I padroni di Bari - Biondani - L`espresso

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I padroni di Bari - Biondani - L`espresso
I padroni di Bari - Biondani - L’espresso - 10-12-09
Una mafia finora invisibile alleata con imprenditori, professionisti e politici. grazie a omicidi,
cocaina, soldi e voti ha messo le mani sulla città. Che ora si scopre capitale degli scandali
Galeotto fu l'euro. Tra il 2001 e il 2002 i boss della mafia pugliese avevano un bel problema: sei miliardi
di lire da cambiare. Soldi sporchi di droga e contrabbando, usura ed estorsioni, traffici d'armi e
scommesse, che nessun direttore di banca, per quanto connivente, poteva accettare così, tutti in
contanti. È allora che il clan di Savino Parisi, il capo dei capi della mafia di Bari, comincia a cercare un
insospettabile. Un imprenditore rampante, ben agganciato con la Bari-bene degli affari, della politica e
delle professioni. Un colletto bianco disposto a riciclare in euro quel tesoro.
Nel 2001, cioè pochissimi mesi prima, l'organizzazione di "Savinuccio" è stata decimata dai primi 76
arresti tra Puglia e Montenegro, eppure decine di commercianti, costruttori e professionisti della provincia
continuano a gestire i patrimoni nascosti del clan. Il boss però vuole un volto «pulito», un nome
emergente ma «serio». E una mafia tanto ricca non fatica a trovare un nuovo complice tra i "vip" della
città. Quindi "Chelangelo" Stramaglia, il braccio destro del boss, esegue l'ordine: mette i sei miliardi in un
borsone e li porta nella bella casa di un imprenditore quarantenne, Michele Labellarte, che con affari
spericolati sta conquistandosi ricchezza e appoggi. Da quel giorno Labellarte, fino alla sua morte
improvvisa pochi mesi fa, diventa il più fidato cassiere del clan: investe e diversifica quei primi tre milioni,
versa alle famiglie 20 mila euro al mese, trova altri fondi neri per i traffici di cocaina, paga le parcelle agli
avvocati di ogni partito. «È uno di noi», «è quello che ci dà da mangiare », dicono gli affiliati, intercettati
in massa nella nuova indagine che ha solo iniziato a scoperchiare le complicità segrete di questa nuova
"mafia pulita".
Tra i 129 indagati, per ora, si contano sei direttori di banca, un notaio, decine di imprenditoriprestanome e tre politici: due avvocati che dettano la linea al Pd pugliese, Gianni Di Cagno e Onofrio
Sisto, vicinissimi a D'Alema. E una parlamentare del Pdl, Elvira Savino, amica di Berlusconi quasi quanto
la sua ex convivente a Roma, Sabina Beganovic, l'ape regina dei festini sexy di Papi Silvio & Giampi
Tarantini. Politici e avvocati non sono accusati di complicità con la mafia, come rimarcano i loro difensori,
per «assoluta mancanza di dolo ».
Traduzione in italiano: è vero che Labellarte ha gestito per anni i soldi del clan, ma i suoi amici importanti
pensavano di favorire solo il suo onesto lavoro di bancarottiere, in teoria «interdetto da qualsiasi attività
d'impresa fino al 2015». Di fatto l'inchiesta è come un ascensore in continuo movimento dai sotterranei
del crimine ai tetti più alti del potere. Da una telefonata a un incontro, da un prestanome a un nuovo
affare, un unico filo finisce per collegare i killer agli avvocati, i boss ai colletti bianchi, i soldi sporchi alla
politica.
