, 1986), fino ai movimenti impegnati nella
lotta politica anti-militaristica e pacifistica (su cui vedi Barrera e Pianta,
28 L'unico esempio italiano che valga la pena citare è quello di Piero Pieri, del quale si veda
almeno Pieri, 1955.
Relazioni internazionali
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1984; D’Orsi, 1977; Isernia, 1983; IPRI, 1986). Una citazione a parte,
non fosse altro per la singolarità del percorso soggettivo (per quanto
trascurato o accantonato dalla cultura ufficiale) meritano gli interventi
del romanziere Carlo Cassola, i cui scritti contro la cultura di guerra
sono raccolti in alcuni volumi (Cassola, 1976a; 1976b; 1978)29.
Se esistono poi ricerche psicanalitiche, come quelle di Pornari (1964;
1970a; 1970b), interventi saggistici o moralistici come quello di Elsa
Morante (in occasione di una conferenza del 1965, ora in Morante, 1987),
si tratta sempre soltanto di interventi sporadici non riconducibili ad alcun
programma di ricerca sistematico e dunque capace di superare il pur apprezzabile e importantissimo livello dell’impegno etico (individuale o di
gruppo). Così, stentano ancora in Italia ad affermarsi quei tipi di ricerca
che in moltissimi paesi si sono proposti proprio per finalizzare la passione civile alla ricerca scientifica: si tratta delle cosiddette peace researches
che hanno a loro volta dato vita a un’infinità di istituzioni di ricerca; il
primo grande organizzatore in questo campo è stato J. Galtung, del quale
va ricordato il successo nel fondare il primo istituto del genere, il Peace
Research Institute di Oslo nel 1959 e insieme il Journal of Peace
Research, e poi i moltissimi scritti, diversi dei quali tradotti in Italia a
cura di un movimento pacifista, le edizioni del Gruppo Abele di
Torino (vedi Galtung, 1984; 1986). Ma il piano del dibattito è rimasto
in Italia — se non scarsamente frequentato — per lo più confinato
all’intervento politico-culturale, come ad esempio mostrano gli interessanti lavori raccolti ne il problema degli armamenti (AA.VV., 1980a), oppure i convegni annuali organizzati dalla rivista Testimonianze (che ne
pubblica poi gli atti), o il dibattito frequentemente ripreso su Bozze (un
altro periodico cattolico di grande vivacità e apertura intellettuale).
Una ricerca sistematica e metodica sulla guerra dunque non esiste
ancora, nonostante che l’interesse per questo fenomeno sia proprio il
cuore del programma teorico di uno dei politologi italiani, L. Bananate, il quale fin dal primo libro del 1971 mostrava già nel sottotitolo (La
guerra nella politica mondiale) quale fosse il suo problema dominante. In
effetti, in quel primo lavoro, alla guerra veniva affidato il ruolo di elemento strutturante la logica stessa dei rapporti internazionali: la natura
«esterna» dello stato veniva identificata come un «esser-per-la-guerra».
In un saggio successivo (Bonanate, 1973a) il punto veniva precisato
attraverso l’individuazione di tipi particolari di guerre — quelle che ve29 Va precisato tuttavia che nella maggior parte di questi casi la prospettiva è esclusivamente atropologica e non comprende alcun allargamento (o sensibilità) verso la componente internazionalistica della
problematica.
56
Luigi Bonanate
nivano definite «costituenti» (cioè quelle che, avendo impegnato tutte
le grandi potenze di un’epoca, producono degli avvicendamenti ai massimi livelli di potere internazionale) — all’esito delle quali veniva attribuito il compito d fondare la teoria stessa delle relazioni internazionali:
l’esser l’esito di tali guerre addirittura la fonte dell’ordine internazionale esistente (destinato a durare fino alla «guerra costituente» successiva). Il supporto empirico a tale proposta era offerto da una ricerca dedicata alla formazione del sistema internazionale successivo alla seconda
guerra mondiale (Bonanate, 1973d), in cui si cercava di mostrare di quali
strumenti di governo gli stati (effettivamente) vincitori della guerra venivano a dotarsi — il più sofisticato dei quali era proprio quella politica
della dissuasione (Bonanate, 1971) da cui lo stesso aveva preso inizialmente le mosse. Tuttavia, se tale concezione della guerra rappresenta
lo sfondo teorico su cui la maggior parte degli scritti internazionalistici
di Bonanate viene a proiettarsi, soltanto episodicamente egli stesso ha
affrontato ancora il tema, come in un saggio dedicato a presentare i risultati (effettivi o mancati) dell’immenso lavoro empirico-statistico organizzato da D. Singer nel Correlates of War Project (Bonanate, 1984d),
oppure — con maggior respiro — in un capitolo de La storia (Bonanate,
1986e), caratterizzato dal tentativo di illustrare sia i risultati della ricerca politologica internazionale sulle guerre del XX secolo, sia il rapporto tra guerra e stato, sia Io sviluppo delle diverse forme di guerra,
sia infine il significato della sua minaccia nell’età nucleare.
Nella constatata impossibilità di ricostruire un quadro sistematico delle
ricerche sulla guerra — carenza che non si può non individuare come uno
degli aspetti più negativi della produzione internazionalistica italiana — non
si potrà ora che offrire una panoramica, inevitabilmente frammentaria, dei
principali filoni di interesse affrontati. Al primo posto — più per la rilevanza degli studi in questione che per la loro quantità — va posto senza dubbio l’intervento etico-filosofico di N. Bobbio al quale spetta il merito di aver introdotto in Italia la tematica del giudizio sulla natura delle armi nucleari — dibattito che in diversi paesi europei fin dagli anni Cinquanta era
già stato vivacissimo (si pensi agli interventi di personalità come B. Russell,
K. Jaspers, G. Anders) — e di averlo anche allargato all’analisi dell’influenza che tali armamenti esercitano sulle relazioni internazionali del nostro
tempo: così dopo gli scritti (già prima ricordati) sull’ingiustificabilità della
guerra atomica (Bobbio, 1962) e il fondamentale Il problema della guerra e le vie
della pace (Bobbio, 1966 — con Io stesso titolo quel saggio, insieme ad altri,
andrà a comporre un volume pubblicato nel 1979 e ristampato ancora nel
1984), va ricordato il saggio su L’equilibrio del terrore (Bobbio, 1984a) che è in
Relazioni internazionali
57
sostanza dedicato alla demistificazione del sogno «pacifistico» della dissuasione reciproca, la quale — non che donare al mondo la pace — in
realtà non fa che esasperare (ed è sempre da temere l’azione di chi è
in tale situazione) la pericolosità dell’età atomica e proiettare ombre funeste sul futuro dell’umanità.
Se certo sarebbe ingeneroso sostenere che nessun altro in Italia abbia
seguito Bobbio su questa strada, va anche ammesso che difficilmente
vi si troverebbero interventi altrettanto scientifici che siano capaci di
superare il mero livello della polemica ideologica, se non addirittura quello
della propaganda (certo in Italia una vera e propria cultura bellicistica
non esiste30, per fortuna, ma molti pretesi studi tecnici sulla dissuasione o sugli armamenti finiscono per cadere nei connotati appena detti,
se non altro per l’incapacità di superare il livello del mero dettaglio tecnico a favore di un’interpretazione di ampio respiro). Il riferimento a
uno dei pochissimi lavori che si siano proposti di andare al di là di tali
limiti ci consente di passare a un secondo settore di analisi. Infatti il
libro di L. Cortesi, Storia e catastrofe (1984) si sforza di criticare, in una
prospettiva ad un tempo storiografica (sia dei fatti sia delle idee) ed eticamente impegnata, l’impostazione riduttiva di chi pone le armi al primo
posto — come se la loro esistenza fosse, invece che la conseguenza di
una volontà politica, il suo stesso movente. Alla luce di questo impegno
Cortesi ha promosso poi un seminario i cuí atti sono pubblicati in un
volume (Cortesi, 1985b), che affronta il problema della guerra in prospettive disciplinari e culturali molto diverse, che comprendono analisi
storiografiche (come quelle di Santarelli, Procacci, lo stesso Cortesi),
tecnico-militari (Battistelli, Silvestrini, Pivetti), politologiche (Bonanate),
psicoanalitiche (Sassanelli) ed etico-religiose (Drago, per un verso, Chiavacci per un altro). Obbedisce a un’ispirazione sostanzialmente affine
la raccolta Oltre la pace (Magni e Vaccaro, 1987), nella quale un po’ eterogeneamente sono raccolte diverse analisi fortemente critiche dell’establishment politico-culturale mondiale che continua a valersi del rischio
atomico sia per interesse (economico) sia per mal riposta fiducia. Di maggior respiro appare (o tale vorrebbe essere) un’altra raccolta — la vasta
presenza delle quali non può non avvalorare l’immagine di frammentarietà che prima si ricordava — curata da C. Jean (1987), nella quale si
trovano riuniti contributi provenienti dai più disparati ambiti culturali
(filosofi e generali, politologi e storici delle dottrine politiche, economisti e moralisti). Considerazioni analoghe valgono infine per un’altra
30 Per qualche informazione, purtroppo priva di ogni sforzo sistematico, cfr. Ceola, 1987, su un
argomento che meriterebbe certo maggior approfondimento.
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Luigi Bonanate
raccolta (Curi, 1982) ancora contraddistinta dall’eterogeneità dei pur
individualmente interessanti contributi, dai quali però — come anche
negli altri esempi ricordati — emerge prevalentemente la sensazione
dell’inesistenza di uno sforzo collettivo e cumulativo nei confronti
dell’immensità della tematica appena sfiorata, invece che dominata.
Maggior fortuna sembra aver avuto in Italia la riflessione sulle alternative alla guerra — forse a causa delle (purtroppo) più ridotte dimensioni della problematica della pace! Appena citata — per completezza —
la riflessione sull’apparizione di un fenomeno che a sua volta è pure stato
giudicato come un’«alternativa» (ma tutt’altro che pacifica) alla guerra
tecnicamente intesa, il terrorismo (su cui vedi Bonanate 1979d; 1979e;
1981d; 1986f; 1986g; 1987i), si potrà ricordare che anche nelle ricerche
sulla pace un ruolo da antesignano è toccato a U. Gori, il quale fin dal
1970 (Gori, 1970) aveva introdotto nella cultura italiana quella tematica mostrando in quale modo il lavoro avrebbe dovuto venir organizzato, curando poi (Gori, 1979b), e contribuendovi con due saggi introduttivi, l’unico libro italiano che si sforzasse di offrire un panorama finalmente
sistematico sul problema (ospitando — questa volta obbedendo a un
progetto — contributi di politologi, filosofi, giuristi, strateghi). Nella
stessa ottica — ma con un’impostazione esclusivamente politologica — si
muoveva Bonanate con tre saggi (poi accostati nella parte terza, intitolata
Verso una teoria della pace giusta, di Né guerra né pace, Bonanate 1987h), nel
primo dei quali (Bonanate 1981c) svolgeva una ricognizione descrittiva
della quantità di pace affermatasi nella storia contemporanea, mettendone
tuttavia in discussione la «qualità»; per poi rivolgersi, nel secondo, all’analisi tipologica e alla giustificabilità storica della pace che effettivamente si realizza (Bonanate 1987e); infine argomentando, nel terzo, che,
pur con tutti i suoi limiti, la pace effettiva che il sistema internazionale
contemporaneo conosce potrebbe forse rappresentare — quanto meno —
la pre-condizione necessaria al passaggio a una forma di pace (con democrazia) più accettabile e condivisibile (Bonanate, 1986e; un’appendice a
questa argomentazione è rappresentata da Bonanate 1987b). Ancora al
rapporto tra pace e democrazia rivolge la sua attenzione A. Papisca
(1987a), intravvedendovi la possibilità che lo spirito pacifico (democratico)
delle organizzazioni non governative possa avere un ruolo trainante anche
nei confronti delle più rigide strutture statuali.
La maggior parte della restante produzione sulla guerra e sulla pace
rimane costretta — ma ciò non suoni a giudizio critico nei confronti dei
singoli lavori fin tanto che accettino i limiti che si sono dati — in una
dimensione prevalentemente saggistica, la quale se esercita un’impor-
Relazioni internazionali
59
tantissima funzione di diffusione della rilevanza di questi temi (vedi ad
esempio il volume di Gambino, 1986 o quello di Gaja, 1986b), non può
tuttavia contribuire in modo sostanziale alla costruzione di un patrimonio
di conoscenze cumulative e sistematiche31.
8. L’affannosa ricerca strategica della sicurezza
Va subito precisato che le considerazioni appena svolte riguardo agli
studi sulla guerra e la pace non possono non estendersi anche all’ultimo
dei settori di analisi — a qualche titolo internazionalistica — della nostra
rassegna, quello della strategia applicata alla ricerca, se non più della vittoria, della sicurezza: la pace attraverso il pericolo della guerra. La particolare arretratezza — come si cercherà di evidenziare — di questo settore (sviluppatissimo in altri paesi, primo fra tutti, come al solito, gli
Stati Uniti, ma anche le ricerche britanniche e francesi vanno segnalate) potrebbe in prima approssimazione venire ancora una volta riferita all’inesistenza di un ruolo attivo dell’Italia (di ciò si è già detto nel
paragrafo 6, dedicato alla politica estera italiana), il che costringerebbe
però ad ammettere il presupposto (tutt’altro che incontrovertibile) che
ogni stato, indipendentemente dalla valutazione della sua collocazione
nella vita internazionale, debba essere in grado di porsi nei suoi rapporti esterni come «potenza» — non tenendo, in altri termini, in alcun
conto l’evoluzione intervenuta nel mondo a seguito della comparsa delle
armi nucleari.
Per circa un ventennio (anni Sessanta e buona parte di quelli Settanta), il crescente successo degli studi strategici nel mondo è stato principalmente dovuto al compito che viene loro affidato di razionalizzare
il paradosso dell’equilibrio del terrore, che garantisce tanto meglio la
pace quanto più minaccia di sconvolgerla. Il mondo si muove sull’orlo
del baratro nucleare al confine della psicopatologia della politica — e
la teoria generale della dissuasione attira su di sé l’interesse di psicologi
(come E. Fromm), di economisti (come Th. Schelling), di matematici
(come A. Rapoport), di politologi (come D. Singer), di strateghi infine
(come A. Beaufre), per non parlar dei filosofi (da B. Russell a K. Jaspers, da G. Anders a N. Bobbio). Nulla di analogo si verifica nello stesso
31 Un esempio di ciò è rappresentato dalla curiosa «fortuna» di Clausewitz in Italia, molto più
sovente occasione per stucchevoli riflessioni sul rapporto tra guerra e politica che non di seria e
approfondita analisi esegetico-storiografica (quasi unica eccezione è Mori, 1984).
60
Luigi Bonanate
periodo in Italia, tant’è vero che quello spazio è esclusivamente occupato (come già si è segnalato nel paragrafo 3) da qualche traduzione, specie nel settore del controllo degli armamenti, senza che qualche studioso
imposti (o almeno importi) la problematica strategica riferendola alle caratteristiche della collocazione italiana nel quadro strategico mondiale (l’unico segno innovativo è rappresentato, a partire dalla metà degli anni Sessanta, dall’attività dell’Istituto Affari Internazionali, che però ben presto si concentrerà su aspetti tecnici e settoriali più che sui quadri generali).
Bisogna giungere al giro degli anni Ottanta per constatare un improvviso e vivace risveglio dell’attenzione italiana per le questioni strategiche e
della sicurezza: le ragioni di ciò possono essere intraviste più che altro nelle mutate, e fin anche peggiorate, condizioni del gioco strategico internazionale dopo la «distensione» dominante dal 1962 (crisi di Cuba) fino alla metà degli anni Settanta, quando il pendolo oscilla nuovamente verso la
«guerra fredda» («euromissili», Afghanistan, ecc.), oppure nell’almeno apparente attenuazione del sistema di vincoli imposto dagli Stati Uniti ai suoi
alleati nonché — in termini più generali — nel fenomeno della perdita di
controllo da parte di entrambe le superpotenze su tutto ciò che succede
nel mondo. Può così verificarsi una sorta di riappropriazione di interessi e
di funzioni da cui gli stati (specialmente quelli europei) si erano sentiti espropriati dall’immensità del pericolo nucleare, risvegliando conseguentemente una propensione per l’analisi «stato- centrica» della strategia, e
più in generale, delle condizioni a cui ogni stato potrà garantire in futuro la propria sicurezza.
Il contributo italiano alla riflessione su questa tematica si è organizzato lungo due successive linee, parallele e incomunicanti — ciò che ha
reso del tutto inesistente il dibattito e l’integrazione tra le due prospettive, che possono esser definite come quelle della teoria pura e dell’operatività assoluta. Il contenuto della prima può essere riassunto in pochi cenni: riguardano in sostanza soltanto una parte degli interessi perseguiti da Bonanate, il cui primo libro (Bonanate, 1971) avrebbe potuto
essere il primo (se non fosse rimasto praticamente l’unico) tentativo
italiano di affrontare l’analisi strategica di per se stessa, al di fuori di
qualsiasi considerazione di carattere militare od operativo — secondo
un indirizzo che già da diversi anni era andato affermandosi negli Stati
Uniti, ma che aveva avuto i suoi esempi più raffinati in alcuni capitoli
di Paix et guerre entre les nations (Aron, 1962, trad. it. 1970) e ne Le grand
débat (Aron, 1963, trad. it. 1965). Quella linea era sviluppata ancora in
alcuni altri, meno sistematici, lavori (come Bonanate, 1976a; 1979b), tra
i quali va segnalato tuttavia il programma di ricerca esposto nel capitolo
Relazioni internazionali
61
Strategia (compreso in Bonanate, 1979b), che mirava a una ricostruzione del campo teorico della dimensione strategica dell’analisi internazionalistica, muovendo dalla storia della sua concettualizzazione (da
prima di Clausewitz fino al neo-clausewitzianesimo attuale), per poi
affrontare il rapporto tra strategia e lotta politica (specie nella sua
componente ideologica) e concludere affrontando l’innovazione culturale (un altro dei tanti prodotti dell’era atomica) rappresentata dall’avvento della strategia in quanto scienza sociale, dovuto al ribaltamento della sua accezione tradizionale, che da tecnica rivolta alla vittoria in guerra la trasformava in scienza intesa a evitarla — senza impedire tuttavia che continuasse a essere possibile il raggiungimento di
quegli obiettivi politici che prima erano affidati, appunto, alla guerra.
Analisi politologico-internazionalistica e analisi strategica si trovano
così strettamente intrecciate da costringere il politologo a farsi anche
stratega, e viceversa da imporre ai militari una cultura anche politologica. Ma se il lavoro di Bonanate non pare aver avuto seguito (neppure
negli scritti successivi dello stesso), tra gli studiosi italiani l’ansia nei
confronti dell’instabilità (forse più apparente che reale) dell’equilibrio
strategico internazionale offre l’occasione per lo sviluppo di studi, la
cui impostazione è succube del momento storico e dunque più sensibile ai profili operativi che non a quelli teorici.
La mancata costruzione di un metodico e sistematico programma di
ricerca (che fondasse le sue radici nella teoria strategica, così come essa
si è ormai consolidata nel mondo) ha finito così per lasciar libero spazio
a una sorta di ossessione operativa, semplicemente intesa a incorporare
la componente nucleare della problematica strategica, insistendo sull’analisi del ruolo che anche l’Italia potrebbe crearsi nel nuovo gioco internazionale — visto che non può dotarsi di armi nucleari, almeno che diventi una potenza regionale! Alcuni lavori di C.M. Santoro sono emblematici della tendenza che — pur muovendo correttamente dalla teoria
strategica — ha finito per prevalere negli studi italiani, alla continua ricerca del risvolto operativo. In La guerra possibile (Santoro, 1982d), egli
si proponeva infatti proprio di mostrare come la struttura del sistema
internazionale fosse plasmata dalla possibilità della guerra (evidenziando
dunque il contatto tra politica e strategia); ne Il sistema di guerra (Santoro, 1984c; ma vedi anche Santoro 1982c), la prospettiva si allargava
ancora applicando al sistema bipolare contemporaneo i risultati dell’analisi strategica più sofisticata e aggiornata (come specificava fin dalla
prima pagina, «la “componente strategica” si è rivelata essenziale sia
nella determinazione delle strutture concettuali e operative del sistema
internazionale inteso come “sistema politico”, sia nella condotta e negli
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Luigi Bonanate
atti dei principali attori che ne costituiscono le unità organizzate») (Santoro, 1984c, p. 622). Ma curiosamente i successivi lavori di Santoro approdano proprio all’analisi dei problemi strategici italiani nell’ottica «operativa» e «propositiva». E emblematico di questo indirizzo il lungo saggio
compreso in Obiettivo difesa (Caligaris e Santoro, 1986), nella prima parte del
quale Santoro illustra in modo sistematico e coerente in qual modo debba
procedere nella sua analisi chi — alla luce della logica politica internazionale data — voglia affrontare la tematica del «molo strategico
dell’Italia» (Santoro, 1986b, p. 10). Attraverso l’immagine dei cerchi
concentrici, ciascuno dei quali contiene uno dei passaggi che vanno dal
generale al particolare, Santoro giunge ad analizzare l’Italia come «media
potenza» e si chiede quale debba essere il «modello di difesa» di una
siffatta potenza. Pur lasciando impregiudicata la valutazione del livello
a cui l’Italia possa collocarsi, l’attenzione viene piuttosto richiamata su
quelli che vengono identificati come i problemi e/o i compiti (essenzialmente regionali) che questa media potenza dovrebbe fronteggiare; così
si giudica che l’Italia dovrebbe «impedire l’egemonia sul bacino [mediterraneo] sia da parte delle potenze rivierasche, sia (...) da parte delle
Superpotenze» (Ibid., p. 33). Dopo aver catalogato i «compiti funzionali»
dell’Italia in ordine al mantenimento della deterrenza, al controllo delle
aree di interesse, ai piani «adatti a rendere più flessibile e mobile la
capacità operativa delle forze assegnate a compiti speciali di intervento»
(Ibid., p. 36) — il che impone di «sviluppare un “pacchetto”, di obiettivi
strategici nazionali» (Ibid., p. 48) — Santoro si dedica definitivamente
all’analisi delle diverse «missioni» in cui l’Italia potrebbe impegnarsi, da
sola o nell’ottica di una integrata «difesa europea».
Nessun dubbio che la ragione di questo «scivolamento operativo» sia
imposta dai fatti più che da qualche improbabile sogno di rinascita
nazionale: che il Mediterraneo si sia progressivamente segnalato come
una delle zone più complesse per la politica internazionale contemporanea è fuori di dubbio; se a ciò si aggiungono le vicende della presenza
di truppe italiane in Libano, i nostri difficili rapporti con la Libia e poi la
crisi dell’«Achille Lauro» (Cassese, 1987) (con la successiva questione di
Sigonella e dell’intervento statunitense), appare tutt’altro che ingiustificato il convergere dell’interesse degli studiosi su quest’area. Un attento e
sistematico scorcio sulle trasformazioni politico-militari intervenute
negli ultimi anni nell’area mediterranea è così al centro del lavoro di
Cremasco (Cremasco, 1986a), uno degli studiosi che hanno seguito con
maggior costanza e continuità le dimensioni strategico-militari sia della
politica estera italiana sia dei paesi europei, sempre con particolare riguardo per la regione mediterranea (cfr. Cremasco, 1978; Cremasco
Relazioni internazionali
63
e Silvestri, 1980; Cremasco, 1982; 1983a; 1983b; 1983c; 1985a; 1985b;
1986b. Considerazioni analoghe valgono per molti dei lavori di S. Silvestri, del resto anch’egli uno dei fondatori e più attivi collaboratori dell’Istituto Affari Internazionali). Ma che non siano esclusivamente ragioni contingenti ed estrinseche ad aver determinato una «ripresa» degli
studi strategici italiani è dimostrato dal tono e dall’intensità assunti dal
dibattito negli anni più recenti.
Emblematici di ciò sono gli scritti di Luigi Caligaris (generale a riposo e oggi commentatore di politica militare per diverse e importanti
testate nazionali), il cui saggio Gli studi strategici in Italia (Caligaris, 1984)
può in un certo senso essere assunto a manifesto programmatico del tentativo di imporre l’analisi strategico-militare all’attenzione della classe
politica, alla luce di un’accezione, estremamente estensiva, del concetto
di «sicurezza» (in un saggio più recente definita come la «politica delle
politiche»; Caligaris, 1986c, p. 163). Nel suo bilancio sullo stato degli
studi strategici, Caligaris muove da un esplicito giudizio di valore, cioè
che «i rischi di una dissociazione fra politica e strategia sono assai più
gravi, dato che la soglia fra pace e guerra è assai meno chiara e determinata che non in passato» (Caligaris, 1984, p. 343)32. Dopo aver criticato l’«Occidente» per essere un osservatore «distratto dai propri problemi esistenziali immediati» (Ibid., p. 344), e quei paesi (come l’Italia)
che, privi di una «grande strategia», si adattano alla situazione del momento (Ibid., p. 347), Caligaris espone la sua concezione della strategia
la quale — lungi dall’essere «un puro esercizio concettuale» — «si deve
intrattenere, invece, con continuità con l’azione e la preparazione per
l’azione» (Ibid., p. 352), se vuol essere all’altezza di fronteggiare «una
situazione internazionale di crescente complessità e instabilità» (Ibid.,
p. 360). Ma senza soffermarsi a dimostrare che tale giudizio sulla natura della strategia sia sostenibile, e senza per altro affrontare un dibattito sullo stato internazionale degli studi strategici, Caligaris conclude
il suo bilancio sostenendo la necessità, tutta operativa, che gli strateghi
(anche «laici») siano chiamati a contribuire all’elaborazione delle politiche nazionali (Ibid., p. 363), con particolare riguardo a quella «estera,
militare, interna, sociale e economica» (Caligaris, 1986c, p. 163): quanto a
dire che la strategia deve diventare la principale «consigliera del Principe»!
Il sostegno metodologico di tale impostazione teorica viene da un altro
generale (ancora in servizio) da pochi anni affacciatosi sul settore
32 È implicito — ma intelligibile — che Caligaris si propone di rovesciare quel «pregiudizio» con cui la cultura progressista occidentale aveva per molti anni guardato, temendone
la prepotenza, al «complesso militare-industriale».
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Luigi Bonanate
del dibattito strategico, Carlo Jean, il quale — inserendosi nello stesso
filone teoretico introdotto anche in Italia dal generale Beaufre, la cui
Introduction à la stratégie era stata tradotta dal Mulino fin dal 1966 — in un
suo saggio contenuto nel primo dei tre volumi che egli ha curato
recentemente (cfr. Jean, 1985b; 1986c; 1987b), propone una definizione
di strategia tanto allargata da farla confluire nella «ragion di stato» (Jean,
1985a, p. 71), alla quale giustamente egli attribuisce il compito, non che
di militarizzare la politica (come Caligaris sembrerebbe invece prediligere), di politicizzare la strategia (Ibid., p. 74). Ma ancora una volta l’eclettismo continua a dominare questo ambito, come mostra la successiva raccolta organizzata da Jean (1986c) che giustappone, invece che
integrare, prospettive teoriche e culturali totalmente eterogenee, non
giungendo conseguentemente a costruire un campo ben delimitato (il
che non vuol dire rinchiuso) nel quale davvero politologi e strateghi possano dialogare.
Se questi sono gli indirizzi prevalenti (oltre che i più recenti) nel settore, non deve esser tuttavia trascurata l’opera di informazione e di aggiornamento culturale che anche altri hanno svolto nell’ultimo decennio.
Così vanno segnalati in primo luogo i lavori di F. Casadio (1979; 1983);
gli studi di Pivetti (1969a; 1969b; 1983; 1985), ripresi e sviluppati più
recentemente da F. Battistelli (1980; 1983; 1985); gli interventi sui problemi delle spese militari e del connesso bilancio strategico mondiale (Mazzocchi, 1982; Devoto, 1982; Rossi 1985a; 1985b)33. Merita infine di
esser segnalata l’opera di fondazione della cultura strategica svolta nei
suoi primi anni dall’IAI, che aveva pubblicato importanti antologie sulla
teoria strategica sovietica (Silvestri, 1971b) e cinese (Celletti, 1976), abbandonando purtroppo presto l’impresa (ma in effetti, avevano tali libri
un pubblico?); così come finalmente l’ospitalità ricevuta su riviste culturali di ampio respiro da saggi scientifici sulla situazione strategica, come
quelli di Fieschi (1982), di Cesa (1986; 1987), di Nevola e Giorcelli
(1986), di Tonello (1984).
33 Particolare importanza acquista l’iniziativa — già ricordata — assunta dall’Archivio
Disarmo e dall’Unione scienziati per il disarmo di curare l’edizione italiana del World
Armaments and Disarmament Sipri Yearbook. Precedentemente l’IAI aveva tradotto — ma
l’iniziativa era durata soltanto dal 1969 al 1972 — l’analogo (ma meno prestigioso) Strategie
Survey, uno dei due rapporti annuali (l’altro è il Military Balance) prodotti dall’International
Institute for Strategie Studies di Londra.
Relazioni internazionali
65
9. Conclusioni: un bilancio che guarda al futuro
Una volta considerati nella loro globalità i quattro settori in cui è
stato suddiviso l’apporto italiano all’analisi politica internazionale, non
si può non constatare, in primo luogo, come quantitativamente esso risulti
più ampio, ricco, variegato di quanto non ci si sarebbe potuto attendere.
Va semmai ribadita ancora una volta la mancanza di una più coerente e
pluralistica ricerca di accumulazione e di dialogo tra culture diverse,
interessi differenti, matrici culturali eterogenee. Non mancano neppure —
in ciascun settore — contributi di notevole livello scientifico che non
sfigurerebbero in alcun confronto (campanilistico) internazionale. Da
questo punto di vista, uno dei risultati di questa rassegna è certamente
positivo, e in parte almeno inaspettato.
Una seconda considerazione riguarda poi il diverso apporto recato
dai quattro settori (metodologia e teoria; politica estera; guerra e pace;
sicurezza e strategia): essi sono tanto più frequentati quanto più ci si
allontana dalla teoria per muovere verso i problemi di attualità, il che
non può esser considerato né un male né uno sviluppo anomalo: ma resta
il timore (tutto accademico, forse) che anche la migliore ricerca empirica risulti indebolita e in qualche misura ingiustificata, in assenza di
un progetto teorico, e a maggior ragione di una griglia di concetti di
riferimento quali solo il consolidarsi di un linguaggio comune controllato e di una metodologia condivisa possono offrire.
Non si può, in terzo luogo, non constatare la marginalità della cultura italiana nel dibattito internazionalistico mondiale: se certo la condizione linguistica vi ha un peso, ben maggiore deve essere considerato
quello derivante dal troppo scarso impegno teorico e metodologico, che
sono indubbiamente i terreni sui quali è possibile — ad un tempo — sviluppare interscambi e dibattiti (la teoria è sempre la stessa, quale che
sia il cielo sotto cui viene elaborata) tra studiosi provenienti da paesi e
tradizioni culturali differenti, e contestualmente progredire anche «in
proprio» — se così si può dire — grazie alla natura stessa di questo tipo
di riflessione. E mancata invece finora nel nostro paese la possibilità
di costruire un’immagine precisa e inequivocabile delle relazioni internazionali, ancora troppo sovente assimilate all’informazione giornalistica
(ciò che in effetti, del resto, molti articoli pubblicati su periodici italiani
avvalorano), oppure perentoriamente confinate nell’ambito del dibattito
ideologico che per la natura stessa della vita internazionale tende a essere schematico e tutto imperniato su grandi contrapposizioni di valore.
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Luigi Bonanate
Si tratta di difetti e limiti che non vanno impietosamente rinfacciati
a una così giovane disciplina: ciò che è grave piuttosto è che essa abbia
tanto tardato ad essere ammessa nella comunità culturale italiana — il
che, come si è cercato di mettere in evidenza all’inizio è una storia che
riguarda altre discipline! Ma ora — entrata a pieno titolo nel mondo accademico, e sulla via di essere riconosciuta dall’opinione pubblica attraverso il sempre più frequente ricorso anche agli esperti di cose internazionali da parte dei mass media — è giunto il momento di dichiarar conclusa questa prima fase storica, alla quale dovrà succedere quella della
verifica dell’attendibilità del credito richiesto dagli internazionalisti; un
po’ come definitivamente superata appare l’età della «guerra fredda»
portando con sé parte notevole di un dibattito strategico improvvisamente invecchiato, alla quale sempre più e sempre meglio sembra potersi sostituire l’immagine di un crescente ordine internazionale — meno
giusto e democratico che pacifico, finora — per studiare e comprendere
il quale un posto sempre più rilevante dovrà ormai essere concesso all’etica della politica internazionale. Introdotta nel mondo accademico italiano esattamente cinquant’anni dopo che Alfred Zimmern accedeva per
la prima volta nella storia a una cattedra di relazioni internazionali (1919,
University College del Galles), tocca alla «scuola» italiana di relazioni
internazionali mostrare se si sia radicata, se abbia dimostrato la sua capacità di spiegare meglio di ogni altra alternativa la realtà e la natura
dei rapporti internazionali, la sua unicità infine nel dominare una problematica per natura estremamente complessa e delicata (se la guerra
è sempre stata, in ogni tempo, l’evento più drammatico e doloroso che
un popolo potesse trovarsi ad affrontare, ben più tragico è il rischio della
distruzione totale che la cultura umana ha saputo oramai offrirsi!).
Volendo tratteggiare una sia pur sintetica agenda, ci si dovrebbe proporre di consolidare i risultati — nella loro parte più originale — della
elaborazione teorica italiana sulle relazioni internazionali. Particolare
impegno andrebbe riposto nel tentativo di delimitare più fortemente la
disciplina — non in vista di inopportuni o improponibili arroccamenti
— allo scopo di caratterizzarne più intensamente la natura politologica,
il che non può avvenire se non grazie a una maggior propensione per la
ricerca empirica, alla quale non mancherebbero interessanti campi di
esercizio (dall’analisi dei processi decisionali al contenuto del dibattito di
politica estera che si svolge all’interno di un sistema politico, dall’analisi
empirica delle guerre alla rilevazione della quantità di ordine effettivamente distribuita per il mondo, dalla identificazione dei diversi regimi
che si sono organizzati intorno a determinati blocchi problematici alla
politica strategico-militare), senza per questo escludere dal campo
Relazioni internazionali
67
aspetti solo in apparenza estrinseci quali quello della ricostruzione dei
cicli storici dei sistemi internazionali, oppure quello del giudizio etico
sulla politica internazionale.
I temi affascinanti non mancano; molto più scarse si sono rivelate
finora le risorse. Il progresso culturale si misura — e si dimostra — con
il modo in cui si orientano le forze a disposizione. Dalla capacità che
mostreranno di avvicinarsi alla problematica internazionale nelle sue varie
sfaccettature — scrivendo magari meno ma meglio, riuscendo a concentrarsi sui temi più importanti invece che su quelli d’attualità (le due cose
possono, ma non sempre, coincidere), non rifuggendo dalla complessità,
ma sfidandola — dipenderanno le sorti di una giovane disciplina che
proprio per questo deve essere osservata con attenzione, ma anche con
rigore e qualche circospetta prudenza, nella consapevolezza che la sua
crescente centralità nel futuro non è difficile da pronosticare.
Riferimenti bibliografici
Sono segnalati qui di seguito i lavori citati nel capitolo e non riportati nella
corrispondente sezione della bibliografia finale, in quanto non strettamente attinenti agli studi internazionali italiani o al tema della sezione bibliografica.
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Capitolo secondo
Storia delle relazioni internazionali
Ennio Di Nolfo
1. Dati istituzionali sull’insegnamento e sulla ricerca
Nell’esaminare la situazione degli insegnamenti di storia delle relazioni internazionali nelle università italiane, va tenuto presente che la
denominazione dell’insegnamento varia secondo le indicazioni degli statuti
delle singole facoltà o corsi di laurea. Nei progetti di riforma attualmente
al vaglio dei consigli di facoltà, la denominazione viene ricondotta alla
formula «storia delle relazioni internazionali». Tuttavia, nell’ordinamento
vigente la dizione può essere anche una delle seguenti: «storia dei trattati e politica internazionale»; «storia dei trattati e delle relazioni internazionali»; «storia dei trattati». Sono stati compresi nell’elenco anche
docenti e ricercatori di materie incluse nel raggruppamento per i concorsi a professore ordinario del quale «storia delle relazioni internazionali» è la materia più consistente dal punto di vista numerico. Attualmente, gli insegnamenti attivati nelle università italiane sono i seguenti:
Bari. Corso di laurea in Scienze politiche presso la Facoltà di Giurisprudenza: Anton Giulio De Robertis (associato); Italo Garzia (associato;
storia dei rapporti tra Stato e Chiesa); Rosita Orlandi (ricercatore). La
Facoltà ha richiesto la copertura dell’insegnamento di storia delle relazioni internazionali mediante concorso per un posto di prima fascia.
Bologna. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato a supplenza.
Cagliari. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato a
supplenza. La Facoltà ha chiesto un concorso per un posto di seconda fascia.
Camerino. Facoltà di Giurisprudenza, corso di laurea in Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato a supplenza.
Catania. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato a
supplenza. La Facoltà ha chiesto un concorso per un posto di seconda fascia.
Firenze. Facoltà di Scienze politiche: Ennio Di Nolfo (ordinario);
Marta Petricioli (associato); Maria Grazia Enardu, Renzo Rastrelli, Antonio Varsori (ricercatori); Francesco Margiotta Broglio (ordinario; storia
72
Ennio Di Nolfo
e sistemi delle relazioni fra Stato e Chiesa nell’età moderna e contemporanea); Giancarlo Mori (ricercatore). La Facoltà ha chiesto un concorso
per un posto di seconda fascia.
Genova. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato
a supplenza.
Macerata. Facoltà di Giurisprudenza, corso di laurea in Scienze
politiche: insegnamento vacante, affidato a supplenza.
Messina. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato
a supplenza. La Facoltà ha bandito un concorso di prima fascia.
Milano Statale. Facoltà di Scienze politiche: Paolo Calzini (associato).
Milano Cattolica. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato a supplenza. Massimo De Leonardis (ricercatore).
Napoli. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato
a supplenza.
Padova. Facoltà di Scienze Politiche: Edoardo Del Vecchio (ordinario); Danilo Ardia (associato); Carla Meneguzzi Rostagni (associato);
Anna Bedeschi (ricercatore).
Palermo. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato a supplenza.
Parma. Facoltà di Giurisprudenza: Alessandro Duce (associato); Silvio Ferrari (ordinario; storia dei rapporti tra Stato e Chiesa).
Pavia. Facoltà di Scienze politiche: Guido Donnini (associato); Donatella Bolech Cecchi (ricercatore); Enrica Costa Bona (ricercatore);
Maria Antonia Di Casola Fantetti (assistente).
Perugia. Facoltà di Scienze politiche: Fulvio D’Amoja (ordinario);
Sergio Angelini (associato); Luciano Tosi (associato). La Facoltà di Perugia ha chiesto la copertura di un posto di storia delle relazioni internazionali mediante concorso di prima fascia.
Pisa. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato a
supplenza. Marinella Neri Gualdesi (ricercatore). Facoltà di Lettere e
Filosofia: Fabrizio Ghilardi (associato).
Roma «La Sapienza». Facoltà di Scienze politiche, corso sdoppiato:
Gianluca André (ordinario); Pietro Pastorelli (ordinario); Nicola Toraldo Serra (ricercatore); Giustino Filippone Thaulero (ordinario; storia dei
rapporti tra Stato e Chiesa). Facoltà di Giurisprudenza: insegnamento
vacante, mutuato. Facoltà di Lettere e Filosofia: Renato Giordano (associato). Facoltà di Magistero: Alfredo Breccia (ordinario).
Roma LUISS. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante,
affidato a supplenza.
Salerno. Facoltà di Giurisprudenza, corso di laurea in Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato a supplenza.
Storia delle relazioni internazionali
73
Sassari. Facoltà di Giurisprudenza, corso di laurea in Scienze politiche: Paola Brundu Olla (ordinario).
Siena. Facoltà di Giurisprudenza, corso di laurea in Scienze politiche:
Giovanni Buccianti (ordinario); Massimo Borgogni (ricercatore); Liliana
Senesi (ricercatore).
Teramo. Università degli Abruzzi, Facoltà di Giurisprudenza: Francesco Lefebvre d’Ovidio (associato). Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante. La Facoltà ha chiesto il bando di un concorso
di prima fascia per l’insegnamento di storia dei rapporti tra Stato e
Chiesa.
Torino. Facoltà di Scienze politiche: insegnamento vacante, affidato
a supplenza; Sergio Pistone (ordinario; storia dell’integrazione europea).
Trieste. Facoltà di Scienze politiche: Giorgio Marsico (associato).
Sono inoltre stati istituiti due dottorati di ricerca in storia delle
relazioni internazionali. Il primo ha sede amministrativa in Firenze,
e raggruppa le facoltà consorziate di Firenze, Perugia, Pisa e Trieste.
Il coordinatore è Ennio Di Nolfo. L’altro dottorato ha sede amministrativa presso l’Università di Roma «La Sapienza» e non ha altre sedi
consorziate. Il coordinatore è Gianluca André. Altri due corsi di dottorato possono essere considerati affini a quello di storia delle relazioni
internazionali, ratio materiae il primo e per la possibilità di ammettere
candidati che svolgano una dissertazione in storia delle relazioni internazionali il secondo. Si tratta di quello di storia del federalismo e dell’Unità europea, con sede amministrativa a Pavia e sedi consorziate
Pavia, Firenze, Genova e Torino, coordinato da Giulio Guderzo, e
di quello di relazioni internazionali con sede amministrativa a Padova
e sedi consorziate Padova, Bologna, Milano e Trieste, coordinato da
Antonio Papisca.
Non vanno infine tralasciati, nel delineare il quadro istituzionale
dello stato della ricerca italiana nel campo della storia delle relazioni
internazionali, i numerosi centri di studi a carattere privato, per la cui
descrizione si rimanda al primo capitolo di questo volume (paragrafo 1).
Esiste in Italia una sola rivista esclusivamente dedicata a temi di storia
delle relazioni internazionali: Storia delle relazioni internazionali, edita
a cura dell’Accademia europea di studi internazionali (Firenze, via Laura
60) pubblicata dall’editore L. Olschki di Firenze con periodicità semestrale. Fondata nel 1985, è diretta da Ennio Di Nolfo (redattore capo:
Antonio Varsori). La Rivista di studi politici internazionali, fondata nel
1933 con periodicità trimestrale, diretta da Giuseppe Vedovato, pubblicata a Firenze (lungarno del Tempio 40), è viceversa la più antica tra
74
Ennio Di Nolfo
quelle pubblicate in Italia che dedichi la sua attenzione in buona parte
a temi di storia delle relazioni internazionali. A questi affianca peraltro
saggi di politica contemporanea e note di materia giuridica economica.
Alla rivista corrisponde una collana di studi che comprende contributi
fra i più importanti per la materia. Altre riviste storiche pubblicano, come
è ovvio (ma non sistematicamente), contributi su temi di storia delle relazioni internazionali. In particolare vanno citate tra queste riviste la
Rassegna storica del Risorgimento e Storia contemporanea.
2. Un bilancio degli studi di storia delle relazioni internazionali
Un bilancio degli studi di storia delle relazioni internazionali (o, più
in generale, di storia internazionale) in Italia presuppone l’abbandono
delle etichette accademiche e l’esame della produzione storiografica in
sé. È più importante considerare ciò che in concreto si fa di ciò che i
custodi delle suddivisioni accademiche pensano di fare o vorrebbero si facesse: badare alla sostanza, prima che alla forma.
Più di altri, questo settore della storiografia ha risentito negli ultimi decenni dell’urto con una realtà esterna che esige una riflessione metodologica. Dopo la seconda guerra mondiale e, più ancora, dopo gli anni Sessanta,
il mutamento del sistema internazionale è stato tale da imporre l’esigenza di un cambiamento di metodi. Nessuno può più pensare che si
possano applicare agli ultimi anni del secolo XX gli stessi strumenti d’analisi utilizzati per l’Ottocento o, ancor più chiaramente, per i secoli
precedenti. Tuttavia, a questo si è giunti dopo un certo travaglio, che
in Italia ha acquistato consistenza soprattutto negli ultimi decenni, riecheggiando spunti provenienti, oltre che dall’Italia stessa, anche dalla storiografia francese.
Pesano sulla storia delle relazioni internazionali prevenzioni antiche,
che scompaiono a fatica. Una nozione, in particolare, appare ormai desueta, mentre qualche decennio fa, quando gli studi di storia delle relazioni internazionali erano alle prime armi, ciò appariva con minore chiarezza. Oggi nessuno — o pochi epigoni — si sentirebbe di affermare la sovrapponibilità (quasi l’identità) del concetto di storia delle relazioni internazionali e di quello di storia diplomatica. Il riferimento può apparire
plateale, ma dopo episodi come l’incidente della centrale nucleare sovietica di Cernobyl, che ha dimostrato l’internazionalizzazione di tutti i
piani dell’esistenza umana, il rifugiarsi, anche solo concettualmente, in
un’immaginaria torre d’avorio diplomatica non ha più che il senso di
una ricerca di isolamento dal reale, di un voler sfuggire i temi di fondo
Storia delle relazioni internazionali
75
della realtà. Anche se, forse, non erano necessari incidenti così clamorosi per osservare cose sin troppo evidenti per chi non si rifiuti di vederle.
L’osservazione ora formulata è però suscettibile di una critica: essa
appare valida solo per il momento politico delle relazioni internazionali;
non interferisce con la questione della ricerca delle fonti, cioè con uno
dei temi metodologici di base sollevato dal dibattito in materia. È noto, del
resto, che la natura delle fonti qualifica quasi sempre il carattere degli studi
che ne derivano. Le fonti diplomatiche sono, come osservava Toscano, per
specificità e sinteticità, esaurienti come rappresentazione del reale
internazionale e di conseguenza possono essere poste a fondamento di
una disciplina fondata prevalentemente su di esse.
L’argomentazione, in sé ineccepibile, restituirebbe legittimità scientifica a una storia diplomatica estesa dall’età moderna a oggi, e sostanziata da catene — o collane — di documenti: mutevoli, poiché non legati
a stereotipi se non per certi caratteri formali, ma capaci, nel contenuto,
di riflettere il mutamento. E, questa, una tesi attraente. Chi ha pratica
di documenti diplomatici è pronto a riconoscere che essi hanno spesso
un valore sintetico efficacissimo. Ma deve anche ammettere che, in questo
caso, «spesso» è un avverbio che, rispetto alla mole pressoché inesauribile dei documenti diplomatici disponibili, si applica a un numero che
diviene assai limitato di casi. Cosicché il carattere di rappresentatività
sintetica di tale documento può essere sostenuto sino in fondo solo in
casi eccezionali e in presenza di altre fonti, che convalidano la specialità
del caso; ma che al tempo stesso finiscono per alterare, inquinandola, la
coerenza dell’ipotesi appena intravista.
Bisogna poi aggiungere, per ulteriore chiarezza, che Toscano, nel sostenere la sua tesi, aveva intuito e anticipato una possibile soluzione concettuale assai fruttuosa, benché lo stato delle conoscenze dei tempi non
rendesse familiari certi chiarimenti. Il valore reale della documentazione
diplomatica risiede nel fatto che essa costituisce un codice omogeneo,
importante più che per quanto esso narra, espone o riferisce, per i regolamenti che esso implica. Purché questi vengano situati con precisione
e con chiarezza, esso può dar luogo a una limpida e rigorosa ricostruzione di significati, che non aggiungono nulla al reale ma lo esprimono
in moduli così omogenei e regolari da rappresentare — i moduli stessi
— un simbolo preciso delle relazioni diplomatiche. Ma lavorare in
questa direzione presuppone un corretto uso semiologico di tali fonti;
il che richiede una certa specializzazione. Viceversa l’habitus cui la prassi
storiografica ci fa assistere consiste nell’uso artigianale della fonte diplomatica; nella manipolazione dei significanti senza cura per i significati. Allora il codice perde ogni carattere di omogeneità e rigore per di-
76
Ennio Di Nolo
ventare solo un brogliaccio dal quale, con un po’ di astuzia e di pratica,
si riescono a trarre le conclusioni più strampalate e più arbitrarie. Come
viene comprovato, deI resto, dall’infinita varietà di letture cui sono sottoposti documenti identici; una varietà che sarebbe legittima, se fosse
sorretta dalle diversità di senso, ma che diviene del tutto casuale quando
è sorretta dall’estro artigianale, dall’accostamento approssimativo, dall’artificio retorico della composizione letteraria.
Numerose sono ancora, sul piano pratico, le espressioni di questa «cosiddetta» metodologia, ma rese logore dall’impossibilità sempre più evidente di dare contenuti politici (o diversi) plausibili a un metodo che,
per usare l’espressione di uno storico americano, il Lafeber, si basa «su
ciò che un diplomatico racconta a un altro».
