angelo bellobono - sergio-----curtacci----

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angelo bellobono - sergio-----curtacci----
angelo bellobono
vincitore del Premio Celeste nella sezione pittura 2005
Daily life
150x100
Acrilico su tela
artisti
editoriale
antonio marra
augusto marchetti
barbara agreste
claudio bozzaotra
clara de paoli
donato faruolo
alessandra abbruzzese
maría rosa jijón
michele omiccioli
paola marchi
pier giorgio de pinto
rita cavaliere
damiano tullio
davide poggi
vania elettra tam
chernobyl 1986 – 2006 robert knoth
graffiti art & keith haring – roberto mottadelli
graffiti art – illegalità – sergio curtacci
graffiti art – in italia ed in europa – sergio curtacci
graffiti art – siti web di riferimento
graffiti art – urban design – vera agosti
GUEST STAR – ANGELO BELLOBONO
Siti web d’interesse
foto quarta di copertina
by Elena Arzani
Il disastro di Chernobyl avvenne il
26 Aprile 1986 con l'esplosione del
reattore numero 4 della centrale
nucleare di Chernobyl, in Ucraina
(allora parte dell'Unione Sovietica),
vicino al confine con la Bielorussia.
In seguito alle esplosioni, dalla
centrale si sollevarono delle nubi di
materiali radioattivi che raggiunsero
l'Europa orientale e la Scandinavia
oltre alla parte occidentale
dell'URSS. Vaste aree vicine alla
centrale furono pesantemente
contaminate rendendo necessaria
l'evacuazione e il reinsediamento in
altre zone di circa 336.000 persone.
Le repubbliche, adesso separate, di
Ucraina, Bielorussia e Russia sono
ancora oggi gravate dagli ingenti
costi di decontaminazione ed è alta
l'incidenza dei tumori e delle
malformazioni sugli abitanti della
zona colpita.
Il ricordo documentato dalle
magnifiche ed agghiaccianti foto di
Robert Knoth
ogni parola o commento a questo reportage fotografico,
credo sia assolutamente superfluo
www.robertknoth.com
street art - graffitismo
erewhon.ticonuno.it/inverno2005/2_haring_graffitista_wasp.htm
realtà artistica o vandalismo urbano?
Graffiti art & Keith Haring: analogie e divergenze
ovvero Lo strano caso del graffitista wasp
di roberto mottadelli
I primi graffiti, semplici firme (le cosiddette “tag”)
accompagnate da numeri, compaiono alla fine degli anni
sessanta nei tunnel e sui treni della metropolitana di New
York. Li realizzano di notte i figli dei quartieri più
poveri della città, giovani neri o latini quasi sempre
privi
di
formazione
scolastica,
spesso
sull’orlo
dell’analfabetismo.
Ragazzi
che
si
nascondono dietro
pseudonimi quali Ace 137, Cliff 159, Topcat 126 e Taki 183:
ai loro soprannomi accostano i numeri delle strade dove
vivono. Esclusi da una società che li ignora, iterando
ossessivamente i loro nomi essi rivendicano in modo
istintivo e immediato il loro diritto all’esistenza e a una
presenza visibile nella comunità; più o meno rabbiosamente,
tentano di prendere possesso di una metropoli che si va
troppo rapidamente trasformando in una realtà postmoderna e
alienata, tanto inquieta quanto inquietante.
La moda delle tag si diffonde con incredibile velocità,
tanto da proporsi già nel 1972 come un fenomeno di rilievo
sia dal punto di vista artistico-culturale, sia da quello
sociologico:
proprio
nel
1972,
infatti,
mentre
l’amministrazione municipale newyorchese ordina la prima
ripulitura delle carrozze della metropolitana, il City
College ospita la prima mostra di graffiti art. La
organizza il sociologo Hugo Martinez, il quale invita
alcuni graffitisti ad associarsi e a dipingere su tela al
fine di proporsi sulla scena artistica ufficiale. Nasce in
questo modo la UGA, United Graffiti Artists.
Si ringrazia la redazione di
erewhon per la cortese concessione
Keith Haring al lavoro
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street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
Tra il 1972 e il 1974 le scritte che compaiono su
muri e vagoni evidenziano una progressiva tendenza
a sconfinare nel mondo del disegno e della
decorazione. Lettere tridimensionali, nuvole di
colore
e
fantasiose
deformazioni
del
segno
diventano gli elementi protagonisti del graffito,
mentre le vecchie tag si riducono al ruolo di firma
di opere sempre più complesse e strutturate. In
questa fase alcune tra le principali gallerie della
Grande Mela intuiscono le potenzialità commerciali
del
nuovo
stile
e
cominciano
a
proporre
interessanti contratti ai principali artisti di
strada: nel 1975 i graffiti approdano a Soho, con
una
mostra
all’Artists
Space,
ed
entrano
prepotentemente nel mercato artistico della East
Coast.
L’imprevisto successo stravolge la natura stessa
del
graffitismo,
nato
in
clandestinità
come
spontanea e implicita protesta contro il sistema
sociale ed economico, e travolge i protagonisti
della prima ora, ragazzi dei ghetti impreparati
all’impatto
con
la
competizione
artistica,
patentemente inadatti alle inaugurazioni di mostre
“à la page” cui prendono parte intellettuali e
stelle dello spettacolo. La logica del profitto
genera rivalità e individualismi che divorano la
prima generazione di graffitisti, destinata ad
autodistruggersi
e
ad
essere
rapidamente
dimenticata. Attorno al 1978 emerge però una
seconda generazione di artisti del graffito, meno
selvaggia
ma
più
consapevole,
in
grado
di
integrarsi
nell’articolato
sistema
dell’arte
newyorchese: ne fanno parte, tra gli altri, anche
Ramm-ell-zee, Crash, A-One, Toxic, Samo (JeanMichel Basquiat) e Ronny Cutrone. Fashion Moda e
CoLab, a Manhattan, sono gli spazi più importanti
nei quali questo gruppo matura, fino a dar vita,
nel 1980, all’epocale mostra Times Square Show.
All’esposizione partecipano artisti di ogni genere:
accade perfino che anonimi membri delle gang
metropolitane si trovino ad esporre accanto a
maestri di fama internazionale i quali, più o meno
episodicamente, intendono sperimentare le forme
espressive del graffito. Emblematica, in questo
senso, è la presenza di Jenny Holzer, artista dalla
forte impronta concettuale che individua fecondi
punti di contatto fra i suoi “truismi” e la pratica
dei graffiti. Nel vitale ma confuso calderone del
Times Square Show spicca la presenza di alcune
opere di Keith Haring, giovane artista da poco
giunto a New York ma destinato a diventare in breve
tempo
il
più
celebre
tra tutti gli autori
riconducibili
alla
graffiti
art:
il
mercato
dell’arte e gran parte della critica gli affidano
quasi immediatamente il ruolo di icona della street
art e, ancora oggi, il pubblico internazionale lo
venera come il campione assoluto del graffitismo.
La rapidità con la quale avviene una simile
investitura e la celerità con la quale la luminosa
figura di Haring mette in ombra gran parte degli
altri graffitisti (con la sola eccezione di
Basquiat) sono stupefacenti.
Ovviamente, a meravigliare non è il processo di
identificazione di un movimento artistico con la
produzione e la personalità di un suo particolare
esponente, fatto che non costituisce in sé un
unicum nella storia dell’arte contemporanea. Un
fenomeno analogo si riscontra, per esempio, nel
caso di Andy Warhol, maestro nel quale critici e
gente comune individuano la perfetta incarnazione
della pop art. L’elezione di Warhol a profeta del
pop pare perfettamente legittima: in lui, infatti,
le
caratteristiche
della
corrente
pop
si
manifestano
in
modo
assai
più
evidente
e
incontestabilmente più intenso di quanto non accada
negli
altri
artisti
appartenenti
alla stessa
tendenza.
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realtà artistica o vandalismo urbano?
Ciò che rende particolarmente curioso il caso di
Haring è il fatto che la sua investitura ad eroe
per antonomasia del graffitismo è fondata su
presupposti
in
buona
misura
discutibili. Una
lettura attenta della figura e dell’opera di
Haring, infatti, non può che rivelare notevoli
divergenze tra la sua esperienza e quella del resto
del movimento della graffiti art. Bianco, nato nel
1958 in Pennsylvania da una famiglia borghese
anglosassone e protestante, Haring si forma presso
la Ivy School of Professional Art di Pittsburgh,
trascorre un periodo fondamentale a San Francisco e
conclude la sua educazione artistica a New York,
dove si trasferisce solamente nel 1978; nella
metropoli
frequenta
l’avanzatissima
School
of
Visual Art, dove insegnano, tra gli altri, Joseph
Kosuth e Vito Acconci.
