angelo bellobono - sergio-----curtacci----
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angelo bellobono - sergio-----curtacci----
angelo bellobono vincitore del Premio Celeste nella sezione pittura 2005 Daily life 150x100 Acrilico su tela artisti editoriale antonio marra augusto marchetti barbara agreste claudio bozzaotra clara de paoli donato faruolo alessandra abbruzzese maría rosa jijón michele omiccioli paola marchi pier giorgio de pinto rita cavaliere damiano tullio davide poggi vania elettra tam chernobyl 1986 – 2006 robert knoth graffiti art & keith haring – roberto mottadelli graffiti art – illegalità – sergio curtacci graffiti art – in italia ed in europa – sergio curtacci graffiti art – siti web di riferimento graffiti art – urban design – vera agosti GUEST STAR – ANGELO BELLOBONO Siti web d’interesse foto quarta di copertina by Elena Arzani Il disastro di Chernobyl avvenne il 26 Aprile 1986 con l'esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina (allora parte dell'Unione Sovietica), vicino al confine con la Bielorussia. In seguito alle esplosioni, dalla centrale si sollevarono delle nubi di materiali radioattivi che raggiunsero l'Europa orientale e la Scandinavia oltre alla parte occidentale dell'URSS. Vaste aree vicine alla centrale furono pesantemente contaminate rendendo necessaria l'evacuazione e il reinsediamento in altre zone di circa 336.000 persone. Le repubbliche, adesso separate, di Ucraina, Bielorussia e Russia sono ancora oggi gravate dagli ingenti costi di decontaminazione ed è alta l'incidenza dei tumori e delle malformazioni sugli abitanti della zona colpita. Il ricordo documentato dalle magnifiche ed agghiaccianti foto di Robert Knoth ogni parola o commento a questo reportage fotografico, credo sia assolutamente superfluo www.robertknoth.com street art - graffitismo erewhon.ticonuno.it/inverno2005/2_haring_graffitista_wasp.htm realtà artistica o vandalismo urbano? Graffiti art & Keith Haring: analogie e divergenze ovvero Lo strano caso del graffitista wasp di roberto mottadelli I primi graffiti, semplici firme (le cosiddette “tag”) accompagnate da numeri, compaiono alla fine degli anni sessanta nei tunnel e sui treni della metropolitana di New York. Li realizzano di notte i figli dei quartieri più poveri della città, giovani neri o latini quasi sempre privi di formazione scolastica, spesso sull’orlo dell’analfabetismo. Ragazzi che si nascondono dietro pseudonimi quali Ace 137, Cliff 159, Topcat 126 e Taki 183: ai loro soprannomi accostano i numeri delle strade dove vivono. Esclusi da una società che li ignora, iterando ossessivamente i loro nomi essi rivendicano in modo istintivo e immediato il loro diritto all’esistenza e a una presenza visibile nella comunità; più o meno rabbiosamente, tentano di prendere possesso di una metropoli che si va troppo rapidamente trasformando in una realtà postmoderna e alienata, tanto inquieta quanto inquietante. La moda delle tag si diffonde con incredibile velocità, tanto da proporsi già nel 1972 come un fenomeno di rilievo sia dal punto di vista artistico-culturale, sia da quello sociologico: proprio nel 1972, infatti, mentre l’amministrazione municipale newyorchese ordina la prima ripulitura delle carrozze della metropolitana, il City College ospita la prima mostra di graffiti art. La organizza il sociologo Hugo Martinez, il quale invita alcuni graffitisti ad associarsi e a dipingere su tela al fine di proporsi sulla scena artistica ufficiale. Nasce in questo modo la UGA, United Graffiti Artists. Si ringrazia la redazione di erewhon per la cortese concessione Keith Haring al lavoro erewhon.ticonuno.it/inverno2005/2_haring_graffitista_wasp.htm street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? Tra il 1972 e il 1974 le scritte che compaiono su muri e vagoni evidenziano una progressiva tendenza a sconfinare nel mondo del disegno e della decorazione. Lettere tridimensionali, nuvole di colore e fantasiose deformazioni del segno diventano gli elementi protagonisti del graffito, mentre le vecchie tag si riducono al ruolo di firma di opere sempre più complesse e strutturate. In questa fase alcune tra le principali gallerie della Grande Mela intuiscono le potenzialità commerciali del nuovo stile e cominciano a proporre interessanti contratti ai principali artisti di strada: nel 1975 i graffiti approdano a Soho, con una mostra all’Artists Space, ed entrano prepotentemente nel mercato artistico della East Coast. L’imprevisto successo stravolge la natura stessa del graffitismo, nato in clandestinità come spontanea e implicita protesta contro il sistema sociale ed economico, e travolge i protagonisti della prima ora, ragazzi dei ghetti impreparati all’impatto con la competizione artistica, patentemente inadatti alle inaugurazioni di mostre “à la page” cui prendono parte intellettuali e stelle dello spettacolo. La logica del profitto genera rivalità e individualismi che divorano la prima generazione di graffitisti, destinata ad autodistruggersi e ad essere rapidamente dimenticata. Attorno al 1978 emerge però una seconda generazione di artisti del graffito, meno selvaggia ma più consapevole, in grado di integrarsi nell’articolato sistema dell’arte newyorchese: ne fanno parte, tra gli altri, anche Ramm-ell-zee, Crash, A-One, Toxic, Samo (JeanMichel Basquiat) e Ronny Cutrone. Fashion Moda e CoLab, a Manhattan, sono gli spazi più importanti nei quali questo gruppo matura, fino a dar vita, nel 1980, all’epocale mostra Times Square Show. All’esposizione partecipano artisti di ogni genere: accade perfino che anonimi membri delle gang metropolitane si trovino ad esporre accanto a maestri di fama internazionale i quali, più o meno episodicamente, intendono sperimentare le forme espressive del graffito. Emblematica, in questo senso, è la presenza di Jenny Holzer, artista dalla forte impronta concettuale che individua fecondi punti di contatto fra i suoi “truismi” e la pratica dei graffiti. Nel vitale ma confuso calderone del Times Square Show spicca la presenza di alcune opere di Keith Haring, giovane artista da poco giunto a New York ma destinato a diventare in breve tempo il più celebre tra tutti gli autori riconducibili alla graffiti art: il mercato dell’arte e gran parte della critica gli affidano quasi immediatamente il ruolo di icona della street art e, ancora oggi, il pubblico internazionale lo venera come il campione assoluto del graffitismo. La rapidità con la quale avviene una simile investitura e la celerità con la quale la luminosa figura di Haring mette in ombra gran parte degli altri graffitisti (con la sola eccezione di Basquiat) sono stupefacenti. Ovviamente, a meravigliare non è il processo di identificazione di un movimento artistico con la produzione e la personalità di un suo particolare esponente, fatto che non costituisce in sé un unicum nella storia dell’arte contemporanea. Un fenomeno analogo si riscontra, per esempio, nel caso di Andy Warhol, maestro nel quale critici e gente comune individuano la perfetta incarnazione della pop art. L’elezione di Warhol a profeta del pop pare perfettamente legittima: in lui, infatti, le caratteristiche della corrente pop si manifestano in modo assai più evidente e incontestabilmente più intenso di quanto non accada negli altri artisti appartenenti alla stessa tendenza. erewhon.ticonuno.it/inverno2005/2_haring_graffitista_wasp.htm street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? Ciò che rende particolarmente curioso il caso di Haring è il fatto che la sua investitura ad eroe per antonomasia del graffitismo è fondata su presupposti in buona misura discutibili. Una lettura attenta della figura e dell’opera di Haring, infatti, non può che rivelare notevoli divergenze tra la sua esperienza e quella del resto del movimento della graffiti art. Bianco, nato nel 1958 in Pennsylvania da una famiglia borghese anglosassone e protestante, Haring si forma presso la Ivy School of Professional Art di Pittsburgh, trascorre un periodo fondamentale a San Francisco e conclude la sua educazione artistica a New York, dove si trasferisce solamente nel 1978; nella metropoli frequenta l’avanzatissima School of Visual Art, dove insegnano, tra gli altri, Joseph Kosuth e Vito Acconci. La nascita in provincia, l’appartenenza etnica, l’estrazione sociale e la formazione artistica, maturata in contesti scolastici e accademici particolarmente evoluti, pongono Haring in posizione palesemente eccentrica rispetto all’anima più originale del graffitismo. Mancano in lui le esperienze della povertà e della discriminazione razziale, la dimensione comunitaria