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 www.etnografiadigitale.it 1 comunità di sangue e pixel Don’t worry – I’m a good Indian. I’m from the West, love nature, and have a special, intimate connection with the environment…I can speak with my animal cousind, and believe it or not I’m appropriately spiritual. (Even smoke the Pipe)…I hope I am authentic enough” (Durham, 2002:211). L’imbarazzo immediato derivato dall’invito di scrivere su Avatar, cioè sul film di James Cameron, deriva da una condizione personale troppo esposta su tale questione. Nel senso che entrambi i lati “binari” (quello “etnico” e quello “avatarico”) del film sono stati da me vissuti in prima persona come ricerca sul campo: Avatar è stata la rivista di antropologia e arti digitali da me ideata e diretta dalla fine degli anni 90 fino alla sua secca conclusione; la ricerca etnografica sulle culture indigene brasiliane mi ha fatto vivere e riflettere, emozionare e crescere nelle mie visioni sulle alterità radicali dall’inizio dei 90. Quindi per me questo intero decennio si apre con l’incontro Xavante e si chiude con il progetto Avatar. Etnografia e digitale sono connessi. Infatti, tali esperienze progettuali sono costitutive dell’ipotesi su cui continuo a lavorare della tensione dialogica e conflittuale tra aldeia e metropoli. Cioè tra i villaggi dove vivono le culture definite “native” e la metropoli comunicazionale dove, tra l’altro, si producono cinema e tecnologie digitali. Questo è il mio imbarazzo: un eccesso di coinvolgimento sulle mie scelte anche personali che mi hanno fatto decidere di lasciare Roma e l’università italiana. a-­‐ Xavante, Bororo o Na’vi Il Mato Grosso è uno stato del Brasile, paese che ha una costituzione federale affine a quella degli Stati Uniti. Negli ultimi anni, la soia – l’oro verde – ha costituito una enorme fonte di espansione economica dell’intera regione, che ha contribuito al nuovo ruolo internazionale del paese. Tale prodotto, di cui si fanno persino tre raccolti l’anno, non solo accresce la ricchezza prodotta dalla stato, quanto favorisce la crescente alleanza strategica globale con la Cina, grande consumatrice e importatrice della soia brasiliana. Ricordo ancora perfettamente una mia esperienza di diversi anni fa, in una delle prime visite all’aldeia Bororo, in cui fui costretto a guidare un fuoristrada in un traffico da incubo per i continui camion stracarichi di questa soia, su un asfalto che si sbriciolava sotto i pneumatici di questi sgangherati trucks troppo pesanti, provocando enormi crateri di terra rossa intorno ai quali – ripeto intorno ai quali e no lateralmente – si dovevano fare continue peripezie acrobatiche per andare avanti. Fu il mio battesimo della soia su quell’unica strada stratale che passa vicino a una città – Rondonia – dedicata all’esploratore che per primo tentò di difendere e di creare riserve per i diversi gruppi indigeni, Rondon stesso di madre bororo. Tale mare verde vuole tracimare in quello che resta di queste riserve e ha gli strumenti per avere successo: in primo luogo offrendo briciole di denaro ad alcuni cacique per ottenere il permesso di entrare nei loro territori extra-­‐legem per i fazendeiros. Questi hanno un potere diffuso, controllando tutta la produzione e i governi locali, senza che la polizia federale possa intervenire con una continuità che offra un minimo di garanzia politica. Essi si chiamano, secondo una tradizione antica, anche coroneis e hanno una forza militare privata -­‐ criminale/marginale -­‐ come per l’assassino di Chico Mendes. Allora si potrebbe affermare che quell’oggetto prezioso nascosto dal Grande Albero dei Na’vi abbia in Mato Grosso il colore verde della soia pronta per la zafra e in attesa di penetrare con le buone o con le cattive nelle contigue terre Xavantes e Bororo. Terre che, come ripete costantemente una stampa compiacente o corrotta, sarebbero estese eccessivamente per la scarsa popolazione che le abita; mentre i “contadini” – cioè i fazendeiros – lavorano duro per arricchire il paese in una terra detta insufficiente. Xavante e Bororo sono tra loro profondamente diversi. La storia delle loro culture è lunga e non la rifaccio qui; gli Xavantes furono costretti ad abbandonare i loro territori, cioè a essere deportati per una questione giudiziaria legata alla terra da loro abitata che ha coinvolto anche la nostra ENI. Costretti a vivere in prossimità dei loro ospiti Bororo (già noti alla letteratura antropologica per i celebri capitoli cui Lévi-­‐Strauss ha dedicato loro sui “tristi tropici”), gli Xavantes si sono da sempre caratterizzati come un popolo guerriero forte – bravo come si dice in Brasile – che ha dato filo da torcere all’esercito brasiliano e che non si ferma dinanzi ai soprusi di qualsiasi tipo ancora oggi. Da un paio di decenni il loro tasso demografico cresce e quando si uniscono per i loro rituali o per reagire a una ingiustizia possono arrivare in migliaia dalle varie aldeias, alti e muscolosi, ben nutriti e addestrati agli esercizi fisici e allo sport, armati non solo di archi, frecce e bonduras, con strategie di attacco e difesa impressionanti. Non è casuale che l’aereo di caccia brasiliano si chiami appunto Xavante… Il loro rituale più noto, cui ho potuto partecipare su invito di un cacique, si chiama foração das orelhas: per i mesi del rituale si vive in una sospensione delle attività normali, in preparazione di forare il lobo auricolare delle nuove generazioni che stanno per diventare guerrieri e mutare di nome nel loro bel rito di passaggio. Dopo il foro, praticato da un guerriero anziano appartenente a un clan diverso da quello del giovane, si infila un palito, cioè un orecchino di legno di circa tre cm di lunghezza e largo 3-­‐4 mm. In tal modo, solo dopo che è stato forato, il neo guerriero può forare una donna e quindi sposarsi, per cui diventa chiaro perché il palito ha il nome dell’organo genitale maschile. I Bororo, loro ospiti involontari, sono diventati spesso vittime degli Xavantes. Da qui una reciproca diffidenza difficile a superarsi. Per fortuna in questi ultimi anni la situazione sta mutando anche per loro: il tasso di natalità cresce, meno significativamente degli Xavantes ma cresce, l’assistenza sanitaria è ancora precaria ma non assente, il sistema nutritivo migliora e anche l’educazione. Non sono pochi quelli che studiano antropologia o come Kleber – ora mio caro amico – che è laureato in biologia. E da questo humus culturale sta nascendo la volontà di ristabilire la loro aldeia tradizionale utilizzando il digitale come mezzo di ricerca e documentazione. Il loro rituale per eccellenza è il funerale e ho potuto assistere anche a questo complesso rito sempre su invito di Kleber e di alcuni altri bororo. Posso dire che entrambi i rituali -­‐ foração das orelhas xavante e funeral bororo – sono state le esperienze culturali più straordinare cui ho potuto partecipare nelle mie ricerche etnografiche. Un trasbordare di emozioni e visioni, canti e danze, calore diurno e freddo notturno, pao de cachorro che ti penetra nei piedi e borrachudas che ti mordono in ogni frammento di pelle visibile, digiuni e sete -­‐ esperienza, quest’ultima, la più estrema. Entrambi i rituali sono sopravvissuti all’ingerenza salesiana che, in nome di una difesa contro i fazendeiros e politici senza scrupoli, hanno iniziato e stanno continuando la più colonialista delle missioni: evangelizzare l’altro, sottraendo la forza delicata delle loro culture attraverso strumenti sottili che vanno dalla nozione di peccato e colpa, alle offerte di medicinali e assistenza alimentare o giuridica. Abbiamo quindi una prima variazione alla proposta Avatar, cioè l’espansione crescente di missionari cattolici e ancor più protestanti (che sono recenti, più aggressivi e fondamentalisti) riesce a creare una rete persuasiva di complicità, ricatti, benefici materiali attraverso cui guidare e correggere le loro anime. Classico esempio di una religiosità tutta materialista applicata a persone da