Come in un domino impazzito, le mosse dei mafiosi provocano ripercussioni che arrivano fino alle stanze
del governo, con il ministro Mariastella Gelmini che si trova a raccomandare un maxi-campus
segnalato dall'onorevole amica del riciclatore. O dell'opposizione, con il senatore Nicola Latorre
citato da Labellarte come possibile terminale di uno scambio tra «voti» e «accordini ». Non certo
indagabili, Gelmini e Latorre, ma avvicinabili sì, almeno per i boss. Benvenuti a Bari, Italia. Per chiudere
la "fase uno" della caccia ai patrimoni mafiosi (già sequestrati immobili e valori per oltre 220 milioni di
euro, con 35 società e 680 conti bancari), Procura e Guardia di Finanza hanno setacciato l'intero territorio
criminale. Guerre tra clan rivali, omicidi, sparatorie che feriscono i passanti. Commando che sequestrano i
camionisti per rapinare i Tir e rivendere la merce a negozianti complici. Decine di chili di cocaina riforniti
da ex paramilitari serbomontenegrini. Estorsioni in almeno dieci comuni. E pestaggi nelle discoteche della
città, non denunciati per paura.
A portare ai colletti bianchi è una storia di usura. Un imprenditore intercettato mentre confessa alla
moglie, disperato, che nel '93 fece «l'errore di farsi prestare 150 milioni di lire» e che per tutti i successivi
14 anni ha dovuto versare al clan Parisi «già sei volte tanto»: 483 mila euro. E qui spunta il primo dei
tanti insospettabili: Vito Valenzano, commerciante di auto e barche, fedina penale immacolata. I venti
"cacciatori" del Gico, guidati dal capitano Gabriele Sebaste, riempiono di microspie il suo autosalone, la
Nauticar di via Pavoncelli. E scoprono così il primo covo della mafia spa. Dove boss e colletti bianchi
cementano gli affari più moderni con arcaici rituali di affiliazione, con santini, limoni, baci dell'anello e
giuramenti sul cianuro. E un bel giorno i finanzieri sentono il vice-boss Stramaglia che protesta per «i
famosi tre milioni di euri che Michele ci deve restituire... con 'sto affare universitario».
È l'incredibile storia di connivenze trasversali che, dopo gli 83 arresti del primo dicembre, continua a
tenere sotto choc la Bari-bene. Che dopo il caso Tarantini e l'affaire della sanità, dopo tante escort e
troppe corruzioni, affollava la prima della "Turandot", al rinato Petruzzelli, difendendosi da battute al
vetriolo, da overdose di scandali: «Se in Campania c'è Gomorra, noi che siamo, la nuova Sodoma? ». Di
fronte al teatro c'è un dirigente del Pd di Bari che arriva a chiedere l'anonimato, manco fossimo a
Corleone, per potersi lamentare che «Vendola ha fatto errori ma è pulito», mentre «i nostri dalemiani e
l'Udc lo contestano per le sue scelte migliori: il no alla privatizzazione dell'acquedotto pugliese, lo stop
agli appalti esterni che impoveriscono la sanità pubblica per arricchire Cl e le coop rosse».
È in questo clima che la città scopre chi era davvero il compianto Michele Labellarte, il playboy conteso
dalle ragazze più belle, l'imprenditore amico dei politici nazionali e socio degli avvocati più in vista.
Nonostante il crac che nel 2003 lo aveva portato in cella, accanto al boss Parisi, per la bancarotta e le
frodi fiscali della sua New Memotech. Ben difeso dagli avvocati democratici Sisto e Di Cagno, il bel
Michele ha potuto patteggiare una condanna con tutte le attenuanti e risarcire circa un decimo dei danni:
mezzo milione di euro che lui stesso ha portato in tribunale. In contanti. Dettaglio importante: da quel
fallimento, tra l'altro, erano spariti 1,3 milioni, bonificati su un conto di Los Angeles intestato a un certo
Sergio Martino, «amministratore » della Retex di San Marino.
«L'affare universitario » che unisce le due facce di Bari è un maxi- campus da 3.500 posti letto nel
comune di Valenzano, pubblicizzato come «il più grande d'Italia ». Le intercettazioni rivelano che i boss
hanno finanziato e appoggiato ogni fase del progetto, per farsi restituire «i famosi tre milioni» che
Labellarte aveva ricevuto in lire. I terreni del futuro campus sono intestati alla Uniedil: come
amministratore figura l'ingegner Sergio Martino, il sanmarinese di Bari, ora in carcere. Nel Comune dello
scandalo l'opposizione fiuta le infiltrazioni, ma il vicesindaco di Forza Italia, ora ai domiciliari per
corruzione, attacca: «A Valenzano la mafia non esiste, è solo un teorema della sinistra». A fare resistenza
è solo la giunta regionale di Nichi Vendola, che denuncia rischi idrogeologici. L'assessore berlusconiano
del Comune, anche lui ora agli arresti, risponde così: «Non esiste nessun torrente, è solo un rivolo, per
cui si può costruire fino al ciglio». Ma per chiudere «l'affare universitario» servono appoggi nei veri
palazzi del potere.