delle gang dei ghetti, la rabbia profonda e l’ingenuità artistica comuni a quasi tutti gli altri esponenti del movimento. A differenziare nettamente Haring dagli altri artisti del graffito non è solamente la vicenda biografica; ben più significativo è il fatto che la natura più profonda e le modalità di sviluppo della sua pittura denotano elementi di sostanziale alterità rispetto a quanto accade per il resto degli esponenti della graffiti art. La produzione di Haring, infatti, nasce in studio, non ai bordi delle strade: per anni il suo repertorio non si manifesta su muri, vagoni ed elementi di arredo urbano, ma si concretizza esclusivamente su carta. Anche le prime esperienze maturate dall’artista nell’ambito della pittura all’aperto e in spazi pubblici si sviluppano sulla base della sua predilezione per la carta. Il suo obiettivo iniziale, infatti, è rappresentato dai cartelloni della pubblicità ubicati nelle stazioni della metropolitana di New York. Haring approfitta del fatto che, allo scadere delle concessioni pubbliche, i manifesti vengono coperti con fogli neri dall’amministrazione comunale: tra una concessione e l’altra essi si offrono così come gigantesche lavagne, sulle quali egli sceglie di disegnare usando gessetti bianchi. È opportuno sottolineare che la decisione di Haring di ricercare un contesto pubblico nel quale esprimersi non nasce da un’esigenza di ribellione o di appropriazione “violenta” dello spazio urbano, ma dalla meditazione sulla dimensione pubblica dell’arte di Christo e sul magistero di Robert Henri, il padre dell’arte socialmente impegnata negli Stati Uniti. La scelta dei cartelloni pubblicitari tradisce anche una riflessione sul valore concettuale dello spazio propagandistico, trasformato dall’artista in spazio di autopropaganda e in luogo d’elezione per la trasmissione di messaggi di genere altro rispetto a quelli che simili realtà generalmente ospitano. Solo nel 1981 l’artista abbandona il supporto cartaceo e comincia a cimentarsi con tele viniliche, metallo e oggetti di recupero: anche in questo caso, la sua scelta non procede da un’urgenza ribellistica o appropriazionistica, ma pare scaturire da istanze specificamente artistiche, in primis dalla volontà di sperimentare nuove modalità operative e nuove combinazioni tra segno, materia pittorica e superficie di fondo. erewhon.ticonuno.it/inverno2005/2_haring_graffitista_wasp.htm street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? La consapevolezza del valore della propria ricerca artistica e un desiderio di affermazione tanto legittimo quanto marcato portano Haring ad assumere comportamenti molto differenti rispetto a quelli degli altri graffitisti. Infatti, mentre questi ultimi si organizzano in bande sul modello delle gang di quartiere, lavorano spesso in gruppo e si nascondono dietro pseudonimi, il colto Haring non cerca l’anonimato ma la notorietà; egli non assimila il suo stile a quello di altri artisti, ma elabora un repertorio di segni fortemente individuale e facilmente riconoscibile destinato a dargli immediata celebrità. La straordinaria forza comunicativa che caratterizza il repertorio segnico e figurativo di Haring non scaturisce spontaneamente da intuizioni isolate espresse con fresca immediatezza o con brutalità rabbiosa, come accade per la grande maggioranza dei graffitisti, ma è frutto di profonde indagini artistiche, linguistiche e antropologiche. Nella genesi della produzione haringhiana, infatti, si intrecciano istanze molteplici, figlie sia dei raffinati studi compiuti dall’artista, sia degli stimoli culturali (non solo artistici) con i quali egli entra più o meno accidentalmente in contatto. Come è noto, le realtà cui Haring fa riferimento sono assai eterogenee; in estrema sintesi, si può affermare che egli guarda simultaneamente a Pierre Alechinsky e a Jean Dubuffet, a Roland Barthes e ad Umberto Eco, all’arte aborigena australiana e ai geroglifici egizi, all’eredità delle civiltà precolombiane e al fumetto, alla cultura beat di William Burroughs e a quella lisergica di Timothy Leary. Dunque, per quanto l’esperienza della graffiti art offra un forte stimolo a Haring e sia determinante per l’elaborazione del suo modus operandi, è evidente che la personalità di Haring non si risolve nel graffitismo, così come tale tendenza non si esaurisce nella figura di Haring. Del resto, lo stesso artista è perfettamente consapevole della particolarità della sua posizione nell’ambito della graffiti art, tanto che nel 1990 egli afferma: “Gli unici sopravvissuti sono coloro che non facevano veramente parte del movimento. Gente come me, Basquiat e Kenny Scharf...” Di fronte a una simile ammissione, ci si deve necessariamente interrogare circa le ragioni che, nei primi anni Ottanta, possono aver indotto critica e mercato a investire Haring del ruolo improprio di emblema del graffitismo. Una risposta si potrebbe trovare nella eccezionale forza comunicativa della produzione haringhiana, certo superiore a quella della pittura di molti altri artisti del graffito. Ma è evidente che la doverosa esaltazione del talento del pittore di Pittsburgh avrebbe potuto prendere vie diverse e più adeguate, non necessariamente implicanti l’appiattimento della sua complessa figura nel contesto della graffiti art. Più probabilmente i motivi che si trovano alla base di una simile identificazione tra Haring e il graffitismo tout-court non sono da ricercarsi nell’ambito specificamente artistico, ma negli aspetti economici e politici che caratterizzano il “sistema” dell’arte contemporanea. erewhon.ticonuno.it/inverno2005/2_haring_graffitista_wasp.htm street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? Se si considerano parametri di natura politica ed economica, infatti, non può stupire la scelta di galleristi e mercanti di celebrare come simbolo del graffitismo il suo interprete “wasp”, evoluto e integrato, quello in definitiva più “vendibile” in quanto meglio si concilia con l’immagine tradizionale dell’artista. Meno legittima e giustificabile, in quest’ottica, pare la compiacenza mostrata dalla critica, pronta a nascondere dietro la figura di Haring l’aspetto più aggressivo, urtante e polemico dell’autentica graffiti art, e cioè le implicazioni sociali di questa forma d’arte e il suo legame con il disagio politico-economico e con il dramma sociale e culturale dei ghetti. Purtroppo, bisogna riconoscere che in più occasioni, soprattutto negli anni Ottanta, la critica ha abdicato al proprio ruolo naturale e ha mostrato una preoccupante tendenza ad accodarsi passivamente alle esigenze del mercato. Sottolineare oggi l’eccentricità dell’esperienza di Haring rispetto alla graffiti art e mettere in dubbio l’opportunità della sua celebrazione come icona di tale movimento non significa, ovviamente, sminuire il valore assoluto di questo autore. Al contrario, il recupero della specificità della sua figura non può che costituire l’indispensabile punto di partenza per l’esaltazione dell’originalità e della validità specifica della complessa produzione haringhiana, nata nella zona liminare che si colloca tra l’arte “colta” e l’espressione popolare e metropolitana dei graffiti. Manifesto della mostra tenuta nella galleria di Tony Shafrazi, 1982 Graffiti art & Keith Haring: analogie e divergenze ovvero Lo strano caso del graffitista wasp di roberto mottadelli street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? James Van Der Zee, Jean-Michel Basquiat, 1982 Untitled (Quality), 1983 Oil paintstick and ink on paper, 19.5x15.5 inches Whitney Museum of American Art, New York; Purchase, with funds from Mrs. William A. Marsteller, The Norman and Rosita Winston Foundation, Inc., and the Drawing Committee street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? illegalità Sono nati anche per questo. Per sfidare la legalità e l'ordine metropolitano. I graffiti sono diventati un'emergenza per le maggiori capitali del mondo. Tra criminalizzazione e integrazione, le amministrazioni metropolitane devono fare i conti con le bande, i teppisti, gli artisti. New York, Parigi e Londra hanno messo a disposizione vecchi muri e palazzi dove si possono realizzare i graffiti. Ma il problema resta perché i tags non possono essere recintati ed invadono continuamente spazi. Ogni anno i bilanci comunali devono destinare svariati miliardi per pulire strade e metro. A Los Angeles, è stato creato un distretto di polizia incaricato proprio di lottare contro i graffiti. Si chiama TAGNET, ovvero "tagger and graffiti network enforcement team", ed è un gruppo di repressione capace di decifrare e scovare i graffitisti di