convertire rispetto a una filosofia di vita altra che, per motivi www.etnografiadigitale.it 3 inspiegabili, diventa inaccettabile per i cristiani e fonte di una missione vitale: convertire -­‐ termine pessimo quanto esemplare di una procedura di dominio continuo. I missionari si convincono di stare nel giusto, con il loro dio, e questo li legittima a procedere verso una deculturazione sistematica e quotidiana. James Cameron vive in California dove ci sono tra i migliori antropologi attuali e celebri biblioteche: parlare con Renato Rosaldo o George Marcus non dovrebbe essere un suo problema. E nemmeno dare un’occhiata ai tanti testi da Marvin Harris, Dennis Tedlock a Clifford Geertz che sono citati da ogni studente di primo anno. Niente. Il suo scopo non è quello di dare un minimo di informazioni e conoscenze sulle culture “native”. Tanto meno di far crescere la consapevolezza tra i vari pubblici filmici che le cose sono un po’ più complesse da come si continua a far credere nella tradizione cinematografica di Hollywood. Per essere brutale: l’unica antropologia che Cameron conosce e “rielabora” è quella di Tarzan, rivestita dal peggio romanticismo pseudo-­‐russoviano stile National Geographic o Geo&Geo (1). Il modello è semplice e funzionale: il film applica un modulo sado-­‐masochista allo spettatore globalizzato (sì, caro A.A., ancora quello affrontato da Adorno nell’industria culturale “illuminista”). Lo si colpevolizza masochisticamente di aver distrutto la “natura” e gli “indiani”; e lo si fa identificare sadicamente con l’eroe vendicatore e assassino legittimo. Cameron, involontario fan della “Dialettica dell’Illuminismo” , continua nell’immutabile cuore di tenebra secondo cui l’Occidente è il Male (nel caso specifico un esercito troppo simile a un videogame per essere davvero identificato con quello degli Usa) e il Bene risiede nelle radici naturalistiche e naif dei selvaggi che avrebbero mantenuto un sacrale rapporto con la natura e la vita, una natura-­‐donna selvaggia, certo, piena di animalacci e precipizi quanto divertente ed eccitante. Viceversa nelle scuole Xavantes,la cui forma già da sola vale una ricerca, essendo una rielaborazione sincretica tra lo stile conico tradizionale con in cima rami e foglie per far passare l’aria su una base circolare di cemento più solida e igienica. E dentro ci sono tanti banchi quanti sono gli studenti e su ognuno c’è il computer acceso, su cui specie le ragazze elaborano i loro compiti e ricerche. Sottolineo specie le ragazze, in quanto tra gli Xavantes il preconcetto diciamo “machista” è molto forte, cui accenno solo in quanto meriterebbe una articolata riflessione. Comunque il risultato è che le ragazze sono più brave dei maschietti al pc e questo intacca l’orgoglio del cyber-­‐guerriero. E i professori, dall’aria ironica e arguta che mi ricordano l’amico e filosofo Decio, danno lezioni di lingua e letteratura portoghese-­‐brasiliana e xavante. Sulla lavagna, una frase di Gramsci… Divino Tserewaru è il giovane xavante che, quando arrivai nel ’98 nella sua aldeia con videocamera analogica, macchina fotografica, tacquino, mi si presentò davanti con la sua telecamera digitale filmandomi. Il senso di un mondo che mutava radicalmente mi apparve chiarissimo in quel momento e mai lo scorderò: il mio potere, cioè il potere dell’antropologo o del giornalista, del turista o del missionario, era messo in discussione dalla semplice presenza del video nelle sue mani “divine” che intaccavano il mio ruolo. E il mio sapere … Non ero più “io” a poter rappresentare l’altro, selvaggio, nativo o Na’vi. L’altro aveva imparato a rappresentarsi da solo e anzi mi rappresentava. Ora nella casa di Divino vi è una modernissima centralina di montaggio e di editing: cioè lui non solo filma, ma costruisce narrativamente i suoi video con una sapienza soggettiva per i vari climax. E alcuni di questi video sono stati girati in aldeias diverse da quelle xavantes, uno dei quali a Mariposa do Sol tra i Macuxi, laddove Divino ha