La nascita in provincia, l’appartenenza etnica,
l’estrazione sociale e la formazione artistica,
maturata
in
contesti
scolastici
e accademici
particolarmente
evoluti,
pongono
Haring
in
posizione palesemente eccentrica rispetto all’anima
più originale del graffitismo. Mancano in lui le
esperienze della povertà e della discriminazione
razziale, la dimensione comunitaria delle gang dei
ghetti, la rabbia profonda e l’ingenuità artistica
comuni a quasi tutti gli altri esponenti del
movimento. A differenziare nettamente Haring dagli
altri artisti del graffito non è solamente la
vicenda biografica; ben più significativo è il
fatto che la natura più profonda e le modalità di
sviluppo della sua pittura denotano elementi di
sostanziale alterità rispetto a quanto accade per
il resto degli esponenti della graffiti art. La
produzione di Haring, infatti, nasce in studio, non
ai bordi delle strade: per anni il suo repertorio
non si manifesta su muri, vagoni ed elementi di
arredo urbano, ma si concretizza esclusivamente su
carta.
Anche le prime esperienze maturate dall’artista
nell’ambito della pittura all’aperto e in spazi
pubblici si sviluppano sulla base della sua
predilezione per la carta. Il suo obiettivo
iniziale, infatti, è rappresentato dai cartelloni
della pubblicità ubicati nelle stazioni della
metropolitana di New York. Haring approfitta del
fatto
che,
allo
scadere
delle
concessioni
pubbliche, i manifesti vengono coperti con fogli
neri
dall’amministrazione
comunale:
tra
una
concessione e l’altra essi si offrono così come
gigantesche lavagne, sulle quali egli sceglie di
disegnare usando gessetti bianchi.
È opportuno sottolineare che la decisione di Haring
di ricercare un contesto pubblico nel quale
esprimersi non nasce da un’esigenza di ribellione o
di appropriazione “violenta” dello spazio urbano,
ma dalla meditazione sulla dimensione pubblica
dell’arte di Christo e sul magistero di Robert
Henri, il padre dell’arte socialmente impegnata
negli Stati Uniti. La scelta dei cartelloni
pubblicitari tradisce anche una riflessione sul
valore concettuale dello spazio propagandistico,
trasformato
dall’artista
in
spazio
di
autopropaganda
e
in
luogo
d’elezione
per
la
trasmissione di messaggi di genere altro rispetto a
quelli che simili realtà generalmente ospitano.
Solo nel 1981 l’artista abbandona il supporto
cartaceo
e
comincia
a
cimentarsi
con
tele
viniliche, metallo e oggetti di recupero: anche in
questo
caso,
la
sua
scelta non procede da
un’urgenza ribellistica o appropriazionistica, ma
pare
scaturire
da
istanze
specificamente
artistiche, in primis dalla volontà di sperimentare
nuove modalità operative e nuove combinazioni tra
segno, materia pittorica e superficie di fondo.
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realtà artistica o vandalismo urbano?
La consapevolezza del valore della propria ricerca
artistica e un desiderio di affermazione tanto
legittimo quanto marcato portano Haring ad assumere
comportamenti molto differenti rispetto a quelli
degli altri graffitisti. Infatti, mentre questi
ultimi si organizzano in bande sul modello delle
gang di quartiere, lavorano spesso in gruppo e si
nascondono dietro pseudonimi, il colto Haring non
cerca l’anonimato ma la notorietà; egli non
assimila il suo stile a quello di altri artisti, ma
elabora
un
repertorio
di
segni
fortemente
individuale e facilmente riconoscibile destinato a
dargli immediata celebrità.
La
straordinaria
forza
comunicativa
che
caratterizza il repertorio segnico e figurativo di
Haring non scaturisce spontaneamente da intuizioni
isolate espresse con fresca immediatezza o con
brutalità rabbiosa, come accade per la grande
maggioranza dei graffitisti, ma è frutto di
profonde
indagini
artistiche,
linguistiche
e
antropologiche.
Nella
genesi
della
produzione
haringhiana,
infatti,
si
intrecciano
istanze
molteplici, figlie sia dei raffinati studi compiuti
dall’artista, sia degli stimoli culturali (non solo
artistici) con i quali egli entra più o meno
accidentalmente in contatto. Come è noto, le realtà
cui Haring fa riferimento sono assai eterogenee; in
estrema sintesi, si può affermare che egli guarda
simultaneamente a Pierre Alechinsky e a Jean
Dubuffet, a Roland Barthes e ad Umberto Eco,
all’arte aborigena australiana e ai geroglifici
egizi, all’eredità delle civiltà precolombiane e al
fumetto, alla cultura beat di William Burroughs e a
quella lisergica di Timothy Leary.
Dunque, per quanto l’esperienza della graffiti art
offra un forte stimolo a Haring e sia determinante
per l’elaborazione del suo modus operandi, è
evidente che la personalità di Haring non si
risolve nel graffitismo, così come tale tendenza
non si esaurisce nella figura di Haring. Del resto,
lo stesso artista è perfettamente consapevole della
particolarità della sua posizione nell’ambito della
graffiti art, tanto che nel 1990 egli afferma: “Gli
unici sopravvissuti sono coloro che non facevano
veramente parte del movimento. Gente come me,
Basquiat e Kenny Scharf...”
Di fronte a una simile ammissione, ci si deve
necessariamente interrogare circa le ragioni che,
nei primi anni Ottanta, possono aver indotto
critica e mercato a investire Haring del ruolo
improprio di emblema del graffitismo. Una risposta
si
potrebbe
trovare
nella
eccezionale
forza
comunicativa della produzione haringhiana, certo
superiore a quella della pittura di molti altri
artisti del graffito. Ma è evidente che la doverosa
esaltazione del talento del pittore di Pittsburgh
avrebbe potuto prendere vie diverse e più adeguate,
non
necessariamente
implicanti
l’appiattimento
della sua complessa figura nel contesto della
graffiti art.
Più probabilmente i motivi che si trovano alla base
di una simile identificazione tra Haring e il
graffitismo tout-court non sono da ricercarsi
nell’ambito specificamente artistico, ma negli
aspetti economici e politici che caratterizzano il
“sistema” dell’arte contemporanea.
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street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
Se si considerano parametri di natura politica ed
economica, infatti, non può stupire la scelta di
galleristi e mercanti di celebrare come simbolo del
graffitismo il suo interprete “wasp”, evoluto e
integrato, quello in definitiva più “vendibile” in
quanto
meglio
si
concilia
con
l’immagine
tradizionale
dell’artista.
Meno
legittima
e
giustificabile,
in
quest’ottica,
pare
la
compiacenza
mostrata
dalla
critica,
pronta a
nascondere dietro la figura di Haring l’aspetto più
aggressivo,
urtante
e
polemico
dell’autentica
graffiti art, e cioè le implicazioni sociali di
questa forma d’arte e il suo legame con il disagio
politico-economico e con il dramma sociale e
culturale
dei
ghetti.
Purtroppo,
bisogna
riconoscere che in più occasioni, soprattutto negli
anni Ottanta, la critica ha abdicato al proprio
ruolo naturale e ha mostrato una preoccupante
tendenza ad accodarsi passivamente alle esigenze
del mercato.
Sottolineare oggi l’eccentricità dell’esperienza di
Haring rispetto alla graffiti art e mettere in
dubbio l’opportunità della sua celebrazione come
icona di tale movimento non significa, ovviamente,
sminuire il valore assoluto di questo autore. Al
contrario, il recupero della specificità della sua
figura non può che costituire l’indispensabile
punto
di
partenza
per
l’esaltazione
dell’originalità e della validità specifica della
complessa produzione haringhiana, nata nella zona
liminare che si colloca tra l’arte “colta” e
l’espressione
popolare
e
metropolitana
dei
graffiti.
Manifesto della mostra tenuta
nella galleria di Tony Shafrazi, 1982
Graffiti art & Keith Haring: analogie e divergenze
ovvero Lo strano caso del graffitista wasp
di roberto mottadelli
street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
James Van Der Zee, Jean-Michel Basquiat, 1982
Untitled (Quality), 1983
Oil paintstick and ink on paper, 19.5x15.5 inches
Whitney Museum of American Art, New York; Purchase, with funds from Mrs.