tutto il Sud California. In Italia, il pubblico dei graffiti è diviso. "Arte o crimine? Giudicate voi" è scritto su un muro della stazione San Pietro di Roma. A Milano nel '94 sono stati devoluti ben quattro miliardi per ridipingere i muri "bombardati". Due anni fa, il ministro ai Beni culturali Alberto Ronchey, aveva ingaggiato una sua personale battaglia presentando un apposito disegno di legge contro questa forma di "vandalismo". Nel giugno '94 un pretore del tribunale di Milano ha invece assolto due giovani accusati secondo i termini giuridici, di "avere imbrattato con l'uso di vernice spray le gallerie della fermata metropolitana di San Donato". Per il giudice "il fatto non sussisteva". Indirettamente il pretore ha riconosciuto il valore artistico dei disegni dipinti costringendo ad un clamoroso dietrofront l'azienda municipali di trasporti, l'Atm. Per tutta risposta le ferrovie del capoluogo lombardo (che ogni anno spendono 6 miliardi per ripulire i treni) hanno invece organizzato nell'estate '95 un'insolita iniziativa: ad una decina di writers è stato permesso di dipingere interamente due vagoni ferroviari. Qualche mese prima, il museo della Scienza della Tecnica di Milano aveva esposto immagini e tele di famosi graffitisti. street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? Da www.aereosolart.it - 2NEKO KW CREW Lanciano Da www.aereosolart.it - ASKER ACV-Interplay Da www.aereosolart.it - KEBO Potenza street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? In Italia e in Europa La diffusione massiccia della cultura hip-hop avviene negli anni Ottanta, prima nel Nord e poi nel Centro-Italia. Ma è il movimento studentesco "Pantera" che nel '90 trasporta il graffitismo nel fulcro della loro espressione: i centri sociali. Si tende a privilegiare il messaggio rispetto ad un discorso più strettamente artistico. I graffiti nei centri sociali sono quasi sempre in italiano. Il rapporto con i graffitisti italiani è contrastato (vedi scheda "illegalità"). Alcuni comuni (Arezzo, Rozzano, Ancona e Padova) hanno messo a disposizione spazi permanenti. Fra i nomi famosi ci sono "Rendo" di Milano, "Damage" e Zero T" di Firenze, "One art" di Rimini, "Damage" e "Zart" di Ancona. A Roma, "Clown", "Soho", "Maelo", "Manjar", "Crash Kid". Inghilterra. I graffiti a Londra si sono sviluppati diversamente rispetto al resto d'Europa. Gli inglesi fin dall'inizio hanno preferito i muri ai treni. Scritte di argomento politico proliferavano negli anni '60 e verso la metà degli anni '70, quando bande come i "Clash" e i "Sex Pistol" usavano graffitare i muri dei locali nei quali si esibivano. Parigi viene considerata il centro europeo dei graffiti. In Europa i parigini sono i primi a passare dalla scritta ad un disegno più completo. All'università di Saint Denis "Cultura Pop e graffiti" sono diventati materia d'esame. Anche i parigini hanno alle spalle la cultura hip-hop ma molti si ritrovano nel rap degli immigrati africani di seconda generazione. I più bravi graffitisti francesi sono "Mode 2", "Band˜", "Skki", "Color 2", "Slice". La città di Dortmud è diventata famosa perchè nessun treno è scampato alla vernice. Anche Monaco occupa un posto importante nella mappa dei graffiti europei. Il writer tedesco più famoso è "Loomit", considerato addirittura uno dei più bravi d'Europa. Altri artisti sono "Katmando", "Gawki", "Odeon", "Abc". Olanda. Ad Amsterdam c'è un signore che si chiama Yaki Kornblit. Nell'83 decise di organizzare un'esibizione dal vivo di graffitisti cittadini. Su autobus, treni, metropolitana e, grazie ad uno spesso strato di ghiaccio anche sui muri che costeggiavano i canali, dalla notte al giorno spuntarono i graffiti. street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? Da www.greatbates.com - Ninja Turtles productions Parasites crew, Thessoloniki, Greece street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? Siti web di riferimento www.ewokone.org www.at149st.com www.cope2truelegend.com www.greatbates.com www.156allstarz.com www.stick-up-kids.de www.biescrew.com www.streetsy.com www.woostercollective.com www.aerosolart.it www.defragmag.com www.graffiti.org Drue, from Los Angeles, California USA street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? URBAN DESIGN E STREET ART Spazio viveHOME! Milano, via Denti, 1 In concomitanza col Salone del Mobile, ArtKitchen presenta una rassegna dei migliori street artist italiani. Dalla strada sono approdati in una piccola galleria in zona Piola a Milano, uno studio d’architettura che diventa galleria per l’occasione. Non c’è niente da fare: il contesto urbano arricchisce e impreziosisce le opere della street-art milanese che, concepite per le vie, le strade e i ponti di Milano, danno il meglio di sé proprio in quelle location ad hoc. Ecco quindi che nella saletta della mostra ci si sente un po’ spaesati, ma almeno i giovani artisti possono godere della giusta attenzione e considerazione. Cominciamo da Pao (Paolo Bordino, Milano, 1977), che ha riempito di colore e fantasia la zona dei Navigli coi suoi simpatici pinguini pupazzo che come i cartoni animati o i personaggi dei fumetti sorridono sornioni dai paracarri di Enzo Mari. Ormai una certa fama lo porta a diventare un po’ più commerciale e a vendere le magliette o altri gadgets …insomma una vera e propria professione nata dalla passione per lo spray. Giovanissimo, dopo un viaggio a Londra, torna a Milano per il servizio civile presso l’ufficio di Dario Fo e Franca Rame e ben presto è pronto a lasciare il segno. Abbiamo però scoperto un triste segreto: non tutti i pinguini sono opera di Pao, ma ormai per lo più sono disegnati da Jacopo, il produttore di Pao, che quasi nell’ombra supplisce alla pigrizia dell’artista che si gode i momenti di una discreta notorietà. E’ la volta di Ivan (Ivan Tresoldi, Milano, 1981)! Un poeta intraprendente che dissemina Milano di cartelloni con i suoi versi o li scrive sui muri e le saracinesche delle botteghe. Molte installazioni sono davvero notevoli, coi tableaux che scendono dai ponti o i ponti stessi scritti a caratteri giganti…peccato che le foto documento di queste opere abbiano proprio dimensioni ridotte e rendano nemmeno una briciola del lavoro originale, in verità maestoso e coinvolgente. La passione politica lo spinge nel 2003 nelle comunità zapatiste in Messico, dove realizza il progetto Immensa Mexico, una contaminazione tra racconto, poesia e arte visuale. street art - graffitismo realtà artistica o vandalismo urbano? URBAN DESIGN E STREET ART Spazio viveHOME! Milano, via Denti, 1 Da Barcellona ecco arrivare TV-BOY (Salvatore Benintende, Palermo, 1980), un ragazzetto dalla testa a forma di televisore, che ci ricorda quanto i mass-media riempiano spesso inutilmente e vanamente la vita. Con una grafica precisa e dal taglio efficace raffigura splendide donne seducenti con l’immancabile piccolo Tv-Boy che le affianca. Queste opere allegre, scherzose e colorate rispondono con ironia al grigio e allo squallore di certe zone della metropoli. La poesia risolleva il cuore dall’ansia della vita frenetica e dall’alienazione della solitudine della grande città, dove tutti corrono a volte senza vedere e senza fermarsi un momento, per tirare un sospiro di gioia e libertà, inaspettato dietro a un angolo di strada. Vera Agosti angelo bellobono angelo bellobono www.angelobellobono.com [email protected] Angelo Bellobono Nettuno 7/6/1964 vive e lavora a Roma. Inusuale il percorso formativo di Angelo Bellobono,un percorso che non segue i canonici studi d’arte, anche se esplora le potenzialità dei vari mezzi espressivi. Gli studi scientifici e lo sport praticato a livello professionistico, gli consentono di approfondire conoscenze sulla chimica e la fisiologia dell’uomo e i viaggi ,la scoperta di realtà e umanità estreme e fragili. Dalle esperienze di scrittura e graffitismo degli anni 80, passa alla pratica pittorica e all’uso delle performance e installazioni .Un lungo soggiorno negli Stati uniti,lo mette in contatto con artisti della west coast, quali Liza Lou , Bill Viola, Cosè Bedia e critici come Robert Pincus che scrive di lui sul S.Diego Union Tribune. .Nel ’95 la sua prima personale a S.Diego presso la Galleria Spagnolo, con la quale collabora proficuamente alla realizzazione del Reincarnation Building, un ex industria della carne trasformata in spazio no- profit dal Comune della città Californiana. Spostatosi poi in Francia , espone al Centro Culturale e congressuale di Val D’Isere e alla Galleria civica di Contrexville. Nel ‘99 rientra a Roma e si concentra sulla pittura ,seguito da vari critici, tra cui Lorenzo