realizzato uno dei più bei documentari antropologici e militanti che abbia mai visto. Purtroppo James Cameron non lo conosce come la maggioranza schiacciante-­‐schiacciata del pubblico tv-­‐filmico. Il maestro di Divino si chiama Vincent Carelli, fondatore di Videos nas Aldeias, i cui film dovrebbero essere amati, studiati e citati da chiunque vorrebbe fare i film su tale argomento. Tra cui Bechis e i suoi “uomini rossi”… Documentare la propria cultura attraverso il digitale è la sfida di oggi che coinvolge e avvolge sia le culture “indigene” e sia le varie culture metropolitane nella diversità dei propri spazi-­‐tempi e modi-­‐stili. Le tecnologie analogiche, infatti, erano costose, pesanti, care, difficili da usare e impossibili da aggiustare; con il digitale uno xavante può avvisare in tempo reale di un sopruso e favorire una immediata mobilitazione; può registrare un evento e inviarlo nelle altre aldeias o in ogni parte del mondo; può facilmente editarlo e persino venderlo. Filmare un evento indigeno è possibile solo se si accetta e favorisce che anche gli stessi soggetti – da oggetti passivi naturalistici, senza nome o età, indifeso panorama etnico – siano riconosciuti come tali nella tensione politica, dialogica e sincretica che transita dalla conoscenza iniziale alla composizione finale del testo. È questa una prospettiva che può favorire la diffusione decentrata delle transculture e non le vittorie monologiche nel botteghino. b-­‐ Avatar, Bateson e l’arte Tutto questo per introdurre il secondo punto della mia riflessione esperienziale, quella per certi versi ancora più soggettiva e direi amara, che inizialmente mi ha causato un ambiguo senso tra la rivincita e il disastro appena il film fu annunciato: come se avessi una sorta di copyright sull’avatar, cosa semplicemente priva di senso, o se meritassi un riconoscimento dopo tanti anni in cui quando pronunciavo il nome della rivista – Avatar, appunto – colleghi o amici o semplici conoscenti non la intendevano e la deformavano nel modi e toni più strambi. Ricordo il “mio” preside al consiglio di facoltà che annunciò l’uscita della rivista Aratara, Avaratata o qualcosa del genere. E adesso, dopo un solo giorno di proiezione e i molti spot, neanche il bambino del villaggio più sperduto lo pronuncia male e tutti sanno cosa sia un avatar. Però… però il problema, caro James Cameron, è che l’idea di avatar secondo la filosofia hindu e poi nella sua diversione digitale, l’idea profonda -­‐ mistica o comunicazionale -­‐ sta nel fatto della molteplicità di manifestazione del dio nelle varie entità empiriche ovvero nella pluralità identitaria del soggetto che pratica gli e-­‐space del web. La molteplicità soggettiva del’avatar cerca di oltrepassare potenzialmente il dualismo, anzi quella logica binaria da cui persino i software si stanno disvincolando, in quanto è proprio la prospettiva avatarica che esprime una sorta di utopia concreta, materialimmateriale, che potrebbe favorire la ricerca dell’oltre piuttosto che del contro. E invece Avatar-­‐film è la massima estensione del dualismo bene-­‐male, una applicazione senza scrupoli e ormai fin troppo facile nel rappresentare il peggio come ridicolo-­‐mostruoso; e di converso il meglio come puro, bello, onesto e soprattutto che ha un rapporto sacro con la natura. E qui viene da ritornare alla ironicamara citazione iniziale di Jimmie Durham, grande artista cherokee che, nel prendere in giro i “bianchi” alla ricerca dell’”indiano” ecologico o originario, sembra rivolgersi a persone proprio come Cameron, persone che con un mix difficile da dipanare tra ingenuità e cinismo continuano a propinare questo dicotomico razzismo alla rovescia. È dai tempi di Soldato Blu che questo rovesciamento dei buoni in cattivi e viceversa non dovrebbe funzionare più, proprio in quanto riproduce industrialmente l’imperterrita opposizione dicotomica. E allora come in una elegia dove si mescola Tarzan e Heidegger, Rousseau e Gunga Din la commozione dilaga nel brivido del