Questo dibattito ha risentito, e risente, forse più che in altri settori
della storiografia, di ciò che viene discusso fuori d’Italia, sebbene sia
difficile dire che nel resto del mondo siano state raggiunte conclusioni
univoche e soddisfacenti (al punto che la Commissione internazionale
di Storia delle relazioni internazionali ha deciso di tenere in Italia, a
Perugia, alla fine del 1989, un convegno destinato a un confronto sui
temi metodologici, così come essi sono avvertiti dalle principali scuole
storiografiche esistenti nel mondo). Molti spunti sono venuti, negli anni
Cinquanta, dai lavori di Pierre Renouvin e J.-B. Duroselle, che hanno
teorizzato la necessità di studiare le «forze profonde» che generano il
cambiamento internazionale. Più di recente, René Girault affermava:
L’histoire des relations internationales sera totalisante ou elle ne sera pas. Cela signifie que nous devons non seulement employer, le cas échéant, les techniques voisines des sciences hurnaines, mais encore accepter de faire entrer dans nos investigations des champs de recherches historiques en apparence distincts des nòtres. Ici se
placent le fameux problème des relations entre politique intérieure et politique
extérieure, et plus largement le probIeme de la piace des relations internationales
dans l’histoire du monde (Girault, 1985).
In Germania è in atto una profonda revisione dei modelli storiografici ispirati al paradigma rankiano e al concetto di «primato della politica estera» sull’onda dell’affermazione del «primato della politica interna» e del confronto metodologico con le scienze sociali: una revisione
che dà luogo a un dibattito intenso ma lungi dall’essere risolto. In Gran
Bretagna prevale un pragmatismo che tende per ora a sottrarsi al dibattito teorico, o a ricondurlo all’interno dell’interpretazione storica che
predilige le analisi riguardanti le percezioni individuali dei diplomatici
o l’identificazione del ruolo che essi intendono riconoscersi. Donald C.
Watt invitava di recente a liberarsi dalle ambiguità di linguaggio e a studiare le fonti «attraverso gli occhi e la personalità di coloro che le hanno
Storia delle relazioni internazionali
77
prodotte» (Watt, 1985). Negli Stati Uniti, infine, sulla scia di un saggio
volutamente provocatorio di Charles Maier (1980), che decretava la sentenza di morte della storia diplomatica (ma in pratica si riferiva all’inaridimento del filone diplomatico nelle interpretazioni della guerra fredda),
ferve un dibattito serrato e aspro, che dimostra proprio il contrario delle
tesi di Maier, a condizione che si accetti una definizione non tradizionalistica del concetto di «storia diplomatica».
Il dibattito italiano (per ritornare così al punto di partenza) si muove
tra vari poli: un tradizionalismo inconscio, che non si mette nemmeno
in discussione, spesso per pura inerzia intellettuale o per timore del vuoto;
la lunga marcia degli allievi di Chabod, che fanno proprio il richiamo
della scuola francese e cercano l’arricchimento del genere storico considerando le radici profonde dei fatti: radici culturali, radici nell’opinione
pubblica, talora, ma più raramente, radici economiche; lo storicismo
marxista, che si manifesta però nel campo della produzione storiografica più che in quello della riflessione metodologica; la composita e tormentata riflessione della scuola di Toscano, presa tra Scilla dell’adesione a un metodo definito e descritto una volta per tutte e Cariddi
di un adattamento del metodo alle esigenze della nuova storia delle relazioni internazionali; infine un certo disegno scientista, che accetta un
confronto con le scienze sociali (un confronto che domina gli anni Cinquanta e Sessanta ma perde calore nei decenni più recenti) e perviene
all’affermazione della necessità di un lavoro interdisciplinare senza confusione di compiti e di obiettivi, respinge la propensione a sommergere
la storia, in quanto generalizzazione basata su processi logici arbitrari
o individuazione costruita su formule logiche casuali, all’interno delle
altre scienze umane e in particolare della sociologia o della scienza politica o, nel caso in discussione, della teoria delle relazioni internazionali:
recuperando l’esigenza storicistica come punto d’inizio di una procedura da ricostruire.
Accompagnato da alcuni corollari, lo storicismo perde la sua natura
assoluta e consente di definire i rapporti con le scienze contigue al lavoro storiografico. Nessun caso della storia è comprensibile sulla base
dell’intuizione storica, poiché questa non esiste se non come pseudodefinizione di altri processi conoscitivi. Non esiste dunque capacità di capire storicamente se non si è mossi da una teoria che serva a porre domande utili e significative: l’insieme delle domande atte a mettere in
luce quanto è necessario al fine di pervenire a un grado meno approssimativo di conoscenza, alla consapevolezza di muoversi seguendo un certo
interesse teorico-pratico (naturalmente è possibile imbrattar carte anche
senza tener conto di queste esigenze: nella terra di nessuno o nell’Antar-
78
Ennio Di Nolfo
tide, senza direzione, senza significati, senza mèta). Per un approfondimento di questi concetti si veda Di Nolfo, 1986a.
Non è però il caso di addentrarsi oltre su questo terreno; invece è
fondamentale definire confini e punti di contatto con campi di studio
diversi dalla storia ma confluenti nell’oggetto studiato: la vita internazionale. In tal senso esistono esigenze comuni e distinzioni necessarie.
È comune l’esigenza di una corretta definizione del concetto di vita (o
realtà) internazionale, a cui si fa riferimento; comune il bisogno di chiarire la delimitazione del proprio metodo e di evitare sovrapposizioni concettuali che producono solo confusione, facendo retrocedere la ricerca
o enfatizzando diversità naturali, che non hanno bisogno di essere sottolineate.
Vi sono almeno tre grandi branche delle scienze umane che possono
avere per oggetto anche la vita internazionale: l’economia, il diritto e
la scienza politica. Ciò accade quando esse studiano fenomeni economici, giuridici o politici il cui verificarsi riguarda rapporti che si formano
mediante il superamento di una frontiera (quasi sempre statuale) o sistemi di relazioni che si formano per effetto di tale superamento. In questi
casi, la realtà internazionale viene studiata in senso sincronico e con un
progetto nomotetico. La storia delle relazioni internazionali ha lo stesso
oggetto ma non può sfuggire al momento diacronico, anche quando è
storia di intersezioni puntuali, cioè è puramente idiografica. Essa strumentalizza sempre le scienze che le sono vicine; e viene da queste strumentalizzata, quando offre la casistica di richiamo.
Il tentativo di superare queste distinzioni in una visione riduzionistica che assegni il primato a un ramo del sapere scientifico o alla preminenza del conoscere storico non ha forse dato i risultati sperati. I progetti di sintesi interpretative si sono scontrati con la persistenza e la permanenza degli interessi di ricerca da assimilare. Appare dunque di gran
lunga preferibile che le distinzioni vengano scandite, proprio perché la
convergenza dia risultati più rigorosi e, in quanto tali, più facilmente
integrabili. In altri termini, i teorici delle scienze umane sanno che i fatti
della vita internazionale da loro studiati non si collocano nel vuoto, ma
debbono essere collocati in sequenze evenemenziali concatenate e non
falsificabili; e gli storici sanno (forse è giusto dire, in qualche caso, dovrebbero sapere di più) che i discorsi da essi ricostruiti sono sempre intessuti di concetti presi a prestito dal sapere scientifico contiguo. Tanto
per esemplificare, chi volesse occuparsi di un avvenimento così grandioso come la conferenza di Yalta del 1945 potrebbe essere interessato
a studiare come in quella sede fosse elaborato il compromesso che portò
in seguito alla nascita dell’ONU; può studiare il meccanismo di funzio-
Storia delle relazioni internazionali
79
namento del vertice e ricollegarlo a eventi analoghi, per desumerne proprie speculazioni sulla teoria delle conferenze al vertice; può seguire invece il modo e il percorso lungo il quale fu raggiunto un accordo proprio
in riferimento alle ragioni contingenti che resero possibile il compromesso sull’ONU. Sono tre modi diversi di studiare il medesimo oggetto.
Ciascuno mosso da una proposta scientifica autonoma; ciascuno mirante
a illuminare un aspetto di quella realtà, in vista di un risultato che si
collocherà sul piano teorico o su quello della ricostruzione storica; nessuno legittimato a ignorare il senso delle indagini altrui o legittimato
a volerne distruggere il senso perché interno al proprio campo del sapere.
Non sempre ci si rende conto in Italia della mole di lavoro storiografico compiuto dagli studiosi di storia delle relazioni internazionali. Nel
formulare questa proposizione è però necessario avvertire che un bilancio
del lavoro concretamente svolto non può essere condotto seguendo discriminanti metodologiche troppo rigide. Una volta che si è dato conto
dell’esistenza e dei caratteri del dibattito aperto sui temi metodologici,
occorre aggiungere che spesso le linee di demarcazione corrono all’interno di singole opere o all’interno della produzione di singoli autori. Gli
storici acquistano con una certa fatica il senso della coerenza teorica in
quanto dovere, mentre appare loro più congeniale quello della completezza delle informazioni. Tentare un bilancio ispirato a criteri di assoluto rigore vorrebbe dire discriminare e dividere per amore di coerenza
un vasto campo del sapere storico nel quale più voci confluiscono, dando
luogo, appunto, a una produzione assai più ricca di quanto possa sulle
prime apparire. Per parecchi anni dopo la seconda guerra mondiale un
certo provincialismo ha fatto seguito all’infatuazione megalomaniaca
fascista, che concentrava nel primato della politica estera i propri programmi politici. Così, per alcuni decenni, questi studi sono rimasti alquanto nell’ombra, quasi che la realtà internazionale avesse cessato di
esistere o che l’occuparsene fosse segno di velleitarismo post-fascista.
Tenere questi studi nell’ombra, o considerarli quasi un campo minore
della storiografia, esprimeva uno stato d’animo politico, ma non cancellava una produzione pur sempre vasta, anche se di valore diverso (Toscano, 1963; 1970). Molte opere riflettevano l’esigenza giornalistica o
memorialistica di descrivere gli avvenimenti del tempo, o di testimoniare
sul proprio personale protagonismo. Altre riflettevano (e riflettono) una
tendenza allo scandalismo politico, accentuato dal clima di tensione
esistente in Italia anche dopo il 1945. La periodica possibilità di accedere
a fonti archivistiche nuove, rese accessibili dal trascorrere del tempo
oppure dalle norme diverse che regolano la consultazione delle fonti nei
diversi paesi del mondo ha reso possibile la pubblicazione di centoni ap-
80
Ennio Di Nolfo
prossimativi e amorfi ma solleticanti la curiosità pubblica o la deformazione della prospettiva storiografica (un prototipo in tal senso è Faenza
e Fini, 1976). Un’elencazione bibliografica non può escludere la citazione di queste opere, le quali contengono pur sempre contributi che,
collocati criticamente, acquistano il valore di fonti. Tuttavia le considerazioni appena accennate chiariscono le ragioni del silenzio che in un
bilancio storiografico si terrà, come regola, nei confronti di questo tipo
di pubblicistica.
3. Le fonti
In senso lato, entrerebbe nella categoria delle fonti un gran numero
di opere, rigorosamente riguardanti le sequenze della vita politica, economica, giuridica, demografica italiana. Sono opere considerate nei repertori specializzati per materia, ai quali è giocoforza rinviare. Per ciò
che riguarda le relazioni internazionali, va segnalata anzitutto la continuazione istituzionale della pubblicazione dei testi dei trattati e delle
convenzioni stipulati dal governo italiano1, ma l’attenzione deve fermarsi in particolare sulle due raccolte di documenti che costituiscono
il principale contributo italiano alla storia delle relazioni internazionali:
la collezione dei Documenti diplomatici italiani, pubblicata dal Ministero
degli Affari Esteri, e la collezione sulle Relazioni diplomatiche degli stati
italiani preunitari, pubblicata a cura dell’Istituto Storico Italiano per l’età
moderna e contemporanea.
Le due grandi collane hanno tuttavia conosciuto una sorte diversa.
Sotto la direzione di Raffaele Ciasca, la collana sul periodo preunitario
aveva assunto un ritmo regolare e seguiva una programmazione assai vasta,
grazie alla quale si poteva pensare che in breve volger d’anni il monumentale complesso della documentazione relativa ai rapporti fra gli stati
italiani preunitari e le singole potenze europee, nonché la corrispondenza
parallela, tra i rappresentanti delle singole potenze europee presso le corti
preunitarie e i rispettivi governi, potesse essere completata, fornendo
una base esauriente per un riesame definitivo del quadro diplomatico
del formarsi della questione italiana, nonché dei suoi momenti critici
(come il 1848-49 o il 1859-61). Cessata tuttavia la direzione di Ciasca,
1 Trattati e convenzioni tra l’Italia e gli altri Stati, Roma, Tipografia riservata del Ministero
degli Affari Esteri, 1951 e sgg. La raccolta è giunta nel 1987 ai trattati sino al 1956. Nel 1975
ha avuto inizio una nuova serie relativa agli anni dal 1975, della quale è stato pubblicato un solo
volume.
Storia delle relazioni internazionali
81
le pubblicazioni assumevano subito, a partire dalla metà degli anni Settanta, un indirizzo erratico e casuale, che non sembra corrispondere a
criteri obiettivi e che non consente né rendiconti scientifici né previsioni editoriali2.
Ben diversa, fortunatamente, la situazione della raccolta dei Documenti diplomatici italiani. In questo caso, dopo un periodo di stasi seguito alla scomparsa di Ruggero Moscati, la Commissione, presieduta
da Ettore Anchieri ma in effetti coordinata nel lavoro di ricerca e pubblicazione dal vicepresidente, Pietro Pastorelli, ha potuto riprendere sistematicamente il lavoro interrotto, e avviarsi verso il traguardo conclusivo. È noto che la collezione è suddivisa in serie (nove, per la precisione), ciascuna delle quali contrassegna un punto di partenza diverso.
Il traguardo appare raggiunto per la prima serie (1861-70), per la quinta
(1914-18), per la settima (1922-35) e per la nona (1939-43). Meno vicine alla conclusione sono le serie seconda (1870-96), la terza (1902-1907),
la sesta (1918-22) e l’ottava (1935-39). Maggior arretrato ha invece la
serie quarta (1908-14)3. Nell’insieme tuttavia la regolarità con la quale
viene ora sviluppato il lavoro lascia prevedere che entro un numero non
irragionevole di anni questa collezione, così ricca di fonti diplomatiche
ma anche di notizie che escono dal campo ristretto della diplomazia e
costituiscono una fonte generale di storia, e in particolare di storia delle
relazioni internazionali, possa dirsi compiuta. Sempreché gli organi competenti non si sovrappongano al lavoro degli studiosi che attendono alla
pubblicazione, interrompendolo, rallentandolo, ostacolandolo, con freni
di natura organizzativa, limitazioni finanziarie o pretesti burocratici che
ancora rivelano una tenace propensione a conservare il segreto diplomatico rispetto a carte che in altri paesi sono state pubblicate da decenni
e che di segreto ormai contengono ben poco, mentre, conosciute nel
loro insieme, rappresenterebbero un «monumento» storiografico fondamentale.
4. Le tematiche
Le tematiche della storiografia hanno subito, nel corso dell’ultimo
ventennio, un profondo mutamento di accenti. Sin verso la metà degli
anni Sessanta, lo studio dei problemi legati sia al periodo di formazione
del regno d’Italia, sia a certi momenti della politica estera italiana pre2 Per un elenco particolareggiato si veda l’Appendice bibliografica, 2.7.
3 Si veda l’Appendice bibliografica, 2.7.
82
Ennio Dí Nolfo
cedente la prima guerra mondiale, caratterizzava la produzione storiografica. Le incursioni in campi esterni erano occasionali e collegate all’interesse specialistico di un numero assai ristretto di studiosi (così gli
studi sul Medio e Estremo Oriente; gli studi sulla storia africana e persino gli studi di storia americana). Si trattava di interessi scientifici derivanti da itinerari personali o legati, in misura forse maggiore, alla disponibilità delle fonti e a una certa quale persistente angustia di visione, che tendeva a concentrare sulle questioni italiane, possibilmente
remote e quindi asettiche, l’interesse di studiosi che dovevano situarsi
in un contesto ancora abbastanza dominato dalla tradizione prebellica.
Sul finire degli anni Sessanta, invece, acquistarono vigore almeno due
grandi temi che avrebbero poi dominato questo settore di studio: la
politica estera fascista e la questione italiana in quanto legata alla seconda guerra mondiale e al sorgere della guerra fredda. L’Italia, in altre
parole, considerata in un quadro che tendeva a farsi globale. Accanto
a questo, un crescente interesse verso temi non strettamente italocentrici, e l’affiorare dell’esigenza di studiare oltre che il profilo politico
delle relazioni internazionali anche la storia di fenomeni economicosociali, con una attenzione del tutto particolare verso il tema dell’emigrazione e verso quello, correlato al precedente, dello studio delle comunità italiane fuori d’Italia.
La storiografia riguardante il problema della formazione dell’Unità
d’Italia aveva dato, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale,
il suo principale risultato (grazie a autori come il Valsecchi o il Moscati)
nel ridefinire le proporzioni politiche più corrette del rapporto tra azioni
e tradizioni della diplomazia sabauda e mutamenti del quadro internazionale, determinati dall’attività delle grandi potenze europee. L’azione
diplomatica del Cavour, per non citare che l’esempio più macroscopico,
aveva cessato di essere considerata come espressione della conquista della
diplomazia europea alla causa italiana, grazie alle risorse del genio cavouriano, ma era stata studiata come attento inserimento nell’azione delle
grandi potenze, e specialmente nel progetto egemonico di Napoleone
III, al fine di inserirvi un progetto proprio del regno di Sardegna, cresciuto per l’intervento di variabili impreviste sino a diventare progetto
di unificazione nazionale (Moscati, 1947a; 1947b; Valsecchi, 1948; Di
Nolfo, 1967). A questa novità storiografica poco è stato aggiunto (e forse
poco poteva essere aggiunto) nel ventennio successivo, se non Io studio
dí alcuni temi non compiutamente elaborati nella storiografia precedente,
come l’azione italo-francese nei confronti dello Stato pontificio, durante
la crisi della seconda guerra di indipendenza, studiata da Ugolini (1973);
i lavori, purtroppo non sempre lineari e spesso imprecisi di Cessi (1969)
Storia delle relazioni internazionali
83
sulla questione veneta nel 1866; quello di De Robertis (1973) accurato
riesame degli aspetti storico-giuridici della questione del confine settentrionale nel Trentino; quelli di Di Nolfo (1970; 1971a; 1971b) sul triangolo negoziale italo-franco-austriaco nel 1867-70; quello sintetico ma ricco
di spunti interpretativi offerto da Cialdea (1966) in relazione all’inserimento dell’Italia nel quadro delle grandi potenze dopo la guerra del 1866.
Trattazioni tecniche, alle quali va affiancata, sebbene non ovviamente
tutta interna al campo delle relazioni internazionali, la magistrale sistemazione data da Romeo (1984) alla biografia e all’azione politica cavouriana, una sistemazione nella quale i contributi analitici vengono riassorbiti e rielaborati in un quadro d’assieme.
A ciò si deve aggiungere poi che un continuo interesse ha suscitato
il rapporto tra Stato italiano e Santa Sede o la politica estera della Santa
Sede stessa negli anni di crisi. Sul primo aspetto vanno citati i lavori
di Tedeschi (1978a; 1978b), di stretta impostazione tecnico-giuridica,
ma di rilevanza storica; sul secondo un saggio di De Leonardis (1980)
e i lavori della Meneguzzi Rostagni (1973; 1983a; 1983b), che mettono
in luce i dilemmi e i condizionamenti della politica estera del cardinale
Antonelli nell’estinguersi di una capacità d’azione autonoma, e sfatano,
almeno per quel periodo critico, il mito della sconfinata abilità della diplomazia pontificia.
La storiografia sulla politica estera dell’Italia unitaria è un campo largamente inesplorato e inspiegabilmente trascurato, se non per alcuni temi,
del resto non nuovi rispetto alla precedente produzione storiografica e
da autori che sono in gran parte rimasti fedeli ai loro interessi tradizionali di ricerca. Il panorama resta ancora dominato (di lontano) dalla sintesi dello Chabod (edita nel 1950) alla quale non mancano di richiamarsi
e con la quale non cessano di misurarsi anche gli autori dei decenni più
recenti. Non c’è dubbio, del resto, che lo sforzo dello Chabod, di far
emergere le basi della politica estera italiana dal profondo della cultura
politica, della biografia e dell’opinione pubblica del tempo in cui essa
venne elaborata, ha rappresentato un risultato così alto della storiografia
italiana da apparire come il modello inevitabile e la miniera alla quale
attingere per sviluppare successive ricerche: la «nuova storiografia» delle
relazioni internazionali (Vigezzi, 1984), in quanto momento di svolta
nel concepire Io studio della politica estera italiana e parametro delle
fondazioni di qualsiasi altro lavoro affrontasse la stessa tematica. Vero
è che l’opera dello Chabod è rimasta poi monca del suo naturale sviluppo evenemenziale riguardante «i fatti» della diplomazia italiana. Tuttavia resta illusoria la speranza che, una volta costretto a passare dal disegno dell’ambito all’indicazione degli attori e delle loro azioni, lo Chabod
84
Ennio Di Nolfo
si lasciasse trascinare sui sentieri della tradizione tecnicistica, rinunciando
al patrimonio culturale acquisito.
Può apparire, questo, un discorso ozioso, se non fosse che la presenza
delle «premesse» chabodiane restò il modello, forse paralizzante per chi
volesse seguire la via aperta. Sul piano dei contributi interpretativi generali si è avvertita la necessità di ristampare ancora il corso istituzionale di Morandi (1972), utile per l’impostazione e la divulgazione, ma
non più innovativo, a dispetto dei ripetuti aggiornamenti bibliografici.
Quanto a opere nuove, il panorama resta limitato. La sintesi di E.
Decleva su L’Italia e la politica internazionale dal 1870 al 1914 raccoglie
efficacemente lo stato delle questioni alla data di pubblicazione (1974)
e in qualche caso si sviluppa sulla base di ricerche originali, ma per sua
stessa natura non può essere considerata se non come punto di partenza,
memento da affiancare al lavoro dello Chabod nell’indicazione di ciò che
deve esser fatto, più che di ciò che è stato fatto4. Il recentissimo volume di Petrignani (1987) sugli anni dal 1870 alla prima rinnovazione
della Triplice (1887) cerca di ricreare lo spessore chabodiano nel momento della ricostruzione evenemenziale, ma nell’insieme l’opera non
pare andar oltre i meriti di una utile e attenta ricostruzione di un profilo
diplomatico sinora abbastanza trascurato nei suoi lineamenti generali,
senza offrire la robustezza di interpretazione che i primi decenni di
politica estera italiana ancora attendono da qualche studioso che ritenga
opportuno occuparsene.
Così acquista un rilievo assai importante, come svolta metodologica
rispetto allo studio generale della politica estera italiana, la ricerca diretta da Fabio Grassi (1986) su La formazione della diplomazia nazionale
(1861-1915), un’opera nella quale, così come nelle prime indagini particolari che la accompagnano5, dedicate alla struttura degli organi preposti all’emigrazione e alla documentazione archivistica del fondo «Commissione centrale arbitrale per l’emigrazione», il problema della elaborazione della politica estera italiana viene affrontato, per così dire, dal
basso o dalla sua premessa socio-culturale, come individuazione analitica della natura e composizione del corpo diplomatico italiano. Il che
4 Recentemente Decleva ha pubblicato un interessante volume che raccoglie e coordina vari saggi sulla
politica estera italiana, quasi in una linea di continuità ricostruttiva (Decleva E., L’incerto alleato.
Ricerche sugli orientamenti internazionali dell’Italia unita, Milano, F. Angeli, 1987).
5 Si tratta dei regesti La struttura e il funzionamento degli organi preposti all’emigrazione
(1901.1919), a cura di F. Grispo, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1986; Inventano
del fondo «Commissione centrale arbitrale per l’emigrazione» (1915-1929), a cura di P. Santoni,
Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1986.
Storia delle relazioni internazionali
85
costituisce un contributo innovativo di eccezionale interesse per la storia
dell’amministrazione della diplomazia italiana e una serie di indizi di
grande valore nel ripercorrere poi itinerari politici e culturali di ogni dimensione, ma si colloca, per quanto riguarda i problemi dell’interpretazione generale della politica estera italiana, o dell’individuazione, oltre
che delle sue radici (premesse) anche del suo divenir piantagione o fioritura, su un piano ancora preparatorio. Di recente poi il Grassi ha aggiunto ai saggi introduttivi un grosso volume nel quale viene fornito un
altro strumento di lavoro fondamentale per l’ulteriore progresso della
ricerca, un volume repertorio dei diplomatici italiani dall’unificazione
alla prima guerra mondiale, che per ciascuno reca una accurata biografia
con indicazioni bibliografiche concernenti sia gli scritti dei singoli
personaggi sia gli scritti dedicati ai personaggi medesimi (Grassi, 1987).
Le osservazioni formulate in relazione al quadro generale degli studi
sull’età postunitaria riguardano il problema di definire il limite di un
campo di interesse della storiografia italiana. Non intendono ovviamente
sottacere il fatto che nonostante l’esistenza di tale limite alcuni temi,
alcuni aspetti o alcuni protagonisti della politica estera postunitaria siano
stati l’oggetto di opere di molti meriti. Sugli anni della politica estera
italiana dopo la presa di Roma resta ancora un lungo silenzio, che tende
a diradarsi per il periodo vicino al congresso di Berlino e per quello relativo alle origini della Triplice o a certi aspetti tecnici di questa6. Si
tratta però di opere molto particolari che prendono in considerazione
momenti circoscritti e fanno sentire la perdurante mancanza di uno studio
ampio e adeguato sulla più importante scelta di fondo compiuta dalla
politica estera italiana dopo l’unificazione. Viceversa sono stati trattati
con puntualità aspetti successivi, come la crisi delle relazioni italo-francesi
nel campo marittimo e l’azione del Di Robilant, in concomitanza con
la fase della prima rinnovazione della Triplice Alleanza (Del Vecchio,
1970), quelli riguardanti le convenzioni navali che seguirono l’evolvere
delle relazioni triplicistiche (Gabriele, 1969), quelli militari, che mettono in luce le radici della politica triplicista nelle forze armate italiane
e, di conseguenza, l’ambito inizialmente circoscritto della politica di parziale distacco dall’alleanza, ricorrente al Ministero degli Esteri italiano
(Mazzetti, 1974).
6 Sugli anni e gli sviluppi della Triplice alleanza si vedano, oltre al citato volume di R.
Petrignani: Ghilardi F., Politica estera e trasformismo. Le relazioni anglo italiane dal 1878 al
1888, Milano, F. Angeli, 1981; Malinverni B., Il primo accordo per il Mediterraneo (febbraio-marzo
1887), Milano, Marzorati, 1967.
86
Ennio Di Nolfo
L’azione e la figura di Francesco Crispi restano uno dei temi di maggior attrazione di tutto l’arco prebellico. Renato Mori, seguendo lo sviluppo logico dei suoi precedenti lavori sulla questione romana, ha studiato il rapporto tra le forze interne che sostennero la politica crispina
e certi azzardi che questa volle tentare nello spingere verso interpretazioni dinamiche del triplicísmo (Mori, 1973), mentre Carlo Zaghi ha
studiato con enfasi gli sviluppi imperialistici dell’ultima politica crispina
(Zaghi, 1973). Sergio Romano (1986), nelle sue diverse elaborazioni della
politica e della personalità crispina, affronta i temi della politica internazionale mettendo in evidenza il carattere nazionalistico dell’esasperazione della politica nazionale e imperiale dello statista siciliano e, a sua
volta, Enrico Serra, lo specialista degli studi italiani sulla politica estera
di fine secolo o dei primi anni del Novecento, ritornava sulle premesse
di questa fase di svolta cercandone i riferimenti diplomatici e quelli legati al divenire interno dei temi di politica internazionale (Serra, 1968).
Studi, questi, ai quali va affiancato lo sforzo compiuto da R. Rainero
(1971) per affrontare anche l’altro aspetto dell’opinione pubblica, quello
meno clamoroso, ma potenzialmente maggioritario, il fronte anticolonialistico, nel suo formarsi durante la fase del primo colonialismo italiano, fra la conquista di Assab e la sconfitta di Adua.
Sul periodo successivo a quello crispino si dispone di un’opera di
E. Decleva (1971) che, pur nell’ambito della ricostruzione di un rapporto bilaterale, peraltro tale da rappresentare una delle due facce della
alternativa diplomatica italiana e dunque tale da rappresentare inevitabilmente l’occasione di un profilo completo di questa, costituisce un eccellente esempio dello sforzo che la scuola di ispirazione chabodiana
compie per collegare il profilo della vita diplomatica con gli sviluppi della
politica interna e gli orientamenti dell’opinione pubblica, così da metterne in rilievo l’inscindibilità sul piano storiografico o, quanto meno,
da porre il problema della necessità che i due aspetti, anche quando separati, siano in pari maniera tenuti presenti.
Con questo studio si entra nel campo del grande mutamento di accenti avvenuto in Italia con il volgere del secolo XIX e con l’età giolittiana. Sono gli anni del nazionalismo, del socialismo, della politica imperialistica giolittiana: gli anni che Giuseppe Are ha efficacemente definito
come quelli della scoperta dell’imperialismo, in quanto scoperta delle sue
precondizioni industriali, delle sue basi culturali e delle sue componenti
demografiche (Are, 1985). Il tema è stato studiato da G. Sabbatucci
(1970-71), che ha seguito il filone del legame tra nazionalismo e
irredentismo, e da Alberto Aquarone, che dedicò una serie di saggi di
grande rigore e ricchezza alla ricerca del rapporto tra forze economiche,
Storia delle relazioni internazionali
87
gruppi di pressione e formazione del programma coloniale italiano (Aquarone, 1977b). Temi, questi, poi ripresi in modo variegato da diversi autori in un convegno dedicato per l’appunto al nazionalismo italiano a
cura del Gabinetto Viesseux di Firenze (AA.VV., 1986). Del pari notevole è il lavoro dedicato da L. Goglia e F. Grassi (1981) all’imperialismo
italiano visto nella molteplicità delle sue componenti in un saggio che
raccoglie fonti rare o significative.
All’interno del periodo giolittiano si collocano poi singoli momenti
che sono stati l’oggetto di contributi dall’efficacia diversa. Il patto ítalorusso di Racconigi è studiato in un volume di G. Donnini (1983), circoscritto alla ricostruzione delle scansioni cronologiche del negoziato diplomatico che portò al trattato. A. Duce ha studiato, sulla base di una
ricca documentazione, la fase iniziale della politica di penetrazione italiana in Albania fra il 1897 e il 1913 (Duce, 1983). Maggior interesse
ha suscitato, ovviamente, il tema della guerra di Libia, che è stato l’oggetto di un lavoro di F. Malgeri (1970), più interessato agli aspetti riguardanti l’origine interna e politico-culturale dell’impresa, e di un recentissimo lavoro di A. Del Boca (1986-88). Questi ha ampliato l’analisi
sino a ricercare le prime occasioni dell’espansione italiana nell’Ottocento,
la lunga preparazione diplomatica, il conflitto e gli eventi succeduti a
esso sino al 1922, cioè alla estinzione dell’impero ottomano, con risultati
che risentono abbastanza volutamente del disappunto rispetto al
mancato stabilirsi di una seria collaborazione, anziché di un rapace
colonialismo, tra i popoli delle due sponde del Mediterraneo: storiografia
di impegno civile dunque e, come tale, caratterizzata o condizionata da
visioni di politica attuale.
Sulle questioni attinenti la politica economica internazionale dell’Italia e le sue ripercussioni sulla politica estera va poi messo in rilievo
un nuovo impegno storiografico, con il massiccio lavoro di documentazione elaborato da Del Vecchio su La via italiana al protezionismo. Le
relazioni economiche internazionali dell’Italia 1878-1888 (Del Vecchio,
1979-80); mentre costituisce un brillante esempio di ricomposizione del
momento politico con quello economico-finanziario e quello culturale
il lavoro dedicato da M. Petricioli all’espansione italiana nell’Asia minore alla vigilia della prima guerra mondiale (Petricioli, 1983). Anzi, proprio questo saggio indica come sia possibile sfuggire ai rischi della parcellizzazione storiografica per tener conto della molteplicità di spiegazioni possibili in eventi complessi.
Per quanto riguarda gli anni immediatamente precedenti la prima
guerra mondiale e la crisi di Sarajevo, va ricordato un recente volume
di Repaci (1985), garbata ricostruzione che risale nel tempo sino alle
88
Ennio Di Nolfo
origini della politica estera italiana, senza peraltro innovare rispetto allo
stato degli studi, quasi che con l’opera del Vigezzi fosse conclusa la lunga
polemica sull’intervento (salvo l’aggiunta di alcuni saggi minori, come
quello della Procacci sull’interventismo di sinistra [Procacci, 1980] o la
pubblicazione di fonti che riguardano sia la fase prebellica sia gli anni
di guerra, e che, sebbene ricche di un diverso grado di novità, contribuiscono a completare il quadro informativo. Ci si riferisce al Diario e
agli Scritti e discorsi di S. Sonnino, editi da B. Brown e da P. Pastorelli
[1972-75; 1975-81] alle Memorie di V.E. Orlando, a cura di R. Mosca
[1970] e ai Diari di A. Salandra a cura di G.B. Gifuni [1971]).
Sugli aspetti politici e, conseguentemente, diplomatici della guerra,
giova citare l’opera del Melograni, che affronta però il tema nei suoi
aspetti generali (1969); sugli aspetti economici deve essere tenuta presente un’opera di notevole originalità per gli studi italiani, nella quale
E. Del Vecchio affronta i problemi della cooperazione economica e finanziaria nella politica di guerra dell’Intesa, mettendone in luce le conseguenze interne e internazionali a breve e lunga scadenza (1974); mentre
sugli aspetti diplomatici e internazionali degli anni di guerra esiste un
certo numero di lavori che hanno individuato temi di rilievo non marginale, ma che non forniscono ancora un quadro d’assieme del senso internazionale della guerra per la politica italiana.
Il Monticone ha dedicato un volume di grande importanza (Monticone, 1971) al tema controverso del negoziato con gli imperi centrali
per una soluzione di compromesso che garantisse la neutralità italiana
assicurando all’Italia quel «parecchio» di cui aveva parlato Giolitti. Monticone riconosce apertamente i limiti «diplomatici» della sua opera, che
tuttavia travalica tali limiti nella ricerca, spesso felice, delle motivazioni
di fondo della scelta italiana del maggio 1915. A sua volta, Pastorelli
ha studiato un tema apparentemente periferico, come la questione albanese, dal 1914 al 1920, ma questa gli ha offerto lo spunto non solo per
una approfondita disamina del caso, bensì anche per una rivisitazione
di tutti gli aspetti della politica balcanica dell’Italia negli anni della guerra
e del dopoguerra (Pastorelli, 1970); A. Ara ha studiato con puntualità
la politica degli Stati Uniti verso l’Austria-Ungheria, ripercorrendo le
tappe della formazione di un atteggiamento arti-absburgico e studiando
anche il problema della minoranza italiana in Austria, nella fase finale
dell’esistenza dell’Impero absburgico (Ara, 1973; 1974); Tosi si è occupato della propaganda italiana all’estero durante la guerra, individuando
così un profilo non abituale ma emergente nelle relazioni internazionali
(Tosi, 1977); M. Petricioli (1972), affacciandosi sul dopoguerra, ha studiato la spedizione italiana nel Caucaso del 1917; mentre un quadro breve
Storia delle relazioni internazionali
89
ma denso di spunti interpretativi della posizione italiana verso i problemi della pace è delineato da F. D’Amoja (1969-71)7.
Fra i temi «nuovi» della politica estera e internazionale degli anni di
guerra e dell’immediato dopoguerra è naturale che il problema della
rivoluzione russa occupi un posto di grande rilievo. Di questa sono stati
visti gli aspetti occasionali, ma ricchi di elementi informativi, come lo
studio delle vicende della Commissione militare italiana in Russia svolto
dal Biagini (1983); il diverso proporsi e la diversa azione degli esuli russi
in Italia prima e dopo lo spartiacque del 1917 (Tamborra, 1977); l’influenza della rivoluzione sul laburismo britannico8. Tuttavia l’autore
che ha fermato, e con maggior efficacia, la sua attenzione sulle ripercussioni della rivoluzione russa in Italia è stato G. Petracchi, che ha dedicato a questo tema due volumi e una serie di saggi (1974; 1982). Nell’ultimo di questi volumi, denso di riferimenti economici, culturali e diplomatici, il Petracchi ricostruisce con notevole perizia l’effetto della
rivoluzione sulla società e sulla politica estera italiane e la diversità delle
reazioni degli statisti italiani nei confronti dell’apparire sulla scena internazionale del nuovo e dirompente soggetto politico. Tema, quest’ultimo, studiato anche da E. Serra (1975) con particolare riferimento alle
posizioni assunte da F. S. Nitti e alle ambizioni di questo, di ricondurre
entro un tracciato revisionistico il progetto rivoluzionario mondiale.
Meno in evidenza, certo perché largamente trattati dalla storiografia
italiana negli anni immediatamente precedenti, i temi relativi ai negoziati per i trattati di Parigi o quelli riguardanti la genesi del fascismo
nei suoi aspetti collegati con il quadro internazionale, temi per i quali
è però necessario ricordare sia il lavoro d’assieme di Veneruso (1968)
sia quello più recente di Gentile (1982).
5. Studi sulla politica estera fascista
Dopo i lavori, in un certo senso pionieristici, della prima parte degli
anni Sessanta, gli studi sulla politica estera fascista hanno invece conosciuto uno sviluppo ricchissimo, che pur a diversi piani di approfondimento e seguendo metodologie talora assai lontane, lasciano ormai pochi
aspetti della politica estera fascista del tutto vergini rispetto a qualsiasi
7 Si veda inoltre Cialdea B., «La sicurezza europea e Ia pace del 1919-1921» in Storia e
politica, XIII, 1974.
8 Massardo Maiello (1974). Sugli echi dell’opinione pubblica italiana, cfr. Donnini (1976).
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Ennio Dí Nolfo
forma di trattazione. Ciò è dovuto all’evidente mutare delle circostanze storiografiche. Sin al termine degli anni Cinquanta era stato forte in Italia l’influsso della polemica antifascista militante, specialmente quando essa si
intrecciava con una sapienza storiografica sperimentale. La ripubblicazione, nel 1952, del saggio di G. Salvemini su Mussolini diplomatico aveva lasciato un’impronta critica e aperto problemi, che sarebbe stato difficile superare. D’altra parte Salvemini, nel suo vigore polemico, aveva centrato uno
degli aspetti principali della politica estera di Mussolini, cioè il suo carattere propagandistico, la sua utilizzazione come strumento di consenso anche, anzi soprattutto, interno. Il che portava a oscurare altri aspetti, più
tecnici o più legati a momenti particolari della politica internazionale, che
avrebbero richiesto analisi di documentazioni non ancora disponibili. A
partire dalla seconda metà degli anni Sessanta questo clima cominciava a
modificarsi, paradossalmente anche grazie alla pubblicazione del secondo
volume dedicato da Salvemini alla politica estera mussoliniana (Preludio alla Seconda guerra mondiale, 1967), nel quale, pur senza rinunciare alla sua
battaglia polemica e al suo impegno di demistificazione, il grande storico
pugliese coglieva con eccezionale lucidità e con insuperata precisione i
punti critici del rapporto tra ambizioni e frenesie mussoliniane e politica
estera delle altre potenze europee o mondiali, così da togliere l’Italia da un
isolamento di responsabilità esclusive, viceversa condivise anche dalle
grandi potenze occidentali. Era una lettura «revisionistica» che anticipava,
pur senza averne la risonanza, le polemiche suscitate dall’opera di A.J.P.
Taylor. Si affacciava in questo clima il bisogno di lavorare sulle fonti, trattando un gran numero di argomenti aperti, senza cedere all’impeto della
visione a tutti i costi negativa e proponendosi anzi problemi che finivano
per svuotare tale approccio.
Primo e preliminare, fra tali argomenti, quello di capire sino a che
punto la politica estera fascista continuasse le tradizioni nazionali e sino
a che punto si collocasse al di fuori di esse. Si tratta, come è ovvio, dell’aspetto internazionale di una questione più generale relativa all’interpretazione del fascismo come fatto accidentale o come male radicato nella
società italiana.
Una vera e propria cascata di problemi storiografici è stata messa in
moto a questo fine in sé imponente, anche a prescindere dai risultati
particolari. Per tentare di dare un ordine a questo insieme e situarlo in
una sequenza cronologica non del tutto approssimativa, le discussioni
hanno affrontato il tema preliminare di scavare nelle origini culturali
della politica estera di Mussolini. G. Rumi (1968), che ha sviluppato
questo difficile tema, nonostante i buoni propositi d’ispirazione indi-
Storia delle relazioni internazionali
91
rettamente chabodiana, non riesce a mettere ordine in un flusso di spunti
eterogenei. D’altra parte, capire le basi culturali e l’origine politica dell’azione fascista è possibile solo approfondendo il solco, anziché ridurlo
alla scorza nazional-fascista. Non dissimilmente G. Carocci, in un altro
importante saggio sulla fase iniziale della politica estera fascista (gli anni
dal 1925 al 1928), con riferimento speciale all’azione italiana nella penisola balcanica, pur movendo dall’assunto ambizioso di svelare le radici
di classe dell’imperialismo italiano, non perviene a una persuasiva fusione
tra l’aspetto teorico della sua analisi e quello «narrativo», nel quale le
fonti vengono utilizzate con grande competenza e ineguagliata informazione, per costruire un profilo circoscritto, negli aspetti logicamente
centrali, all’analisi di una dinamica diplomatica (Carocci, 1969).
Le discussioni hanno così affrontato il tema preliminare se al di sotto
dell’impulsività e del disordine dell’azione mussoliniana possano discernersi linee strategiche, magari inconsce e tali da dare al disordine evenemenziale una certa qual coerenza rispetto all’ordine di una strategia.
Ma se è risultato abbastanza agevole ritrovare gli elementi costitutivi
del pensiero mussoliniano, rintracciandoli nell’eredità nazionalista, nella
spinta colonialistica e, soprattutto, nell’esasperazione del concetto di politica di potenza sino alle sue estreme conseguenze e, perciò, soprattutto
nella ricerca di quel prestigio esterno che della «potenza» dovrebbe essere la prima espressione, meno facile è risultata l’applicazione dello
schema strategico alle diversità dei casi (De Felice, 1968; 1974; 1981;
Berselli, 1971; Di Nolfo, 1974).
L’esordio ispirato insieme alla volontà di collaborare con le grandi
potenze europee, così da mostrare eguaglianza nei loro confronti, ma
anche di contendere loro risultati immediati, in una linea politica che
alternava momenti pienamente pacifistici con impennate preimperialistiche, è stato studiato anche da M. Pizzigallo (1983) che, movendo da un tema apparentemente marginale (Mediterraneo e Russia nella
politica italiana 1922-1924) in realtà si è proposto l’analisi di tutti gli
aspetti dell’azione mussoliniana nel Mediterraneo e dell’immediato
scontro che essa provocava sia sul piano coloniale (questione dei mandati) sia su quello marittimo rispetto alle intenzioni strategiche britanniche. Presenti, queste, anche nelle pagine di un precedente lavoro di
M. Angelini (1970) sui patti di Locarno e l’Italia. Lo stesso Pizzigallo
ha poi arricchito le sue indagini in direzione strutturale, grazie a un insieme di saggi sulla politica petrolifera e sugli interessi italiani nel Medio
Oriente, che rappresentano nell’insieme un contributo sostanziale al superamento di una tendenza a lasciarsi condizionare dalle impressioni suscitate dal verbalismo mussoliniano o da quelle generate dalla precoce
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Ennio Di Nolfo
definizione lanciata nel 1922 da Carlo Sforza, quando aveva profetizzato l’avvento di una politica estera basata su «sentimenti e risentimenti» (Pizzigallo, 1981; 1984). Appena accennato invece il periodo iniziale della politica estera fascista nella biografia di De Felice su Mussolini: come aspetto
ancora marginale rispetto ai temi del consolidamento interno che dominavano la formazione delle basi della dittatura (De Felice, 1974; 1981).
Viceversa sono stati l’oggetto di studi approfonditi temi bilaterali
che hanno messo in luce anche i caratteri generali della politica del duce.
P. Pastorelli aveva fatto precedere al suo studio sui rapporti italo-albanesi
durante la prima guerra mondiale un altro lavoro sullo stesso tema per
gli anni 1924-27, ricco di documentazione e tale da illuminare i numerosi aspetti di un momento che estendeva la sua influenza all’intera politica balcanica dell’Italia, metteva in gioco le relazioni con la Francia
e la Gran Bretagna, rappresentava la prima occasione per Mussolini di
verificare le basi dell’espansionismo italiano, faceva affiorare il tema,
poi reiterato, del revisionismo (Pastorelli, 1967b). Su momenti paralleli
ritornavano in seguito autori non italiani ma che, avendo pubblicato le
loro opere per la prima volta in Italia, possono considerarsi appartenenti
alla storiografia italiana, come il Burgwyn (1979), che studiava con molto
impegno analitico le basi materiali del revisionismo fascista e il Borejsza
(1982) che del pari analizzava la politica balcanica dell’Italia in tutto
il suo arco di svolgimento.
Altri autori toccavano problemi bilaterali, come più di recente Marsico, in un bel libro sulla questione dell’ Anschluss, visto nei suoi aspetti
di problema politico europeo, condizionante poi tutta la politica estera
fascista (Marsico, 1983); e Lefebvre d’Ovidio (1984), che traeva lo spunto
dagli accordi del 1935 per tracciare un panorama persuasivo e rigoroso
del significato delle relazioni con la Francia nella politica di Mussolini
e nella speranza del duce di raggiungere i suoi obiettivi strategici grazie
a un’alleanza con il governo di Parigi, dalla quale sarebbero usciti frutti
più copiosi e meno costosi di quelli promessi da un’intesa con la Germania; tema, questo, interno anche ad altri lavori di mole minore di
Di Nolfo (1974), riguardanti i rapporti italo-austriaci, intesi come elemento caratterizzante gli orientamenti di fondo della politica estera mussoliniana, e di De Felice (1973), che documentava le difficoltà dell’intesa
italo-tedesca dopo l’Anschluss e dopo l’armistizio dell’8 settembre. I
rapporti con il Giappone sono infine stati studiati con originalità di
interessi e buoni risultati complessivi da V. Ferretti (1983), in una serie
di contributi che trattano l’arco di tempo dalla guerra d’Etiopia sino
alla vigilia del secondo conflitto mondiale.
Storia delle relazioni internazionali
93
Meno legati al quadro europeo, ma indirettamente intrecciati al ruolo
italiano nella vita finanziaria mondiale, i saggi dedicati da C. Damiani
e da G. G. Migone ai rapporti fra Mussolini e gli Stati Uniti. Il lavoro
della Damiani (1980), molto accurato nella ricerca delle fonti, si arresta
tuttavia agli inizi dell’età rooseveltiana e sviluppa gli aspetti politici. Migone invece cerca di tracciare una storia dell’evoluzione delle relazioni
tra il mondo finanziario italiano e quello americano, quasi delineandole
come premessa di successivi sviluppi: con risultati suggestivi ma discutibili e problematici, per l’eccesso di distorsione imposto dalla volontà
di individuare le basi remote della successiva egemonia finanziaria globale degli Stati Uniti (Mígone, 1979b; 1980b). Assai più persuasive in
proposito, sia nella ricostruzione evenemenziale sia nel tracciato problematico, basato sul disegno di ricollegare la politica estera fascista alla
crisi economico-politica europea tra la fine degli anni Venti e l’inizio
degli anni Trenta, erano state le pagine di D’Aiuola, nel suo lavoro sulla
crisi del sistema di Versailles (D’Amoja, 1967). Su questo stesso arco
di tempo si fermano espressamente anche i due volumi di documenti
e discorsi pubblicati recentemente da Dino Grandi e buona parte del
diario (Il mio paese), che lo stesso uomo politico ha accompagnato alla
precedente pubblicazione: fonti preziose, ma pesantemente condizionate
dall’intento autoapologetico e, talora, da una certa limitazione dell’informazione storiografica, pur necessaria quando la memorialistica viene
«ricostruita» a decine di anni di distanza dagli eventi documentati
(Grandi, 1985a; 1985b).
I presupposti della politica italiana verso l’Etiopia e la continuità tra
fase fascista e fase prefascista vengono esposti in due volumi di G. Buccianti (1977; 1984), intesi alla ricostruzione del tracciato diplomatico del
problema. Sull’espansionismo mussoliniano verso l’Africa si sono fermati
anche Rainero (1978), che ha ripreso il tema delle ambizioni sulla Tunisia, in una interessante ricostruzione d’assieme e Del Boca, nella sua
vasta opera sull’azione italiana in Etiopia (1976-84) che nel secondo volume affronta gli anni dell’espansione fascista con ricchezza di accenti
e interessi come del resto anche Procacci (1984), che ha studiato il tema
dal punto di vista della vittima, l’Etiopia, e degli oppositori, gli ambienti
del socialismo internazionale. Più deliberatamente interno al problema
dell’analisi diplomatica, ma attento nel percepire i punti critici dello
scontro-incontro politico in atto fra le potenze, è il lavoro assai documentato di R. Mori sull’impresa etiopica in se stessa (Mori, 1978)9 .