Canova Raffaele Gavarro ,Gianluca Marziani e Alessio Verzenassi. Partecipa a varie mostre personali e collettive in spazi pubblici e privati ed è invitato a vari premi,come IL Lissone,Il Morlotti, il premio Termoli e nel 2005 vince il Premio celeste nella sezione pittura. Collabora con alcune gallerie tra le quali: Atri lavori in corso, Il Sole project, Tossi, Piziarte ,Officina 14 e art sinergy. ARTISTS STATEMENT Tutto è nelle mani della chimica. La chimica è la parte invisibile di tutto. Ognuno di noi è un laboratorio in balia dell’esistenza. Ognuno di noi è un ricercatore, non sempre in grado di controllare gli elementi mescolati e le reazioni provocate. La pittura è il mezzo che preferisco per decelerare le immagini, congelarle e magari poi appenderle a sciogliersi. Spiriti e anime non mi appartengono. La chimica crea paura, sforzo, piacere e dolore. Ci fa difendere e attaccare, accelerare e rallentare. I visi e i corpi hanno i segni di ciò che avviene dentro di loro. Cerco l’ipertrofia e l’ipotonia delle emozioni. Artificiale e naturale sono la stessa cosa; stessi elementi diversamente combinati. Esercizi per corpi artificiali Lorenzo Canova Macchine, pasticche ed elettrocardiogrammi, allenamenti progettati sul DNA e sulla struttura muscolare di atleti costruiti in laboratorio, farmaci che annullano la fatica e sostanze chimiche che potenziano tutte le funzioni fisiche, un apparato cardiovascolare programmato per oltrepassare ogni limite dell’organismo: da tempo l’iconografia di Angelo Bellobono si confronta con le tematiche di uno sport che confina sempre di più con la tecnologia militare e che appare diretto ad elaborare un corpo forgiato come la complessa struttura di un congegno biomeccanico. Bellobono, con un occhio spietato e partecipe, descrive così le forme artificiali di un’umanità mutante, ricodificata come un’architettura vivente e corazzata come un raffinato strumento da guerra: una nuova razza fatta di membra dilatate con gli attrezzi e con la chimica, di sportivi impostati per raggiungere soglie agonistiche sempre più avanzate, di anatomie configurate al computer per varcare gli ostacoli del dolore e della corporeità. Nella rappresentazione di questa nuova figura postumana, la pittura dell’artista vuole legare così un dichiarato intento narrativo alla ricerca di un’esattezza quasi fotografica, un nitore iconico dove le immagini sono elaborate con un metodo empirico che può trovare tuttavia affinità in un software digitale di deformazione e di ricodificazione dei dati visivi, un processo trattato con un’ottica “fredda”, concentrata nella scabra semplicità della trama monocromatica. Nella volontà di far confinare la pittura con il momento “mentale” e progettuale del disegno, l’artista sceglie infatti di ridurre deliberatamente il forte impatto espressivo delle sue opere e della sua tessitura pittorica, limitandolo alla sola forza della forma e senza cedere alle lusinghe del colore, in una serrata lotta condotta per comporre e governare la ricorrente tentazione a calarsi nel magma disturbante della materia e nel flusso carezzevole del pennello disteso sul supporto. Nel suo lavoro, concentrato su iconografie apparentemente banali, Bellobono riesce allora a delineare un tracciato unitario attraverso il caos visivo che accompagna la nostra vita quotidiana, a trovare un percorso compiuto in quel labirinto di immagini a cui il pittore riesce a donare energia, senso e coerenza. Per aumentare il valore allusivo e quasi simbolico delle sue opere, Bellobono ha deciso di far dialogare frequentemente la sua pittura con il video e con la performance: e proprio la performance appare la dimensione più adatta a definire il lavoro dell’artista, nel suo significato riferibile sia alla prestazione sportiva che all’opera d’arte concepita come una “azione” che confina con la rappresentazione teatrale. Il carattere “performativo” della pittura di Bellobono si definisce tra l’altro anche nei tempi e nei modi della sua esecuzione, basata su una tecnica allo stesso tempo rapida e ineccepibile, una stesura che, come il gesto di un atleta in gara, non prevede il minimo errore, pena una sconfitta irrimediabile che non ammette ripensamenti o rivincite. L’ultimo ciclo del pittore sembra così organizzare un percorso dove le opere seguono le tracce di una “scheda” di allenamento virtuale, un circuito formato da esercizi e da supporti chimici, un programma concepito per fabbricare atleti invincibili o per dare una speranza a chi cerca di vincere tutti i condizionamenti della propria struttura corporea. Il Body Life Program messo in scena da Angelo Bellobono prevede dunque l’avvento di una nuova forma umana, fondata su una mutazione fisica e su una profonda metamorfosi dello stile di vita (dall’alimentazione, alla respirazione fino ai minimi gesti quotidiani) che accompagna le grandi trasformazioni imposte dall’articolato incrocio tra i sistemi di preparazione atletica e le tecnologie biofarmaceutiche che favoriscono la crescita ossea e muscolare. Con lo sguardo sagace che accompagna anche le sue opere più paradossali, Angelo Bellobono avverte però il rischio di un possibile e inquietante tentativo di classificazione e di selezione genetica: una situazione dove le classi “superiori” (progettate per vincere e per dominare) potranno sovrastare l’umanità “inferiore” destinata ad un’inesorabile disfatta, oppure - in una visione degna di Blade Runner uno scenario dove gli atleti “sintetici” allevati in vitro potranno essere usati come le avanguardie sperimentali dei soldati futuri, guerrieri addestrati per sfidare tutte le possibili avversità e per affrontare il nemico con qualunque tipo di clima e di condizione atmosferica. Tuttavia, nella sua stratificata ricerca, l’artista non raffigura soltanto le anatomie e le “armature” muscolari di questa nuova umanità ipertrofica, ma vuole indagare anche le inquietudini e le complessità interiori che attraversano le sue molte personalità,. Il pittore dona in questo modo una nuova dimensione al suo apparato visivo, concentrato in particolare sui volti dei personaggi che diventano i protagonisti di un lungo racconto, di una storia da cui può emergere la loro compiaciuta autocontemplazione, il loro narcisismo quasi disperato o la loro violenta e ossessiva volontà di affermazione. Con la sua visione caustica e rigorosa, la pittura dell’artista scopre così il tormento, spesso assurdo e grottesco, che accompagna gli sguardi di queste figure, il senso di inutilità e di assenza che accompagna queste esistenze sintetiche, il vuoto che i pesi e gli steroidi non riescono a colmare, in una lucida rappresentazione che, con caustica ironia, ci svela l’irrimediabile solitudine dei giorni vissuti dalla nuova umanità artificiale. Lacrime e sudore subito sotto l’immagine Raffaele Gavarro Le leggi del corpo condividono con quelle dell’anima Il rifiuto delle soluzioni troppo semplici e immediate, mentre comportano, con un desiderio reso ancora più bruciante dalla natura meccanica, all’apparenza più risolvibile, del male, la cieca fede nei balsami e nelle pomate. Antonio Franchini, “Quando vi ucciderete, maestro?”, Marsilio Editori, 1996, Venezia Proprio quando pensavamo di esserci lasciati alle spalle le vischiose pesantezze della materia, finalmente liberi di involarci nello spazio-tempo digitalizzato e virtuale, una mano tanto risoluta quanto inopportuna ci ha ripiombato nella fisicità più drammatica e antica. Tutto quello che la televisione e i supermedia avevano divorato – identità dei luoghi e differenze culturali, valore della produzione e specificità dei mercati, con quello che consegue – viene oggi ampiamente rigurgitato guastandoci l’illusione che il più era fatto. Così quella che appena dieci anni fa era una guerra inesistente, tanto per fare un esempio, oggi è proprio la televisione a renderla reale in tutta la sua terribilità. Strano poi che il luogo così come le parti in conflitto coincidano, quasi fosse un’ironica sottolineatura di come le cose sono cambiate solo nella nostra percezione, ma non nella realtà. Comunque mai fidarsi troppo dei sogni dell’uomo, soprattutto di quelli che illudono sulla capacità di poter fare a meno della zavorra del corpo e che trattano la realtà unicamente come modello buono per l’elaborazione di un’immagine, sia anche quella mirabile detta di sintesi. Come al solito le sottili e sensibili antenne dell’arte hanno captato per tempo quest’imprevedibile quanto decisa necessità di ri-materializzazione del reale, cercando opportunità e modi per rientrare in contatto con quest’ultimo, ma soprattutto per mostrarlo e renderlo