buon selvaggio… anzi no… mi correggo maliziosamente: della selvaggia dal sex-­‐appeal transorganico e postuman che insegna a vivere e ad amare a un “eroe” che esclude a priori, cioè dopo il primo fotogramma, ogni possibile identificazione. Ma evidentemente non deve essere così in platea. Si rifletta sulla “dialettica” dell’identificazione: all’estrema banalità fisiognomica dell’eroe realista, corrisponde una simmetrica eccezionalità dell’eroe avatarico. Mi domando se lo spettatore riesce a scivolare schizoidamente tra le due identità: domanda inutile perché il botteghino ha già risposto. Di www.etnografiadigitale.it 5 conseguenza, lo spettatore si sente paralitico come l’eroe soldato, seduto nelle varie platee in sedie senza rotelle, si assimila all’infelice che non sa più correre, troppo abituato ai ritmi urbani dove al massimo si corre fermi nei tapis-­‐roulant recapitati direttamente a casa mentre si osserva una parete grigia o la tv illuminata. E improvvisamente riscopre l’ebbrezza della corsa libera e senza direzione che il suo avatar accende. Una volta chiarito nella parte etnografica la sfida conflittuale di Xavantes e Bororo con il digitale, il mio malessere gira sul perchè il cinema di James Cameron – cioè l’unico che regna globalmente, quello hollywoodiano – sembra non riuscire mai a incontrare Jimmie Durham, ovvero un cherokee militante di Wounded Knee che, in seguito allo sconforto derivato dalla difficoltà di liberazione della propria gente, decide di dedicarsi all’arte contemporanea. Supremo scandalo per una persona che critica ogni stereotipo incrostato sull’ “indiano”, a partire dalla tassonomia utilizzata per individuarlo e classificarlo. “”Noi indiani””, dice, e mette le doppie virgolette ironizzando sulla persistenza di questo termine che riproduce un fraintendimento coloniale continuo nei secoli: e che sembra impedire l’uso di Cherokee che, come è noto, ormai sembra individuare solo un ottimo fuoristrada. Un brand ecologico e selvaggio. L’arte contemporanea espressa da soggettività irregolari come quella di Durham non rimane immobile, fuori dal tempo e dallo spazio, nel ruolo esotizzato predisposto all’interno di riserve stile theme-­‐park; e qui essere fotografati a prezzi correnti dai turisti che transitano indifferentemente tra Hare Krishna e Ghost Dance, alla ricerca del popolo-­‐di-­‐natura, volkish, ingenuo e istintivo. Purtroppo le opere visuali o scritte di Durham non riescono ad essere percepite o neanche immaginate da Cameron e dalla sua Grande Narrazione che almeno con Avatar dovrebbe essere chiaro che non solo non è morta, ma che è vivissima e che ha solo transitato di genere. Filosofia e antropologia sono unificate da Cameron. Avatar è una parodia de L’ecologia della mente di Bateson: una trama che connette alberi di sequoia, anemoni di mare, videogame, pandore preistoriche alla sacralità della natura e agli spettatori occhiuti. Suggestioni batesoniane senza Gregory. Il divario non è certo tra le “due culture” – quelle tecno-­‐scientifiche e quelle umanistiche: questo cinema ha chiaramente unificato tecnologia e cultura, scienza e storia. Forse il conflitto (per me semplificativo) è tra i flussi di arti digitali, la web-­‐comunicazione soggettivizzata, i nuovi media di cui il cinema 3D è l’attuale campione. È bizzarra questa situazione in cui tanta arte ha accettato da tempo, ben prima di Fluxus, la sfida di relazionare corpo e tecnologia, per cui alcuni degli artisti contemporanei più sensibili hanno espresso e continuano a esprimere alcune delle emozioni più innovative incorporando arte e digitale (cfr “Documenta” con Posthuman che ormai è storia dell’arte); mentre “il” cinema -­‐ che entra nelle forme più emotive e inusitate offerte da queste stesse tecnologie – continua a rinserrare le culture “etniche” nel recinto della stessa oppressiva banalità. Ho adorato le immagini di Avatar che inventano fantasmagorie del XXI secolo e penetrano indubbiamente nel sublime della meraviglia. Sono invenzioni continue