William A. Marsteller, The Norman and Rosita Winston Foundation,
Inc., and the Drawing Committee
street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
illegalità
Sono nati anche per questo. Per sfidare
la legalità e l'ordine metropolitano. I
graffiti sono diventati un'emergenza per
le maggiori capitali del mondo. Tra
criminalizzazione
e
integrazione,
le
amministrazioni metropolitane devono fare
i conti con le bande, i teppisti, gli
artisti. New York, Parigi e Londra hanno
messo a disposizione vecchi muri e
palazzi dove si possono realizzare i
graffiti. Ma il problema resta perché i
tags non possono essere recintati ed
invadono continuamente spazi. Ogni anno i
bilanci
comunali
devono
destinare
svariati miliardi per pulire strade e
metro. A Los Angeles, è stato creato un
distretto di polizia incaricato proprio
di lottare contro i graffiti. Si chiama
TAGNET,
ovvero
"tagger
and
graffiti
network enforcement team", ed è un gruppo
di repressione capace di decifrare e
scovare i graffitisti di tutto il Sud
California.
In Italia, il pubblico dei graffiti è
diviso. "Arte o crimine? Giudicate voi" è
scritto su un muro della stazione San
Pietro di Roma. A Milano nel '94 sono
stati devoluti ben quattro miliardi per
ridipingere i muri "bombardati".
Due
anni
fa,
il
ministro
ai
Beni
culturali
Alberto
Ronchey,
aveva
ingaggiato una sua personale battaglia
presentando un apposito disegno di legge
contro questa forma di "vandalismo". Nel
giugno '94 un pretore del tribunale di
Milano ha invece assolto due giovani
accusati secondo i termini giuridici, di
"avere imbrattato con l'uso di vernice
spray
le
gallerie
della
fermata
metropolitana di San Donato". Per il
giudice
"il
fatto
non
sussisteva".
Indirettamente il pretore ha riconosciuto
il valore artistico dei disegni dipinti
costringendo ad un clamoroso dietrofront
l'azienda municipali di trasporti, l'Atm.
Per tutta risposta le ferrovie del
capoluogo
lombardo
(che
ogni
anno
spendono 6 miliardi per ripulire i treni)
hanno invece organizzato nell'estate '95
un'insolita iniziativa: ad una decina di
writers è stato permesso di dipingere
interamente
due
vagoni
ferroviari.
Qualche mese prima, il museo della
Scienza della Tecnica di Milano aveva
esposto
immagini
e
tele
di
famosi
graffitisti.
street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
Da www.aereosolart.it - 2NEKO
KW CREW Lanciano
Da www.aereosolart.it - ASKER
ACV-Interplay
Da www.aereosolart.it - KEBO
Potenza
street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
In Italia e in Europa
La diffusione massiccia della cultura
hip-hop avviene negli anni Ottanta, prima
nel Nord e poi nel Centro-Italia. Ma è il
movimento studentesco "Pantera" che nel
'90 trasporta il graffitismo nel fulcro
della loro espressione: i centri sociali.
Si tende a privilegiare il messaggio
rispetto ad un discorso più strettamente
artistico. I graffiti nei centri sociali
sono
quasi
sempre
in
italiano.
Il
rapporto con i graffitisti italiani è
contrastato (vedi scheda "illegalità").
Alcuni comuni (Arezzo, Rozzano, Ancona e
Padova) hanno messo a disposizione spazi
permanenti. Fra i nomi famosi ci sono
"Rendo" di Milano, "Damage" e Zero T" di
Firenze, "One art" di Rimini, "Damage" e
"Zart" di Ancona. A Roma, "Clown",
"Soho", "Maelo", "Manjar", "Crash Kid".
Inghilterra. I graffiti a Londra si sono
sviluppati diversamente rispetto al resto
d'Europa. Gli inglesi fin dall'inizio
hanno preferito i muri ai treni. Scritte
di argomento politico proliferavano negli
anni '60 e verso la metà degli anni '70,
quando bande come i "Clash" e i "Sex
Pistol" usavano graffitare i muri dei
locali nei quali si esibivano.
Parigi
viene
considerata
il
centro
europeo
dei
graffiti.
In
Europa
i
parigini sono i primi a passare dalla
scritta ad un disegno più completo.
All'università di Saint Denis "Cultura
Pop e graffiti" sono diventati materia
d'esame. Anche i parigini hanno alle
spalle la cultura hip-hop ma molti si
ritrovano
nel
rap
degli
immigrati
africani di seconda generazione. I più
bravi graffitisti francesi sono "Mode 2",
"Band˜", "Skki", "Color 2", "Slice".
La città di Dortmud è diventata famosa
perchè nessun treno è scampato alla
vernice. Anche Monaco occupa un posto
importante
nella
mappa
dei
graffiti
europei. Il writer tedesco più famoso è
"Loomit", considerato addirittura uno dei
più bravi d'Europa. Altri artisti sono
"Katmando",
"Gawki",
"Odeon",
"Abc".
Olanda. Ad Amsterdam c'è un signore che
si chiama Yaki Kornblit. Nell'83 decise
di organizzare un'esibizione dal vivo di
graffitisti cittadini. Su autobus, treni,
metropolitana e, grazie ad uno spesso
strato di ghiaccio anche sui muri che
costeggiavano i canali, dalla notte al
giorno spuntarono i graffiti.
street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
Da www.greatbates.com - Ninja Turtles productions
Parasites crew, Thessoloniki, Greece
street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
Siti web di riferimento
www.ewokone.org
www.at149st.com
www.cope2truelegend.com
www.greatbates.com
www.156allstarz.com
www.stick-up-kids.de
www.biescrew.com
www.streetsy.com
www.woostercollective.com
www.aerosolart.it
www.defragmag.com
www.graffiti.org
Drue, from Los Angeles, California USA
street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
URBAN DESIGN E STREET ART
Spazio viveHOME! Milano, via Denti, 1
In concomitanza col Salone del Mobile, ArtKitchen presenta una rassegna dei migliori
street artist italiani. Dalla strada sono approdati in una piccola galleria in zona Piola
a Milano, uno studio d’architettura che diventa galleria per l’occasione. Non c’è niente
da fare: il contesto urbano arricchisce e impreziosisce le opere della street-art milanese
che, concepite per le vie, le strade e i ponti di Milano, danno il meglio di sé proprio in
quelle location ad hoc. Ecco quindi che nella saletta della mostra ci si sente un po’
spaesati, ma almeno i giovani artisti possono godere della giusta attenzione e
considerazione.
Cominciamo da Pao (Paolo Bordino, Milano, 1977), che ha riempito di colore e fantasia la
zona dei Navigli coi suoi simpatici pinguini pupazzo che come i cartoni animati o i
personaggi dei fumetti sorridono sornioni dai paracarri di Enzo Mari. Ormai una certa fama
lo porta a diventare un po’ più commerciale e a vendere le magliette o altri gadgets
…insomma una vera e propria professione nata dalla passione per lo spray. Giovanissimo,
dopo un viaggio a Londra, torna a Milano per il servizio civile presso l’ufficio di Dario
Fo e Franca Rame e ben presto è pronto a lasciare il segno. Abbiamo però scoperto un
triste segreto: non tutti i pinguini sono opera di Pao, ma ormai per lo più sono disegnati
da Jacopo, il produttore di Pao, che quasi nell’ombra supplisce alla pigrizia dell’artista
che si gode i momenti di una discreta notorietà.
E’ la volta di Ivan (Ivan Tresoldi, Milano, 1981)! Un poeta intraprendente che dissemina
Milano di cartelloni con i suoi versi o li scrive sui muri e le saracinesche delle
botteghe. Molte installazioni sono davvero notevoli, coi tableaux che scendono dai ponti o
i ponti stessi scritti a caratteri giganti…peccato che le foto documento di queste opere
abbiano proprio dimensioni ridotte e rendano nemmeno una briciola del lavoro originale, in
verità maestoso e coinvolgente. La passione politica lo spinge nel 2003 nelle comunità
zapatiste in Messico, dove realizza il progetto Immensa Mexico, una contaminazione tra
racconto, poesia e arte visuale.
street art - graffitismo
realtà artistica o vandalismo urbano?