di nuovo credibile per quello che è. Molto spesso, e per il momento, l’opera si pone infatti come una certificazione di quella che è la zona di realtà in cui insiste, oppure come la dimostrazione di un’esperienza direttamente provata e verificabile, il documento delle sue tracce. Quest’ultimo è il caso di Angelo Bellobono. Tutto il suo lavoro è concettualmente concentrato sulla fatica fisica, sullo sforzo cardiaco-muscolare, che diviene un vero e proprio paradigma esemplificativo della condizione dell’uomo. Naturalmente è un paradigma contraddittorio nei confronti di quella che è la normale situazione dell’uomo contemporaneo, che non ha in pratica bisogno di esercitare quasi nessuno sforzo per procurarsi quello che gli occorre per la sopravvivenza e oltre. Lo sport, la fatica sportiva, diviene così una sublimazione, ma anche un memento, un residuo tangibile delle capacità di sopravvivere nel mondo grazie alla nostra velocità, forza e abilità. La cosa che rende questo ragionare determinante nel nostro contesto è l’esperienza diretta che Bellobono ha della fatica fisica, essendo lui stesso un atleta, uno sciatore per la precisione. Una vita passata sulle piste in montagna e in palestra, a studiare nelle aule dell’Isef fisiologia e meccanica del corpo umano, a mettere a punto programmi per sfruttare i margini di miglioramento e per tenere in stretta connessione tecnica e talento. Scoprire i propri limiti e raggiungerli, se possibile superarli. Questo è in sintesi il percorso di un atleta, di una persona che fonda l’esistenza sulle capacità del proprio fisico. Ovviamente anche in quest’ambito c’è stata l’immissione di una buona dose di virtualizzazione, con l’utilizzo delle nuove tecnologie e dei doping di ultima generazione che ne derivano. Un emblematico fondersi di aspetti tra loro sostanzialmente estranei, che si trovano a finalizzare un desiderio di distacco dell’uomo dalla propria fisicità, dai limiti che la qualificano. Bellobono cerca di mostrare tutte queste dinamiche dall’interno. La sua osservazione è infatti guidata dall’esperienza, grazie alla quale dirime la sequenzialità fisica e temporale dello sforzo arrivando ad isolarlo come momento espressivo dell’atleta. Quanto più Bellobono è riuscito a mettere a fuoco e a concentrarsi su quest’aspetto della questione, tanto più efficacemente la sua rappresentazione ha perso lentezza narrativa ed eccessi espressivi. La pittura è infatti oggi caratterizzata da decise zone monocrome, quasi astratte, in cui un particolare, o poco più, di un volto emergono ai margini della tela. La tensione dello sforzo si avverte tanto nella fisionomica alterata, che appena sotto la stesura monocroma, assimilata alla velocità che è pari a quella dell’ombra che passa nello sguardo il momento esatto dello sforzo conclusivo. Partito da esperienze di tipo installativo e fotografico, maturate in un lungo soggiorno negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni novanta, Bellobono arriva alla pittura ritrovando quella fisicità con cui ha dimestichezza. Una dimensione che gradualmente controlla sempre di più, accentuando l’aspetto elaborativo e concettuale a sfavore della semplice formulazione dell’immagine. Il risultato di questo procedere, oltre che nei quadri è anche nel video realizzato per questa mostra e che funge da corrimano parallelo alla pittura. Si tratta di una sequenza con camera fissa, in cui si vede un tapis roulant vuoto che scorre, mentre il sonoro è costituito da un battito cardiaco rallentato. Anche qui il mezzo video è tenuto ad un livello espressivo minimo, cercando di dare più coordinate immaginative che immagini. D’altro canto la macchina ci porta ad un piano del reale inequivocabile. È il referente quotidiano dell’azione fisica di quei personaggi che intravediamo nei quadri. Ma la cosa interessante è che il tapis roulant è un oggetto della realtà che serve a simulare un movimento che di fatto ha finalità autoreferenziali. In un certo senso si tratta di un precipitato fisico, reale, di un processo di virtualizzazione di un’azione naturale com’è il camminare e il correre. Tra pittura e video si crea quindi un fitto intrecciarsi di riferimenti e di funzioni. Una sorta di mutuo assistenzialismo di senso, in cui la presenza umana nella pittura completa l’immagine video, mentre la realtà di quest’ultimo fornisce un preciso dimensionamento all’umanità raffigurata nei quadri. L’uso sincronico di diversi mezzi espressivi è la conseguenza di oltre un decennio di mobilità linguistica praticata dagli artisti, in conseguenza alla necessità di adattare i diversi bisogni espressivi con il modo più efficace per esprimerli. Qualcosa d’analogo alla relazione funzionale che c’è tra un attrezzo e il muscolo che aziona, come tra una modalità di allenamento e il risultato che si vuole ottenere. Una semplice relazione di causa effetto, com’è per tante cose della vita reale. antonio marra antonio marra krelian.altervista.org [email protected] Il mio nome è Antonio Marra e sono nato a Reggio Calabria nel 1982. Mi sono diplomato in disegno industriale all'istituto d'arte della mia città e attualmente sono uno studente d'architettura dedito all'arte. antonio marra krelian.altervista.org [email protected] antonio marra krelian.altervista.org [email protected] antonio marra krelian.altervista.org [email protected] antonio marra krelian.altervista.org [email protected] antonio marra krelian.altervista.org [email protected] antonio marra krelian.altervista.org [email protected] augusto marchetti augusto marchetti [email protected] Diplomato al liceo artistico trent'anni fa, dopo un breve periodo dedicato alla pittura e collage, ho ripreso in mano la matita dopo tanti anni, riscoprendo la passione per il disegno. Faccio ritratti di persone "rubate" dalle pagine dei rotocalchi e da internet, (quindi profilo e percorso artistico non è che ne abbia molto anche perché le cose che facevo le ho sempre tenute per me). Mi sono convinto della mia abilità dopo aver ottenuto un grande successo di pubblico e di critica anche da parte di insegnati e alunni dell'istituto d'arte cittadino alla mostra "11 Disegni da 11 Ritratti" allestita nello spazio shopmoda, che proponeva capi di tendenza offrendo anche uno spazio espositivo della propria creatività affidandomi al tratto deciso e definito della matita. Bianco e nero. Una tecnica a detta della critica, che evidenzia le capacità dell'artista e che consente di cogliere fino in fondo l'integrità espressiva dei soggetti………..La tecnica acquisita ha sicuramente una sua valenza, ma la capacità di far rivivere si fogli di carta l'espressività di un volto è cosa innata. Il tratto deciso della matita, i particolari attenti del chiaro scuro rendono i ritratti migliori di una fotografia in bianco e nero. I disegni di Marchetti sono talmente straordinari da sorprendere e disarmare qualsiasi esperto………..Da alcuni stralci di recensioni e da articoli dal quotidiano "LA NAZIONE" . augusto marchetti [email protected] augusto marchetti [email protected] augusto marchetti [email protected] augusto marchetti [email protected] augusto marchetti [email protected] augusto marchetti [email protected] barbara agreste barbara agreste www.bambee.org [email protected] Barbara Agreste nasce a Pescara nel 1971 e la sua formazione inizia al liceo artistico della città. Successivamente frequenta i corsi di scenografia dell'accademia di Brera a Milano, ma non essendo paga dell'atmosfera culturale che respira in Italia, nel 1993 parte per l'Inghilterra, dove fa' l'esperienza della performance lavorando per alcune compagnie di teatro-danza. Dopo qualche anno si iscrive all' università del Kent ('Kent Institute of Art & Design'), studiando 'film & video production' dalla quale ottiene la laurea (Bachelor of Arts) nel giugno del 2000, titolo grazie al quale puo' accedere al corso di specializzazione in ''Fine Art'' presso il "Central Saint Martins College of Art & Design" a Londra dove consegue il "Master of Arts" nel settembre del 2004. Da allora Barbara ha continuato a produrre video arte e pittura partecipando a mostre e film festival in Italia e all'estero. Barbara vive e lavora a Londra pur essendo frequentissime le sue visite e i suoi soggiorni in Italia barbara agreste www.bambee.org [email protected] barbara agreste www.bambee.org [email protected] barbara agreste www.bambee.org [email protected] barbara agreste www.bambee.org [email protected] barbara agreste www.bambee.org [email protected] barbara agreste www.bambee.org [email protected] claudio bozzaotra claudio bozzaotra [email protected] Claudio Bozzaotra, nato a