che dilatano la pupilla oltre le regole normali della percezione orbitale. Ogni movimento di camera sui primi piani degli occhi di lei-­‐avatar fanno scorrere mondi sognanti alla Grandville, si aprono nei multiversi di piante-­‐meduse galleggianti: un suo primo piano include ogni altro sguardo, i miei sensi sprofondano e si innalzano per ogni sorpresa applicata da questo sound-­‐design alterato dal quale non si potrà tornare indietro. E invece si assiste ancora e sempre ai mostri preistorici e ai goldrake-­‐usa… Questo allora il problema. Se oggi la forbice non è più tra le “due culture”, significa che le due lame si divaricano all’interno della stessa cultura umanistica: due lame che da tempo usano il tecno-­‐digitale (nell’arte o nel cinema) e che, invece di essere interconnesse, sembrano allontanarsi tra loro sideralmente. Questa forbice si lacera sempre più e diventa quasi comica quando Cameron inquadra i Na’vi uniti per le mani adorando l’albero-­‐totem primigenio e danzando uga uga! Neanche nelle pubblicità razzializzate dei ’50 si era vista una cosa simile. La scena è la stessa da sempre: e si deve dire che è i-­‐n-­‐s-­‐o-­‐p-­‐p-­‐o-­‐r-­‐t-­‐a-­‐b-­‐i-­‐l-­‐e. Qui Alberto Abruzzese ha ragione ripetendo che il paradigma è ancora e sempre King Kong. Immortale e indistruttibile, il selvaggio rimane tale anche quando – anzi soprattutto quando -­‐ commuove per la sua religiosità naif verso una natura-­‐videogioco e per il senso di comunità che sa esprimere. Volksgemeinschaft forever… Il cavaliere della valle solitaria è tornato, anzi, Shane non è mai partito perché non ci abbandonerà mai. Non certo Gregory Bateson è ispiratore del film, come qualcuno ingenuamente ha affermato, ma la peggiore tradizione sociologica-­‐filosofica da Toennies a Heidegger che continua a invocare la comunità di sangue e di pixel per uscire dalle anomie attuali. Dovrebbe essere chiaro che è proprio tale ossessiva affermazione delle radici il nodo nodoso, ideologia ossuta tra le ideologie, razzismo rovesciato e dritto nello stesso tempo che blocca l’affermazione compositiva di narrazioni – né grandi né piccole – semplicemente altre e forse alla ricerca dell’oltre. Non è vero che la tecnologia è diventata l’unico contenuto che muta lasciando e rinserrando la storia nel sempre uguale. Se fosse vera questa ipotesi, riguarderebbe ogni forma espressiva della cultura mentre si è visto che per le arti visuali non è così. E anche per lo stesso cinema: si pensi alle oscurità segrete che Haneke riesce a rivelare o alle dissoluzioni del pattern-­‐hollywood che un Lynch continua a risvegliare. Ma questi sono esempi, come accennavo all’inizio, che coinvolgono un altro cinema, un cinema diverso da questo mainstream. La sfida di Avatar è questa radicale ambiguità, più estrema di tante altre operazioni, per cui può essere giusto parlare di un prima e dopo Cameron-­‐Avatar: ma solo da un punto di vista delle visioni di una realtà aumentata, direi di una realtà illimitata quale il suo cinema riesce a masticare. Per il resto, pare un film-­‐saggio finalizzato a confermare le stanche tesi di laurea che continuano ad applicare la morfologia di Propp sull’eroe dalla fiaba al cinema; o l’eccitante attrazione che ancora continua a esercitare Schmidt sul politico basato sulla dicotomia amico-­‐nemico applicato alle masse digitali. c – Pixel dust Non posso immaginare cosa penseranno Bororo o Xavante nel Mato Grosso vedendo il film. Forse come altri spettatori disperati (quei palestinesi che si sono dipinti di blu) si identificheranno con i Na’vi o li useranno per i loro diritti. Forse i Bororo vedranno nel Grande Albero il loro villaggio tradizionale di forma circolare, con al centro il baito, la casa degli uomini, al cui centro del centro vi è un grande palo che è simbolicamente connesso con l’intero cosmo; questo modello circolare, come accennavo, è stato in molti casi distrutto dalla carità cristiana dei salesiani e trasformato in case di cemento a forma di 7 che accumulano un