9Sulle ripercussioni europee e in particolare sulla rimilitarizzazione della Renania
osservazioni acute in Panizza, 1972.
94
Ennio Di Nolfo
Sul tema dell’impresa etiopica, che costituisce lo spartiacque per l’analisi della politica estera di Mussolini, si è fermato a lungo anche De
Felice, nella sua biografia mussoliniana.Valendosi di una documentazione
assai estesa, De Felice pone una serie di problemi riguardanti la genesi
dell’interesse di Mussolini verso l’Etiopia, la preparazione dell’impresa,
i collegamenti con l’evolvere della politica europea, il disegno di conseguire il risultato all’interno della politica di alleanze occidentali facendo
valere la nozione di «peso determinante» dell’Italia negli equilibri europei, una nozione chiaramente attinta dalla tradizione del «colpo di timone» impresso alla rigidità della politica triplicistica dei primi anni del
secolo. L’insuccesso neI conseguire risultati spinse rapidamente Mussolini verso i primi passi di un compromesso con la Germania sull’Austria,
e poi verso l’Asse (De Felice, 1973; 1974; 1981).
Trascurato per un certo tempo dalla storiografia italiana, soprattutto
a causa delle difficoltà di accedere alla documentazione, il periodo dell’avvicinamento e dell’alleanza con la Germania è stato da ultimo l’oggetto di una serie di studi che hanno messo in luce la ricchezza di problemi che tale breve arco di tempo presenta. In particolare emerge da
essi la tutt’altro che univoca scelta mussoliniana e, anzi, il continuo ripercorrere, da parte del duce, la speranza di poter frenare la spinta revisionistica della Germania sia mediante concessioni, sia mediante l’intesa con le potenze occidentali (un’intesa da ricostruire dopo la crisi etiopica e durante le asperità della crisi spagnola) sia mediante il tentativo
di anticipare le mosse strategiche hitleriane in modo di svuotarle della
loro portata dirompente per il sistema europeo. Dove, come e se siano
possibili tali distinzioni è oggetto di dibattito tuttora aperto.
Non manca chi appare disposto a sostenere la tesi che la disponibilità mussoliniana a un compromesso antitedesco o comunque tale da
contenere l’espansionismo germanico durasse sino alla vigilia della guerra o, addirittura, perdurasse sino a guerra iniziata (De Felice, 1981; André, 1973) o persino — in modo involontariamente caricaturale — al
periodo successivo all’entrata in guerra dell’Italia (Quartararo, 1980a),
ma ciò mediante un uso che costringe le fonti a dire quanto brani di
citazioni isolate possono affermare, senza tener conto del discorso politico in cui esse si inseriscono.
In questo quadro d’assieme si colloca una serie di lavori. P. Brundu
011a, nel volume L’equilibrio difficile (1980), mette in rilievo alcuni caratteri della politica mediterranea di Mussolini interpretando l’intervento
in Spagna come mezzo per isolare la Francia ma soprattutto come metodo per neutralizzare la politica britannica neI Mediterraneo, spingendo
gli inglesi verso un accordo. Questo accordo è, a sua volta, l’argomento
Storia delle relazioni internazionali
95
di due lavori di D. Bolech Cecchi, la quale tende a sottovalutare come
temporanea la portata di una convergenza già superata dai fatti (Bolech
Cecchi, 1977), ma che tuttavia riaffiora nei mesi susseguenti, sino all’inizio della guerra, lungo una catena di contraddizioni della politica fascista, nel corso della quale Mussolini tenta sino in fondo di destreggiarsi tra Francia e Gran Bretagna per conservare mano libera nel Mediterraneo, dove la diplomazia hitleriana lo ha però imprigionato (Bolech Cecchi, 1986).
Tema di dibattito puntuale, ma riassuntivo rispetto a interpretazioni
di più lunga portata, è il cercare di definire l’esatto momento in cui Mussolini decise che l’Italia sarebbe entrata nella seconda guerra mondiale:
se la decisione fosse solo rinviata nel settembre 1939 e quindi il periodo
successivo fosse animato da reale desiderio di compromesso; se la scelta
venisse nel marzo 1940, dinanzi alla determinazione di Hitler di proseguire la guerra a tutti i costi o se fossero piuttosto gli eventi in Francia
a persuadere Mussolini che nessun’altra alternativa restava all’Italia se
non quella di seguire la Germania, sicura vincitrice, o restar subalterna
all’egemonia tedesca in una nuova Europa dominata solo dai nazisti. Su
questi temi hanno scritto André (1973), De Felice (1973), Vigezzi (1985),
Quartararo (1980), Di Nolfo (1985), con argomentazioni diversamente
persuasive ma nell’insieme tali da mostrare come, lungi dall’essere univocamente determinata dalla firma del patto d’acciaio, la politica estera
italiana disponesse ancora, sino all’ultimo momento, di una scelta tra
alternative diverse che rimette in discussione l’inevitabilità dell’alleanza
con la Germania.
Il panorama della produzione storiografica italiana per questo arco
di tempo non sarebbe completo senza la citazione del manifestarsi di
robusti interessi di ricerca anche rispetto a temi non direttamente riguardanti la politica estera italiana, ma solo occasionalmente intrecciati
a questa in quanto aspetti di un quadro internazionale del quale l’Italia
faceva parte. Si pensi ai lavori di G.L. André sulla questione delle Azzorre come punto critico della difesa atlantica durante la guerra e come
spunto diplomatico per interpretare le difficoltà della posizione portoghese (André, 1971); di A. Breccia (1978) sulla neutralità jugoslava; di
Leoncini (1976) sulla questione dei Sudeti; della Costa Bona sulla «guerra
d’inverno» tra Unione Sovietica e Finlandia (1987), della Brescianino
(1979) sulla neutralità belga alla metà degli anni Trenta.
96
Ennio Di Nolfo
6. Studi sulla seconda guerra mondiale e sul dopoguerra
Non è il caso di citare in questa sede l’immensa produzione scientifica, memorialistica e saggistico-divulgativa riguardante la seconda guerra
mondiale e il modo in cui l’Italia vi prese parte, poiché questi temi appartengono quasi esclusivamente alla storia militare. Ciò non impedisce
tuttavia di prendere in considerazione, anche per l’arco di tempo degli
anni di guerra, una serie di lavori che costituiscono la base (non già in
riferimento alla data della loro pubblicazione quanto in riferimento alla
materia trattata) della politica estera italiana nel secondo dopoguerra.
Si vuol dire con ciò che non appare possibile comprendere la storia della
politica estera italiana nel dopoguerra senza collegarla alle sue radici maturate, o anche soltanto attecchite proprio durante il periodo bellico.
Cosi, per gli anni dal 1941 al 1949 (e in qualche caso anche per gli anni
successivi) l’interesse scientifico degli storici italiani delle relazioni internazionali ha avuto molteplici occasioni di fermarsi, individuando una
serie di nodi interpretativi, attorno ai quali conviene, anche in questo
caso, raggruppare l’insieme dei lavori pubblicati.
Il primo tema riguarda senza dubbio il modo con cui in Italia, pur
combattendo durante la seconda guerra mondiale, ci si rese conto assai
precocemente delle difficoltà nelle quali la Germania si sarebbe imbattuta e, ancor prima che le sconfitte militari decidessero per gli statisti
italiani, si prendessero iniziative per tentare una pace separata. Infatti
le prime indicazioni di contatti in proposito risalgono al 1941 e sono
state l’oggetto di una accurata ricerca del Varsori (1978) che ha proseguito la sua indagine sino al vero avvio dei negoziati per l’armistizio.
Ma sul maturare in Italia, dall’autunno del 1942, di un clima sempre
più tendente al rovesciamento di Mussolini (sul piano interno) e a una
pace separata o a un cambiamento di alleanze esiste una serie di testimonianze, legate in particolar modo agli ambienti vaticani e tali da integrare quelle già riferite dal Toscano nel suo volume dedicato ai 45 giorni
del governo Badoglio. In particolare hanno rilievo per questa fase della
politica estera italiana i documenti di Myron C. Taylor, che anticipano
l’interesse americano verso la penisola e pongono le basi della successiva intesa tra la Santa Sede e gli Stati Uniti nel cercar di orientare gli
sviluppi della politica italiana ed europea (Di Nolfo, 1978a; 1978b).
Nella preparazione della crisi finale di guerra non va trascurato il ruolo
svolto dall’emigrazione antifascista e in particolare il tentativo compiuto
da Carlo Sforza negli Stati Uniti, per costituire un governo o comitato
italiano in esilio, che anticipasse la defascistizzazione e ponesse le con-
Storia delle relazioni internazionali
97
dizioni di un rapporto meno conflittuale con i vincitori. Questo tema è
stato studiato in particolare da A. Varsori, che riprendendo e coordinando contributi anche di altri autori, prima dispersi in pubblicazioni
minori, colloca nel giusto rilievo e nei limiti reali la portata del progetto
Sforza, quello della Mazzini Society e spiega le cause dell’insuccesso di
tale progetto10.
Il modo in cui l’Italia pervenne all’armistizio resta ancora legato a
una serie di problemi interpretativi non tutti risolti. Infatti non è ancora risolto il problema del mancato accoglimento da parte italiana dell’ultimatum americano di fine maggio 1943; e non sono stati sufficientemente chiariti gli aspetti internazionali del colpo di stato del 25 luglio. I volumi che G. Bianchi ha dedicato a questo tema fanno solo rimpiangere che una documentazione così imponente sia stata utilizzata in
maniera tanto maldestra (Bianchi, 1972); non è univocamente risolto
il tema della strategia seguita da Badoglio nella ricerca dell’armistizio,
poiché appare dubbio sino a qual punto egli fosse a conoscenza della
debolezza degli alleati e dunque della necessità in cui essi si trovavano
di ottenere la resa italiana, così come non del tutto chiarito è il senso
del suo progetto strategico, legato alla speranza di uno sbarco alleato
molto a nord di Roma, così da dare concretezza all’ipotesi di un rovesciamento militare di fronte da parte italiana e contemporaneamente da
non esporre ai rischi dell’invasione tedesca l’istituzione monarchica. Su
questi temi hanno scritto da ultimo Arcidiacono (1985b), sulla base di
una vasta documentazione e di un sottile spirito critico, e più sinteticamente Di Nolfo (1983a), che sostiene con determinazione l’esistenza di
un preciso progetto strategico da parte di Badoglio e l’inadeguatezza della
risposta italiana, nonché E. Aga Rossi, che sviluppa sulla base di una
solida documentazione di prima mano una attenta analisi delle incertezze della politica americana verso l’Italia, se analizzata nei suoi aspetti,
non sempre coerenti, di politica presidenziale e politica di tutta l’amministrazione degli Stati Uniti (Aga Rossi, 1972).
Sui problemi relativi all’applicazione dell’armistizio da parte alleata
e sulla questione del «precedente italiano» esiste una serie di lavori
tra i quali spiccano il saggio di D. Ellwood (1977), che analizza tutta la
politica dell’occupazione alleata in Italia, mettendone in luce contrad10 Cfr. Varsori (1982). Su Sforza anche nel periodo dell’emigrazione cfr. la mediocre
biografia: Zeno L., Ritratto di Carlo Sforza, Firenze, Le Monnier, 1975. Sulla Mazzini Society:
Tirabassi M., «La Mazzini Society (1940-1946): un’associazione degli antifascisti italiani negli Stati
Uniti» in Italia e America dalla grande guerra a oggi, a cura di G. Spini, G.G. Migone e M. Teodori,
Venezia, Marsilio 1976.
98
Ennio Di Nolfo
dizioni, contrasti e limiti, specialmente in riferimento alla questione istituzionale e all’incapacità di inglesi e americani di elaborare linee d’azione comuni rispetto al problema italiano. Sulle difficoltà dell’amministrazione italiana di promuovere una linea di rinnovamento e di dialogare costruttivamente con le forze politiche italiane, E. Aga Rossi ha
offerto una serie di contributi (1971; 1979b) che vanno dalla pubblicazione della relazione di Adlai Stevenson sulla situazione italiana all’inizio del 1944, ai temi collegati alla costituzione e al funzionamento del
governo Bonomi dopo la liberazione di Roma.
La questione del «precedente italiano», cioè della portata internazionale delle formule utilizzate dagli alleati per controllare l’esecuzione
dell’armistizio in Italia in quanto momento della nascita di «zone di influenza» e assunzione di posizioni ostili verso l’Unione Sovietica, è stata
studiata a fondo da B. Arcidiacono, che ha utilizzato accuratamente le
fonti per sviluppare la tesi che la resa italiana finisse per trasformarsi
in «prova generale» degli esperimenti che in seguito la resa di altri paesi
nemici avrebbero imposto (Arcidiacono, 1984).
Da quanto si è detto sul tema del «precedente italiano» appare che
il rapporto bilaterale anglo-americano era in Italia reso più complesso
dal problema della presenza-assenza di una politica sovietica verso la penisola. Segno di questa presenza-assenza fu il negoziato segreto del
gennaio-marzo 1944, che portò al ristabilimento di relazioni diplomatiche tra l’URSS e il regno d’Italia e poco dopo alla cosiddetta «svolta
di Salerno», cioè al rovesciamento della posizione dei partiti antifascisti
rispetto al problema dell’alleanza governativa con le forze monarchiche.
Problema, questo, risolto in modo negativo prima del riconoscimento
sovietico e in modo positivo dopo tale riconoscimento e il conseguente
ritorno di Palmiro Togliatti in Italia. Si tratta di una questione che ha
suscitato interminabili discussioni, anche di tono fortemente polemico,
per quanto attiene ai suoi sviluppi interni alla vita politica italiana, ma
che ha ricevuto molta minor attenzione come problema internazionale,
cioè considerata dal punto di vista del capire sino a che punto il riconoscimento sovietico fosse motivato dal desiderio di accelerare il ritorno
dí Togliatti in Italia e sino a che punto l’azione del governo di Mosca
intendesse aggirare le esclusioni derivanti dalla mancata partecipazione
alla Commissione alleata di controllo. Se si eccettuano il lontano lavoro
di Toscano (1970) e i lavori più recenti di Di Nolfo (1985b), Arcidiacono (1984) e Morozzo della Rocca (1981), il quale inserisce la sua ricostruzione in un lavoro di ampio respiro sulle relazioni italo-sovietiche
sino al 1948, la questione rimane ancora abbastanza aperta, poiché solo
la conoscenza delle fonti sovietiche potrà chiarirla.
Storia delle relazioni internazionali
99
La ripresa delle relazioni italo-sovietiche segnò una svolta nella politica americana verso l’Italia, poiché diede maggior credibilità a quanti
sostenevano la necessità di una forte presenza statunitense per bilanciare la forza (e il pericolo) dell’influenza comunista in Italia. Fu, quello,
dunque, il momento della scoperta del «pericolo’comunista» nella penisola e dell’inizio di una strategia di maggior attenzione, che avrebbe portato gli americani a una graduale assunzione di responsabilità nella penisola, secondo un itinerario che è stato studiato da Di Nolfo in una
serie di saggi (1977b; 1978a).
La fase conclusiva della guerra fu resa complessa, per quanto riguardava i problemi internazionali, dall’affiorare del problema della Resistenza non solo come tema militare ma anche come problema dai contenuti politici, cioè come problema legato da un lato alla preoccupazione
alleata che la ritirata germanica fosse seguita da una transizione pacifica
al regime d’occupazione anglo-americano, senza i rischi dell’affiorare di
velleità «rivoluzionarie» e, dall’altro, senza le preoccupazioni derivanti
dal predominio delle formazioni comuniste nell’ambito delle forze armate della Resistenza. Tutto ciò viene posto in luce con grande evidenza
dall’andamento della cosiddetta operazione Sunrise, cioè dal negoziato
per una resa separata delle SS in Italia e, in generale, di tutte le forze
tedesche nella penisola, tentativo esperito dal generale Karl Wolf d’intesa con Himmler tra l’autunno del 1944 e, con maggior determinazione,
dal febbraio al maggio 1945. Su questo episodio, già narrato da alcuni
protagonisti nelle loro memorie, hanno aggiunto utili chiarimenti E. Di
Nolfo (1975a), con un saggio dove si indicano i problemi interpretativi
posti dal negoziato, ma soprattutto uno studio di E. Aga Rossi e B. Smith
(1980), che chiarisce a fondo le implicazioni internazionali dell’episodio
e la preoccupazione alleata di evitare che le forze della Resistenza potessero acquistare una capacità di controllo eccessiva nella fase di transizione e di riunificazione dell’Italia.
La fine delle ostilità non segnò per l’Italia l’immediata cessazione
dei problemi militari. Si delineò subito invece il problema che avrebbe
dominato la politica estera italiana negli anni dell’immediato dopoguerra,
cioè la questione di Trieste. La rapida occupazione della città da parte
delle forze del maresciallo Tito portò a uno dei primi aspri conflitti tra
potenze occidentali e gruppo sovietico. Il tema è al centro di un’ampia
e documentata analisi che A.G. De Robertis dedica alla questione giuliana dagli anni di guerra sino al trattato di pace, considerata come tema
delle relazioni internazionali (De Robertis, 1983). Ma esso viene trattato anche dagli altri autori che hanno considerato l’insieme degli aspetti
della questione giuliana, come il De Castro, nella sua mastodontica opera
100
Ennio Di Nolfo
di storico e protagonista (De Castro, 1981), e il Valdevit (1986), che
allarga il quadro dell’analisi diplomatica al 1954, punto finale della crisi.
Sul dopoguerra in generale esistono solo poche opere che mettano in
luce il collegamento esistente tra politica interna italiana e quadro internazionale. Un buon lavoro di sintesi, non originale ma corretto, è stato
recentemente pubblicato da Cacace (1986). Di intonazione più problematica e più orientati a stabilire il nesso tra piano interno e piano internazionale della storia italiana sono i lavori di A. Gambino (1975), Giovagnoli (1982), E. Di Nolfo (1986b). Spunti particolari sull’avvio della politica estera italiana nel dopoguerra si trovano in lavori di Vigezzi (1985;
1987), G. Filippone Thaulero (1979), E. Collotti (1977). Un contributo
documentario di prim’ordine viene offerto da alcune pubblicazioni memorialistiche che hanno, negli ultimi tempi, arricchito il non ampio spazio sinora occupato da questo tipo di contributo storiografico. Così le
memorie di Nenni (che nei volumi successivi documentano anche gli anni più recenti) sono ricche di annotazioni sulla situazione internazionale
(Nenni, 1981-83); il diario di Egidio Ortona (1984-86) documenta con
efficacia il reinserimento dell’Italia nella comunità internazionale e la ripensata biografia di De Gasperi scritta da G. Andreotti (1986) aggiusta il
tiro rispetto alle stesure precedenti e offre una visione molto serena della
politica estera (e interna) dello statista trentino.
Con il dopoguerra si posero due questioni di fondo: l’elaborazione
del trattato di pace e la partecipazione dell’Italia alla formazione dei blocchi che, per effetto della guerra fredda, sarebbero presto sorti in Europa
e nel mondo. Distinguere nettamente i due temi è impossibile sul piano
politico, come su quello storiografico. La guerra fredda ebbe infatti
un’influenza determinante su gran parte delle scelte che governi alleati e
governo italiano avrebbero compiuto. Tuttavia il tema del negoziato per
la pace italiana, sia per la relativa precedenza cronologica, sia per il fatto
d’essere terreno di scontro che doveva necessariamente concludersi in
compromesso (pena l’impossibilità di stipulare anche i trattati di pace
con gli alleati minori della Germania) ha ricevuto e continua a ricevere
una certa separata attenzione. Dopo i lavori di Vedovato (1971), di
Salvadori e Magri (1972) e di Cialdea (1967), e in attesa di un lavoro che
prenda in considerazione il tema della pace italiana come problema delle
relazioni internazionali in generale, questi nuovi lavori si sono tuttavia
concentrati sugli aspetti particolari del negoziato, con una serie di
trattazioni separate per ciascuno dei punti più dibattuti. Così la questione di Trieste è stata sviscerata nei suoi sviluppi diplomatici e nelle
varie formulazioni proposte durante il negoziato, dai citati lavori di De
Storia delle relazioni internazionali
101
Robertis, di De Castro e di Valdevit, ai quali vanno peraltro aggiunti
gli scritti di Pacor, 1964 (che considera il tema del confine giuliano in
una prospettiva generale) e quelli di R. Pupo (1979) che analizza la questione, sia per gli anni del negoziato sia per il periodo successivo, specialmente
dal punto di vista delle relazioni anglo-italiane. Molta attenzione hanno
continuato a suscitare, anche dopo la pubblicazione del noto volume del
Toscano (1967), il tema delle relazioni austro-italiane e il modo
attraverso il quale si giunse, parallelamente alla conferenza della pace, alla
stipulazione dell’accordo De Gasperi-Gruber del settembre 1946. P.
Pastorelli (1973; 1977), U. Corsini (1976) e E. Di Nolfo (1976) hanno
messo in luce gli aspetti della vicenda e i collegamenti esistenti tra le
esitazioni alleate a accogliere le tesi italiane, il desiderio di controbilanciare i
sacrifici imposti all’Italia per Trieste e le colonie e l’atteggiamento filoaustriaco assunto dall’Unione Sovietica. Sulla sistemazione del problema
coloniale G. Rossi ha pubblicato un volume robusto e solidamente
documentato, che tratta l’intera questione in modo esauriente (Rossi, 1980);
A. Varsori ha studiato come la questione coloniale influisse sulle relazioni
anglo-italiane e come, nel caso della Somalia, portasse a un aspro
conflitto che esprimeva non solo le difficoltà della posizione italiana ma
anche la fragilità della presenza britannica (Varsori, 1981; 1984a) .
Assai articolato e animato è il dibattito storiografico riguardante il
formarsi del sistema internazionale postbellico e, in questo ambito, le
scelte di schieramento compiute dall’Italia. In senso generale, E. Aga
Rossi ha pubblicato una vasta antologia di testi sulle origini della guerra
fredda, scelti in modo persuasivo e preceduti da un’ampia introduzione
che illustra i termini delle questioni storiografiche poste dal conflitto
tra le superpotenze (Aga Rossi, 1985e); un’altra trattazione generale,
ma legata a singoli momenti della politica estera italiana, è fornita dal
volume su L’Italia e la politica di potenza 1945-1950 (Di Nolfo, Rainero
e Vigezzi, 1988), nel quale le scelte italiane sono ricondotte al quadro
internazionale secondo i singoli aspetti o moventi politici. Rientra in
questo ambito lo stringato volume che D. Ardia, sulla base di una ricerca
accurata e secondo un’argomentazione rigorosa, dedica alla formazione
della alleanza anglo-francese nel 1947 (Ardia, 1983).
Per quanto riguarda l’Italia, il momento di svolta viene comunemente
situato nei mesi tra la fine del 1946 e il maggio-giugno 1947, momento
dell’adesione al piano Marshall. Queste scelte sono state oggetto di ricerca in primo luogo come espressione dell’orientamento dei partiti:
D. Ardia (1976) ha studiato il Partito Socialista; S. Galante ha studiato
il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana (Galante, 1973; 1978;
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Ennio Di Nolfo
1980; 1986); A. Monticone (1980), P. Pastorelli (1986), A. Giovagnoli
(1982), P. Barucci (1973) e, benché in maniera mediata, P. Scoppola
(1976; 1980) hanno studiato la Democrazia Cristiana. Nell’insieme si dispone dunque di una gamma sufficientemente vasta per ricostruire il
formarsi delle decisioni di politica estera all’interno dei singoli partiti italiani. Il travaglio più complesso, quello vissuto dalla Democrazia Cristiana, e durato sino al 1949 fra i due estremi di europeismo e atlantismo,
è stato studiato più analiticamente anzitutto da Di Capua (1970) che,
sebbene acriticamente, ha presentato una documentazione abbondante
sul processo decisionale nella DC. Sull’atteggiamento della sinistra DC,
sul ruolo di singoli settori del mondo cristiano o ecclesiale, sull’importanza dell’azione personale di Pio XII e sulle stesse esitazioni della Chiesa a spingere nettamente verso scelte di schieramento sono stati scritti
numerosi saggi. Da C. Meneguzzi Rostagni (1988) sulla politica della
Santa Sede; da E. Di Nolfo (1971; 1978) su Civiltà Cattolica e il suo
contributo alle scelte DC nonché sui rapporti Vaticano-Stati Uniti; su
aspetti meno appariscenti della posizione di Civiltà Cattolica ha scritto
L. Manetti (1988), mentre sulle posizioni della sinistra DC hanno scritto E. Vezzosi (1988) e G. Forrnigoni (1987). Sull’europeismo di De Gasperi ha scritto I. Poggiolini (1985). Quanto alla politica della Santa Sede
e al contributo personale di Pio XII, una serie di saggi, che raccolgono
i risultati di un convegno, sono stati pubblicati da A. Riccardi (1979).
Questi ha poi illustrato in un ulteriore volume anche la pluralità delle
tesi esistenti anche in seno alla curia romana rispetto sia ai problemi
politici italiani sia a quelli del quadro internazionale (1983).
La visita compiuta da De Gasperi negli Stati Uniti all’inizio deI 1947,
sebbene molto commentata, è stata studiata sulle fonti solo entro limiti
circoscritti. S. Galante, in un saggio dedicato a altro tema, riesce a ricostruirne le fasi e a renderle il significato di tappa preliminare alle successive svolte, più che di scelta già deliberata, come molta pubblicistica
afferma senza fondamento (Galante, 1980).
Per le scelte deI 1947-49 (piano Marshall, fine della coalizione con
i comunisti nella sua portata internazionale, elezioni del 18 aprile 1948,
nella loro portata internazionale, e questione dell’adesione al patto di
Bruxelles, come tappa della successiva adesione al patto atlantico) oltre
alle fonti memorialistiche già menzionate e agli scritti di non pochi protagonisti della vita politica italiana in generale, merita di essere tenuto
in considerazione primaria il recente volume contenente i Diari di Mosca
di Manlio Brosio (1986), ambasciatore italiano nella capitale sovietica
dal 1947 al 1951 (sulla sua azione, si veda anche un acuto saggio di
Storia delle relazioni internazionali
103
M. De Leonardis, 1988). Si tratta di un’opera inconsueta, ricca delle
qualità personali del suo autore, ma preziosa per l’illustrazione delle alternative reali della politica estera italiana, tra l’ipotesi di un neutralismo (che all’interno trovava sostenitori nelle sinistre e anche in certi
ambienti vaticani) e il quasi meccanico volgere della situazione verso crescenti chiusure che imponevano di schierarsi con l’una o con l’altra delle
grandi potenze e, nel caso dell’Italia, con gli Stati Uniti.
Un quadro generale dei problemi legati a questa scelta è stato proposto da R. Quartararo, ín un volume ampiamente documentato sul tema Italia
e Stati Uniti. Gli anni difficili 1945-1952 (Quartararo, 1986). L’opera, tuttavia, benché ricca di informazioni e elementi nuovi, è condizionata da
un’impostazione eccessivamente precipitosa, che si traduce in una tendenza a giudizi storici dall’apparenza netta e dalla sostanza sfocata.
In assenza di un lavoro d’assieme sulle scelte italiane si debbono
dunque indicare i contributi riguardanti le singole fasi della scelta. In
primo luogo gli scritti sul piano Marshall: dal volume collettaneo curato
da E. Aga Rossi (1983), ai robusti scritti di P.P. D’Attorre (1983) che
del piano Marshall analizza sia l’impianto teorico, anche in relazione
alle note tesi di Meier11, sia la fase organizzativa e applicativa (1988).
Per quanto riguarda il formarsi dell’alleanza atlantica e il rapporto
dell’Italia con il negoziato che doveva condurre verso il trattato del 4
aprile 1949 attraverso il passaggio per il trattato di Parigi del 17 marzo
1948, íl tema è stato delineato nelle linee generali da E. Di Nolfo
(1979) e da P. Pastorelli (1983), e esplorato anche da A. Breccia (1974).
A. Varsori ha ricostruito principalmente su fonti inglesi e italiane la «scelta
occidentale dell’Italia» (Varsori 1985a), dissociando nettamente il momento europeo di essa dal successivo momento atlantico. B. Vigezzi, a
sua volta, in una serie cospicua di saggi, ha discusso e messo in luce il
formarsi delle tendenze atlantiche in seno alla diplomazia italiana, pur
attraverso le esitazioni del neutralismo, ma per effetto di una matura
convinzione del convergere tra interesse europeo e interessi atlanticomediterranei dell’Italia (cfr. Vigezzi, 1987).
Lo studio della fase successiva della politica estera italiana è ancora
agli esordi, se si fa eccezione per i contributi di R. Ranieri sull’adesione
dell’Italia alla CECA (Ranieri, 1985; 1988). Non del tutto persuasivo il
contributo di A. Breccia (1984) sulle origini della CED e l’Italia;
11 C.S. Meier, <The Politics of Productivity: Foundations of American International
Economic Policy after World War II» in International Organization, 1977.
104
Ennio Di Nolfo
appena agli esordi gli studi sulla partecipazione al rilancio europeo e alla nascita della Comunità economica europea 12.
7. Nuove aree geografiche
In una rassegna sulla storia delle relazioni internazionali o sulla storia
internazionale così come si è sviluppata in Italia non può essere trascurato un cenno, per quanto rapido, all’ampliarsi non comune delle aree
geografiche verso le quali la cultura storica si è indirizzata. Si tratta di
una tendenza che non procede univocamente, essendo legata all’attività
di ricerca di enti o personaggi che segnano, con i loro interessi culturali,
determinati settori della ricerca storica. E tuttavia una tendenza che è
andata con il tempo rafforzandosi, e che testimonia del diverso rapporto
tra storia locale e storia internazionale gradualmente nascente in Italia.
Un interesse generale, ma prevalentemente pubblicistico o politologico, è stato dedicato al tema dell’unificazione europea, che è stata vista
soprattutto in funzione della battaglia europeistica di alcuni dei suoi
protagonisti. Tuttavia una prima sistemazione storiografica è dovuta
ai saggi di S. Pistone (1982) e I. Poggiolini (1985). Un tentativo di interpretazione del ruolo italiano è presente in un saggio di Di Nolfo
(1980); un profilo polemico in un volume di Dell’Omodarme (1981).
Lavori preparatori, che attendono di essere seguiti da un ripensamento
complessivo.
Alcune aree geografiche rappresentano settori dove non può che
registrarsi una continuità di interessi. Cose la storia della Germania
postbellica è stata studiata con grande impegno in molti saggi e in un
lavoro monumentale di E. Canotti (1968); mentre più di recente L.
Caracciolo (1986) ha visto la questione tedesca nella sua genesi come
risultato del conflitto tra Unione Sovietica e paesi occidentali. Del pari
A. Tamborra ha dedicato alla penisola Balcanica lavori costruiti su minuziose e dotte ricerche, tali da mettere in luce aspetti precedentemente del tutto ignorati (cfr. ad esempio Tamborra, 1968); studi intesi ad
approfondire la conoscenza della storia russa in Italia, già intrapresi da
V. Zilli, sono stati proseguiti da Tamborra (1977), da Risaliti (1972;
12 Sulle origini della Comunità europea si sono tenuti due convegni, entrambi nel 1987. Il
primo, i cui atti sono stati pubblicati nel volume // rilancio dell’Europa e i trattati di Roma, a cura
di E. Serra, Milano, Giuffrè, 1989; il secondo, i cui atti in due volumi dal titolo: L’Italia e la
politica di potenza. Alle origini della Comunità europea, 1950-1957 sono in corso di pubblicazione a
cura di E. Di Nolfo, R. Rainero e B. Vigezzi, presso l’editore Marzorati di Milano.
Storia delle relazioni internazionali
105
1982), da Procacci (1978), da A. Venturi (1986), da C. Castelli (1987)
e da ultimo, arricchiti da una serie di contributi sullo stalinismo e sulla
crisi della destalinizzazione, con scritti di Spriano (1983), Benvenuti
(1982), Boff a (1982), al quale si deve anche una equilibrata storia dell’Unione Sovietica (1979). Notevoli anche i lavori di Argentieri e Gianotti (1986) sulla crisi del 1956 e di Guerra (1986) sul periodo brezneviano; gli studi sulla vita sociale e agraria della Romania, di B. Valota
(1979) e sui rapporti italo-rumeni, di D. Caccamo (1979c, 1980) e G.
Caroli (1972; 1982; 1983; 1984); gli studi sulla Bulgaria, di F. Guida
(1984b) e sulla Jugoslavia, di S. Bianchini (1983; 1984).
Si spingono verso regioni più remote gli interessi di F. Gabrieli (1979),
massimo cultore di storia del mondo arabo e musulmano in Italia; di
V. Fiorani Piacentini (1968; 1969), di P. Corradini (1967), di G. Iannettone (1967; 1977; 1984). G. Borsa ha recentemente rielaborato e rinnovato una precedente biografia di Gandhi, offrendo un ritratto meno
oleografico del leader del nazionalismo indiano (Borsa, 1983); E. Collotti Pischel ha studiato in diverse opere la Cina contemporanea e in
particolare gli aspetti ideologici della lotta politica cinese (1979); G. Calchi
Novati (1972) e S. Marchese (1971) hanno trattato del Vietnam recente
e contemporaneo; G. Melis ha scritto opere di profondo interesse sulla
Cina contemporanea (1971) e sul mondo malese; P. Beonio Brocchieri
si è occupato del Giappone antico e contemporaneo (1972). In senso
più propriamente internazionalistico vanno segnalati due contributi, il
primo dedicato al conflitto cino-sovietico, a cura di M. Dassù (1986); il
secondo all’influenza del pensiero risorgimentale italiano sul nazionalismo asiatico, a cura di G. Borsa e P. Beonio Brocchieri (1984).
Un consistente gruppo di studiosi ha ripreso gli studi sull’Africa. Libero da ogni residuo della tradizione coloniale, Io studio dei problemi
africani è stato affrontato come problema politico di ritrovamento dell’indipendenza, da R. Rainero (1978a; 1978b; 1982), successivamente
come problema di recupero di un ruolo nella politica mondiale da G.
Calchi Novati (1987); poi, in senso più propriamente storico, da studiosi come Bono (1972; 1974; 1982), Piazza (1978; 1983), Mozzati
(1986), Magri (1980), che hanno sottratto il tema all’angolazione dell’interesse culturale eurocentrico, per individuare le ragioni interne alle
diverse realtà come presupposto per sviluppare la loro ricerca storica.
Il tema conflittuale della situazione mediorientale è stato studiato da
diversi angoli visuali. P. Maltese, in un volume sul canale di Suez
(1978), ha sviluppato una buona trattazione informativa non priva di informazioni storiografiche anche originali; S. Ferrari ha approfondito la questione palestinese come aspetto della politica estera della Santa Sede (Fer-
106
Ennio Di Nolfo
rari, 1982; 1983; 1985a); M. Zucconi, infine, ha pubblicato un saggio
assai ben documentato e persuasivo sulle reiterate crisi mediorientali nel
dopoguerra (Zucconi, 1987).
Anche l’America Latina, a lungo ingiustamente trascurata dagli studiosi italiani, viene infine studiata autonomamente da Carmagnani (1971;
1973; 1975; 1981), Albonico (1982; 1984), Annino (1984) e Mugnaini
(1986) i quali, sia movendo da un interesse derivante dalle relazioni internazionali, sia da un interesse specifico per cultura e storia nei paesi
latino-americani, incominciano a occupare uno spazio autonomo nella
storiografia italiana.
Tra le storie dedicate a aree non europee notevole crescita, pur con
qualche momento di stasi, conosce la storia americana. In proposito si
veda anzi l’ampia rassegna bibliografica pubblicata dalla rivista Storia
nordamericana nel 198413. Il quadro è ricco e assai articolato, non può
dunque essere riferito che per le parti generali o realmente caratterizzanti gli aspetti internazionali della storia americana. Per il periodo più
recente a Bairati (1975), Barié (1978a; 1978b), Tagliacozzo (1967), Mammarella (1984) si debbono i lavori di sintesi di maggiore interesse; spicca,
per completezza e dimensione, l’opera complessiva di Luraghi (1974).
A questi vanno aggiunti i due volumi pubblicati in occasione del centenario della Rivoluzione americana a cura del Comitato italiano per la
storia americana (Spini, Martellone, Luraghi, Bonazzi e Ruffilli, 1976;
Spini, Migone e Teodori, 1976), comprendenti una serie di contributi
relativi a numerosi aspetti delle relazioni tra Italia e America dal Settecento sino ai giorni nostri: contributi di valore non omogeneo, ma tali,
nell’insieme, da fornire un panorama completo sia dell’immagine degli
Stati Uniti in Italia, sia dei principali problemi di storia americana oggi
studiati in Italia. Non meno importanti per la qualità delle singole relazioni e per lo sforzo di approfondimento cronologicamente completo e
scientificamente originale i contributi pubblicati in occasione del primo
congresso di storia americana tenuto a Genova nel 197614. Tra le opere
generali meritano di essere citati anche gli atti del convegno su «Italia
e Stati Uniti durante l’amministrazione Truman» (Di Nolfo, 1976) poiché
essi verosimilmente segnano l’inizio dell’interesse scientifico verso il periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Questo sguardo generale
non sarebbe infine completo senza una citazione dell’opera di Piero Del
13 Un’ampia rassegna in «A Bibliography of Italian Studies on North American History,
1945-1983», a cura di E. Vezzosi e L. Manetti, in Storia nordamericana, 1984.
14 Italia e Stati Uniti dall’indipendenza americana a oggi (1776-1976). Atti del primo congresso
internazionale di storia americana, Genova 26-29 maggio 1976, Genova, 1978.
Storia delle relazioni internazionali
107
Negro (1975) sul mito americano nella Venezia del tardo Settecento,
vero modello di innovazione metodologica nel campo degli studi di storia
delle relazioni internazionali culturali, o, meglio, nel campo della percezione internazionale delle realtà esterne.
Sempre sul piano degli studi riguardanti la presenza internazionale
degli Stati Uniti va segnalato in primo luogo il poderoso lavoro di
A. Aquarone (1973) sulle origini dell’imperialismo americano; uno studio
accurato e profondo della estroversione della crescita americana tra il
1890 e la prima amministrazione Wilson; studio al quale seguono, per
il periodo successivo alla prima guerra mondiale, i numerosi saggi di Migone (cfr. per esempio Migone, 1971) e, per gli anni dalla seconda guerra
mondiale in poi, i lavori di Catalano (1972), spesso ricchi di intuizione,
ma sbilanciati da una mancanza di equilibrio critico pesantemente evidente; e di Mammarella (1973), dedicato principalmente a delineare le
relazioni tra l’Europa e gli Stati Uniti durante e dopo la seconda guerra
mondiale, con qualche concessione alle esasperazioni della storiografia
revisionistica americana.
A un livello più specialistico, A.M. Martellone (1973) ha pubblicato
un eccellente volume sulla presenza italiana a Boston; T. Bonazzi ha sviluppato una serie di saggi sull’ideologia della rivoluzione americana (Bonazzi, 1976; 1986), R. Luraghi ha indirizzato i suoi interessi verso la
storia generale e verso la storia militare americana (Luraghi, 1974; 1985).
Molto vivi sono l’attenzione verso il radicalismo e verso la sinistra politicosociale americana. M. Teodori ha dedicato la sua attenzione storicopubblicistica alle ideologie della sinistra e della New Left (Teodori, 1969;
1970; 1975); A. Donno ha del pari dedicato una serie di pubblicazioni
a diversi filoni della vita politica americana, con particolare interesse
per la storia del radicalismo durante il periodo rooseveltiano (Donno,
1983a; 1983b). Tema, questo, studiato anche da L. Valtz Mannucci
(1981) specialmente per il periodo precedente e iniziale della rivoluzione.
Il tema dei neri nella società americana è stato approfondito da R. Giammanco (1967a; 1967b), mentre B. Cartosio (1980; 1981) ha affrontato
aspetti .svariati della storia sociale americana. A. Testi (1981; 1984) si
è occupato dell’età progressista; V. Gennaro Lerda (1981) di storia del
lavoro; D. Brezza (1982) ha studiato F.D. Roosevelt specialmente come
manipolatore dei mass media e M. Rubboli (1986) ha dedicato una solida biografia a R. Niebhur.
108
Ennio Di NoLfo
8. Studi sull’emigrazione
Fra i temi emergenti nella storia delle relazioni internazionali non
strettamente legata al profilo politico e diplomatico occupa un posto di
crescente rilievo la questione dell’emigrazione. Il tema pone una grande
quantità di interrogativi metodologici e interpretativi, che gli specialisti
di questo campo di studi hanno a lungo discusso. Di questi interrogativi, nei loro caratteri generali, offre una acuta ed esauriente disamina
A.M. Martellone, introducendo una raccolta di saggi legata in particolare all’emigrazione verso gli Stati Uniti (Martellone, 1980), ma praticamente ampliata alla considerazione del fenomeno migratorio internazionale come questione generale e non nazionale.
In termini di metodologia delle scienze sociali, lo studio dell’emigrazione impone l’abbandono di tutti i motivi e stereotipi caratteristici della
storia diplomatica più tradizionalista, poiché propone un caso di indubbia
rilevanza politica, sia nei riflessi immediati, sia nelle conseguenze a mediolungo termine, ma un caso che non può in alcun modo esser studiato
se di esso si trascurano gli aspetti sociale, economico e demografico, in
una costrizione interdisciplinare benefica per la crescita culturale di chi
se ne fa carico, ma indubbiamente problematica per la storiografia che
ama cullarsi in poche consolanti certezze di metodo. Non manca chi paradossalmente viene da ciò indotto a forzare il carattere del problema
emigrazione, così da spingerlo all’esterno del perimetro delle relazioni
internazionali, ma è ben evidente che solo per angustia mentale inveterata si potrebbero condividere siffatte delimitazioni, che peraltro la crescita storiografica del settore si incarica da sola di abbattere.
Naturalmente il fenomeno emigrazione non può essere considerato
in questa sede in tutti i suoi aspetti. Non può essere visto come problema generale di tutti i tipi di emigrazione legati all’andamento del mercato interno e internazionale del lavoro, ma solo con una netta delimitazione ai casi di emigrazione al di fuori del confine territoriale dello
stato di provenienza. E nemmeno possono essere presi in considerazione
gli studi relativi all’emigrazione da paesi diversi dall’Italia, poiché ciò
imporrebbe un allargamento ingiustificato della rassegna. Si tratta dunque
di considerare la storiografia recente sull’emigrazione italiana verso l’esterno, dopo la formazione dello stato unitario e sino al secondo dopoguerra, vista come fenomeno non transitorio ma nelle sue componenti
durature e nei suoi aspetti caratterizzanti.
In senso generale il tema suscita una serie di proposte interpretative
che lo collegano agli sviluppi delle trasformazioni dell’economia italiana;
Storia delle relazioni internazionali
109
al problema dell’espulsione della manodopera marginale in età di ristrutturazione, ma anche, all’opposto, alla questione della perdita di risorse
umane sottratte all’economia italiana, per finire con l’analisi dei comportamenti dei vari gruppi di emigrati in quanto fonte di tensioni, trasformazioni, crescita, influenza e presenza di una cultura di derivazione
italiana in strutture socio-politiche profondamente differenziate.
A questo proposito, dopo la ripresa scientifica degli studi sull’emigrazione negli anni Cinquanta e Sessanta, per opera di F. Manzotti (1969)
e G. Dote (1964), una significativa continuazione si è avuta a partire
dagli anni Settanta con la grossa raccolta di materiali pubblicata da Ciuffoletti e Degl’Innocenti (1978); con lo stimolante saggio di Sori (1981)
e con la vasta rassegna di contributi curata da Bezza (1983). Quanto al
lavoro di R. Paris per la Storia d’Italia di Einaudi (un capitolo dal titolo
Gli Italiani fuori d’Italia) non si può non dividere il disappunto di chi vi
ha scorto solo una trattazione epidermica che, tra l’altro, ignora il
capitolo centrale dell’emigrazione italiana, quello dell’emigrazione verso gli
Stati Uniti (Paris, 1975).
Sul piano analitico si pongono diverse tematiche, che solo in parte
hanno cominciato ad essere affrontate. Un primo angolo visuale è offerto dal problema dell’epoca e della località di provenienza degli emigrati. L. De Rosa ha dedicato un ampio studio, basato su un’estesa documentazione, all’emigrazione napoletana verso le Americhe e in particolare verso gli Stati Uniti (De Rosa, 1980). Il ricorso a fonti archivistiche giacenti presso il Banco di Napoli gli ha consentito di acquisire
elementi quantitativi rispetto al problema delle rimesse economiche e
al ruolo dell’intermediazione bancaria che danno contenuti precisi ai temi
del rendimento dell’emigrazione per la vita sociale del Meridione e della
qualità di vita degli emigrati. L. Tosi, in un attento studio dedicato all’emigrazione dall’Umbria durante l’età giolittiana, ha colto con sensibilità i diversi aspetti del fenomeno, intrecciando fatti sociali a fatti culturali e politici (Tosi, 1983).
Un aspetto ulteriore è quello che considera la destinazione degli emigrati, il gruppo demografico emigrante, l’età e la qualificazione dei singoli componenti, l’inserimento nel mercato del lavoro di destinazione.
In tal senso, il caso macroscopico, che ha suscitato i maggiori interessi,
è naturalmente quello degli Stati Uniti d’America, dove la natura stessa
della formazione sociale del paese ha portato a un prosperare di studi
etnici che riguardano anche il gruppo nazionale italiano. Senza entrare
nell’analisi di questa parte degli studi, poiché essa esula dall’appartenenza alla storiografia italiana, vanno invece citati in proposito alcuni
contributi generali italiani, come il lavoro collettaneo curato da De Fe-
110
Ennio Di Nolfo
lice (1979); il saggio di Franzina (1977); la breve ma succosa monografia
inserita da A.M. Martellone (1978) nella Storia del Nord America edita
da Tranfaglia; l’insieme dei contributi offerti in occasione di un incontro
organizzato dall’Università di Firenze su «Gli Italiani negli Stati Uniti»
(AA.VV., 1970). Lavori ai quali si deve aggiungere la rassegna bibliografica curata da G. Rosoli (1979), che offre un ampio ragguaglio dei
molti studi analitici esistenti in questo settore. Per quanto riguarda poi
i problemi dell’assimilazione nella società americana deve essere segnalato il contributo assai ricco di spunti, novità e elementi conclusivi offerto, anche per l’America Latina, dai volumi pubblicati nel 1987 dalla
Fondazione Agnelli, contenenti una serie di saggi che sviluppano la tematica dell’interrelazione culturale e dell’assimilazione politico-sociale
delle comunità italiane nei paesi ospitanti (AA.VV., 1987).
Resta ancora da considerare il tema dell’emigrazione italiana verso i
paesi europei. Un tema che si presenta in termini diversi da quello riguardante gli Stati Uniti, con caratteri suoi propri: per la difficoltà di
scindere nettamente emigrazione d’origine politica da emigrazione
economico-sociale (specialmente negli anni del fascismo) e per la continuità del fenomeno, che, fatta eccezione per gli anni di guerra, non conosce le traumatiche interruzioni dell’emigrazione americana, ma presenta un andamento abbastanza continuo, con una forte ripresa, tutta
legata ai problemi del lavoro, nel secondo dopoguerra. Temi, questi, studiati da G. Blumer (1970) e da L. Prato (1976), con particolare riguardo
per la Francia.
Si pongono infine nuovi problemi per quanto riguarda la nuova emigrazione italiana, in paesi come il Canada e l’Australia, nel secondo dopoguerra. Fenomeni di portata considerevole ma, in questo caso, soprattutto per il paese ricevente, dove i gruppi etnici d’origine italiana hanno
raggiunto consistenze non trascurabili, che li collocano ai primi posti
dopo i gruppi etnici preesistenti. Ma questi temi sono l’oggetto per ora
di una intensa trattazione pubblicistica, non ancora di una riconsiderazione storiografica, che assimili il livello d’analisi dei problemi a quello
che trova posto in una rassegna come la presente.
Riferimenti bibliografici
Sono segnalati qui di seguito i lavori citati nel capitolo e non riportati nella
corrispondente sezione della bibliografia finale, in quanto non strettamente attinenti agli studi internazionali italiani o al tema della sezione bibliografica.
Girault R., Propositions pour une histoire des rélations internationales, Comunicazione dattiloscritta al XVI congresso internazionale di scienze storiche,
Stuttgart 1985.
Maier C.S., «Marking Time: the Historíography of International Relations»
in AA.VV., The Past before Us. Contemporary Historical Writing in the United
States, a cura di M. Kammen, Ithaca, Cornell University Press, 1980.
Watt D.C., The Study of International History: Language and Realities, Comunicazione dattiloscritta al XVI congresso internazionale di scienze storiche,
Stuttgart 1985.