Napoli il 03/03/’59, architetto, professore a contratto presso la Facoltà di Architettura di Napoli, alterna l’attività professionale con quella artistica partecipando, dal 1979, a mostre d'arte personali e collettive in spazi pubblici e privati a Cancello (Ce), Caserta, Calangianus (Ss), Firenze, Ferrara, Viareggio, Prato, Mercogliano (Av), Nola (Na), Sorrento (Na), Benevento, Mari-gliano (Na), Baiano (Av), Pomigliano D’Arco (Na), Bari, Scisciano (Na), Losanna (Svizzera), Scafati (SA), Stilo (RC), Saviano (Na), Lauro (Av), Casamarciano (Na), Taurano (Av), Roccarainola (Na), San Sebastiano al Vesuvio (Na), Glasgow (Gran Bretagna), La Habana (Cuba), Innsbruck (Austria), Napoli, Milano, Roma, Villaricca (Na). Ha pubblicato, oltre a saggi e articoli su varie pubblicazioni di tipo accademico: “LETTURA”, Edizione Libro d’Artista, Marigliano 2000. (edizione in 19 copie numerate e firmate). “La dimensione dell’immaginazione”, Hevelius Edizioni, Benevento 2000. Alcuni suoi lavori sono pubblicati su riviste e quotidiani nazionali ed esteri e sono presenti in collezioni pubbliche e private. Hanno scritto di lui: E. Alberti, R. Barone, M. Bignardi, A. Calabrese, A. Cuomo, N. De Vivo, P. Doria, C. Franci, A. Izzo, A. Melia, R. Notte, C. Palmisciano, R. Pinto, E. Procaccini, G. Romano, G. Scotti, L. Tancredi. claudio bozzaotra [email protected] claudio bozzaotra [email protected] claudio bozzaotra [email protected] claudio bozzaotra [email protected] claudio bozzaotra [email protected] claudio bozzaotra [email protected] clara de paoli clara de paoli [email protected] La presenza della sofferenza e del dolore nella vita dell’uomo è indispensabile alla realizzazione di un processo creativo ed immortale dell’uomo stesso; esso è un processo creativo necessario per l’uomo e per la vita per uscire da questo universo, per nascere una seconda volta, dopo la sua fine naturale. Il dolore allora è, in questo senso, la fonte di energia a cui l’uomo deve imparare ad attingere, se vuole divenire creativo ed immortale, cioè artista che crea opere d’arte immortali di se stesso. Anche l’uomo che subisce un evento imperfetto prova un senso di dolore profondo, che investe sia la dimensione biologica, e quindi parliamo di dolore fisico, ma anche la dimensione esistenziale, e perciò parliamo di dolore, che minaccia il senso di sé, della sua identità, della sua integrità e della sua collocazione nell’assetto cosmico della vita di quel momento. Per l’uomo esiste la possibili tà che l’evento imperfetto patito, la reazione di rabbia e la decisione di odio al dolore, possano divenire successivamente essi stessi fonte di una ricerca nuova per un più alto grado evolutivo di perfezione da raggiungere anche attraverso la creazione artistica. "Ogni ferita ricucita che si cercherà di coprire o nascondere perché non sia visibile, riemergerà sempre nell’esistenza di quella persona.“ De Paoli Clara clara de paoli [email protected] clara de paoli [email protected] clara de paoli [email protected] clara de paoli [email protected] clara de paoli [email protected] clara de paoli [email protected] donato faruolo donato faruolo [email protected] IL FINTO VS IL FALSO L’arte è un accidente indispensabile, come ogni organo vitale del corpo animale, apparso in modo accidentale e conservato dal giudizio dell’evoluzione per il semplice fatto di non essere dannoso al procedere dell’esistenza. L’uomo è la sommatoria di milioni di tentativi casuali conservati dal giudizio passeggero delle cose in divenire. Ogni giorno egli è inadeguato a se stesso e muore sperando che la propria prole, per errore, possa avere la possibilità di incastrarsi meglio entro i meccanismi sferraglianti dell’universo che abita. Così nasce il ritratto dell’errore, ma non dell’errore del malaccorto uso di un mezzo imperfetto, bensì di quello che genera ed è generato dalla superficialità di uno sguardo che non conosce modi per sopravvivere se non quello di appiattire le cose perché rientrino nello spazio bidimensionale racchiuso in un’inquadratura. L’intelletto e la sensibilità imbastiscono una frode ai danni del raziocinio e del senso per sfuggire all’arbitrarietà di questo ineluttabile giudizio universale, e lo fanno offrendo asilo a tutto ciò che non trova posto nella contemporanea società buro-democratica, non prima di tiranni, ma priva dell’immagine del tiranno da stigmatizzare. L’arte è un’amorale apologia della libertà della percezione, un luogo franco in cui attraverso il fissaggio imperfetto e staticizzato del movimento del corpo, della luce, delle immagini si suggerisce e si rappresenta un modo diverso di percepire le cose rinnegando la frammentarietà falsaria del classico processo di scansione sensoriale e di razionalizzazione analitica della realtà. La percezione immaginifica e demiurgica dell'intelletto umano è così riportata alla sua dignità grazie ad un processo di bidimensionalizzazione non ipocrita, ma dichiaratamente bugiarda e finzionaria, e di taglio materiale e critico sulle cose che scorrono nell'indifferenza. Donato Faruolo donato faruolo [email protected] donato faruolo [email protected] donato faruolo [email protected] donato faruolo [email protected] donato faruolo [email protected] donato faruolo [email protected] alessandra abbruzzese alessandra abbruzzese [email protected] Alessandra Abbruzzese nasce in provincia di Brindisi nel 1973, dove attualmente vive. Studia Architettura a Firenze , poi lingue straniere. Dipinge fin da piccola. Compie a partire dall’età di 25 anni varie esperienze espositive In diverse città d’Italia, tra cui Caserta, Torino, Roma, Bologna, Lecce, ecc. Caratteristica fondamentale del suo lavoro è l’osservazione della realtà attraverso un punto di vista mobile, che ambisce a coglierne più aspetti possibile, dal generale al particolare, attraverso più fasi, fino ad una che si potrebbe dire ‘strutturale’; passando da una tela dalla superficie cangiante che riproduce solitamente rielaborazioni a grande scala di immagini o materie concrete- ad una piccola foto, o piccolo dipinto, oppure al rifacimento di un’intera stanza (installazioni site-specific). La sua ricerca si nutre di differenti approcci e intende indagare il reale contrapponendo immagini riconoscibili ad altre astratte, concettualizzate, come diversi aspetti di uno stesso percorso e che si completano a vicenda ; seguendo il senso e il gusto della scoperta continua. “Sento ciascun momento come irripetibile..e così lo credo e lo vedo…e lo vivo. Talvolta uno è simile ad un altro, lo rievoca, ma la peculiare luce di ognuno mi emoziona in modo sempre diverso: sfiora angoli sempre nuovi, accenna direzioni, invita eventi, indaga qualcosa che prima non si vedeva… E’ un “avvenimento dinamico”. Ricircola, si espande, evolve in altro. Ricerca la realtà di ciò che lo provoca o semplicemente di se stesso.” Scrive Lia De Venere: “Quella di Abbruzzese è una ricerca al tempo stesso anacronistica e attuale, è un percorso che parte da subitanee intuizioni per giungere a laboriose conferme, è un’indagine concreta e al tempo stesso mentale sulla luce, è un lavoro intenso e sottile sul senso e sul corpo della pittura.” alessandra abbruzzese [email protected] alessandra abbruzzese [email protected] alessandra abbruzzese [email protected] alessandra abbruzzese [email protected] alessandra abbruzzese [email protected] alessandra abbruzzese [email protected] maría rosa jijón maría rosa jijón www.forma12.com/rosa [email protected] Ha svolto i suoi studi presso la facoltà di Arte dell’Università Centrale dell’Ecuador e completato corsi di specializzazione all’Istituto Superiore di Arte dell’Avana, Cuba, completando la sua formazione con un master alla Kungliga Konsthogskolan (Scuola Reale d’Arte) di Stoccolma, Svezia. Dal 1994 al 2000 è stata insegnante d’incisione e serigrafia nell’Università Cattolica e nell’Università San Francisco di Quito. Dal 1998 ha collaborato come coordinatrice dei progetti del Centro Ecuadoriano d’Arte Contemporanea (CEAC) e come segretaria dell’Associazione degli Incisori dell’Ecuador. Attualmente vive e lavora a Roma dove lavora con il progetto europeo MU-SE. Collabora con l’Associazione Candelaria Donne Immigrate e con il gruppo di lavoro G2, sulle seconde generazioni di immigrati. Iniziando con l’incisione Maria Rosa Jijon, è poi passata a lavorare con la fotografia digitale e più di recente con il video. Nel 2005 ha co-diretto il documentario, La Polverera, presente in 7 festival internazionali di video e cinema. Le sue opere sono state esposte in: Prague Biennale 2, I Triennale Poligrafica di San Juan, Porto Rico, FotoGrafia, 2005; I e II