URBAN DESIGN E STREET ART
Spazio viveHOME! Milano, via Denti, 1
Da Barcellona ecco arrivare TV-BOY (Salvatore Benintende, Palermo, 1980), un ragazzetto
dalla testa a forma di televisore, che ci ricorda quanto i mass-media riempiano spesso
inutilmente e vanamente la vita. Con una grafica precisa e dal taglio efficace raffigura
splendide donne seducenti con l’immancabile piccolo Tv-Boy che le affianca.
Queste opere allegre, scherzose e colorate rispondono con ironia al grigio e allo
squallore di certe zone della metropoli. La poesia risolleva il cuore dall’ansia della
vita frenetica e dall’alienazione della solitudine della grande città, dove tutti corrono
a volte senza vedere e senza fermarsi un momento, per tirare un sospiro di gioia
e
libertà, inaspettato dietro a un angolo di strada.
Vera Agosti
angelo bellobono
angelo bellobono
www.angelobellobono.com
[email protected]
Angelo Bellobono Nettuno 7/6/1964
vive e lavora a Roma.
Inusuale il percorso formativo di Angelo Bellobono,un
percorso che non segue i canonici studi d’arte,
anche se
esplora le potenzialità dei vari mezzi espressivi.
Gli studi scientifici e lo sport praticato a livello
professionistico, gli consentono di approfondire conoscenze
sulla chimica e la fisiologia dell’uomo e i viaggi ,la
scoperta di realtà e umanità estreme e fragili.
Dalle esperienze di scrittura e graffitismo degli anni 80,
passa alla pratica pittorica e all’uso delle performance e
installazioni .Un lungo soggiorno negli Stati uniti,lo mette
in contatto con artisti della west coast, quali Liza Lou ,
Bill Viola, Cosè Bedia e critici come Robert Pincus che
scrive di lui sul S.Diego Union Tribune. .Nel ’95 la sua
prima personale a S.Diego presso la Galleria Spagnolo, con
la quale collabora proficuamente alla realizzazione del
Reincarnation
Building,
un
ex
industria
della
carne
trasformata in spazio no- profit dal Comune della città
Californiana. Spostatosi poi in Francia , espone al Centro
Culturale e congressuale di Val D’Isere e alla Galleria
civica di Contrexville.
Nel ‘99 rientra a Roma e si concentra sulla pittura ,seguito
da vari critici, tra cui
Lorenzo Canova Raffaele Gavarro
,Gianluca Marziani e Alessio Verzenassi. Partecipa a varie
mostre personali e collettive in spazi pubblici e privati ed
è invitato a vari premi,come IL Lissone,Il Morlotti, il
premio Termoli e nel 2005 vince il Premio celeste nella
sezione pittura.
Collabora con alcune gallerie tra le quali: Atri lavori in
corso, Il Sole project, Tossi, Piziarte ,Officina 14 e art
sinergy.
ARTISTS STATEMENT
Tutto è nelle mani della chimica. La chimica è la parte invisibile di tutto.
Ognuno di noi è un laboratorio in balia dell’esistenza.
Ognuno di noi è un ricercatore, non sempre in grado di controllare gli elementi mescolati e le reazioni provocate.
La pittura è il mezzo che preferisco per decelerare le immagini, congelarle e magari poi appenderle a sciogliersi.
Spiriti e anime non mi appartengono.
La chimica crea paura, sforzo, piacere e dolore.
Ci fa difendere e attaccare, accelerare e rallentare.
I visi e i corpi hanno i segni di ciò che avviene dentro di loro.
Cerco l’ipertrofia e l’ipotonia delle emozioni. Artificiale e naturale sono la stessa cosa; stessi elementi diversamente combinati.
Esercizi per corpi artificiali
Lorenzo Canova
Macchine, pasticche ed elettrocardiogrammi, allenamenti
progettati sul DNA e sulla struttura muscolare di atleti
costruiti in laboratorio, farmaci che annullano la fatica
e sostanze chimiche che potenziano tutte le funzioni
fisiche, un apparato cardiovascolare programmato per
oltrepassare
ogni
limite
dell’organismo:
da
tempo
l’iconografia di Angelo Bellobono si confronta con le
tematiche di uno sport che confina sempre di più con la
tecnologia militare e che appare diretto ad elaborare un
corpo forgiato come la complessa struttura di un congegno
biomeccanico.
Bellobono, con un occhio spietato e partecipe, descrive
così
le
forme
artificiali
di
un’umanità
mutante,
ricodificata come un’architettura vivente e corazzata
come un raffinato strumento da guerra: una nuova razza
fatta di membra dilatate con gli attrezzi e con la
chimica, di sportivi impostati per raggiungere soglie
agonistiche sempre più avanzate, di anatomie configurate
al computer per varcare gli ostacoli del dolore e della
corporeità.
Nella rappresentazione di questa nuova figura postumana,
la pittura dell’artista vuole legare così un dichiarato
intento narrativo alla ricerca di un’esattezza quasi
fotografica, un nitore iconico dove le immagini sono
elaborate con un metodo empirico che può trovare tuttavia
affinità in un software digitale di deformazione e di
ricodificazione dei dati visivi, un processo trattato con
un’ottica “fredda”, concentrata nella scabra semplicità
della trama monocromatica.
Nella volontà di far confinare la pittura con il momento
“mentale” e progettuale del disegno, l’artista sceglie
infatti di ridurre deliberatamente il forte impatto
espressivo delle sue opere e della sua tessitura
pittorica, limitandolo alla sola forza della forma e
senza cedere alle lusinghe del colore, in una serrata
lotta condotta per comporre e governare la ricorrente
tentazione a calarsi nel magma disturbante della materia
e nel flusso carezzevole del pennello disteso sul
supporto.
Nel
suo
lavoro,
concentrato
su iconografie
apparentemente banali, Bellobono riesce allora a
delineare un tracciato unitario attraverso il
caos visivo che accompagna la nostra vita
quotidiana, a trovare un percorso compiuto in
quel labirinto di immagini a cui il pittore
riesce a donare energia, senso e coerenza.
Per
aumentare
il
valore
allusivo
e
quasi
simbolico delle sue opere, Bellobono ha deciso di
far dialogare frequentemente la sua pittura con
il video e con la performance: e proprio la
performance appare la dimensione più adatta a
definire
il
lavoro
dell’artista,
nel
suo
significato
riferibile
sia
alla
prestazione
sportiva che all’opera d’arte concepita come una
“azione” che confina con la rappresentazione
teatrale.
Il
carattere
“performativo”
della
pittura di Bellobono si definisce tra l’altro
anche nei tempi e nei modi della sua esecuzione,
basata su una tecnica allo stesso tempo rapida e
ineccepibile, una stesura che, come il gesto di
un atleta in gara, non prevede il minimo errore,
pena una sconfitta irrimediabile che non ammette
ripensamenti o rivincite.
L’ultimo
ciclo
del
pittore
sembra
così
organizzare un percorso dove le opere seguono le
tracce di una “scheda” di allenamento virtuale,
un circuito formato da esercizi e da supporti
chimici, un programma concepito per fabbricare
atleti invincibili o per dare una speranza a chi
cerca di vincere tutti i condizionamenti della
propria struttura corporea.
Il Body Life Program messo in scena da Angelo
Bellobono prevede dunque l’avvento di una nuova
forma umana, fondata su una mutazione fisica e su
una profonda metamorfosi dello stile di vita
(dall’alimentazione, alla respirazione fino ai
minimi gesti quotidiani) che accompagna le grandi
trasformazioni imposte dall’articolato incrocio
tra i sistemi di preparazione atletica e le
tecnologie biofarmaceutiche che favoriscono la
crescita ossea e muscolare.
Con lo sguardo sagace che accompagna anche le sue
opere più paradossali, Angelo Bellobono avverte
però il rischio di un possibile e inquietante
tentativo di classificazione e di selezione
genetica:
una
situazione
dove
le
classi
“superiori”
(progettate
per
vincere
e
per
dominare)
potranno
sovrastare
l’umanità
“inferiore” destinata ad un’inesorabile disfatta,
oppure - in una visione degna di Blade Runner uno scenario dove gli atleti “sintetici” allevati
in
vitro
potranno
essere
usati
come
le
avanguardie sperimentali dei soldati futuri,
guerrieri
addestrati
per
sfidare
tutte
le
possibili avversità e per affrontare il nemico
con qualunque tipo di clima e di condizione
atmosferica.
Tuttavia,
nella
sua
stratificata
ricerca,
l’artista non raffigura soltanto le anatomie e le
“armature” muscolari di questa nuova umanità
ipertrofica,
ma
vuole
indagare
anche
le
inquietudini e le complessità interiori che
attraversano le sue molte personalità,.