Capitolo terzo
Diritto internazionale
Antonio Cassese
1. Premessa
Per quanto possa sembrare sorprendente, la scienza giuridica internazionalistica italiana — pur così consolidata, ricca e variegata — non
ha prodotto un esame critico dei suoi sviluppi e delle sue linee evolutive. Come dirò più avanti, questa costituisce una delle sue caratteristiche salienti: la mancanza di «coscienza critica», di approfondimento
storico della propria evoluzione e dei propri indirizzi principali. Non
mancano certo le analisi critiche delle varie dottrine su singoli temi;
spesso, invero, i giuristi italiani adottano (o almeno hanno adottato
per anni, sino a tempi più recenti) il sistema di origine tedesca, secondo cui, quando si indaga un tema, si parte dall’esame puntuale e
minuto di rutta la letteratura scientifica precedente sul medesimo tema,
per farne una esposizione critica. Ma si tratta, chiaramente, di indagini settoriali e limitate. Né sono mancate vere e proprie rassegne della
letteratura, relative a specifici periodi storici: assai meritorio, anche
sotto questo profilo, è il periodico Comunicazioni e studi dell’Istituto di
diritto internazionale e straniero dell’Università di Milano, fondato nel 1942
da Roberto Ago (Barile, 1952; 1953; Malintoppi, 1955; Capo- torti,
1960; 1963; 1969a). Ma anche in questo caso, si tratta di analisi relative se
non a settori limitati, a periodi di tempo circoscritti. Manca, invece, una
indagine critica globale, che non sia estrinseca ed esposi- tiva, delle linee
principali di sviluppo della scienza internazionalistica italiana. In effetti
l’opera di Sereni (1943), non solo è essenzialmente volta ad introdurre
le principali opere degli internazionalisti italiani al lettore anglofono,
ma quel che più conta si arresta agli anni Qua- ranta. Fra i pochissimi
scritti italiani che tentano una sia pur breve valutazione d’insieme,
sono da segnalare quelli di M. Giuliano (1982) e di M. Panebianco
(1987). Le sole ampie indagini monografiche ag- giornate le dobbiamo a
uno spagnolo, E. Pecourt Garcia (1965) e a un tedesco, K. Lenk
(1965; 1972).
114
Antonio Cassese
La circostanza che ho appena sottolineato impone una scelta precisa:
in mancanza di solide ed ampie trattazioni «alle spalle», questa analisi
non potrà non avere i caratteri di un affresco generale, di un quadro a
larghe tinte, in cui non si può far spazio al chiaroscuro e alla dipintura
particolareggiata di singole figure o personaggi che non siano i maestri
o comunque i giuristi sommi. Il lettore emunctae naris non dovrà perciò
rimproverarmi per le pennellate troppo larghe o per le omissioni e i silenzi, inevitabili in un rapido quadro d’insieme di una materia che richiederebbe più di un torno per un’analisi esauriente.
L’obiettivo che terrò sempre presente nell’esposizione che segue sarà
quello di rispondere alla domanda: è vero quel che dicono all’estero
degli internazionalisti italiani e cioè che, pur comprendendo giuristi assai
fini (e vengono di solito ricordati Anzilotti e Ago), essi tendono ad
essere astratti e formalisti, privilegiando gli aspetti più generali e teorici
delle relazioni giuridiche internazionali, a scapito dei problemi pratici? È
vero, poi, che anche quando affrontano problemi attuali e concreti, i
giuristi italiani trascurano l’esame della prassi e della giurisprudenza
internazionale, preferendo le disquisizioni formali e le polemiche dottrinali?
Un’ultima avvertenza: anche se — come dirò in seguito — gli internazionalisti italiani fino ad epoca recentissima si sono occupati sia di
diritto internazionale pubblico che di diritto internazionale privato, in questo
saggio mi soffermerò solo sui loro contributi relativi al primo settore.
2. La situazione dell’insegnamento e della ricerca
Sono attualmente istituite in Italia 46 cattedre di diritto internazionale di
cui 32 presso le facoltà di Giurisprudenza di Bari (3 cattedre), Bologna,
Catania (2 cattedre), Chieti, Ferrara, Firenze, Genova, Milano (3
cattedre), Milano - Cattolica, Napoli (2 cattedre), Padova, Parma, Pavia,
Perugia, Pisa, Reggio Calabria, Roma - La Sapienza (2 cattedre), Roma 2,
Salerno (2 cattedre), Sassari, Siena, Trento e Trieste; 11 presso le facoltà
di Scienze politiche di Cagliari, Firenze, Genova, Milano (2 cattedre),
Padova, Perugia, Roma - La Sapienza (3 cattedre) e Trieste; 3 presso le
facoltà di Economia e Commercio di Genova, Napoli e Roma - La
Sapienza.
I posti di professore associato sono 12, di cui 4 presso le facoltà di
Giurisprudenza di Camerino, Macerata, Palermo e Torino; 4 presso le
facoltà di Scienze politiche di Bologna, Catania, Napoli e Padova; 4 presso
Diritto internazionale
115
le facoltà di Economia e Commercio di Milano - Cattolica, Genova, Pisa
e Roma - La Sapienza.
I ricercatori in materie internazionalistiche sono complessivamente
58, di cui 40 presso le facoltà di Giurisprudenza di Bari (4), Bologna,
Chieti, Firenze, Genova, Milano (4), Milano - Cattolica (3), Modena,
Napoli (4), Padova (2), Parma, Pavia, Roma - La Sapienza (5), Roma
2 (3), Salerno (2), Sassari, Siena (2), Torino, Trento e Trieste; 14 presso
le facoltà di Scienze politiche di Catania (2), Cagliari (2), Firenze, Messina, Milano (4), Napoli, Perugia e Roma - La Sapienza (2); 4 presso le
facoltà di Economia e Commercio di Genova, Roma - La Sapienza (2)
e Napoli.
Le cattedre di organizzazione internazionale sono 6 (2 presso le facoltà
di Giurisprudenza di Chieti e Torino; 3 presso le facoltà di Scienze politiche di Catania, Napoli e Roma - La Sapienza; 1 presso la Facoltà di
Economia e Commercio di Napoli), cui si aggiungono 9 posti di professore associato nelle facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, Parma,
Perugia, Siena e Urbino e nelle facoltà di Scienze politiche di Genova,
Milano (2) e Padova.
Sono poi istituite 4 cattedre di diritto delle comunità europee, tutte nelle
facoltà di Giurisprudenza (a Ferrara, Napoli, Roma 2 e Milano). I
posti di professore associato in tale materia sono 11, di cui 3 presso le
facoltà di Giurisprudenza di Padova, Parma e Pisa; 7 presso le facoltà di
Scienze politiche di Firenze, Milano, Napoli - Istituto Orientale, Pavia,
Perugia, Roma - La Sapienza e Trieste; 1 presso la Facoltà di Economia
e Commercio di Napoli.
L’insegnamento del diritto internazionale privato può contare su 4 cattedre, 3
presso le facoltà di Giurisprudenza di Firenze, Roma – La Sapienza e
Milano e 1 presso la Facoltà di Scienze politiche di Roma – La Sapienza e
su 7 posti di professore associato nelle facoltà di Giurisprudenza di
Modena, Napoli, Parma, Siena e Urbino e nelle facoltà di Scienze politiche di
Milano e Roma – La Sapienza.
Esistono infine una cattedra di organizzazione economica internazionale, alla
Facoltà di Scienze politiche di Pavia, e 3 posti di professore associato
nella stessa disciplina nelle facoltà di Scienze politiche di Bologna,
Milano e Padova.
Altri insegnamenti attivati di materie affini sono quelli di diritto del
commercio internazionale (un posto di professore associato alla Facoltà
di Giurisprudenza di Bari); diritto agrario comunitario (un posto di professore associato alla Facoltà di Giurisprudenza di Ferrara); diritto
diplomatico e consolare (una cattedra alla Facoltà di Scienze politiche di
Trieste, un posto di professore associato alla Facoltà di Scienze politiche
116
Antonio Cassese
di Milano); storia delle organizzazioni internazionali (un posto di professore associato alla Facoltà di Scienze politiche di Padova); diritto commerciale europeo (un posto di professore associato alla Facoltà di Giurisprudenza di Perugia) e diritto internazionale economico (un posto di
professore associato alla Facoltà di Giurisprudenza di Torino).
I Dottorati di ricerca attualmente istituiti in diritto internazionale o discipline affini sono 5. Tre portano la denominazione «diritto internazionale» (Milano, Giurisprudenza e Scienze politiche: 3 anni, 4 posti; sedi
consorziate: Genova, Pavia, Torino, Trieste. Roma - La Sapienza, Giurisprudenza, Scienze politiche e Economia e Commercio: 3 anni, 4 posti;
sedi consorziate: Firenze, Perugia, Pisa. Bari, Giurisprudenza: 3 anni, 3
posti; sedi consorziate: Napoli, Firenze, Siena, Napoli - Istituto Navale).
Gli altri 2 fanno riferimento al «diritto delle comunità europee» (Bologna,
Giurisprudenza: 3 anni, 4 posti; sedi consorziate: Modena, Parma, Ferrara, Padova) e al «diritto tributario internazionale e comparato» (Genova, Giurisprudenza, Economia e Commercio, Scienze politiche: 3 anni,
3 posti; sedi consorziate: Bari, Bologna, Padova, Torino).
Per concludere questa breve rassegna, giova ricordare le scuole di specializzazione e i centri di ricerca annessi ad alcune facoltà universitarie.
A Ferrara, presso la facoltà di Giurisprudenza, opera il Centro di documentazione e studi sulle Comunità Europee. Un centro analogo (Centro
di documentazione e ricerca sulle Comunità Europee) è attivo presso
la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Modena. A Napoli (Facoltà di Giurisprudenza) ha sede la Scuola di perfezionamento per la preparazione alle funzioni internazionali. A Firenze (Scienze politiche) opera
la Scuola di perfezionamento in Studi politici internazionali; a Parma
(Giurisprudenza) la Scuola di specializzazione in diritto ed economia delle
organizzazioni internazionali. Altri due centri di studi europei hanno sede
a Padova (Centro studi europei, presso la Facoltà di Giurisprudenza) e a
Roma – La Sapienza, presso la Facoltà di Economia e Commercio
(Scuola di perfezionamento in studi europei).
3. L’evoluzione della dottrina dopo il secondo dopoguerra
3.1. Le trasformazioni della comunità internazionale e del clima generale
italiano
Avrebbe poco senso descrivere l’evoluzione della dottrina italiana in
epoca più recente senza chiedersi se e fino a che punto essa ha tenuto
conto della grande svolta segnata dalla seconda guerra mondiale sia a
Diritto internazionale
117
livello internazionale sia in seno all’Italia. Il problema che dobbiamo porci,
in termini storici, è: la scienza internazionalistica è rimasta chiusa nel
suo nazionalismo e formalismo, o ha gradualmente aperto le porte a nuove
impostazioni ed ha cominciato ad affrontare problematiche meno astratte
e remote? È evidente che per rispondere a queste domande, occorre preliminarmente indicare — in termini estremamente sintetici — i grandi mutamenti avvenuti a seguito della grande conflagrazione. Comincerò dai
mutamenti verificatisi nel campo della comunità internazionale.
Durante o a seguito di quella guerra accaddero anzitutto quattro
«fatti», così corposi da condizionare tutta la vita delle relazioni internazionali. Anzitutto, venne usata per la prima volta una nuova arma micidiale,
la bomba atomica, la cui successiva produzione avrebbe imposto una
totale revisione degli schemi tradizionali agli strateghi, agli uomini di
stato, ai militari e ai diplomatici. In secondo luogo, i processi di Norimberga e di Tokyo fecero a pezzi il vecchio mito della intangibilità dei
gruppi dirigenti degli stati: d’ora in poi anche statisti, generali, dirigenti
industriali potevano essere sottoposti a processo se lo stato per il
quale agivano perdeva la guerra dopo aver gravemente violato il diritto. Il mito della «immunità degli organi statali», così caro ai diplomatici,
ai politici ed ai giuristi, crollava definitivamente. E contemporaneamente
si profilava un grande concetto, che avrebbe potuto gradualmente mutare
talune istituzioni essenziali della comunità internazionale: quello dei crimini
contro la pace e contro l’umanità. Il terzo «fatto» è costituito dall’emergere dei paesi socialisti, accanto all’URSS. D’ora in poi non si sarebbe
più potuto trascurare questa importante circostanza: che la composizione
della comunità internazionale era mutata. Il quarto evento è più graduale, e
consiste nel declino del colonialismo, che comincia con la seconda
guerra mondiale, ma le cui conseguenze si faranno sentire solo negli
anni Sessanta.
Accanto a questi «fatti», e strettamente collegati ad essi, si hanno dei
mutamenti «istituzionali». In primo luogo, viene creata l’ONU, che è
ben diversa dalla Società delle Nazioni, non foss’altro perché istituisce
un vero e proprio «direttorio» politico dei cinque membri permanenti
del Consiglio di sicurezza, ed inoltre crea una elaborata impalcatura
strutturale, destinata — almeno nelle intenzioni dei «padri fondatori» —
a mutare gradualmente la configurazione della comunità internazionale.
La seconda modifica a livello istituzionale consiste nell’introduzione del
divieto assoluto del ricorso alla forza e addirittura del divieto della
minaccia della forza: mutamento che sconvolge tutte le regole del gioco,
introducendo una inibizione alla libertà degli stati, prima impensabile.
Altri mutamenti istituzionali sono più graduali: l’irrompere nella comu-
118
Antonio Cassese
nità internazionale della tematica dei diritti umani (cui si accompagna il
principio dell’autodeterminazione dei popoli) e il graduale consolidarsi del
multidateralismo, nei negoziati e nei rapporti intergovernativi. Il multilateralismo gradualmente diviene la via maestra del processo decisionale degli stati, mentre il bilateralismo viene posto gradualmente in
ombra, e rimane terreno di caccia per certi specifici rapporti (culturali
o commerciali, ad esempio) o per certe relazioni tra grandi potenze (in
materia di armamenti, ad esempio).
Accanto a questi grandi sconvolgimenti a livello internazionale, altri si
verificano all’interno dell’Italia. Essi sono noti a tutti, e perciò mi
limiterò a sottolinearne due che mi sembrano particolarmente significativi. In primo luogo, l’instaurazione di un regime democratico, aperto
verso l’esterno e strenuamente contrario ad ogni forma di gretto nazionalismo, crea un terreno particolarmente propizio alle indagini internazionalistiche. Ho detto prima che anche durante il fascismo gli internazionalisti non si erano «venduti l’anima» al regime; ma ciò a costo di
una depurazione massima della loro scienza. Ora questo processo di rarefazione non è più reso necessario dalle circostanze esterne. Il secondo
fatto che vorrei sottolineare è la fine del monopolio dell’idealismo crociano, e l’emergere di nuove ideologie e modi di pensare. Mi riferisco,
più che all’esistenzialismo e a certe tendenze del pensiero cattolico, al
marxismo, promosso da un forte Partito Comunista (al quale si iscrivono diversi internazionalisti) e facilitato dalla pubblicazione delle opere
di A. Gramsci. Anche qui dobbiamo chiederci se la maggiore sensibilità
al dato storico e le tendenze demistificatrici insite nel migliore pensiero
marxista hanno avuto un’incidenza sulla dottrina internazionalistica.
3.2. Caratteri generali della dottrina
Il primo tratto saliente della dottrina del secondo dopoguerra è il permanere dell’atteggiamento positivistico e, in certi casi, del normativismo,
con tutti i loro coronari, primi fra tutti il concetto della avalutatività
della scienza giuridica e la rigida distinzione tra indagini «de lege lata»
e indagini «de lege condenda».
Questo atteggiamento mentale di fondo è confermato da due circostanze. Anzitutto, gli eventi della guerra inducono vari internazionalisti a
scendere nell’agone politico: ad esempio, alcuni allievi di Ago (Migliazza, Giuliano e Ziccardi) nonché un allievo di Perassi (G. Barile)
partecipano attivamente alla guerra partigiana (Migliazza verrà arrestato
e torturato dai nazisti); altri invece scelgono l’altro campo, e qualcuno
Diritto internazionale
119
partecipa addirittura alla Repubblica di Salò. Di questo impegno politico non troviamo però traccia alcuna negli scritti giuridici di questi
vari internazionalisti, tutti ligi al precetto positivistico che vieta
qualsiasi intrusione delle ideologie o degli ideali politici nelle indagini
scientifiche.
La seconda circostanza consiste in ciò: i pochissimi internazionalisti
che, per ragioni ideologiche, si sentono indotti a recepire istanze delle
nuove ideologie, le utilinano in misura limitatissima, e pur sempre entro
il quadro generale del positivismo. Va ricordato al riguardo il caso di
M. Giuliano, iscritto al Partito Comunista tra il 1943 e il 1956, e collaboratore di Rinascita. Ebbene, Giuliano scrive un’importante monografia
su La Comunità internazionale e il diritto (Giuliano, 1950a) intesa ad analizzare «la funzione del diritto internazionale nella comunità degli stati (nel
senso più lato dell’espressione) e quindi [a] tratteggiarne anche le
possibilità e i modi della sua azione, le prospettive di sviluppo, le esigenze poste dalla sua base sociale e dai fattori che influenzano il mondo delle
relazioni internazionali (Ibid., p. 5)». Come si vede, un programma ambizioso e volto a approfondire realisticamente il ruolo del diritto nella
comunità internazionale. Chi legge l’opera di Giuliano non può però che
restare deluso, malgrado l’immenso materiale utilizzato di prima mano
e l’approfondimento diretto di classici. In effetti, il libro si riduce ad
un’analisi approfondita e puntigliosa della dottrina, condotta nello stile
più tradizionale della scuola italiana; tutto ciò, per approdare alla conclusione secondo cui il diritto internazionale è una «sovrastruttura» della
società degli stati (Ibid., pp. 307-309): conclusione questa che, oltre a
non essere di sconvolgente importanza, era stata raggiunta nel 1919 da
T. Perassi.
Aggiungo che il permanere dell’impostazione positivistica è confermato anche dalla circostanza che i pochissimi giusnaturalisti che la dottrina italiana ancora annovera, rimangono isolati e, tutto sommato, emarginati.
A questo riguardo basti menzionare Gabriele Salvioli, le cui opere (1948 a;
1948b) hanno avuto scarsa eco sia in Italia che all’estero. Anche giuristi di
matrice cattolica, portati dunque a valorizzare la dimensione etica o il
fondamento morale delle regole giuridiche, non si allontanano dal filone
positivistico, anche quando insistono, come Giuseppe Sperduti (1956)
sulla «doverosità sociale» come fondamento metagiuridico dell’ordinamento giuridico internazionale (e del diritto in generale), o quando, come
Giorgio Balladore Pallieri (1962) sottolineano l’importanza di una «superiore norma morale» come fondamento ultimo del diritto — accentuazione,
questa, che secondo il Pecourt Garcia (1965) indicherebbe l’adesione a
concezioni giusnaturalistiche.
120
Antonio Cassese
Un secondo tratto saliente della dottrina è il permanere di forti interessi teorici e la correlativa scarsa apertura verso problematiche di attualità.
Ricorderò al riguardo la monografia di Ziccardi sulla costituzione dell’ordinamento internazionale (Ziccardi, 1943); le considerazioni di Giuliano
(1946) sulla costruzione dell’ordinamento internazionale cui ha fatto seguito,
dello stesso autore, la monografia sulla comunità internazionale e il
diritto che ho già ricordato (Giuliano, 1950); il volume di G. Sperduti
La fonte suprema dell’ordinamento internazionale (Sperduti, 1946); la
monografia di R. Ago su Scienza giuridica e diritto internazionale (Ago
1950); il corso di R. Quadri (1952) sul fondamento del diritto internazionale; il volume di G. Barile (1951) su I diritti assoluti nell’ordinamento
internazionale, nonché una serie di significative monografie di G. ArangioRuiz (1950; 1951; 1952; 1954).
La proposizione, che ho appena formulato, circa il permanere di un
interesse privilegiato per problemi teorici, va però accompagnata da due
riserve importanti.
In primo luogo, se si scorrono i contributi scientifici italiani di questo
periodo, si può notare che l’interesse dei giuristi non si appunta più di
tanto su problemi teorici tradizionali (quali i rapporti tra diritto interno
e diritto internazionale; le fonti del diritto e la loro natura; i rapporti
tra fonti; la natura dei soggetti, ecc.) quanto su un problema di fondo
che, seppur teorico, acquista ora un’importanza o una dimensione attuale: il fondamento del carattere obbligatorio, e la funzione, del diritto
nella comunità internazionale. È evidente che la seconda guerra mondiale ha scosso le fondamenta del diritto della comunità interstatuale,
ha mostrato come stati importanti possono violare in modo grave il diritto internazionale, e che la sola reazione contro tali violazioni risiede
nella guerra. Gli avvenimenti succedutisi alla grande conflagrazione (e
in particolare il possesso dell’arma atomica da parte prima di una e poi
di due superpotenze, nonché i processi a Norimberga e a Tokyo e la creazione delle Nazione Unite) hanno rimesso in discussione taluni capisaldi
del diritto tradizionale. Si avverte dunque il bisogno di «rivisitare» il
diritto internazionale, per accertare se esso ha ancora un ruolo, e quale.
Mi affretto però ad aggiungere che anche in questo caso la risposta a
questi quesiti angosciosi fu ricercata da quegli internazionalisti «all’interno del diritto», per così dire, e cioè senza utilizzare altre scienze (la
scienza delle relazioni internazionali, la sociologia, la storia, ecc.). L’analisi viene condotta ricorrendo esclusivamente agli strumenti conoscitivi
dei giuristi. Gli internazionalisti finiscono così per dare risposte aggiornate
e raffinate a quei quesiti, rimanendo però nell’ambito delle vecchie
impostazioni.
Diritto internazionale
121
La seconda riserva che intendevo formulare è nel senso di indicare
che, in questo quadro generale, una progressiva apertura si realizza tuttavia presso un numero sempre maggiore di studiosi. Al riguardo, conviene ricordare anzitutto che, quando — nel 1953 — la Rivista di diritto
internazionale riprende le pubblicazioni interrotte dalla guerra, nel «programma» editoriale viene stabilito che si darà risalto alla realtà internazionale. Quel programma indica infatti che la rivista «si propone, in particolare,
di dare un ampio sviluppo alla rubrica “note e commenti”, nella quale
saranno rilevati gli aspetti giuridici di avvenimenti internazionali e di
attività di organizzazioni internazionali, in modo da mantenere un diretto
contatto della teoria con la viva realtà delle relazioni internazionali e con i
movimenti intesi a dare un più solido assetto all’ordinamento della
comunità internazionale»1. Se poi si scorrono le varie annate della Rivista, è
facile accorgersi che, almeno negli anni Cinquanta e Sessanta, questi
propositi sono rimasti in larga misura allo stadio di pie intenzioni. Quel che
è importante, è che un certo numero di studiosi si dedica effettivamente
— al di fuori della Rivista — ad indagini su problemi attuali e concreti,
abbandonando i consueti temi teorici. Primo tra tali giuristi è R. Ago,
che dedica tre saggi alle Nazioni Unite (ripubblicati in SIOI, 1957).
Accanto ad Ago si può ricordare Giuliano (autore di una importante
monografia sulla condizione giuridica internazionale della Germania nonché
di un saggio sulle Nazioni Unite e la collaborazione internazionale nel
campo dei rapporti economico-sociali; in SIOI, 1957) e P. Ziccardi, autore
di un lucido contributo sull’intervento collettivo delle Nazioni Unite e i
poteri in materia di mantenimento della pace conferiti all’Assemblea
Generale dalla risoluzione «Uniti per la pace» del 1950 (in SIOI, 1957).
Importanti studi dedica poi G. Sperduti alla nuova problematica dei diritti
umani nonché, in misura però limitata, alla punizione dei crimini
internazionali ad opera del tribunale internazionale di Norimberga
(Sperduti, 1950a; 1950b). Aggiungo che il fenomeno della guerra attira
l’attenzione di due noti giuristi: F. Capotorti (allievo di Morelli) e A.
Migliazza (allievo di Ago), i quali pubblicano entrambi una monografia sulla
occupazione bellica esaminata alla luce della recentis- sima esperienza
della seconda guerra mondiale (Capotorti, 1949; Migliazza, 1949).
Come si vede, nel complesso, e malgrado ombre ed incertezze, si ha
dunque una prima sensibilizzazione verso i grandi problemi del momento.
È bene però sottolineare che vengono tuttavia trascurati molti punti
cruciali: quelli posti dall’uso della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki,
1
Rivista di diritto internazionale, 1, XXXVI, 1953.
122
Antonio Cassese
i problemi posti dalla graduale acquisizione delle armi nucleari da parte
di varie potenze e le conseguenze in materia di equilibrio del terrore;
i grandi processi contro i criminali di guerra; la formazione dei due blocchi
contrappposti (NATO e Patto di Varsavia). Su questi e altri problemi
collegati, la dottrina italiana preferisce non prendere posizione, probabilmente perché li considera suscettibili di indagini più politologiche che
giuridiche.
Un terzo tratto caratteristico della dottrina è costituito dalla scarsa
apertura nei confronti di altre discipline dello spirito («Geisteswissenschaften»). Alcuni internazionalisti si trovano a tenere corsi universitari di «storia dei trattati» (come allora veniva definita la storia delle
relazioni internazionali); nondimeno, non ne traggono alcun incentivo
ad adottare visioni del fenomeno giuridico più improntate a considerazioni storiche. Gli istituti giuridici continuano ad essere esaminati in
astratto, al di fuori dello spazio e del tempo. Parimenti, la dimensione
politologica continua a restare estranea all’indagine giuridica. Ancora
una volta, un’eccezione è costituita da R. Ago, che comincia ad affiancare alle indagini più strettamente tecnico-giuridiche (o di «dommatica
giuridica») analisi che rientrano più propriamente nel campo di quelle
politologiche: mi riferisco in particolare ai tre importanti saggi sui recenti sviluppi delle organizzazioni internazionali, che ho già menzionato
in precedenza. Questi scritti rimangono però isolati, anche se un nuovo
organismo nazionale creato dopo la seconda guerra mondiale su iniziativa di Ago e di studiosi di altre discipline, e cioè la Società Italiana per
l’Organizzazione Internazionale (S’OD costituisce gradualmente un
centro di dibattito che, grazie anche ad una nuova rivista (La comunità
internazionale fondata nel 1946) darà lentamente i suoi frutti (non a caso
uno dei nostri studiosi di relazioni internazionali, U. Gori, si è formato
presso la SIOI di Roma, cominciando come cultore di diritto internazionale e poi gradualmente passando alle relazioni internazionali propriamente dette).
Malgrado le aperture appena accennate, la concentrazione esclusiva,
o quasi, sul fenomeno giuridico visto nella sua mera dimensione tecniconormativa, permane un tratto essenziale della scienza giuridica italiana.
Una quarta caratteristica saliente di questa scienza è altresì il persistere della mancanza di memoria storica: intendo dire, l’assenza di interesse storiografico per le proprie vicende ed evoluzioni. Invano si cercherebbero studi approfonditi sulle fasi di sviluppo della dottrina internazionalistica o sui suoi principali maestri. Analisi su singoli studiosi vengono compiute solo dopo la loro morte e consistono sostanzialmente in
necrologi, con tutti i limiti di questi occasionali epicedi. Insomma, in-
Diritto internazionale
123
vece di procedere ad una approfondita revisione critica del proprio «passato» gli internazionalisti italiani tendono a prendere un atteggiamento alla
Spoon River Anthology (perché, come quella raccolta di componimenti
funerari, non parlano che di morti). Quel che ho detto vale anche per i
due giuristi per i quali ci si è sforzati di andare un po’ al di là del mero
necrologio, data la loro statura scientifica: Anzilotti e Perassi. Anche in relazione ad essi, è in sostanza mancato un tentativo di «rivisitazione» critica
del loro contributo alla scienza internazionalistica.
Un quinto dato che caratterizza i nostri autori, anche in questo periodo, è il permanere dell’ «unione accademica» del diritto internazionale pubblico con il diritto internazionale privato. Questa circostanza, sulle cui origini
storiche non è questa la sede per svolgere riflessioni, accompagna la nascita stessa della dottrina internazionalistica italiana: anche se nulla è
scritto negli statuti delle università o nei regolamenti concorsuali, sin dalla metà dell’Ottocento a un internazionalista italiano si chiede di specializzarsi sia in diritto internazionale privato che in diritto internazionale
pubblico, e cioè in due rami completamente distinti e diversi della scienza
giuridica (in Germania, più saggiamente, sono i civilisti che tendono ad occuparsi di diritto internazionale privato, mentre per il diritto internazionale
pubblico si richiede di avere anche una formazione in diritto costituzionale o amministrativo). Spesso addirittura l’internazionalista italiano comincia con il privato e passa poi al pubblico: per citare solo qualche esempio
illustre, ciò vale per D. Anzilotti e per R. Ago. Conviene ricordare che una
giustificazione di questa commistione si trova già nell’Introduzione al primo
numero (1906) della Rivista di diritto in- ternazionale, anonima ma palesemente redatta da D. Anzilotti; in essa si sottolineavano «i presupposti comuni delle varie parti della nostra disciplina, e il fine sostanzialmente identico
a cui tutte intendono: un certo coordinamento e regolamento di rapporti
che intercedono fra stati diversi, nella vita delle nazioni e dei singoli, nell’efficacia delle leggi e nell’impero delle autorità rispettive».
Malgrado ciò, resta il fatto che le due discipline sono profondamente
diverse. Basterà citare al riguardo le esatte osservazioni di M. Giuliano:
Si tratta di due discipline che si differenziano profondamente l’una dall’altra e che
solo una tradizione accademica altrettanto radicata quanto poco giustificata mantiene unite in un unico quadro. Si tratta, dicevo, di due discipline diversissime tra
loro: attinente, la prima, al mondo della diplomazia e dei rapporti tra governi, e,
la seconda, alla sfera degli ordinamenti giuridici nazionali, degli ordinamenti giuridici interni dei diversi stati. E diversissime sono altresì la preparazione e la formazione che si richiedono allo studioso per affrontare adeguatamente sia l’una che l’altra.
Perché, se la prima richiede un accurato approfondimento della realtà dei rapporti
tra gli stati, una vivace sensibilità storica (...) e anche una sicura padronanza della
124
Antonio Cassese
teoria generale del diritto; la seconda richiede, invece, una solida e approfondita
conoscenza del diritto interno, in particolare del diritto privato e del diritto processuale civile, nonché del diritto comparato, suffragata da un costante riferimento
alla pratica giurisprudenziale, nazionale e straniera (Giuliano, 1982, p. 407).
Oltre a sottoscrivere pienamente queste osservazioni, vorrei mettere
in rilievo una importante conseguenza della necessità, per gli internazionalisti, di approfondire due problematiche così diverse: essi finiscono
inconsapevolmente per adottare, anche per i rapporti interstatuali, schemi
civilistici o comunque concezioni e visioni proprie della scienza privatistica, del tutto inadeguati a comprendere la realtà dei rapporti interstatuali, per la cui comprensione sarebbe semmai più utile la conoscenza
di problematiche costituzionalistiche, ed in ogni caso l’apporto di scienze
metagiuridiche quali la storia delle relazioni internazionali, la scienza
politica, la sociologia.
Una sesta caratteristica saliente della dottrina italiana, che assume
particolare risalto in questo periodo, consiste in ciò: i vari studiosi si dividono in grandi scuole, ciascuna dominata da una singola personalità di
forte rilievo. Queste scuole si distinguono non per il fatto di seguire metodologie o ottiche radicalmente diverse (e in effetti le differenze non
sono assai rilevanti), quanto per due motivi: primo, la diversa accentuazione dell’«approccio» positivistico impresso da ciascun caposcuola, che
si trasmette ai vari membri della scuola; secondo, la valenza più strettamente accademica (concorsi, ed altre forme di cooptazione). I pochi studiosi che non partecipano, in un modo o in un altro, a queste scuole,
rimangono isolati: e spesso si tratta di figure di scarso rilievo.
4. Le nuove tendenze che emergono tra la fine degli anni Sessanta ed oggi
4.1. I «fatti nuovi» sulla scena italiana
Le periodizzazioni, come tutti sanno, sono arbitrarie e da prendere
quindi con beneficio di inventario. Se faccio decorrere l’ultimo periodo
dell’evoluzione della scienza internazionalistica italiana dalla fine degli
anni Sessanta è perché ho in mente soprattutto due avvenimenti.
Da una parte, la nascita — nel 1965 — di un importante periodico, la Rivista di diritto internazionale privato e processuale. Questa rivista,
come dirò in seguito, segna una frattura o, se si preferisce, una svolta
sia a livello scientifico che accademico. A livello scientifico consacra la
definitiva «autonomizzazione» di una delle due grandi discipline sino
ad allora ricomprese — a torto, secondo me — sotto la dizione «diritto
Diritto internazionale
125
internazionale». Ciò significa che da allora in poi le migliori energie intellettuali che preferiscono dedicarsi a temi internazionalprivatistici vengono
incanalate verso quella rivista. Sul piano accademico la svolta è indicata
dalla circostanza che un nucleo autorevole di giuristi, guidato da Giuliano, si stacca dal gruppo che fa capo alla Rivista di diritto internazionale, e
finisce per costituire un polo autonomo di attrazione scientifica e di «gestione» dei rapporti accademici.
Il secondo avvenimento è, per così. dire, «esterno» alla scienza. Esso
è costituito da quel grande rivolgimento delle coscienze che fu il ‘68:
un rivolgimento confuso e velleitario, bensì., ma anche portatore sia dell’esigenza di un modo nuovo di organizzare la cultura, i rapporti accademici,
le istituzioni, sia di un richiamo a svecchiare le problematiche stantie, per
occuparsi dei problemi reali. A breve scadenza, quello scombussolamento
generale ebbe un’incidenza assai modesta, e quasi risibile, in seno al più
autorevole e prestigioso periodico internazionalistico, la Rivista di diritto
internazionale: dal 1969 vennero eliminati i titoli accademici che prima accompagnavano i nomi dei direttori e redattori, nonché degli autori dei contributi scientifici pubblicati in ciascun fascicolo (questa «rivoluzione» è «rientrata» a partire dal 1985, limitatamente agli autori di saggi, note e
commenti). Ma se l’eco immediata fu così esigua, con il passare degli
anni si fece sentire l’onda lunga di quel fenomeno, ed a partire dalla
metà degli anni Settanta si ebbe un profondo mutamento nella sostanza
della Rivista. Contemporaneamente si producevano, a grado a grado, notevoli modificazioni nella struttura accademica italiana (abolizione della figura degli assistenti e dei professori incaricati, creazione della categoria
dei professori associati, introduzione di nuovi criteri per la cooptazione
dei docenti) e si allargava notevolmente il numero degli studiosi forniti di
status universitario. Il che, un po’ alla volta, implicava anche uno sbriciolarsi delle scuole tradizionali (prima notevolmente monolitiche), un ampliarsi della «base accademica», ed un apporto notevole di nuove tematiche internazionalistiche e di nuove suggestioni metodologiche da parte
delle nuove generazioni.
4.2. I «fatti nuovi» sulla scena internazionale
Anche per quest’ultimo periodo dell’evoluzione della scienza
internazionalistica italiana, prima di esaminare le nuove tendenze che
emergono, conviene accennare brevemente ai «fatti» nuovi che
caratterizzano la comunità internazionale. Ciò permetterà di valutare in
modo più acconcio se e fino a che punto la dottrina ha tenuto conto
126
Antonio Cassese
dei nuovi eventi e delle nuove tendenze nella realtà dei rapporti internazionali.
Dalla metà degli anni Sessanta quattro grandi fenomeni campeggiano
nella comunità internazionale: 1) la fine del colonialismo (gli ultimi grandi
possedimenti coloniali, quelli del Portogallo, acquisteranno l’indipendenza
alla metà degli anni Settanta; quel che in seguito rimane degli imperi
coloniali non consiste che in minuscole schegge); 2) il graduale consolidarsi di tre grandi raggruppamenti di stati: i paesi occidentali, quelli socialisti e quelli in via di sviluppo, e soprattutto la netta acquisizione,
da parte del Terzo Mondo, della consapevolezza di essere bensì il gruppo
più numeroso ed esigente, ma anche di essere tuttora privo di effettivi
mezzi di potere economico o militare; 3) la graduale attenuazione della
guerra fredda; 4) l’inizio del declino delle Nazioni Unite come organizzazione capace di gestire e risolvere crisi internazionali ed orientare gli
stati verso sentieri pacifici inducendoli nel contempo ad affrontare i grandi
problemi dell’umanità (il divario Nord-Sud, la piaga delle gravi violazioni dei diritti umani, ecc.).
Questi quattro grandi fenomeni, come è chiaro, sono strettamente
collegati tra loro. Essi poi fanno da tela di fondo ad altre tendenze che
cominciano a diffondersi negli anni Settanta e acquistano purtroppo
un’importanza sempre crescente. Queste tendenze possono riassumersi
in una formula; il diffondersi della violenza, a più livelli: da parte di
stati (uso sporadico della forza in violazione dell’art. 2 comma 4 della
Carta dell’ONU; scatenamento di guerre convenzionali) o da parte di
gruppi privati e «pubblici» non statali (terrorismo, guerre civili, guerre
di liberazione nazionale).
Quasi a controbilanciare queste manifestazioni distruttive si profilano però tendenze assai significative a livello diplomatico, istituzionale
e giuridico. Penso anzitutto al rafforzamento del multilateralismo: la rete
dei rapporti diplomatico-istituzionali di cui ogni stato membro della comunità internazionale è partecipe, diviene sempre più fitta e «quotidiana».
Oramai ogni stato non può fare a meno di prender parte all’attività delle
varie organizzazioni intergovernative, ai vari fori internazionali a carattere più o meno permanente (a base universale o regionale), agli incontri
e ai dialoghi che si intessono in più sedi e in più occasioni. Frutto diretto dell’accentuarsi del multilateralismo è il forte sviluppo della codificazione del diritto internazionale. Non si tratta, beninteso, di mettere
per iscritto il vecchio diritto consuetudinario di origine europea. Si tratta
piuttosto di rifondare e riplasmare il vecchio diritto alla luce delle esigenze e delle aspirazioni dei nuovi stati (sia di quelli del blocco socialista, sia di quelli che non costituivano ancora entità indipendenti all’e-
Diritto internazionale
127
poca della creazione del vecchio diritto). Si tratta altresì di tener conto
dei rivoluzionari progressi che si vanno diffondendo nella scienza e nella tecnologia. Si assiste così al proliferare di conferenze diplomatiche di codificazione, che producono frutti assai cospicui, nelle seguenti materie: le relazioni diplomatiche (1961) e quelle consolari (1963); il diritto dei trattati
(1969); la rappresentanza degli stati nei rapporti con organizzazioni a carattere universale (1975); il diritto umanitario dei conflitti armati (1977);
la successione degli stati in materia di trattati (1978) e in materia di beni
statali, archivi e debiti (1983); il diritto del mare (1982); il diritto dei trattati regolanti i rapporti tra stati e organizzazioni internazionali o tra queste organizzazioni (1986).
Altre tematiche sono state poi regolate da grandi risoluzioni delle Nazioni Unite: basti pensare alla dichiarazione sulle relazioni amichevoli
tra stati (del 1970), alla Carta dei diritti e doveri economici degli stati
(1974), alla definizione dell’aggressione (1974), alla dichiarazione sull’inammissibilità dell’intervento negli affari interni degli stati (1981).
Accanto a queste convenzioni e risoluzioni, che rimettono in discussione materie più o meno tradizionali, altri campi nuovi sono stati disciplinati
da un numero rilevante di trattati o risoluzioni: basti pensare ai grandi atti
normativi sullo spazio extraatmosferico, sui corpi celesti, sull’inquinamento, sul terrorismo.
Un ultimo fenomeno da segnalare, che fa anch’esso da contraltare
al diffondersi della violenza, è il graduale affermarsi della giurisdizione
della Corte internazionale di giustizia. Dopo quello che sembrava un rapido declino dell’autorità e dell’incidenza della Corte, per una infelice sentenza sulla Namibia (1966), la Corte ha gradualmente guadagnato le
simpatie degli stati, soprattutto del Terzo Mondo, esercitando un ruolo notevole (segnatamente negli anni Ottanta) come fattore di soluzione pacifica
di crisi economiche e politiche, che avrebbero potuto altrimenti degenerare
in conflitti armati (ed attualmente si assiste ad un fenomeno singolare: da
una parte il «distacco» dalla Corte degli Stati Uniti, tradizionalmente paladini — entro certi limiti — del ricorso alla giurisdizione, e, dall’altra, l’avvicinamento cauto e graduale dell’URSS alla Corte, avvicinamento peraltro
rimasto finora solo allo stadio delle intenzioni).
4.3. Le nuove tendenze del positivismo
Nei due ultimi decenni si sono venute profilando, all’interno del positivismo tradizionale, nuove ed interessanti tendenze verso una sempre
maggiore apertura della scienza giuridica nei confronti della realtà in-
128
Antonio Cassese
ternazionale ed un graduale abbandono dei grandi temi teorici che avevano tanto affascinato ed affaticato i giuristi, negli anni precedenti. Vediamo in maniera particolareggiata gli aspetti salienti di questo interessante processo di revisione e di aggiornamento.
a) Il declino del formalismo giuridico. Questo declino si manifesta in
più modi. Anzitutto, come ho appena detto, nel graduale scemare di interesse per i temi prevalentemente teorici. Anche quando questi vengono ancora studiati, non lo sono più nella loro dimensione puramente astratta e
formale, ma piuttosto in relazione ai nuovi procedimenti di codificazione, o alla luce dell’evoluzione della prassi internazionale. Basti pensare,
al riguardo, ai tre grandi temi delle fonti, dei rapporti tra diritto interno e
diritto internazionale e della responsabilità internazionale. La problematica
dell’accordo internazionale costituisce ancora oggetto di indagini e ricerche, ma tutte polarizzate sulla Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati. Si pensi ai saggi di Capotorti (1969b), di Ago (1971) nonché,
tanto per fare qualche esempio, alle monografie di Mosconi sulla formazione dei trattati (1968), di Sico sugli effetti del mutamento delle circostanze sui trattati internazionali (1983), della Ziccardi Capaldo sulla competenza a denunciare i trattati internazionali (1983), di Pisillo Mazzeschi
sulla risoluzione e sospensione dei trattati per inadempimento (1984), della Sciso sugli accordi internazionali confliggenti (1986). Anche indagini
su altri aspetti delle fonti non sono più condotte in termini astrattamente teorici, ma si nutrono di continui riferimenti alla prassi. Si pensi alla
monografia di Conforti sulla funzione dell’accordo nel sistema delle Nazioni Unite (1968), all’amplissimo saggio di Arangio-Ruiz sul ruolo normativo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (1972) e al corso all’Aja di Ferrari Bravo sui metodi di ricerca della consuetudine internazionale nella prassi degli stati (1985).
Quanto ai rapporti tra diritto interno e diritto internazionale, alcuni giuristi che già avevano dato prove importanti ed autorevoli nel passato ritornano sul tema con ottiche ed impostazioni nuove (penso soprattutto ai
numerosi ed autorevoli saggi di Sperduti e di Pau), mentre altri preferiscono affrontare il problema con riferimento specifico a norme dell’ordinamento italiano (si pensi ai saggi di Bernardini, Condorelli e di A. Cassese sulla Costituzione italiana) o in chiave comparata (si pensi soprattutto ai saggi di Calamia e A. Cassese).
Passiamo infine al tema della responsabilità internazionale, che è dominato dai rapporti di Ago per la Commissione del diritto internazionale
delle Nazioni Unite. Anche qui i grandi problemi del passato vengono
riconsiderati in un’ottica moderna e aggiornata. Si pensi, ad esempio,
Diritto internazionale
129
ai saggi di Arangio-Ruiz sulla responsabilità per danni nucleari (1960),
di R. Luzzatto sulla colpa (1968), di Starace sugli obblighi verso la comunità internazionale (1976), di Pillittu sullo stato di necessità (1981), di
Picone sugli obblighi reciproci e gli obblighi erga omnes in materia di
inquinamento (1983), alla monografia della Carella in materia di crimini
internazionali (1985) e agli articoli di B. Conforti (1989) e di A. Cassese
(1989) sulla stessa materia.
Un’altra cospicua manifestazione del declino del formalismo consiste
nell’apertura sempre maggiore verso temi di attualità: su di essi i giuristi tentano ora di dare il contributo di chiarificazione e di illuminazione consentito dall’uso accorto degli strumenti dell’indagine giuridica.
Al riguardo, mi limiterò a segnalare due circostanze importanti, attinenti
entrambe alla Rivista di diritto internazionale, un autorevole periodico
che da sempre ha costituito il palladio e il vessillifero del rigore formalistico più agguerrito e militante.
La prima delle due circostanze consiste in ciò: a partire dal 1974, e
per merito precipuo di A. Malintoppi, viene introdotta nella Rivista una
nuova rubrica, Panorama, che intende occuparsi con note rapide e
puntuali, di episodi, avvenimenti, incidenti, di grande attualità. Orbene,
questa rubrica, soprattutto per merito di G. Gaja (ma con apporti assai
interessanti di V. Starace, R. Adam e N. Ronzitti, per non citare che
coloro che più vi hanno collaborato) ha saputo richiamare l’attenzione
degli internazionalisti non solo su casi pratici o incidenti diplomatici caratteristici o indicativi delle nuove tendenze di sviluppo della comunità
internazionale, ma anche su errori e storture del legislatore italiano o
internazionale. In tal modo questa rubrica ha felicemente combinato il
rigore giuridico con l’attenzione ai fatti, l’indagine de lega condita con
la critica legislativa e le proposte de jure condendo. In breve, le distinzioni operate nel 1919 da Tomaso Perassi, ma poi cadute nell’oblio per
il prevalere della sola «domtnatica giuridica», sono state riprese e si assiste al ritorno di una felice utilizzazione di tutta la gamma degli strumenti dell’indagine giuridica, per più fini.
La seconda circostanza risiede in ciò: soprattutto a partire dagli inizi
degli anni Settanta anche la sezione concernente gli articoli di dottrina
della Rivista di diritto internazionale si è gradualmente aperta a temi di
attualità o di grande interesse pratico. A titolo di esempio, e limitandomi agli anni Settanta e Ottanta (fino al 1987), ricorderò oltre agli innumerevoli contributi sul nuovo diritto del mare, i numerosi saggi sull’uso della forza (Spatafora, 1968; Panzera, 1981; 1986; Alaimo, 1981;
Gentili, 1984; Ronzitti, 1983; Sciso, 1977; 1983; 1987), sul terrorismo
(Panzera, 1975a; 1975b; Mosconi, 1979), sui problemi dell’inquinamento
130
Antonio Cassese
(Ferone, 1972a; 1972b; Florio, 1980; Sisto, 1980; Gestri, 1986), sui
diritti umani (Condorelli, 1970; 1971; Pocar, 1972; Sperduti, 1974a;
1974b; Bobbio, 1974; Paladin, 1974; Chiavario, 1974; Benvenuti, 1974;
Cassese, 1974; Capotorti, 1980; 1981; Sapienza, 1981; 1987; Bellini,
1981), sul diritto bellico moderno (Benvenuti, 1981; Barile, 1985), sui
rapporti economici internazionali (Radicati di Brozolo, 1975; 1980; Venturini, 1983) nonché i molteplici scritti su una varietà di temi e problemi disparati, ma tutti di grande attualità (Riccioli, 1977; Back Impallomeni, 1981; Ziccardi Capaldo, 1985; Gioia, 1984; Salerno, 1986;
Cataldi, 1987; Tanzi, 1987; Ancillotti, 1987) e, in particolare, i1 gruppo
di lavori sul trattato italo-jugoslavo di Osimo del 10 novembre 1975 (Bartole, 1977; Conetti, 1977; Florio, 1977; Sinagra, 1977; Udina, 1977).
Accanto a questi scritti, non bisogna trascurare né i numerosi saggi in
cui i problemi dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale
vengono esaminati in un’ottica moderna, e con particolare riferimento
al diritto italiano (Gaja, 1968; Morelli, 1976; Condorelli, 1979; Carella,
1981; Morviducci, 1982; Salerno, 1982; Mori, 1983; Cannone, 1984),
né alcuni contributi scientifici su alcuni aspetti contemporanei del processo decisionale internazionale, il cosiddetto consensus (Cassese, 1975a;
Barile, 1979).
b) L’apertura verso nuove tecniche e modalità della ricerca. Agli inizi degli
anni Settanta un gruppo di autorevoli giuristi della «vecchia» generazione,
guidato da R. Ago, e composto da R. Monaco, F. Capotorti, M.