Festival Internazionale di Roma; III Bienal Iberoamericana de Arte de Lima, Perù 2002; IV e V Salon Internacional de Arte Digital, La Habana, Cuba 2003; VI e VIII Bienal Internacional de Pintura, Cuenca, Ecuador 1998 e 2004; FotoFest 2000, Houston, TX USA; Encuentros Abiertos de Fotografía, Buenos Aires Argentina 2000; I Bienal Itinerante Arte Acontecimiento RAICES Cuzco 2001; FotoSeptiembre, Houston Center for Photography, Houston 1999; ed in varie gallerie a Stoccolma, New York, Bucarest, Madrid, Asunción, Buenos Aires, Santiago del Cile, Lima, Roma, Palermo, Lucca. MARIA ROSA JIJON Quito, Ecuador maría rosa jijón www.forma12.com/rosa [email protected] maría rosa jijón www.forma12.com/rosa [email protected] maría rosa jijón www.forma12.com/rosa [email protected] maría rosa jijón www.forma12.com/rosa [email protected] maría rosa jijón www.forma12.com/rosa [email protected] maría rosa jijón www.forma12.com/rosa [email protected] maría rosa jijón www.forma12.com/rosa [email protected] michele omiccioli michele omiccioli www.equilibriarte.org/koneman Michele Omiccioli è nato a Fano (PU), dove vive, nel 1981. Autodidatta della pittura, dopo la maturità classica nel 2000 si laurea all'Università degli Studi di Urbino in Lettere Moderne con una tesi sul romanzo Corporale di Paolo Volponi nel 2005. Personale nel 2003 presso la Galleria "La Contea" di Fossombrone; premio speciale della Giuria nella V edizione del premio d'arte "La Tavolozza", che gli vale l'invito per la 69° collettiva di pittura italiana "Maestri Italiani nella Nuova Europa" dal 9 ottobre al 25 novembre 2004 presso la Galleria Merum di Bratislava. Affiancando all'attività di pittore e illustratore quella di poeta ha inoltre pubblicato, nel 2005, una piccola silloge intitolata "Decadi dell'Ovest" presso la Gazebo Edizioni di Firenze, cogliendo importanti riconoscimenti di illustri personalità dell'odierno mondo letterario italiano come, tra gli altri, Valerio Magrelli e Giorgio Bàrberi-Squarotti. michele omiccioli www.equilibriarte.org/koneman michele omiccioli www.equilibriarte.org/koneman michele omiccioli www.equilibriarte.org/koneman michele omiccioli www.equilibriarte.org/koneman michele omiccioli www.equilibriarte.org/koneman michele omiccioli www.equilibriarte.org/koneman paola marchi paola marchi [email protected] Sono un'artista autodidatta. Ho iniziato a dipingere circa nove anni fa. Quello che ricerco attraverso i miei quadri è un linguaggio semplice e il più possibile immediato e fresco, che mi permetta di esprimere concetti anche pesanti nella forma più leggera possibile. Dal punto di vista tecnico mi definisco anarchica, non riesco a seguire nessuna regola definita e non posso protrarre la lavorazione di un quadro a più di un giorno. Mi piace che la tela sia vissuta e che porti i segni visibili di ripensamenti e cancellature. Mi attrae tutto ciò che è scarabocchio e che va contro al concetto di "bel quadro" o quadro ben fatto. I miei lavori sono delle elaborazioni in fieri attorno ad un'idea di partenza. La mia ricerca è volta nella direzione di una liberazione totale e istintiva della creatività. paola marchi [email protected] paola marchi [email protected] paola marchi [email protected] paola marchi [email protected] paola marchi [email protected] paola marchi [email protected] pier giorgio de pinto pier giorgio de pinto www.depinto.it [email protected] Pier Giorgio De Pinto è un artista visivo che lavora su un’idea performativa di rappresentazione del corpo, utilizzando il medium tecnologico come forma privilegiata di espressione. L'esperienza dell'arte nella sua formazione di artista visuale lo ha visto partecipe a corsi, workshop e seminari in una ricerca continua sui linguaggi contemporanei: dallo studio delle arti plastiche, del video, dell’arte digitale e della fotografia allo studio del corpo performativo tramite percorsi di forma e relazione comportamentale e stages di dizione e recitazione. Ha collaborato al restyling e alla realizzazione della corporate identity di alcune aziende di moda e design. Ha collaborato con molti artisti visivi ma anche del mondo del teatro, del cinema e della danza. Recentemente ha presentato presso il teatro La Limonaia di Sesto Fiorentino insieme alla danzatrice Alessandra Palma di Cesnola, la performance “Amnios”. In collaborazione con il gruppo di musica elettronica Plastic Violence sta realizzando il progetto grafico “The Dog Series” per l’etichetta Death Paradise. Come ricorda il critico Giuseppe Carrubba in un suo recente scritto: (in Pier Giorgio De Pinto, ndr)…L’utilizzo del corpo è teatrale all’interno di una sequenza che ci appare fredda, calcolata, cerebrale, e rimanda ad altro da sé, tramite la convergenza di sistemi immaginativi e informativi che ci appartengono; reincarnazione, seconda pelle mutante e geneticamente combinata. Le immagini hanno un alto potere evocativo, sono sintomatiche di un processo dato per accumulo che attinge alla mitologia sacra e pagana, alla società dei simulacri e dei consumi. La cultura occidentale e le concettualizzazioni dell’uomo contemporaneo producono icone la cui intelligibilità dipende da squisite capacità percettive, un viaggio mistico e sensuale attraverso i saperi e i sapori, dove la carne e l’estasi conducono lo spettatore a smarrimenti e punti di vista molteplici. Cultura e tecnologia vengono estremizzate dal mezzo espressivo che è interfaccia culturale di una realtà sensibile e globalizzata. Il corpo visivo, inquadrato dentro costruzioni e tagli asimmetrici, è sociale, storico, sacro, emotivo, si offre e suggerisce una storia di potere, una radicale perdizione, una vibrante devozione. pier giorgio de pinto www.depinto.it [email protected] pier giorgio de pinto www.depinto.it [email protected] pier giorgio de pinto www.depinto.it [email protected] pier giorgio de pinto www.depinto.it [email protected] pier giorgio de pinto www.depinto.it [email protected] pier giorgio de pinto www.depinto.it [email protected] rita cavaliere rita cavaliere www.equilibriarte.org/member-422 [email protected] Sogni/Incubi/Convinzioni. Credo di aver sempre dipinto … fin da quando ne possa aver memoria. La mia è una pittura che mi piace definire intimista. Non c’è nessuna tecnica che prediligo più di altre; ciò che mi piace dare alla superficie pittorica e al mio piacere visivo e tattile è la “materia del colore” qualunque esso sia; Spazio dai gessi, agli oli, agli smalti, alla tempera, spessissimo mi trovo a mescolarli insieme e tessere così la mia tela. Quel che provo a fare è un viaggio recondito, a ritroso dentro la propria coscienza, fino a raggiungere se possibile, uno stadio altro, parallelo forse. Uno stadio convivente che potrebbe essere un’altra vita gia vissuta o non … oppure essere quella parte che bisognerebbe far riemergere dalle nostre memorie, dalla nostra coscienza intima. Un viaggio, a ritroso nella memoria che siamo, che attraverso il sogno, l’abbandono sensoriale, mi piace credere, possa condurre ad un’altra esistenza. Un’esistenza più pura, che metta in relazione il nostro essere affiorante con le altre nostre vite precedenti o future che siano. Tutto ciò porta alla concretizzazione sul supporto pittorico di forme fluttuanti, statiche; figure oscure inquiete presenze, all’apparenza tormentate e sconfitte …. sognanti ... in cerca. Sono i volti di queste esperienze, di tutte quante le vite e la gente che risiedono dentr’ognuno … come invasioni della mente. Ricca di fermenti giovanili, … è la pittura di Rita Cavaliere, che trasmette le sue inquietudini attraverso colori glaciali, forme evanescenti ed indistinte, maschere anonime disposte ad assorbire e netraulizzare la forza delle emozioni, ma diventando allo stesso tempo esse stesse emozioni, perché il male di vivere e l’altra faccia dell’inesausta voglia di essere, di trovare quel centro di gravità permanente, che è il grande presente assente delle opere di questa interessante artista. Franco Bruno Vitolo. rita cavaliere www.equilibriarte.org/member-422 [email protected] rita cavaliere www.equilibriarte.org/member-422 [email protected] rita cavaliere www.equilibriarte.org/member-422 [email protected] rita cavaliere www.equilibriarte.org/member-422 [email protected] rita cavaliere www.equilibriarte.org/member-422 [email protected] rita cavaliere www.equilibriarte.org/member-422 [email protected] damiano tullio damiano tullio www.libecromano.com Forti cromie, tratto netto incisivo e pulito, queste le caratteristiche che saltano all’occhio nelle opere di Damiano Tullio. Giovane artista/surfista romano, nelle sue opere riversa la vita che assaggia