A coprire Bari ci pensano i due avvocati del Pd, che dall'agosto 2006 rappresentano Uniedil «in tutti i
rapporti con progettisti, costruttori, partner imprenditoriali, banche, finanziatori e pubblica
amministrazione ». Sisto è il vicepresidente della Provincia per il Pd, suo fratello è parlamentare del Pdl. E
Di Cagno è intimo di D'Alema: a Bari tutti ricordano che restò ferito nell'incidente d'auto in cui morì la
prima fidanzata dell'ex premier di sinistra. I due avvocati concordano ogni mossa direttamente con
Labellarte, anche se difendono pure i suoi familiari, già allora indagati per il riciclaggio dei soldi della
bancarotta. Ai boss mafiosi, intanto, Labellarte spiega che i legali vanno considerati «non soci ma quasi».
Mentre il prestanome Martino si lamenta delle parcelle: «È tipico dell'avvocato: prima di parlare, devi
dargli i soldi... Ma se vogliono partecipare, le regole sono quelle dell'imprenditore». A Roma invece ci
arriva Elvira Savino, 32 anni, dal 2008 parlamentare del Pdl. Prima delle nozze viveva con Sabina
Beganovic Le due amiche, in cambio di regali (e, per Elvira, di 3.500 euro e altri «aiuti per la campagna
elettorale») hanno accettato di figurare come intestatarie di due conti bancari, all'Antonveneta di Palese
(l'aeroporto di Bari), in realtà gestiti da Labellarte. Dal 18 aprile 2005 al 28 febbraio 2008. I due conti
fanno parte di un sistema di sei depositi- paravento usati da Michele per ripulire 120 mila euro del clan
Parisi. Sei affidamenti da 20 mila euro l'uno «prelevati tutti per cassa in 14 minuti, con la complicità del
direttore di banca e di un'impiegata».
La Savino è la sola indagata perché, telefonando a Labellarte, si dimostra informatissima del suo crac. E
non fa una piega quando Michele le spiega di aver lasciato «l'appartamento di Malindi» a un'altra
prestanome: «Lei dice: ma non se lo compra nessuno... Madonna mia, ma che è? L'ha pagato lei?».
Sabina "Began", invece, «non sa neanche il numero del conto». L'amica parlamentare si rivela preziosa
soprattutto per ottenere le «manifestazioni d'interesse» di due ministeri, Istruzione e Sviluppo
Economico, necessarie a sbloccare il maxi-campus. Dopo 32 telefonate in 26 giorni della deputata barese,
è Mariastella Gelmini, il 24 giugno 2008, a scrivere al sindaco di Valenzano annunciando «il mio
apprezzamento» e «il mio più vivo compiacimento» per «il lodevole progetto».
Negli stessi mesi i mafiosi perdono la pazienza. Nel dicembre 2007 due scissionisti minacciano di morte
Labellarte, rivendicando la loro «cibanza»: una fetta dei soldi. Il riciclatore, terrorizzato, si nasconde per
una settimana in un residence di Bari. Il 24 dicembre finalmente lo richiama l'avvocato Di Cagno.
Labellarte gli dice testualmente: «Sono bracciato da questi, ve ne ho parlato anni fa... Si stanno
sparando, si stanno uccidendo... È una guerra tra di loro che purtroppo, avendo un rapporto di amicizia,
di conoscenza, per avergli fatto qualche favore a qualcheduno, che però consiste nel metterli a lavorare...
Ma non si può ragionare con questi cristiani... Io comunque mi sono nascosto, non esco di qua».