Giuliano, G. Sperduti e P. Ziccardi, ebbe il merito di mettere PItalia al
passo con i grandi paesi di alta tradizione giuridica, che già da anni
avevano elaborato raccolte di prassi diplomatica e di giurisprudenza
nazionali. Utilizzando le strutture universitarie esistenti, ma con fondi
generosamente messi a disposizione dal CNR, vennero così messe in cantiere due importanti iniziative: da una parte, una raccolta di prassi diplomatica italiana (finora sono stati pubblicati 6 volumi, che coprono
un arco di tempo che va dal 1861 al 1918; SIOI-CNR, 1970-80). Dall’altra, si procedette allo spoglio sistematico, alla selezione e alla riproduzione a stampa della giurisprudenza italiana di diritto internazionale
(pubblico, privato, amministrativo, tributario, penale e processuale)
(Lamberti Zanardi, Luzzatto, Sacerdoti e Santamaria, 1973; Santamaria
1984; Barsotti e Cassese, 1973; Rottola e Starace, 1973). Entrambe
queste iniziative non possono esaurirsi in pochi anni, e sono infatti ancora in corso (la raccolta di giurisprudenza, finora relativa agli anni
1861-1890, è in 7 volumi). Scopo di queste due importanti iniziative
non è solo quello di scavare nel ricco materiale documentario italiano
Diritto internazionale
131
e renderlo di pubblico dominio, o di fornire agli autori italiani e stranieri strumenti di conoscenza che consentano di ricostruire le norme internazionali non soltanto sulla base della prassi o della giurisprudenza
di alcuni grandi paesi occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia,
Germania). Uno degli scopi, e degli effetti principali, di quelle iniziative consiste anche nello stimolare sempre più le nuove generazioni a
rivolgere la loro attenzione alle manifestazioni concrete degli stati e al
loro comportamento effettivo, al fine della individuazione di norme e
istituti internazionali. Quelle iniziative avevano, in altri termini, un
grande valore pedagogico.
Un altro loro carattere importante consiste in ciò: per la prima volta
si rompeva con l’annosa tradizione delle ricerche individuali, e si stimolava un lavoro (certo «pre-scientifico», se si vuole, ma di altissima valenza culturale) di gruppo. In effetti, è ad ampie équipes di giovani studiosi, sagacemente guidate dai maestri, che veniva affidato il compito
di effettuare quelle raccolte. Anche questo profilo aveva un importante
valore psicologico ed educativo: è stata infatti inculcata l’idea che il lavoro di gruppo ha dignità scientifica, costituisce cioè uno dei momenti o
degli aspetti necessari dell’attività di ricerca dei singoli studiosi. La
ricerca scientifica non deve includere solo una componente «individuale»
ma può e deve abbracciare anche la componente «collettiva», non meno
importante e significativa per il progresso della scienza.
Questa attività di gruppo si manifestava anche in altre direzioni. Così,
un gruppo di studiosi (R. Monaco, F. Durante, A. Del Vecchio, C. Curti
Gialdino, G. Caridi), in collaborazione con il Ministero degli Affari
Esteri, predisponeva una serie di studi e ricerche per la documentazione automatica sugli accordi stipulati dall’Italia. Tre studiosi della scuola «milanese»
(M. Giuliano, F. Lanfranchi e T. Treves, 1968) predisponevano inoltre un
corpo-indice degli accordi bilaterali in vigore tra l’Italia e gli stati esteri.
Contemporaneamente altri studiosi approntavano importanti raccolte
della giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana in materia internazionale (Gaja, 1966; Starace e De Caro, 1977; Carbone, 1988) raccolte
che saranno tra breve seguite da un Repertorio della giurisprudenza di
diritto internazionale pubblico (1960-1985), diretto da B. Conforti e
P. Picone.
Accanto a queste opere, grande importanza pratica — non disgiunta
da un indiretto stimolo a conoscere i testi di prima mano — rivestono
una serie di raccolte di trattati internazionali, di commentati di accordi,
così come le importanti introduzioni ad alcuni trattati internazionali di
particolare rilievo, edite dalla SIOI (Quadri, Monaco e Trabucchi, 1955;
132
Antonio Cassese
1970; Vitta e Grementieri, 1981; Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, 1985; Corsini, 1958a; 1958b;
Pocar e Tamburini, 1983; Panebianco, 1974; 1975-85; Giuliano, Pocar
e Treves, 1981; Pocar, 1980; Pisani e Mosconi, 1979; Kojanec, 1969;
1977-82-86; 1980-81).
Mentre tutti i lavori che ho appena citato sono frutto della collaborazione di più studiosi, singoli giuristi hanno proceduto alla compilazione
di raccolte di casi pratici ad uso degli studenti universitari, non meno
importanti, almeno sul piano didattico: da segnalare quelle di A. Cassese
(1973) sul diritto internazionale bellico moderno, di Panebianco (1977)
sullo sviluppo dell’organizzazione internazionale, di Biscottini (1981)
sulla giurisprudenza italiana relativa alla Convenzione europea dei
diritti umani, di Picone e Sacerdoti (1982) sul diritto internazionale
economico, di Starace (1981) sugli impegni internazionali dell’Italia, di
Mengozzi (1986) sul diritto comunitario, nonché quella, di contenuto
generale, di G. Badiali (1983).
c) L’emergere di più centri scientifici e di riviste ad essi collegate. Una
delle caratteristiche di questo periodo più recente dell’evoluzione della
scienza internazionalistica italiana è il fatto che mentre continua, ma
si affievolisce, la tradizione dei grandi capiscuola, non emergono nuovi
«maestri» capaci di avere la stessa forza di attrazione scientifica ed accademica. Si ha piuttosto un moltiplicarsi di centri o poli di ricerca, diretti da
studiosi eminenti. Spesso questi centri avvertono l’esigenza di esprimere
le particolari inclinazioni scientifiche ed esigenze accademiche dei loro
leader attraverso una rivista giuridica.
Così, accanto alla vecchia e gloriosa Rivista di diritto internazionale
(di cui peraltro ho già detto che si è gradualmente aggiornata, divenendo
più sensibile alle nuove realtà internazionali), all’ annuario Comunicazioni
e studi dell’Istituto di diritto internazionale e straniero dell’Università di
Milano, ed a Diritto internazionale (creata nel 1937, vissuta sino al 1941;
ripresa negli anni 1949-53, e poi nel 1959-71), espressione della scuola
di Milano (G. Balladore Pallieri, G. Biscottini) e delle sue preferenze
per i temi concreti ed attuali, si ha una proliferazione di periodici: Annuario di diritto internazionale (1965-68) diretto da R. Quadri e mirante
chiaramente a riflettere le concezioni e a promuovere le tematiche della
scuola napoletana diretta dall’insigne giurista; la Rivista di diritto europeo,
creata nel 1961, e motivata soprattutto dall’esigenza di trattare i temi
posti dall’integrazione dell’Europa occidentale; il periodico Diritto comunitario e degli scambi internazionali (1962-74 e dal 1974 in poi), anch’esso
motivato dall’esigenza di attirare l’attenzione degli studiosi su un parti-
Diritto internazionale
133
colare settore del diritto internazionale, ed infine la Rivista di diritto internazionale privato e processuale (dal 1965). Quest’ultima si distingue
dalle altre non solo per il suo oggetto specifico, ma anche e soprattutto
per il fatto di rivolgersi, oltre che al pubblico normale degli studiosi,
anche agli operatori, ai pratici (avvocati e magistrati), in funzione dei quali
vengono trattati temi concreti e di grande importanza operativa, vengono riprodotte sentenze assai «fresche» ed è fornita un’informazione
pratica puntuale ed utilissima. Sotto questo profilo la rivista, che non
è inferiore alla classica Rivista di diritto internazionale per la qualità dei
contributi che accoglie, costituisce un fatto nuovo nella scena italiana.
Un caso a parte costituisce l’Italian Yearbook of International Law,
fondato nel 1975 su iniziativa di un gruppo di giuristi (soprattutto F.
Capotorti, B. Conforti e L. Ferrari Bravo) con lo scopo precipuo di offrire al pubblico internazionale, in una lingua ad esso accessibile, i migliori contributi della scuola giuridica italiana, nonché rassegne di prassi
diplomatica e di giurisprudenza italiana, e recensioni delle più importanti opere di dottrina pubblicate in italiano. I vari volumi finora pubblicati assolvono egregiamente questo scopo di «contatto con il mondo
esterno». Essi risultano di grande utilità anche per il giurista italiano,
non foss’altro perché certe rubriche (penso soprattutto a quella relativa
alla prassi diplomatica e parlamentare italiana, a quella contenente testi
di sentenze italiane ampiamente commentate e chiosate) non sono altrimenti accessibili al pubblico italiano.
d) L’interessamento per tematiche precedentemente trascurate nonché per
problemi nuovi della comunità internazionale. Il declino del formalismo
giuridico ha comportato tra l’altro un vivo interessamento per temi concreti e attuali. Aggiungo che, nella produzione giuridica di questi ultimi
anni, si possono distinguere due filoni di studi. Da una parte, si ha un
rinnovato interesse per temi tradizionali, ma in ordine ai quali recentemente hanno avuto luogo importanti modificazioni legislative. Su questi
temi la dottrina italiana si è ampiamente soffermata, esaminandoli nella
loro nuova dimensione «legislativa»: mi riferisco, in particolare — oltre
alle tematiche del diritto dei trattati, dei rapporti tra diritto interno e
diritto internazionale e della responsabilità internazionale, alle quali ho
già fatto cenno in precedenza — a quelle del diritto del mare e del diritto della guerra.
L’altro filone concerne temi che invece sono affatto nuovi, perché
costituiscono manifestazioni nuove ed attuali della realtà internazionale:
il terrorismo, l’inquinamento, le guerre di liberazione nazionale, i rapporti economici Nord-Sud, i diritti umani, la conquista dello spazio ex-
134
Antonio Cassese
traatmosferico, i nodi principali dei rapporti tra stati e imprese straniere,
le varie forme di ricorso alla forza armata da parte degli stati, al di fuori
della guerra.
e) L’emergere di un certo interesse per problemi attinenti alla formazione, conduzione o «estrinsecazione» della politica estera. Accanto alle problematiche
appena accennate, si profila tra gli internazionalisti italiani il manifestarsi di un notevole interesse per aspetti tradizionalmente ignorati,
perché ritenuti non pertinenti all’oggetto della «dommatica giuridica».
Mi riferisco agli studi organizzati e curati da A. Cassese sul ruolo del
parlamento nella conduzione della politica estera, tematica esaminata
sia nella dimensione italiana (Cassese, 1982a) sia in quella comparatistica (Cassese, 1982b). Molto interessanti sono altresì il saggio di G.
Gaja sul controllo parlamentare dell’attività normativa delle Comunità
Europee (Gaja, 1973) nonché gli scritti di Gaja e di Treves sui problemi attinenti alla «accessibilità» dei trattati ai giuristi (Gaja, 1967; Treves, 1978).
Si tratta di problematiche che prima venivano considerate di carattere politologico — e quindi di pertinenza esclusiva dei cultori di scienza politica — perché non attengono direttamente all’interpretazione
delle norme internazionali o al funzionamento di istituzioni internazionali, ma piuttosto al modo in cui l’attività giuridica o giuridico-politica degli stati nel campo internazionale si articola o si manifesta, nonché ai problemi sollevati dalla conoscenza pratica di quell’attività da
parte dei giuristi.
f) L’inizio di una «consapevolezza storica» circa gli sviluppi della scienza
giuridica internazionalistica o il contributo dei giuristi all’evoluzione delle
istituzioni. Negli anni Settanta comincia a profilarsi anche un certo interesse degli internazionalisti italiani per la dimensione storica della loro
scienza o per l’operato dei giuristi.
Al riguardo va segnalato anzitutto il saggio di A. Cassese (1977) sul
contributo degli internazionalisti ai lavori del Ministero per la Costituente di cui è stato scritto che «nei trent’anni della terza serie della
Rivista [di diritto internazionale], a parte alcune commemorazioni di giuristi recentemente scomparsi», è l’unico che si possa «ascrivere alla categoria di studi diretti ad esaminare specificamente l’apporto degli internazionalisti italiani alla scienza o alla pratica» (Gaja, 1984, p. 65).
Sono poi da ricordare alcuni significativi saggi di M. Giuliano (1982),
G. Gaja (1984; 1987) e M. Panebianco (1987) sull’evoluzione recente
o passata della scienza giuridica italiana.
Diritto internazionale
135
g) L’accentuarsi dell’analisi dell’evoluzione storica del diritto internazionale.
In passato gli internazionalisti italiani avevano dedicato solo sporadiche
indagini allo sviluppo storico del diritto internazionale: penso alla parte
della monografia di Sereni (1943) consacrata a questi problemi, parte
peraltro limitata all’Italia, ad un saggio di Giuliano (1950a) e soprattutto a
certe pagine delle lezioni di Ago (1943) e di Balladore Pallieri (1962).
Negli ultimi decenni c’è stato invece un inizio di interesse per questa
area di studi. Particolarmente interessanti, sotto questo profilo, sono le
Lezioni di diritto internazionale di L. Ferrari Bravo (1974), in cui viene
effettuato un ampio ed acuto esame dell’evoluzione della comunità
internazionale dalle origini all’epoca attuale: i punti cruciali di sviluppo
di quella comunità sono lucidamente indicati; oltre a ciò i principali istituti
giuridici internazionali contemporanei sono considerati nella loro
dimensione storica. Numerosi sono poi i saggi di R. Ago dedicati alle
origini della comunità internazionale (Ago, 1978; 1981) e allo stesso
tema sono anche consacrate alcune pagine delle Lezioni di diritto
internazionale di G. Barile (1983) e del manuale di M. Giuliano, T.
Scovazzi e T. Treves (1983).
Accanto a queste indagini, vanno segnalati in particolare un breve
scritto di Ago (1983) su Grozio e due interessanti studi di M. Panebianco:
una monografia su Grozio ed un’indagine sull’evoluzione recente dell’ organizzazione internazionale (Panebianco, 1974; 1983).
h) Il declino dell’«unione accademica» di diritto internazionale pubblico e
privato. Ho già detto che una delle caratteristiche tradizionali della
scuola internazionalistica italiana consisteva nella circostanza che si richiedeva allo studioso di occuparsi, a livello scientifico, sia del diritto
internazionale pubblico che di quello privato. Ed ho anche indicato gli
inconvenienti che tale «necessità accademica» comportava: soprattutto
l’accentuarsi dell’impostazione civilistica per i problemi del diritto internazionale pubblico (i quali invece esigono un metodo radicalmente
diverso da quello proprio delle discipline privatistiche).
Ebbene, a partire dagli anni Sessanta la scuola italiana comincia ad
accettare il fatto che certi internazionalisti non intendono occuparsi che
di uno solo di questi settori, perché scarsamente attratti dall’altro. Per
ora questi casi sono rimasti isolati. Mi sembra però importante che quel
«matrimonio» non venga più considerato necessario. Probabilmente ciò
ha avuto qualche effetto benefico, a livello di metodo e di scelta delle
tematiche. In ogni caso, si deve ricordare che un contributo importante
al «divorzio» è stato fornito dalla creazione, nel 1965, della Rivista di
diritto internazionale privato e processuale, che sin dall’anno della sua fon-
136
Antonio Cassese
dazione ha costituito un importante polo di attrazione ed una significativa
«tribuna» per tutti coloro che intendevano consacrarsi esclusivamente o
prevalentemente al diritto internazionale privato o processuale.
4.4. I principali orientamenti della scienza internazionalistica contemporanea
L’illanguidirsi del magistero dei grandi capiscuola del passato, l’assenza di nuovi leader capaci di guidare in maniera decisiva, con la loro
personalità scientifica, tutta una generazione di studiosi, il frantumarsi
dei «blocchi accademici», prima monolitici, in una molteplicità di centri
di interesse e di ricerca, l’emergere delle nuove generazioni con i loro
interessi per le nuove problematiche della comunità internazionale: tutto
ciò contribuisce a rendere il quadro della dottrina internazionalistica attuale estremamente ricco, mosso e variegato. È ovvio che non si potrà
quindi rendere giustizia a tutti gli importanti o interessanti contributi
che sono apparsi negli ultimi venti anni. Mi limiterò dunque ad un affresco, ad una serie di notazioni impressionistiche, che dovranno essere
approfondite, verificate e «calibrate» da ulteriori studi e ricerche. E,
più che indicare contributi di singoli studiosi, cercherò di porre l’accento
sulle tendenze e sui grandi orientamenti.
Nel vasto e screziato panorama della letteratura internazionalistica
italiana, si nota anzitutto il permanere di tendenze che mirano a premiare i
dati formali del diritto. Sotto questo profilo sono in particolare da segnalare le indagini accuratissime e rigorose di F. Capotorti e V. Starace.
Un’altra tendenza consiste nella riaffermazione, lo sviluppo e l’arricchimento di impostazioni teoriche già originalmente affermate nel passato.
A questo riguardo sono da ricordare soprattutto due autorevoli studiosi,
G. Arangio-Ruiz e P. Ziccardi.
Un’altra tendenza che si può ravvisare nella dottrina contemporanea
consiste nel tentativo di superare certe fondamentali premesse positivistiche, facendo
appello a valori ed esigenze di carattere essenzialmente etico. Questa tendenza si
manifesta soprattutto in G. Sperduti, un allievo di T. Perassi che si è
sforzato da sempre di aggiornare e attualizzare il positivismo,
rivedendone le fondamenta alla luce degli sviluppi della comunità
internazionale e soprattutto di una serie di valori metagiuridici. Ciò che
è caratteristico di Sperduti è lo sforzo di ricondurre tali valori nel
quadro del diritto positivo, interpretando il diritto come sistema di
comandi giuridici che incorporano anche precetti morali. Tale tentativo
si era già manifestato in una importante nozione elaborata in passato
dallo Sperduti: quella di «riconoscimento in diritto internazionale di esi-
Diritto internazionale
137
genze della coscienza pubblica», come procedimento di creazione di norme
internazionali. Tale procedimento consisterebbe «nel riconoscimento,
da parte di sufficienti forze rappresentative della società internazionale
— da parte dell’insieme degli stati o da parte degli stati che in un certo
momento storico costituiscono le forze sociali dominanti — dell’obbligatorietà giuridica di principi, già presenti nell’ambiente sociale internazionale come grandi principi di etica sociale e la cui traduzione in regole giuridiche si afferma storicamente quale esigenza della coscienza
pubblica» (Sperduti, 1958, pp. 69-70). Al riguardo Sperduti dà come
esempi le norme generali che vietano la schiavitù e la guerra di aggressione. Come si vede, questo concerto è solo in apparenza giusnaturalistico: in realtà esso riconduce un insieme di valori etici nel quadro rigoroso del diritto. Nell’evoluzione più recente del suo pensiero, Sperduti
mostra un accentuarsi della sua sensibilità per i valori extragiuridici. Mi
riferisco in particolare ai numerosi e significativi scritti sui rapporti tra
diritto interno e diritto internazionale (Sperduti, 1976; 1978; 1979;
1981a; 1981b; 1982).
Un altro gruppo di studiosi si mostra, al pari di Sperduti, attento a
valori ed esigenze extragiuridiche, sforzandosi però di tenerne conto nell’analisi
di singole norme o istituzioni giuridiche internazionali o interne. Per
questi studiosi l’apertura verso valenze ideologiche o etico-politiche opera
nel senso di indurli a scegliere, come oggetto di esame, certi temi giuridici
piuttosto che altri, ad utilizzare certi specifici canoni interpretativi
(l’interpretazione teleologica, ad esempio, più di quella logicosistematica), e a porre in luce certe esigenze sottese dalle norme giuridiche o soggiacenti tutto il sistema normativo di cui quelle norme fanno
parte. Un altro tratto saliente, e non il meno importante, di questa corrente, è costituito dalla tendenza a tener conto del contesto politicosociale delle norme giuridiche, dell’alone globale in cui vive la norma.
Devo tuttavia avvertire che i vari studiosi che mostrano le inclinazioni
che ho appena accennato non formano un gruppo, non sono legati dai
vincoli di una scuola, ma sono accomunati solo dalla circostanza di mostrare talune affinità generali. Ciascuno di essi è del tutto autonomo.
A mero titolo esemplificativo, ricorderò i saggi di Bernardini (1973) e
di Cassese (1975b) sulle norme della Costituzione italiana relative al diritto internazionale, gli scritti — assai suggestivi e brillanti — di Condorelli sul ruolo del giudice interno nei riguardi dei trattati internazionali,
e più in generale sui rapporti tra esecutivo e potere giudiziario (Condorelli, 1974), nonché il saggio del 1979 sull’art. 10 comma 1 della Costituzione italiana (Condorelli, 1979). Vorrei inoltre richiamare l’attenzione
sugli importanti contributi di Ferrari Bravo, particolarmente sensibili
138
Antonio Cassese
alla realtà delle nuove manifestazioni della comunità internazionale, e
sempre ispirati dalla esigenza di tener conto del generale quadro storicopolitico nel quale vivono gli istituti giuridici. Tra gli studiosi che tendono ad abbracciare questo orientamento, spicca in particolare P. Picone, certamente uno degli ingegni più vivaci ed originali della nuova
generazione di internazionalisti.
Un ulteriore e interessante filone, che è venuto affermandosi sempre
più, mira a tenere il massimo conto della prassi internazionale. Gli autori più
rappresentativi di questo indirizzo (in particolare M. Giuliano, F. Pocar
e N. Ronzitti) si sono occupati in modo privilegiato di istituti giuridici che
sono tipici della realtà internazionale attuale e risultano regolati da norme consuetudinarie. Essi hanno indagato quegli istituti non tanto per inquadrarli sistematicamente nei concetti generali del diritto internazionale,
o per coglierne i profili formali o per sottolinearne la dimensione logicoconcettuale. Il loro fine precipuo è di indagare il comportamento reale degli stati e di altri attori internazionali, per delineare i contorni e il contenuto degli istituti giuridici pertinenti alla luce di una analisi attentissima
ed esauriente della prassi internazionale.
Il grosso della dottrina attuale di diritto internazionale è forse caratterizzato da una felice combinazione della tradizione positivistica o normativistica con un vigile senso della realtà internazionale. Ne risultano indagini rigorose per metodo e impeccabili sul piano dell’impostazione dei concetti,
ma nel contempo sensibili ai dati della prassi diplomatica e giurisprudenziale, e concrete sia nella scelta delle tematiche sia nello svolgimento dell’analisi e nella ricostruzione degli istituti giuridici. In breve, siamo in presenza di contributi scientificamente rigorosi ma del tutto privi del formalismo e del concettualismo che inficiavano tanti scritti di studiosi
attivi nei decenni passati. Sotto questo profilo, sono da segnalare, in particolare, B. Conforti, G. Gaia, R. Luzzatto, T. Treves, R. Barsotti, P.L.
Lamberti Zanardi, S. Marchisio, G. Strozzi, P. Benvenuti, A. Davì e A.
Cassese.
Nel quadro di questa tendenza, emerge tuttavia, per l’originalità della sua visione del diritto internazionale, uno dei più autorevoli internazionalisti delle ultime generazioni: B. Conforti. Soprattutto nella sua
opera più impegnativa, le lezioni di diritto internazionale (Conforti,
1987), egli insiste sul ruolo, proprio delle norme internazionali, di guida
dell’azione quotidiana degli organi statali incaricati dell’applicazione del
diritto: giudici, avvocati, organi amministrativi, legislatori. Conforti giustamente tiene a ribadire un concetto (presente nella dottrina internazionalistica tedesca e italiana sin dall’opera del Triepel del 1899 sul diritto interno e diritto internazionale): quello secondo cui il diritto inter-
Diritto internazionale
139
nazionale rimane impotente se non viene attuato concretamente dagli
ordinamenti statali dei singoli soggetti della comunità internazionale.
In altri termini, le norme internazionali, per poter produrre i loro effetti, hanno bisogno di essere rese operative dai vari organi che all’interno di ciascun stato agiscono nei rispettivi settori di competenza (giudici, ecc.). Movendo da tale presupposto, Conforti si prefigge il compito di esaminare le norme e gli istituti internazionali attraverso l’ottica del
diritto interno, e cioè studiando come, nell’ordinamento italiano — che è
quello che egli presceglie come suo osservatorio specifico — i vari organi
statali interpretano ed applicano le norme internazionali. Questa ottica
«internistica» è certamente assai feconda, perché consente di mettere in
luce l’atteggiamento concreto assunto dai vari organi statali nei confronti
delle norme internazionali. In particolare, essa ha tre meriti specifici.
Primo, permette di schivare l’esame di problemi puramente teorici, ossia
privi di una dimensione pratica e concreta. Secondo, consente di
individuare storture, fraintendimenti e concezioni errate degli organi
statali, e di contribuire così alla revisione critica di quegli atteggiamenti
fallaci; quel metodo ha dunque un’importante valenza critica e
operativa, in quanto è suscettibile di incidere sul comportamento concreto degli organi statali. Terzo, quel metodo riveste un importante ruolo
a livello didattico; ed infatti Conforti avverte che il suo libro «si dirige
agli operatori giuridici interni, o meglio intende contribuire alla formazione internazionalistica dei futuri operatori giuridici interni, particolarmente dei giudici, nell’ambiziosa speranza di contribuire ad eliminare
lacune ed errori» p. 10). Da questo punto di vista, non si può
che ritenere salutare il grande successo che il libro di Conforti sta avendo
in quasi tutte le facoltà giuridiche italiane, dove assolve un ruolo pedagogico rilevantissimo.
Detto ciò, occorre però anche esprimere qualche riserva sull’impostazione accennata. Essa, in effetti, finisce per perdere d’occhio la vera
dimensione dei rapporti tra stati (e tra questi ed altri enti internazionali
«associati»): dimensione politico-diplomatica, che esiste come tale, prima
di essere «filtrata» attraverso l’applicazione giudiziale o amministrativa
interna. Se è vero che il diritto internazionale adempie una importante
funzione nel guidare ed orientare la condotta degli stati e di altri soggetti, nelle relazioni internazionali, è anche vero che questa funzione
viene assolta già prima della «traduzione» delle regole internazionali in
norme interne, e a prescindere da tale «traduzione». Se non si tiene conto
di questa valenza politico-diplomatica delle regole giuridiche internazionali
di comportamento, non si coglie uno dei ruoli principali del diritto della
comunità internazionale.
140
Antonio Cassese
In secondo luogo, l’ottica «internistica» finisce necessariamente per
essere improntata a criteri nazionali (non necessariamente nazionalistici, almeno nel caso di Conforti, che è affatto aperto ai valori della comunità
internazionale). Per essere coerente e completa, quell’impostazione dovrebbe basarsi su un esame comparato dei principali sistemi statali contemporanei,
per accertare come il diritto internazionale viene interpretato ed applicato in ciascuno di essi.
Soprattutto per esigenze di completezza, mi sembra opportuno segnalare, infine, un «approccio» al diritto internazionale auspicato e
proposto negli ultimi tempi, sempre nel quadro del «positivismo aggiornato e realistico» cui ho appena accennato. Nell’accostarsi ai problemi del diritto internazionale, occorrerebbe muovere da quattro
presupposti essenziali.
Primo, sarebbe necessario riguardare le norme e gli istituti giuridici internazionali non in sé e per sé, ma come parti di un tutto (ossia come
una delle manifestazioni dei rapporti internazionali, accanto ai rapporti
strettamente diplomatici, politici, militari, strategici, ecc.). Le relazioni
giuridiche possono essere districate dall’insieme solo attraverso una
attenta operazione di isolamento chirurgico ad opera del giurista. Ma
sarebbe erroneo estrapolarle completamente dal contesto generale in cui
esse vivono e di cui si nutrono.
Secondo, nell’esaminare e studiare quei rapporti giuridici occorre naturalmente far uso del metodo proprio della scienza giuridica. Oltre ad esso, bisogna però anche ricorrere all’indagine storica e a quella politologica,
che possono contribuire ad illuminare i fattori più propriamente giuridici.
Con il che non si intende fare un passo indietro rispetto ai migliori
risultati del positivismo, e rinunciare alla specificità del metodo giuridico.
Se il positivismo, dopo aver sceverato i vari metodi, ha commesso l’errore
di abbandonare del tutto l’indagine storica e politologica, occorre oggi far
uso di quelle altre discipline, senza tuttavia tradire o deformare la specificità del metodo di ciascuna di esse, ma utilizzandole in modo armonioso (anche se naturalmente, essendo l’indagine prevalentemente giuridica,
le scienze storiche e politologiche non potranno non avere un ruolo
«ancillare«, in queste circostanze). In particolare, oltre a serbare intatta la
specificità del metodo proprio delle scienze giuridiche, occorrerà anche rispettare pienamente uno dei postulati di quella scienza, e cioè la netta distinzione tra indagine de lege lata e proposte de lege ferenda.
Terzo, l’utilizzazione delle premesse appena accennate comporta,
nel campo del diritto internazionale, che occorre sempre considerare il
diritto internazionale nella sua dimensione storica. Occorre cioè esaminare
Diritto internazionale
141
le norme giuridiche non come una astratta e quasi metafisica cristallizzazione di interessi metastorici, ma come il punto di approdo di specifici interessi di specifici enti, in una determinata situazione storica.
Ciò, in particolare, per tener conto del fatto che dalla sua formazione
ad oggi il diritto internazionale ha subito profonde trasformazioni, che
hanno mutato i principali istituti giuridici ed avuto un’incidenza sul
contenuto e la portata di norme tradizionali. Inoltre, le norme internazionali vanno considerate nella loro dimensione sociale. In altri termini,
esse vanno viste tenendo conto del fatto che oggi il diritto risulta dal
concorrere di tre grandi raggruppamenti di stati, ciascuno con propri
interessi, ideologie e aspirazioni.
Quarto, in passato le premesse e le implicazioni ideologiche dell’indagine giuridica erano accuratamente tenute nascoste dalla dottrina,
spesso anche perché i giuristi erano inconsapevoli delle ideologie e, ritenendo di fare scienza affatto «neutrale» e avalutativa, avallavano implicitamente il sistema politico-istituzionale (interno ed internazionale) esistente. Attualmente occorrerebbe abbandonare questo atteggiamento
«ingenuo» ed uscire allo scoperto. Occorrerebbe cioè dichiarare apertamente i propri presupposti e le proprie inclinazioni ideologiche. Ciò, beninteso, non significa che si debba abbandonare la tradizionale e saggia
separazione tra indagine scientifica e sistemi di valori, ed omettere di evitare — sempre e con rigore — che la prima venga inquinata surrettiziamente dai secondi, venga cioè posta al servizio degli orientamenti ideologici e politici di chi dovrebbe invece condurre la ricerca scientifica con
mente quanto più possibile imparziale, e in ogni caso «a carte scoperte».
Il risultato di queste premesse dovrebbe portare a privilegiare, nella
analisi giuridica degli istituti internazionali, le ricerche miranti ad accertare se e fino a che punto le norme adempiono un ruolo di orientamento del comportamento degli stati, o se altri fattori (interessi militari, esigenze geopolitiche, necessità economiche) riescono — sotto questo
profilo — a mettere in ombra le norme giuridiche. Un altro tema da
privilegiare dovrebbe essere l’individuazione dei fattori che possono
garantire il rispetto delle norme internazionali anche al di fuori dei
meccanismi di garanzia strettamente giuridici (perché previsti e regolati
dal diritto). In particolare, una particolare accentuazione dovrebbe essere posta sul ruolo dell’opinione pubblica come fattore volto a imporre l’osservanza di certe norme internazionali disciplinanti temi nei quali
più forte è la pressione di interessi politici, economici e militari e correlativamente più debole è l’incidenza delle garanzie giuridiche in senso
stretto (si pensi, ad esempio, al diritto dei conflitti armati, al problema dell’uso della forza militare o alla grande tematica dei diritti umani). È tuttavia
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Antonio Cassese
evidente che se dalla sensibilizzazione a questa specifica problematica
si passasse a studi specifici sul ruolo dell’opinione pubblica in
relazione a specifiche norme giuridiche, si finirebbe per sconfinare
dall’indagine giuridica vera e propria in quella sociologica2.
4.5. Gli internazionalisti e il «mondo esterno»
A differenza che nel periodo precedente, in questi ultimi due decenni
gli internazionalisti non hanno avuto una grossa occasione quale quella
offerta dalla elaborazione della Costituzione, per apportare un contributo specifico ad un’impegnativa attività «pubblica». Ciò che caratterizza questa fase, è l’infittirsi di conferenze diplomatiche internazionali
dedicate a temi aventi una forte dimensione giuridica, nonché il molteplicarsi di incontri e riunioni internazionali (spesso nel quadro di organizzazioni internazionali), in cui è richiesta la presenza del giurista. E
dunque in questo campo che essi hanno assolto la loro funzione metascientifica più importante.
a) Gli internazionalisti e la politica estera italiana. La circostanza,
che ho appena lumeggiato, del proliferare di incontri internazionali,
ha comportato un’«utilizzazione» notevole di internazionalisti da parte
del Ministero degli Affari Esteri. Anche in questa epoca, come per
il passato, il loro ruolo è stato però sempre subordinato a quello dei
diplomatici, perché le direttive sono state loro impartite dal capo della
delegazione governativa italiana (di norma, un diplomatico) o comunque
dagli uffici del Ministero degli Affari Esteri. Esiste qualche eccezione:
ricorderò la conferenza diplomatica di Vienna per il diritto dei trattati
(1967-69), in cui la nostra delegazione era presieduta da Roberto
Ago (poi eletto presidente della conferenza) e la conferenza diplomatica di Roma per l’elaborazione di una convenzione internazionale contro il terrorismo «marittimo» (tenuta nel 1988 sotto gli
auspici dell’Organizzazione Marittima Internazionale): la nostra delegazione era diretta da Luigi Ferrari Bravo, poi eletto presidente della
conferenza.
2 Chi scrive ha cercato di orientarsi in conformità alle quattro «premesse» indicate nel
testo. Si vedano, in particolare, i citati saggi sulla Costituzione italiana e il diritto
internazionale, nel Commentario Branca alla Costituzione, nonché II diritto internazionale nel mondo
contemporaneo, Bologna, il Mulino, 1984 e «Modern Constitutions and International Law» in
Recueil des cours de l’Académie de Droit International de La Haye, 1985 - III, vol. 192.
Diritto internazionale
143
Un impegno maggiore ha cominciato ad essere esplicato dagli internazionalisti, sempre nel quadro delle attività del Ministero degli Affari Esteri, su impulso di L. Ferrari Bravo, nominato nel 1985 segretario generale
del Servizio del contenzioso diplomatico. Egli ha riorganizzato il Servizio (nei limiti del possibile), ha dato maggiore impulso all’attività del
Servizio stesso e ha fatto ricorso in misura maggiore a giuristi «accademici», per la partecipazione a conferenze o organi internazionali.
In misura minore, alcuni internazionalisti hanno lavorato come consulenti per il Ministero di Grazia e Giustizia (partecipazione a commissioni
incaricate di elaborare progetti di legge o di effettuare studi preparatori) o
per il Ministero della Marina Mercantile (per attività analoghe), nonché, di
recente, per il Ministero per le Politiche Comunitarie (dove un piccolo
gruppo di internazionalisti svolge funzione di consulenza per il ministro).
A parte questo impegno in relazione ad alcuni ministeri, gli internazionalisti continuano ad essere quasi del tutto assenti dal parlamento
(con un’eccezione: la presenza nella Camera dei deputati, per la VII legislatura, di Mario Giuliano, eletto nelle liste della Sinistra indipendente
nel 1979; presenza che si fece sentire soprattutto in seno alla Commissione Affari Esteri), dalla Corte Costituzionale e dai partiti. Unico organismo di nomina governativa dove alcuni internazionalisti (Malintoppi,
sostituito dopo la sua morte da G. Arangio-Ruiz; A. Cassese) hanno avuto un certo peso è la Commissione per i diritti umani istituita da B.
Craxi nel 1984 (e formalmente ancora in vita) presso Palazzo Chigi.
b) Gli internazionalisti e l’«opinione pubblica». I tratti che avevo messo
prima in rilievo, con riferimento al periodo precedente, si trovano confermati anche negli ultimi decenni. La cerchia degli internazionalisti si è
alquanto allargata, grazie all’aumento delle cattedre e dei posti di associato e di ricercatore. Secondo calcoli approssimativi, queste tre catetorie comprendono oggi circa 150-200 persone. Se si aggiunge un certo
numero di giovani «aspiranti accademici», si arriva a non più di 300
persone. Sono essi che costituiscono i principali «fruitori» della dottrina, «fruitori» in larga misura coincidenti anche con i «produttori» (tranne quegli accademici che ormai da anni si dedicano esclusivamente all’attività forense, e quindi né producono né, verosimilmente, leggono
opere dei loro colleghi). Come si vede, la circolazione delle idee appare
assai limitata, soprattutto se si aggiunge che, come per l’innanzi, all’estero si continua a non leggere i contributi scientifici italiani, pubblicati
in italiano (un’eccezione è costituita dall’Italian Yearbook of International
144
Antonio Cassese
Law), ed inoltre non è stata ancora creata un’associazione degli internazionalisti italiani.
Ciò detto, devo aggiungere alcune precisazioni e riserve. In primo luogo, come avevo accennato prima, almeno il pubblico di un periodico
(la Rivista di diritto internazionale privato e processuale) comprende probabilmente anche un certo numero di operatori giuridici (soprattutto avocati
e magistrati), oltre agli accademici. Aggiungo che i tentativi di aggiornamento e di «attualizzazione» che si stanno verificando in seno alla Rivista di diritto internazionale, e che ho messo in rilievo avanti, hanno forse già suscitato un certo interesse per tale rivista — o auspicabilmente
lo faranno nei prossimi anni — presso un certo numero di diplomatici,
più sensibili alla dimensione giuridica dei problemi internazionali attuali.
Insomma, mentre nel periodo precedente la circostanza che i lettori delle riviste internazionalistiche italiane si limitassero agli accademici era
da imputare essenzialmente alle riviste stesse (per le loro tematiche ed il
loro linguaggio), si assiste ora ad una maggiore apertura, da parte di
quelle riviste, nei confronti di un pubblico più vasto, aperture che finiranno forse per dare qualche frutto.
In secondo luogo, gli internazionalisti cominciano a scendere nell’agone giornalistico, anche se non in modo sistematico: G. Sperduti collabora
saltuariamente al «Corriere della Sera» e a «Il Tempo», G. Badiali a «La
Stampa», U. Leanza è spesso intervistato dal «Corriere della Sera», A. Cassese scrive saltuariamente su «Il Messaggero», N. Ronzitti interviene abbastanza regolarmente sulle colonne de «La Nazione». Questo fenomeno non
va sottovalutato. Significa, da una parte, che gli internazionalisti sentono il
bisogno di abbandonare ogni tanto le biblioteche, le aule accademiche e
gli studi severi, per indirizzarsi — in modo semplice e accessibile — al
grosso pubblico. Significa, d’altro canto, che l’opinione pubblica comincia
ad essere sensibile alla valenza giuridica dei grossi problemi internazionali del momento.
In terzo luogo, alcuni internazionalisti cominciano ad avvertire l’esigenza di rivolgersi ad un pubblico più vasto di quello composto dagli studiosi o dagli operatori del diritto: un pubblico costituito dal lettore medioalto, colto, intellettualmente o emotivamente partecipe delle vicende della
realtà internazionale, e desideroso di approfondire le problematiche giuridico-politiche. Va ricordato, al riguardo, sia la collaborazione di alcuni internazionalisti (Condorelli, Gaia, Treves, A. Cassese) a riviste quali Politica del diritto, sia la pubblicazione, da parte di A. Cassese, di alcuni volumi concepiti specificamente per il pubblico cui ho appena fatto riferimento (Cassese, 1987; 1988).
Diritto internazionale
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In questo modo, una tradizione già così ricca e significativa in altri
campi del diritto (basti pensare agli interventi giornalistici o lato sensu
«pubblicistici» di P. Barile, S. Rodotà, G. Amato, S. Cassese, A. Manzella, G. Neppi Modona) comincia ad estendersi anche al settore delle
relazioni internazionali.
5. Osservazioni conclusive
5.1. La scienza internazionalistica italiana può essere accusata di essere astratta e
formalistica?
Il lettore che mi avesse fedelmente seguito finora avrà certamente trovato nelle pagine che precedono la risposta al quesito formulato all’inizio
di questo saggio: è vero quel che si dice all’estero della scuola internazionalistica italiana? (che cioè essa mostra una imperdonabile inclinazione per i
problemi teorici, è formalistica, e tiene poco conto della prassi e della giurisprudenza internazionali). Ad ogni buon fine, ricapitolerò brevemente i
principali problemi esaminati e le conclusioni che mi è sembrato di raggiungere.
Agli inizi del ‘900, il dominio sempre più diffuso del positivismo, se ha finito per mettere alle corde le residue resistenze giusnaturalistiche, non si
è depurato di ricchi umori storici e sociologici. Voglio dire che i giuristi (e
basti ricordare D. Anzilotti, A. Cavaglieri e G. Ghirardini), pur dedicandosi
all’esame della realtà internazionale con metodo rigorosamente giuridico,
hanno continuato a tener d’occhio la dimensione storico-politica dei problemi. Ed alcuni di essi (mi riferisco a Ghirardini) già tra gli anni Dieci e Venti
si facevano beffe dell’«amore dell’estetica dommatica», che cominciava a
profilarsi nelle nuove correnti normativistiche.
In effetti, intorno alla prima guerra mondiale e subito dopo comincia a
prodursi tra gli internazionalisti (e soprattutto in Perassi) una progressiva
rarefazione nella scelta dei temi, nell’impostazione e nella trattazione dei
problemi. Il positivismo gradualmente si tramuta in formalismo: la realtà
diviene sempre più remota e quel che finisce per contare è la costruzione
di concetti rigorosi e coerenti. Vengono in mente le sagge parole di Jhering
contro «der Kultus des Logischen, der die jurisprudenz zu einer Mathematik hinaufschraubt »3.
Quando si instaura il fascismo, le autorità non sentono il bisogno
di neutralizzare o piegare a sé i giuristi: questi già da soli avevano prov3
Scherz und Ernst in der Jurisprudenz, Leipzig, 1884, pp. 9-10.
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Antonio Cassese
veduto ad espungere dai loro studi qualsiasi empito di critica sociale,
ripudiando ogni indagine de lege ferendo, e rigorosamente esigendo che il
giurista si limitasse all’esame del diritto esistente, qualunque fosse il
suo contenuto. Ciò, tra l’altro, ha reso possibile l’«utilizzazione» da parte
del Ministero degli Affari Esteri fascista di un internazionalista fine ed
acuto come il Perassi (un giurista rimasto sempre fedele ai suoi ideali
democratici repubblicani, ma che essendo nel contempo un positivista
coerente e concependo il suo compito di giurista come quello di mero
«tecnico», ha potuto poi porsi al servizio di autorità illiberali, finendo
per essere definito da G. Ciano, allora ministro degli Affari Esteri, come
«professionista del cavillo»).
Il clima generale del fascismo non poteva non provocare dei contraccolpi negli internazionalisti (e più in generale nei giuristi italiani). Per
cercare di rimanere quanto più possibile estranei a compromissioni con
il regime, essi sempre più trasformano l’analisi giuridica in un gioco puramente dialettico e formalistico. La scienza giuridica subisce così gradualmente un’involuzione, tendendo sempre più verso il normativismo
e puro logicismo. Leggendo gli scritti di quest’epoca si ha l’impressione
di rivedere i tre famosi quadri di Mondrian raffiguranti un albero che
diventa, nel passaggio dall’uno all’altro, sempre più astratto, stilizzato
ed evanescente, quasi una figura geometrica depurata di ogni richiamo
alla realtà effettuale.
Il secondo dopoguerra, con il crollo del fascismo e l’instaurarsi di un
sistema democratico, ebbe gradualmente effetti benefici anche per gli
internazionalisti. Ciò avvenne assai lentamente, ché esiste presso i giuristi un fenomeno di vischiosità storica che impedisce loro di dismettere
con rapidità i vecchi abiti mentali e di aggiornare le idee ricevute; inoltre,
l’incidenza ed il rilievo del formalismo giuridico cristallizzatosi durante
l’epoca fascista sono stati tali da richiedere molti anni, prima di scemare
gradualmente. In ogni caso, gli internazionalisti hanno cominciato a tornare ai problemi reali della comunità internazionale, hanno abbandonato il vecchio concettualisrno, si sono impadroniti di nuove tecniche
di indagine, più moderne e più al passo con i tempi: basta confrontare
con la dottrina il breve «sommario» dei principali «fatti» internazionali
del secondo dopoguerra, che ho tracciato sopra, per rendersi conto dei
progressi compiuti nel senso di una «presa d’atto» della realtà. La maturazione di questo nuovo modo di guardare ai fenomeni della comunità
internazionale si è avuta verso la fine degli anni Sessanta. Da allora, si
può ben dire che la scienza giuridica italiana, oltre a mostrare i consueti
caratteri di rigore logico e di correttezza del metodo — quei caratteri
per i quali già prima poteva essere considerata non inferiore alla dot-
Diritto internazionale
147
trina internazionalistica di altri paesi — ha anche imboccato una strada
che la porta verso l’esame corretto e realistico di temi e problemi attuali, in uno sforzo sempre maggiore di rivolgersi non solo agli altri studiosi ma anche ad un più largo pubblico. Ancora una volta, un raffronto dei
contributi recati dalla dottrina negli ultimi venti anni con l’indicazione
dei principali nodi politici, economici e militari della comunità internazionale in quell’epoca (indicazione che ho dato a suo tempo, nelle pagine
precedenti) consente di apprezzare appieno quanti passi avanti sono stati compiuti.
Detto ciò, mi affretto ad aggiungere che naturalmente sono consapevole dei giudizi di valore contenuti nelle osservazioni che ho appena svolto, così come di quelli presenti lungo tutto l’arco di questo saggio. È
evidente che ogni giurista, come ogni uomo, ha solo il compito di realizzare
le inclinazioni della sua mente: come scrisse Max Weber a conclusione del
famoso saggio sulla scienza come professione, «ogni uomo deve ascoltare
e seguire il demone che regge i fili della sua vita». Allo stesso modo, ogni
giurista è legittimato a svolgere il suo compito secondo le inclinazioni e
preferenze che sente più giuste. Da questo punto di vista, non sarebbe
corretto rimproverare ai giuristi dell’epoca del pieno rigoglio positivistico
di essere stati formalisti, di aver troppo premiato i problemi puramente
teorici, di aver indulto a discettazioni prive di dimensioni o conseguenze
operative. In sé e per sé, ogni indagine scientifica è giusta e legittima.
Ciò non toglie però che — giudicando dall’esterno e tenendo d’occhio
gli interessi e le esigenze della comunità — non si possa non formulare
un giudizio diverso, anche esso legittimo se motivato da quelle diverse esigenze. E appunto partendo da questo angolo visuale che si può concludere che, tutto sommato, il passaggio dagli anni Venti - Cinquanta alle
tendenze più recenti della dottrina internazionalistica italiana segna
un’evoluzione positiva ed un progresso. E ciò non solo per l’ovvio
aggiornamento delle tematiche, ma soprattutto in considerazione delle
nuove impostazioni, delle nuove ottiche nonché degli umori eticopolitici e degli interessi storici che ora nutrono la scienza giuridica —
senza che peraltro il metodo giuridico ne risulti manipolato o il rigore
dell’analisi infirmato.
5.2. Cosa è vivo e cosa è morto nella dottrina italiana
In conclusione, chiediamoci «cosa è rimasto», di tutta la ricchissima
dottrina internazionalistica italiana. Quanti, degli innumerevoli libri ed
articoli che affollano gli scaffali di una buona biblioteca giuridica, hanno
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Antonio Cassese
ancora qualche vitalità? Chi abbia almeno spigolato nei Parerga und Paralipomena di Schopenhauer ricorderà una bella pagina sulla vitalità dei libri: così come Serse, nel contemplare il suo enorme esercito, piangeva al
pensiero che cento anni dopo nessuno di quei magnifici cavalieri sarebbe ancora vivo, nello stesso modo noi — osservava Schopenhauer —
non possiamo non piangere alla vista dei doviziosi cataloghi delle nostre
biblioteche, se pensiamo che di tutti quei libri non uno sarà vivo tra dieci anni. Quanti degli scritti internazionalistici sopravvivono alla soglia
dei dieci anni? Pochi, direi, e non tanto per demerito degli internazionalisti. Certo, per costoro non valgono le osservazioni di Kirchmann circa
l’oggetto della scienza giuridica (tutti ricordano il suo famoso detto sulle
tre parole del legislatore, sufficienti per mandare al macero intere biblioteche giuridiche), perché il diritto della comunità internazionale muta
molto lentamente. Tuttavia, anche nella comunità internazionale l’evoluzione degli istituti e delle norme finisce per logorare le indagini giuridiche su di esse, quando tali indagini non abbiano una valenza metodologica che trascenda la disamina specifica. Quei pochi scritti che sopravvivono (e penso soprattutto a talune opere di Anzilotti, di Perassi, di Morelli, di Quadri, di Ago, per non citare che i sommi) conservano però e
conserveranno una gagliarda vitalità ancora per molti anni.