ogni giorno. Cittadino del mondo è sempre in viaggio verso nuove mete, ed è di questo che si nutre per creare i suoi segni. Vita ed etnie conosciute si tramutano in simboli e in colore, dando nuova forma ai suoi materiali riciclati, oggetti del mondo dall’uomo scartati, rinascono nelle sue mani , attraverso la sua creatività. Nelle sue tele forte si legge l’influenza di Basquiat e di Harring, animi inquieti come lui, artisti con un vissuto alla strada e che dalla città e dalle contraddizioni del mondo hanno tratto spunto per la loro arte. Damiano lavora anche con i tatuaggi ed è laureando alla facoltà di Lettere con indirizzo Demo-Etno-Antropologico. Lo studio dei popoli e delle culture è alla base della sua ricerca, e il suo essere anticonformista è detto a gran voce nei suoi lavori. Manuela Grasso damiano tullio www.libecromano.com damiano tullio www.libecromano.com damiano tullio www.libecromano.com damiano tullio www.libecromano.com damiano tullio www.libecromano.com damiano tullio www.libecromano.com damiano tullio www.libecromano.com davide poggi davide poggi www.equilibriarte.org/oshin Questo giovane artista, formatosi da solo, sperimenta il mezzo fotografico su se stesso approfondendo un’arte che lo porta ad indagare il suo animo. Un viaggio introspettivo, il suo, che lascia emergere un’interiorità complessa. Osservando i suoi autoscatti si resta colpiti dalla violenza espressiva, la moltitudine di emozioni che lo animano emergono con forza. Nelle sue foto non lascia spazio ad illusioni, ma ci comunica in modo chiaro diretto e sanguigno le sue motivazioni. Attraverso la body painting e l’uso di luci in un gioco di colori e ombre, senza tralasciare l’apporto delle tecnologie digitali, ci lascia ascoltare il suo dialogo interiore. Nella sua comunicazione c’ è anche il rapporto uomo-ambiente, alla ricerca di una serenità e di un equilibrio tra il sé e il tutto, Davide realizza foto immerso nella natura o all’interno di edifici abbandonati, così come nelle fabbriche. Luoghi in cui la nudità dell’uomo si scontra o si fonde con l’ambiente circostante, rappresentando l’uomo nella sua forza quanto nella sua debolezza alla continua ricerca della quinta essenza dell’essere. Manuela Grasso davide poggi www.equilibriarte.org/oshin davide poggi www.equilibriarte.org/oshin davide poggi www.equilibriarte.org/oshin davide poggi www.equilibriarte.org/oshin davide poggi www.equilibriarte.org/oshin davide poggi www.equilibriarte.org/oshin vania elettra tam vania elettra tam www.vaniaelettratam.it [email protected] «We are standing dummies»... here, exposing ourselves, We are showroom dummies, We are showroom Ho voluto che fossero le parole di una canzone dei Kraftwerk, uno dei gruppi musicali simbolo della rivoluzione tecno degli anni Ottanta, in cui si narrano le avventure dei manichini da esposizione, a fare da colonna sonora e da guida nell'analisi delle opere di Vania Tam. Una sorta di distorto desiderio sinestesico di associare le sensazioni dei colori e delle forme alla musica 'artificiale', quale quella elettronica, formando così un tutt'uno con i soggetti ritratti sulle tele. Già perché quello che Vania Tam rappresenta è un mondo popolato da automi la cui rigida anatomia è composta da pezzi che si interscambiano con grande facilità e naturalezza. 'Terminator' mutanti con il volto umano e che dell'uomo scimmiottano le espressioni più curiose e a volte stupite. L'orizzonte che Vania raffigura è però squisitamente autoreferenziale. I soggetti hanno, infatti, le sembianze fisionomiche dell'artista stessa. Ed è proprio analizzando quest'aspetto che improvvisamente ho sentito sfuggirmi qualcosa. Quello che Vania Tam inseguiva, infatti, non era solo un risultato puramente formale. C'era qualcos'altro che pareva mancare alla realizzazione del mio puzzle mentale; qualcosa di più profondo; qualcosa di più nascosto. «We're being watched, and we feel our pulse, We are showroom dummies, We are showroom dummies»... Balza immediato all'occhio, infatti, che il mondo che Vania riporta sulle sue tele a una realtà intima, in un desiderio di autoreferenzialità che non è semplice Narciso. Sarebbe stato troppo banale per crederci. Già perché Vania Tam lavora gioca – su un doppio registro. Da una parte, c'è una forte autoanalisi che rivolge io. appartiene vanità da – e forse al proprio vania elettra tam www.vaniaelettratam.it [email protected] Quasi in una sorta di seduta psicanalitica, dipinge e dà voce a tutti i suoi stati d'animo più inquieti. 'Mi ricompongo…' – è questo il titolo di una delle sue serie - urla la sua voglia di cambiamento, sia essa momentanea, di riscatto da un malessere, da un dolore, da una sofferenza, o esistenzialmente più profonda. E allora va bene cambiare i propri 'pezzi'... ora un braccio, ora una gamba, ora un occhio per vedere la realtà in un altro modo e fingersi attori di una scena, così come i manichini, cambiando abito, danno sfogo alla creatività e al messaggio pubblicitario che viene, loro malgrado, imposto. Dall'altra, quella di Vania è una pungente quanto efficace critica alla società consumistica, quella che richiede dai suoi partecipanti un'omologazione assoluta a dei clichè prestabiliti, e che impone dei bisogni indotti ai quali si deve sottostare, pena l'esclusione dalla riserva sociale della maggioranza. Vania ha ben presente questa realtà. Una realtà, forse, cui lei si sente vittima, ma in questo caso anche terribile carnefice. L'artista che è in lei coglie tutto questo e lo rappresenta con una pittura cruda, piatta, caratterizzata da campiture di colore nette, e si spinge fino alle espressioni più grottesche, solo momentaneamente mitigate dagli atteggiamenti stupiti dei volti, ma senza grande speranza di risolvere una situazione di per se stessa ineludibile, se non in una dimensione altra che appartiene alla fantasia e al sogno. We start to move, And we break the glass, We are showroom dummies, We are showroom dummies»... I manichini che rompono le vetrine e si riversano nelle strade c'introducono nella serie della 'Sedia rossa', un ponte, una cesura tra quello che è stato e quello che sarà – forse – la carriera di Vania Tam. Una serie di tele che simbolicamente segnano il passaggio tra il mondo artificiale e quello reale. "Certo un sogno, che altro?", diceva Von Hoffmansthal. E ben venga il sogno, dunque! Un sogno che liberi dall'alienazione e che ci conduca altrove, in una realtà altra, in una realtà forse più quotidiana ma davvero nostra. «We step out, And take a walk through the city, We go into a club, And there we start to dance, We are showroom dummies, We are showroom dummies...» Ed è qui che troviamo i personaggi di Vania, ora non più manichini, non più automi, non più Terminator mutanti. Nella serie dei 'divani', umani incontrano - finalmente - umani, sebbene tutti conservino come proprio segno distintivo, l'indistingubilità e l'inafferrabilità fisionomica dei volti. Un'umanità però che ha riconquistato i propri luoghi, i propri spazi, la propria geografia dell'anima. Ed è qui che risiede la loro vittoria; che è anche poi anche la nostra, perché tutti noi, in fondo, siamo showroom dummies, showroom dummies... Carlo Ghielmetti vania elettra tam www.vaniaelettratam.it [email protected] vania elettra tam www.vaniaelettratam.it [email protected] vania elettra tam www.vaniaelettratam.it [email protected] vania elettra tam www.vaniaelettratam.it [email protected] vania elettra tam www.vaniaelettratam.it [email protected] vania elettra tam www.vaniaelettratam.it [email protected] siti web d’interesse lost in script | Design personal playground of interactive designer Karthik CK www.lostinscript.com José Moreira | Photography well designed site showcasing Holga photography www.thejmphotography.com Tina Hillier | Photography Poetic and thoughtful photography www.tinahillier.com armer | Design another great online portfolio that uses 3d design...have a look www.armer.tai.lt Journal Of A Photographer | Photography "about my own experiences in the world of photojournalism www.journalofaphotographer.com Sandy Menzies | Photography black and white moody, minimalist, Scottish landscape photographs www.sandymenziesphotography.co.uk ParaArt Design Studio | Design great portfolio of web and 3d designs www.paraart.com Michael Wildi | Photography Personal Documentary and Portraits by Michael Wildi www.michaelwildi.com redazione editore: sergio curtacci – [email protected] capo redattore: manuela grasso – [email protected] redattori: vera agosti – [email protected] simone sbarbati - [email protected] www.curtacci.net/frattura/rivista.htm by elena arzani