A Di Cagno interessa solo farsi prestare «l'appartamento di Montecatini ». Che non è di Michele: è
intestato ai prestanome e utilizzato dagli Stramaglia. Labellarte gliel'aveva già prestato, dicendo ai
mafiosi di «sparire, perchè deve venire l'avvocato con la scorta dei carabinieri ». Ma ora si rifiuta e
motiva a Di Cagno il perché: «Ti dico solo che tutti i mobili stanno verniciati d'oro, sembra proprio la casa
di uno di quelli... Perché quel bastardo ha dato le chiavi a uno di quei figli di p...». Nella stessa
telefonata, Labellarte spiega a Di Cagno perché, per sfuggire all'agguato, non può accettare la singolare
proposta dell'avvocato Sisto: «Perché non è possibile, come diceva Onofrio: "Andiamo da un altro più
potente"... Non esiste. Che facciamo, spostiamo la palla da una parte all'altra?».
Il 13 gennaio 2008 i due «ragazzi» scissionisti, che «hanno visto "il capo dei capi" e si sono montati la
testa», vengono puniti. Ad ammazzarli è un killer di Stramaglia, il padrone della casa di Montecatini.
L'affare universitario intanto va a gonfie vele. L'insospettabile della Nauticar e un politico riciclatore
dell'Udc di Valenzano gongolano: «Michele sta facendo un impero... Tra un po' arriva con l'elicottero». Nel
2009 il boss Parisi esce dal carcere, accolto dai fuochi d'artificio del suo "quadrilatero" di casermoni
grigiorossi, accanto allo stradone di periferia del quartiere Japigia. Negli anni '80 era un fortino della
droga: un inferno vietato ai cittadini perbene.
Ora Savinuccio, appena scarcerato, chiede al suo manager i soldi per un bel traffico di cocaina: 50 mila
euro che Labellarte gli procura all'istante, tra una telefonata e un aperitivo nei bar del corso con avvocati,
ingegneri e politici. Ma la scorsa primavera gli eventi precipitano. Il 23 aprile un affiliato uccide
Stramaglia. Mentre Labellarte scopre di avere un tumore. Parisi si preoccupa: «E se quello muore? I soldi
dove stanno?». Il 3 maggio 2009 il boss è costretto ad esporsi: deve chiedere personalmente il
rendiconto a Labellarte, ricoverato all'ospedale di Bari. Il Gico filma e registra l'intero colloquio. Parisi:
«La vita tua è la vita nostra... Noi per te vogliamo la vita lunga... Ma se succede qualcosa a te, noi dove
dobbiamo andare? Noi dobbiamo mettere i soldi in sicura, perché a livello di cognomi questi sono già
bruciati». Labellarte gli risponde di mandargli Valenzano, l'imprenditore incensurato, che troverà nuovi
«soci».
E i famosi tre milioni di euro iniziali? Labellarte: «Ho delegato un commercialista per tutta l'operazione...
Allora, questi tre, se me li danno in nero, dovrei darveli in un paio di mesi. Ma se me li danno regolari, li
devo tirare fuori in modo regolare tramite i miei soci...». Parisi s'illumina: «Ho capito: dobbiamo tenere le
carte tutte in regola... Noi possiamo aspettare».
Conclusione: a Valenzano bisogna «chiudere le cose» senza «persone soggette ad arresto». E poi
«regolarizzare» con il boss: «Questo è per me». L'intercettazione al capezzale chiude il cerchio sul
campus di mafia, mentre i finanzieri del colonnello Gianluigi D'Alfonso continuano a smascherare conti e
società. Quando il giudice accoglie le richieste della procura, scatta un piano militare: il clan paga
sentinelle ovunque, bisogna colpire di sorpresa. In città, la notte del primo dicembre, non si vede un solo
finanziere. Ma attorno a Bari ce ne sono più di mille. Alle 3.30 il generale Straziota ordina l'attacco. Due
elicotteri illuminano a giorno il quartiere Japigia e la splendida città vecchia. La mala-Bari è espugnata. E
ora tremano i quartieri alti