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Poiché la suddivisione dell’Appendice bibliografica in numerosi paragrafi
renderebbe difficile il reperimento dei titoli, sono segnalati qui di seguito tutti
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Capitolo quarto
Economia internazionale
Roberto Panizza
1. Origine e contenuti dei primi studi di economia internazionale in Italia
Gli studi di economia internazionale godono in Italia di una tradizione antichissima, che si può far risalire all’età rinascimentale. In concomitanza alla nascita in Europa degli stati assoluti, e in Italia del sistema delle signorie e dei principati, sono state formulate le prime elaborazioni non soltanto della teoria del valore e della moneta, ma anche
delle relazioni economiche internazionali. Sembra addirittura che siano
stati proprio gli studiosi italiani a coniare per primi termini come quello
di «bilancia commerciale» (Schumpeter, 1959, p. 422). Inoltre, i più
valenti studiosi di storia del pensiero economico concordano nell’attribuire all’economista napoletano Antonio Serra il merito di aver elaborato per primo una stesura corretta della bilancia dei pagamenti, il documento contabile che registra tutte le transazioni sia commerciali che
finanziarie di un paese con il resto del mondo. Allo stesso modo sono
stati pensatori italiani come il napoletano De Santis a formulare le prime
utili valutazioni circa la determinazione e il controllo dei cambi tra monete di paesi diversi o circa l’introduzione di meccanismi di protezione
del commercio estero secondo i principi più ortodossi del pensiero mercantilista. Tuttavia, la preminenza del pensiero italiano negli studi attinenti al commercio internazionale non si esaurì nell’ambito di tale scuola:
nel secolo diciottesimo si sviluppò anche un filone di pensiero abbastanza critico nei confronti delle tesi più tradizionali del mercatilismo,
che contribuì a preparare il terreno alla grande rivoluzione in senso
liberista sviluppatasi a partire dall’opera di Adam Smith, La ricchezza
delle nazioni. Appartengono a questa nutrita schiera di critici delle tesi
contrarie a ogni forma di liberalizzazione degli scambi internazionali
studiosi come Beccaria, Verri, Ortes, Genovesi e Palmieri, che difesero
l’idea del libero scambio internazionale e videro il protezionismo e le
politiche tariffarie non più come strumenti privilegiati e insostituibili
di accumulazione di ricchezza, ma semplicemente come uno dei tanti
160
Roberto Panizza
mezzi disponibili nelle mani delle autorità, al fine di regolare i diversi
settori dell’economia.
Gli studi sulle teorie dei vantaggi del libero scambio internazionale
tra i vari stati, sviluppati da Torrens sulle teorie di Smith e Ricardo,
non ebbero invece in Italia interpreti originali. Bisogna attendere oltre
un secolo, fino al 1894, per ritrovare un contributo teorico di rilievo,
offerto da Vilfredo Pareto, il quale inserì il sistema degli scambi internazionali in un modello di equilibrio economico generale. Contemporaneamente due noti economisti del tempo, Cognetti de Martiis e RiccaSalerno, condussero a termine una meritevole iniziativa culturale, curando la pubblicazione e la traduzione, nella quarta serie della «Biblioteca dell’Economista», delle principali opere straniere relative al commercio internazionale e alle politiche protezionistiche. Due decenni più
tardi, all’inizio del secolo, gli studi di Enrico Barone riproposero le teorie
dello scambio internazionale in termini di modelli di equilibrio parziale
di tipo rnarshalliano. Gli aspetti monetari dell’economia internazionale
vennero, invece, sviluppati in modo originale negli anni Trenta da Costantino Bresciani-Turroni, con i suoi studi sui cambi che integrarono
criticamente le tradizionali conclusioni della celebre teoria di Cassel sulla
parità dei poteri di acquisto; la sua ricerca prese le mosse dall’esame delle
vicende del marco tedesco negli anni della iperinflazione e ancora oggi
costituisce, a livello mondiale, uno degli studi più apprezzati sull’argomento. In quegli stessi anni si assistette sul piano editoriale ad un ricupero delle proposte mercantiliste in tema di commercio internazionale,
che sembravano più congeniali rispetto a quelle libero-scambiste ai programmi di politica economica del regime fascista: si pensi, ad esempio,
al terzo volume della prestigiosa «Nuova collana di economisti» intitolato impropriamente Storia economica, dato che il contenuto è legato prevalentemente ai temi di economia internazionale.
Emarginati negli anni del fascismo, gli economisti di formazione liberale si rifecero vivi all’approssimarsi del secondo conflitto mondiale,
pubblicando nel 1940 i risultati di una voluminosa ricerca su La situazione
economica mondiale, e nel corso della guerra, indicando in una monografia del
1942, a cui contribuirono tra gli altri Giovanni Dernaria e Luigi
Einaudi, quelle che a loro avviso avrebbero dovuto essere le linee ispiratrici
del nuovo ordine economico internazionale postbellico, sulla base dei
principi libero-scambisti e antiprotezionisti.
Terminata la guerra, il nuovo ordine economico internazionale, pur
condizionato dall’egemonia degli Stati Uniti, si sviluppò proprio nel pieno
rispetto dei canoni dell’ideologia liberista, com’era stato auspicato da
numerosi economisti italiani, pur di diversa formazione ideologica, ma
Economia internazionale
161
uniti dal comune spirito antifascista. Gli studi di economia internazionale si orientarono verso l’analisi dei modelli di libero scambio (nel tentativo di quantificarne i vantaggi), verso l’esame teorico di un sistema
di cambi fissi (quel era quello imposto dagli accordi di Bretton Woods)
e, infine, verso il problema della inadeguatezza della liquidità internazionale, derivante principalmente dalla scarsità di dollari in circolazione.
Intorno a questi temi, che dominarono sino alla vigilia della dichiarazione di inconvertibilità del dollaro nel 1971 e al conseguente sconvolgimento del vecchio ordine economico, si cimentarono economisti come
Sirotti e Travaglini, a cui si affiancarono le prime ricerche di tre giovani studiosi che avrebbero poi dominato lo sviluppo futuro degli studi
di economia internazionale in Italia, e cioè Basevi, Gandolfo e Onida.
Prima, però, di passare a considerare le elaborazioni di pensiero più recenti, vale la pena di tracciare un quadro delle forze in campo, e cioè
delle istituzioni, dei centri di ricerca e delle risorse, pubbliche e private,
che hanno contribuito a condurre ricerche in economia internazionale
nel nostro paese.
2. Le risorse pubbliche: cattedre e centri di ricerca sull’economia internazionale
L’insegnamento dell’economia internazionale non ha goduto in passato
e fino all’inizio degli anni Settanta di una propria individualità: questa
disciplina, infatti, pur essendo contemplata negli statuti di quasi tutte
le facoltà di giurisprudenza e di economia e commercio, venne attivata
solo raramente (si possono ricordare i casi di Torino, Genova, Padova,
Roma) e affidata esclusivamente per incarico. Quasi sempre le tematiche
dell’economia internazionale (teorie del commercio, bilancia dei pagamenti, meccanismi di riequilibrio, moltiplicatore di mercato aperto, cambi)
venivano affrontate nei corsi istituzionali di economia politica e di politica economica. Tutti i manuali di economia politica utilizzati nel primo
anno di corso delle facoltà di giurisprudenza e di economia e commercio
affrontavano, nei capitoli finali, questi temi.
La prima cattedra di economia internazionale venne bandita a Genova, data l’importanza di questo tipo di studi per una città che aveva
legato la propria crescita economica allo sviluppo del porto e dei commerci marittimi. A Genova si era formato, nel 1945, anche il primo istituto privato di economia internazionale, collegato alla Camera di commercio. Nel 1946 presso tale istituto si costituì il nucleo redazionale della
rivista Economia internazionale; che si affermò, accanto a Il giornale degli
162
Roberto Panizza
economisti e a poche altre riviste specializzate, come una delle più prestigiose, accogliendo saggi che ancora oggi rappresentano un punto di
riferimento indiscusso per l’approfondimento degli studi di economia.
Qualche anno più tardi, nel 1953, presso l’Università Bocconi, vide la
luce un altro periodico, la Rivista internazionale di scienze economiche e
commerciali che si andò ad affiancare ad un’altra pubblicazione mila- nese,
la Rivista internazionale di scienze sociali che l’Università Cattolica pubblicava sin
dalla fine del secolo scorso. A dispetto del nome, le due pubblicazioni non
affrontarono specificamente temi di economia inter- nazionale, ma
ospitarono soltanto occasionalmente contributi di autori stranieri: questo
giustificava la presenza nella testata della specificazione «internazionale».
Soltanto a metà degli anni Settanta furono bandite 3 cattedre di economia internazionale ed altrettante alla fine del decennio. Accanto a Genova, il cui destino di polo di riferimento degli studi di economia internazionale andava lentamente declinando al pari dell’importanza del suo
porto, sorsero i nuovi centri di riferimento per questi studi presso l’Università di Bologna, e successivamente presso le Università di Ancona,
Modena, Siena e Torino.
Agli inizi degli anni Ottanta le cattedre di economia internazionale
erano soltanto 8, alle quali si doveva aggiungere quella di organizzazione economica internazionale presso l’Università di Pavia. A metà
dello stesso decennio, esse erano poco più che raddoppiate, con 18 cattedre di economia internazionale (di cui 11 di prima fascia) e 12 cattedre più specialistiche (di cui 3 di prima fascia), che accanto ai 4 insegnamenti di organizzazione economica internazionale contemplavano
anche teoria e politica monetaria internazionale (2 insegnamenti), politica economica e finanziaria internazionale (1 insegnamento), economia
dei paesi in via di sviluppo (2 insegnamenti), analisi delle economie
arretrate ( 1 insegnamento) ed economia delle Comunità europee (2 insegnamenti).
Alle sedi universitarie tradizionali a partire dalla seconda metà degli
anni Ottanta si sono affiancate università private come la Bocconi di
Milano, la sede di Bologna della John Hopkins University, l’Istituto
universitario di Bergamo e la LUISS di Roma, oltre alle università statali di Padova, Verona, Venezia, Pisa, Napoli, Catania e della Calabria.
Dall’ultimo rilevamento condotto dalla Società italiana degli economisti alla fine del 1987 risulta il seguente prospetto.
Economia internazionale
163
Tabella 1. Distribuzione delle cattedre di economia internazionale e discipline affini (fine 1987).
Disciplina
Economia internazionale
Economia dei paesi in via di sviluppo
Analisi delle economie arretrate
Economia delle Comunità Europee
Organizzazione economica internazionale
Politica economica e finanziaria
internazionale
Teoria e politica monetaria internazionale
Relazioni e sistemi economici
internazionali
Totale
Ordinari Straordinari Associati Altri
Totale
10
1
1
1
3
-
6
3
3
1
-
20
3
1
1
4
-
-
1
1
-
1
1
1
-
-
-
1
14
3
14
1
32
Esiste infine una disciplina, storia del commercio e della navigazione,
che affronta in parte problemi collegati all’economia internazionale.
Ad ognuna delle cattedre di insegnamento fa capo mediamente un
ricercatore (anche se dopo la riforma universitaria essi non sono più
assegnati ad cathedram, ma a raggruppamenti molto vasti e generici).
Presso alcuni centri come quello della Bocconi, di Bologna (Economia
e commercio), di Ancona e di Roma collaborano anche studiosi non
inquadrati nel ruolo universitario.
Non esistono invece dottorati in economia internazionale o in discipline affini. Qualche ricerca di dottorato attinente a queste discipline
è svolta nell’ambito del dottorato in economia aziendale, tenuto presso
l’Università di Bergamo, dove vengono studiati i mercati dei capitali
a livello internazionale, e nell’ambito del dottorato in Economia politica
presso l’Università di Roma «La Sapienza», dove si affrontano gli aspetti
interni ed internazionali della moneta e del finanziamento dell’economia.
Per quanto riguarda i maggiori centri di ricerca in ambito universitario, che conducono studi sull’economia internazionale, ricordiamo i seguenti, muovendoci idealmente dal nord al sud della penisola.
1) CESCOM (Centro studi sul commercio) presso l’Università Bocconi di Milano. Questo istituto, diretto da A. Spranzi, è stato costituito nel 1977; da allora svolge attività di ricerca economica nel settore
del commercio sia interno che internazionale e sui rapporti tra questo
e i settori agricoli e industriali. Ogni due anni, in collaborazione con
l’Istituto di marketing della New York University, organizza una conferenza internazionale sulle problematiche dell’intermediazione commerciale, che ha consentito di stabilire collegamenti continuativi con isti-
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Roberto Panizza
tuti di ricerca europei e nordamericani specializzati nello stesso ambito
di studi. Il gruppo di studi sui problemi del commercio estero, coordinato da C. Secchi e che si avvale di una decina di collaboratori, conduce
ricerche che consentono di approfondire la conoscenza della collocazione
dell’Italia nel commercio internazionale, attraverso lo studio delle modalità di comportamento degli operatori.
Gli studi sinora condotti hanno approfondito le seguenti problematiche:
— il ruolo delle trading companies;
— il ruolo delle strutture e delle politiche pubbliche di sostegno alle
esportazioni;
— gli ostacoli di carattere economico e normativo che gli operatori devono affrontare;
— le interazioni tra commercio e strutture dei trasporti internazionali.
2) CESPRI (Centro studi sui processi di internazionalizzazione),
presso l’Università Bocconi di Milano. Il centro, creato nel 1984 con
il nome di OSPRI (Osservatorio sui processi di internazionalizzazione)
è diretto da un comitato di direzione costituito da F. Onida, E. Rullani, C. Secchi e S. Vaccà; con la collaborazione di un comitato tecnico
di consulenza, formato da esperti ed operatori economici direttamente
impegnati in esperienze di internazionalizzazione, il centro si propone
di studiare i processi di modernizzazione e di unificazione dell’economia
mondiale, conseguenti al sorgere e all’operare delle imprese multinazionali. L’attività di ricerca, che si affianca a quella di documentazione e
di promozione culturale (pubblicazione di un bollettino, organizzazione
di convegni), si esplica, relativamente ai temi di economia internazionale, nei seguenti settori:
— processi di internazionalizzazione delle imprese;
— processi di internazionalizzazione del sistema ambientale;
— politica commerciale italiana e servizi alle imprese per la loro internazionalizzazione;
— cooperazione tecnologica e commerciale delle piccole e medie imprese
italiane con imprese europee e dei paesi in via di sviluppo.
3) CRANEC (Centro di ricerche in analisi economica), presso l’Università Cattolica di Milano. Questo centro, guidato da un comitato direttivo costituito da noti economisti dell’Università Cattolica, è stato
istituito nel 1977: esso si pone come obiettivo quello di contribuire al
collegamento tra università e società, nel tentativo di offrire strumenti
di soluzione ai gravi problemi dello sviluppo economico, della cooperazione internazionale, del disarmo, delle relazioni tra paesi industrializ-
Economia internazionale
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zati e paesi in via di sviluppo. In particolare la ricerca si articola nei
seguenti tre settori:
— crescita e sviluppo di lungo periodo dei sistemi economici, compatibilmente alla disponibilità delle risorse e delle materie prime;
— problemi della produzione e delle interdipendenze industriali sia interne che internazionali;
— cambiamenti delle tecniche, progresso tecnico, distribuzione del reddito, sia all’interno che su scala internazionale.
4) Centro di ricerche sulla internazionalizzazione dell’impresa, presso
l’Università Cattolica di Milano. Conduce studi attinenti all’economia
italiana e internazionale, con particolare riguardo ai sistemi industriali
e alle strategie aziendali, al fine di contribuire al dibattito in tema di
politica industriale sia in ambito nazionale che comunitario.
5) Centro studi sulle Comunità europee dell’Università di Pavia.
Questo centro, fondato nel 1966 sotto l’egida della CEE e attualmente
diretto da D. Velo, ha come obiettivo lo studio dei processi di integrazione economica europea, con particolare attenzione alla internazionalizzazione dei mercati finanziari. Ad esso af feriscono, tra gli altri, tre
insegnamenti strettamente europeistici, che costituiscono una peculiarità nel panorama accademico italiano: organizzazione politica europea,
organizzazione economica europea e diritto delle Comunità europee.
6) Dipartimento di studi internazionali dell’Università di Padova.
Nato originariamente, nel 1973, come istituto di studi internazionali,
dal 1985 è diventato dipartimento ed è diretto da A. Papista. Ad esso
collaborano come addetti alla ricerca, specificamente ai temi di economia
internazionale, coordinati da M. Mistri, otto docenti, a cui si aggiungono tre addetti al settore amministrativo. Le ricerche attualmente in
corso vertono sui seguenti temi:
— la cooperazione per lo sviluppo;
— la politica economica internazionale e le Nazioni Unite;
— equilibri temporanei in mercato aperto.
7) Centro di documentazione statistica internazionale dell’Università
di Bologna. Costituito nel 1970, questo centro ha come compito la
raccolta e la catalogazione delle pubblicazioni di fonti statistiche ufficiali
di tutti i paesi del mondo e degli organismi internazionali, con i quali ha
instaurato consolidati e permanenti rapporti diretti.
8) Centro internazionale di documentazione e studi sociologici sui
problemi del lavoro dell’Università di Bologna. Costituito nel 1970,
questo centro raccoglie una documentazione internazionale sistematica
sui problemi relativi alle tecnologie avanzate, ai processi di automazione
e all’organizzazione del lavoro.
166
Roberto Panizza
9) School of Advanced International Studies della John Hopkins
University di Bologna. Istituito nel 1955, allo scopo di approfondire gli
studi delle relazioni internazionali contemporanee, con particolare
riferimento all’Europa, è attualmente diretto dall’economista J. Kregel.
Dispone di una biblioteca specializzata, con una raccolta completa delle
pubblicazioni della CEE.
10) Centro studi sulle Comunità europee dell’Università di Napoli.
Costituito nel 1973, il centro si propone di studiare i problemi che si
pongono nel settore giuridico, economico e sociale al nostro paese (e in
particolare al Mezzogiorno) in seguito all’inserimento dell’Italia nel più
vasto contesto comunitario.
Accanto a questi centri specialistici di studi economici internazionali
esistono, all’interno delle diverse università, dei dipartimenti e de istituti
che, pur conducendo ricerche in una molteplicità di settori, dispongono
anche di una sezione specializzata negli studi in economia internazionale.
La nostra analisi si limita a quei dipartimenti che raccolgono più cattedre
nell’ambito della più vasta accezione di economia internazionale e che
svolgono, quindi, ricerche su temi attinenti a settori diversi.
1) Dipartimento di economia dell’Università di Torino. A tale dipartimento, costituito nel 1987 e diretto da V. Valli, sulla base del nucleo originario del Laboratorio di economia politica Cognetti de Martiis, afferiscono 4 insegnamenti di economia internazionale in senso ampio, le
cui ricerche si sviluppano sui seguenti temi:
— economia internazionale comparata ed economia dei paesi socialisti;
— trasferimenti internazionali di tecnologie e investimenti esteri diretti;
— problemi finanziari dei paesi sottosviluppati;
— problemi del nuovo ordine monetario internazionale.
2) Dipartimento di scienze economiche dell’Università di Bologna.
Presso questo dipartimento sotto la guida di G. Basevi, che coordina
una serie di docenti e di ricercatori dell’Università e dei centri di ricerca
Prometeia e Nomisma, sono condotti studi sui seguenti temi di economia
internazionale:
— variabilità del tasso di cambio e politiche di prezzo;
— problemi connessi al vincolo estero;
— conflitti e cooperazione all’interno del Sistema monetario europeo.
3) Centro di economia e politica industriale dell’Università di Bologna. Costituito nel 1969 e diretto originariamente da R. Prodi, questo centro si è interessato ai problemi di internazionalizzazione delle imprese e
di multinazionalizzazione.
Economia internazionale
167
4) Dipartimento di economia dell’Università di Ancona. All’interno
di questo dipartimento gli studi di economia internazionale sono prevalentemente indirizzati all’esame della struttura del commercio estero dell’Italia,
attraverso un esame disaggregato sia dell’import che dell’export.
5) Dipartimento di scienze economiche dell’Università di Roma. A
questo dipartimento afferisce il nucleo probabilmente più numeroso di
economisti internazionalisti, sotto il coordinamento di G. Gandolfo. Gli
studi condotti da questi studiosi sono di natura prevalentemente
teorica e spaziano nei campi più disparati:
— equilibrio e stabilità di un’economia aperta;
— teoria pura del commercio internazionale;
— sistema dei cambi, fissi e flessibili, e sua ottimizzazione.
6) Dipartimento di economia pubblica dell’Università di Roma.
Questo dipartimento si è specializzato, per opera soprattutto di N. Acocella, nello studio dei problemi relativi alla gestione e alla natura delle
imprese multinazionali, sia italiane che estere e ai riflessi macroeconomici che derivano dal loro operato.
7) Dipartimenti economici ed istituti di diverse facoltà dell’Università di Napoli. All’interno di questi si è sviluppato un filone di ricerca
in economia internazionale finalizzato allo studio dei problemi relativi
ai paesi in via di sviluppo, in termini sia della soddisfazione dei bisogni
primari che della soluzione dei vincoli finanziari e tecnologici.
A completamento di questa rassegna dei principali centri pubblici
di ricerca sull’economia internazionale ricordiamo l’attività svolta dal
CNR. Questo centro, nell’ambito del progetto finalizzato «Struttura ed
evoluzione dell’economia italiana», ha attivato il V sottoprogetto sul tema:
«L’Italia nell’economia internazionale», dove i problemi di natura empirica, sui quali si concentra maggiormente l’interesse degli studiosi, sono
i seguenti:
— la struttura del commercio estero dell’Italia (F. Onida);
— il commercio internazionale dei servizi (C. Secchi);
— nuove forme di trasferimenti internazionali di tecnologie (G. Balcet
e G. Viesti);
— la scelta delle valute nel commercio estero dell’Italia (R. Hamaui, M.
Monti);
— relazioni tra tassi di cambio e prezzi nei paesi europei (F. Giavazzi,
E. Giovannini e F. Onida);
— effetti delle fluttuazioni del dollaro sulla struttura dell’interscambio
Italia-Stati Uniti e Italia-Germania (A. Aquino);
— dinamica della struttura produttiva e vincolo estero dell’Italia (S.
Biasco);
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Roberto Panizza
crescita internazionale e rapporti tra imprese: analisi sulle multinazionali italiane (N. Acocella, L. Rampa, G. Viesti e E. Rullavi);
— coordinamento internazionale delle politiche monetarie (G.
Basevi);
— conflitti e cooperazioni all’interno dello SME (G. Basevi, F.
Giavazzi e E. Giovannini);
— cooperazione e paesi in via di sviluppo (G. Querini).
Esistono, infine, dei centri pubblici, ma non universitari, specializzati in studi economici internazionali, di cui ricordiamo i più importanti:
1) Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo, istituito presso il
Ministero degli Affari Esteri. I temi di ricerca sviluppati attengono prevalentemente ai criteri che devono presiedere alla cooperazione industriale
e tecnica con i paesi in via di sviluppo. Presso il Dipartimento opera anche un Istituto agronomico per l’oltremare che persegue l’obiettivo della
valorizzazione agricola nei paesi del Terzo Mondo. Il Dipartimento pubblica il periodico Cooperazione.
2) ICE. L’Istituto nazionale per il commercio estero è stato fondato nel
1936 ed è stato posto, dal 1946, alle dipendenze del Ministero per il
Commercio Estero, con lo scopo precipuo di promuovere e sviluppare gli
scambi commerciali tra l’Italia e gli altri paesi, con particolare riguardo all’esportazione dei prodotti italiani. Come compito istituzionale, esso offre
servizi di consulenza e assistenza sui mercati esteri, di promozione per i
prodotti italiani all’estero, di supporto alla partecipazione presso fiere e
esposizioni internazionali, oltre ad iniziative intese a favorire il commercio
di esportazione e di importazione. Sul piano della ricerca, l’Istituto conduce anche studi in materia valutaria, doganale, di accordi commerciali, oltre
ad analisi dei mercati esteri, relativamente ai diversi settori produttivi. Sul
piano editoriale cura diverse pubblicazioni tra le quali un quotidiano,
Commercio estero, e un mensile, Esportare.
3) ISTAT. L’Istituto centrale di statistica, costituito nel 1926 ed attualmente sotto le dirette dipendenze della Presidenza del consiglio, cura la
compilazione e la pubblicazione delle statistiche generali e speciali che interessano la pubblica amministrazione e l’attività del paese. Relativamente
ai temi dell’economia internazionale, l’Istituto pubblica una Statistica mensile del commercio estero e un Annuario del commercio estero.
—
3. Le risorse private: centri di ricerca sull’economia internazionale
Esistono, oggi, circa una cinquantina di istituzioni e di enti privati
che si occupano, nel nostro paese, di ricerche sull’economia internazionale, di cui una decina circa è specializzata in analisi di settore, negli
Economia internazionale
169
specifici aspetti internazionali (materie prime, prodotti alimentari, metallurgia, macchine utensili, meccanica di precisione, servizi, turismo
ecc.), un’altra decina si interessa invece dell’interscambio commerciale
con specifiche aree geografiche, mentre altri sei o sette istituti si occupano di processi di integrazione all’interno della Comunità economica
europea e quattro o cinque si dedicano a tenere corsi di formazione su
problemi di economia internazionale (in particolare l’Istituto universitario di studi europei di Torino) o di cooperazione con i paesi del Terzo Mondo (come l’Istituto per la cooperazione economica internazionale e i problemi di sviluppo di Roma).
Dei rimanenti venti centri, una decina circa svolge in modo sistematico ricerche su una vasta gamma di temi concernenti l’economia
internazionale, mentre gli altri conducono studi in modo non organico
e con un modesto impiego di uomini e di mezzi. In questo contesto
esamineremo soltanto le principali istituzioni, muovendoci idealmente
da nord a sud della penisola, come abbiamo già fatto nel caso delle
istituzioni pubbliche.
1) Finafrica, centro per l’assistenza finanziaria ai paesi africani. È
stato costituito a Milano, nel 1973, ad opera della Cassa di risparmio
delle province lombarde. Questo centro, che lavora in stretto contatto
con il servizio per la cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, opera a tre livelli: ricerca scientifica, attività di formazione, attività di assistenza tecnica per l’istituzione e la gestione di banche (in particolare casse di risparmio) nei paesi
del Terzo Mondo. La prima attività, a carattere scientifico, si propone
di studiare i sistemi bancari dei paesi africani, in relazione al problema
della mobilitazione del risparmio, della liquidità bancaria e del credito
agrario. La seconda attività, prevalentemente didattica, è finalizzata alla
formazione del personale e dei quadri direttivi delle istituzioni creditizie dei paesi del Terzo Mondo: essa si articola sia su cicli di lezioni che
su un tirocinio pratico. Il terzo tipo di intervento consiste in iniziative
finalizzate a stimolare la formazione e la mobilitazione del risparmio
nel continente africano. I collegamenti tra il centro e coloro che hanno
usufruito in vario modo delle sue prestazioni è assicurato da un periodico, il Finafrica Bulletin.
2) Centro studi Terzo Mondo. Il centro, fondato a Milano nel 1962,
e attualmente diretto da Umberto Melotti dell’Università di Pavia, promuove studi e ricerche di carattere economico, geografico, sociologico e
antropologico, al fine di approfondire le conoscenze sui problemi della
crescita dei paesi afroasiatici e latinoamericani, con particolare attenzione alle condizioni di sottosviluppo e mutamento sociale. Dopo aver
170
Roberto Panizza
condotto nel passato studi su un modello non eurocentrico di sviluppo
diverse analisi di specifiche aree del Terzo Mondo, oggi il centro approfondisce i temi delle nuove migrazioni internazionali e delle prospettive dei
paesi di recente industrializzazione del Terzo Mondo. I risultati di queste ricerche vengono pubblicate sul periodico trimestrale Terzo Mondo e sulle monografie semestrali Quaderni del Terzo Mondo.
3) ISPI. L’Istituto per gli studi di politica internazionale, fondato a
Milano nel 1933 e radicalmente ristrutturato nel 1987, sotto la direzione
di Giuliano Urbani, si prefigge di approfondire le conoscenze sui grandi
problemi globali della nostra epoca e sulle maggiori interdipendenze,
regionali e funzionali, che caratterizzano i rapporti tra paesi, al fine di
individuare le opportunità e le relative scelte politiche per accrescere la
competitività italiana sulla scena politica ed economica internazionale. I
lavori dell’Istituto sono caratterizzati da un approccio interdisciplinare, di
cui l’economia internazionale rappresenta un singolo aspetto, accanto
alla politologia, al diritto, alla storia e alla strategia. L’Istituto dispone,
inoltre, di una fornita biblioteca e di un ricco archivio storico e pubblica, oltre a bollettini di documentazione per aree geo-politiche, la rivista
Relazioni internazionali.
4) Fondazione Giovanni Agnelli. La Fondazione, istituita nel 1966 e
diretta da Marcello Pacini, ha condotto a partire dal 1985 una serie di
ricerche, coordinate da E. Colombatto dell’Università di Torino, su
alcuni temi di economia internazionale, in particolare sulle politiche
export-oriented dei paesi a nuova industrializzazione, sui flussi e sulla composizione delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo e sugli aspetti
macroeconomici e finanziari dell’indebitamento dei PVS. Attualmente
conduce ricerche sui temi attinenti allo sviluppo e ai suoi aspetti strettamente economici, focalizzando l’attenzione sullo studio di quelle variabili che spesso sono state trascurate in molte delle analisi condotte
in passato.
5) Istituto di Economia Internazionale. Fondato nel 1945 come azienda speciale presso la Camera di commercio di Genova, costituì uno
dei primi centri di ricerca sull’economia internazionale. Scopo dell’Istituto è la raccolta sistematica, l’elaborazione e l’interpretazione della documentazione sull’economia internazionale, attraverso l’attivazione dei necessari contatti con uffici statistici, centri di studio nazionali ed esteri ed
addetti commerciali italiani all’estero. Lo stesso istituto pubblica trimestralmente la rivista Economia internazionale e il Bollettino emerografico di Economia
internazionale.
6) ISTAO. L’Istituto «Adriano Olivetti» di studi per la gestione dell’economia e delle aziende, fondato ad Ancona nel 1967 da G. Fuà, pur
Economia internazionale
171
avendo come obiettivo prioritario gli studi di economia dello sviluppo
— con particolare riguardo all’Italia — e di economia aziendale, ha
anche condotto ricerche sui problemi dell’integrazione economica internazionale e sull’analisi economica dei movimenti migratori. A partire dal 1987 si è costituita presso l’ISTAO l’Associazione italiana per
la collaborazione tra gli economisti di lingua neolatina, che si propone
di creare condizioni di collaborazione per una più approfondita conoscenza delle rispettive realtà economiche.
7) CEME. Il Centro italiano per lo studio delle relazioni economiche estere e dei mercati, fondato a Roma nel 1956, mira a condurre ricerche che consentano di migliorare le relazioni economiche tra l’Italia
e gli altri paesi, attraverso lo studio dei mercati e delle possibilità di penetrazione del prodotto italiano all’estero. Pubblica trimestralmente il
periodico Mondo aperto.
8) IAI. L’Istituto Affari Internazionali, fondato nel 1965 e presieduto da C. Merlini, conduce ricerche su temi attinenti la politica, le relazioni internazionali, la sicurezza e la difesa. Limitatamente ai temi di
economia internazionale, che costituiscono soltanto — come si è detto — parte dell’insieme delle ricerche condotte, è privilegiato Io studio
del sistema italiano come sottoinsieme di quello europeo e di quest’ultimo come una delle componenti del mercato e del sistema di produzione mondiale. L’Istituto cura, inoltre, la pubblicazione annuale L’Italia nella politica internazionale, di cui uno dei capitoli è dedicato espressamente allo studio della congiuntura economica nelle principali aree
geo-politiche.
9) IIA. L’Istituto italo-africano, fondato nel 1906, opera dal 1947 sotto la tutela del Ministero degli Affari esteri con la denominazione «Istituto italiano per l’Africa». Oggi, più che attività di ricerca, l’Istituto svolge
opera di formazione sui problemi economici, politici e sociali di alcuni
paesi africani, oltre a realizzare programmi di cooperazione tecnica.
10) IPALMO. L’Istituto per le relazioni tra l’Italia e i paesi dell’Africa, America Latina e Medio Oriente, fondato nel 1971, si propone
di divenire uno strumento di concreta collaborazione con i paesi
emergenti. L’Istituto pone una particolare attenzione ai processi di
trasformazione economico-sociale in atto nelle diverse aree del mondo
e alle relazioni tra paesi a diverso grado di sviluppo produttivo. Pubblica il mensile Politica internazionale su cui compaiono spesso contributi
di natura economica.
11) ISCO. L’Istituto nazionale per lo studio della congiuntura, costituito a Roma nel 1955 sotto la vigilanza del Ministero del Bilancio
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Roberto Panizza
e della Programmazione economica, ha come scopo la raccolta e l’elaborazione di dati relativi alla congiuntura economica italiana e al contesto
internazionale in cui il nostro paese è inserito. In particolare ha condotto studi sul commercio estero dell’Italia. Pubblica mensilmente i1 periodico Congiuntura estera.
Abbiamo esaurito, in tal modo, la rassegna dei centri, sia privati che
pubblici, che si occupano di economia internazionale nel nostro paese
e la conclusione che ne dobbiamo trarre è che il lavoro è molto disperso
in tanti piccoli centri di ricerca che non occupano più di 5-6 ricercatori,
nei casi migliori. Tra questi centri, poi, non esiste alcun collegamento
sistematico e questa dispersione di energie si riflette anche nella frammentarietà delle analisi che compaiono nelle numerose riviste pubblicate in
materia. La causa di questa relativa marginalizzazione di siffatti studi va
probabilmente ricercata sia nel ruolo relativamente modesto ricoperto dall’Italia nel sistema economico internazionale, che nella priorità degli studi relativi all’economia interna, a causa dei marcati squilibri che ancora
condizionano l’economia italiana.
4. I tradizionali filoni di ricerca dell’economia internazionale
Gli studi di economia internazionale hanno un’origine molto remota,
a differenza di quanto accade in altre discipline, che affrontano aspetti
diversi delle relazioni internazionali, o di altre specializzazioni, nell’ambito
del più ampio corpo della teoria economica. Tali studi si possono far
risalire alla nascita degli stati moderni, con le rispettive monete nazionali, i relativi problemi di cambio, le loro politiche protezionistiche finalizzate ad evitare squilibri della bilancia dei pagamenti e la scarsa propensione a consentire la mobilità dei fattori della produzione tra stato
e stato. L’importanza di questi studi si è venuta, tuttavia, accentuando
proprio nella seconda metà di questo secolo, a partire cioè dagli anni
della ricostruzione post-bellica quando, in seguito all’affermarsi degli Stati
Uniti quale potenza egemone al posto della Gran Bretagna e al conseguente smantellamento dell’area della sterlina, venne propugnato il ritorno a un regime di maggiore liberalizzazione per il sistema degli scambi
internazionali: se si escludono tuttavia alcuni studi condotti nel nostro
paese sui vantaggi del free-tradee sui problemi della liquidità internazionale, allora essenzialmente legata alla circolazione e disponibilità di dollari, la produzione culturale degli anni Cinquanta è molto scarsa e occorre attendere gli inizi degli anni Sessanta per trovarsi di fronte a studi
di natura più originale.
Economia internazionale
173
Prima tuttavia, di passare ad esaminare i lavori più significativi in materia, occorre ricordare che le ricerche di economia internazionale, al
pari di quanto avviene anche in altre scienze, si articolano in due grandi filoni di studio: quello descrittivo che si limita a delineare e analizzare i fenomeni in questione, per esempio il commercio internazionale, attraverso
l’esame del contesto istituzionale in cui gli eventi si sono verificati e delle
variabili sia reali sia monetarie che sono state coinvolte nel processo, e
quello teorico che si propone invece di cogliere le leggi uniformi che caratterizzano i diversi eventi, al di là della loro apparenza fenomenica, al
fine di costruire modelli che possono aiutare meglio a comprendere
l’evolversi della realtà. All’interno di questo secondo filone, caratterizzato da uno sforzo di teorizzazione di schemi logici di validità più generale,
si sono delineati — nel passato — due sottoinsiemi, rispettivamente una
teoria pura e una teoria monetaria dell’economia internazionale. La teoria
pura cerca di dare una risposta alle diverse questioni che sorgono quando
ci si interroga sulla natura, le cause e gli effetti degli scambi che avvengono a livello mondiale, esaminati esclusivamente da un punto di vista
strettamente reale: in questo tipo di analisi si prescinde, cioè, da qualsiasi
condizionamento di natura monetaria che finirebbe, secondo i teorici di
tale indirizzo, per impedire la comprensione sia dei vantaggi del libero
scambio e della specializzazione internazionale, che dei pericoli insiti nelle
politiche protezionistiche. La teoria monetaria dell’economia internazionale privilegia, invece, gli studi sui regimi di cambio, sul sistema dei pagamenti internazionali, sui movimenti di capitale e sui meccanismi di riequilibrio della bilancia dei pagamenti.
Faremo essenzialmente riferimento a questa tripartizione nel corso
di questa ricerca finalizzata a descrivere l’evolversi, in Italia, degli studi
più originali e significativi di economia internazionale a partire da quegli
anni Settanta che rappresentarono un periodo di forti trasformazioni e
di radicali cambiamenti per i sistemi economici sia dei paesi industrializzati
che di quelli in via di sviluppo. Vale la pena, tuttavia, di ricordare brevemente alcuni filoni di ricerca già iniziati nel decennio precedente e che trovarono compimento proprio alla luce dei profondi rivolgimenti di quel periodo.
Nel corso degli anni Sessanta le monografie di Travaglíni (1965), Basevi (1967) e Sirottí (1969) fornirono, a livello di teoria pura del commercio internazionale, una rassegna sistematica, confrontando gli schemi proposti nel passato ed esaminando le possibili estensioni del modello di equilibrio generale, mentre nel campo della teoria monetaria internazionale, le prime ricerche condotte in Italia sul tema dei meccanismi di
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Roberto Panizza
aggiustamento della bilancia dei pagamenti, della loro compatibilità con
l’equilibrio macroeconomico generale e del ruolo delle esportazioni nel
modello di sviluppo, sono state condotte da Gandolfo (1966; 1970 a)
e da A. Graziarli (1969). Per quanto concerne il tentativo di integrazione dei due approcci, reale e monetario, con l’inserimento della moneta nel contesto del modello neoclassico di teoria pura dello scambio
internazionale si rimanda al saggio di Cutilli (1967). Mancano invece
quasi totalmente in questo decennio, se si fa eccezione per le monografie
di Baffi (1965), Cao-Pinna (1965) e Rey (1967) e i saggi di Zanelletti
(1968) sul commercio estero dell’Italia e sui condizionamenti internazionali della politica monetaria, studi di carattere descrittivo e relative
elaborazioni econometriche. Nonostante la secolare tradizione di studi
in questa disciplina, nel nostro paese occorreva ancora riempire il vuoto
lasciato in questo campo dal ventennio del regime fascista che aveva privilegiato quasi esclusivamente studi di economia corporativa e autarchia.
La formazione dei primi economisti internazionalisti avvenne presso prestigiose università straniere, su programmi più orientati allo studio delle
tesi normative dei modelli teorici di impostazione neoclassica, che non
finalizzati alla maggiore comprensione dell’evolversi della realtà economica internazionale o alla verifica dei modelli econometrici.
D’altra parte, il sistema di golfi exchange standard, il regime a cambi fissi
nato dopo gli accordi di Bretton Woods nel 1944, la crescente disponibilità di mezzi liquidi a livello internazionale e il manifestarsi solo
accidentalmente del problema del vincolo estero legato al disavanzo della
bilancia dei pagamenti, rendevano meno attuali, come ricorda De Cecco
(1968), i problemi di economia internazionale rispetto a quelli dell’economia interna, incentrati sul dibattito intorno 211a struttura dualistica
della nostra economia, al modello di sviluppo da adottare, alla necessità
o meno di introdurre un sistema di programmazione. Furono, invece,
gli anni Settanta, con le profonde trasformazioni che essi comportarono
sia a livello di approvvigionamento di materie prime su scala mondiale,
sia di instabilità dei prezzi, dei tassi di cambio, dei tassi di interesse,
con i conseguenti squilibri a livello di bilance commerciali e dei pagamenti e i relativi sconvolgimenti dei tradizionali flussi del commercio
mondiale (Baffi, 1973), a far sorgere un sempre crescente interesse verso
gli studi di economia internazionale. L’attualità di tali studi era tanto
più rilevante per un paese come l’Italia, il cui modello di sviluppo era
fortemente condizionato dal peso delle esportazioni e dal cosiddetto vincolo estero. All’interno di una gamma vastissima di studi disponibili siamo
stati costretti a fare una selezione, certamente discutibile, ma finalizzata a ricordare quei lavori, forse oggi in parte superati, che tuttavia
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hanno contribuito — alla luce delle conoscenze del tempo — a una maggiore comprensione dei fenomeni e delle teorie di economia internazionale. Approfondiremo, dapprima, l’esame degli studi di carattere descrittivo
e, successivamente, le elaborazioni teoriche, dato che una siffatta sequenza
consente anche di ricordare succintamente al lettore i principali avvenimenti che hanno caratterizzato il periodo storico in esame, al fine di
mantenere sempre chiaro il collegamento, quando esiste, tra realtà, descrizione e teorizzazione.
5. La crisi degli anni Settanta: un’analisi descrittiva
Le profonde trasformazioni che interessarono il sistema delle relazioni economiche internazionali, a partire dagli anni Settanta, ebbero
inizio prima di tutto dalle crescenti difficoltà incontrate dal dollaro a
mantenere sia la convertibilità nei confronti dell’oro, che il regime di
parità fisse nei confronti delle valute degli altri paesi più industrializzati. Il libro di Stammati (1973) è il primo a descrivere, in modo sistematico, l’origine, l’evoluzione e il deterioramento del sistema monetario internazionale e costituisce, insieme alla contemporanea traduzione del testo
di Triffin (1973), uno dei pochi strumenti di lettura in grado di far luce sia sulla struttura nata dagli accordi di Bretton Woods, sia sulle cause
della crisi che l’hanno travolta a partire dalla seconda metà degli anni
Sessanta, quando la convertibilità del dollaro in oro si è fatta sempre più
problematica e la sua parità con il marco tedesco non poteva più essere garantita.
I due elementi che costituiscono, tuttavia, il pregio del libro sono da
un lato le perplessità, poi rivelatesi profetiche, di Starnmati circa le peculiarità del nuovo sistema di cambi flessibili che andava sostituendosi
al vecchio regime di parità fisse e dall’altro la convinzione, più volte espressa, circa la necessità, al fine di contenere le spinte destabilizzanti da
esso generate, di portare avanti un discorso di integrazione economica a
livello europeo, idea quest’ultima condivisa anche da tutti i più fervidi
paladini in sede comunitaria (Magnifico, 1973). È significativo come i
due discorsi, quello dell’instabilità insita nel sistema di cambi flessibili e
quello della necessità di un coordinamento delle politiche dei paesi della
Comunità, fossero strettamente collegati e come il secondo derivasse logicamente dal primo. Starnmati, fondando il suo ragionamento sull’esperienza storica tra le due guerre, dubitava che un tale sistema potesse
assicurare, come pretendevano i suoi apologeti, la stabilità e l’equilibrio interno all’economia dei diversi paesi, al solo costo di lasciare
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fluttuare liberamente il cambio. I suoi dubbi erano tanto più forti in riferimento ai paesi in via di sviluppo, condizionati da squilibri della bilancia dei pagamenti di natura strutturale e, quindi, non correggibili
con una semplice variazione del tasso di cambio. La sfiducia verso un
tale sistema era infine giustificata dal fatto che esso, anziché riflettere
le reali forze di mercato, finiva per essere oggetto di ogni tipo di manipolazioni da parte della speculazione internazionale, dato che per sua natura
non contemplava interventi di cooperazione e di regolazione, che caratterizzavano invece il precedente regime di cambi. Per questo si imponeva —
come ribadisce anche Bortolani (1977) in un altro testo istituzionale sul sistema monetario internazionale — la ricerca, per lo meno da parte dei
paesi europei, di forme di coordinamento delle singole politiche nazionali
a cominciare da quelle monetarie, per non vedere compromesso il disegno di unificazione economica, iniziato con gli accordi di Roma del 1958.
In questi primi anni Settanta le proposte di integrazione dei diversi
sistemi economici a livello europeo, pur ribadite continuamente in sede
ufficiale, non riscuotevano ancora né un consenso generalizzato a livello
di opinione pubblica, né il favore e l’accondiscendenza dei responsabili
della politica economica dei singoli paesi. D’altra parte i primi tentativi
di integrazione monetaria come il «serpente» o il «tunnel», che fissavano per i paesi CEE bande di oscillazione più ristrette per i cambi delle
loro valute (F. Masera, 1973), erano ancora troppo condizionati dalla
posizione dominante del marco e quindi dalla politica economica tedesca
per cui, mentre alcuni studiosi, come il già citato Magnifico, De Cecco
(1971) e Finetti (1974) parlavano della necessità di coordinare le politiche monetarie all’interno dei singoli paesi della CEE, altri come Campa
(1971), Forte (1971), Gerelli e Majocchi (1971) e Pedone (1971) studiavano come rendere compatibili anche le politiche di bilancio e fiscali.
In quegli anni, infatti, si facevano più forti le preoccupazioni per il formarsi di differenziali sempre più netti tra i tassi di inflazione dei diversi
paesi, fatti risalire da alcuni (Magnifico, 1976b) al rapporto tra inflazione e disoccupazione (studiato dalla cosiddetta curva di Philips) e da
altri, più vicini alle posizioni monetariste (Monti, 1972), alla diversa crescita degli aggregati monetari.
Mancava, dunque, una omogeneità nelle interpretazioni del fenomeno
inflazionistico che rispecchiava la incapacità di comprenderlo nella sua
complessità e molteplicità di cause, e bisognava attendere qualche anno
più tardi il libro di Biasco (1979) per trovare una risposta non soltanto
al perché tali fenomeni si fossero manifestati a partire dal 1969 in modo
uniforme e progressivo a livello delle principali economie mondiali, ma
Economia internazionale
177
anche al perché tale uniformità si fosse rotta a partire dal 1974, per dar
vita a differenziali di inflazione molto elevati tra paese e paese. Contro
le tesi che privilegiavano esclusivamente le diverse scelte di politica economica e i differenti contesti istituzionali, Biasco parlava dell’inflazione
di quegli anni come di un fenomeno coevo, che derivava dalla partecipazione di ogni singola economia a un sistema di relazioni economiche,
articolato a livello mondiale. Per questo occorreva esaminare, innanzitutto, le cause che avevano contribuito, oltre al deficit della bilancia dei
pagamenti statunitense, a formare l’ampia liquidità di quegli anni, attraverso un circuito espansivo che nasceva da operazioni di intermediazione finanziaria, condotte in particolare sul mercato delle eurodivise.
Il mercato dell’eurodollaro — nato da una vecchia prassi delle
banche britanniche di raccogliere depositi in dollari (poi investiti al di
fuori degli Stati Uniti) e sviluppatosi, come ricorda Villani (1978) nella
sua introduzione all’edizione italiana del libro di Beli, grazie ad un’accorta politica dei tassi, favorita soprattutto dalla mancanza di obblighi
di riserva e di altre forme di vincolo — venne sempre gestito al di fuori
di ogni controllo, sia nazionale che sopranazionale, sulla base di un codice di autodisciplina. Tale regolamentazione interna non riuscì, tuttavia,
a contenere la crescita smisurata di questo sistema che si espandeva —
ricordando l’espressione di Carli (1971) — come una «piramide di
carta», con un moltiplicatore teoricamente altissimo (Barattieri, 1970)
e con effetti spesso destabilizzanti sulle politiche monetarie dei singoli
paesi (Cutilli, 1973). L’enorme capacità espansiva di tale sistema si è
riflessa sulla creazione di liquidità internazionale, accentuando, com’è
stato studiato da Fratianni e Savona (1972), l’integrazione dei sistemi
finanziari e creditizi nazionali e la loro interdipendenza. Nella loro monografia i due autori hanno cercato di individuare quali strumenti, a livello di economia internazionale, possedessero caratteristiche simili a
quelli che, nell’ambito dell’economia nazionale, sono definitili come base
monetaria. Utilizzando poi i modelli di Friedman-Schwartz e di BrunnerMeltzer, già impiegati in quegli anni per lo studio del mercato monetario statunitense, i due autori hanno, quindi, studiato il meccanismo
di creazione, la capacità moltiplicativa e l’assorbimento della base monetaria internazionale.