Il pittore dona in questo modo una nuova
dimensione al suo apparato visivo, concentrato in
particolare
sui
volti
dei
personaggi
che
diventano i protagonisti di un lungo racconto, di
una
storia
da
cui
può
emergere
la
loro
compiaciuta
autocontemplazione,
il
loro
narcisismo quasi disperato o la loro violenta e
ossessiva volontà di affermazione.
Con la sua visione caustica e rigorosa, la
pittura dell’artista scopre così il tormento,
spesso assurdo e grottesco, che accompagna gli
sguardi di queste figure, il senso di inutilità e
di
assenza
che
accompagna
queste esistenze
sintetiche, il vuoto che i pesi e gli steroidi
non
riescono
a
colmare,
in
una
lucida
rappresentazione che, con caustica ironia, ci
svela
l’irrimediabile
solitudine
dei
giorni
vissuti dalla nuova umanità artificiale.
Lacrime e sudore subito sotto l’immagine
Raffaele Gavarro
Le leggi del corpo condividono con quelle dell’anima
Il rifiuto delle soluzioni troppo semplici e immediate,
mentre comportano, con un desiderio reso ancora più
bruciante dalla natura meccanica, all’apparenza più
risolvibile, del male, la cieca fede nei balsami e nelle pomate.
Antonio Franchini, “Quando vi ucciderete, maestro?”, Marsilio Editori, 1996, Venezia
Proprio quando pensavamo di esserci lasciati alle spalle le vischiose pesantezze della materia, finalmente liberi di involarci nello spazio-tempo
digitalizzato e virtuale, una mano tanto risoluta quanto inopportuna ci ha ripiombato nella fisicità più drammatica e antica.
Tutto quello che la televisione e i supermedia avevano divorato – identità dei luoghi e differenze culturali, valore della produzione e specificità dei
mercati, con quello che consegue – viene oggi ampiamente rigurgitato guastandoci l’illusione che il più era fatto. Così quella che appena dieci
anni fa era una guerra inesistente, tanto per fare un esempio, oggi è proprio la televisione a renderla reale in tutta la sua terribilità. Strano poi che
il luogo così come le parti in conflitto coincidano, quasi fosse un’ironica sottolineatura di come le cose sono cambiate solo nella nostra
percezione, ma non nella realtà.
Comunque mai fidarsi troppo dei sogni dell’uomo, soprattutto di quelli che illudono sulla capacità di poter fare a meno della zavorra del corpo e
che trattano la realtà unicamente come modello buono per l’elaborazione di un’immagine, sia anche quella mirabile detta di sintesi. Come al solito
le sottili e sensibili antenne dell’arte hanno captato per tempo quest’imprevedibile quanto decisa necessità di ri-materializzazione del reale,
cercando opportunità e modi per rientrare in contatto con quest’ultimo, ma soprattutto per mostrarlo e renderlo di nuovo credibile per quello che è.
Molto spesso, e per il momento, l’opera si pone infatti come una certificazione di quella che è la zona di realtà in cui insiste, oppure come la
dimostrazione di un’esperienza direttamente provata e verificabile, il documento delle sue tracce. Quest’ultimo è il caso di Angelo Bellobono.
Tutto il suo lavoro è concettualmente concentrato sulla fatica fisica, sullo sforzo cardiaco-muscolare, che diviene un vero e proprio paradigma
esemplificativo della condizione dell’uomo. Naturalmente è un paradigma contraddittorio nei confronti di quella che è la normale situazione
dell’uomo contemporaneo, che non ha in pratica bisogno di esercitare quasi nessuno sforzo per procurarsi quello che gli occorre per la
sopravvivenza e oltre. Lo sport, la fatica sportiva, diviene così una sublimazione, ma anche un memento, un residuo tangibile delle capacità di
sopravvivere nel mondo grazie alla nostra velocità, forza e abilità. La cosa che rende questo ragionare determinante nel nostro contesto è
l’esperienza diretta che Bellobono ha della fatica fisica, essendo lui stesso un atleta, uno sciatore per la precisione. Una vita passata sulle piste in
montagna e in palestra, a studiare nelle aule dell’Isef fisiologia e meccanica del corpo umano, a mettere a punto programmi per sfruttare i margini
di miglioramento e per tenere in stretta connessione tecnica e talento. Scoprire i propri limiti e raggiungerli, se possibile superarli. Questo è in
sintesi il percorso di un atleta, di una persona che fonda l’esistenza sulle capacità del proprio fisico. Ovviamente anche in quest’ambito c’è stata
l’immissione di una buona dose di virtualizzazione, con l’utilizzo delle nuove tecnologie e dei doping di ultima generazione che ne derivano. Un
emblematico fondersi di aspetti tra loro sostanzialmente estranei, che si trovano a finalizzare un desiderio di distacco dell’uomo dalla propria
fisicità, dai limiti che la qualificano. Bellobono cerca di mostrare tutte queste dinamiche dall’interno. La sua osservazione è infatti guidata
dall’esperienza, grazie alla quale dirime la sequenzialità fisica e temporale dello sforzo arrivando ad isolarlo come momento espressivo
dell’atleta.
Quanto più Bellobono è riuscito a mettere a fuoco e a concentrarsi su quest’aspetto della questione, tanto più efficacemente la sua
rappresentazione ha perso lentezza narrativa ed eccessi espressivi. La pittura è infatti oggi caratterizzata da decise zone monocrome, quasi
astratte, in cui un particolare, o poco più, di un volto emergono ai margini della tela. La tensione dello sforzo si avverte tanto nella fisionomica
alterata, che appena sotto la stesura monocroma, assimilata alla velocità che è pari a quella dell’ombra che passa nello sguardo il momento
esatto dello sforzo conclusivo.
Partito da esperienze di tipo installativo e fotografico, maturate in un lungo soggiorno negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni novanta,
Bellobono arriva alla pittura ritrovando quella fisicità con cui ha dimestichezza. Una dimensione che gradualmente controlla sempre di più,
accentuando l’aspetto elaborativo e concettuale a sfavore della semplice formulazione dell’immagine. Il risultato di questo procedere, oltre che
nei quadri è anche nel video realizzato per questa mostra e che funge da corrimano parallelo alla pittura. Si tratta di una sequenza con camera
fissa, in cui si vede un tapis roulant vuoto che scorre, mentre il sonoro è costituito da un battito cardiaco rallentato. Anche qui il mezzo video è
tenuto ad un livello espressivo minimo, cercando di dare più coordinate immaginative che immagini. D’altro canto la macchina ci porta ad un
piano del reale inequivocabile. È il referente quotidiano dell’azione fisica di quei personaggi che intravediamo nei quadri. Ma la cosa interessante
è che il tapis roulant è un oggetto della realtà che serve a simulare un movimento che di fatto ha finalità autoreferenziali. In un certo senso si
tratta di un precipitato fisico, reale, di un processo di virtualizzazione di un’azione naturale com’è il camminare e il correre. Tra pittura e video si
crea quindi un fitto intrecciarsi di riferimenti e di funzioni. Una sorta di mutuo assistenzialismo di senso, in cui la presenza umana nella pittura
completa l’immagine video, mentre la realtà di quest’ultimo fornisce un preciso dimensionamento all’umanità raffigurata nei quadri. L’uso
sincronico di diversi mezzi espressivi è la conseguenza di oltre un decennio di mobilità linguistica praticata dagli artisti, in conseguenza alla
necessità di adattare i diversi bisogni espressivi con il modo più efficace per esprimerli. Qualcosa d’analogo alla relazione funzionale che c’è tra
un attrezzo e il muscolo che aziona, come tra una modalità di allenamento e il risultato che si vuole ottenere. Una semplice relazione di causa
effetto, com’è per tante cose della vita reale.
antonio marra
antonio marra
krelian.altervista.org
[email protected]
Il mio nome è Antonio Marra e sono nato a Reggio Calabria nel
1982.
Mi sono diplomato in disegno industriale all'istituto d'arte
della mia città e attualmente sono uno studente d'architettura
dedito all'arte.
antonio marra
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augusto marchetti
augusto marchetti
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Diplomato al liceo artistico trent'anni fa, dopo un breve periodo dedicato alla
pittura e collage, ho ripreso in mano la matita dopo tanti anni, riscoprendo
la passione per il disegno. Faccio ritratti di persone "rubate" dalle pagine dei
rotocalchi e da internet, (quindi profilo e percorso artistico non è che ne
abbia molto anche perché le cose che facevo le ho sempre tenute per me).