calore intensivo che le capanne filtravano e disperdevano. Mai dimenticherò la prima volta che arrivai in una aldeia xavante di notte, dopo una corsa folle sulle strade sterrate con il loro pick-­‐up, aggrappato da qualche parte per evitare i rami che si richiudevano per abbattersi su noi in piedi: la notte era quasi di luna nuova e,una volta arrivato, solo dopo un po’ di tempo la mia vista percepì che stavo al centro del villaggio e che intorno vi erano gli anziani con le loro mogli e soprattutto Domingos Mahoro’e’o, il cacique mio amico con cui mi ero incontrato già diverse volte in contesti molto diversi. Lui mi abbracciò e poi iniziò un lungo discorso in xavante di cui non capivo nulla se non il senso che potevo immaginare. E poi su sua richiesta ho dovuto rivolgere a mia volta un discorso agli uomini e alle donne a me intorno con un mio portoghese che si emozionava più di quanto avrei immaginato. E poi ci stringemmo tutti le mani formando un circolo con le braccia oblique verso il suolo, le gambe divaricate, il canto ritmico e forte che www.etnografiadigitale.it 7 cercai subito di seguire, mentre le gambe si rinserravano e riaprivano ritmicamente sollevando polvere e i piedi, nello strusciare al suolo, producevano un ritmo di accompagnamento. Né mai dimenticherò l’incontro con José Carlos, mestre dei canti bororo, che mi accolse nella sua capanna durante il funerale della moglie morta e tracciò con un bastone una linea di polvere tra lui e me dicendo con forza che lui stava e sarebbe rimasto da questa parte in quanto bororo e che io stavo e sarei rimasto da quell’altra in quanto romano. Come dire che lo scambio culturale e persino emotivo tra noi era quasi impossibile per l’eccesso di differenza e forse di potere. L’essere riuscito a vincere almeno parzialmente questa sua dura diffidenza rimane uno degli eventi di cui posso sentirmi pieno: per cui alla fine dei nostri incontri la polvere sollevata da quel bastone ricadde sia dalla sua che dalla mia parte. E che questo rappresentò per me un vero rito di iniziazione alla fine del quale qualcosa di mescolò e impolverò da entrambi i lati dei nostri corpi. L’ultimo ricordo che voglio tracciare, prima delle conclusioni finali o parziali, è adatto al nostro tema cinema/etnicità: era l’11 ottobre 1992 e mi trovavo in una piccola scuola Guaranì nel versante argentino insieme a Domingos Mahoro’e’o. Una scuola gestita da una maestra argentina che per me era ed è una eroina, insegnando spagnolo e guarani a dei bambini dalla condizione sanitaria e alimentare disastrosa, bambini di 2-­‐3 anni con ulcere nel viso o nel corpo ripiene di mosche, chiazze di mosche che si agitavano per succhiare il loro sangue, un sangue già esangue per il poco che potevano mangiare. E che mangiare: quando arrivava la camionetta da una caserma non lontana, volenterosi soldati scaricavano un pentolone con i resti della loro mensa tutti mescolati e maleodoranti, residui di grasso o pezzi di osso attaccati a una mappazza di riso su cui di nuovo le mosche si avventavano. Fu lì che vedemmo di sera, in un piccolo televisore, un film a mio avviso molto discutibile -­‐ Mission di Ronald Jaffe -­‐ che per una sorpresa della storia fu filmato proprio a pochi chilometri da dove stavamo, a Iguaçu, una delle cascate più impressionanti al mondo. Alla fine Domingos Mahoro’e’o si alzò e disse: “Questa è storia”. Poco dopo la maestra ricordò che il giorno dopo si sarebbe festeggiato il cinquecentenario della cosiddetta “scoperta” dell’America, per cui in quella sera noi stavamo ricordando l’ultimo giorno libero di quelle genti che si sarebbero chiamati indios in omaggio agli errori di Colombo (2). Questi tre esempi – la forza simbolica dell’aldeia circolare, la linea di polvere che separa e forse mescola, la conquista coloniale che sembra non finire mai – insieme agli altri già presentati sull’uso potenzialmente liberatorio del digitale per le culture “indigene”, mi causano un ambiguo girare intorno Avatar. Un senso per me inusuale di