Altro fenomeno che in quegli anni contribuì a caratterizzare la forte
instabilità del decennio e costituì oggetto di studi da parte degli economisti italiani fu la rivalutazione del prezzo di tutte le materie prime (Grilli,
1978; Targetti Lenti, 1982), conclusasi nel novembre del 1973 con il
quadruplicamento del prezzo del petrolio (Luciani, 1976). Tale crescita
eccezionalmente elevata e repentina dei prezzi risultava, secondo la tesi
-
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Roberto Panizza
di Roncaglia (1983), sia da un mancato adeguamento dell’offerta, poco
elastica, rispetto alla crescita sostenuta della domanda, che da profondi
mutamenti nella struttura dei mercati di tali prodotti, passati in breve
tempo da una situazione in cui dominavano i compratori, rappresentati
dalle grandi multinazionali del settore, ad una in cui si imponevano gli
interessi dei venditori, più forti in seguito alla istituzione di un unico
cartello (Genco, 1983). Tuttavia, nello studio di un così rapido ricupero
dei prezzi non si può neppure prescindere dal ruolo svolto dalla svalutazione del dollaro, che ha generato un riversarsi di investimenti prevalentemente speculativi sui beni cosiddetti rifugio, in particolare le materie prime. Questa operazione ha generato un consistente trasferimento
di risorse finanziarie dai paesi importatori ai paesi esportatori di petrolio
(Spaventa e Izzo, 1974), che da un lato ha alimentato il fenomeno del
riciclaggio dei petrodollari verso l’acquisto sia di beni reali che di attività puramente finanziarie (Barattieri e Montanaro, 1975), e dall’altro
ha contribuito, come ricorda Zandano (1974) all’allargamento del deficit della bilancia commerciale dei paesi meno dotati di materie prime
e non in grado di adeguare proporzionalmente il prezzo delle loro esportazioni. Per porre rimedio a questa situazione e per fronteggiare il calo
delle riserve valutarie (P. Alessandrini, 1974), i paesi più deboli non hanno
trovato soluzione migliore del ricorso a svalutazioni competitive, che
a loro volta hanno alimentato l’inflazione (Graziani e Meloni, 1973; Bortolani, 1975). Ad aggravare la situazione di queste economie, già strutturalmente deboli, intervennero trasferimenti anomali di capitali verso
l’estero, che finirono per sottrarre ulteriori risorse a quelle scarsamente
disponibili all’interno. Diversi studi hanno affrontato in quegli anni le
conseguenze negative sul sistema economico del nostro paese delle cosiddette «fughe di capitali»: particolarmente significativi quelli di Caffè
(1964), Vicarelli (1970), Biagioli (1975) e Pivetti (1976).
In un siffatto contesto lo scarso potere trasferito agli organismi sovranazionali (Caffè, 1978), la mancanza di strumenti di regolazione dei
cambi (fossa, 1981a) e la preponderanza delle grandi banche multinazionali private nel gestire questi trasferimenti di capitali e gli eventuali
squilibri di bilancia dei pagamenti (De Cecco, 1985a), hanno spinto verso
una crescente privatizzazione del finanziamento dei disavanzi interni
ed esteri dei paesi in difficoltà (De Cecco, 1978), con conseguenze che
si sono manifestate in tutta la loro gravità nel decennio successivo.
Il drenaggio di risorse destinate al pagamento della bolletta energetica (Arcelli, 1975), le politiche restrittive condotte per fronteggiare i
crescenti disavanzi delle bilance commerciali (Vicarelli, 1985) e i tassi
di interesse sospinti verso l’alto dalla intensità dei processi inflazioni-
Economia internazionale
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stici e da interventi di tipo monetarista (Parboni, 1987), finirono per
esercitare degli effetti fortemente depressivi sulle economie dei paesi
sia industrializzati che in via di sviluppo, scoraggiando sia l’accumulazione di capitale che la domanda globale e portando i tassi di crescita
dei rispettivi prodotti nazionali a dimezzarsi. Nessuno, tuttavia, degli
autori del tempo riuscì a cogliere nella sua totalità e complessità la natura della crisi e le sue dimensioni. Soltanto a distanza di oltre un decennio e potendo valutare il periodo con maggiore distacco e conoscenza
di causa possiamo dire (come ho sottolineato in Panizza, 1985a) che in
quegli anni si era incrinato nella sua totalità il sistema di regolazione
che dalla fine della guerra sino agli inizi degli anni Settanta aveva presieduto alla crescita delle economie capitalistiche, definendo sia le leggi
che presiedevano al meccanismo di accumulazione e di valorizzazione
del capitale, che i rapporti che intercorrevano tra sistema industriale e
sistema finanziario. L’errore di molti responsabili delle politiche monetarie del tempo è stato, come sostiene Vercelli (1986), quello di non aver
colto la complessità del cambiamento e di aver fatto affidamento su rimedi inadeguati alle trasformazioni in atto. Quello che era entrato in
crisi era dunque il sistema che, nel quarto di secolo tra la fine della seconda guerra mondiale e la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro
nel 1971, aveva assicurato tassi molto elevati di crescita economica, alti
livelli di occupazione, un netto miglioramento nella struttura dei consumi privati e consistenti progressi verso l’attuazione di uno stato sociale generalizzato, che non a caso avevano portato a definire quegli anni
come quelli dell’«età dell’oro» (Biasco, 1984). L’organizzazione produttiva
del periodo in esame, strutturata sul modello di fabbrica fordista (Michelsons, 1985), non incontrava grosse difficoltà nella collocazione della
produzione grazie ad una domanda che soddisfaceva bisogni inevasi da
secoli. Gli elevati livelli del consumo erano garantiti sia dagli alti salari
(sottratti in quegli anni alla logica della singola impresa e degli interessi
individuali per essere affidati alla contrattazione collettiva), che dalla
spesa pubblica, secondo la logica del principio keynesiano del deficit
spending.
Certamente, tra le cause che contribuirono a mettere in crisi, sul piano
internazionale, questo modello fondato sulla simbiosi tra consumismo,
fordismo, welfarismo e keynesismo vanno ricordate sia l’aumento dei
prezzi delle materie prime e delle fonti energetiche, sia il venir meno
della centralità della moneta americana e l’instabilità valutaria conseguente al passaggio ad un sistema di cambi flessibili (Parboni, 1985a).
Il fragile equilibrio fondato sugli accordi di Bretton Woods (Panizza,
1985b) cominciò a mostrare la sua inadeguatezza quando gli Stati Uniti
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Roberto Panizza
non riuscirono più a garantire la regolazione delle relazioni economiche
internazionali, destabilizzati come furono da strategie transnazionali di
imprese e banche multinazionali o dall’operare di mercati., come quello
dell’eurodollaro, cresciuti al di fuori di ogni forma di controllo. Fu proprio la maggior privatizzazione del sistema finanziario internazionale a
togliere, come ricordano Guerrieri e Padoan (1984) agli Stati Uniti quella
posizione dominante all’interno del sistema economico internazionale,
finendo per relegarli a un ruolo di concorrenti oligopolisti nei confronti
di tutti gli altri paesi.
Queste sole cause, tuttavia, non consentono di chiarire la portata della
crisi. Occorre anche esplorare il perché dell’incepparsi del meccanismo
che assicurava gli sbocchi alla produzione, e della perdita parziale di controllo da parte imprenditoriale sui processi di accumulazione, sia per le
forti spinte salariali che eccedevano la crescita della produttività, sia per
la eccessiva rigidità della tecnologia fordista ad adattarsi ad una domanda
internazionale sempre più instabile e mutevole in termini quantitativi e
qualitativi.
La mancanza di uniformità nella interpretazione della crisi ha anche
animato un vivace dibattito incentrato sulla individuazione dei rimedi.
Per alcuni era sufficiente respingere l’eccesso di regolazione insita nel
modello di ispirazione keynesiana, alla luce dei principi neoliberisti che
insistevano sulla necessità di deregolamentare e sulla esigenza di restituire al libero mercato le sue prerogative, come sostennero Monti (1972),
Savona (1974) e Tullio (1979). Per altri il problema era più complesso,
dato che coinvolgeva le stesse leggi della riproduzione capitalistica e quindi
la formazione del profitto e l’uso della forza lavoro (Bellofiore, 1986).
Finirono per prevalere le tesi di coloro che proponevano di curare l’inflazione e i disavanzi esterni con un irrigidimento dei vincoli monetari,
contribuendo in tal modo ad aggravare la tendenza recessiva in atto. Tra
l’altro, l’aumento dei tassi di interesse, che ne seguì, finì per privilegiare nelle decisioni di investimento scelte di carattere finanziario rispetto a quelle di tipo industriale. Ne derivò una notevole espansione
dell’intermediazione finanziaria internazionale, che approfittando del
clima di deregolamentazione dominante, contribuì a destabilizzare i mercati valutari e mobiliari ben al di là di quanto avrebbero comportato i
soli fenomeni reali (A. Graziani, 1987).
L’altro rimedio proposto contro gli squilibri delle bilance dei pagamenti fu quello di fare maggiore affidamento sulla crescita delle esportazioni (Guerci, 1974). Questo privilegiamento della domanda estera rispetto a quella interna — già penalizzata dal controllo della crescita salariale e dal ridimensionamento dello stato assistenziale (Vona, 1984) —
Economia internazionale
181
spinse ad incentivare il finanziamento alle esportazioni (Biagioli, 1971)
e costrinse a rapportarsi in modo diverso anche nei confronti del salario:
esso cessava di ricoprire quel ruolo di sostegno della domanda interna,
il cui livello andava difeso contro gli interessi individuali nella logica,
quindi, di un interesse collettivo, per ridursi semplicemente a un costo,
che doveva perciò essere compresso per non deteriorare la concorrenzialità
dei prodotti nazionali sui mercati esteri. È interessante notare come
l’inflazione costituì in quegli anni una sorta di soluzione di ripiego per
quei paesi dove maggiori erano le difficoltà di frenare la crescita salariale
e maggiore era l’incapacità, da parte padronale, di controllare i cicli
produttivi e di difendere i margini di profitto (Panizza, 1987). Questa scelta
di politica economica si accompagnò quasi sempre, come accadde nel
nostro paese, a svalutazioni molto forti (Falchi e Michelangeli, 1977), che
non solo erano congeniali al modello di crescita trainato dalle esportazioni,
ma che innescando una spirale inflazionistica contribuirono a ricostruire
in maniera fittizia i margini di profitto per le imprese.
6. Flussi commerciali dell’Italia e delle principali aree economiche mondiali
La profonda instabilità dei mercati valutari e finanziari ha, dunque,
accentuato le difficoltà incontrate dalle politiche di stabilizzazione condotte dai diversi paesi industriali. Nei processi di ristrutturazione il ruolo
delle politiche commerciali e di sostegno dell’export è stato fondamentale: per questo raccoglieremo in questa seconda sezione dedicata agli
studi di carattere descrittivo tutte quelle ricerche relative all’economia
italiana intesa come sistema aperto. In questa parte esamineremo anche
tutti gli studi di area, soffermandoci in particolare sulle specificità del
commercio estero intracomunitario ed extracornunitario. Esamineremo,
inoltre, le peculiarità degli scambi commerciali con i paesi ad economia
socialista, con i mercati delle materie prime e con i paesi del Terzo Mondo,
distinguendo quelli a nuova industrializzazione da quelli sottosviluppati.
Tra i lavori di carattere più generale riferiti all’Italia, A. Graziani
(1987) ha curato una monografia in cui i diversi autori hanno cercato
di evidenziare l’impatto avuto sulla crescente apertura dell’economia italiana verso i mercati mondiali, dalle forti oscillazioni del cambio tra marco
e dollaro e tra dollaro e yen, e dalle aggressive politiche commerciali di
Stati Uniti, Giappone e Germania. La crescente flessibilità e la notevole instabilità del mercato hanno finito per rendere più complessa la
definizione del concetto di competitività: essa, come ha evidenziato G.
Conti (1987), non riposa — a differenza di un tempo — soltanto più sul
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Roberto Panizza
contenimento dei costi di produzione, ma dipende da una molteplicità
di fattori come, per esempio, il saper offrire sempre nuovi prodotti o lo
scoprire nuovi mercati all’interno dei quali costruire una adeguata rete
distributiva e di assistenza alla clientela, che costituisce oggi oggetto di
studio, così come un tempo lo furono le componenti più tradizionali
che hanno influenzato l’andamento del commercio estero dell’Italia.
Proprio qualche anno fa, in conseguenza del ruolo crescente della componente estera della domanda, fiorirono una pluralità di studi di carattere empirico ed econometrico, finalizzati all’analisi della natura e del
peso del commercio estero e del ruolo svolto dalle esportazioni rispetto
alla crescita economica del nostro paese. In questa sede voglio ricordare, in
primo luogo, i saggi di D’Antonio (1975), D’Antonio e Marani (1975),
Pierelli (1980) e Ciravegna (1982) sulla dipendenza del nostro paese dall’estero e sul commercio estero dell’Italia negli anni Sessanta, e quelli
di Liberati (1981b), Vona (1982) e a cura del Credito Italiano (1983)
sugli anni Settanta. Relativamente alla specializzazione e alla competività internazionale dell’Italia si veda la monografia curata da P. Alessandrini (1978), mentre sull’analisi per settori dell’industria italiana e
sulle tendenze della domanda internazionale si rimanda agli scritti di
Onida (1978; 1980).
Sulla struttura delle esportazioni e dei relativi prezzi rinviamo a Dalbosco e Pierelli (1973), Pierelli e Ceccarelli (1976), Falcone (1978a; 1978b;
1980), Aquino (1983); sugli indici di concorrenzialità delle stesse si veda
Gilibert (1978), infine, sui determinanti delle importazioni si vedano
Tagliabue (1977), Conti, Cossutta e Silvani (1984).
In tutte queste ricerche si evidenzia come i flussi commerciali con
l’estero del nostro paese abbiano subito nel ventennio considerato profonde trasformazioni, rilevabili in particolar modo per le importazioni,
che hanno fatto registrare una crescita dei prodotti finiti, rispetto ai semilavorati, e dei prodotti a lavorazione più complessa. È scesa la quota
rappresentata dalle materie prime (compresi i prodotti energetici), mentre si
è ampliata la penetrazione sul nostro mercato di beni intermedi e di beni
finali di consumo, durevoli e non, a riprova di una crescente aper- tura del
nostro mercato alle produzioni straniere e di una crescita del commercio
cosiddetto «orizzontale», caratterizzato cioè dalla importa- zione di beni
simili a quelli prodotti all’interno ed anche esportati (Ba- rattieri, 1982). È
rimasta invece relativamente stabile, nel periodo in esame, la quota
delle importazioni di beni capitali.
Sul fronte delle esportazioni si è registrato, anche se in termini meno
drastici, un fenomeno analogo, con una forte crescita dei prodotti finali
— in particolare beni di consumo durevoli — e dei beni di investimento
Economia internazionale
183
(D’Alauro, 1982), tanto che il peso del totale dell’interscambio (importazioni ed esportazioni) rispetto al prodotto interno lordo è salito dal
10% (registrato agli inizi degli anni Cinquanta) ad oltre il 50% della
metà degli anni Ottanta.
Le due tendenze più rilevanti del commercio estero dell’Italia sembrano, dunque, da un lato la maggiore apertura verso i mercati internazionali
della nostra economia — che ha comportato una maggiore concorrenza dei
prodotti stranieri anche nei settori che registrano tradizionalmente
consistenti attivi — e dall’altro, la natura dei prodotti con grado di
lavorazione più complessa.
La tipologia di beni che interessano il commercio estero, sia come
import che come export, è dunque sostanzialmente simile, mentre la loro
differenziazione all’interno di ciascuno dei settori produttivi è estremamente sofisticata: è stato in proposito studiato (Cipolletta e Calabresi,
1984) un indice di dissomiglianza che misura, al fine di valutare il grado
di concorrenzialità proprio di ciascun settore merceologico, le differenze
tra la struttura delle importazioni e quella delle esportazioni: in base
a questo indice, la concorrenzialità interna ad un settore è tanto più elevata quanto più simili sono i prodotti importati ed esportati, mentre è
tanto più bassa quanto maggiore è la loro differenza. Ora, come già sí
diceva, le importazioni registrano, nel nostro paese, al pari di quanto
accade per i paesi più industrializzati ad eccezione del Giappone, una
tendenza alla crescita della quota percentuale di manufatti (Modiano,
1984), che non deve essere interpretata come conseguenza di un processo di deindustrializzazione, ma che deriva dalla modificazione della
struttura dell’offerta, da una specializzazione intersettoriale ad una, come
si diceva, intrasettoriale. Tale interpretazione è anche confermata dal
fatto che la quota di esportazioni italiane sul totale dell’offerta interna
è andata sempre crescendo sia per i beni di consumo che per quelli capitali. Permane, tuttavia, come hanno evidenziato Momigliano e Siniscalco
(1984) e Onida (1985), una debolezza di fondo dovuta al fatto che la
specializzazione del nostro export avviene prevalentemente in settori
che sono debitori verso l’estero di tecnologie, mentre permangono sottospecializzati verso l’export quei settori nei quali il nostro paese è invece creditore di tecnologia.
La debolezza di fondo del nostro commercio con l’estero non ha
trovato, d’altra parte, correttivi nella presenza né di strutture in grado
di svolgere attività promozionale o di programmazione, né in un’adeguata politica pubblica di sostegno al processo di internazionalizzazione: solo recentemente sono stati condotti nel nostro paese i primi studi sul
ruolo delle trading companies (Alessandrini e Secchi, 1986), proprio nella pro-
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Roberto Panizza
spettiva di offrire un supporto agli sforzi di internazionalizzazione delle
imprese, o su quello delle joint ventures (Baket, 1987b), attraverso le quali
si mira a consolidare la presenza delle imprese italiane a livello mondiale,
con accordi di produzione con imprese locali.
Il legame crescente che unisce commercio internazionale e sviluppo
economico, evidenziato da Gasparini (1982), unitamente all’estrema instabilità, negli anni Settanta e Ottanta, delle bilance commerciali e dei
flussi di import ed export dei principali paesi industrializzati — nonostante i crescenti processi di integrazione dei mercati soprattutto europei
(Montani, 1978) — hanno accentuato l’interesse verso un’analisi più approfondita delle componenti da cui dipende la competitività dei beni
prodotti dai singoli paesi: essa si identifica sempre meno con gli elementi
di prezzo e sempre più con altri elementi — come la qualità, la marca,
il design, le garanzie e l’assistenza offerta al cliente, le modalità di pagamento e i tempi di consegna — che, tuttavia, vengono generalmente trascurati nelle ricerche empiriche, a causa delle difficoltà di quantificazione e misurazione. In uno studio condotto per la Banca d’Italia, Valcamonici e Vona (1982) hanno calcolato alcuni indicatori ricavati da variabili di costo e di prezzo, che consentono di valutare non soltanto la
competitività globale ma anche la competitività all’importazione e all’esportazione, per l’Italia e i principali paesi industrializzati.
Gli studi sul commercio internazionale si sono, poi, specializzati per
aree, a partire da quelli dedicati alla Comunità europea, dove il crescente
grado di apertura verso l’estero ha fatto sì che gli scambi extracomunitari siano cresciuti, con effetti di trade-creation quasi quanto quelli all’interno dell’area stessa. L’esame degli indici di specializzazione merceologica dell’area ha portato Onida (1984b) a evidenziare il relativo
«multipolarismo» delle esportazioni della CEE, accanto alla ridotta competitività dei settori ad alta tecnologia e rispetto a quelli a produzione
più strandardizzata, che ha consentito una crescente penetrazione dei
manufatti esportati dai paesi emergenti.
Le relazioni commerciali e finanziarie tra i paesi più industrializzati
esterni all’area comunitaria, come Stati Uniti e Giappone, sono state
studiate rispettivamente da Parboni (1987) e da Fodella (1982), che possono essere considerati due tra i maggiori esperti dei rispettivi settori.
Relativamente all’economia statunitense Parboni sostiene, in numerosi
scritti, che la strategia di politica economica e commerciale perseguita
in questi ultimi anni è comprensibile soltanto se vista come reazione al
declino rispetto ad Europa e Giappone. Tale declino è evidenziato non
solo dalla minor quota di esportazioni degli Stati Uniti e dalla ridotta
produttività nel settore manifatturiero, rispetto a quanto accade nelle
Economia internazionale
185
altre due aree, ma anche dal notevole ridimensionamento — sempre in
termini relativi — del livello del reddito, del peso della produzione industriale e del tasso di crescita degli investimenti. Per contro, Fodella
evidenzia i caratteri di natura non solamente economica che sono alla
base della notevole crescita del Giappone in questi ultimi decenni e che
giustificano l’elevata competitività dei prodotti giapponesi sui mercati
mondiali.
Notevoli studi sono stati condotti anche nel settore dei rapporti commerciali con i paesi socialisti, che presentano ad un tempo analogie ed
anomalie rispetto agli scambi tra paesi capitalistici. La forma di pagamento della compensazione, per esempio, è utilizzata con molta più frequenza negli scambi Est-Ovest, per altro dominati da complessi vincoli
imposti dalle autorità politiche che ne ritardano notevolmente le procedure. Il monopolio statale del commercio estero, come ricorda Nuti
(1985), è un coronario della proprietà pubblica dei mezzi di produzione
e della pianificazione economica centralizzata: tale monopolio è esercitato attraverso imprese di import-export, ciascuna specializzata in dati
settori, autorizzate ad operare sui mercati internazionali in valuta estera,
detenuta su conti valutari presso la banca centrale.
La natura di questo commercio, all’interno della più vasta gamma
dei rapporti economici tra paesi socialisti e paesi capitalisti, è stata esaminata da Chilosi (1984), mentre Colombatto (1984a), oltre ad analizzare la struttura degli scambi in termini molto disaggregati, ha anche
azzardato la costruzione di un modello informale che aiutasse a formulare
qualche previsione circa la possibilità, non certo rapida, di sostituzione
delle materie prime e dei prodotti energetici — tra le componenti
dell’export — con beni manufatti, che avrebbe consentito un miglioramento delle ragioni di scambio con i paesi industrializzati dell’occidente.
A sua volta Nuti (1985) ha espresso scarsa fiducia che il tentativo di
migliorare l’efficienza del sistema possa passare attraverso radicali riforme della struttura industriale, anziché attraverso l’importazione di
alta tecnologia dai paesi più industrializzati.
Un altro dei temi affrontati da Colombatto (1983a) è quello degli
accordi di compensazione che rappresentano lo strumento di pagamento
più utilizzato dai paesi socialisti, in quanto non comporta alterazioni profonde né dell’economia del paese importatore, né delle riserve valutarie
degli stessi paesi ad economia pianificata impegnati nell’interscambio
commerciale con i paesi capitalistici. L’impiego della compensazione come
strumento di pagamento è giustificato dalle difficoltà che incontrano le
autorità socialiste a finanziare il commercio estero a causa della inconvertibilità del rublo, e quindi della sua non trasferibilità al di fuori del
186
Roberto Panizza
Comecon, come ha chiarito Bortolani nel suo studio (1979), in cui ha
esaminato le caratteristiche del sistema valutario dei paesi socialisti. Anche
Boffito (1978; 1984) ha esplicitamente studiato, in diversi scritti, il problema del finanziamento degli scambi sia in entrata che in uscita, con
strumenti di natura finanziaria: si tratta di un settore che, per esplicita
ammissione delle stesse autorità socialiste, non può essere considerato
«normale», e cioè conforme alle consuetudini che vigono nel resto del
mondo. D’altra parte esso dipende quasi esclusivamente da decisioni prese
dalle banche o dai grandi centri finanziari dell’occidente, con grave pregiudizio per l’autonomia stessa degli scambi commerciali.
Il finanziamento internazionale concesso ai paesi socialisti viene spesso
utilizzato per scopi ben diversi rispetto a quelli per cui era stato concesso: molte volte, anziché essere destinato alla copertura dei disavanzi
temporanei della bilancia dei pagamenti, è stato utilizzato per soddisfare
obiettivi di politica economica di lungo periodo. Questo utilizzo anomalo dei flussi finanziari ha giustificato, d’altra parte, l’improvviso cambiamento nell’atteggiamento dei pianificatori, che sono passati da una
posizione tendenzialmente autarchica ad una di apertura verso il commercio estero, con la concomitante accettazione di una forte crescita dell’indebitamento (G. Graziani, 1987).
Proseguendo nell’esame degli studi settoriali del commercio internazionale, un’altra importante area oggetto di ricerca è quella dei mercati
delle materie prime, che nel nostro paese è stata studiata prevalentemente da Targetti-Lenti (1979) e da Grilli (1982): quest’ultimo, nella
sua voluminosa ricerca sull’argomento, sostiene che la notevole disponibilità, fino agli ultimi anni Sessanta, di risorse naturali e di prodotti
agricoli a prezzi stabili, per non dire calanti, aveva relegato gli studi di
questi mercati accanto a quelli delle problematiche dei paesi emergenti,
e soltanto in seguito alla crisi degli anni Settanta che ha capovolto le
aspettative sui prezzi e ha evidenziato i limiti delle disponibilità, essi
sono tornati al centro dell’attenzione sia degli studiosi che dei politici.
Il mercato di questi prodotti è venuto assumendo, in tal modo, delle
peculiarità che mutano da caso a caso: materie prime alimentari e non
(Gaetani d’Aragona, 1983), fibre naturali (diversi studi citati in Grilli,
1982), metalli ferrosi e non (Quadrio-Curzio, 1982), prodotti energetici (Luciani, 1984; Roncaglia, 1985).
Tutti questi mercati dei singoli prodotti sono strettamente interrelati, come ha chiarito Quadrio-Curzio (1983), attraverso rapporti molteplici e multidimensionali con l’economia mondiale: per i paesi industrializzati il problema più importante concernente le materie prime è
rappresentato dalla necessità di stabilizzare i prezzi (Colantoni, 1977),
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187
e dall’esigenza di assicurarsi gli approvvigionamenti, riducendo la dipendenza eccessiva da certi prodotti e certi fornitori; per i paesi in via di sviluppo, invece, le preoccupazioni sono rappresentate dal deterioramento delle
ragioni di scambio e dalla insicurezza nell’approvvigionamento alimentare,
oltre che dalla dipendenza dalle grandi compagnie commerciali che controllano quasi tutti i mercati, in condizioni monopolistiche o oligopolistiche.
L’altra vasta area oggetto di studio da parte degli economisti internazionalisti è quella rappresentata, genericamente, dai paesi del Terzo
Mondo, che a loro volta si dividono in economie a nuova industrializzazione (NIC) e paesi in via di sviluppo (PVS): il primo gruppo di paesi
è riuscito a superare i limiti dell’arretratezza e a conseguire consistenti
risultati in termini di crescita perseguita attraverso politiche commerciali
molto aggressive, che sono state studiate da Onida (1986c) e da
Colombatto, che ha coordinato una ricerca per la Fondazione Agnelli
proprio su queste tematiche (Colombatto, 1988).
Molto più vasta è la letteratura disponibile sul secondo gruppo di
paesi, quelli sottosviluppati, a partire da una rassegna di Jossa (1973)
che affronta le problematiche del sottosviluppo e da due studi più recenti, rispettivamente di Sylos-Labini (1983) e di Lombardini (1987),
che hanno evidenziato due possibili interpretazioni dell’arretratezza economica, la prima che sottolinea le cause di natura «interna» — legate al
basso livello di reddito, alla scarsa produttività del lavoro, all’insufficiente investimento in capitale fisso, che innescano il cosiddetto circolo
vizioso della povertà — e la seconda, che privilegia gli elementi esterni,
rappresentati soprattutto dal problema della dipendenza, originata dalla
collocazione internazionale di questi paesi e dalla specializzazione indirizzata, il più delle volte, alla produzione di materie prime.
Uno studio molto originale di Simonazzi (1984) ha focalizzato l’attenzione sui paesi sottosviluppati come mercato di sbocco per i prodotti
dei paesi più industrializzati. L’interscambio con tali paesi, che nonostante la scarsità delle risorse disponibili, necessitano di ritmi elevati di
crescita, finisce per dipendere in modo essenziale dalle forme di finanziamento offerte dai paesi esportatori. Nella sua ricerca ha esaminato,
pertanto, le politiche perseguite dalle autorità dei paesi più industrializzati
per accrescere sui mercati dei paesi in via di sviluppo la competitività
delle loro esportazioni, perfettamente consapevoli dell’importanza delle
scelte effettuate dalle autorità pubbliche a sostegno finanziario dell’operazione stessa. Paradossalmente, la concorrenza tra venditori sui
mercati del Terzo Mondo si è spostata dal piano industriale a quello creditizio, attraverso una «guerra» dei tassi di interesse praticati e un massiccio intervento pubblico di supporto.
188
Roberto Panizza
Più recentemente, la teoria interpretativa del sottosviluppo in termini di dipendenza ha abbandonato, in parte, lo studio dei flussi commerciali — per i quali si rimanda, relativamente all’export agricolo, a
Lancieri (1980) — per esaminare invece il tema dell’investimento estero
diretto e del ruolo preponderante svolto dalle filiali delle imprese multinazionali nelle zone «periferiche» del mondo (Balcet, 1981). Sempre
questo autore in collaborazione con Momigliano (1983) ha studiato i principali modelli di industrializzazione del terzo mondo, che si riferiscono
principalmente a tre tipi di investimenti, quelli orientati ai mercati locali, attraverso produzioni sostitutive delle importazioni, quelli orientati, invece, all’esportazione e quelli, infine, indirizzati allo sviluppo delle
industrie di base, trasformatrici delle materie prime.
Gli altri studi condotti da autori italiani sui temi del sottosviluppo
si sono quasi esclusivamente orientati a discutere i problemi finanziari.
La crescita industriale dei PVS negli anni Settanta, trainata principalmente dalle esportazioni verso i paesi più industrializzati e messa in crisi
dalle politiche deflazionistiche introdotte dopo il secondo shock petrolifero da Stati Uniti, Giappone e paesi europei, ha lasciato dietro di sé
una pesante eredità di indebitamento, resa ancora più grave dalla notevole crescita dei tassi di interesse nell’ultimo decennio (Parboni 1985b).
Con il passare degli anni, il rallentamento delle esportazioni, in seguito
alla crisi della domanda mondiale, accompagnato da un elevato livello
di importazioni finalizzato a soddisfare bisogni primari e non, ha incrementato il livello del debito (Pasca, 1984). Altri studi, come ricorda Onaiccioli (1984) tendono, inoltre, a evidenziare gli effetti dei fattori «esogeni», che non dipendono cioè dalle scelte dei PVS indebitati, né dal
livello del loro assorbimento in termini di consumi. Altri, infine, come
Ragazzi (1983) e Leon (1983) hanno evidenziato lo stretto legame che
intercorre tra crescita economica dei PVS, finanziamento estero e crescente indebitamento, che rappresenterebbe il prezzo da pagare per lo
sviluppo. Tuttavia, non si può nascondere l’impatto molto negativo sul
deterioramento dei conti finanziari con l’estero avuto dalle fughe dei
capitali posseduti dalle borghesie locali, dal pagamento dei profitti alle
multinazionali che operano nelle aree del sottosviluppo e, infine, dall’onere degli interessi sul debito. Tale drenaggio di risorse dai paesi poveri
verso quelli più industrializzati è stato talmente elevato da sconvolgere
uno dei principi base della politica di sostegno allo sviluppo, quello di
attivare flussi di risorse dai paesi ricchi a quelli sottosviluppati (Sacchetti,
1985). Ne è conseguito un peggioramento delle condizioni economiche
dei paesi coinvolti nella crisi debitoria che ha reso più problematiche
le politiche di aggiustamento e ha bloccato quelle finalizzate alla crescita.
Economia internazionale
189
Con questo quadro di forti squilibri e di instabilità che caratterizza i
rapporti tra le aree più significative del sistema economico internazionale
si esaurisce la seconda sezione dedicata all’esame dei contributi descrittivi
di autori italiani in terna dí flussi commerciali e finanziari che hanno
interessato sia il nostro paese che il resto del mondo.
7. Processi di internazionalizzazione, di integrazione monetaria e di globalizzazione dei mercati: un’analisi interpretativa
Un terzo filone di studi descrittivi — dopo quelli di area e quelli sulle vicende dell’economia mondiale — ha avuto per oggetto l’esame dei
processi di crescente internazionalizzazione ed integrazione, che interessano soggetti, mercati e sistemi economici a livello mondiale. Abbiamo già parlato del nuovo spirito liberista che ha dominato le relazioni
economiche del secondo dopoguerra, in reazione al clima di isolamento e di autarchia che era prevalso negli anni Trenta: si è trattato tuttavia,
come ricorda Catalano (1972), di un processo lento e faticoso che ha
portato dapprima al ritorno alla convertibilità tra le trincipali valute del
mondo, nel 1958, e che ha stimolato quindi l’avvio, sempre nello stesso
anno, del processo di integrazione economica europea, con la costituzione di un unico mercato e la crescita, agli inizi degli anni Sessanta, di
un sistema finanziario sovranazionale, quello dell’eurodollaro, di cui
abbiamo già parlato a proposito del problema della liquidità internazionale e della stabilità finanziaria. Ma c’era un altro fenomeno strettamente interrelato alla crescente internazionalizzazione del capitale (Gomito,
1976) e della produzione (Rullani, 1973), che caratterizzò a partire da
quegli anni la scena economica internazionale: mi riferisco al formarsi
delle cosiddette imprese multinazionali (Acocella, 1975) che, finanziate
originariamente da capitali statunitensi, si muovevano alla conquista del
nuovo e vasto mercato comunitario (Gasparini, 1974), trasferendo direttamente in Europa una serie di produzioni che sarebbero state penalizzate dalla normativa tariffaria vigente. Anche gli economisti italiani,
soprattutto gli industrialisti, si occuparono del fenomeno, mentre alcuni editori, in particolare Etas Kompass, Einaudi e Il Mulino si resero
benemeriti, facilitando una maggiore comprensione del fenomeno con
la traduzione di alcune tra le più complete monografie in materia, scritte da esperti stranieri (mi riferisco in particolare alle traduzioni dei libri
di Donner nel 1969, di Hymer nel 1974 e di Bertin nel 1977 sulle
multinazionali). L’editore F. Angeli, infine, completava questa operazione, traducendo il rapporto redatto dalle Nazioni Unite sulla natura,
190
Roberto Panizza
l’organizzazione e il controllo delle imprese multinazionali e sulle relative influenze e tensioni generate dalle stesse all’interno delle relazioni economiche internazionali.
Per quanto concerne gli studi originali condotti in quegli anni, nel nostro paese, sulla teoria dell’impresa multinazionale, e quindi degli investimenti internazionali diretti, essi si sono indirizzati a comprendere il
perché della scelta di alcune imprese di affrontare i rischi e le difficoltà insite in un insediamento lontano dai centri del controllo manageriale e il perché dell’intensificarsi di un siffatto fenomeno, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta (Ragazzi, 1973a). Erano essenzialmente tre, allora, gli approcci di riferimento proposti dalle teorie degli investimenti esteri diretti, come ricorda Momigliano (1975), e cioè quello
che faceva leva sulle caratteristiche strutturali dei mercati, ormai dominati da oligopoli, come proponeva Hymer; quello che si rapportava,
secondo l’indicazione di Vernon, al ciclo di vita del prodotto e alla
conseguente diffusione internazionale delle relative tec- nologie (un tentativo di verifica di questa tesi lo si trova in Fubini, 1978); e quello infine di Aliber, che fondava la strategia multinazio- nale su spiegazioni
più legate agli aspetti della gestione puramente fi- nanziaria dell’impresa.
L’ingresso delle multinazionali sulla scena economica internazionale,
se da un lato ha imposto un’ottica nuova nella gestione delle imprese
(Prodi, 1974), dall’altro ha anche imposto di ragionare rispetto ad una dimensione di mercato mondiale e non solo locale (Pellicelli, 1977). Ma le
conseguenze dell’apparizione delle multinazionali non devono essere valutate esclusivamente in termini microeconomici: esse comportavano anche
problemi di compatibilità tra strategie delle imprese in questione e sovranità politica dei singoli stati (Colle e Fornengo, 1974), costretti a difendere, con una politica di regolazione, interessi ad un tempo economici
e sociali (Balcet, Fornengo e Rolfo, 1979).
A partire dagli anni Ottanta le ricerche, come quella di Marzano
(1986) sugli investimenti diretti all’estero e dall’estero hanno assunto
un rilievo notevole nel nostro paese, favorendo anche lo studio dei processi di internazionalizzazione delle imprese italiane (Balcet, 1982). Tali ricerche hanno dovuto far fronte a una situazione iniziale di assoluta carenza e inaffidabilità dei dati statistici disponibili, limitati alle rilevazioni
dell’UIC, poi elaborate dalla Banca d’Italia, sulle uscite di capitali sotto
forma di investimenti diretti (Murolo, 1981). Tutti i progetti in questo
campo si sono quindi dovuti fondare sulla raccolta di dati direttamente
presso le imprese, attraverso questionari, interviste, creazione di banche dati.
Economia internazionale
191
In questo campo è stato rilevante in particolare il ruolo di tre gruppi
di lavoro, costituiti presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma,
il gruppo «Ricerche e Progetti» di Torino e l’OSPRI (dal 1987 ribattezzato CESPRI) dell’Università Bocconi.
Il lavoro del gruppo romano (i cui risultati sono sintetizzati in Acocella, 1985) si è concentrato sulle case-madri e sulle filiali estere di tipo produttivo delle imprese multinazionali italiane operanti nel settore industriale.
I dati sono stati raccolti attraverso un questionario molto dettagliato (che
includeva ad esempio la richiesta di informazioni quantitative sugli utili,
sul costo del lavoro in ogni filiale estera, sui flussi intragruppo). Le risposte
sono state pertanto parziali, anche se indicative di alcune tendenze in atto;
come rileva Guido Carli nell’introduzione al volume sopra citato, la ristrettezza della popolazione censita accresce «l’area di incertezza nell’interpretazione dei dati». In totale sono state rilevate 110 imprese investitrici e 317 consociate estere, relativamente agli anni 1974-1979-1981. A
livello internazionale, il gruppo IAI ha lavorato in collegamento con l’Istituto di ricerca e informazione sulle multinazionali (IRM) di Ginevra.
Diversa è stata la scelta dei gruppi di lavoro «Ricerche e Progetti» e
OSPRI (diretti rispettivamente da S. Mariotti e da F. Onida), che hanno lavorato congiuntamente nell’ambito di un progetto promosso dal CNEL, con il
contributo della Banca d’Italia e di numerose imprese pubbliche e private.
L’indagine (sintetizzata nei volumi RP-OSPRI, 1987) ha analizzato congiuntamente sia le attività produttive all’estero delle imprese italiane (su cui
ha lavorato il gruppo OSPRI), sia le partecipazioni in Italia di imprese estere
(su cui ha lavorato il gruppo Ricerche e Progetti). Tale approccio si è rivelato
particolarmente fruttuoso a livello di approfondimenti settoriali dell’analisi (14
rapporti di settore sono stati pubblicati nel volume citato). Da un punto di
vista metodologico, si è puntato su una copertura la più vasta possibile dell’universo, limitatamente ad alcune variabili chiave: per ogni partecipazione di
natura produttiva, addetti, fatturato, quota di proprietà, anno del primo
investimento, paese di destinazione o di origine. Ne è risultata una bancadati molto ricca, che nel caso delle multinazionali estere in Italia ha compreso 744 investitori e 1203 partecipazioni (praticamente l’intero universo), e
nel caso delle multinazionali italiane, 330 imprese investitrici e 680 partecipazioni estere. Nello stesso tempo le strategie delle imprese sono state analizzate attraverso interviste molto approfondite a un campione vasto e rappresentativo (nel caso degli investitori italiani, 75 imprese su 330 censite).
Un’altra caratteristica degna di nota è l’attenzione dedicata alle nuove
forme cooperative di internazionalizzazione, sotto la duplice spinta pro-
192
Roberto Panizza
veniente, a livello empirico, dalle ricerche promosse dal Development
Center dell’OCSE (a cui per l’Italia ha partecipato I’OSPRI), e — a livello
teorico — dalle riflessioni proposte da Momigliano (membro del comitato
scientifico della ricerca). Questo tipo di problematica (che include lo studio delle joint ventures internazionali e degli accordi cooperativi non equity di
natura produttiva, tecnologica e commerciale) ha trovato sviluppo anche
in successive pubblicazioni (Silva, 1985; Onida e Viesti, 1987; Balcet,
1987a). A livello internazionale, sono da segnalare i rapporti di collaborazione e di scambio stabiliti tra il CESPRI e il Department of Economics
dell’università inglese di Reading. Altre collaborazioni e committenze sono
state istituite con 1’UNCTAD di Ginevra, il CESAG di Strasburgo e il
CEDREI di Buenos Aires, oltre al citato Development Center dell’OCSE.
L’altra problematica affrontata, per quanto riguarda i temi della crescente internazionalizzazione dei sistemi economici, è quella relativa ai
processi di unificazione, soprattutto monetaria, dei paesi della Comunità economica europea: le vicende dei primi anni Settanta avevano evidenziato, come è stato sinteticamente esposto in Padoan (1987), da un lato, la
debolezza economica degli Stati Uniti, cui corrispondeva il mantenimento
di una notevole forza sul piano politico e militare, e dall’altro, la crescente
affermazione delle economie europee, a cui tuttavia non corrispondeva un
equivalente peso politico. Inoltre, la perdita molto forte di valore della
moneta statunitense unitamente alle oscillazioni troppo elevate dei cambi
all’interno della Comunità e all’esistenza di differenziali molto ampi tra i
tassi di inflazione, finivano per minacciare, come ha evidenziato Biasco
(1985), il processo di integrazione perseguito sino ad allora. Tutto ciò aveva reso indilazionabile la ricerca di una più intensa forma di integrazione,
con una disciplina del meccanismo di determinazione del tasso di cambio
migliore rispetto a quella che regolava il «serpente», troppo condizionata
dalla posizione dominante del marco (De Cecco, 1974). Intorno alla moneta tedesca si andava, infatti, formando un’area valutaria, che avrebbe
dovuto facilitare l’utilizzazione della stessa come principale valuta di riserva
accanto a dollaro e sterlina (Izzo, 1982). Negli studi del tempo emergono,
tuttavia, numerose perplessità sulla possibilità di estendere a tutta l’Europa
il modello specifico dell’area del marco. Diversi studi (Bosello, 1975; Praussello, 1979), hanno cercato in quegli anni di approfondire quali avrebbero dovuto essere le caratteristiche di un’area valutaria ottimale per l’Europa, al fine di individuare un modello su cui costruire il futuro sistema
monetario europeo.
Approvato dal Consiglio europeo il 5 dicembre 1978, lo SME entrò
in vigore il 13 marzo 1979, come un accordo di cambio che avrebbe do-
Economia internazionale
193
vuto stabilizzare anche le aspettative circa le future oscillazioni, facilitando in tal modo la convergenza della crescita delle diverse economie europee. Tale accordo avrebbe dovuto essere accompagnato inoltre dalla creazione di una moneta europea, l’Ecu (Colasanti, 1987) e da meccanismi di
credito che ne avrebbero facilitato il funzionamento (Merusi, 1987). Una
eccellente monografia sul sistema monetario europeo e sul meccanismo di
determinazione della parità centrale e delle relative bande di oscillazione è
stata pubblicata — proprio in occasione della sua costituzione — a cura
dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino, banca di- mostratasi, anche negli
anni seguenti, molto attiva nel consolidare il nuovo sistema e nell’individuare forme di utilizzazione privata della moneta europea. Oltre ad organizzare numerosi convegni, i cui atti sono stati pubblicati in successivi numeri della rivista Thema, la banca in questione si rese benemerita iniziando
anche la pubblicazione di una nuova rivista, Ecu newsletter, che ha raccolto
sistematicamente tutte le informazioni relative alla normativa, l’uso e la
diffusione dell’Ecu, nei suoi impieghi sia pubblici che privati.
Uno dei primi problemi che si sono posti immediatamente dopo la costituzione dello SME è stato quello di capire quale fosse il collegamento
tra quest’ultimo e il sistema monetario internazionale, in particolare quale fosse l’incidenza che le oscillazioni del dollaro avrebbero avuto sul
valore delle valute comunitarie (Micossi e Padoa Schioppa, 1985). A
questo proposito Giavazzi e Giovannini (1985) hanno evidenziato come
il comportamento di queste ultime rispetto al dollaro fosse asimmetrico,
con la lira più propensa, al contrario del marco, a seguire l’andamento del
dollaro, mentre Basevi, Calzolari e Colombo (1983) hanno sottolineato
la centralità, per un corretto funzionamento dello SME, della politica economica e monetaria tedesca, condizionata solo marginalmente dal rispetto dei nuovi accordi e molto più preoccupata di difendere l’autonomia dei propri interventi nei confronti della moneta statunitense.
Proprio su questi temi studiosi italiani, come Micossi (1985), Padoa
Schioppa (1986), Giavazzi e Pagano (1986) sono stati tra i più convinti
sostenitori della natura piramidale del meccanismo dello SME, al cui vertice va collocata la definizione del rapporto di cambio marco-dollaro, a
sua volta condizionato dalla politica monetaria delle autorità tedesche in
grado di orientare le scelte della base, rappresentata dagli altri paesi
membri all’interno dello SME. Questa base si può poi distinguere, come è
stato suggerito da Basevi e Calzolari (1982) in paesi «lealisti» che seguono
docilmente le decisioni della Germania e paesi «indisciplinati», rappresentati in particolare da Italia e Francia, che difendono una maggiore autonomia di decisione.
194
Roberto Panizza
Nelle attese di coloro che hanno contribuito a varare il nuovo ordinamento c’era, come si diceva, la speranza di costruire un’area valutaria
(Onida, 1972), caratterizzata da mobilità dei fattori, integrazione finanziaria, elevato grado di apertura verso l’interno della Comunità: a rallentare questo processo di integrazione intervennero, tuttavia, come
hanno esaurientemente illustrato Martinengo e Padoan (1981; 1983) tutta
una serie di ostacoli rappresentati essenzialmente dalla mancanza di una
politica comune nei confronti del dollaro, dalla non definizione dei rapporti tra valute forti e valute deboli e, infine, dal permanere di differenziali molto elevati dei tassi di inflazione infracomunitari. In particolare, tra Nord e Sud della CEE, accanto a processi di integrazione, si
sono manifestati certi elementi di divergenza che hanno originato conflitti (Querini, 1983).
Ciononostante non si può disconoscere allo SME tutta una serie di
meriti, come la bassa variabilità dei tassi di cambio bilaterali tra le
monete appartenenti al sistema rispetto a quella delle altre monete, la
più elevata stabilità (in termini relativi) del tasso di cambio dell’Ecu e
la maggior costanza dei rispettivi tassi di interesse evidenziate da
Hamaui (1984). Per questo, al fine di incentivare l’uso dell’Ecu, sono
state formulate varie proposte, tra le quali ha suscitato notevole interesse quella avanzata da R. Masera (1986a), secondo il quale occorre.
estendere alle banche centrali la pratica di un uso più intenso dell’Ecu
privato; tale proposta, che stimolerebbe tra l’altro una più stretta interconnessione tra i due circuiti dell’Ecu, quello privato e quello ufficiale, consiste nel consentire alle banche centrali di acquistare dalle
banche commerciali Ecu privati da utilizzarsi per interventi ufficiali
sui mercati dei cambi. A garantire la trasformazione degli Ecu privati
in Ecu ufficiali contribuirebbe, nella proposta di Masera, la Banca europea degli investimenti (BRI), che dovrebbe svolgere la funzione di
stanza di compensazione multilaterale di tutte le operazioni in Ecu:
qualora una banca centrale desiderasse ottenere Ecu privati da una banca
commerciale, dovrebbe versare su un conto presso la BRI, intestato
alla banca commerciale, la somma equivalente agli Ecu richiesti. In seguito, la banca centrale potrebbe utilizzare questi ultimi come Ecu ufficiali, per interventi sul mercato dei cambi, mentre la banca commerciale
potrebbe impiegare liberamente il proprio attivo presso la BRI. L’impiego
di Ecu ufficiali non eccederebbe in tal modo l’ammontare effettivamente
esistente di Ecu, mentre le banche commerciali potrebbero attingere a
conti in Ecu presso le autorità monetarie europee, nella fattispecie la
BRI, con importanti conseguenze per la crescita e il consolidamento
del mercato dell’Ecu.
Economia internazionale
195
Al di là di questi espedienti tecnici, le future trasformazioni dei mercati finanziari derivanti da una crescente integrazione e da una maggiore internazionalizzazione dei movimenti di capitali (Dini, 1986), comporteranno un
radicale potenziamento dello SME a cui dovrebbe corrispondere come
ha osservato anche R. Masera (1987) — una progressiva perdita, da
parte dei singoli paesi, della propria autonomia monetaria.
Il processo di unificazione monetaria può essere conseguito soltanto attraverso una progressiva armonizzazione delle normative, dei sistemi giuridico-amministrativi, dei controlli di vigilanza e delle politiche monetarie dei singoli paesi (R. Masera e Triffin, 1984); occorre,
inoltre, operare perché si formi un unico mercato dei capitali al cui interno le operazioni in Ecu ricuperino, come auspica Velo (1985), un
ruolo crescente. Questo, tra l’altro, consentirebbe a un siffatto mercato di porsi in alternativa a quello dell’eurodollaro, la cui crescita eccessiva e incontrollata grava sempre più in termini minacciosi sulla stabilità dell’economia europea (R. Masera, 1986a).