Mi sono convinto della mia abilità dopo aver ottenuto un grande successo di
pubblico e di critica anche da parte di insegnati e alunni dell'istituto d'arte
cittadino alla mostra "11 Disegni da 11 Ritratti" allestita nello spazio shopmoda, che proponeva capi di tendenza offrendo anche uno spazio espositivo della
propria creatività affidandomi al tratto deciso e definito della matita. Bianco
e nero. Una tecnica a detta della critica, che evidenzia le capacità
dell'artista e che consente di cogliere fino in fondo l'integrità espressiva dei
soggetti………..La tecnica acquisita ha sicuramente una sua valenza, ma la capacità
di far rivivere si fogli di carta l'espressività di un volto è cosa innata. Il
tratto deciso della matita, i particolari attenti del chiaro scuro rendono i
ritratti migliori di una fotografia in bianco e nero. I disegni di Marchetti
sono talmente straordinari da sorprendere e disarmare qualsiasi esperto………..Da
alcuni stralci di recensioni e da articoli dal quotidiano "LA NAZIONE" .
augusto marchetti
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barbara agreste
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www.bambee.org
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Barbara Agreste nasce a Pescara nel 1971 e la sua formazione inizia al liceo
artistico della città.
Successivamente frequenta i corsi di scenografia dell'accademia di Brera a
Milano, ma non essendo paga dell'atmosfera culturale che respira in Italia,
nel 1993 parte per l'Inghilterra, dove fa' l'esperienza della performance
lavorando per alcune compagnie di teatro-danza.
Dopo qualche anno si iscrive all' università del Kent ('Kent Institute of Art &
Design'), studiando 'film & video production' dalla quale ottiene la laurea
(Bachelor of Arts) nel giugno del 2000, titolo grazie al quale puo' accedere al
corso di specializzazione in ''Fine Art'' presso il "Central Saint Martins
College of Art & Design" a Londra dove consegue il "Master of Arts" nel
settembre del 2004.
Da allora Barbara ha continuato a produrre video arte e pittura partecipando a
mostre e film festival in Italia e all'estero.
Barbara vive e lavora a Londra pur essendo frequentissime le sue visite e i suoi
soggiorni in Italia
barbara agreste
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claudio bozzaotra
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Claudio Bozzaotra, nato a Napoli il 03/03/’59, architetto, professore a
contratto presso la Facoltà di Architettura di Napoli, alterna l’attività
professionale con quella artistica partecipando, dal 1979, a mostre d'arte
personali e collettive in spazi pubblici e privati a Cancello (Ce), Caserta,
Calangianus (Ss),
Firenze, Ferrara, Viareggio, Prato, Mercogliano (Av), Nola
(Na), Sorrento (Na), Benevento, Mari-gliano (Na), Baiano (Av), Pomigliano D’Arco
(Na), Bari, Scisciano (Na), Losanna (Svizzera), Scafati (SA), Stilo (RC),
Saviano (Na), Lauro (Av), Casamarciano (Na), Taurano (Av), Roccarainola (Na),
San Sebastiano al Vesuvio (Na), Glasgow (Gran Bretagna), La Habana (Cuba),
Innsbruck (Austria), Napoli, Milano, Roma, Villaricca (Na).
Ha pubblicato, oltre a saggi e articoli su varie pubblicazioni di tipo
accademico:
“LETTURA”, Edizione Libro d’Artista, Marigliano 2000. (edizione in 19 copie
numerate e firmate).
“La dimensione dell’immaginazione”, Hevelius Edizioni, Benevento 2000.
Alcuni suoi lavori sono pubblicati su riviste e quotidiani nazionali ed esteri e
sono presenti in collezioni pubbliche e private.
Hanno scritto di lui: E. Alberti, R. Barone, M. Bignardi, A. Calabrese, A.
Cuomo, N. De Vivo, P. Doria, C. Franci, A. Izzo, A. Melia, R. Notte, C.
Palmisciano, R. Pinto, E. Procaccini, G. Romano, G. Scotti, L. Tancredi.
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clara de paoli
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La presenza della sofferenza e del dolore nella vita dell’uomo è indispensabile
alla realizzazione di un processo creativo ed immortale dell’uomo stesso; esso è
un processo creativo necessario per l’uomo e per la vita per uscire da questo
universo, per nascere una seconda volta, dopo la sua fine naturale. Il dolore
allora è, in questo senso, la fonte di energia a cui l’uomo deve imparare ad
attingere, se vuole divenire creativo ed immortale, cioè artista che crea opere
d’arte immortali di se stesso. Anche l’uomo che subisce un evento imperfetto
prova un senso di dolore profondo, che investe sia la dimensione biologica, e
quindi parliamo di dolore fisico, ma anche la dimensione esistenziale, e perciò
parliamo di dolore, che minaccia il senso di sé, della sua identità, della sua
integrità e della sua collocazione nell’assetto cosmico della vita di quel
momento. Per l’uomo esiste la possibili tà che l’evento imperfetto patito, la
reazione di rabbia e la decisione di odio al dolore, possano divenire
successivamente essi stessi fonte di una ricerca nuova per un più alto grado
evolutivo di perfezione da raggiungere anche attraverso la creazione artistica.
"Ogni ferita ricucita che si cercherà di coprire o nascondere perché non sia
visibile, riemergerà sempre nell’esistenza di quella persona.“
De Paoli Clara
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donato faruolo
donato faruolo
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IL FINTO VS IL FALSO
L’arte è un accidente indispensabile, come ogni organo vitale del corpo animale, apparso in
modo accidentale e conservato dal giudizio dell’evoluzione per il semplice fatto di non
essere dannoso al procedere dell’esistenza.
L’uomo è la sommatoria di milioni di tentativi casuali conservati dal giudizio passeggero
delle cose in divenire. Ogni giorno egli è inadeguato a se stesso e muore sperando che la
propria prole, per errore, possa avere la possibilità di incastrarsi meglio entro i
meccanismi sferraglianti dell’universo che abita.
Così nasce il ritratto dell’errore, ma non dell’errore del malaccorto uso di un mezzo
imperfetto, bensì di quello che genera ed è generato dalla superficialità di uno sguardo che
non conosce modi per sopravvivere se non quello di appiattire le cose perché rientrino nello
spazio
bidimensionale
racchiuso
in
un’inquadratura.
L’intelletto
e
la
sensibilità
imbastiscono una frode ai danni del raziocinio e del senso per sfuggire all’arbitrarietà di
questo ineluttabile giudizio universale, e lo fanno offrendo asilo a tutto ciò che non trova
posto nella contemporanea società buro-democratica, non prima di tiranni, ma priva
dell’immagine del tiranno da stigmatizzare.
L’arte è un’amorale apologia della libertà della percezione, un luogo franco in cui
attraverso il fissaggio imperfetto e staticizzato del movimento del corpo, della luce, delle
immagini si suggerisce e si rappresenta un modo diverso di percepire le cose rinnegando la
frammentarietà falsaria del classico processo di scansione sensoriale e di razionalizzazione
analitica della realtà. La percezione immaginifica e demiurgica dell'intelletto umano è così
riportata alla sua dignità grazie ad un processo di bidimensionalizzazione non ipocrita, ma
dichiaratamente bugiarda e finzionaria, e di taglio materiale e critico sulle cose che
scorrono nell'indifferenza.
Donato Faruolo
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alessandra abbruzzese
alessandra abbruzzese
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Alessandra Abbruzzese nasce in provincia di Brindisi nel 1973, dove attualmente
vive. Studia Architettura a Firenze , poi lingue straniere. Dipinge fin da
piccola. Compie a partire dall’età di 25 anni varie esperienze espositive
In diverse città d’Italia, tra cui Caserta, Torino, Roma, Bologna, Lecce, ecc.
Caratteristica fondamentale del suo lavoro è l’osservazione della realtà
attraverso un punto di vista mobile, che ambisce a
coglierne più aspetti
possibile, dal generale al particolare, attraverso più fasi, fino ad una che si
potrebbe dire ‘strutturale’; passando da una tela dalla superficie cangiante che riproduce solitamente rielaborazioni a grande scala di immagini o materie
concrete- ad una piccola foto, o piccolo dipinto, oppure al rifacimento di
un’intera stanza (installazioni site-specific). La sua ricerca si nutre di
differenti approcci e intende indagare il reale contrapponendo immagini
riconoscibili ad altre astratte, concettualizzate, come diversi aspetti di uno
stesso percorso e
che si completano a vicenda ; seguendo il senso e il gusto
della scoperta continua.