rimprovero, delusione e quasi rancore per quello che potrebbe essere il cinema che amo si mescola con una fascinazione per gli inediti panorami visionari e per un sublime tipo di bellezza possibile. Insomma Avatar solleva una polvere di pixel che si innalza con una forza visuale accecante, la cui ricaduta è lenta, lentissima, sembra rimanere sospesa nell’aria incerta su quale versante del suolo immateriale posarsi o continuare a fluttuare come un pulviscolo numinoso che il giorno dopo si dissolverà nell’oblio. Note 1.Un bell’articolo di Raffaele Oriani sul Corriere della Sera del 5/3/2010 informa sul rapporto tra antropologi Usa e una antropologa, Montgomery McFate, che chiarisce tutte le mie critiche al film: secondo una tradizione iniziata negli anni 60, l’esercito degli Usa arruolava antropologi/e per conoscere le culture locali dove si affermavano movimenti di liberazione. E all’epoca gli antropologi si rifiutarono di dare informazioni all’esercito per capire meglio e quindi poter controllare militarmente quelle popolazioni che cercavano di affermare il loro diritto alla libertà (. “Se li vuoi vincere, li devi conoscere”…). Ora questa antropologa embedded ha ripreso questo ruolo in Iraq e Afganistan e, guarda caso, è l’unica che Cameron abbia consultato per immaginare il suo film. “Montgomery McFate è convinta che il suo drappello
di antropologi embedded abbia il merito storico di aver fatto diminuire il numero dei civili uccisi per errore”. Già: solo che lei non si chiede il perché dell’invasione dell’Iraq da parte dei Bush. Invasione accettata come un fatto positivo e positivista. Il suo progetto Cultural Preparation of the Environment ha un nome ancora valido, per me: neocolonialismo. Per fortuna gli antropologi statunitensi hanno respinto queste procedure usando lo stesso mio concetto. 2.Sulla questione della crisi delle tassonomie in relazione alle culture etniche, rinvio a questa purtroppo lunga citazione tratta dalla mia introduzione al n. 3 di Avatar su “arte ed etnicità”: “L’altro di è de-­‐nativizzato. Ha sottratto la classificazione di ”nativo” come esclusiva della sua identità. Quello che è stato il paradigma dell’antropologia – cogliere il punto di vista nativo – ora sta ridefinendosi in modo ben diverso: cogliere il punto di vista dell’auto-­‐rappresentazione. E in questo prefisso – “auto” -­‐ vi è un soggetto che non è più inscrivibile dentro una cultura di appartenenza compatta e immobile. Con auto-­‐rappresentazione non si deve intendere che la cultura Cherokee o Bororo è rappresentabile solo da un soggetto locale: anche questo è un sistema logico unificato che è inscritto in un potere occidentale obsoleto, per quanto ancora vivo di dominio. Qui si moltiplicano soggettività “native” che dissolvono il concetto stesso di nativo. Se prima le etichette per l’altro erano selvaggio, primitivo, senza-­‐scrittura, ora l’uso del termine ben educato di nativo rimane ambiguo. Nella parola si afferma una vicinanza con l’essere nato, nato-­‐lì, cioè precedente, originario e quindi più autentico perché più-­‐nato. Eppure tutti noi siamo nati in qualche “lì” e questo non dovrebbe dare nessun diritto di precedenza o purezza… Solo l’ “indiano” è nativo (na’vi), campione di natura-­‐amore-­‐animali, un po’ shamano, iper-­‐sex e pre-­‐tech, alquanto alterato da fumi ritualizzati. A tale immagine di nativo, qualche presunto “nativo” non ci sta più. Avatar dichiara decaduto l’uso antropologico del termine “nativo” per indicare popolazioni prima definite selvagge o primitive. Avatar sollecita l’uso dei termini che loro stessi adottano: Cherokee, Xavante, Bororo, Textal. Avatar si impegna a non favorire la riproduzione di tassonomie che riproducono non solo linguisticamente il dominio coloniale. Avatar si schiera sulla svolta basata nell’auto-­‐rappresentazione” (Canevacci, 2002, p 3) Bibliografia Canevacci, M., Forward in Avatar n. 3, Roma, Meltemi, 2002 Durham, J, Cowboys and …, in Avatar n. 3, Roma, Meltemi, 2002 www.etnografiadigitale.it 9