D’altra parte la ridefinizione dello SME è una delle fasi propedeutiche
per il rilancio della Comunità economica europea verso una totale integrazione, come è stato evidenziato dal rapporto redatto per la Comunità da
un gruppo di economisti coordinato da Tommaso Padoa Schioppa
(1987), al fine di individuare gli ostacoli che ancora si frappongono alla
completa unificazione del grande mercato interno del 1992. Dopo aver evidenziato la responsabilità primaria delle autorità monetarie — soprattutto
in seguito alla completa liberalizzazione dei movimenti di capitale che ridurrà le rispettive autonomie nella gestione della politica monetaria — il rapporto sottolinea la necessità di incentivare una allocazione ottimale delle
risorse all’interno dell’area, attraverso il rafforzamento del potere della
Comunità in tema di redistribuzione. Inoltre la crescente eterogeneità
dei paesi membri impone il perseguimento di obiettivi concordati di stabilizzazione delle rispettive economie, anche se ciò implica la rinuncia
parziale alle singole sovranità nazionali (Bíni Smaghi e Vona, 1986).
Gli studi sull’unione economica europea si sono poi spinti ad esaminare le
relazioni tra quest’area e il resto del mondo: è stato studiato per esempio l’impatto di un eventuale allargamento della CEE sul commercio internazionale
(P. Alessandrini e G. Conti, 1981), o sull’area del Mediterraneo (Gaetani
d’Aragona, 1987; Querini e Raganati, 1987). Sono altresì stati studiati i
riflessi del processo di integrazione in Europa sulle economie latinoamericane (Sideri, 1983) e del Terzo Mondo (Montani, 1979).
Parallelamente al processo di integrazione dell’economia europea sono
state studiate le diverse implicazioni di quella tendenza alla globalizza-
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Roberto Panizza
zione dell’economia mondiale conseguente al sorgere di nuovi mercati
— soprattutto nelle aree che un tempo erano meno sviluppate sul
piano mondiale (Parboni, 1985b) – all’interazione tra i singoli sistemi
produttivi nazionali generati da processi di innovazione tecnologica
(Momigliano, 1983) e, infine, alla crescente internazionalizzazione dei
mercati finanziari, conseguente ai processi di innovazione dei prodotti
offerti e degli strumenti utilizzati (Szëgo e Sarmant, 1979).
Misurando, sulla base del rapporto tra esportazioni e importazioni rispetto al prodotto industriale, il grado di integrazione commerciale e
quindi di interdipendenza tra i diversi paesi, Onida (1984b) ha constatato
che, a partire dalla metà degli anni Settanta, esso è cresciuto in continuazione, soprattutto all’interno della Comunità economica europea e tra i
paesi industriali. L’evento che ha innescato questo cambiamento è stato
il cosiddetto shock petrolifero che ha modificato radicalmente le strutture della domanda mondiale, con una fortissima redistribuzione a cui i
paesi comunitari, gli Stati Uniti e il Giappone hanno risposto con le loro
esportazioni. A questa crescente integrazione del commercio mondiale
le più importanti imprese produttrici dei vari paesi hanno risposto internazionalizzandosi (Vaccà, 1983), assumendo cioè, attraverso alleanze
con altre imprese, un orizzonte globale a cui riferirsi sia per l’approvvigionamento di materie prime, forniture e tecnologie, sia per l’individuazione di sbocchi per il prodotto finale. Questo profondo cambiamento
è stato oggetto di molteplici studi da parte degli economisti industriali:
agli inizi degli anni Sessanta lo sviluppo multinazionale dell’impresa si
identificò prevalentemente con una espansione dimensionale delle stesse (Fornengo, 1974); oggi l’accresciuta dimensione delle imprese non è
più il fine che ne consente la crescita a livello mondiale. Per internazionalizzarsi l’impresa deve ricercare collaborazioni e alleanze a livello
mondiale su uno stesso progetto, favorita dalla facilità con cui le nuove
tecnologie assicurano lo scambio immediato di informazioni complesse
e la costruzione di una rete internazionale (Antonelli, 1984), che consentono di cooperare ad un progetto comune pur conservando ciascuna
la propria autonomia decisionale (Vaccà, 1986).
Sempre in tema di internazionalizzazione affrontiamo, per concludere,
l’ultimo argomento che è stato oggetto di discussione da parte degli studiosi italiani, quello della cooperazione allo sviluppo delle economie più arretrate, che ha visto, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, l’intensificarsi degli sforzi per accrescere la massa di aiuti dell’Italia verso il Terzo Mondo.
Proprio la politica dell’aiuto finalizzata alla soluzione dei problemi dello sviluppo ha costituito oggetto di dibattito nel nostro paese, come nel resto del
mondo, soprattutto nei confronti di coloro che sostengono, invece, l’esclu-
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siva necessità di creare nelle economie arretrate condizioni economiche
tali da generare flussi commerciali (D’Angelo, 1981). È vero che nel nostro paese l’aiuto pubblico allo sviluppo si è manifestato essenzialmente
con interventi di cooperazione: tuttavia le motivazioni che presiedono
alla politica di cooperazione sono troppo spesso di carattere puramente
commerciale, come ha evidenziato S. Alessandrini (1984). Il prevalere
degli interessi del paese donatore fa sì che la procedura seguita faccia
sempre meno ricorso all’accordo multilaterale e sempre più a quello bilaterale, dati i vantaggi di carattere «mercantile» che proprio dalla cooperazione possono derivare, in primo luogo, per il paese donatore.
Con questa panoramica sulle interpretazioni che gli economisti italiani hanno dato ai processi di internazionalizzazione si conclude l’analisi
dei principali studi di carattere descrittivo: tale rassegna non ha evidenziato tra i diversi autori visioni radicalmente antitetiche o elementi di particolare contrasto. Da questi studi descrittivi di economia internazionale
non sono, infatti, emerse quelle divisioni che caratterizzano, invece, il dibattito tra i teorici dell’economia internazionale, che costituisce oggetto
di studio del prossimo capitolo.
8. Contributi alla teoria pura del commercio internazionale
Passando ora ad analizzare i contributi degli autori italiani nel campo
degli studi di carattere analitico sulla teoria pura del commercio internazionale, dobbiamo ammettere che, nel complesso, essi appaiono sostanzialmente marginali rispetto ai più recenti sviluppi teorici, se si escludono i
tentativi condotti per estendere anche a questo filone di ricerca la critica sraffiana alla teoria neoclassica del valore e della distribuzione. Nessun
apporto originale è stato dato né sul tema della individuazione delle
cause che determinano il contenuto merceologico dello scambio, né
sulla questione relativa ai vantaggi che i paesi ottengono dalla specializzazione e quindi dallo scambio internazionale. Fatta salva qualche ricerca
compilativa — che esamineremo in seguito — gli studi di autori italiani
non hanno contribuito all’approfondimento dei tre grandi filoni di
pensiero che storicamente hanno cercato di spiegare le determinanti
del commercio estero e della specializzazione internazionale, e cioè la
teoria classica di Torrens-Ricardo che evidenzia l’importanza delle diversità tecnologiche, quella di Heckscher-Ohlin che pone in rilievo il
ruolo svolto dalla diversa dotazione dei fattori produttivi, ed infine, quella
neoclassica, che considera lo scambio internazionale puramente in termini di modelli di domanda-offerta.
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Roberto Panizza
In particolare, il contributo degli autori italiani negli ultimi due decenni si è estrinsecato principalmente in una serie di rassegne, a scopo
soprattutto didattico (Gandolfo, 1986; Onida, 1984a) che hanno avuto
il pregio di migliorare, in molti casi, la formalizzazione di alcuni modelli. Sempre in tema di rassegne, si rimanda a quella, molto completa,
redatta da Maggiore (1974) sul problema specifico dell’estensione della
teoria di Heckscher-Ohlin — secondo cui un paese prima produce, raggiungendo livelli di notevole specializzazione, e poi esporta, quei beni
nella cui produzione sono impiegati in misura intensiva i fattori produttivi abbondanti nel paese — e del suo corollario, relativo al pareggiamento del prezzo dei fattori. Tale teoria, comunemente identificata come
«ortodossa», è stata recentemente sottoposta ad alcuni raffinamenti soprattutto ad opera di autori stranieri che hanno studiato le conseguenze
che derivano dall’ipotizzare economie di scala, costi di trasporto, beni
intermedi o mobilità internazionale dei fattori. Un altro recente tentativo di approfondimento della teoria neoclassica, quello di introdurre,
accanto ai due beni tradizionalmente considerati, una terza categoria
di beni, quella definita — a causa dei costi di trasporto eccessivi, dei
dazi proibitivi e degli embarghi — dei beni non commerciati, è stato, invece, criticato a fondo da Padoan (1977), che ha contestato il concetto
stesso di non commerciabilità.
Sempre in tema dei limiti dei modelli incentrati sulla dotazione dei
fattori, Gandolfo (1977) ha specificato le condizioni matematiche che
rendono possibile la inversione delle intensità fattoriali all’interno dei
diversi settori produttivi: la mancanza di queste condizioni, da cui dipende la dimostrazione del teorema di specializzazione produttiva legata alla dotazione di risorse, ha rimesso in discussione tutta la struttura del modello più solitamente utilizzato di commercio internazionale,
quello appunto di Heckscher-Ohlin.
Ci sono poi stati due tentativi di verifica empirica, per il nostro paese,
del paradosso di Leontief che, com’è noto, ha dimostrato, smentendo
la tesi del teorema di Heckscher-Ohlin, che gli Stati Uniti esportano
di fatto quei beni nella cui produzione non sono impiegati in maniera
intensiva i fattori produttivi abbondanti nel paese. La prima ricerca empirica, condotta in questa direzione, è stata quella di D’Antonio (1970)
che nei dati relativi al periodo 1959-65 trovò evidenza, anche per l’Italia, del paradosso in questione, data la relativa intensità di capitale
nelle esportazioni italiane: la spiegazione avanzata per giustificare il presunto paradosso si fonda sulle forti spinte salariali che avrebbero interessato i settori orientati all’esportazione e sulle specifiche caratteristiche
della domanda estera verso i prodotti italiani. Il secondo tentativo di
Economia internazionale
199
verifica di questa tesi è stato quello di Pola (1971), il quale ha cercato
di evidenziare come il fenomeno sia stato particolarmente intenso relativamente ai flussi commerciali indirizzati verso paesi comunitari, mentre
sia stato irrilevante nel caso dei flussi extracomunitari o quando vengano eliminati i flussi relativi all’agricoltura e ai settori estrattivi.
La critica alla teoria tradizionale non si è limitata, tuttavia, alla verifica del paradosso di Leontief: Momigliano e Dosi (1983) hanno evidenziato i cambiamenti strutturali e del sistema produttivo verificatisi
nel corso degli anni Settanta, che hanno reso inadeguate le tradizionali
tesi esplicative dello scambio internazionale. Furono tali cambiamenti
che stimolarono due filoni originali di ricerca: il primo mirava a integrare la classica teoria delle dotazioni fattoriali con un ulteriore fattore,
quello relativo alla capacità del sistema industriale di un dato paese ad
innovare la tecnologia produttiva; come hanno evidenziato G. Conti
(1975) e Onida (1978), nei loro tentativi di integrare con elementi nuovi
— come la tecnologia — la tradizionale teoria neoclassica, l’ipotesi esplicativa più plausibile del commercio internazionale sarebbe la relazione
che lega tecnologia e funzioni di produzione e che conduce all’innovazione sia di processo che di prodotto. La competitività internazionale
di siffatti prodotti si manterrebbe fintantoché non diminuisce la capacità di innovazione del sistema produttivo: quando questo si verifica,
la concorrenzialità di un prodotto sui mercati internazionali tornerebbe
a fondarsi soltanto più sui differenziali tra i prezzi (Momigliano, 1985).
A sua volta Antonelli (1986) ha ulteriormente specificato il concetto del
ruolo svolto dalla capacità ad innovare di un paese rispetto alla crescita
della sua competitività sui mercati internazionali e dei flussi di esportazioni: ciò che conta infatti non è tanto la capacità ad innovare — misurata da una molteplicità di indicatori di intensità tecnologica, come le
spese in ricerca e sviluppo o il numero di brevetti registrati — ma piuttosto il grado di diffusione dell’innovazione, e cioè la capacità di adottare tempestivamente e diffusamente nuove tecnologie, nuovi processi
e nuovi beni intermedi.
Il secondo filone di ricerca che origina dal processo di revisione della
teoria neoclassica conduce ad una molteplicità di modelli di specializzazione internazionale, che differiscono sostanzialmente dalla teoria tradizionale: tale tendenza si è così accentuata negli ultimi due decenni da
indurre Momigliano a parlare di una forte «frantumazione delle teorie
esplicative» a fronte di forti spinte alla «frarnmentazione polarizzata del
commercio internazionale», evidenziata — tra gli altri — anche negli
studi condotti da Sacco (1980). Si sono pertanto individuate per lo meno
tre categorie di beni che rispondono rispettivamente alle conclusioni di
200
Roberto Panizza
tre teorie molto diverse tra loro: i beni appartenenti ai settori che impiegano intensamente capitale e lavoro non specializzato, che risponderebbero al modello di Heckscher-Ohlin; i prodotti ricchi di risorse naturali, il cui commercio internazionale sarebbe regolato dal teorema ricardiano; e, infine, i beni appartenenti ai settori ad alta tecnologia e
ad elevato contenuto di ricerca scientifica, che si adatterebbero meglio
alle teorie più recenti.
Rassegne complete di queste nuove teorie del commercio internazionale, che hanno avuto origine in seguito all’inadeguatezza del modello
di Heckscher-Ohlin a spiegare certe tendenze degli ultimi decenni, sono
state quelle redatte da Roccas (1977) e Gandolfo (1985a). Tuttavia,
di fronte al proliferare di formulazioni alternative miranti a incorporare
aspetti rilevanti della realtà, come per esempio la teoria del ciclo del prodotto — secondo la quale sarebbe possibile individuare diverse fasi nella
vita economica di un bene, da quella della nascita a quella della completa standardizzazione — la posizione degli studiosi italiani è stata
molto critica, nel senso che diversi studi, tra i quali Onida (1978), hanno
cercato di chiarire le difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca
di specificare alcuni concetti della teoria in questione, come quello di
prodotto «nuovo» o «maturo» per beni che rientrano, in base alle classificazioni internazionali, nella stessa categoria merceologica. Rispetto
alle teorie che evidenziano, come quella di Linder o di Barker, il ruolo
del mercato nazionale come elemento che spiega la capacità di esportare
ricordiamo un vecchio ma importante contributo, quello di Basevi (1970),
che sembra invece concordare con tale tesi: in esso si spiega formalmente
come il livello della domanda interna condizioni la crescita di un’industria di esportazione. Basevi dimostra, infatti, che anche quando il prezzo
internazionale non consentirebbe di coprire i costi — a causa di diversi
oneri aggiuntivi tra i quali le spese di trasporto — il produttore ha non
di meno convenienza ad esportare, quando può contemporaneamente
soddisfare un mercato interno nel quale gode di una condizione di concorrenza imperfetta: le economie di scala che riesce in questo modo a
conseguire gli consentono infatti di ridurre notevolmente il costo unitario. Anche la tesi opposta può essere dimostrata in modo analogo, e
cioè che in date circostanze soltanto la possibilità di accesso ad un mercato internazionale consente di produrre in modo profittevole per il mercato interno.
L’approfondimento delle cause che spiegano la diffusione, a partire
dal formarsi delle unioni doganali, in particolare del Mercato comune,
del commercio orizzontale, cioè dello scambio di prodotti che nella sostanza e nelle caratteristiche esteriori sono del tutto eguali, è stato fatto
Economia internazionale
201
nel nostro paese da Aquino (1978), Vona (1979), Camagni (1981) e Bosello (1981), che hanno cercato di spiegare questi fenomeni di despecializzazione nei flussi commerciali mondiali. In particolare, Vona ha ripreso il modello di Grey, che ipotizza il conseguimento di economie di
scala dal lato dell’offerta, e mercati imperfettamente concorrenziali dal
lato della domanda, mentre Camagni ha proposto un modello puramente
stocastico, per giustificare razionalmente il commercio intra-industriale
e i vantaggi in termini di benessere che ne deriverebbero: la probabilità, infatti, che la struttura della domanda dei consumatori di diversi
paesi sia identica è tanto più alta quanto più simili sono i rispettivi redditi pro-capite, mentre la probabilità che il commercio orizzontale sia
molto diffuso è tanto più elevata quanto più i prodotti sono diversificati e sono presenti economie di scala per le singole varietà di prodotto.
Bosello, infine, ha legato la diffusione delle forme di commercio orizzontale alla nuova divisione internazionale del lavoro, che si è andata
affermando negli ultimi decenni.
Sempre in tema di imperfezioni dei mercati internazionali gli autori
italiani hanno mostrato poca propensione ad affrontare il dibattito sul
contemporaneo formarsi di una pluralità di prezzi, per uno stesso bene
omogeneo e tradable (commerciato) su piazze commerciali diverse. Tale
condizione, suffragata dall’evidenza empirica, finirebbe per smentire la
legge in base alla quale esisterebbe un unico prezzo, a livello internazionale, per ciascun bene omogeneo o commerciabile. Nella ricerca di Giovannetti (1987) si cerca di dimostrare l’esistenza di elementi che giustifichino il formarsi e il permanere di una molteplicità di prezzi per le
stesse classi di beni: uno, di questi è rappresentato dalla impossibilità
di un regolare svolgimento delle operazioni di arbitraggio che assicurano,
a livello teorico, la dimostrazione della legge del prezzo unico. Ciò che
limita l’attività degli «arbitraggisti» è la crescente incertezza sui valori
effettivi dei prezzi espressi in valuta, che condiziona il comportamento
degli operatori e i cui effetti sui commerci internazionali sono stati evidenziati anche da Casprini (1979). Inoltre, in un contesto in cui i segnali che provengono alle imprese sono poco precisi ed inattendibili, diviene estremamente difficile prendere delle decisioni: in ogni caso il contesto analitico di riferimento continua ad essere quello della concorrenza
imperfetta e non più quello dei mercati perfettamente concorrenziali che
erano alla base dei più noti modelli della teoria pura del commercio internazionale. Le imprese che operano sui mercati mondiali cessano,
dunque, di accettare il prezzo come un dato (price taker) e cercano, invece, di imporre al mercato un proprio prezzo (price maker), pur non
operando in condizioni di monopolio (Biasco, 1986).
202
Roberto Panizza
L’inadeguatezza della teoria tradizionale si è resa ancora più manifesta quando si è cercato di specificarne gli aspetti dinamici o di calcolare l’impatto dello sviluppo economico sugli andamenti del commercio
internazionale: anche in questo caso disponiamo soltanto di alcune rassegne come quella originale di Martinengo (1972) che esamina in sede
teorica i possibili effetti del progresso tecnico, nelle sue varie definizioni,
sull’andamento dei flussi di import-export, o quella di Franco e Gerosa
(1980), che non a caso risulta esclusivamente composta da traduzioni
di testi di autori stranieri.
L’unico settore di studio relativo al commercio internazionale in cui
si sono avuti contributi originali da parte di studiosi italiani è stato quello
della critica alle ipotesi del modello di Heckscher-Ohlin, considerato come
l’espressione più tipica della teoria neoclassica: essi si sono fondati sullo
sforzo di estendere ai modelli di scambio internazionale la critica più
radicale alle impostazioni neoclassiche, sulla base della impossibilità di
misurare, in un sistema economico, il valore dell’aggregato «capitale»,
a prescindere dalla distribuzione del reddito. Questa critica — mossa,
com’è noto, alla teoria neoclassica del valore e della distribuzione dell’analisi di Sraff a — è stata ricuperata negli studi sul commercio internazionale da autori stranieri come Steedman e Metcalfe, in Italia, da
Parrinello (1970; 1973). Egli ha evidenziato come i problemi sorgano
ogni qualvolta non si consideri nel modello di Heckscher-Ohlin il capitale come un unico bene fisicamente omogeneo e riproducibile, ma lo
si ipotizzi come un insieme di diversi beni, fisicamente eterogenei: in
questo caso, infatti, non è possibile misurare il capitale indipendentemente dalla distribuzione e quindi diventa anche impossibile definire
concetti come intensità fattoriale, dotazioni relative di fattori e pareggiamento del loro prezzo. Dato che l’apparato analitico a cui si riferiscono questi autori fa riferimento essenzialmente alla teoria di David
Ricardo, questi contributi sono stati definiti come «neoricardiani».
Esaurito l’esame dei contributi originali di autori italiani alla teoria
pura del commercio internazionale, dobbiamo affrontare un ultimo
aspetto correlato al tema in questione e cioè la «teoria della politica commerciale», che studia gli effetti sugli scambi tra paese e paese di interventi protezionistici, come l’introduzione di dazi, contingentamenti o
barriere non tariffarie. Gli studi di carattere generale, come quelli di
Colornbatto (1984c) e Grilli (1984), evidenziano le trasformazioni che
storicamente ha subito la politica del protezionismo, con conseguenti
condizionamenti anche sugli sviluppi teorici. In particolare, Grilli ricorda
come per analizzare il neoprotezionismo si sia fatto ricorso ad un modello di «mercato politico della protezione», che teorizza lo scadimento
Economia internazionale
203
dell’efficacia operativa del mercato, al cui interno i flussi di scambi commerciali sarebbero regolamentati e amministrati da accordi volontari tra
paesi, per una concordata limitazione dell’attività commerciale. Tali accordi, molto più pericolosi delle cosiddette barriere non tariffarie — studiate da Milone (1974) e ormai oggetto di esame critico da parte degli
esperti del GATT, in vista di una loro futura rimozione — vengono sottoscritti con grande frequenza, nonostante il formale «ripudio nominalistico» delle autorità rispetto a qualsiasi intervento che riduca il grado
di efficienza del mercato concorrenziale.
Sempre in tema di osservazioni di carattere generale, Caffé (1985)
ritiene altrettanto pericoloso del protezionismo il modello di sviluppo
industriale trainato dalle esportazioni, con le aggressive politiche commerciali e la penalizzazione nei confronti della domanda interna, che
esso comporta. Gli interventi di difesa introdotti con queste politiche
da parte dei paesi più deboli, che perseguono invece una politica di valorizzazione della propria domanda interna, non possono non rivestire
caratteri protezionistici: occorre però distinguere tra questo tipo di protezione — da sempre oggetto di condanne aprioristiche — e le forme
molto più sofisticate di protezionismo attuate dai paesi già in posizione
egemone nell’attività commerciale internazionale, che invece sfuggirebbero alle critiche dei tutori dell’ideologia del libero scambio. Occorre
invece, sempre secondo Caffé, favorire il diffondersi di un modello di
crescita non tanto incentrato sull’anacronistica competitività verso l’esterno, quanto piuttosto orientato a conseguire una maggiore efficienza
organizzativa interna, che ben si concilia, in molti casi, con la possibilità di far ricorso a temporanee misure di protezione.
Studi di carattere più specifico sono stati indirizzati su temi come la
distinzione, a livello teorico, di due strumenti tipici del protezionismo
come dazi e sussidi (Tagliabue, 1983), l’uso di politiche commerciali intermedie tra internazionalizzazione e protezionismo (Secchi, 1984a), o
il ricorso a forme di protezionismo valutario (Bruni e Monti, 1986).
Occorre, infine, ricordare — a conclusione di questa sezione dedicata
agli approfondimenti teorici delle problematiche del commercio internazionale e delle sue limitazioni — l’ottima ricerca quantitativa di Grilli
e La Noce (1983) sulla politica protezionistica dell’Italia: l’analisi è stata
condotta su due piani, quello del tasso di protezione tariffaria, stabilito
a livello comunitario, e quello del tasso di protezione interno, introdotto
a livello nazionale attraverso politiche di assistenza e incentivazione.
Questo secondo aspetto della protezione, più di natura endogena, sembra
fortemente correlato con l’intensità di impiego del lavoro nei processi
di produzione e con la localizzazione nelle regioni meno sviluppate del
204
Roberto Panizza
Sud. Il risultato finale di queste politiche è che il tasso effettivo di protezione finisce quasi sempre (nel caso dell’Italia in 23 settori industriali
su 35) per essere più elevato di quello nominale, a riprova della esistenza
di una fascia molto alta di protezione, che lungi dall’essere una specificità dell’economia italiana, caratterizza quasi tutti i sistemi più industrializzati, arrecando gravi pregiudizi alla crescita degli scambi.
9. Contributi alla teoria monetaria dello scambio internazionale
All’interno della più vasta ripartizione degli studi di economia internazionale tra aspetti reali e aspetti monetari, questi ultimi sono prevalentemente rivolti o all’approfondimento del dibattito sui meccanismi
di riequilibrio della bilancia dei pagamenti, o alle discussioni relative alla
determinazione del tasso di cambio. Esamineremo separatamente queste
due tematiche, iniziando dalla prima.
Le due scuole che si confrontano sul tema della definizione della bilancia dei pagamenti e dei processi di riaggiustamento sono, come accade abitualmente anche in altri ambiti della scienza economica, quella
neoclassica e quella keynesiana. La prima evidenzia il ruolo essenziale
svolto dal sistema dei prezzi nel modificare i flussi commerciali e sottolinea, quindi, la priorità dell’uso di strumenti come la variazione del tasso
di cambio — attraverso svalutazioni o rivalutazioni, che modificherebbero i volumi dell’import e dell’export — o del tasso di interesse, che
condizionerebbe i movimenti di capitale. L’impostazione keynesiana privilegia, invece, le letture in termini di reddito, legando i saldi della bilancia dei pagamenti agli squilibri macroeconomici tra prodotto nazionale e domanda interna ed estera. Una sintesi completa delle differenze
che caratterizzano le due scuole, anche nei confronti dell’approccio monetarista, la si trova in Montesano (1975).
Rispetto a questo quadro che evidenzia profonde divergenze, il contributo degli autori italiani si è distinto innanzitutto a livello di esame
della struttura della bilancia dei pagamenti. A questo proposito guide
alla lettura sono state redatte da Forte e Scacciati (1980) e da Roccas
e Santini (1979). Questi ultimi hanno sottolineato una sostanziale distinzione tra partite correnti e movimenti di capitali: mentre le entrate
e le uscite registrate nelle partite correnti rappresentano flussi generati da
altre grandezze di flusso — come la domanda corrente o la produzione
— le stesse voci, registrate nella bilancia dei capitali, indicano anch’esse
movimenti di flussi, ma che dipendono, tuttavia, da squilibri generati
sui mercati degli stock di attività esistenti, come l’ammontare totale di
Economia internazionale
205
moneta o di titoli nazionali ed esteri. Per l’approfondimento di queste
relazioni fra bilancia dei pagamenti e principali aggregati macroeconomici si rimanda, inoltre, a Cristini (1973), che ha studiato in particolare
quella componente della base monetaria che nasce dal saldo dei conti
con l’estero e i conseguenti problemi del controllo della stessa, nei
principali paesi industrializzati. Un esame della peculiare struttura del
documento italiano lo si trova infine, in Basevi e Soci (1978), mentre
la Banca d’Italia ha affidato a Biagioli, Chiesa, Gomel e Palmisani
(1982) la formulazione di un modello operativo per l’analisi a breve
termine della bilancia dei pagamenti.
Passando, ora, ad esaminare il dibattito teorico sui meccanismi di riequilibrio della bilancia dei pagamenti, l’ottica classica è stata esposta da
Candela (1973). Il problema oggetto di studio è quello di cogliere le
condizioni che assicurano un miglioramento della bilancia dei pagamenti
attraverso l’impiego di strumenti che operino unicamente sui prezzi, come il
ricorso a variazioni del tasso di cambio o a politiche deflazionistiche. L’efficacia di tali interventi è legata all’esistenza di sufficienti livelli di elasticità sia dell’import che dell’export (condizione delle elasticità critiche), e
quindi all’esistenza di un certo grado di disoccupazione e di un certo
ammontare di risorse inutilizzate, all’interno dell’economia. Un secondo
assunto dell’approccio delle elasticità è quello in base al quale i prezzi
originali, sia interni che esteri — nelle rispettive valute — non si modificherebbero a causa di una variazione delle parità, mentre ciò che deve variare in seguito alla svalutazione sarebbero solo i prezzi dopo la conversione, fatta sulla base del nuovo tasso di cambio: questo presuppone, però, una elevata differenziazione delle produzioni di ogni paese, che è la
condizione tipica di un regime di mercato di concorrenza imperfetta.
In un’ottica più propriamente keynesiana, Gandolfo (1970; 1977)
ha esaminato le relazioni che legano i processi di aggiustamento della
bilancia dei pagamenti con l’equilibrio macroeconomico, sia reale che
monetario: esse vengono analizzate in un regime sia di cambi fissi, che
di cambi flessibili, al cui interno operano i meccanismi del moltiplicatore del reddito di mercato aperto. Secondo questo approccio, le variabili
che riportano in equilibrio la bilancia dei pagamenti non sono i prezzi —
come ritengono i neoclassici — e, di conseguenza, neppure i tassi di
cambio, ma la capacità di assorbimento di un paese rispetto al suo potenziale produttivo, oltre alle propensioni al consumo, all’investimento,
all’importazione che, come è noto, incidono sull’ampiezza dei moltiplicatori, sulla crescita del sistema e sugli squilibri dei conti con l’estero. La
conclusione a cui giunge Gandolfo è critica nei confronti del preteso po-
206
Roberto Panizza
tere isolante e della capacità automatica di riequilibrio della bilancia dei
pagamenti che sarebbero propri di un sistema di tassi di cambio flessibili, sia perché il loro adeguamento non è detto che avvenga contestualmente, sia perché — anche ammesso che ciò si verifichi — é molto probabile che si manifestino delle modificazioni nel totale della domanda
aggregata che invaliderebbero la soluzione, sia, infine, perché occorre
considerare nel saldo della bilancia dei pagamenti anche i movimenti di
capitale, speculativi e non, che contribuirebbero a rendere più difficile il
conseguimento dell’equilibrio.
L’approccio che ha seguito Tullio (1979) è invece quello di stretta ispirazione monetarista: a differenza dall’analisi keynesiana, questa teoria sottolinea l’importanza dell’equilibrio dei mercati monetari e finanziari per determinare le fluttuazioni della bilancia dei pagamenti. Partendo dall’ipotesi, a
nostro avviso molto riduttiva, che l’offerta di moneta si traduca — più o
meno direttamente — in domanda di beni, e che questa possa essere soddisfatta sia sul mercato interno che su quelli esteri, Tullio conclude affermando che il disavanzo nei conti con l’estero dipende esclusivamente dagli
squilibri in eccesso tra stock di moneta detenuta dai consumatori e stock di
moneta desiderata. Per giungere a tale conclusione occorre, come ricordano Jossa e Torrisi (1981), formulare una serie di ipotesi molto restrittive,
che sono quelle proprie della visione abbastanza riduttiva della teoria rnonetarista: l’esistenza di una domanda di moneta, funzione stabile di un numero non elevato di variabili; il funzionamento di un meccanismo di arbitraggio sui mercati reali, che tenda ad eguagliare i prezzi dei beni nei vari
paesi; ed infine, la totale esogeneità e quindi rnanovrabilità da parte delle
autorità monetarie, del- l’offerta di moneta. Partendo da questa impostazione Tullio sviluppa due modelli teorici di medio-lungo periodo della bilancia
dei pagamenti: il primo è un modello semplificato (stimato anche per gli
Stati Uniti), a due aree monetarie, che consente di ricavare una equazione di
bilancia dei pagamenti per un paese che emette moneta di riserva, e di studiare successivamente l’impatto, sulla stessa, della politica monetaria; il secondo è un modello teorico di medio-lungo periodo per un paese «piccolo»
(l’Italia), che consente di misurare l’effetto sia corrente che sfasato degli squilibri del mercato monetario sulla bilancia dei pagamenti. Quest’analisi della bilancia dei pagamenti come fenomeno puramente monetario da esaminarsi, quindi, in termini di aggiustamento di stock di
moneta esistente e desiderata, giunge alla conclusione che gli effetti di
una svalutazione sono puramente transitori rispetto al miglioramento del
saldo dei conti con l’estero, smentendo in questo modo le conclusioni
degli approcci classico e neoclassico che parlavano, invece, di effetti
Economia internazionale
207
duraturi di una variazione dei prezzi generata dall’adeguamento del tasso
di cambio.
La ragione di questa netta differenza di risultati, come ha chiarito
Gandolfo (1986, vol. 2, p. 241), è la completa diversità dello schema
teorico di riferimento: mentre la teoria tradizionale ipotizza, a seguito
di una svalutazione, una variazione dei prezzi relativi — con effetti di
sostituzione ed effetti di reddito — per l’approccio monetarista la lievitazione dei prezzi conseguente alla svalutazione genera un aumento
dello stock di moneta desiderato, innescando un processo che annulla
il miglioramento iniziale: i flussi derivanti da squilibri tra stock sono
destinati — a differenza da quelli generati da altri flussi — a scomparire,
una volta che le grandezze di stock hanno raggiunto il valore desiderato, rendendo quindi inefficaci non solo la svalutazione, ma anche tutte
le politiche macroeconomiche più sofisticate di ispirazione keynesiana.
Naturalmente questa tesi regge solo sulla base di due ipotesi riduttive:
quella di una tendenza automatica del sistema, nel lungo periodo, a conseguire un equilibrio di piena occupazione, e quella dell’assoluta coincidenza tra eccesso di domanda di moneta, crescita dell’assorbimento e
saldo negativo della bilancia dei pagamenti, molto difficilmente verificabile. Vale la pena ricordare che anche il processo di aggiustamento
nel modello di mercato aperto di ispirazione keynesiana è automatico e
innescato, in ultima analisi, da movimenti di stock di moneta, gene- rati
a loro volta da squilibri della bilancia dei pagamenti, come rileva
Vicareili (1979). Tuttavia, ciò che divide le due teorie è il meccanismo
di trasmissione che, nell’ipotesi keynesiana, agisce attraverso il tasso d’interesse, il quale a sua volta incide sui flussi di spesa e sui movimenti di
capitale, mentre nell’ipotesi monetaria quantità detenuta di moneta e
ammontare totale di spesa sono strettamente collegati.
Né l’approccio monetarista né quello keynesiano hanno, tuttavia, nell’ambito della teoria dei meccanismi di riequilibrio della bilancia dei pagamenti, un peso paragonabile a quello della teoria neoclassica tradizionale, che fonda la sua interpretazione del disavanzo su squilibri imputabili unicamente ai livelli dei prezzi: tali squilibri possono essere sanati
o con politiche deflazionistiche, generate dai movimenti monetari legati
ai saldi della bilancia stessa — come riteneva Hume e come è stato chiarito
da Aquino (1986) — oppure da interventi sui cambi, rappresen-tati da
svalutazioni o rivalutazioni.
Quello del mercato dei cambi è forse il settore dell’economia monetaria internazionale che ha registrato, nel tempo, il più alto numero di
ricerche, e sono ancora molti oggi gli studiosi che ritengono che la variazione del tasso di cambio continui ad essere lo strumento più idoneo
208
Roberto Panizza
per riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Gli studi su questo tema si
sono orientati su due direzioni: quella della individuazione teorica del
tasso di cambio di equilibrio e quella dell’uso del cambio come strumento
di politica economica.
Nel dibattito teorico relativo alla determinazione del tasso di cambio
di equilibrio si sono scontrate diverse importazioni dottrinali: al centro
della controversia c’è, ancora una volta, il problema di sapere se il tasso
di cambio sia una variabile reale o monetaria, come ha cercato di chiarire
Martinengo (1979) in un articolo molto esauriente. La risposta dipende
dal tipo di meccanismo che si ritiene condizioni la determinazione dei
prezzi di equilibrio sui mercati valutari. Nell’ampia gamma di soluzioni
teoriche sí parte dalle teorie più tradizionali, ispirate alla parità dei
poteri di acquisto di Cassel, secondo la quale, nella sua versione più rigida,
il tasso di cambio di equilibrio sarebbe dato dal rapporto fra prezzi nazionali
ed esteri, mentre nella versione più attenuata il deprezzamento del cambio
compenserebbe esattamente le differenze di inflazione nei due paesi
(Palmerio, 1981): a sua volta il cambiamento simultaneo di tasso di
cambio e prezzi non condizionerebbe, nel lungo periodo, la domanda di
importazioni e di esportazioni (Dellacasa, 1976).
Il limite maggiore di questa teoria è costituito non tanto dalle difficoltà di calcolare gli indici dei prezzi necessari per la verifica della teoria,
quanto piuttosto dal fatto che essa presuppone dei sistemi economici
molto integrati, che si scambiano, quindi, beni omogenei, il che — come
vedremo — contrasta con numerose situazioni di fatto in cui i beni prodotti sono, invece, fortemente differenziati.
Le teorie di determinazione dei tassi di cambio di ispirazione keynesiana evidenziano invece il peso degli interventi correttivi effettuati dalle
autorità (Giavazzi e Giovannini, 1985b), o il ruolo delle variabili macroeconomiche, come il livello del reddito, la domanda di esportazioni, la propensione all’importazione o il livello del tasso di interesse, che influenzano
il saldo della bilancia dei pagamenti. Si sottolinea, quindi, l’importanza dei
flussi reali e finanziari, intesi come movimenti autonomi e non generati,
come ritengono i teorici dell’approccio monetario, da aggiustamenti degli
stock. D’altra parte si trascura il fatto che i prezzi tendano ad uguagliarsi
nei diversi paesi, come pretende invece la teoria della parità dei poteri di
acquisto. Quello che incide sul cambio è, quindi, la modificazione della
spesa, che si riflette sul saldo della bilancia dei pagamenti.
Recenti sviluppi della teoria del cambio si ispirano, infine, all’approccio
monetarista con integrazione di elementi della teoria della parità dei poteri
di acquisto, che assicurerebbe l’equilibrio di lungo periodo del tasso di
cambio. Trattandosi di un modello che assume il pieno impiego dei fat-
Economia internazionale
209
tori, finiscono per perdere di importanza i flussi autonomi di spesa, mentre
vengono evidenziati i legami che intercorrono fra quest’ultima e gli aggiustamenti degli stock finanziari, a loro volta non più legati ad autonome scelte rispetto alla struttura del portafoglio (Tronzano, 1980). In
questo tipo di analisi il tasso di cambio cessa di essere espressione di
flussi di domanda reale, rappresentati da importazioni ed esportazioni,
per divenire il prezzo relativo fra due monete, non in grado, quindi, di
generare rilevanti modificazioni nei flussi di spesa con l’estero. Nelle
versioni più recenti, definite dell’asset market approach, la determinazione
del cambio dipenderebbe, invece, dalle decisioni degli operatori di
modificare la composizione del loro portafoglio valutario al mutare
della situazione economica internazionale e interna (Tronzano, 1986).
Tali scelte dipendono dai differenziali di interessi sulle valute, dal tasso
atteso di rivalutazione o svalutazione di una moneta, dai rendimenti delle
diverse attività finanziarie in valuta, da una componente non monetaria
legata al volume delle valute trattate (Hamaui, 1981).
Sulla determinazione del cambio influiscono, infine, come ha chiarito Deaglio (1985), tutta una serie di variabili non strettamente economiche, come fattori tecnici o psicologici, ai quali tuttavia sono particolarmente sensibili gli operatori dei mercati valutari nella formulazione
delle loro decisioni, pur essendo nolto difficile quantificare questi elementi nei modelli di determinazione del cambio.
Accanto al dibattito sulla definizione del tasso di cambio di equilibrio sono stati sviluppati altri temi collaterali, come quelli concernenti
gli effetti virtuosi o perversi dei diversi regimi di cambio, siano essi fissi,
flessibili o a flessibilità limitata, studiati da Rasevi e De Grauwe (1977),
o come quelli legati alla trasmissione internazionale del ciclo e delle perturbazioni economiche, che — secondo una tesi molto contestata — troverebbe un freno nel preteso effetto isolante del regime di cambi perfettamente flessibili (Bosello, 1973). Molti studiosi si sono, a questo proposito, interrogati sul fenomeno della diffusione internazionale dell’inflazione partendo proprio dai diversi regimi di cambio vigenti (Jossa,
1981), o si sono soffermati a discutere degli effetti dell’inflazione importata (Mistri, 1987), mentre altri hanno cercato di verificare empiricamente il rapporto tra differenziali di inflazione e tassi di cambio, specificamente per il caso italiano (Dellacasa, 1982). Ulteriori approfondimenti dei riflessi, su piano macroeconomico, delle modificazioni del tasso
di cambio sono anche stati condotti in relazione alla crescita del debito
pubblico (Chiesa, 1986) o della liquidità internazionale (Dini, 1981)
mentre G. Conti (1984) ha sottolineato il ruolo del tasso di cambio come
importante indicatore della politica monetaria.
210
Roberto Panizza
Se dallo studio della determinazione ottimale del tasso di cambio e
dei suoi relativi effetti passiamo invece a considerare i mercati valutari
nell’ottica, per esempio, della teoria dei mercati efficienti, Casprini (1984)
ritiene più facile la diffusione dell’informazione all’interno dei mercati
di grandi dimensioni piuttosto che all’interno di quelli relativamente piccoli, con scarsi volumi di operazioni effettuate e pochi operatori coinvolti. Il problema del rischio che è presente in questi mercati valutari e
della sua gestione da parte delle imprese che hanno problemi di cash
management in valuta, è stato affrontato da Tutino (1985).
L’ultimo importante problema che concerne i mercati valutari è quello
del rapporto che intercorre tra determinazione del tasso di cambio a pronti
e definizione del differenziale di prezzo (premio o sconto) che consente
di calcolare il tasso di cambio a termine: questo tema è stato studiato,
in termini teorici, relativamente a un sistema di cambi flessibili da Casprini (1976), Ferro (1978) e Tamponi (1983), mentre Panizza (1976) ha
esaminato questo stesso problema relativamente all’esperienza della lira
italiana. Sempre in tema di rassegne empiriche sulla politica del tasso di
cambio perseguita dal nostro paese negli anni della forte instabilità
valutaria che è seguita alla dichiarazione di inconvertibilità del dollaro
del 1971, si rimanda a Saccomanni (1982).
Le risultanze del dibattito sui meccanismi di riequilibrio della bilancia
dei pagamenti e della determinazione del tasso di cambio, condizionano,
a loro volta, la definizione teorica del cosiddetto problema del «vincolo
estero».
Con tale espressione si intende l’incompatibilità che si viene spesso
a creare tra il perseguimento da un lato, di un obiettivo di sviluppo economico e di sostegno del processo di accumulazione, e dall’altro, del mantenimento dell’equilibrio dei conti con l’estero. Tale vincolo è particolarmente sentito da un paese come l’Italia, data la forte dipendenza della
sua economia dal ciclo internazionale, evidenziata dai valori delle elasticità di esportazioni e importazioni rispetto alla domanda sia internazionale che interna (G. Conti, 1984; Valcamonici, 1985). Una siffatta
situazione di conflitto tra obiettivi è complicata dal fatto che in molti
casi lo strumento utilizzato per ripristinare l’equilibrio della bilancia dei
pagamenti è quello del ricorso a misure ristrettine della politica monetaria
(Biasco, 1986). Questo a sua volta complica il quadro di riferimento, dato
che presuppone di tener conto anche dei vincoli che originano dalla
interdipendenza che lega le decisioni di politica monetaria del nostro
paese a quelle adottate dagli altri paesi, in particolare quelli che fanno
parte del Sistema monetario europeo (Basevi e Giavazzi, 1986). Nel prendere qualsiasi tipo di decisione le autorità monetarie sono, dunque,
Economia internazionale
211
ben consce dell’interdipendenza che lega tra loro gli effetti degli interventi di politica economica, tanto da rendere estremamente instabili e
inefficienti tutte quelle situazioni che non prevedano strategie di tipo
cooperativo. Tale esigenza, che presuppone il progressivo convergere delle
strutture macroeconomiche e un coordinamento delle politiche monetarie dei vari paesi, è tanto più impellente per tutti gli stati che aderiscono al Sistema monetario europeo, al cui interno è stato imposto un
restringimento ai margini consentiti alle fluttuazioni dei cambi. Tale impegno dovrebbe essere più sentito in occasione del manifestarsi di situazioni di squilibrio regionale, che presuppongono un sistema redistributivo che consenta di riequilibrare tali asimmetrie ancora presenti nel
sistema nel suo complesso.
E con questo richiamo all’esigenza di riconsiderare politiche di regolamentazione e di cooperazione su scala mondiale, che chiudiamo l’analisi dei contributi di autori italiani agli studi di economia monetaria internazionale. Tale conclusione ci pare, peraltro, avere un carattere anche
più generale, nel senso che l’esigenza di interventi concertati in questo
campo costituisce un obiettivo da riaffermare vigorosamente in una disciplina che, in passato, ha sempre privilegiato le soluzioni offerte spontaneamente dal mercato. La fiducia negli automatismi e nell’efficienza
del sistema di libero scambio è stata oggi messa in crisi dal venir meno
delle condizioni che assicuravano il perfetto funzionamento del mercato
concorrenziale, e cioè la natura degli operatori, tutti uguali e tali da non
incidere singolarmente sulle condizioni del mercato stesso. I sistemi monopolistici o oligopolistici, che dominano attualmente la realtà economica internazionale, da un lato impongono una strategia di interventi
da parte delle autorità dei singoli paesi, finalizzati alla regolazione e alla
cooperazione all’interno dei diversi mercati, e dall’altro relegano al ruolo
di semplici esercizi analitici tutti quegli studi che ancora si soffermano
sulle specificità di sistemi perfettamente concorrenziali.
Riferimenti bibliografici
Sono segnalati qui di seguito i lavori citati nel capitolo e non riportati nella
corrispondente sezione della bibliografia finale, in quanto non strettamente attinenti agli studi internazionali italiani o al tema della sezione bibliografica.
Bertin G., Les sociétés multinationales, Paris, PUF, 1975, trad. it. Le multinazionali, Bologna, Il Mulino, 1977.
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1968, trad. it. Il sistema monetario internazionale: ieri, oggi e domani, Torino,
Einaudi, 1973.
APPENDICE BIBLIOGRAFICA
Premessa
La bibliografia è organizzata in 4 sezioni, corrispondenti alle discipline trattate nei quattro capitoli del volume. Le prime tre sezioni sono
state suddivise in sottosezioni. Lo schema della bibliografia, pertanto,
è il seguente:
1. Relazioni internazionali
1.3. Teoria e metodologia delle relazioni internazionali
1.4. Politica estera
1.5. Pacifismo e bellicosità nel sistema internazionale
1.6. Problemi strategici, sociologia e storia militare
2. Storia delle relazioni internazionali e storia internazionale
2.3. Fino al 1815
2.4. Dal 1815 al 1870
2.5. Dal 1870 al 1914
2.6. Dal 1914 al 1943
2.7. Dal 1943 a oggi
2.8. Nuove aree geografiche, emigrazione e opere varie
2.9. Fonti
3. Diritto internazionale
3.1.1. Manuali
3.2.1. Storia del diritto internazionale
3.3.1. Diritto dei trattati
3.3.2. Successione di stati e trattati 3.3.3. Consuetudine
3.4.1. Stati e altri soggetti di diritto internazionale
3.4.2. Insorti
3.4.3. Autodeterminazione dei popoli
3.4.4. Individui
3.4.5. Stranieri
3.5.1. Organizzazioni internazionali
216
4.
Appendice bibliografica
3.5.2. Nazioni Unite
3.5.3. Istituzioni specializzate
3.5.4. Altre organizzazioni governative
3.5.5. Organizzazioni non governative
3.5.6. Comunità europee 3.6.1. Territorio
3.6.2. Mare
3.6.3. Trasporti marittimi 3.6.4. Fiumi
3.6.5. Tutela dell’ambiente 3.6.6. Spazio aereo
3.6.7. Cattura illecita di aeromobili
3.6.8. Spazio extratmosferico
3.7.1. Rapporti tra diritto interno e diritto internazionale
3.7.2. Immunità giurisdizionale degli stati
3.7.3. Organi di stati
3.8.1. Diritti umani
3.8.2. Scritti relativi alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo 3.8.3. Diritto penale internazionale
3.9.1. Cooperazione politica
3.9.2. Cooperazione economica e sociale
3.9.3. Cooperazione in campo giudiziario, civile e penale
3.9.4. Cooperazione in altri settori
3.10.1. Tutela degli investimenti all’estero
3.11.1. Responsabilità internazionale
3.12.1. Soluzione delle controversie
3.12.2. Mezzi di impiego della forza diversi dalla guerra
3.12.3. Guerra e neutralità 3.12.4. Armi
Economia internazionale.
1. Relazioni internazionali
Fabio Armao e Walter Coralluzzo
1.1. Teoria e metodologia della relazioni internazionali
AA.VV., L’insegnamento e la teoria delle relazioni internazionali negli Stati Uniti e
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Attinà E, «Analisi quantitative: rassegna di tre ricerche sul sistema politico
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— «L’Europa e gli altri protagonisti di un ordine globale» in Politica internazionale, 6, XIII, 1985.
218
Appendice bibliografica
— «Politica degli armamenti e rivalità globale» in Politica internazionale, 11-12,
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1.1.
Teoria e metodologia delle relazioni internazionali
219
— «Le cause oggettive dei conflitti e la loro prevenzione» in Bonanate L., Teoria
—
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3.5.1
Organizzazioni internazionali
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Appendice bibliografica
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3.7.2. Immunità giurisdizionale degli stati
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3.8.1. Diritti umani
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