“Sento ciascun momento come irripetibile..e così lo credo e lo vedo…e lo vivo.
Talvolta uno è simile ad un altro, lo rievoca, ma la peculiare luce di ognuno
mi emoziona in modo sempre diverso: sfiora angoli sempre nuovi, accenna
direzioni, invita eventi, indaga qualcosa che prima non si vedeva…
E’ un “avvenimento dinamico”. Ricircola, si espande, evolve in altro. Ricerca la
realtà di ciò che lo provoca o semplicemente di se stesso.”
Scrive Lia De Venere: “Quella di Abbruzzese è una ricerca al tempo stesso
anacronistica e attuale, è un percorso che parte da subitanee intuizioni per
giungere a laboriose conferme, è un’indagine concreta e al tempo stesso mentale
sulla luce, è un lavoro intenso e sottile sul senso e sul corpo
della pittura.”
alessandra abbruzzese
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maría rosa jijón
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www.forma12.com/rosa
[email protected]
Ha svolto i suoi studi presso la facoltà di Arte dell’Università Centrale
dell’Ecuador
e completato corsi di specializzazione all’Istituto Superiore di
Arte dell’Avana, Cuba, completando la sua formazione con un master alla Kungliga
Konsthogskolan (Scuola Reale d’Arte) di Stoccolma, Svezia. Dal 1994 al 2000 è
stata
insegnante
d’incisione
e
serigrafia
nell’Università
Cattolica
e
nell’Università San Francisco di Quito. Dal 1998 ha collaborato come
coordinatrice dei progetti del Centro Ecuadoriano d’Arte Contemporanea (CEAC) e
come segretaria dell’Associazione degli Incisori dell’Ecuador. Attualmente vive
e lavora a Roma dove lavora con il progetto europeo MU-SE.
Collabora con
l’Associazione Candelaria Donne Immigrate e con il gruppo di lavoro G2, sulle
seconde generazioni di immigrati. Iniziando con l’incisione Maria Rosa Jijon, è
poi passata a lavorare con la fotografia digitale e più di recente con il video.
Nel 2005 ha co-diretto il documentario, La Polverera, presente in 7 festival
internazionali di video e cinema. Le sue opere sono state esposte in: Prague
Biennale 2, I Triennale Poligrafica di San Juan, Porto Rico, FotoGrafia, 2005;
I e II
Festival Internazionale di Roma; III Bienal Iberoamericana de Arte de
Lima, Perù 2002; IV e V Salon Internacional de Arte Digital, La Habana, Cuba
2003; VI e VIII Bienal Internacional de Pintura, Cuenca, Ecuador 1998 e 2004;
FotoFest 2000, Houston, TX USA; Encuentros Abiertos de Fotografía, Buenos Aires
Argentina 2000; I Bienal Itinerante Arte Acontecimiento RAICES Cuzco 2001;
FotoSeptiembre, Houston Center for Photography, Houston 1999; ed in varie
gallerie a Stoccolma, New York, Bucarest, Madrid,
Asunción, Buenos Aires,
Santiago del Cile, Lima, Roma, Palermo, Lucca.
MARIA ROSA JIJON
Quito, Ecuador
maría rosa jijón
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michele omiccioli
michele omiccioli
www.equilibriarte.org/koneman
Michele Omiccioli è nato a Fano (PU), dove vive, nel 1981. Autodidatta della
pittura, dopo la maturità classica nel 2000 si laurea all'Università degli Studi
di Urbino in Lettere Moderne con una tesi sul romanzo Corporale di Paolo Volponi
nel 2005. Personale nel 2003 presso la Galleria "La Contea" di Fossombrone;
premio speciale della Giuria nella V edizione del premio d'arte "La Tavolozza",
che gli vale l'invito per la 69° collettiva di pittura italiana "Maestri
Italiani nella Nuova Europa" dal 9 ottobre al 25 novembre 2004 presso la
Galleria Merum di Bratislava. Affiancando all'attività di pittore e illustratore
quella di poeta ha inoltre pubblicato, nel 2005, una piccola silloge intitolata
"Decadi dell'Ovest" presso la Gazebo Edizioni di Firenze, cogliendo importanti
riconoscimenti di illustri personalità dell'odierno mondo letterario italiano
come, tra gli altri, Valerio Magrelli e Giorgio Bàrberi-Squarotti.
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paola marchi
paola marchi
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Sono un'artista autodidatta. Ho iniziato a dipingere circa nove anni fa.
Quello che ricerco attraverso i miei quadri è un linguaggio semplice e il più
possibile immediato e fresco, che mi permetta di esprimere concetti anche
pesanti nella forma più leggera possibile. Dal punto di vista tecnico mi
definisco anarchica, non riesco a seguire nessuna regola definita e non posso
protrarre la lavorazione di un quadro a più di un giorno. Mi piace che la tela
sia vissuta e che porti i segni visibili di ripensamenti e cancellature. Mi
attrae tutto ciò che è scarabocchio e che va contro al concetto di "bel quadro"
o quadro ben fatto. I miei lavori sono delle elaborazioni in fieri attorno ad
un'idea di partenza. La mia ricerca è volta nella direzione di una liberazione
totale e istintiva della creatività.
paola marchi
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pier giorgio de pinto
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Pier Giorgio De Pinto è un artista visivo che lavora su un’idea performativa di
rappresentazione del corpo, utilizzando il medium tecnologico come forma privilegiata di
espressione.
L'esperienza dell'arte nella sua formazione di artista visuale lo ha visto partecipe a corsi,
workshop e seminari in una ricerca continua sui linguaggi contemporanei: dallo studio delle
arti plastiche, del video, dell’arte digitale e della fotografia allo studio del corpo
performativo tramite percorsi di forma e relazione comportamentale e stages di dizione e
recitazione. Ha collaborato al restyling e alla realizzazione della corporate identity di
alcune aziende di moda e design. Ha collaborato con molti artisti visivi ma anche del mondo
del teatro, del cinema e della danza.
Recentemente ha presentato presso il teatro La Limonaia di Sesto Fiorentino insieme alla
danzatrice Alessandra Palma di Cesnola, la performance “Amnios”. In collaborazione con il
gruppo di musica elettronica Plastic Violence sta realizzando il progetto grafico “The Dog
Series” per l’etichetta Death Paradise.
Come ricorda il critico Giuseppe Carrubba in un suo recente scritto: (in Pier Giorgio De
Pinto, ndr)…L’utilizzo del corpo è teatrale all’interno di una sequenza che ci appare fredda,
calcolata, cerebrale, e rimanda ad altro da sé, tramite la convergenza di sistemi
immaginativi e informativi che ci appartengono; reincarnazione, seconda pelle mutante e
geneticamente combinata.
Le immagini hanno un alto potere evocativo, sono sintomatiche di un processo dato per
accumulo che attinge alla mitologia sacra e pagana, alla società dei simulacri e dei consumi.
La cultura occidentale e le concettualizzazioni dell’uomo contemporaneo producono icone la
cui intelligibilità dipende da squisite capacità percettive, un viaggio mistico e sensuale
attraverso i saperi e i sapori, dove la carne e l’estasi conducono lo spettatore a
smarrimenti e punti di vista molteplici. Cultura e tecnologia vengono estremizzate dal mezzo
espressivo che è interfaccia culturale di una realtà sensibile e globalizzata.
Il corpo visivo, inquadrato dentro costruzioni e tagli asimmetrici, è sociale, storico,
sacro, emotivo, si offre e suggerisce una storia di potere, una radicale perdizione, una
vibrante devozione.
pier giorgio de pinto
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rita cavaliere
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Sogni/Incubi/Convinzioni.
Credo di aver sempre dipinto … fin da quando ne possa aver memoria.
La mia è una pittura che mi piace definire intimista. Non c’è nessuna tecnica che prediligo
più di altre; ciò che mi piace dare alla superficie pittorica e al mio piacere visivo e
tattile è la “materia del colore” qualunque esso sia; Spazio dai gessi, agli oli, agli
smalti, alla tempera, spessissimo mi trovo a mescolarli insieme e tessere così la mia tela.
Quel che provo a fare è un viaggio recondito, a ritroso dentro la propria coscienza, fino a
raggiungere se possibile, uno stadio altro, parallelo forse.
Uno stadio convivente che potrebbe essere un’altra vita gia vissuta o non … oppure essere
quella parte che bisognerebbe far riemergere dalle nostre memorie, dalla nostra coscienza
intima. Un viaggio, a ritroso nella memoria che siamo, che attraverso il sogno, l’abbandono
sensoriale, mi piace credere, possa condurre ad un’altra esistenza.
Un’esistenza più pura, che metta in relazione il nostro essere affiorante con le altre nostre
vite precedenti o future che siano.
Tutto ciò porta alla concretizzazione sul supporto pittorico di forme fluttuanti, statiche;
figure oscure inquiete presenze, all’apparenza tormentate e sconfitte …. sognanti ... in
cerca. Sono i volti di queste esperienze, di tutte quante le vite e la gente che risiedono
dentr’ognuno … come invasioni della mente.
Ricca di fermenti giovanili, … è la pittura di Rita Cavaliere, che trasmette le sue
inquietudini attraverso colori glaciali, forme evanescenti ed indistinte, maschere anonime
disposte ad assorbire e netraulizzare la forza delle emozioni, ma diventando allo stesso
tempo esse stesse emozioni, perché il male di vivere e l’altra faccia dell’inesausta voglia
di essere, di trovare quel centro di gravità permanente, che è il grande presente assente
delle opere di questa interessante artista.
Franco Bruno Vitolo.
rita cavaliere
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damiano tullio
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Forti cromie, tratto netto incisivo e pulito, queste le caratteristiche che saltano
all’occhio nelle opere di Damiano Tullio. Giovane artista/surfista romano, nelle sue opere
riversa la vita che assaggia ogni giorno. Cittadino del mondo è sempre in viaggio verso nuove
mete, ed è di questo che si nutre per creare i suoi segni. Vita ed etnie conosciute si
tramutano in simboli e in colore, dando nuova forma ai suoi materiali riciclati, oggetti del
mondo dall’uomo scartati, rinascono nelle sue mani , attraverso la sua creatività. Nelle sue
tele forte si legge l’influenza di Basquiat e di Harring, animi inquieti come lui, artisti
con un vissuto alla strada e che dalla città e dalle contraddizioni del mondo hanno tratto
spunto per la loro arte. Damiano lavora anche con i tatuaggi ed è laureando alla facoltà di
Lettere con indirizzo Demo-Etno-Antropologico.
Lo studio dei popoli e delle culture è alla base della sua ricerca, e il suo essere
anticonformista è detto a gran voce nei suoi lavori.
Manuela Grasso
damiano tullio
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davide poggi
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Questo giovane artista, formatosi da solo, sperimenta il mezzo fotografico su se stesso
approfondendo un’arte che lo porta ad indagare il suo animo.
Un viaggio introspettivo, il suo, che lascia emergere un’interiorità complessa.
Osservando i suoi autoscatti si resta colpiti dalla violenza espressiva, la moltitudine di
emozioni che lo animano emergono con forza. Nelle sue foto non lascia spazio ad illusioni,
ma ci comunica in modo chiaro diretto e sanguigno le sue motivazioni.
Attraverso la body painting e l’uso di luci in un gioco di colori e ombre, senza tralasciare
l’apporto delle tecnologie digitali, ci lascia ascoltare il suo dialogo interiore.
Nella sua comunicazione c’ è anche il rapporto uomo-ambiente, alla ricerca di una serenità e
di un equilibrio tra il sé e il tutto, Davide realizza foto immerso nella natura o
all’interno di edifici abbandonati, così come nelle fabbriche. Luoghi in cui la nudità
dell’uomo si scontra o si fonde con l’ambiente circostante, rappresentando l’uomo nella sua
forza quanto nella sua debolezza alla continua ricerca della quinta essenza dell’essere.
Manuela Grasso
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vania elettra tam
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«We are standing
dummies»...
here,
exposing
ourselves,
We
are
showroom
dummies,
We
are
showroom
Ho voluto che fossero le parole di una canzone dei Kraftwerk, uno dei gruppi musicali simbolo
della rivoluzione tecno degli anni Ottanta, in cui si narrano le avventure dei manichini da
esposizione, a fare da colonna sonora e da guida nell'analisi delle opere di Vania Tam. Una
sorta di distorto desiderio sinestesico di associare le sensazioni dei colori e delle forme
alla musica 'artificiale', quale quella elettronica, formando così un tutt'uno con i soggetti
ritratti sulle tele.
Già perché quello che Vania Tam rappresenta è un mondo popolato da automi la cui rigida
anatomia è composta da pezzi che si interscambiano con grande facilità e naturalezza.
'Terminator' mutanti con il volto umano e che dell'uomo scimmiottano le espressioni più
curiose e a volte stupite.
L'orizzonte che Vania raffigura è però squisitamente autoreferenziale. I soggetti hanno,
infatti, le sembianze fisionomiche dell'artista stessa. Ed è proprio analizzando
quest'aspetto che improvvisamente ho sentito sfuggirmi qualcosa. Quello che Vania Tam
inseguiva, infatti, non era solo un risultato puramente formale. C'era qualcos'altro che
pareva mancare alla realizzazione del mio puzzle mentale; qualcosa di più profondo; qualcosa
di più nascosto.
«We're being watched, and we feel our pulse, We are showroom dummies, We are showroom
dummies»...
Balza immediato all'occhio, infatti, che il mondo che Vania riporta sulle sue tele
a una realtà intima, in un desiderio di autoreferenzialità che non è semplice
Narciso. Sarebbe stato troppo banale per crederci. Già perché Vania Tam lavora
gioca – su un doppio registro. Da una parte, c'è una forte autoanalisi che rivolge
io.
appartiene
vanità da
– e forse
al proprio
vania elettra tam
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Quasi in una sorta di seduta psicanalitica, dipinge e dà voce a tutti i suoi stati d'animo più inquieti. 'Mi
ricompongo…' – è questo il titolo di una delle sue serie - urla la sua voglia di cambiamento, sia essa momentanea,
di riscatto da un malessere, da un dolore, da una sofferenza, o esistenzialmente più profonda. E allora va bene
cambiare i propri 'pezzi'... ora un braccio, ora una gamba, ora un occhio per vedere la realtà in un altro modo e
fingersi attori di una scena, così come i manichini, cambiando abito, danno sfogo alla creatività e al messaggio
pubblicitario che viene, loro malgrado, imposto.
Dall'altra, quella di Vania è una pungente quanto efficace critica alla società consumistica, quella che richiede
dai suoi partecipanti un'omologazione assoluta a dei clichè prestabiliti, e che impone dei bisogni indotti ai
quali si deve sottostare, pena l'esclusione dalla riserva sociale della maggioranza. Vania ha ben presente questa
realtà. Una realtà, forse, cui lei si sente vittima, ma in questo caso anche terribile carnefice.
L'artista che è in lei coglie tutto questo e lo rappresenta con una pittura cruda, piatta, caratterizzata da
campiture di colore nette, e si spinge fino alle espressioni più grottesche, solo momentaneamente mitigate dagli
atteggiamenti stupiti dei volti, ma senza grande speranza di risolvere una situazione di per se stessa
ineludibile, se non in una dimensione altra che appartiene alla fantasia e al sogno.
We start to move, And we break the glass, We are showroom dummies, We are showroom dummies»...
I manichini che rompono le vetrine e si riversano nelle strade c'introducono nella serie della 'Sedia rossa', un
ponte, una cesura tra quello che è stato e quello che sarà – forse – la carriera di Vania Tam. Una serie di tele
che simbolicamente segnano il passaggio tra il mondo artificiale e quello reale. "Certo un sogno, che altro?",
diceva Von Hoffmansthal. E ben venga il sogno, dunque! Un sogno che liberi dall'alienazione e che ci conduca
altrove, in una realtà altra, in una realtà forse più quotidiana ma davvero nostra.
«We step out, And take a walk through the city, We go into a club, And there we start to dance, We are showroom
dummies, We are showroom dummies...»
Ed è qui che troviamo i personaggi di Vania, ora non più manichini, non più automi, non più Terminator mutanti.
Nella serie dei 'divani', umani incontrano - finalmente - umani, sebbene tutti conservino come proprio segno
distintivo, l'indistingubilità e l'inafferrabilità fisionomica dei volti. Un'umanità però che ha riconquistato i
propri luoghi, i propri spazi, la propria geografia dell'anima. Ed è qui che risiede la loro vittoria; che è anche
poi anche la nostra, perché tutti noi, in fondo, siamo showroom dummies, showroom dummies...
Carlo Ghielmetti
vania elettra tam
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